Invito a teatro Iqbal, prode cavaliere e tessitore di tappeti

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Invito a teatro Iqbal, prode cavaliere e tessitore di tappeti
A cura della Redazione
e di Anna Casanova
@casanovanna
Per segnalazioni scrivi a
[email protected]
Carta Canta
Io donna
e lo sguardo glocal
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Tre domande a...
Cécile Kyenge
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Invito a teatro
Iqbal, prode cavaliere
e tessitore di tappeti
Musica
La tromba magica
di Ibrahim Maalouf
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Cinema
Giraffada
Sapori&saperi
Il mondo perduto
degli eschimesi
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Inter@gire
Presta attenzione
Benvivere
Banca etica guarda
al crowdfunding
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Leggere
Novità
La libreria Odradek (Roma)
Sul comodino di... Guido Dotti
Carta canta
Io donna e lo sguardo glocal
Tre domande a... Cécile Kyenge Guardare
Cinema Giraffada
Docu
Mercedes Sosa, la voz de Latinoamérica
Osservatorio L’Unione europea nell’informazione Tv
Invito
a teatro Iqbal, prode cavaliere e tessitore di tappeti Ascoltare
Musica La tromba magica di Ibrahim
Maalouf
Hit Argentina
Strumenti Agogo
On Air Radio Onda d’Urto Gustare
Sapori&saperi
Il mondo perduto degli eschimesi
Verso Expo 2015 Fondazione Feltrinelli, incontri su cibo ed energia
Retrogusto Vietnamonamour (Milano)
Sorseggi Vino di kiwi Inter@gire
Presta attenzione
Decode Un futuro fai-da-te Benvivere
Banca etica guarda al crowdfunding
Ecojesuits I gesuiti
canadesi: per rispettare l’ambiente, non mangiate carne Graphic journalism
Le lettere di Hilda Dajč/6
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Leggere
novità
In Koli Jean Bofane
Matematica
congolese
Che cos’è la matematica? Solo un
freddo susseguirsi di numeri, operazioni, teoremi? E a che cosa può
servire in un continente come l’Africa dove i bisogni primari delle
persone non sempre sono soddisfatti
e l’astrazione dei calcoli può apparire
unicamente come un esercizio sterile
di appassionati fuori dalla realtà?
Ed è proprio come un eccentrico
che gli amici di Kinshasa vedono
Célio Matemona, soprannominato
Matematik, il protagonista di questo
romanzo. Quel suo affannarsi tra
derivate, equazioni e teoremi è stravagante in un mondo di diseredati
e orfani. Ma un giorno Célio viene
assunto da un oscuro ufficio che
lavora per la presidenza e si occupa
di manipolare l’informazione. Lì si
rende conto di quale strumento potente può diventare la matematica e
decide di utilizzarlo al meglio: non
per servire il potere, ma per combatterlo. Con questo romanzo, l’A.,
uno scrittore congolese che vive in
Belgio, ha vinto il Grand prix littéraire d’Afrique noir e il Prix Jean
Muno. [66thand2nd, 2014, pp. 245,
euro 17]
Elena Dak
La carovana
del sale
I tuareg sono i veri padroni del
deserto. Ne conoscono ogni angolo
56 Popoli giugno-luglio 2014
e si orientano tra le dune e le pietraie meglio dei marinai in mezzo
all’oceano. Da secoli attraversano
le terre arroventate dal sole seguendo unicamente il loro istinto
e le flebili tracce delle piste. Sui
commerci nel deserto hanno creato
la loro leggenda e la loro fortuna.
Ancora oggi i tuareg del Nord del
Niger attraversano, con centinaia
di dromedari, il temibile Ténéré
verso le saline e le oasi di Bilma e di
Falchi per andare a rifornirsi di sale
e datteri, che poi scambieranno con
il miglio prodotto dalle popolazioni
del Sud. L’A., che lavora come guida
turistica, ha voluto seguire i tuareg
nei loro spostamenti. Per lei è stata un’avventura durissima sotto il
profilo fisico, ma affascinante sotto
l’aspetto culturale. In questo libro
racconta gli incontri umani intensi
e gli spettacoli naturali unici che il
viaggio le ha riservato. [Corbaccio,
2013, pp. 160, euro 18,60]
Sonia Grieco
Abbiamo stretto
molte mani.
Venti anni nelle
emergenze
umanitarie
Venti anni in prima linea nelle
emergenze del Sud del mondo,
spesso in Paesi facilmente dimenticati, dalla Somalia allo Yemen,
dal Sud Sudan al Congo, oltre a
quelli più noti come il Kosovo, l’Iraq e l’Afghanistan. Intersos ripercorre il lavoro svolto in 35 Paesi
la libreria
D
iverse librerie indipendenti stanno aderendo
all’iniziativa #librosospeso
che, sulla falsariga del «caffè
sospeso» napoletano, invita
i lettori a comprare un libro
in più e lasciarlo «sospeso», cioè in regalo a chi lo
chiedesse. Una delle librerie
che ha aderito è Odradek di
Roma (il nome si rifà all’oggetto misterioso protagonista di un racconto di Kafka), parte della catena omonima che ha negozi anche a
Milano, Pomezia e Tuscania. Un libro lasciato «in sospeso» innesca
un circuito virtuoso di lettura più del bookcrossing (libri che vengono
distribuiti gratuitamente e per i quali, grazie a un codice, è possibile
risalire a chi li ha letti).
Libreria alternativa, dove puoi trovare volumi che danno voce a popolazioni oppresse e sfruttate, alle letterature africana, asiatica, sudamericana e a opere di piccole case editrici, Odradek è attenta anche
ai temi ambientali: oltre a far uso di borse di mais biodegradabili al
100%, promuove, nel suo spazio «Più salute meno chimica», prodotti
biologici: dai detersivi ai pannolini. È inoltre un centro di promozione
culturale con un laboratorio per bambini, incontri su tematiche quali
l’uso consapevole delle risorse energetiche, seminari di musica etnica e teatro. Info: www.odradek.it
ODRADEK - Via dei Banchi Vecchi 57, Roma
attraverso i suoi operatori umanitari che si fanno protagonisti
diretti di questo libro, descrivono
esperienze, motivazioni, impegno
e ostacoli. Ma il racconto va oltre
e diventa occasione per riflettere
su che cosa è mutato e che cosa rimane costante nell’impegno
umanitario. «Gli interventi hanno
dovuto adattarsi al mondo che
cambia», osserva Nino Sergi che di
Intersos è il fondatore, sottolineando l’importanza di essere neutrali
e imparziali di fronte ai conflitti.
E sul campo l’Ong, che è partner
delle principali agenzie e istituzioni Onu ed europee, ha imparato la
necessità di «riannodare i fili del
tessuto sociale» nelle ricostruzioni
post-conflitto. [Carocci 2013, p.
192, euro 19,50]
Frère Jean-Pierre,
Nicolas Ballet
Lo spirito
di Tibhirine
Nella notte tra il 26 e il 27 marzo
1996 sette monaci trappisti furono sequestrati nel loro monastero
presso Tibhirine, in Algeria, e vennero uccisi il 21 maggio seguente.
Erano gli anni della guerra civile
algerina che vedeva contrapposti
i fondamentalisti musulmani e
uno Stato che aveva annullato
le elezioni vinte dalle formazioni islamiste. Un conflitto senza
quartiere, segnato da una violenza
inaudita da entrambe le parti. I
sette monaci furono vittime di
questa furia cieca che togliendo
loro la vita intendeva sopprimere
anche quel messaggio di speranza
e di dialogo che i religiosi testimoniavano. Quello spirito, in realtà,
non è morto.
