Donna - ISC Monti Dauni

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Donna - ISC Monti Dauni
Istituto Scolastico Comprensivo
“DIOMEDE”
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i
Donne
g
silenziosamente randi
Edizioni del Rosone
Si ringrazia il prof. Tommaso Albano,
direttore del Centro Studi Diomede,
per il pregevole ruolo che svolge
nel territorio e nella scuola.
In copertina
Disegno a carboncino di Israel Albano
Tutti i diritti sono riservati
Giugno 2015
© Edizioni del Rosone «F. Marasca»
via Zingarelli, 10 – 71100 Foggia
[email protected]
www.edizionidelrosone.it
Stampa: Arti Grafiche Favia, Modugno (Ba)
Questo libro è dedicato al nostro
Dirigente scolastico, prof.ssa Rosa Manella.
La sua professionalità e serietà
non è mai venuta meno, ha agito
sempre con perspicacia e correttezza,
contribuendo alla crescita culturale
ed interiore di tutti i docenti e alunni.
Le rivolgiamo il nostro semplice “grazie“.
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Una società che ignora le donne
difficilmente progredisce
Prefazione
Comunità lontane più di 50 km dal capoluogo della provincia cui appartengono, lassù sui Monti Dauni, ma distanti
molto di più da quei simboli della modernità che, subito dopo
la fine del secondo conflitto mondiale, cominciavano a essere
presenti nella città. Piccole e povere comunità, quelle del Subappennino Dauno, piccole e chiuse agli scambi. Diffidenti.
A distanza di pochi chilometri si parlano dialetti diversi: a
Motta Montecorvino, a Volturino, a Celenza Valfortore, a Carlantino, a San Marco la Catola… la discontinuità linguistica
testimone della discontinuità delle comunità che difendono
strenuamente tradizioni, riti, ma anche pregiudizi. Una comunità che si teneva insieme, e per certi aspetti accade tuttora,
grazie a rituali, al ferreo rispetto delle tradizioni e a omertose
complicità. Comunità dove il ritmo della natura e l’alternarsi
delle stagioni servivano per tentare di trarre il meglio dal lavoro
dei campi, non per cercare momenti o periodi di spensieratezza o di divertimento. Comunità in cui non c’era soluzione di
continuità tra la vita e la morte: si nasceva in casa e in casa si
moriva. Spesso, poi, lo stesso evento della nascita poteva portare
con sé la morte della mamma, del bambino o di entrambi. Ed
ecco che vita e morte coincidevano in un costante e ininterrotto
alternarsi. La vita che rappresentava una fortuna se a nascere
era un maschio che avrebbe garantito la continuità del nome
della famiglia e la forza delle braccia nel lavoro dei campi.
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Il quadro storico, sociale e culturale in cui si sviluppano le
storie che vogliamo raccontarvi, è proprio quello della società
patriarcale in cui si trovano a lottare le nostre protagoniste.
Questo lavoro vuol essere, infatti, un pensiero al coraggio
delle donne, un invito alla consapevolezza, al rifiuto dell’indifferenza, una denuncia contro tutti i soprusi e le vessazioni,
contro il silenzio delle donne che tacciono le angherie a cui
sono sottoposte. Una piccola testimonianza della storia locale
che, tuttavia, non ci fa dimenticare il presente. La violenza
contro le donne, tematica quanto mai urgente nella nostra
“evoluta” società, è forse la più vergognosa tra le violazioni
dei diritti. Essa non conosce confini temporali o geografici,
né culturali o economici, e fintanto che continuerà non potremo pretendere di aver compiuto dei reali progressi verso
l’uguaglianza, lo sviluppo e la pace. Si parte, pertanto, dalla
storia per recuperare la memoria di un problema che sembra
affondare le proprie radici in un passato lontano che noi oggi,
attraverso un veloce excursus, ripercorriamo.
Questo passato ci restituisce però anche storie positive di
forza e sostegno da parte delle comunità, di impegno politico di
una minoranza, come quella femminile, che sta contribuendo
alla salvaguardia del nostro territorio e che, a livello nazionale, fa sentire forte la sua voce dagli scranni del Parlamento.
Le nostre storie parlano di eroine “silenziosamente grandi”,
perché tanto generose da offrire alle nuove generazioni il valore più importante, quello della memoria, anche se dolorosa
e carica di inquietudini.
I nostri racconti affondano le radici in epoche assai lontane
che hanno visto la nascita di molti dei nostri paesi e durante le
quali gli eventi della micro storia si sono amalgamati a quelli
della Storia. Anche in questa cornice prendono piede vicende
di un coraggio tutto al femminile.
Infine è apparso doveroso omaggiare la forza e la caparbietà
di giovani poco più che adolescenti “costrette” ad attraversare
l’Oceano per inseguire il sogno di una vita migliore.
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Con il nostro lavoro e con il contributo prezioso dei nostri
ragazzi, abbiamo voluto rendere il giusto tributo a tutte le
donne e in particolare a quelle di Carlantino, Celenza Valfortore, Motta Montecorvino, San Marco la Catola, Volturino,
raccontando storie “invisibili” da sempre ignorate e disconosciute. Storie di coraggio, di soprusi, di donne popolane,
aristocratiche, donne d’azione e di pensiero, testimoni che
hanno contribuito a salvaguardare, a proteggere, a sostenere
nei momenti difficili il nostro territorio e a scriverne la Storia.
Le Docenti
Prof. ssa Annita Montepeloso
Prof.ssa Margherita Sassone
Plesso di Carlantino
Prof.ssa Nicoletta Lombardi
Plesso di Celenza Valfortore
Prof.ssa Angela Covino
Prof.ssa Angela Bianco
Plesso di Motta Montecorvino
Prof.ssa Anna Rita Catignano
Prof.ssa Carmelina Vitacchione
Plesso di San Marco la Catola
Prof.ssa Antonietta Malaspina
Prof.ssa Marisa Marzano
Plesso di Volturino
Nell’ambito del progetto “Voci di donne“, noi alunni attraverso indagini e inchieste siamo riusciti a ricostruire storie,
aneddoti e pensieri di vita quotidiana e vissuta nelle nostre
piccole comunità. Questa raccolta non pretende di essere
una grande opera letteraria, ma solo dei grani di memoria del
vissuto a noi più vicino.
Un grazie a tutti quelli che con il loro impegno hanno
permesso di realizzarlo.
Gli alunni
Voci da...
... Carlantino
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Intervista allo storico del paese
Noi ragazzi della scuola secondaria di Carlantino
abbiamo aderito al progetto “Voci di donne”. I nostri
insegnanti, dopo averne presentato gli obiettivi e lo scopo, ci hanno esortato a trovare informazioni su donne
del nostro paese che si sono distinte in qualche campo
in particolare, e così sono iniziate le ricerche.
Tutti noi abbiamo chiesto alle nostre famiglie notizie a riguardo, ma i loro ricordi risultavano piuttosto
frammentari o distorti, così abbiamo deciso di rivolgerci
all’unica persona del paese che poteva darci una mano:
il signor Girolamo Josa, appassionato di storia e tradizioni locali, autore di diversi libri, nonché artefice di
molti alberi genealogici di famiglie carlantinesi presi in
esame addirittura dall’Università degli Studi di Napoli
per alcune ricerche di genetica.
Così, il 17 ottobre 2014, il signor Josa è stato invitato
nella nostra scuola per essere intervistato da noi sull’argomento del progetto. Una nostra compagna gli ha dato
il benvenuto, successivamente abbiamo iniziato a porgli
delle domande preparate in precedenza.
Dalle risposte dateci, in maniera dettagliata e corretta,
è emerso che il nostro paese non vanta donne che hanno
cambiato la Storia, tuttavia ce ne sono state alcune che
nel loro piccolo hanno contribuito a inculcare ideali e
insegnamenti attraverso la loro vita e il loro esempio.
Tra queste, il signor Josa, ha menzionato la signora
Donna Maria Fusco che si è prodigata per Carlantino
in molte occasioni aiutando i più poveri, insegnando
alle ragazzine a ricamare e ai ragazzi i precetti religiosi,
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Incontro con il signor Josa
donando inoltre alla parrocchia alcuni locali. Dal momento che il signor Josa aveva portato con sé una parte
di quei famosi alberi genealogici, una nostra compagna
gli ha chiesto informazioni sui suoi antenati, rivelando
di aver trovato tempo fa una bellissima testimonianza
di vita… un diario di famiglia.
Particolare dell’albero genealogico del Signor Josa
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Una meravigliosa scoperta
Io sono Emanuela,
una normale adolescente che viaggia senza
mezzi di trasporto, cioè
molto con la fantasia.
Voglio narrarvi di una
persona… no, non si
tratta di me, ma di una
Emanuela Capozio
donna incredibile.
È iniziato tutto in quel
giorno di pioggia. Leggevo il mio libro, quando una voce
mi interruppe: “ Emanuela, per favore vai a prendere su
in soffitta le luci di Natale?”. Era mia madre che è solita
interrompermi sempre sul più bello. Urlai: “Vado!”.
Salii per le scale ed entrai nella stanza e, scovando,
trovai uno scatolone; lo aprii e quello che all’apparenza sembrava un ricettacolo di giornali e cianfrusaglie,
diventò un forziere ricco di tesori; intendo dire perle di
vita, storie, fotografie, racconti, lacrime e soprattutto
insegnamenti.
Era pieno di cose, ma mi colpì una in particolare: un
diario. Nella prima parte, datata 1976, si presentava
una donna che spiegava come, all’età di 76 anni, aveva
deciso di scrivere queste pagine e di lasciarle in eredità
ai suoi cari.
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Carlantino, 5 febbraio 1976
Io Coscia Maria Giovanna scrivo questo diario per lasciarvi uno scritto della mia vita.
Miei cari figli, questo è il ricordo che voglio lasciare e vi
assicuro che tutto quello che scrivo è la pura verità.
Sono venuta al mondo il 14 febbraio 1900, mia madre aveva
46 anni e mio padre 45.
Particolare dell’albero genealogico della Fam. D’Amelio
Mi hanno chiamato Maria Giovanna e mi hanno accolto con molta gioia, anche se ero l’undicesima figlia. Mi
consideravano l’ultimo fiore della loro vita e, data la loro
età, erano molto contenti del dono mandatogli da Gesù.
Mia madre diceva che ero piccolissima, ma molto bella ed
intelligente, mi chiamavano la farfalletta. […] Mio padre
era pazzo di me ed anche io lo adoravo. Appena tornava dalla
campagna, mi baciava e mi faceva sedere sulle sue ginocchia.
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Mia madre invece si divertiva a vestirmi e pettinarmi; ricordo
che avevo dei bei capelli lunghi ed ondulati che lei era solita
legarmi con due fiocchetti. Mi metteva un vestito con l’elastico
in vita, molto arricciato.
Ero una bambina molto vivace, giocavo e saltavo tutto il
giorno e chiunque mi guardava scoppiava a ridere. Mio padre
era molto fiero di me e mi proteggeva da tutti. Ricordo che il
mio primo gioco fu quello delle cinque pietre. Ero talmente
abile che quando giocavo con le mie amiche vincevo sempre e
tornavo a casa con tutte le spille che avevo vinto. Mi piaceva
molto anche cantare e ballare, infatti, conoscevo tutti i canti
e tutti i balli. Quando poi c’erano le belle giornate, prendevo
la mia sediolina e mi sedevo davanti casa, tutti quelli che passavano si fermavano
per ascoltarmi e darmi
un bacio. Questa vita
è continuata fino a sei
anni, quando i miei genitori mi mandarono a
scuola. […]
Maria Giovanna da giovane
Naturalmente scesi di sotto e corsi a
chiedere a mia madre
chi fosse quella misteriosa “scrittrice”.
Lei disse che non sapeva chi potesse essere. Cercai per tutto
Carlantino il viso di
questa donna, ma
la risposta era sempre stata vicino a me.
Andai da mia nonna
che, sfogliando il dia-
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rio, ritrovò in quelle parole la sua mamma, cioè la mia
bisnonna.
