La guerra dei

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La guerra dei
La guerra dei fiori rossi
di Zhang Yuan
Presentazione critica
Introduzione al film
Il corpo indisciplinato
La guerra dei fiori rossi non è l’unico film di Zhang Yuan in cui si parla dei problemi legati
all’educazione, che siano attinenti all’età dell’infanzia o a quella adolescenziale. Già nel suo primo
lungometraggio intitolato Mama (id., 1990, primo film a produzione totalmente indipendente girato in
Cina) il regista cinese si è occupato del difficile rapporto tra una ragazza madre e il figlio portatore di
handicap. Bastardi a Pechino (Beijing bastards, Cina/Hong Kong, 1993) tratta invece della gioventù
underground della Pechino moderna, composta da ragazzi sbandati che passano il loro tempo a bere e a
trafficare in beni illegali. In Diciassette anni (Seventeen years, Italia, 1999) Zhang Yuan affronta invece la
storia di due sorelle che desiderano fuggire da casa, ma che trovano un destino completamente diverso:
una delle due muore per mano dell'altra in seguito a un litigio per dei soldi rubati ai genitori; finita in
carcere, la sorella colpevole ne uscirà ben diciassette anni dopo per ritrovarsi da sola in una Pechino
completamente cambiata.
Anche La guerra dei fiori rossi, pur con tutta la delicatezza e la purezza dell'infanzia, ci parla di
un'individualità ribelle, che non ne vuole sapere di piegarsi ai comandi di un'educazione rigida, quasi
inumana nei suoi meccanismi, che tende ad annientare il singolo a beneficio del gruppo, concepito come
un meccanismo che debba funzionare con la precisione di un orologio. A pensarci bene il sistema dei fiori
rossi non si discosta poi molto da quello usato abitualmente per addestrare i cani, ai quali si dà in premio
il biscotto ogni volta che eseguono correttamente un ordine – e allo stesso modo di un cane disobbediente
il protagonista finisce in punizione in una stanza buia, con la minaccia che se continua così non potrà
esserci nient'altro che il carcere nel suo futuro. Un sistema solo apparentemente meritocratico, quindi,
ma che mira ad un'omogeneità dei comportamenti che passa innanzitutto dalla disciplina del corpo, che
non può essere amministrato a proprio piacimento (sintomatico, da questo punto di vista, il fatto che ogni
sera maschi e femmine si facciano asciugare il sedere davanti a tutti, nonostante Beyan venga poi sgridata
per essersi fatta togliere di nascosto le mutandine dal suo amichetto).
Lo sguardo di Qiangqiang – sempre imbronciato e, al tempo stesso, stupito dinanzi ai regolamenti
inumani che si vuole egli rispetti – sembra lo stesso di una società sempre più affamata di libertà com'è
quella cinese, passata velocemente dalla rivoluzione culturale a un consumismo onnivoro e spietato.
Il film, tratto da un racconto autobiografico dello scrittore maudit Wang Shou, presenta inoltre più di
un tratto in comune con Zero in condotta (Zéro de conduite, Francia, 1933) di Jean Vigo, a cominciare
dalla scena finale dell'agguato alla direttrice, che ha lo stesso sapore di ammutinamento che si respira
nella scena della battaglia dei guanciali nel film francese. Allo stesso modo, certi comportamenti reiterati
di Qiangqiang – come il fare la pipì all'aperto o il salire sul finestrone della stanza comune, nonostante i
divieti della direttrice – hanno un valore simbolico molto simile a quello della bandiera piantata dai
collegiali di Jean Vigo sul tetto della loro scuola (anche se nel film di Zhang Yuan non vi è nessun esplicito
riferimento a una rivolta dal sapore anarchico), ma da un punto di vista stilistico e di atmosfere i due film
sono quasi uno l'opposto dell'altro: tanto surreale e onirico quello francese, quanto asciutto e realista
quello cinese, in cui il monocromatismo degli ambienti viene spezzato soltanto dall'apparizione dei
fiorellini rossi.