L’A. di questo libro, un giornalista francese, ha incontrato l’unico monaco, ormai novantenne,
sopravvissuto alla strage e con
lui ha ricostruito i giorni del rapimento restituendo il senso di
quello che ormai è chiamato lo
«spirito di Tibhirine», una vocazione all’incontro e alla fratellanza
così importante in un tempo in
cui prevale la logica dello «scontro
delle civiltà». [Paoline, 2014, pp.
172, euro 14]
Sul comodino di... Guido Dotti
Congar, Francesco e la via della povertà
C
Monaco di Bose, esperto
di questioni ecumeniche,
Guido Dotti è membro del
Comitato di consulenza
editoriale di Popoli.
on il primo Papa della storia che ha assunto
il nome di Francesco vi sono alcune istanze
evangeliche e conciliari che ritrovano slancio
nella vita ecclesiale. Vi è in particolare un passaggio della costituzione Lumen gentium - finora
mai citato nei documenti del magistero - che
conosce oggi un’inedita centralità: «Come Cristo
ha compiuto la redenzione attraverso la povertà
e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata
a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza« (LG 8,3). La «stessa
via» intrapresa da Cristo è quella della povertà
che, secondo il Concilio, non è soltanto una virtù
privata a cui esortare i fedeli, ma criterio ermeneutico per cogliere in verità il mistero dell’incarnazione e annunciarlo nell’amore.
Questa convinzione teologica così presente, almeno in alcuni ambienti, ai tempi del Vaticano II
emerge con chiarezza e lucidità rare dal saggio
che il domenicano Yves Congar volle offrire Per
una Chiesa serva e povera (Edizioni Qiqajon,
2014, pp. 170, euro 16, con una nuova traduzione e in appendice il Patto delle catacombe,
assente nella prima edizione). Forse i tempi non
erano maturi: nel 1963, quando uscì il libro in
francese, Congar era appena stato riabilitato dagli «esilii» in cui l’aveva relegato il Sant’Uffizio e
la sua nomina a cardinale arriverà solo trent’anni
dopo. Sta di fatto che l’edizione italiana sfumerà
il titolo in un più discreto Povertà e servizio nella
Chiesa e il presbitero che tradusse il testo si
firmerà prudentemente solo con le iniziali. E pensare che pochi anni dopo il traduttore e curatore
Massimo Giustetti sarebbe diventato vescovo...
Ma il poter rileggere oggi quelle pagine - assieme
al Patto delle catacombe che alcuni vescovi siglarono durante il Concilio per dare concretezza alla
riflessione sulla povertà di Cristo e della Chiesa
- offre una ventata di freschezza spirituale che
ci riporta al cuore del messaggio evangelico. È
ancora Lumen gentium a ricordarci che «come
Cristo è stato inviato dal Padre a dare la buona
novella ai poveri [...] così pure la Chiesa [...]
riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine
del suo fondatore, povero e sofferente» (LG 8,3).
Padre Congar traduce questa dimensione rivelativa dapprima in una convincente analisi della «gerarchia come servizio» attraverso le fonti bibliche
e il percorso storico e, successivamente, in una
serrata disanima dei «titoli e onori nella Chiesa».
L’insieme dell’opera costituisce un’anticipazione
profetica del ministero petrino di Francesco e
un monito decisivo: sulla povertà della Chiesa si
gioca la credibilità
dell’annuncio
evangelico.
giugno-luglio
2014 Popoli
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Leggere
CARTA CANTA L’«altro» nella stampa periodica italiana
Io donna e lo sguardo glocal
Anselmo Palini
Marianella García
Villas
L’
analisi di questo mese è dedicata a Io donna, femminile del Corriere
della Sera, di cui abbiamo considerato i numeri distribuiti sabato 5,
9 e 26 aprile.
Il settimanale è suddiviso in otto sezioni: all’editoriale e ai pezzi d’apertura seguono «Mondo Io donna», «Io guardo/ascolto», «Io assaporo», «Io
sfioro», «Io cambio», «Io scopro/scelgo». Si tratta di parti autonome, ma
accomunate dall’obiettivo di offrire al lettore una varietà di proposte sensoriali che lo rendano protagonista di un’esperienza piacevole.
Al pari di Vanity Fair (cfr Popoli n. 5/2014), anche Io donna si distingue per
il ruolo centrale attribuito alle immagini a livello quantitativo e qualitativo.
Gli articoli sono spesso accompagnati da servizi fotografici realizzati ad
hoc oppure nascono da reportage o mostre in corso, come il servizio Gaza
Felix (5 aprile), tratto dal lavoro «Occupied pleasures» esposto a Firenze
durante il festival «Middle East Now». La pubblicità occupa una percentuale rilevante di pagine (44%), mentre lo spazio riservato all’«altro» raggiunge il 19%, concentrandosi soprattutto nella sezione «Io guardo/ascolto».
Le immagini non offrono una rappresentazione stereotipata della realtà,
ma trasfigurata. È quanto emerge dal pezzo Tutti per (la) terra (19 aprile)
che la redazione, in occasione della Giornata mondiale della Terra, affida
allo scrittore Andrea Bajani chiedendogli di «esorcizzare la catastrofe» e
«sintonizzarsi sul futuro». Diversamente dai bambini descritti dall’autore,
che guardano «il buio dritto negli occhi», le fotografie non rappresentano
il «mondo capovolto» dei nostri giorni, ma appagano gli occhi del lettore.
Le immagini si presentano quindi come il corrispettivo iconografico degli
adulti di Bajani che «hanno perso la capacità di stare davanti a una cosa
troppo più grande di loro, e hanno guadagnato quella di risolvere tutto
trasformando la paura in una pratica da risolvere».
Più in generale, all’interno degli articoli, l’«estero» è visto da una prospettiva determinata che, in questo caso, coincide con quella dell’«io-donna»
che dà il titolo alla testata e, al tempo stesso, rappresenta l’interlocutore
ideale del settimanale. È uno sguardo che osserva lo «straniero» da Occidente cercando di metterlo a fuoco, senza distacco, ma da una distanza
che lo rende accettabile e narrabile. Come suggerisce l’occhiello del pezzo
In Cina la ruota (degli esposti) gira troppo veloce (26 aprile), si tratta di
una prospettiva «glocal» che legge il dato internazionale in relazione al
contesto locale: l’abbandono dei minori in Cina «è vietato, come da noi.
Ma succede come da noi».
Diversamente, nella rubrica Est/Ovest firmata da Franco Venturini, il confronto tra Oriente e Occidente ha un taglio più internazionale. È il caso
dell’articolo Il pennello e la bomba (5 aprile) che offre una sintesi efficace
dell’inasprimento dei divieti e dei controlli a Teheran in risposta alla politica nucleare del presidente Rouhani.
Il punto di vista glocal torna invece nella sezione conclusiva «Io scopro/
scelgo» dove, all’interno della rubrica «Vivere meglio», il rapporto tra noi
e l’«altro» si risolve in un invito all’azione per aiutare chi si trova in
difficoltà. Il 19 aprile troviamo la maratona Running for Kids organizzata
da Terre des hommes, mentre il 26 aprile è la volta della campagna Giro
fights for Oxfam per «illustrare e finanziare i progetti di sviluppo rurale e di
aiuto all’imprenditoria femminile […] in molti Paesi del Sud del mondo».