La sera ricominciai a leggere il mio libro di avventura
che adesso non sapeva di niente. Ripresi il diario e iniziai
a sfogliarlo. Pagina dopo pagina scoprii che essendo
nata nel 1900, la mia bisnonna aveva vissuto le terribili
conseguenze della Grande Guerra di cui conservava un
ricordo vivo anche da anziana.
[…] Era il 1918 e in Italia arrivò la Spagnola che colpiva
le persone malate e le donne incinte. Purtroppo morì anche
mio padre lasciando una moglie di 64 anni, mia sorella di 21
anni che era fidanzata e si doveva sposare, mio fratello […] e
me che avevo appena compiuto 18 anni.
Mia madre, ormai anziana, non faceva che piangere per la
perdita di papà e noi, vedendola così disperata, piangevamo
con lei. […]
Presto restammo senza pane e fummo costrette a lavorare a
giornate da un fratello di mamma. Lavoravamo in campagna
tutta la settimana, in cambio della cena e di quattro chili di
pane a fine settimana, pane che noi consegnavamo a nostra
madre che era vecchia e aveva un braccio leso. Nonostante
tutto mia madre si sforzava per non farci mancare il necessario. Infatti, dei quattro chili di pane che le portavamo, ne
mangiavamo solo una parte e il resto lo conservava per eventuali giorni di pioggia in cui non avremmo potuto lavorare,
sosteneva che avremmo in ogni caso dovuto mangiare e che lei
non lavorando poteva sopravvivere anche con un solo pasto
al giorno.
Vi racconto queste cose per descrivere la miseria in cui
eravamo cadute. […]
All’apparenza mi sembrava la storia di una donna
semplice nata a Carlantino e da lì partita, subito dopo
la Grande Guerra, per intraprendere un viaggio tor-
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mentato ma carico di speranza, com’è stato per molti a
quell’epoca.
In quelle parole si rifletteva una realtà diversa dalla
mia, eppure così simile…
[…] Ora però voglio parlarvi della mia partenza per l’America avvenuta il 26 marzo 1919.
Si trattava del primo imbarco dopo la guerra con una nave
che si chiamava “Patria”. Siamo partiti da Carlantino in sedici, con un carro trainato da due cavalli ed abbiamo impiegato
quasi un’intera giornata per arrivare a Lucera da dove, con
una “lettorina”, siamo andati a Foggia per prenotare il treno
per Napoli.
Siamo arrivati a Napoli alle dieci di sera e il sopragente ci
ha portati in un albergo per dormire. Il giorno, alle sei, dopo
esserci svegliate, siamo andate al Consolato per ottenere il
visto per l’espatrio. Trovammo una fila interminabile tanto
che riuscimmo ad avere il visto all’una di pomeriggio. Poi il
sopragente ci ha accompagnate al porto, dove era ormeggiata
la nave e siamo salpati da Napoli alle cinque del pomeriggio. I
marinai fecero suonare tre volte la sirena. La sera ci hanno dato
da mangiare e ci hanno portato a dormire in uno stanzone. Io
non ho dormito, ma ho pianto tutta la notte perché non capivo
dove stavamo andando.
Il giorno dopo siamo arrivati a Palermo e abbiamo visto la
terra che si allontanava lentamente. Quando la sera andammo a dormire osservai attentamene le coperte e mi accorsi che
erano quelle dei militari e che erano piene di pidocchi così
grossi che sembravano scarafaggi e che facevano camminare
le coperte da sole. Le feci vedere a mia madre che cominciò a
piangere e restammo tutta la notte sulla scala della nave senza
dormire.
Il giorno successivo facemmo vedere i pidocchi agli altri
passeggeri che si arrabbiarono e si lamentarono con il Capitano. Questi, quando vide le coperte, rimase sbalordito, ordinò
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immediatamente che venissero disinfestate le camere e che ci
venissero consegnate delle coperte pulite.
Nonostante le premure del Capitano, io e mia madre eravamo spaventate e non dormimmo per tre notti. Il pranzo
consisteva in una pasta con lenticchie e torsoli di cavolo, che ci
sembrava disgustosa, nonostante la fame, e la sera alici piene
di sale e di ruggine. Il viaggio è stato lunghissimo, è durato 16
giorni e 16 notti, non so quanto mare abbiamo attraversato,
non si vedeva altro che cielo e acqua. Sono stati giorni molto
duri, senza dormire e senza mangiare, mi si erano persino
marciti i denti, riuscivo solo a piangere.
Quando stavamo per avvicinarci a New York, il Capitano
ci svegliò per farci vedere la Statua della Libertà. Uscimmo
sul ponte della nave e vedemmo una “donna” tutta nuda con
una striscia che le copriva la vergogna e sul seno c’era scritto:
”Viva la libertà”. Non so descrivervi la gioia che provammo
nel rivedere finalmente la terra, tutti si misero a piangere. Il
Capitano fece un discorso e disse che non dovevamo piangere, ma dovevamo ringraziare Gesù per averci dato la forza
di affrontare un viaggio così lungo e faticoso, che dovevamo
essere contenti di essere arrivati in America giacché quello
era il primo viaggio dopo la guerra e che ci sarebbe potuto
accadere qualunque cosa.
Io e mia madre aspettammo fino alle nove quando arrivò
mio fratello che ci prese in consegna. Ma dopo il triste viaggio
le sorprese non erano ancora finite, infatti, appena arrivate
trovammo le fabbriche tutte chiuse. […]
Andai avanti a leggere dell’esperienza di Maria Giovanna a New York. È difficile pensare a quella realtà in
crisi, ma all’epoca era proprio così, infatti, le fabbriche
erano chiuse, ma Maria Giovanna trovò ospitalità dal
fratello che nonostante fosse senza lavoro accolse lei, la
mamma e la sorella senza chiedere denaro in cambio,
almeno fino a quando non avessero trovato un’occupa-
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zione. Fortunatamente un giorno riuscì ad ottenere un
posto in fabbrica.
All’inizio era confusa dal rumore assordante dei
macchinari e dalla velocità del lavoro, ma poi si abituò
e riuscì a superare tutte le paure e le difficoltà di chi
proviene da una realtà di paese, totalmente diversa da
quella della grande città.
[…] Arrivò però finalmente il momento in cui le fabbriche
ricominciarono ad aprire. Mio fratello ci diede un elenco dei
posti in cui dovevamo andare e cosa dire per chiedere di lavorare. Per molti giorni girammo inutilmente in tutte le fabbriche
senza avere risposta. Tornavamo a casa stanche e affrante,
non avevamo neanche la forza e la volontà di mangiare. Mia
madre cercava di rincuorarci ed era convinta che con il tempo
le cose si sarebbero aggiustate.
Era ormai maggio, mese in cui a Carlantino si festeggiava la
Madonna dell’ Annunziata e noi Le portavamo i fiori raccolti
in campagna.
Così il primo maggio ci siamo alzate, come al solito, e abbiamo deciso che, se quel giorno la Madonna ci avesse fatto trovare
lavoro, noi tutte avremmo spedito una parte dei soldi guadagnati, per i fuochi d’artificio da sparare il giorno della festa.
Può sembrare strano, ma quel giorno trovammo tutte
lavoro in una fabbrica di munizioni che aveva appena aperto.
Non so come descrivere la gioia che provammo quel giorno,
eravamo così euforiche che non riuscimmo più a ritrovare la
strada di casa.
Il giorno dopo ci alzammo per andare a lavoro, ma quando
arrivammo ci prese lo sconforto per tutte le macchine che si
trovavano in quella fabbrica e per il rumore assordante che
ci impediva addirittura di sentire quello che ci diceva il capo.
Il nostro lavoro consisteva nell’inserire in casse di legno
dei pezzi che uscivano da un nastro trasportatore. Il nastro
però scorreva molto velocemente e i pezzi erano coperti di colla
calda che non doveva raffreddarsi.
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Il primo giorno il capo ci fece affiancare da una signorina
italiana che, visto il nostro sconforto, ci consolò assicurandoci
che i primi giorni era normale non riuscire a prendere tutti i
pezzi, ma con il tempo saremmo state in grado di fare da sole
tutto il lavoro. La sera tornavamo a casa distrutte e pensavamo
che il lavoro era troppo pesante per noi e che non ci saremmo
mai abituate al rumore. Nonostante tutto continuavamo ad
andare in fabbrica e dopo una settimana, ci hanno consegnato
la prima busta paga con dentro dieci dollari. Per noi era la
prima busta ricevuta e ci siamo ricordate immediatamente
della promessa fatta alla Madonna.
Abbiamo quindi spedito i soldi a mia sorella Antonietta, che
ha esaudito il nostro desiderio facendo fare un fuoco intorno
a tutta la Cappella.
Dopo la prima settimana il lavoro ci sembrava più sopportabile, la paga era aumentata e la sera non volevamo smettere
di lavorare. Dal momento che lo straordinario era pagato il
doppio, chiesi al datore di lavoro di farmi lavorare più ore.
Lavoravo in tutto dodici ore al giorno, dalle sei della mattina
fino alle sei di sera, non mi fermavo neanche per la pausa del
pranzo. Il mio unico pensiero era di guadagnare abbastanza
per poter ripagare il debito a mio fratello. […]
Non spendevo niente per mangiare, pensavo che quei soldi
mi sarebbero serviti per tornare in Italia. […] In fabbrica però io
non ho mai mangiato e, quando suonava la sirena per la pausa
e le mie amiche andavano a mangiare, io correvo a chiudermi
in bagno per non far capire che non avevo comprato il pranzo.
Non facevo parola della mia situazione nemmeno con mia
madre per non darle dispiacere, ma ricordo che al mio ritorno
a Carlantino avevo ventitré anni e pesavo trentadue chili.
Grazie, però, al mio sacrificio sono riuscita in tre anni a
restituire i soldi. […]
Quindi decise, nonostante il parere contrario della famiglia, specialmente di suo fratello, che l’amore
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avrebbe prevalso e che sarebbe ritornata in Italia per
riabbracciare il suo fidanzato, che intanto la aspettava
a Carlantino.
[…] Partii dall’America il 15 giugno e arrivai a Carlantino il 24 giugno 1923, nove giorni di navigazione sulla
nave Giuseppe Verdi che era molto diversa da quella che ci
aveva portato in America. Era una nave pulita e si teneva la
Messa tutti i giorni. […] Quando sono arrivata a Carlantino, il 24 giugno, a Celenza c’era la festa di San Giovanni.
La banda dopo aver suonato a Celenza venne a Carlantino
per la festa di Sant’Antonio. […] Non potete immaginare
la mia gioia nel rivedere il mio fidanzato dopo quattro anni,
di poter stare di nuovo insieme, andare insieme a messa e
alla processione, ci sembrava di toccare il cielo con un dito.
La gente non riusciva a capire come avessi fatto a lasciare
la mia famiglia in America e a tornare a Carlantino per lui.
[…] Così il 2 settembre ci siamo sposati e da quel giorno la
mia vita è cambiata. […]
Tornata dunque in Italia, la vita non fu facile per
Maria Giovanna: dovette lavorare per tre anni come
becchina e pulire per tre volte a settimana le strade di
Carlantino. Era un lavoro difficile, ma con forza e perseveranza riuscì a resistere pur di sfamare la famiglia.
[…] Noi non avevamo più soldi e dovemmo fare il debito
ancora una volta. Notte e giorno pensavamo che se non avessimo pagato avremmo dovuto vendere la casa; io piangevo
ed ero incinta del secondo figlio. Poi un giorno pensai che
potevamo fare domanda al Comune perché assumessero mio
marito come becchino. [...]
Il Podestà ci conosceva, la moglie era stata la mia balia e mi
aveva anche cresimata, così accolse subito la nostra richiesta.
La paga era di duecento lire al mese e il lavoro consisteva nel pu-
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lire il paese tre giorni alla settimana e quando qualcuno moriva
bisognava portarlo in Chiesa e il giorno dopo al Cimitero. […]
Nonostante però questo lavoro, non solo non riuscivamo
a pagare i nostri debiti, ma dal momento che era nato anche il
secondo figlio, non potevamo soddisfare nemmeno le normali
esigenze di una famiglia di quattro persone. Così pensai che
mio marito poteva tornare a lavorare in campagna mentre io
potevo tranquillamente fare il suo lavoro di becchino.