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La guerra dei fiori rossi – scheda critica
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Le ragioni della natura
Ne La guerra dei fiori rossi è senz’altro centrale la rappresentazione del corpo e, in prima istanza, di
quello dei minori, che Zhang Yuan mostra spesso nella sua nudità. La regia si mantiene però sempre ad
una “giusta” distanza, necessaria affinché non vi sia il sospetto di una forma di autocompiacimento in
quella che è invece nient’altro – e non è poco – che l’accettazione della vera natura dell’infanzia. Ne è
dimostrazione il fatto che il regista prediliga l’espressività dei volti, con tutto il loro bagaglio di smorfie,
alla retorica dei dialoghi, poiché il linguaggio dei bambini è primariamente un linguaggio fatto di gesti, e
dove la parola, quando prende il sopravvento, abdica al fascino della narrazione – come nel caso del
racconto di Qiangqiang sulla coda spuntata alla direttrice.
Stretto tra l’educazione repressiva dell’asilo e il rigore formale della regia – che per certi aspetti
ricorda il neorealismo di Roberto Rossellini o di Vittorio De Sica – il piccolo protagonista si fa carico di un
rifiuto assoluto verso l’imposizione, un rifiuto che passa attraverso la candida esibizione della propria più
intima natura. Ogni gesto di Qiangqiang ha il sapore di una piccola rivoluzione, ma non perché si possa
trovare traccia di una coscienza rivoluzionaria in un bambino della sua età, bensì perché egli sembra
l’unico non disposto a reprimere la propria natura in cambio di una maschera, fisica e mentale, che gli
permetterebbe di esibirsi correttamente sul palcoscenico degli adulti – bellissima, da questo punto di
vista, la scena in cui Qiangqiang, incapace di ripetere a memoria il motivetto, al contrario degli altri
bambini, si fa la pipì addosso davanti a tutti. L’incapacità di trattenere gli istinti è d’altronde la
prerogativa del piccolo protagonista, che sente i bisogni del proprio corpo anziché il suono del fastidioso
fischietto con cui le maestre richiamano all’ordine la classe.
In questo senso si può affermare che La guerra dei fiori rossi metta in scena una sorta d’involontaria
caricatura di un sistema educativo che tende alla cancellazione dei tratti caratteristici della natura
infantile, che cerca di normalizzare attraverso una coreografia del quotidiano che vorrebbe regolarne ogni
più piccolo movimento. Ed è da qui che nasce, pur nella rigorosità della regia, l’involontaria caricatura di
questo mondo dalle tinte grigie che è l’asilo rappresentato dal film di Zhang Yuan: proprio come sostiene
il filosofo Henry Bergson nel suo celebre saggio sul riso (Henry Bergson, Il riso. Saggio sul significato del
comico, Laterza, Bari, 1996), la comicità nasce dalla contrapposizione tra meccanicità e vivente, da una
rigidità che ci appare ridicola nei confronti della fluidità e complessità della natura, che non può essere
ridotta a una serie di pose. Le maestre dell’asilo sembrano infatti incapaci di ridere, al contrario dei
bambini, a cui basta voltarsi un attimo per farsi beffe di tutta la messa inscena orchestrata con il sistema
dei fiori rossi.
Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici
Oltre al già citato Zero in condotta, per la poeticità di alcune scene e per il carattere irrequieto del
suo protagonista La guerra dei fiori rossi può ricordare anche un film-manifesto come I 400 colpi (Les 400
coups, Francia, 1959) di François Truffaut. Il sistema educativo ritratto nel film di Zhang Yuan ha inoltre
più di un’attinenza - anche se vi sono in gioco dinamiche apparentemente opposte – con quello vigente in
Guerra dei bottoni, La (La guerre des boutons, Francia, 1961) di Yves Robert, dove i ragazzi di due
villaggi vicini giocano a farsi la guerra rubando i bottoni degli avversari, che sono così costretti a tornare a
casa tenendosi i pantaloni con le mani. In entrambe i film è infatti in gioco l'eterna battaglia tra stato di
diritto e stato di natura, tra regole e pulsioni, doveri e desideri. Nonostante la complessità delle
tematiche legate al mondo dell’educazione, La guerra dei fiori rossi è particolarmente indicato per gli
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Anche libero va bene – scheda critica
alunni delle scuole medie inferiori, poiché riesce a raccontare, con estrema delicatezza, lo sguardo di
un’infanzia alle prime armi alle prese con il mondo degli adulti.
Simone Ghelli
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