Elvio Schiocchet e Paola Gelatti
58 Popoli giugno-luglio 2014
«Avvocata dei poveri, difensore degli oppressi, voce dei perseguitati e
degli scomparsi»: così, nel sottotitolo e nella Prefazione, Raniero La
Valle definisce Marianella García
Villas, 34enne, salvadoregna uccisa
nel 1983: alla ricostruzione della sua
figura - poco conosciuta in Italia Palini dedica meritoriamente questo
saggio. Presidente della Commissione per i diritti umani, convinta
promotrice della non violenza, collaboratrice di mons. Oscar Romero,
Marianella venne uccisa tre anni dopo il vescovo. La sua «colpa», avere
denunciato in modo troppo esplicito
le connivenze o addirittura le dirette
responsabilità della giunta militare
nel clima di violenza instauratosi
con lo scoppio della guerra civile: uccisioni di sacerdoti, catechisti,
contadini, sparizioni di oppositori
politici, minacce agli attivisti per
i diritti umani. Marianella aveva
anche indagato sugli incidenti avvenuti il giorno dei funerali di Romero,
quando in una piazza affollatissima
l’esplosione di una bomba e i tumulti
successivi provocarono almeno 30
morti. [Ave, 2014, pp. 265, euro 12]
Cristoforo Spinella
Pezzi di turchi
Non è semplice raccontare «una nazione complessa come poche», quel
ponte sospeso tra Europa e Asia,
mosaico di identità e contaminazioni
che chiamiamo Turchia. L’A. lo fa
ricomponendone frammenti, con ta-
glio giornalistico, ma senza inseguire semplificazioni. Inquadra, nella
prima parte, grandi questioni attuali
o della storia recente turca - il rapporto con l’Europa, la minoranza
curda, il velo delle donne musulmane, ecc. -, e incontra, nella seconda
parte dedicata a interviste, testimoni
importanti delle realtà esaminate,
spesso esponenti delle diverse minoranze. Questi incontri «a viva voce»
offrono uno spaccato delle dinamiche, apparentemente contraddittorie,
della storia turca recente. Chiude
con un’appendice dedicata alle convulsioni di piazza Taksim, snodo
politico del futuro. [Editori Riuniti
2013, p. 208, euro 13]
Gianpaolo Trevisi
Fogli di via. Racconti
di un Vice Questore
L’immigrazione vista da una prospettiva insolita, ma quanto mai
concreta: quella di un ex Vice Questore della Polizia di Stato e dirigente
dell’Ufficio immigrazione di Verona,
oggi direttore della Scuola di Polizia
di Peschiera del Garda (Vr). Dopo
la prima fortunata edizione, Trevisi
- origini romane e penna brillante aggiunge qui nuove storie, forse non
sempre vere ma certo verosimili, e
ci fa incontrare la stessa variopinta
umanità che lui ha avuto modo di
avvicinare in tanti anni di lavoro
sul campo: dai bambini nomadi da
sgomberare agli egiziani «clandestini» da riaccompagnare al Cairo
in aereo, dalle ragazze nigeriane ai
bambini cinesi. Il tutto narrato senza
buonismi, ma con la virtù - che segnala anche Gad Lerner nella Prefazione - di «sapersi mettere nei panni
degli altri». Virtù essenziale tanto per
uno scrittore quanto per un poliziotto. [Emi, 2014, pp. 188, euro 12]
Cécile Kyenge
«Un’Europa più unita
favorisce l’integrazione»
I
l giorno della partenza per l’Italia sua madre le disse: «Cécile, non tornare finché
non trovi ciò che stai cercando. Vai avanti e non voltarti indietro». Quelle parole
materne Cécile Kyenge le ha sempre portate nel cuore e nella mente. Da allora sono
passati trent’anni e Cécile è sempre andata avanti, nonostante tutto. Ha portato
avanti con determinazione il suo progetto di vita: si è laureata in Medicina a Roma
(voleva fare il medico fin da bambina), specializzata in Oculistica a Modena, dove poi
ha vissuto con suo marito e le due figlie, si è impegnata nella società civile fino a
diventare ministro dell’Integrazione (dal 28 aprile 2013 fino al 22 febbraio 2014). La
sua è una storia d’integrazione riuscita, anche se sul suo percorso ha trovato non
pochi ostacoli, difficoltà, pregiudizi, come racconta nel suo libro Ho sognato una strada
(Piemme, 2014, pp. 160, euro 14) in cui, oltre a raccontarsi, sfata molti pregiudizi
che circolano sui migranti e rimarca le sue convinzioni su gestione delle marginalità
sociali, forza del meticciato, fragilità delle «porte d’Europa», sfide dell’integrazione.
Nel suo libro descrive l’integrazione come un processo che avviene in tre fasi: adeguamento, interazione, perfezionamento. Nella fase di adeguamento sono importanti le
figure di riferimento che trova nel Paese che li ospita. Quando lei è arrivata nel 1983 in
Italia, quali sono state le figure di riferimento?
Solitamente nel processo migratorio i migranti hanno come punti di riferimento la loro
comunità, un parente, un familiare da cui andare, che li può aiutare. Il mio è stato
un percorso atipico in quanto al mio arrivo in Italia non avevo nessuno e sono stata
aiutata da un sacerdote e poi da una suora laica. Ho trovato una rete cattolica di accoglienza, ma assolutamente improvvisata. Spesso, ancora oggi, l’assistenza ai migranti è così. Invece penso che andrebbe resa sistema. Non un fai-da-te, ma un welfare di
comunità generativo che includa istituzioni, associazioni, nuclei familiari sul territorio.
Lei sostiene che per un migrante è fondamentale non rimanere sospeso tra il Paese di
provenienza e il Paese ospitante, ma che «deve sapersi radicare nel Paese in cui decide
di vivere». Di che cosa ha bisogno il migrante per radicarsi?
Penso che un passaggio fondamentale sia acquisire la cittadinanza del Paese ospitante, un atto che però non deve essere solo formale, ma sostanziale. Spesso per il
migrante non è un passaggio facile, perché si ha paura di «tradire» il proprio Paese
d’origine, si sviluppa un senso di colpa che ti perseguita. Ma superato questo senso
di colpa, se nel Paese in cui si vive ci si trova bene, è giusto che si possa acquisire la
cittadinanza. Arrivare a chiedere la cittadinanza implica non solo un ragionamento di
convenienza, ma anche un percorso spirituale interiore del migrante, di accettazione
di una propria identità multipla. Io l’ho chiesta (l’ha ottenuta nel 1997, ndr) perché
ero e sono innamorata dell’Italia, ma non dimentico il Congo, il mio Paese d’origine.
E poi con la cittadinanza il migrante può partecipare alla politica. Per me l’impegno
civico e politico è stato molto importante per radicarmi.
Le ennesime morti di migranti nel Mediterraneo hanno rimarcato l’insufficienza dell’operazione Mare Nostrum e l’immobilismo dell’Europa. Come si può colmare questo
vuoto a livello europeo nella gestione dei flussi migratori?
È necessaria una politica estera europea vera e forte, con una gestione comunitaria
centrale dei flussi migratori che porti anche a uniformare le leggi sulla materia. Bisogna stipulare accordi con i Paesi di provenienza e istituire corridoi umanitari che
eviterebbero viaggi pericolosi. Bisogna poi rivedere il Regolamento di Dublino (obbliga
a tenere sul proprio territorio i rifugiati che lì giungono e il richiedente asilo può fare
domanda d’asilo solo nello Stato dove ha messo piede per la prima volta, ndr) in
modo tale che le frontiere italiane diventino europee e un migrante possa scegliere
dove vivere in Europa.
giugno-luglio 2014 Popoli 59
Guardare
Giraffada
Una giraffa nell’intifada: tra Israele e
Palestina una favola moderna di pace,
guerra, confini, differenze e sentimenti capaci
di superarle
G
li spari si fanno assordanti nella quiete
di uno zoo poco frequentato. Le vite umane recintate, divise, in tensione
sembrano quasi senza libertà, rinchiuse come bestie in gabbia.
Il veterinario Yacine (Saleh Bakri) vive in Palestina con il figlio Ziad
(Ahmed Bayatra), orfano
di madre, al confine con i
territori della West Bank,
a pochi passi dal muro
che divide dai coloni israeliani. Yacine lavora per
lo zoo della zona, dove
Ziad si prende cura di
una coppia di giraffe. Una
notte, durante un attacco israeliano, la giraffa
maschio impazzisce, va a
sbattere contro la recinzione e muore. La femmina si ritrova così sola,
senza più voglia di vivere
e non si lascia nutrire.