La mattina mi alzavo di buon’ora, prendevo il mulo, i tini,
la scopa e la pala e cominciavo a pulire, prima la piazza poi la
seconda strada e infine la terza strada. Dovete sapere che allora
il paese non era com’è adesso, le case non avevano i bagni e
tutte le persone, grandi e piccini, facevano i loro bisogni fuori;
le donne spazzavano la casa e buttavano fuori l’immondizia,
così fino alla sera le strade erano interamente coperte di sporcizia. Per pulire tutto ci voleva uno stomaco da cavallo e la
sera quando tornavo a casa non avevo voglia né di mangiare
né di bere tanto ero stomacata dall’immondizia vista e raccolta.
Quando poi moriva qualcuno, per portare la bara erano
necessarie quattro persone: due becchini erano dipendenti del
Comune e altri due li pagavano i familiari.
La tariffa era di dieci lire per portare il morto prima in
Chiesa e poi al cimitero. Se moriva una persona dell’ultima
strada per arrivare al cimitero bisognava fare una strada tutta
in salita. Pensate che per la fatica si scorticava la schiena e la
piaga guariva dopo un mese. Ma pur di guadagnare dieci lire
e non essere costretta a vendere la casa io e mio marito abbiamo
portato tutti i morti al cimitero.
Tutta la famiglia si vergognava del mio lavoro e anche mio
marito non era contento del fatto che una donna portasse le
bare. Io però gli facevo capire che era molto più importante
guadagnare i soldi necessari per pagare i debiti. Così ho continuato a fare il lavoro da becchino insieme a mio marito e se
moriva un bambino, andavo solo io. Infatti, la bara piccola
potevo portarla in testa senza l’aiuto di nessuno. […]
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Quando le fu tolto il lavoro di becchina Maria Giovanna si demoralizzò, ma non si lasciò abbattere e in effetti
poco dopo riuscì ad ottenere la gestione di un forno.
Certamente non fu un lavoro facile perché per tutto il
giorno respirava polvere e si affaticava molto, tuttavia
garantì a lei e alla famiglia il sostentamento.
[…] Ora vi racconterò come è cominciata la storia del forno: queste persone avevano un forno in casa, ma ormai erano
vent’anni che non veniva più usato. […]
Ero disperata e piangevo ormai da giorni perché ci avevano
tolto il lavoro da becchino, quando una notte mi venne in sogno
Donna ***e mi disse che non dovevo più piangere, […] mi disse
di andare a chiedere a suo figlio di affittarmi il forno, così con
il pane che avrei fatto potevamo guadagnare. […] Cominciai
subito a cuocere il pane, ma mai avrei pensato che tutto il paese
si sarebbe rivolto a me, tanto da dover fare sei forni al giorno.
La sera tornavo a casa con tanto pane da sfamare tutta la famiglia e ne avanzava
anche. Tutte le persone per bene venivano a comprare il
pane da me perché
era ben cotto. Così
per tredici anni ho
fatto questo lavoro, inginocchiata
davanti al forno
a respirare fumo
e cenere. Ma
dovevo farlo
perché avevo
una famiglia
numerosa da
sfamare.
elio
’Am
Fam. D
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Mio marito mi aiutava come poteva, il giorno andava in
campagna e la notte andava a prendere la paglia, io invece facevo il giro del paese per prendere le ordinazioni dalle persone.
Il periodo più brutto è stato durante la Seconda Guerra
mondiale perché in casa non avevamo provviste e la notte mio
marito andava scalzo in campagna, i piedi erano talmente
induriti che non si infilavano più neanche le spine. Tutti i
miei sacrifici erano rivolti al bene dei miei figli, volevo che
non avessero la mia stessa sfortuna, avrei sempre voluto proteggerli dal vento, dal sole e dalla pioggia. […]
Nonostante non abbia avuto una esistenza facile questa donna non si è mai lasciata travolgere dagli eventi
negativi, ma è andata avanti con forza e sangue freddo,
riconoscendo le cose belle e veramente importanti della
vita, tra le quali l’istruzione che, senza dubbio, per lei
ha rappresentato la possibilità di riscatto per se stessa
e la sua famiglia.
[…] Da parte mia ringrazio i miei genitori di avermi
dato la possibilità di andare a scuola, perché nel 1919 dopo
la guerra, solo chi era istruito poteva imbarcarsi per l’America. […] Sono convinta anche del fatto che chi sa leggere
e scrivere ha la vita moltiplicata per tre dalle cose che può
imparare dai libri.
Anche se ho smesso di andare a scuola a 11 anni, ancora
oggi, a 76 anni, mi piace leggere e scrivere e voglio continuare
a fare tutti i miei lavori. […]
Ho fatto studiare tutti i miei figli perché sono convinta che
chi sa leggere e scrivere ha quattro occhi che permettono di
camminare notte e giorno e di leggere i cartelli che ti indicano
la strada giusta. [...]
Quel diario lo divorai, perché già dalle prime pagine
capii che mi avrebbe dato qualcosa. Non avendo però
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avuto la fortuna di conoscere la mia bisnonna, ho pensato di rivolgermi a lei con una lettera immaginaria.
Cara nonna,
grazie perché mi hai fatto conoscere l’importanza dell’istruzione, e che ci sono state persone che hanno messo a rischio la
propria vita, a causa della guerra o intraprendendo pericolosi
viaggi, per dare a noi un “Oggi”.
Grazie perché ho capito che chiunque può fare la Storia; mi
hai fatto comprendere l’importanza di un sogno, e che è vitale
avere sangue freddo per inseguirlo.
Grazie a te ho inteso che il presente ha avuto un “passato”
e che tutti sono stati quello che sono io adesso; che la vita va
vissuta con i suoi alti e bassi e che tutto può migliorare.
Grazie a te la mia famiglia è quello che è; mi hai insegnato
che l’età non conta, se realmente si crede in qualcosa.
Insomma, ti ringrazio per aver fatto parte della mia vita e
mi dispiace di non averti conosciuta personalmente.
Tua nipote Emanuela.
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La signora Maria Giovanna e sua nipote
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Classe I C
Donato Rosario Carozza - Fiorello Coscia - Giambattista Coscia - Luisa Coscia - Sonia De Marco - Maria
Assunta Guerrera - Jennifer Morrone -Giovannangela Pia Pirro - Erika Pisani - Ylenia Pisani - Giada
Pia Spallone - Romina Zelia
Classe II C
Teresa Celeste Accetturo - Emanuela Capozio - Maria Michela Cicchetti - Antonio Coscia - Michele Coscia - Pasquale Coscia - Raffaele Genovese - Giuseppe
Pio Guerrera - Paola Miranda - Nicoletta Morrone
- Antonio Pio Morrone - Fiore Santalucia
Classe III C
Lucia Donatella Accetturo - Elena Capozio - Deborah Coscia - Elisabetta Pia Coscia - Simone Coscia
- Anna Pisani - Grazia Pisani - Antonio Salcito
Una menzione particolare va all’alunna Emanuela Capozio
che ha curato e redatto, in collaborazione con le docenti, la
stesura del racconto pubblicato.
... Cele
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La classe II A, nel ricercare donne che avessero compiuto
qualcosa di importante per il proprio territorio, ha appreso di
una donna davvero eccezionale, sia per quello che è riuscita
a realizzare, sia perché ha agito in un periodo in cui le donne
non erano dedite alla politica, agli affari e a prendere decisioni
importanti. Il suo nome è Eleonora Siscar, figlia di Paolo Siscar, conte di Cosenza. La sua vita sarebbe potuta essere priva
di qualsiasi nota di merito, se il suo destino non le fosse stato
tanto avverso. Infatti le scelte politiche poco felici del marito,
Carlo Gambacorta, barone di Celenza Valfortore, hanno fatto
sì che le doti eccezionali di questa energica e virtuosa donna,
come la definisce M. Cerulli nella sua opera, si manifestassero
e giungessero fino a noi.
Gli alunni della II A, dopo aver svolto diverse ricerche,
hanno deciso di trascrivere quanto appreso come se fosse la
stessa Eleonora a narrare gli eventi, da un punto di vista
affatto soggettivo, in una sorta di diario. Si sono interrogati
circa quali sentimenti dovesse provare questa nobildonna
e, pertanto, hanno aggiunto considerazioni, che non sono
presenti in alcun libro di cronistoria locale. Grazie a questo
lavoro hanno capito meglio le dinamiche della micro-storia
e della Storia, soprattutto riflettendo sul Sacco di Roma nel
1527 e la devastazione di Celenza nel 1528.
36
Fortezza di Celentia ad Valvam, 31 maggio 1543
È da giorni che si è insinuato nel mio cervello questo
tarlo, non riesco in nessun modo a togliermelo dalla
mente. E poi è giusto così, soprattutto nei confronti di
Carlo. Vedova prima del tempo, devo raccogliere tutte
le riflessioni, che ho scritto in questi anni di dura lotta,
sostenuta solo dalla speranza di un futuro migliore per
i miei figli e dal desiderio di riscattare l’onore dei Gambacorta, e devo consegnarle a mio figlio Giampaolo,
perché faccia le scelte giuste e possa vivere a Celenza
con Costanza, figlia dell’uomo che ho ritenuto per anni
l’Usurpatore.
1495
Lo sapevamo che sarebbe stato un azzardo quello
di appoggiare i Francesi, ora ne paghiamo lo scotto.
Carlo aveva deciso così ed ora devo andar via dal mio
castello… Carlo con i suoi fratelli si trova a Napoli,
prigioniero degli Aragonesi, che lo hanno punito per il
suo comportamento, ma solo a mio marito hanno tolto
tutti i beni, anzi i suoi feudi sono passati nelle mani del
fratello Francesco. Che assurdità! Eppure Federico dovrebbe sapere che è stato proprio suo cugino a tradirlo
e ad allearsi con i Francesi. Sì, proprio quel sant’uomo,
il Cattolico! Così Ferdinando spera di ottenere il regno
di Napoli e con la Sicilia e la Sardegna diventare il più
potente dei re della zona. Folle! I Francesi non glielo
permetteranno mai!
37
1501
Oggi ho appena saputo che Federico ha consegnato
il suo regno a Luigi XII… spero di poter riabbracciare
presto mio marito, ma le voci non sono rassicuranti.
Tutti conosciamo la perfidia degli Spagnoli. Dopo il tradimento pretenderanno tutti i possedimenti del regno
di Napoli e non credo che i Francesi saranno disposti
a rinunciare. Di certo le due parti non terranno fede al
trattato di Granada.
Carlo mi ha riferito nella sua missiva che ha buone
speranze di riabbracciare tutti noi, dal momento che
Federico ormai ha perso e che lui ora dovrebbe essere
riconosciuto come alleato degli spagnoli. Sinceramente
io sono sfiduciata…
1503
Sono passati due anni e non ancora posso rivedere
il padre dei miei nove figli. Giovanni Paolo non fa altro
che chiedermi di Carlo, non ricorda più il suo volto, la
sua voce… sono davvero disperata!
Mi è stato riferito da fonte certa che il generale spagnolo, Consalvo di Cordova, è stato costretto a rifugiarsi
a Barletta, già da sette mesi. Due anni fa non mi sbagliavo, né gli Spagnoli né i Francesi sono disposti a cedere,
a loro non basta la metà: vogliono tutto. Tanto la guerra
non sta distruggendo i loro territori, non sono le loro
mogli o i loro figli a subire tutte queste umiliazioni.
38
30 maggio 1503
Il messo mi ha appena riferito che Consalvo è stato
accolto a Napoli come liberatore la settimana scorsa. Forse potremo rivedere Carlo! Il generale spagnolo è salvo
grazie al coraggio di tredici eroi italiani, tra questi c’era
anche un certo Miale da Troja. Tredici italiani hanno
sfidato e vinto tredici militari francesi, nei terreni che si
estendono tra Andria e Corato, il 13 di febbraio. Spero
solo che ora Luigi XII accetti la sconfitta.
17 dicembre 1503
I Francesi non hanno accettato la sconfitta: prevedibile! Le battaglie sono all’ordine del giorno. Mi è stato
riferito che l’esercito francese è stremato. Ma io ormai
sono del tutto sfiduciata.
20 gennaio 1504
Luigi XII finalmente, dopo la capitolazione di Gaeta,
ha riconosciuto Ferdinando re di Napoli. Ho iniziato a
sperare di nuovo, sono al settimo cielo, ma ho paura di
rimanere delusa.
27 febbraio 1504
I tempi si allungano… vivo nell’attesa del ritorno di
Carlo, le ore mi sembrano anni, i giorni secoli… Carlo
mi dice di non disperare: è solo una questione di tempo.
Mi rassicura che ritornerà addirittura da padrone. Al
momento non voglio e non posso farmi illudere, vivo
così ormai da nove anni.
39
1508
Sono passati quattro anni dall’ultima volta che ho
preso questi fogli per appuntare le mie riflessioni. E sono
passati tredici anni d’inferno dalla prima volta che ho
iniziato a scrivere… inferno non certo voluto da Carlo;
quando due potenze si schierano bisogna decidere da
che parte stare e questo ha fatto Carlo Gambacorta,
signore di una piccola baronia, per cercare di salvaguardare il proprio territorio, i suoi sudditi e i propri eredi…
tutto vano! Ora sembra (quanti anni di “sembra!”) che
tutto si stia risolvendo per il verso giusto. Vorrei vedere
dopo l’aiuto che ha ricevuto Ferdinando da mio marito!
È stato dichiarato traditore, ha perso la libertà e i beni.
A giorni Carlo ha un incontro con il Viceré, Giovanna
d’Aragona, che deciderà sulla sua sorte.
Sì, l’incontro è stato positivo… che gioia! I miei figli
rivedranno il padre ed io mio marito!
Ho potuto riabbracciare mio marito e possiamo ritornare nel nostro amato castello. Il Viceré ha stabilito che i
possedimenti devono ritornare nelle mani di Carlo, che,
come indennizzo, deve versare al fratello Francesco ogni
anno cinquanta ducati dai duecento concessigli dalla
“Cattolica Maestà”…
1528
Ero certa che non avrei più scritto nulla su questi
fogli… illusa! Anzi questi fogli sparsi sono tra le poche
cose che sono riuscita a salvare. A Carlo sono stati confiscati tutti i beni… è già da una settimana che è andato
via da Celenza. Questa volta non ci sono speranze,
l’imperatore non lo perdonerà per il suo tradimento.
Avevo implorato mio marito perché non appoggiasse il
40
generale francese Lautrech. Carlo V, dopo che ha acquisito con l’inganno il titolo di imperatore, è divenuto il
sovrano più potente di tutti, nonché il più vendicativo.
Già dopo lo scorso 6 maggio a Roma, Sua Maestà imperiale non si è smentito. Due giorni fa le truppe imperiali,
guidate da Pietro Rossi e da Fabrizio Marramaus, hanno
saccheggiato e bruciato il nostro tenimento.
Non ho parole per descrivere la mia delusione: il Castello della Valva, che mio suocero Giovanni aveva iniziato
a costruire e che Carlo ed io avevamo portato a termine
nel 1519, è stato completamente distrutto dalle truppe
imperiali, forse sarebbe meglio dire dai barbari imperiali.
2 luglio 1530
Dopo il marito, mi è stato tolto anche Gian Vincenzo,
il mio adorato figlio, generale d’artiglieria, che, come
suo padre, aveva tradito l’imperatore… è partito esule
col principe di Melfi verso Angoulème. Ora so che morirò senza il conforto di Carlo e di Gian Vincenzo.
1533
Avevo perfettamente ragione: per Carlo Gambacorta non ci sono più speranze. La Baronia di Celenza è
passata a Girolamo Tuttavilla, con Decreto Regio dell’8
aprile. In questo decreto mio marito è definito un fellone,
perché non sottomesso ai comandi dell’imperatore… i
signori di piccoli territori sono meno liberi dei propri
sudditi! Ora i nostri tenimenti sono passati ai Tuttavilla,
perché Girolamo si è dimostrato “fedele”, pertanto viene in questo modo ricompensato per i “servigi prestati”
contro i Turchi nel Peloponneso.
41
Fin quando era il fratello di mio marito, Francesco
Gambacorta, ad essere chiamato signore della Baronia
di Celenza, potevamo sperare di ritornare ad essere “i
signori baroni”, ma ora non c’è un minimo barlume di
speranza…
Ma io faccio solenne giuramento, per l’onore dei miei
figli, per l’onore dei Siscar miei ascendenti, per l’onore di
mio marito, che io riuscirò a riscattare questi territori e che
i Gambacorta torneranno ad essere i signori di Celenza.
Dicembre 1541
Ho ricevuto tempo addietro la risposta alla mia
richiesta, perché la mia prole, nonostante discendente
da un “ribelle”, possa ereditare i miei possedimenti.
L’imperatore ha accolto questa mia petizione, così i
miei figli, alla mia morte, erediteranno le baronie di S.
Giovanni Maggiore e di Puzzano, che il 22 luglio 1530
comprai con i trentamila ducati, che il Conte di Aiello,
mio padre, mi diede quando mi sposai, come dote. Ora
non mi resta che ratificare presso la Regia Tesoreria questo privilegio, con la modica cifra di seicento ducati! Ma
non mi ritengo ancora soddisfatta: i Gambacorta devono
tornare ad essere i signori di Celenza.
24 maggio 1543
Ora ho raggiunto il mio scopo, Carlo può essere soddisfatto di me… senza false modestie devo dire che io
lo sono. Ieri ho acquistato, per ventiquattromila ducati,
la Terra di Celenza, grazie al privilegio di successione
ottenuto da Carlo V mio figlio Giampaolo sarà il prossimo barone di Celenza, un Gambacorta.
42
1549
Ho lottato strenuamente per riottenere i beni e i diritti
che Carlo aveva perso, ora sono di nuovo la Baronessa,
ma non mi sento felice, soddisfatta sì, ma felice non
certo. Fino a ieri almeno avevo l’assurda speranza di
riabbracciare Carlo, ma proprio ieri questa mi è stata
strappata… Carlo è morto, mi sento ancora più sola,
ma devo continuare a mantenere il mio contegno, dopo
tutto io sono la Baronessa…
Celenza, 1555
Carissima madre,
la mia ammirazione nei tuoi confronti, già esagerata, non
può che aumentare leggendo queste tue pagine. Sei stata e lo
sarai sempre per noi motivo di orgoglio. Nonostante le tante
avversità, non ti sei mai lamentata, non hai mai recriminato
sui presunti sbagli di nostro padre, anzi hai cercato di riscattare l’onore dei Gambacorta e, perché energica e virtuosa, ci sei
riuscita. Purtroppo queste parole non le potrai mai ascoltare…
ma mi piace pensare che dal Cielo tu possa venire a conoscenza
dei miei pensieri e del mio amore nei tuoi riguardi. Di questo
sono certo: tu sei in Paradiso! Durante le tue esequie è apparso
un uccelletto bianchissimo, che è volato via al termine della
cerimonia. Tutto il tuo popolo è rimasto ammirato per l’evento
e ha pensato che l’uccello altri non era se non la tua anima. E
questo lo penso anch’io.
Addio Mamma.
Giampaolo Gambacorta.
43
Classe II A
Giusy Arpino - Francesco Canonico - Giannantonio
Caruso - Pasquale Codianni - Giuseppe Di Ianni - Aurora Di Vito - Giovanni Di Vito - Francesco Faioli
- Alessia Iamele - Emanuele Iamele - Emiliano Iosa
- Michele Lombardi - Nicla Maddalena - Antonio
Perrella - Tonia Rutigliano
... Motta Montecorvino
47
… verità nascoste
8 Gennaio 2010
Cara figlia mia,
alla fine della mia vita con tanto dolore ho il desiderio
di raccontarti un po’ della mia storia.
Io non so se ve ne siete mai accorti tu e tuo fratello,
ma la mia vita non è stata tanto semplice. Voglio cominciare dall’inizio: nella mia famiglia di origine non
mancava niente, c’era tutto, anche il rispetto, ma all’età
di diciannove anni ho incontrato tuo padre per la prima
volta ed è da qui che cominciò la mia sofferenza. Era
giugno, mi trovavo a una festa e lì l’ho visto. Si avvicinò
a me dicendomi, con aria arrogante, che a settembre ci
saremmo sposati, dopo che lui avrebbe mietuto, arato
e preparato il terreno per novembre. Io, perplessa e
confusa, non ebbi il coraggio di rispondere niente. A
settembre, puntuale, tuo padre si presentò a casa e decise, insieme ai miei genitori, la data delle nozze, la dote
da portare con me e il viaggio di nozze. Per un breve
periodo di tempo la nostra vita fu alquanto tranquilla,
sembrava una favola anche se tuo padre aveva degli
scatti di ira e io avevo un po’ paura. Tu sai che il lavoro
in campagna è molto duro: ci si alzava presto, la mattina
accudivo gli animali e poi venivo a svegliarvi, arrivavo
alla sera stanca morta. Nel frattempo il carattere di tuo
padre peggiorava fino a quando non uscì in tutta la sua
cattiveria: bastava una parola sbagliata e uno sguardo
diverso dal solito per picchiarmi. Avrei voluto un marito diverso. Un giorno io e tuo padre eravamo seduti
vicino al camino, lui mi fece una domanda. Io risposi,
48
ma lui notò in me un tono di voce diverso dal solito, si
alzò e con tanta violenza prese la sedia su cui era seduto
e me la diede in testa causandomi ferite. Così andai al
pronto soccorso e il medico, che ormai mi conosceva
molto bene, dati i miei ripetuti traumi mi chiese cosa
fosse successo. Io gli risposi che ero scivolata nella stalla.
Lui fece finta di credermi, ma già sapeva da che cosa o
meglio da chi erano state causate le mie ferite. Dal mio
matrimonio mi aspettavo un finale diverso con tanta
felicità e un po’ più d’amore. Nonostante tutto sono
contenta di avervi messo al mondo e di avervi dato tutto
l’affetto che durante il matrimonio, da parte di tuo padre,
non ho ricevuto. Ora tu, figlia mia, hai deciso si seguire
l’esempio del tuo malvagio papà e lo hai dimostrato
abbandonandomi, ma la mia gioia siete voi figli miei:
vi amo. Ora, cara, ti saluto continuando a vivere nella
speranza che un giorno possa finalmente riabbracciarti
e vivere con te gli ultimi anni della mia vita.
Con affetto,
tua mamma.
Caterina Cairelli
Giovanna Piccirilli
Antonella Valentino
49
Il brigantaggio al femminile
50
Dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie all’Italia, con a capo Vittorio Emanuele II di casa Savoia, sorse
un movimento di opposizione all’unificazione che toccò
quasi esclusivamente il Mezzogiorno: il Brigantaggio.
Anche nel nostro paese, Motta M.no, operarono,
guidati da Matteo Di Carlo, Giovanni Pepe, Pasquale
Romano e Tommaso Grampone, i briganti, uomini
fedeli al re Borbone Francesco II, chiamato dal popolo
“Franceschiello”. Per garantire la vita dei cittadini e le
proprietà private, per la tutela dell’ordine pubblico e per
la repressione di questo fenomeno, fu istituita anche in
Motta M.no, come in quasi tutti i paesi del Meridione,
la Guardia Nazionale, costituita da Carabinieri, soldati,
ma anche da gente del posto favorevole all’unificazione.
Secondo la visione tradizionalista della storia, il
termine brigante indicava gruppi armati di
delinquenti che depredavano, saccheggiavano e uccidevano,
vivendo alla macchia,
ma studi moderni hanno dimostrato che non
si trattava di fuorilegge
e assassini, ma di gente
stanca dei soprusi perpetrati dai piemontesi
a danno della gente del
Sud.
51
Così, dopo decenni di omissioni e di silenzi, sono
stati pubblicati studi e organizzate mostre che hanno
evidenziato la funzione che uomini e donne di diversa
estrazione sociale hanno ricoperto nel processo risorgimentale con le loro idee e il loro impegno nella lotta.