Lo stesso Ziad sconvolto
scappa di casa e viene ri-
trovato soltanto dopo una
lunga notte di ricerche,
proibite perché si svolgono durante il coprifuoco. Quando Yacine scopre
che la giraffa superstite è
incinta decide di trovarle un nuovo compagno.
La sola soluzione sembra
rubare una giraffa dallo
zoo di Haifa, con l’aiuto
di una reporter francese
(Laure de Clermont) e di
un amico israeliano (Roschdy Zem).
L’opera prima di Rani
Massalha è dichiaratamente una fiaba moderna che unisce elementi
di commedia a dramma, realtà e surrealismo.
Ambisce candidamente
a farsi invito alla pace,
denunciare la violenza
e il sangue sul confine
attraverso l’apologo ecologista e animalista, citando poesie orientali e
Noè (di questi tempi va
per la maggiore al cine-
Docu
A
una delle artiste sudamericane più intense e significative è
dedicato questo documentario, uscito nel 50º anniversario
del Manifiesto del nuevo canconiero. Mercedes Sosa, scomparsa
nel 2009, era stata tra i protagonisti di quella esperienza musicale e letteraria che ha segnato la musica del Continente. Il film è
un viaggio intimo nella vita della cantante, con la testimonianza
di tanti, amici e artisti internazionali, che l’hanno conosciuta. Un
racconto di arte e impegno per la libertà e i diritti civili, segnata
dall’esperienza della dittatura e dell’esilio in Europa.
Mercedes Sosa, la voz de Latinoamérica
Regia di Rodrigo H. Vila
Argentina 2013
Durata: 90’
Lingua: spagnolo (sottotitoli in inglese)
60 Popoli giugno-luglio 2014
ma). Purtroppo il risultato
finale non sempre è efficace, incerto proprio tra
metafora e realismo, muri
disumani e gabbie di docili animali. Le parti più
suggestive sono quelle in
cui l’impasto tra registri
diversi riesce in maniera
meno programmatica ed è
spiazzante: la giraffa libera che nel finale attraversa un varco nel muro ed
entra in Palestina con le
proprie zampe, beffando
ogni soldato. Sono intense
le scene in cui il padre
cerca il figlio nel buio
notturno, tra gli spari e
i controlli infiniti e kafkiani. I personaggi purtroppo riescono raramente
ad appassionarci davvero
(l’eccezione è il buffo venditore di noccioline, causa
di disturbi intestinali alle
povere scimmie).
La reporter francese è stata doppiata con un italiano in stile ispettore Clouseau e questo non aiuta.
Ma l’aspetto più discutibile e ingenuo del film
è quello di rappresentare
tutti - ma proprio tutti gli israeliani (con la sola
eccezione del buon Yoahv)
come brutti, cattivi, antipatici, tonti e sempre armati (soldati e civili). In
un tentativo di pace serio
e per scuotere tutte le coscienze sarebbe stata forse
utile una forma narrativa
un po’ meno manichea.
Il film è incredibilmente
ispirato a fatti realmente
accaduti nel 2003, durante
la seconda Intifada (di qui
il titolo-crasi tra giraffa e
intifada). Ha ottenuto recensioni molto positive un
po’ in tutto il mondo e, a
sorpresa, anche dall’americano Variety.
Nelle note del pressbook si
cita la poesia La capra di
Umberto Saba, che in una
capra aveva visto specchiarsi la sofferenza umana: l’animale era descritto dal «volto semita» ed
evocava la tragedia della
Shoah. In Giraffada, lo
sguardo dell’animale che
soffre coincide con quello del popolo palestinese.
Quello che manca, però,
al film è proprio la capacità di inquadrare quello
sguardo in maniera profonda, sotto la superficie
fiabesca.
Luca Barnabé
L’Unione europea
nell’informazione Tv
I
l 22-25 maggio scorsi si è votato per
il rinnovo del Parlamento europeo in
tutti i 28 Paesi della Ue.
Qual è l’informazione sull’Unione veicolata dai media italiani? Da una prima
analisi sui dati parziali in periodo di
pre-campagna e avvio di campagna
elettorale, considerando solo i telegiornali di prima serata (quelli caratterizzati da maggior ascolto) delle Tv
generaliste, l’Unione europea, con una
media di più di nove servizi al giorno,
trova uno spazio pari al 7,6% sul totale
delle notizie.
Grandi differenze emergono, tuttavia,
sul fronte dei numeri, dal confronto tra
testate. Il network Rai supera decisamente tutte le testate del gruppo Mediaset, queste ultime sul fondo classifica. Il Tg2 è la testata più «europea»,
seguita dal Tg3 a pari merito con il
TgLa7 e dal Tg1. Primo tra i telegiornali
del gruppo Mediaset il Tg5.
Anche l’indice di favore/sfavore rispetto all’Unione europea offre qualche
elemento di ulteriore spunto. Su tutte
le testate prevale il numero di notizie
favorevoli all’Europa rispetto a quelle
negative e neutre. Sempre su tutte le
testate, sono le notizie neutre a prevalere anche su quelle contrarie. Unica
eccezione il Tg4 del neo direttore Mario
Giordano.
«Politica» e «campagna per le elezioni
europee» sono al centro delle notizie
sull’Europa: la prima presente in 8
servizi su 10, la seconda primo tema
dell’agenda europea (72% sul complessivo dei temi relativi alla Ue). Si parla
di Europa anche per la crisi in Ucraina,
per il controllo dei conti pubblici dei
Paesi membri, per l’immigrazione e per
la situazione delle carceri in Italia.
Stefano Mosti
14 giugno
Rimini
In occasione di «Mare
di Libri. Festival dei
ragazzi che leggono», lo
spettacolo Viaggiando nel
Mediterraneo. Da Ulisse
ai migranti di Lampedusa.
Teatro degli Atti.
www.maredilibri.it
16-20 giugno
Palermo
Presso Villa Niscemi,
mostra fotografica
dedicata ai riti sciamanici
nel mondo.
www.festivaldelviaggio.it
Invito a teatro
Iqbal, prode cavaliere e tessitore di tappeti
I
Mondiali di calcio in Brasile, oltre all’entusiasmo per il
pallone, ci ricordano un problema che grava su questo
Paese come su altri del Sud del
mondo: i diritti negati a migliaia
di bambini che sono costretti al
lavoro minorile o ancor peggio sono
vittime di tratta e violenze. Una bella testimonianza di lotta contro gli
sfruttatori di bambini-schiavo arriva
dallo spettacolo Iqbal, prode cavaliere e tessitore di tappeti, in scena
il 17 giugno a Genova, nell’ambito
del Festival Suq. Lo spettacolo
racconta la storia di Iqbal, Fatima e
Maria, che ogni giorno lavorano sui telai e che, grazie alla
forza e creatività di Iqbal, riescono a superare l’angoscia
della segregazione dovuta al lavoro, ricorrendo al gioco:
una gara a chi inventa i sogni più fantasiosi.
Una vicenda di diritti negati, ma anche il racconto di come
è possibile sognare un futuro di libertà ed estinguere il micidiale debito
contratto con il padrone-sfruttatore.