Alle rivolte che si svilupparono in tutto il Mezzogiorno tra la seconda metà del 1860 e del 1861, periodo
del cosiddetto “Grande brigantaggio”, partecipò un
numero alto di donne: tante donne che trovarono il
coraggio di opporsi a un esercito che avrebbe dovuto
essere garante di una rivoluzione sociale a tutela dei
diritti dei più deboli, delle classi sociali più svantaggiate,
ma che invece si mostrò garante, ancora una volta, delle
classi sociali più agiate.
Le donne che presero parte direttamente agli assalti
e alle depredazioni, erano tutte popolane che pagavano
direttamente le conseguenze dell’oppressione piemontese. Furono tante le donne, soprattutto parenti dei briganti, a lottare in prima fila e a rendersi protagoniste di
delitti, che furono perfino arrestate e poi liberate, dopo
alcune settimane, sotto la pressione popolare.
Verso la fine del 1861, la repressione del Governo
si fece spietata e feroce, costringendo le bande dei briganti ad abbandonare le proprie case e ad assumere
un’organizzazione più efficiente per sfidare le truppe
piemontesi. La tecnica che adoperarono fu quella della
guerriglia per evitare lo scontro frontale.
In una società fondata sulla forza, sulla violenza fisica
e morale, sull’onore, in questa organizzazione maschile,
le donne potevano avere solo un ruolo di supporto, in
quanto, al livello operativo e di comando, la presenza
delle donne era incompatibile con il codice culturale
vigente. Non c’è da stupirsi, quindi, che la presenza
delle donne nelle bande sia stata minima.
In Capitanata il numero delle attrici del brigantaggio
52
risulta essere di 35 su un totale di 1459 briganti, pari al
2,5%1. La Prefettura di Foggia, nel 1863, annoverava su
509 nominativi appena 8 donne, provenienti quasi tutte
dal Subappenino Dauno.
Qualche ragazza più insofferente, vide nella vita con
le bande un’occasione per sfuggire a un destino segnato
dalla miseria e dalla subordinazione: in una società contadina, nella quale l’uomo nasceva in profonda miseria,
senza diritti e senza proprietà, l’unico diritto e l’unica
proprietà che poteva rivendicare erano quelli sulle
proprie donne.
La maggioranza di queste donne ribelli era costretta a
sparire nei boschi per sfuggire all’arresto o alle violenze
dei militari. Infatti, tra le misure repressive c’era l’arresto
dei familiari dei briganti e le donne, madri, mogli, figlie,
sorelle e amanti, non sfuggivano a questa regola. Alcune
di esse furono condannate perché colpevoli di aver portato un po’ di cibo ai figli latitanti e quasi tutte conobbero
il carcere. Molte donne, proprio per sfuggire al carcere,
preferirono la vita libera e rischiosa delle bande accanto
ai propri uomini, e se c’era da fare a schioppettate non si
tiravano indietro. Volevano essere anch’esse delle vere
e proprie brigantesse, in grado di sparare, accoltellare
e uccidere. Avevano delle armi e spesso vestivano abiti
maschili. Venivano chiamate, con disprezzo, drude.
Soltanto poche donne, però, divennero molto importanti per il ruolo fondamentale svolto: molte di loro
assicuravano i collegamenti con i briganti, rifornivano
di viveri i propri uomini, venivano utilizzate, fingendo
di svolgere lavori nei campi, come vedette e informatrici
o agli incroci delle strade o nei punti di passaggio obGiuseppe Clemente, Il Brigantaggio in Capitanata. Fonti documentarie e anagrafe, Presentazione di Raffaele Colapietra,
Roma, Archivio Guido Izzi, 1999.
1
53
bligato per segnalare che le truppe stavano arrivando e
quindi dare modo ai propri uomini di scappare.
Alcune erano considerate delle vere e proprie spie,
pronte a indicare tutti i movimenti delle truppe piemontesi, altre portavano aiuto ai briganti o li nascondevano
in luoghi considerati sicuri, dimostrando amore continuo verso i propri parenti. Erano madri, mogli, sorelle
che si mettevano per strade di montagna o collina,
trovavano il coraggio di uscire di casa, osare contro la
legge, affrontare il buio, vincere la paura e sfidare la
sorte. Alcune di loro amarono i propri uomini al punto
da cavalcare un cavallo, imbracciare un fucile e morire
sulle montagne con loro per difenderli.
Tra gli avvenimenti che videro come protagoniste le
donne dei briganti nel nostro territorio, è da ricordare
quello del giorno 9 settembre 1860.
Alla periferia di Motta M.no arrivò un plotone di
vigili appartenenti alla
Guardia Nazionale che
perlustrava
la zona per
reprimere
gli atti vandalici dei
briganti.
54
La notizia era giunta per tempo in paese grazie alla
staffetta di informazioni portate avanti dalle donne
intente a lavorare nelle campagne circostanti.
Alcune di esse, terrorizzate, si erano chiuse nelle
cantine delle proprie case, altre, invece, erano pronte
a sfidare la Guardia Nazionale e andare ad avvisare i
propri parenti affinché si tenessero ben nascosti fino alla
fine della perlustrazione.
55
Intanto il plotone, giunto in paese, aveva cominciato a seminare il panico…
… tirando fuori con la forza quelli che erano considerati traditori e fuorilegge:…
56
… insultavano, malmenavano, torturavano indifferentemente uomini, donne, anziani e bambini per far
confessare loro i nascondigli dei briganti.
Queste scene di
violenza gratuita fecero temere che qualcuno potesse parlare.
Mentre la colonna di
soldati attraversava
le vie del paese, una
donna, certa Berenice
Ciaburri, discendente da nobile famiglia
napoletana, seconda
moglie di Matteo Petitti, ritenuto fuorilegge perché dedito
al brigantaggio, essendo molto pratica nel maneggio delle armi, al passaggio dei militari impugnò il suo archibugio e sparò
da un balcone…
57
… colpendo il cavallo su cui viaggiava il comandante
della Guardia Nazionale di Lucera, Gaetano De Peppo.
Da questo colpo prese avvio una sparatoria tra popolo
mottese e militari che durò quasi tutta la notte.2
Per quest’azione le autorità del Comune dovettero
recarsi a Foggia e dar conto, di persona, al Governatore
della Provincia.3
P. Gramegna, Motta Montecorvino. La sua vita attraverso i
secoli: dalle origini ad oggi. Foggia, Grafiche Leone, 1970, pp.
91- 92.
3
L’anno Mille ottocento sessantuno, il giorno 3 marzo in
Motta. Riunitosi il Decurionato nel solito locale delle loro riunioni, previo invito del Sindaco Presidente, il quale ci ha prospettato quanto appreso.
Il giorno 16 del mese di Settembre, il Governatore della
Provincia con suo foglio della stessa data trasmesso al Sindaco, al Capitano della Guardia Nazionale di Motta, per mezzo
del Capitano Comandante la Guardia Nazionale di Lucera ci
2
58
Mentre i soldati erano impegnati a difendersi dall’attacco dei cittadini insorti, incoraggiati dall’audacia di
questa donna, la stessa riuscì altrettanto audacemente a
uscire dal paese e a battere i sentieri più nascosti per mettersi in salvo e cercare l’aiuto delle bande dei briganti.
dice che si fosse recato in Foggia una commissione dei cittadini di Motta composta dai signori Sindaco, Capitano, Decurioni Alberto Calabrese, Francesco Lojacono, Costanzo Petti
cittadino, D. Aquilino Renzone, da D. Matteo Massenzio sacerdoti, onde presentarsi al Sig. Governatore per far conoscere il netto della disgrazia avvenuta fra i cittadini di Motta e
la Guardia Nazionale di Lucera e di altri paesi comandata dl
Capitano sig. De Peppo, cioè dello scambio di diverse fucilate
tirate vicendevolmente. […]
In P. Gramegna, Motta Montecorvino. La sua vita attraverso
i secoli: dalle origini ad oggi. Foggia, Grafiche Leone, 1970, pp.
91-92
59
Non per questo, però, la signora Ciaburri dimenticò
di essere, innanzitutto, una mamma: prima di mettere a
repentaglio la sua vita, si assicurò che i propri figlioletti
fossero al sicuro con i nonni.
Il suo secondo pensiero fu per il
marito. Infatti,
percorrendo
sentieri scoscesi e ricchi
di insidie, arrivò da lui e,
insieme, passando per i
boschi che sovrastano Pietra M.no, Castelnuovo della Daunia, Torremaggiore e
San Severo, dopo giorni di cammino, trovarono riparo
sotto il convento di San Matteo, a San Marco in Lamis.
60
Da qui il marito tornò alla lotta contro i piemontesi
a Motta M.no, mentre la donna condusse per due anni
una vita tranquilla cercando di coltivare delle amicizie.
In particolare confidò il suo segreto a una donna del
posto che, però, la tradì consegnandola alla Guardia
Nazionale.
61
Classe III E
Caterina Cairelli - Luca Di Carlo - Donato Lepore
- Carmine Limongelli - Pietro Papa - Giovanna Piccirilli -Antonella Valentino
I disegni sono stati prodotti dai ragazzi durante il Laboratorio
“IL FUMETTO”, tenuto dal prof. Germano Massenzio.
Si ringrazia la Direzione del Museo della Civiltà contadina
e delle Tradizioni popolari di Motta Montecorvino per la
documentazione storica relativa all’evento “I briganti della
porta accanto”.
a
M
n
a
... S
a
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a
C
rco la
65
I lavori, realizzati dagli alunni delle classi I, II, III B di San
Marco la Catola, presentano la condizione della donna nel
loro piccolo paese in passato e nella realtà odierna. La donna
di ieri, dedita solo alla famiglia, era moglie e madre attenta,
coraggiosa, instancabile, ma non di rado anche umiliata e
sottomessa. Oggi, invece, le donne sammarchesi non solo sono
spose e madri, ma lavoratrici e, in alcuni casi, per amore del
paese, dedite anche alla politica. San Marco la Catola, infatti,
vanta la presenza di donne, ”quote rosa”, che collaborano
nell’amministrazione del Comune.
66
Silenziosamente grandi
Quale il ruolo della donna
nella nostra piccola realtà?
C’è stata qualche donna
in particolare che si è
distinta in positivo per
il bene della nostra comunità?
Abbiamo chiesto in
giro a persone un po’
“più avanti negli anni”
ponendo loro tali domande e ci siamo resi conto che in realtà nel nostro
piccolo paese nessuna donna
ha avuto un ruolo di rilievo importantissimo, ma nel concreto la storia l’hanno resa
possibile donne comuni che nella loro quotidianità
hanno lottato e sostenuto la famiglia e l’intera comunità
sammarchese pur restando nell’ombra delle pareti domestiche, lasciando agli uomini l’aureola di protagonisti.
La donna ha sempre avuto un ruolo importante
per la famiglia a S. Marco. Durante la Seconda Guerra
mondiale, poiché quasi tutti gli uomini erano al fronte,
le donne ”tiravano avanti” la famiglia lavorando duramente soprattutto nei campi; portavano con loro, nelle
cunue messe sulla testa, i bambini piccolissimi. Non c’era
la scuola materna e i bambini più grandicelli venivano
affidati ad alcune donne che li accudivano durante la
giornata in cambio di cibo.
67
Le donne s’ingegnavano in tutti i lavori: lavoravano
col fuso la lana delle pecore e poi la tingevano nell’acqua
con il mallo delle noci, che le dava un bel colore beige
scuro. Non c’era l’acqua nelle case ed erano quasi sempre le donne ad andare ad attingerla con le conche alla
fontana o nei pozzi.
Il pane si faceva in casa ed erano solo le donne che se
ne occupavano. Le nostre nonne ricordano che il lavoro
cominciava dalla pulizia del grano che si metteva su un
tavoliere, si scartavano i chicchi non buoni e poi si portava
al mulino per farlo macinare. Una donna, la fornaia, di
giorno andava da chi doveva impastare il pane per ben
tre volte: una prima volta diceva di iniziare ad impastarlo; più tardi, dopo che la pasta era lievitata, diceva
di fare le pagnotte e un’ultima volta di portarle al forno.