Lo spettacolo si ispira alla storia vera
di Iqbal Masih, raccontata nel libro di
Francesco D’Adamo, Storia di Iqbal,
ragazzino pakistano che all’età di
cinque anni viene venduto per pochi
dollari a un trafficante di tappeti, ma
che si ribella e riesce a denunciare
lo sfruttatore e a liberare altri minori
sfruttati come lui. A dodici anni, nel
1995, Iqbal viene assassinato proprio dalle «mafie dei
tappeti» e da allora è un simbolo della lotta contro il lavoro minorile. Per info: www.suqgenova.it
giugno-luglio 2014 Popoli 61
Ascoltare
La tromba magica
di Ibrahim Maalouf
Talento smisurato e formazione eclettica
fanno del musicista libanese uno degli artisti
più apprezzati, non solo nei Paesi arabi
È
giovane, classe 1980,
ma sin dalla più tenera età la musica ha fatto
parte della sua vita, vuoi
per eredità familiare, vuoi
per il suo talento e la
sua creatività. Si chiama
Ibrahim Maalouf, è nato a Beirut ma, a causa
della guerra civile che ha
martoriato il suo Paese,
da bambino si è trasferito
con la famiglia a Parigi.
La sua è una famiglia di
artisti e intellettuali: il
padre Nassim, insegnante
di musica e trombettista,
la madre Nada, pianista, lo
zio Amin, noto scrittore, il
nonno Rushdi, giornalista, poeta e musicologo.
Ibrahim, seguendo le orme paterne, a soli 7 anni sceglie la tromba come strumento. È proprio
il padre - musicista con
formazione classica - che
lo inizia a questo ottone.
Con lui il piccolo Maalouf
studia le diverse tecniche così come i più vari
repertori: dal classico al
moderno fino al contemporaneo oltre, ovviamente, alla musica araba.
Il giovane musicista si distingue per il talento precoce: accompagna il padre
Hit
I brani più venduti a marzo 2014 in Argentina
1
Shot me down
David Guetta & Skylar Grey
Canzone lanciata nel febbraio 2014 dal
produttore francese di house music e disc jockey
David Guetta.
2
Selfie
3
Summer
The Chainsmokers
Duo di New York composto da Andrew Taggart
e Alex Pall. Il duo si è costituito nel 2012
ed è diventato famoso con il brano Selfie di
quest’anno.
Calvin Harris
Musicista, cantante, dj scozzese.
62 Popoli giugno-luglio 2014
in tour per l’Europa eseguendo repertori barocchi
e facendosi notare. A poco
a poco si rende conto che
la musica è la sua vita:
abbandona quindi gli studi scientifici per dedicarsi
a quelli musicali. Negli
anni vince premi e concorsi, brucia le tappe della
formazione di musicista
e diventa insegnante di
tromba al conservatorio.
Anche qui, però, va oltre: lascia l’insegnamento
per divergenze tra la sua
visione musicale e quella
classica, e si dedica a masterclass (lezioni private)
in giro per il mondo.
Ibrahim Maalouf ha però una peculiarità: la sua
tromba è speciale poiché
modificata con l’aggiunta di un quarto pistone
che consente di suonare
i quarti di tono. Questo
strumento è stato inventato dal padre negli anni
Sessanta per eseguire le
tonalità tipiche della musica araba, che si muove
su intervalli inferiori ai
semitoni della musica occidentale.
Lo stile di Maalouf attinge
alla formazione classica,
così come al jazz - negli
anni si è avvicinato a questo genere, esibendosi in
big band e in club -, ma è
sempre venato dal languore unico delle note arabe.
Musicista, dunque, ma anche valente compositore.
Fino a qualche anno fa
conosciuto solo ai cultori, Maalouf inizia a far
parlare di sé a livello internazionale nel 2011 con
l’album Diagnostic. Il suo
suono è ricco di influssi e
intrecci, frutto delle origini mediorientali, degli
studi classici, degli incontri e delle varie collaborazioni: oltre alla tromba,
nelle sue esibizioni si avvale di strumenti quali il
pianoforte e il sassofono,
ma pure del ney, il flauto
arabo, del buzuq - versione araba del bouzouki
(una sorta di mandolino
greco) - e di varie percussioni. Maalouf è presente
ai principali festival musicali europei e la critica
lo nota e lo segue.
Nel 2013 esce l’album che
sarà uno spartiacque nella sua carriera: Illusions.
Questo disco, che contiene
diverse perle tipo Nomade
slang, Conspiracy generation, Unfaithful, racchiude l’essenza di Maalouf,
che abbina la sua possente
tromba ai suoni rock della
sua giovane band (sei elementi, compresi chitarra,
basso e batteria).
Chi pensa che un album
strumentale sia difficile da ascoltare, si sbaglia
di grosso. Per avere un
assaggio è consigliabile
guardare il Live at Baby­
lon di Istanbul, (2013) e
si vedrà una folla di giovani che ondeggiano ritmicamente
ipnotizzati
dal sound maaloufiano.
La consacrazione è definitiva quando nel marzo di
quest’anno riceve la Victoire per il miglior album
di musica tradizionale e
straniere, ovvero l’Oscar
della musica assegnato in
Francia. La sua esibizione
quella sera ha del prodigioso: eseguendo True
sorry, uno dei suoi brani
più vibranti, il carismatico
Ibrahim si fa raggiungere sul palco da giovani
musicisti con strumenti a
fiato e violini, che creano
insieme una performance
eccezionale.
Alessandra Abbona
STRUMENTI
Agogo
L’
agogo è uno strumento a percussione della famiglia degli idiofoni. Originario della Nigeria si è, successivamente,
diffuso in Brasile e a Cuba, dove è stato
portato dagli schiavi africani. È formato da
due o più campane di ferro senza batacchio di grandezze diverse, unite alla base
da una connessione che funge anche da
impugnatura. Nella maggior parte degli
agogo le campane sono due, tre o quattro,
in metallo (più raramente in legno). Lo si
suona reggendolo in mano e percuotendolo con una bacchetta in legno o in ferro. Il
ruolo principale di questo strumento è l’esecuzione di una frase ritmica, che serve a
dare il ritmo sul quale si basa l’andamento
generale di una danza.
Agogo era utilizzato dagli yoruba della
Nigeria, che lo consideravano simbolo
di potere. Nelle sua funzione originaria
veniva impiegato anche per rituali religiosi
e queste reminiscenze sono giunte anche
nel Nuovo Mondo, dove è entrato a far
D
parte integrante del candomblé, cerimonia
degli schiavi e dei loro discendenti. Oggi
lo strumento è molto utilizzato nella capoeira e nel samba. Nella capoeira l’agogo
segue il ritmo dell’atabaque (un tamburo)
o del pandeiro (una specie di tamburello)
e ha un suono più forte e acuto degli altri
strumenti. Nel samba l’agogo fa parte della
bateria e serve a dare note più acute alla
sezione ritmica.
L’agogo è stato impiegato anche nella musica rock: David Byrne, leader dei Talking
Heads, lo ha usato in diversi album e nei
concerti dal vivo. Più recentemente lo si è
sentito anche nei dischi degli inglesi Kaiser
Chiefs, band indie rock.
a.a.
aniele Mantovani, trent’anni, una passione per la politica estera,
decide di proporre nel 2011 a Radio Onda d’Urto di Brescia
C’è crisi, un programma che tratta di politica estera e, in particolare,
delle crisi dimenticate. Il progetto piace, il programma viene inserito
nel palinsesto e si avvia anche una collaborazione con Medici senza
Frontiere. Nella prima stagione era, infatti, previsto un collegamento
con gli operatori di Msf che lavoravano in Paesi toccati da crisi politicomilitari.
Nel 2012, invece, il filo conduttore non sono stati i Paesi in crisi, ma
fenomeni globali che hanno impattato sulla vita dei Paesi extraeuropei. Per esempio, a seguito della Primavera araba per tre mesi si
è analizzato il tema del rapporto tra religione e politica (con focus sui
Paesi musulmani) oppure si è affrontato il nodo dell’acqua e dell’energia
(con focus su Etiopia, Eritrea, Sud Sudan, Egitto) e di come queste
risorse vadano a modificare le politiche nazionali e internazionali con
ricadute sulle popolazioni.