Tante donne, soprattutto quelle più povere, si alzavano al mattino presto per andare a cercare la legna da
utilizzare per riscaldare i propri figli. Tante altre andavano a raccogliere le cicorie selvatiche e le portavano a
casa delle famiglie più benestanti per avere un piatto di
farina e un pezzo di lardo in cambio.
Non c’era acqua in casa e per lavare i panni alcune
donne li radunavano e li portavano a lavare al fiume;
li stendevano sulle siepi e la sera li riportavano puliti
nelle case.
Erano sempre le donne la forza della famiglia. Si
svegliavano all’alba per preparare la pizza di granturco
che cuocevano su una pietra rovente per la colazione
dei loro cari.
Col tempo il lavoro non è stato più così pesante per
le donne, grazie all’aiuto degli elettrodomestici.
A dimostrazione, a nostro avviso, di quanto le donne
di San Marco, nella loro semplicità e quotidianità, siano
state “silenziosamente grandi”, ci sono alcune testimonianze che abbiamo raccolto.
68
La prima riguarda la poetessa Consiglia Recchia, la
quale ha vissuto la Seconda Guerra mondiale ed ha trascritto i suoi ricordi di guerra in un volumetto di poesie
intitolato “Endecasillabi per una guerra”. Il racconto,
tratto sia dalle poesie che dall’intervista effettuata a
Consiglia Recchia, è una storia tutta al femminile; ripercorre, infatti, i principali eventi della guerra, vissuti
da Consiglia Recchia insieme alla mamma e alla sorella
Rina, rimaste sole poiché il papà e il fratello maggiore
erano impegnati nel conflitto mondiale.
Consiglia racconta:
“Ero molto piccola quando è scoppiata la Seconda
Guerra mondiale. I ricordi dei primi anni di guerra non
sono nitidi data la mia giovane età, ma lentamente, scavando nella mia memoria, affiorano diverse immagini”.
Ma ecco che affiora pian piano qualcosa
dall’inconscio, quasi una dissolvenza…
“Il primo ricordo legato a questi anni è quello di mio
padre che mi teneva in braccio, davanti al camino, tra
le sue gambe per ripararmi dal fuoco. Era appena arrivato dall’Albania e poi, all’improvviso, ma non ricordo
quando, è ripartito per la guerra”.
La mia guerra, vera si dipana
sul filo della memoria;…
comincia davanti al camino; faccia
tesa verso la fiamma oltre le braccia
di papà, solo un frugolo ero;
… ripartì, ma in fede
non ricordo quando e mi sforzo invano.
“In seguito fu mio fratello Giovanni a partire per
la guerra. Era il maggiore di sei fratelli e quando fu
richiamato alle armi era quasi ventenne. Prima della
sua partenza ci riunimmo tutti intorno al letto nuziale
per pregare davanti al dipinto del Sacro Cuore di Gesù.
Ricevemmo, in seguito, solo una cartolina da Eboli e poi
69
non avemmo più notizie di lui. Solo dopo diversi mesi
arrivò una lettera dalla Macedonia e una fotografia”.
Da Eboli il ponte d’una cartolina
postale e dopo, il silenzio totale…
Poi una lettera e la fotografia…
“Porto anche fisicamente il ricordo della terribile
guerra e precisamente del bombardamento di Foggia.
Mi trovavo a casa e stavo giocando sul terrazzino dove
c’erano dei pomodori messi in appositi contenitori ad
essiccare al sole. All’improvviso sentii il rumore di tantissimi aerei che provenivano da Campobasso, così mi
arrampicai sul bordo della “sarola” per vederli meglio,
ma caddi sui pomodori procurandomi una profonda
ferita alla testa. La cicatrice c’è ancora”.
E viene per me il tempo di soffrire
per una grave ferita di guerra.
... È spesso ancora il segno della cicatrice
dovuta alla missione distruttrice
di Foggia, rasa al suolo in uno schianto.
“Una mattina, mentre ero sul balcone a giocare con
l’acqua che si era depositata sulla ringhiera, vidi arrivare i Tedeschi che chiesero a Pinuccio Manella come
arrivare al Castello. Con l’arrivo dei Tedeschi , mamma
si preparò a portarci via da casa. Andammo al seminario, ma i Tedeschi arrivarono anche lì da don Antonio.
Ricordo che io e mia sorella Rina dormivamo a terra,
davanti all’ingresso ed avevamo paura ad alzare gli
occhi per guardare i soldati tedeschi dei quali infatti
ricordo solo gli stivali. Fummo costretti, dunque, ad
andare via dal seminario”.
Ci guida, a sera, nella nostra fuga
da casa al non distante seminario
per noi ospitale; ma presto una ruga,
una crepa nel progetto…
Viene il sonno, turbato da lacerti
70
d’incubi; di primo mattino, sciolti
gli indugi, ancora in fuga tuttavia,
noi, mamma e figli, ce ne andiamo via.
“Pensammo di trovare rifugio presso il Convento
dei Cappuccini, ma a metà strada dovemmo cambiare
meta; restammo al frantoio di Malpece su insistenza dei
proprietari, nostri amici. Durante la permanenza al frantoio, con il coprifuoco in vigore, l’unico a poter uscire era
mio fratello Nicola che indossava la veste talare perché
stava diventando sacerdote. Andava a casa a prendere
le provviste nascoste da mia madre per sfamarci. L’impresa per fortuna è andata sempre a buon fine”.
In fuga di nuovo e verso il convento
dei Cappuccini. Tu proponi e scegli
ma dispone Dio provvidenziale;
a mezza strada il cambio della meta:
calda, vera amicizia e una discreta
insistenza c’inducono a restare
in un frantoio…
“L’occupazione tedesca fu molto dura. I Tedeschi
confiscavano animali e viveri e uccidevano i maiali per
le strade. Quei giorni non passavano mai: noi bambini
non avevamo spazio per giocare e soprattutto dovevamo
stare in silenzio per non attirare l’attenzione delle ronde
tedesche”.
Animali e vivande confiscano
i Tedeschi ed uccidono i maiali,
urlanti per le strade…
Nel vano zeppo c’è ben poco spazio
per ragazzi e per bambini più usi
a giochi, chiasso e corse per la via di casa…
“La notte di San Francesco, un boato segnò la fine
della guerra: stavano bombardando il Ponte dei Tredici
archi. Il rombo fu talmente forte che i vetri della finestra
si ruppero e quasi caddero su me e mia sorella Rina, più
71
esposte rispetto alle altre bambine di Lucera, orfanelle
che dormivano insieme a noi in quell’enorme stanza
senza letti.
Dopo il crollo del ponte, arrivarono gli Americani e
noi tonammo a casa nostra, liberi di giocare. Gli Americani ci riempirono di dolci e di doni di ogni genere e
finalmente noi ritornammo ad essere bambini”.
A segnar la fine c’è un notturno boato…
Il turno poi degli Americani, dopo il crollo
notturno del ponte dei Tredici archi
divelto al modo d’un viburno frollo.
Torniamo a casa nostra e noi bambini
a liberi giochi ed a sbarazzini
discorsi italo-inglesi coi soldati…
“Il giorno dell’Epifania ricevemmo una graditissima
sorpresa… Eravamo appena tornati dalla messa e mia
madre stava accendendo il fuoco quando entrò Amodio
e chiese a mia madre se la fiamma del focolare fosse in
grado di riscaldare un reduce di guerra, giunto a piedi
nella neve a San Marco: quel reduce era mio fratello
Giovanni, tornato dalla prigionia, dopo mesi e mesi di
silenzio. Fu un vero miracolo dell’Epifania”.
Dalla sua greca amara prigionia
silente, dura e lunga mesi e mesi,
come un fantasma, nel giorno festivo,
egli compare, quasi un redivivo
per familiari e parenti sorpresi,
sconvolti e certo travolti, in balia
di una gioia immensa, quasi magia,
miracolo anzi dell’ Epifania.
La seconda storia ha come protagonista una donna che
si è distinta per il coraggio e la determinazione con cui ha
saputo, da sola, provvedere ai suoi figli quando il marito
era in Eritrea: la signora Pasqualina. La testimonianza che
riportiamo di seguito ci è stata resa dal figlio Nicolino.
72
“Mi chiamo Nicolino, figlio di Antonio Manella e Pasqualina Mucci, terzo di otto fratelli, nato nel lontano 1928. Ho
tanti ricordi del passato, ma ve ne voglio raccontare uno in
particolare. Nel 1938 mio padre e tanti altri del paese furono
richiamati dallo Stato per andare a lavorare in Africa, in Eritrea per la precisione, allora colonia italiana. Mussolini a quei
tempi mandava tante imprese italiane, comandate dal generale
Badoglio, a svolgere lavori di bonifica del territorio, con la
promessa di affidarle, in seguito, a contadini italiani affinché
le coltivassero. Così mio padre dovette partire, lasciando mia
madre con sei figli e in attesa del settimo. Fu un momento difficile; di positivo c’era il fatto che al più presto sarebbero arrivati
i soldi. Mia madre, dunque, donna di rara intelligenza, provvedeva ai nostri bisogni e ci educava a contribuire all’economia
della famiglia. Passarono giorni e poi mesi, ma i soldi spediti da
mio padre non arrivavano, così mia madre si rivolse a persone
autorevoli del paese per risolvere il problema, purtroppo, però,
senza risultato. Presa, dunque, dalla disperazione decise di
scrivere alla regina, in modo tale da metterla a conoscenza della
situazione della sua famiglia e di quella di tante altre del paese
che versavano nella medesima condizione. La lettera ebbe un
riscontro quasi immediato; infatti, il 10 aprile del 1939, giorno
della nascita del settimo figlio, arrivò la risposta della regina e
il mandato per poter riscuotere all’ufficio postale”.
Lettera inviata alla Regina Elena, recitata
dalla signora Mucci Pasqualina e ricordata a
memoria dalla figlia Elvira, sorella di Nicolino
La sottoscritta Mucci Pasqualina nata il 13 febbraio 1899
a Tufara Valfortore provincia di Campobasso, residente a San
Marco la Catola provincia di Foggia, si rivolge alla Sua Maestà.
O Regina, mio marito Manella Antonio è partito per l’Africa, in Eritrea, richiamato dallo Stato per lavorare, per poter
mandare avanti i nostri sei figli.
A tutt’oggi, dopo mesi e mesi, non è arrivata una lira; il
signor podestà dice che lui non sa niente; ancor di più è grave
73
perché non ho sue notizie e nemmeno le altre mogli.
La situazione è allarmante, angosciosa e a dir poco penosa
per questi bambini miei e per tanti altri dei quali sono qui
presenti le care Madri e che purtroppo stanno assaporando
la povertà.
Io mamma, spinta da dolore, faccio appello alla SUA
MAESTA’REGINA, affinché voglia prendere a cuore la mia
richiesta di aiuto.
Mi affido speranzosa e fiducia al Suo buon cuore e alla Sua
sensibilità per ottenere un piccolo contributo.
Le scrivo anche a nome di tutte le mamme che sottoscrivono
questa lettera e che sono nelle stesse condizioni mie.
La ringraziamo in ginocchio, salutandoLa con umiltà.
Il Signore La protegga e noi tutte pregheremo tanto per la
VOSTRA MAESTA’, dolcissima Augusta Regina.
Signora Mucci Pasqualina, moglie di Manella Antonio
Altre mogli
Successivamente a tutto ciò, le mamme tutte la sollecitarono a fondare la Segreteria, divenendone Segretaria,
del Partito Comunista, con 500 donne iscritte.
Come abbiamo notato, donne che a San Marco hanno
fatto qualcosa di straordinario, non ne abbiamo avute.
Grandiose però le donne del nostro paese lo sono state
nella vita di ogni giorno: hanno curato le loro famiglie
quando i mariti erano lontani in guerra o emigrati all’estero per lavoro.
Tutte queste donne di cui abbiamo parlato sono, secondo noi, veramente straordinarie.
Classe II B
Maurizio Cassano - Lucia Cilfone - Solaika Cilfone
- Carmen Coscia - Giuseppe De Martinis - Carmine
Ferrara - Valeria Iannantuoni - Lorena Lembo - Federica Marucci - Pasquale Moffa - Carla Pasquino
- Linda Santone - Giusy Vecchiarino
74
Storie di quotidiana sottomissione
San Marco la Catola, 6 dicembre 2014
Caro diario,
oggi ho un sacco di cose interessanti da raccontarti. In
questi giorni, infatti, mi è capitato di parlare a lungo
con alcune donne anziane del mio paese, dalle quali ho
appreso molte informazioni, anche poco belle, su come
venivano trattate le donne a San Marco la Catola un po’
di tempo fa.
Le simpatiche nonnine, tutte sulla ottantina, mi hanno raccontato che le donne, ai loro tempi, non avevano
gli stessi diritti degli uomini. Infatti, non potevano
studiare, lavorare, esprimere la loro opinione, ma
dovevano solo occuparsi della famiglia, dei figli e del
lavoro nelle campagne. Tra i figli c’era una differenza
di trattamento: mentre le donne dovevano solo stare in
casa, sottomesse da ragazze alla volontà paterna e da
sposate a quella del marito, i maschi potevano uscire e
svagarsi come volevano.
Non tutte le donne potevano andare a scuola e quelle
a cui era consentito, la frequentavano al massimo fino
alla quinta elementare, mentre i fratelli potevano anche
proseguire gli studi. Prima di andare a scuola, però, dovevano recarsi alla fontana a prendere l’acqua o sbrigare
le faccende domestiche; una volta tornate da scuola,
poi, spesso andavano ad aiutare i genitori nei campi o
dovevano preparare la cena per i loro genitori e fratelli.
Nei pochi momenti liberi, facevano diversi tipi di giochi:
bolì-bolò (la campana), mazz e piuz, il gioco della corda,
75
il gioco dello schiaffo; in casa, invece, si giocava con le
bambole di pezza fatte da loro.
Praticamente, mio caro diario, una donna doveva
imparare sin da piccola ad essere una buona casalinga e
basta e il suo normale destino, nonché il suo unico scopo
nella vita, era il matrimonio. Ah, a questo proposito ho
fatto un’altra bella (si fa per dire) scoperta: molti matrimoni venivano combinati, cioè erano i genitori a scegliere il marito alle proprie
figlie. Quelle più ribelli,
pur di sposare il ragazzo
amato, dovevano fare la
fuitina, cioè scappare con
il fidanzato in modo tale
da mettere i genitori di
fronte al fatto compiuto.
Sembra che una delle
preoccupazioni principali
dei genitori nei confronti
delle figlie femmine fosse
quella di cominciare a
preparare il corredo sin
da quando erano ancora
piccole; in genere si acquistava la stoffa da cui un po’
per volta ottenere lenzuola, tovaglie e asciugamani da
ricamare solitamente la sera, a lume di candela. Fino a
un po’ di tempo fa c’era anche la consuetudine di stilare,
prima del matrimonio, i cosiddetti nutament matrimoniali
cioè capitoli matrimoniali o carte dotali. Essi consistevano nell’elenco minuzioso di tutti i beni che la famiglia
della sposa assegnava in dote alla propria figlia.
Le ragazze non potevano uscire assolutamente da
sole, anche se erano fidanzate, ma dovevano essere
sempre accompagnate da qualcuno.
Con il matrimonio, però, la condizione della donna
76
non cambiava molto, anzi in alcuni casi peggiorava.
Spesso gli sposini non andavano a vivere da soli, ma
capitava non di rado che dovessero andare a vivere
nella casa dei genitori del marito. Se prima erano sottomesse alla volontà del padre, dopo il matrimonio
erano obbligate a sottostare alla volontà del marito,
considerate una loro proprietà: dovevano accudire i
figli, lavorare in campagna, raccogliere la legna per
il fuoco che serviva sia per riscaldare la casa che per
cucinare, prendere l’acqua alla fontana… insomma...
una vita durissima. Per non parlare poi delle violenze
fisiche che molte donne dovevano subire! Purtroppo le
nonnine con cui ho parlato mi hanno riferito che molte
donne venivano maltrattate. Alcune signore venivano
picchiate violentemente dai mariti gelosi, anche solo per
un semplice saluto da parte di un altro uomo; a volte
si arrivava a calci e a pugni anche per una semplice discussione tra marito e moglie; tutto ciò poteva avvenire
indifferentemente tra le mura domestiche, ma anche di
fronte ad altre persone o per strada. Tra le diverse storie
ascoltate, una mi è rimasta particolarmente impressa:
quella di un marito che picchiava la moglie per qualsiasi sciocchezza; quest’uomo, però, essendo molto più
basso della moglie, le ordinava di inginocchiarsi per
poterla picchiare. Tutti sapevano, tutti conoscevano, ma
nessuno diceva niente, era il normale corso degli eventi:
le donne dovevano subire e dovevano stare anche zitte!
Una vita non facile, dunque! A quei tempi, la donna
era succube dell’uomo, non le era permesso contraddire
il marito o tralasciare i lavori domestici che, come ho
già detto, erano molto pesanti. Insomma, con sorpresa
e meraviglia, ho appreso della condizione difficile delle
donne di qualche anno fa. Alla mia età sembra tutto
facile e dovuto…
Per fortuna oggi molte cose sono cambiate, la donna
77
è indipendente ed emancipata, non è più costretta alla
sottomissione e al silenzio, non è più relegata tra le pareti domestiche. Oggi nessun campo è riservato solo al
sesso forte. Le donne hanno dimostrato di non essere
inferiori all’uomo in nessun ambito: è sposa, madre e
lavoratrice. Purtroppo, però, non mancano episodi di
violenza e soprusi nei confronti delle donne. Molto è
stato fatto, ma c’è ancora tanto da fare!
Ora, caro diario, devo proprio andare, ma prima di
salutarti vorrei lasciarti dei versi che ho letto sulla donna
e che la nostra società dovrebbe fare propri: “Dio non ha
creato la donna dalla testa dell’uomo perché fosse sua
dominatrice, non l’ha creata dal piede perché fosse la
sua schiava, ma l’ha creata dalla costola perché stesse
vicino al cuore”.
Classe I B
Bruno Aldi - Gianluca Ferrara - Erica Forte - Andrea
Iannantuoni - Domenik Perna - Giovanni Santacroce
- Francesca Tufarolo
Classe II B
Maurizio Cassano - Lucia Cilfone - Solaika Cilfone
- Carmen Coscia - Giuseppe De Martinis - Carmine
Ferrara - Valeria Iannantuoni - Lorena Lembo - Federica Marucci - Pasquale Moffa - Carla Pasquino
- Linda Santone - Giusy Vecchiarino
78
Le quote rosa di San Marco La Catola
La presenza femminile all’interno di amministrazioni pubbliche non è mai stata qualcosa di ovvio, come
invece quella maschile.
È stato necessario un disegno di legge del 2005 e
successive leggi per garantire una quota minima di
presenza femminile all’interno del Parlamento, con
l’introduzione delle quote rosa non solo in politica ma
anche negli organi di amministrazione e nelle società
controllate dalla Pubblica Amministrazione.
Le quote rosa sono, dunque, quote minime di presenza
femminile all’interno degli organi politici istituzionali,
elettivi e non. Nel mondo della politica la percentuale
delle donne presenti è sempre stata molto bassa; in Italia
si attesta intorno al 19%, molto lontano dalla percentuale
ideale che è del 50%.
La donna deve essere parte attiva della vita politica
e questo non significa che il suo ruolo debba limitarsi
al diritto di voto, ma ogni donna può e deve essere
eletta per avere la possibilità di migliorare la società e
se stessa.
Questo deve averlo ben compreso il sindaco del
nostro paese sig. Paolo De Martinis, eletto nel maggio
del 2013, che ha voluto al suo fianco, per amministrare
il Comune, ben due donne, le sig. re Lucia Vitarelli e
Filomena Cilfone.
Per saperne di più abbiamo chiesto di incontrare sia
il Sindaco che le due signore.
Su nostro invito la sig.ra Vitarelli e la sig.ra Cilfone
sono venute a scuola il 23/10/2014 e abbiamo chiesto loro
79
come mai sono scese in politica e quali progetti hanno
per San Marco.
Entrambe ci hanno spiegato che la loro decisione di
impegnarsi in politica è stata dettata solo dall’amore
verso il proprio paese, per cercare di migliorare le cose
affinché i nostri giovani e ragazzi continuino a vivere
a San Marco, senza avere il desiderio di scappare via.
Stanno lavorando per cercare di cambiare la mentalità dei nostri concittadini: occorre impegnarsi in prima
persona e non aspettare che a tutto debba pensare l’amministrazione comunale.
Le idee che ci hanno illustrato sembrano valide:
cooperative agricole per ritornare alla coltivazione di
un particolare vitigno, il Carmuntell, e di uliveti, da cui
trarre prodotti doc; cooperative sociali che si occupino
dell’assistenza di anziani soli, che non vogliono lasciare
la propria abitazione ma anche la realizzazione di una
residenza per coloro che vogliono trascorrere in compagnia gli ultimi anni della propria vita, trasformazione
delle abitazioni abbandonate in B&B per incentivare il
turismo, considerata l’ubicazione e l’aria pura di San
Marco La Catola.
Al termine chiediamo alle signore di fissare un
appuntamento con il Sindaco. E, infatti, il 03/11/2014,
insieme alla prof.ssa Vitacchione, ci siamo recati al Municipio, dove ci attendeva la signora Vitarelli, la quale,
prima di accompagnarci dal Sindaco, ci ha guidato
nella visita ai vari uffici: Istat, Anagrafe, Stato Civile,
Ragioneria, Servizi Sociali e Lsu (Lavoratori Socialmente
Utili), Segretario comunale. A costui abbiamo chiesto di
cosa si occupasse e ci ha spiegato che svolge il ruolo di
notaio, in quanto è presente ogni volta che si riunisce la
Giunta o il Consiglio, perché deve verbalizzare le sedute
e si occupa anche dei contratti dell’Ente.
Durante la visita abbiamo notato che nella maggior
80
parte degli uffici lavorano
soprattutto
donne, ma
non è stato sempre
così. Infatti, ci viene
raccontato
che fino a
circa 35 anni fa negli
uffici prevalevano gli impiegati, mentre
le poche donne lavoravano solo presso la biblioteca o
la scuola.
Finalmente arriviamo nell’ufficio del Primo Cittadino, per l’attesissimo incontro.
Il Sindaco è stato felice di accoglierci e ci ha subito
spiegato che nel suo Gabinetto (a questa parola tutti
noi abbiamo riso) avvengono le riunioni della Giunta, ma anche gli incontri con i componenti dello staff,
di cui il Sindaco si è voluto circondare. Gli abbiamo
chiesto perché abbia voluto delle donne al suo fianco
per l’amministrazione del nostro paese, perché proprio
loro e quali siano i compiti della signora Vitarelli e della
signora Cilfone, la quale nel frattempo ci ha raggiunti.
Il Sindaco ci ha detto che le donne possiedono quella
marcia in più che gli uomini non hanno, che sono più
attente, più riflessive e più sensibili degli uomini e che,
se avesse potuto, avrebbe sicuramente preferito più
donne al suo fianco, ma per il numero di abitanti di
San Marco, la Giunta può essere composta solo da tre
persone e nel nostro caso dal Sindaco, dal vicesindaco e,
appunto, dalla signora Vitarelli, eletta come consigliere,
a cui ha dato l’incarico di assessore.
All’assessore Vitarelli, quindi, il Sindaco ha affi-
81
dato diversi settori come: spettacoli e manifestazioni,
turismo, verde pubblico, istruzione, servizi sociali e
cimiteriali.
Inoltre, il Sindaco ha voluto circondarsi di uno staff,
composto da quattro persone e una di queste è la signora
Cilfone, con il compito di supportare i progetti della
Giunta e di portare alla sua attenzione le problematiche
più urgenti del paese e dei suoi cittadini.