Quest’anno il programma (in onda il sabato dalle ore 13 alle 14) si
concentra sui movimenti sociali: si è trattato di Medio Oriente, Nordafrica,
Turchia, Libano, Siria, Sudamerica: dagli effetti delle Primavere arabe,
alla creazione di nuove generazioni di blogger, alle trasformazioni urbane.
In ogni puntata oltre ai collegamenti con esperti e ospiti ci sono
due rubriche: «Dall’Osservatorio», in cui s’intervista un collaboratore
dell’associazione Osservatorio Iraq; «Libri» in cui si presenta un romanzo
o un saggio, preferibilmente collegato all’area geografica oggetto della
puntata. Info: cecrisi.radiondadurto.org.
Gustare
Il mondo perduto
degli eschimesi
••••••••••••••••••••••••
La ricetta
••••••••••••••••••••••••
Il popolo dei ghiacci ha sviluppato una civiltà
capace di rendere ospitale la tundra, ma che
si sta irrimediabilmente dissolvendo
AGOUTUK, il gelato degli eschimesi
Agoutuk o akutaq è il «gelato eschimese», una spuma di
pesce lavorata con olio o grasso e con aggiunta di bacche. La ricetta yupik (Nord-Ovest dell’Alaska ed Est della
Russia) propone di usare olio di foca fresco, ma si hanno
ricette con grasso di renna o di caribù. Oggi si preferisce
usare l’olio vegetale industriale Crisco. Il pesce va pulito
togliendo le interiora, la testa e la coda e poi va fatto
bollire per venti minuti. Lasciar raffreddare nell’acqua,
togliere le lische e sbriciolare il pesce il più possibile. Aggiungere due cucchiai di Crisco, miscelare e aggiungere
altro olio continuando a lavorare finché il composto non
diventa spumoso. Aggiungere zucchero e frutti di bosco.
Refrigerare e servire gelato.
P
ochi popoli al mondo
sono così ammirati e
così sconosciuti come gli
eschimesi. A partire dal
termine popolare e fantasioso con il quale sono definiti: «mangiatori di carne
cruda», che rimanda all’eterna diatriba tra chi sa
cuocere il cibo (e, dunque,
è «civile») e chi invece, si
limita a consumarlo come
natura lo offre. O anche
«fabbricanti di racchette da
neve», nome dato dai vicini incapaci di concepire
un popolo che si ostina a
vivere in un ambiente così
inospitale, tra ghiaccio e
sassi. Ambiente nel quale è
la pietra, essenziale, nuda,
eppure viva a dare l’immagine dell’eternità. Come
scrive Onfray: «Prima del
tempo, quando non c’è nulla a offrire punti di riferimento, quanto tutto esclude l’archeologia o la genea­
logia, è l’assoluto trionfo
della pietra» (M. Onfray,
Estetica del Polo Nord, Ponte alle Grazie, 2011, p. 11).
Terre estreme nelle quali
solo l’inukshuk, l’immagine
megalitica dell’uomo, conforta il viaggiatore che va
per mare indicandogli il
villaggio dove approdare.
Loro, gli inuit, cioè gli «uomini», sono eredi di una
lunga storia artistica, testimoniata dalle figurine
di osso della Terra di Baffin e dalle complesse maschere yupik che sedussero
gli artisti europei. La loro
splendida mitologia parla
di una divinità, Sedna, dal
verso expo 2015
Fondazione Feltrinelli, incontri su cibo ed energia
L’
Esposizione universale di Milano si interrogherà sui temi cruciali del cibo e
dell’energia. Su questi argomenti Expo 2015 e
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli hanno creato
Laboratorio Expo, un progetto che organizza
eventi, dibattiti e incontri legati alla divulgazione
scientifica. Quattro le aree tematiche: agricoltura, sui temi riguardanti la produzione agricola
mettendo in risalto l’importanza della sicurezza
alimentare; antropologia; si esploreranno le
forme della commensalità in una prospettiva
interculturale; sviluppo sostenibile, si prenderà
in esame la dimensione ambientale intesa
come equità nell’accesso alle risorse; sociologia urbana, si metteranno a fuoco le pluralità
di modelli che migliorano la qualità della vita
delle città. A giugno si svolgeranno un workshop
sull’ambiente nell’Università di Milano, uno sul
cambiamento climatico alla Fondazione Mattei
e un terzo sulla smart governance all’Università
Bicocca. A ottobre si terrà un seminario sui suoni della commensalità, cioè sulla dimensione
acustica dello stare a tavola. Infine a novembre
il sociologo Manuel Castells terrà a Milano una
lezione.
Il progetto ha creato anche la collana digitale
Laboratorio Expo, suddivisa in due sotto-collane:
Thesaurus e Keywords (gli e-book possono
essere scaricati gratuitamente dal sito www.
fondazionefeltrinelli.it).
cui sacrificio nacquero i
pesci del mare per nutrire gli uomini. Parla di un
fratello e una sorella che
diventarono il sole e la luna
e parla degli animali. Tra
questi, la foca, dalla quale
si ricava l’essenziale per la
vita. E cioè carne, olio per
l’illuminazione, pelle per
l’abbigliamento o per fare
i kayak.
Una civiltà, quella eschimese, fragile e bellissima,
capace di abitare la tundra
e di rendere significativo
ogni sasso e ogni insenatura del mare. Una civiltà
poco capita e che si dissolse
irrimediabilmente all’arrivo dei bianchi. Oggi, a Nunavut, il territorio artico
canadese gestito in autonomia dagli inuit, gli eredi
dell’antica Thule cercano,
attraverso l’arte, di recuperare il senso grandioso
e tragico del loro essere
custodi di un luogo dove il
mondo finisce.
Anna Casella Paltrinieri
RETROGUSTO Locali etnici con una storia dietro
Vietnamonamour
I
l nome è un chiaro riferimento a Hiroshima mon amour, il romanzo di
Marguerite Duras, la scrittrice francese nata in Vietnam. Un accostamento non casuale. Christiane Blanchet,
la titolare di Vietnamonamour, ha
una storia uguale e contraria a quella
della Duras: vietnamita, cresciuta in
Francia e trapiantata in Italia.
«La mia famiglia - racconta - è originaria di Hai Phong, sulla Baia del Tonchino. Mio padre aveva partecipato
come mediatore ai colloqui di pace
tra il governo vietnamita e quello
francese. Quando Hanoi è
diventata indipendente mio
padre è stato considerato
troppo vicino ai francesi e
nel 1958 è stato espulso
dal Vietnam. Io sono quindi
cresciuta in Francia dove
mi sono laurea­
ta in Storia.
In Italia sono arrivata agli
inizi degli anni Novanta. Inizialmente ho lavorato come
redattrice, poi ho insegnato francese
all’Università statale di Milano».
La cattedra le assicura un posto
fisso, ma lei non è soddisfatta. Vuole
ritrovare un rapporto più stretto con
il Paese di origine. Inizia così a produrre piccoli oggetti di abbigliamento
e oggettistica ispirati alla tradizione
vietnamita. Ma ancora non le basta:
vuole recuperare il gusto, i sapori,
i piatti della cucina del Vietnam.
Nel 2006, insieme al marito Dario
Arlunno, apre un locale a Milano.
«Dario ha condiviso con me questo
percorso - osserva -. Ha lasciato la
multinazionale farmaceutica per la
quale lavorava e ha messo a frutto la
sua passione per il vino ereditata dai
parenti che da generazioni lo producono. Si è così realizzato un incontro
unico tra Oriente e Occidente».
La cucina offre piatti a base di farina
e noodles di riso e soia. Come le gallette di riso degli involtini per i nem, il
banh xeo fatto con la farina di riso e
la farcitura vegetariana, il pho servito
con noodles di riso. Ma vengono serviti anche la zuppa di carne e di pesce, il bun cha (bocconcini di carne),
il cha ca (filetto di branzino all’aneto
e curcuma), l’agnello al tamarindo.
«Dario - conclude Christiane - ha
abbinato 80 vini francesi e italiani
ai nostri piatti. Ma ai clienti offriamo anche tè, birra e caffè
fatti arrivare direttamente dal
Vietnam. I nostri tavoli sono sempre apparecchiati con
i bastoncini di bambù, ma
spesso le mani sono il metodo migliore per mangiare».
VIETNAMONAMOUR
Via Alessandro Pestalozza 7,
Milano
SORSEGGI
Vino di kiwi
O
rmai il termine «kiwi» è associato
sempre più alla Nuova Zelanda. A
volte gli stessi neozelandesi sono chiamati in senso scherzoso «kiwi». Il riferimento è sia al curioso
uccello senza ali che vive
nel Paese, sia ai frutti
che lì crescono e che da
anni ormai sono diffusi
anche in Europa (l’Italia
è uno dei maggiori produttori mondiali).
La pianta, in realtà, a differenza del piccolo uccello, non è autoctona della
Nuova Zelanda. Il frutto
è infatti originario della Cina, dove è
coltivato da più di 700 anni. All’inizio
dell’Ottocento alcuni missionari hanno
pensato di esportarlo prima in Gran
Bretagna e, poi, in Nuova Zelanda, dove
ha attecchito e si è diffuso rapidamente. Inizialmente il frutto veniva chiamato
Uva spina cinese, successivamente è
stato ribattezzato kiwi.
Il kiwi è ricco di vitamine, fibre, potassio, magnesio e rame. Possiede anche
proprietà antiossidanti ed
enzimi che favoriscono la
digestione.
In Nuova Zelanda dal
frutto si ricavano un vino
che si ottiene dalla fermentazione del succo e
da un «invecchiamento»
di almeno tre mesi nelle
botti. Solitamente il vino
di kiwi accompagna piatti
di carne particolarmente
saporiti come agnello, maiale, manzo
e cervo. A volte viene accostato anche
a ricette di pesce e ai formaggi neozelandesi.
Dal kiwi si ottiene anche una grappa,
distillando in un alambicco il succo del
frutto.
7-8 giugno
Bologna
«Terra Equa», festival
del commercio equo e
dell’economia solidale.
terraequa.blogspot.com
13-24 luglio
Genova
Al «Suq Festival» punti di
ristorazione con diverse
cucine dal mondo.
www.suqgenova.it
giugno-luglio 2014 Popoli 65
Presta
attenzione
La rete connette le persone facendo incontrare
i bisogni di allevatori, contadini, commercianti
del Sud del mondo con microfinanziatori di ogni
continente. È la nuova frontiera del crowdfunding
A
nh Chi Em (sigla Ace)
significa «Fratelli e
sorelle» in vietnamita ed
è un programma di microfinanza creato da una Ong
francese, Entrepreneurs
du Monde: la sua missione è sostenere persone
vulnerabili nei remoti distretti rurali di Dien Bien
e Muong Ang, nel nord del
Vietnam.
Lanciato nel 2007, il programma promuove l’inclusione finanziaria delle
donne di etnie marginalizzate e di clienti con gravi
problemi socioeconomici.
Sono oltre 3.500 le persone che stanno usufruendo
di microprestiti con questo programma in tutto il
mondo.
Oltre ad aver creato questi significativi strumenti
finanziari, Ace si adopera
per offrire servizi di formazione allo sviluppo degli affari, sviluppo sociale
e agricolo, counselling, affiancamento e visite a domicilio. Opera anche con
partnership mirate, come
quella con Agronomes et
Vétérinaires Sans Frontières.
Ace ha anche programmi di prevenzione contro
Hiv/Aids, per la nutrizione, l’igiene e la gestione
dei rifiuti. Nel 2012, oltre
9.500 clienti nel solo Vietnam hanno preso parte
alle attività di sviluppo ed
educazione sui vari temi
proposti.
Nella regione di intervento, i tassi di interesse delle
banche sono mediamente
superiori al 23% annuo,
mentre Ace, con gli strumenti della microfinanza,
riesce a praticare un tasso
del 18%. Sono risparmi
che restano nelle tasche
dei beneficiari.
Il Vietnam ha oltre 90
milioni di abitanti che vivono con un reddito pro
capite di circa 4mila dollari annui, reddito cresciuto
molto in fretta negli ultimi
anni; la cifra che riusciva
a guadagnare Sua, una
donna di 62 anni della
regione agricola di Noong Luong, era di circa un
quinto prima dell’incontro
con il programma di sviluppo.
Sua vive in una famiglia con otto persone, che
comprende il marito, la sorella con la figlia, due figli
e due nipoti. L’età avanzata non le impedisce di
lavorare attivamente sia
nella coltivazione del riso
sia nell’allevamento di pe-
KIVA.ORG
Inter@gire
sce, maiali e pollame. Dotata di una notevole forza
di carattere, è decisa a
sviluppare l’attività, così
quando ha sentito parlare
dei prestiti e dei programmi di formazione di Ace si
è subito interessata. E da
lì, partendo da una richiesta a un operatore locale
e passando per internet,
è arrivata fino ai monitor
di computer e dispositivi
mobili di tutte le persone
connesse nel mondo.
La piattaforma che ci ha
consentito di entrare in
contatto con lei, vedere la
sua foto, conoscere la sua
storia e le sue esigenze,
e persino di contribuire
a sostenere il suo sviluppo è Kiva.org, un caso di
DECODE
Un futuro fai-da-te
N
el cuore di Dakar, tra le botteghe di artigiani e piccoli commercianti, tra un centro sociale e un asilo nido c’è Defko-AkYen, che in italiano suona più o meno come «farlo con gli altri».
È un FabLab creato dall’associazione Kër Thiossane, aperto a
tutti: residenti e artigiani, artisti, pensatori, hacker, ricercatori,
informatici, sviluppatori, designer. Uno spazio di condivisione di
know-how e sistemi di produzione che contaminano macchine
tradizionali e tecnologie digitali. Qui il concetto di FabLab - ovvero Fabrication Laboratory, l’antro dell’artigiano più innovativo, del
maker che crea usando nuove tecnologie digitali e stampanti
3D - acquista un nuovo significato. In un ambiente di condivisione e crescita personale, chiunque può venire a imparare,
sperimentare, trasmettere la sua esperienza o semplicemente
realizzare qualcosa.
A più di nove ore di volo c’è, all’interno della Città della Scienza
di Napoli, lo Urban FabLab (www.urbanfablab.it), così lontano e
così vicino nelle idee e nello spirito. Proprio qui, infatti, è nato
The 66
African
project,
un progetto nonprofit basato
PopoliFabbers
giugno-luglio
2014
sull’innovazione che vuole fare interagire le comunità di makers
europei e africani attraverso workshop e progetti collaborativi.
Dopo una tappa a Marrakech, The African Fabbers project arriva
proprio alla Biennale di Dakar nella cornice del festival Afropixel.
Qui, dopo una prima fase dedicata a sviluppare il concetto di
design di un progetto, utilizzando gli strumenti di progettazione
di calcolo e macchine di fabbricazione digitale, si passerà alla
realizzazione del progetto stesso, esplorando tecniche di autocostruzione con materiali locali, naturali e riciclati.
E non si tratta di un’iniziativa isolata della comunità dei makers.
C’è anche VentolOne, che cerca fondi per realizzare un generatore microeolico a basso costo e basso contenuto tecnologico.
C’è WasProject, che ispirandosi alla vespa vasaia che depone
concentricamente materiale argilloso per costruirsi il nido, sta
progettando sistemi per realizzare abitazioni sostenibili nel Sud
del mondo.
Antonio Sonzini
[email protected]
successo mondiale di cosiddetto lending crowdfunding. Grazie a questa piattaforma, ognuno può scegliere di finanziare Sua
dalla propria scrivania,
aiutandola a comprare più
pesci e cibo per pesci, incrementare gli affari e migliorare le condizioni della
famiglia. E come lei molte
altre e molti altri.
Per esempio, a diverse
migliaia di chilometri di
distanza, in Uganda, c’è
Florence, una donna con
una storia simile e al tempo stesso del tutto diversa.
Qui la popolazione è di
quasi 36 milioni di abitanti, il reddito medio pro
capite di 1.500 dollari annui e l’economia è basata
per l’82% sull’agricoltura.
Florence vive nella cittadina di Nansana, vicino a
Kampala, e vende bibite.
Anche lei, come Sua, ha
chiesto un prestito (900mila scellini ugandesi, circa
250 euro) che userà per
acquistare più bibite e avviare un circolo virtuoso
di crescita.
Si è rivolta a Brac Uganda,
Ong parte di un network
internazionale (www.brac.
net). Nel suo approccio
olistico Brac offre programmi di istruzione, salute, depurazione dell’acqua, agricoltura e microfinanza. Il programma di
microfinanziamenti da cui
Florence aspira a trarre
beneficio è stato studiato per offrire ai poveri
accesso in modo facile,
affidabile ed efficiente
a strumenti finanziari e
raggiunge oggi 150mila
persone, solo in Uganda.
Florence appartiene al
gruppo di beneficiarie
del programma Empowerment and Livelihood for Adolescents (Ela).
Durante l’adolescenza,
le ragazze raggiunte dal
programma
studiano,
formano club e giocano
insieme, oltre a riunirsi
per discutere di problemi
e opportunità sociali che
le aiutano a essere più
consapevoli. Il programma Ela è notevolmente
cresciuto dal 2008 e oggi
conta oltre mille club che
uniscono circa 40mila ragazze in tutto il Paese.
Come Sua e Florence ci sono migliaia di altre donne
che sono aiutate a sviluppare il proprio potenziale
e le attività economiche
di cui sono protagoniste
grazie a microprestiti e
grazie alla rete. Lo studio
e l’integrazione di modelli
di servizio finanziario sostenibili e realmente centrati sulla persona hanno
fatto grandi passi in avanti, andando a raggiungere microimprenditori che
sarebbero stati ignorati
dal sistema bancario tradizionale. In tutto questo,
internet è ancora una volta
una leva eccezionale, rendendo possibile l’incontro
tra un prestatore seduto
nel suo soggiorno di una
città italiana e una coltivatrice di riso in zone
remote del Vietnam o una
commerciante di bevande
che vive nelle periferie di
una metropoli africana.
Giovanni Vannini
GooglePlus:
+GiovanniVannini
@giovvan
giugno-luglio 2014 Popoli 67
Benvivere
ECOJESUITS
I gesuiti canadesi: per rispettare l’ambiente, non mangiate carne
«I
nvito ogni comunità della Provincia a impegnarsi in
una dieta senza carne e senza pesce un giorno
alla settimana (...) Oltre ai motivi tradizionali, oggi ne
abbiamo uno nuovo per rispolverare la pratica dell’astinenza da carne e pesce: la solidarietà con i poveri
del mondo e con un creato devastato». L’invito è stato
lanciato, in una lettera ai suoi confratelli, da J. Peter
Bisson, superiore della Provincia gesuitica del Canada
anglofono. La sua non è una trovata sensazionalistica,
ma un’iniziativa che mira a far crescere la sensibilità
ecologica nella Compagnia di Gesù. Un’iniziativa che si
inserisce in un solco tracciato anni prima da Jim Webb,
il predecessore di Bisson. «Padre Webb - è scritto nella
lettera - ha avviato un processo di discernimento col-
lettivo sul nostro impegno comunitario per l’ecologia
(...). Tra i frutti di questo processo sono emerse due
raccomandazioni specifiche». La prima è l’istituzione
di una commissione per la missione e l’ecologia che è
stata creata da padre Bisson con l’intento di «preparare
la Provincia ai nuovi modi di percepire, pregare, discernere, pensare e agire appropriati alla dimensione
ecologica». La seconda è appunto l’invito a non consumare carne e pesce almeno un giorno a settimana. «La
richiesta di carne da parte dei consumatori è diventato
un fattore molto significativo nel degrado ambientale.
Quindi, quanto da me proposto è un efficace atto di
speranza e un passo verso la riconciliazione con i poveri
e la terra».
Banca etica guarda
al crowdfunding
Insieme a Produzioni dal Basso ha creato uno
spazio per raccogliere fondi per progetti sociali
N
ell’era dei social media e dell’innovazione
tecnologica sta prendendo
piede anche in Italia una
forma di finanziamento
legata al soft power digitale. Si tratta delle piattaforme di crowdfunding
che permettono a persone, associazioni ed enti di
presentare i loro progetti
e cercare i finanziamenti.
Una di queste piattaforme
è Produzioni dal Basso che
dal 2005 ha realizzato 512
progetti con la raccolta di
quasi 1,3 milioni di euro.
Produzioni dal Basso ha
da poco iniziato una collaborazione con Banca Etica
che ha come obiettivo l’uso responsabile del denaro
dei risparmiatori. È stato
così inaugurato un nuovo
spazio della Banca popolare etica sulla piattaforma
68 Popoli GIUGNO-LUGLIO 2014
di Produzioni dal Basso.
Su questo spazio virtuale
le organizzazioni, i soci
e i clienti di Banca etica
potranno raccogliere fondi
attraverso il crowdfunding
per realizzare progetti di
promozione culturale, sociale e ambientale. È sufficiente che i soci e i clienti
di Banca etica contattino
una delle filiali dell’istituto
per chiedere di poter caricare il loro progetto sulla
piattaforma, condividerlo e
raccogliere fondi.
A metà maggio, sulla piattaforma sono stati caricati
due progetti: l’organizzazione del Congresso nazionale di economia sociale
che si terrà a Parma dal
20 al 22 giugno nel corso
del quale si discuterà di
un nuovo modello economico e delle risposte vir-
tuose alle contraddizioni
dell’economia tradizionale.
Per riuscire a organizzare l’evento sono necessari
10mila euro e la quota minima di adesione attraverso il crowdfunding è di 10
euro.
L’altro progetto è la creazione della Casa dei beni
comuni di Belluno (www.
casadeibenicomuni.it). L’iniziativa intende recuperare un’ex caserma per trasformarla in un centro culturale polivalente aperto
alla città in cui si organiz-
zeranno mostre, esposizioni, incontri teatrali e musicali. Nel centro troveranno
posto un piccolo bar, un’officina, una falegnameria,
un orto sociale e un piccolo
ufficio per la redazione del
sito d’informazione indipendente Bellunopiù. Per
la ristrutturazione servono
10 mila euro, 10 euro la
quota minima di adesione.
Per proporre progetti o sostenerli: http://bancaetica.
produzionidalbasso.com
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Graphic journalism
“Tutte le speranze di
lasciare questo posto
svaniscono davanti alla
prospettiva ripetitiva di
un sopravvivere passivo
che non assomiglia in
nessun modo alla vita”
“Non è ironia della vita.
È la sua tragedia più
profonda. Possiamo
resistere non perché
siamo forti, ma unicamente perché non siamo
consapevoli in ogni
momento della nostra
immensa miseria in
tutti gli aspetti della
nostra vita”.
“Siamo qui ormai da nove settimane,
e sono ancora in grado, anche
se poco, di scrivere e di
pensare. Ogni sera, senza
eccezione, leggo le tue
lettere e quelle di Nada,
e questo è l’unico momento
in cui sono un’altra, non sono
solo un’internata”.
6/ continua