Il Sindaco ci ha spiegato di averle voluto al suo fianco
perché sa che sono persone affidabili, su cui può contare
e, infatti, si trova molto bene a lavorare con loro. Inoltre,
ha tenuto a precisare che entrambe hanno rinunciato
all’indennità prevista per il loro servizio.
Dopo aver salutato il Sindaco, l’assessore Vitarelli
e la signora Cilfone ci hanno fatto visitare la Sala del
Consiglio comunale, dove, prima di offrirci merendine
e bevande, ci hanno mostrato registri di consigli comunali risalenti al 1945, scritti con una meravigliosa grafia.
Finito lo spuntino a sorpresa, che ci avevano preparato, siamo tornati a scuola soddisfatti per aver capito
che le persone del Municipio non sono lontane da noi,
anzi lavorano per noi e, soprattutto, con la speranza
che questa amministrazione, dove la quota rosa svolge
un ruolo importante, faccia grandi cose per il nostro
amatissimo piccolo paese.
Classe III B
Selina Bozzuto - Erika Colagrossi - Valentina Colagrossi - Lorenzo D’Antino - Vincenzo Pio Ferrara Davide Gallo - Paola Iannantuoni - Gabriele Leccese
- Arianna Montagano - Vittorio Pasquino
Il disegni sono di Arianna Montagano (pag. 63), Carmen Coscia
(pag. 66), Lucia Cilfone, Carmen Coscia, Valeria Iannantuoni,
Lorena Lembo, Carla Pasquino, Linda Santone (pag. 75).
...Volturino
85
La storia e le storie delle donne di Volturino emergono dalle
ricerche che i ragazzi della scuola secondaria di Volturino
hanno svolto durante l’anno scolastico. Dai racconti semplici,
che spesso narrano di esperienze comuni, emerge un vissuto
dimenticato che è stato storia del nostro territorio e che, per
rispetto a quanto fatto e subito dalle donne, abbiamo l’imperativo di non rimuovere dalla nostra memoria.
Improprietà e imperfezioni presenti nei racconti e riportati in
forma vernacolare, ci auguriamo potranno essere capiti e scusati
dai cultori di questa forma linguistica.
86
Il lavoro di una donna
Noi donne siamo state trattate sempre con inferiorità.
Nonostante ora ci sia la parità dei diritti, gli uomini
credono di essere sempre superiori. Anni fa, però, la
situazione era peggiore.
Sono Maria, una anziana signora come tante, con
molti nipoti, figli, una vita frenetica, … c’è qualcosa però
che mi distingue dalle altre donne. Per i miei nipoti,
sono una donna diversa da tutte le altre, forse perché
ai miei tempi era tutto diverso. Oggi ci si lamenta per
niente, ma davvero poche persone sanno cosa significhi
la parola dolore. Secondo le teorie più antiche è sempre
stato l’uomo il capofamiglia, colui che lavora e che gestisce la famiglia. Io non sono d’accordo. Ai miei tempi,
sin da quando ero una ragazzina, sono stata sempre
87
io a mettere in ordine la casa, a istruire i miei fratelli a
preparare da mangiare, a curare i nostri animali. La
mia vita passata non ha niente a che fare con quella di
oggi. Quando sono cresciuta, la mia vita non è che sia
migliorata molto. Mio marito lavorava in fabbrica, non
lo vedevo quasi mai e, quando eravamo soli, mi trattava
male, come una poveraccia, come una sua schiava e lo
stesso faceva con i nostri figli. Non so dire purtroppo
se sia stato un bene, ma l’ho perso in un incidente in
fabbrica. Sapevo bene di non essere amata da lui, ma
quello che provai in quel periodo fu una sensazione di
vuoto, nonostante tutto quello che mi aveva fatto passare. Dovetti continuare io a mandare avanti la famiglia.
Cercai un lavoro, ma si sa, le donne non sono tagliate per
questo! Era la tipica frase che mi diceva puntualmente
ogni datore di lavoro. Alla fine, riuscii a trovare un posto
come cameriera di un bar, venivo pagata pochissimo e
trattata male. Ora come ora posso ritenermi fortunata:
ho una casa, figli, nipoti, un cane e sono circondata da
tanto amore, per la prima volta. Spero che nel futuro
non ci siano più queste situazioni.
La condizione della donna è diversa, ma siamo sicuri
che ci sia realmente la parità dei diritti in Italia?
Giusy Postiglione
88
Angiolina e la rivolta delle donne
Eravamo a casa di nonna per festeggiare il mio compleanno. Avevo preparato tutto: l’angolo buffet con tante
cose buone da mangiare e da bere, l’angolo della musica
con i cd preferiti da me e dai miei compagni di classe.
Mentre stavamo ballando con la musica “a palla“, per
gioco, abbiamo iniziato a colpirci con patatine, noccioline, wafer e pezzi di pizza. Avevamo perso un po’ il
controllo quando ad un tratto entrò nonna Lina con le
mani nei capelli per tutto quel fracasso, dicendo: «Oh,
quedda rasc ca tnet!» (Oh, quell’abbondanza in cui vivete!)
Pasquale uscì dal gruppo e chiese scusa a nonna Lina
per il nostro atteggiamento e, quasi per farci perdonare,
invitò nonna Lina a raccontarci un po’ della sua vita e
a farci capire cosa significasse privarsi di qualcosa e di
come si potesse soffrire la fame. Facemmo sedere comodamente nonna Lina, vista la sua bella età di 95 anni,
con noi tutti intorno a lei, pensando che ci aspettasse un
racconto lungo e noioso, ma non appena nonna Lina iniziò a parlare restammo affascinati subito dal tono delle
parole e dal racconto. La nonna, con una mente lucida
e con un atteggiamento deciso, iniziò così: ”Mia madre
mi raccontò che tutti gli uomini, tra cui mio padre (tate),
un giorno partirono per andare a combattere la Prima
guerra mondiale. Nel nostro paese mio padre non fu
l’unico a partire, ma partirono in tanti, tutti coraggiosi
e forti. Molte donne come mia madre restarono da sole
ad affrontare non una ma molte difficoltà come lavorare
nei campi, sfamare i propri figli e partorire. Ricordo che
spesso, insieme ai miei fratelli, sono andata a dormire
89
senza cenare o mangiando delle verdure povere raccolte
nei campi. Era brutto e triste andare a letto a stomaco
vuoto. Ricordo che una volta in cui ero particolarmente
affamata, riuscii ad infilarmi nel pollaio della vicina e
rubare due uova; notai, poi, con la coda dell’occhio, in
un angolo, un po’ di grano che presi vergognandomi
comunque di quello che stavo facendo, ma nello stesso
tempo non dimenticando la fame che avevamo io e i miei
figli. Tornai a casa, preparai un po’ di pane e una piccola
frittata e mangiammo tutti insieme; l’odore della frittata
e il sapore del pane creò un’atmosfera di festa. Il giorno
seguente, avendo il rimorso di coscienza, andai in chiesa
per confessare questo peccato perché pesava come un
macigno, quando davanti alla chiesa del paese incontrai
cummar Giuseppina con altre donne e con loro, spettegolando un po’, capii che noi donne a Volturino eravamo
tutte nella stessa condizione disperata. Entrammo in
chiesa e parlammo di questo con il parroco Don Giacomo
D’Antini che, dispiaciuto, disse di non poter fare nulla;
uscimmo e cummar Giuseppina infuriata, vagando nel
paese, incoraggiò tutte le donne ad organizzare una protesta per la condizione di povertà e a ribellarsi. Fu così
che il giorno dopo cummar Giuseppina, di buon’ora, si
alzò e iniziò a protestare e man mano che le donne uscivano di casa, si aggiungevano a lei. Eravamo un esercito
di donne e tutte unite; eravamo tante e decidemmo di
andare alla casa comunale come forma di protesta, ma
arrivate, nessuno aprì. Continuammo ad urlare, quando
dall’uscio comparvero due carabinieri. Cummar Angiolina e cummar Carmelina, che erano quelle più robuste
e più decise, facendosi largo tra le altre si avvicinarono
ai Carabinieri urlando: “Noi vogliamo solo pace, pane
e marito!“. Erano le sole cose che volevamo, spinte dalla
disperazione. Il silenzio dei Carabinieri, invece di calmare gli animi, li esasperò e iniziando da cummar Angiolina
90
e cummar Carmelina,
tutte ci infuriammo
e aggredimmo i due
poveri Carabinieri,
malmenandoli. Forzammo l’ingresso del
Comune, riuscendo
ad entrare come un
uragano nelle stanze
dove prendemmo tutto quello che trovammo (carte, documenti,
ecc) e lo portammo
nella piazza principale di Volturino, facendone un gran falò. Dopo questa giornata, noi donne
continuammo per un lungo periodo a protestare in
piazza. Trascorse alcune settimane, quando andammo
a ritirare il sussidio, ci accorgemmo che c’era stato un
aumento che ci permise di vivere con più dignità”.
A conclusione di questo racconto, la nonna ci guardò
negli occhi e continuò a parlare ricordando soprattutto ai
ragazzi di non sottovalutare mai le donne perché in caso
di bisogno queste hanno la forza, il coraggio, la voglia
di superare tutti gli ostacoli che si presentano durante
la vita. Tutto questo per noi è stata una grande lezione.
Classe II D
Jasmin Albano - Miriana Albano - Donato Bilancia
- Isabella Caitatu - Maria Ana - Agnese Ciufalo - Filomena D’Andola - Giuseppina D’Antini - Vittorio
Di Pasqua - Elisa Graziano - Maria Graziano - Ferdinando Iorio - Maria Melito - Donatina Mucciaccito
- Pasquale Ramieri - Manuela Recchia - Gabriele
Salvatore - Lucia Santacroce - Maria Pia Santacroce
91
Cara nipotina mia
Cara nipotina mia,
sai oggi al telegiornale ho sentito una storia brutta di una
donna che veniva perseguitata dal marito anche dopo
essersi lasciati. Sai queste cose sono brutte a sentirsi
ma almeno oggi si possono denunciare. Quando io ero
giovanissima e non mi chiamavano ancora zia Antonia
ma Antoniettina, mi ero innamorata di un bellissimo
giovane, e anche lui di me. Mio padre non voleva e appena lo seppe, fece il “diavolo a quattro”. Mi picchiò,
impedendomi di vederlo e malmenò anche mia madre
che, essendo incinta da poco, ebbe un aborto. Dopo
alcuni mesi ho dovuto fidanzarmi con tuo nonno, che
allora non mi piaceva per niente, perché aveva sempre
il viso tutto rosso e per questo lo chiamavano Salvatore
“Pomodoro”. A quel tempo non ci si ribellava e accettai
passivamente la decisione di mio padre sposando quello
che tutti chiamano zio Tore, un uomo che ho dovuto
imparare ad amare, a conoscere e a sopportare, perché
da giovane tuo nonno non aveva il carattere buono e
generoso che tu conosci. Io ho dovuto sempre ubbidirgli, anche quando avrei preferito fare diversamente e
ti assicuro, cara nipotina mia, che ci sono state tante e
tante occasioni per farlo. Ricordo che un giorno volevo
andare a casa di mio padre perché era ormai in fin di vita
e mi impedì di farlo perché diceva che mio padre non gli
aveva donato un pezzettino di terra a Carignani, a cui lui
teneva molto. Ero delusa, scontenta e triste con Salvatore
e arrabbiata con mio padre che me l’aveva fatto sposare.
I tempi erano duri, c’era tanta miseria e bisognava lavo-
92
rare tanto. Andavo in campagna a raccogliere le spighe
dietro ai mietitori. Ai miei tempi si faceva tutto a mano
ed era molto faticoso. Quando tuo padre era ancora in
fasce, non potendo lasciarlo a nessuno, lo portavo con
me in campagna, giravo la sella del cavallo e questa
diventava una “culla”; era lì che faceva le sue ninne. Il
lavoro non era solo questo, ad esempio, dovevo anche
andare alla fontana alla Croce per riempire l’acqua che
ci serviva per l’uso domestico; bisognava andare alla fiumara e lavare i panni, cucinare e sistemare la casa. Dopo
tutto questo lavoro capitava anche che mio marito mi
maltrattava o picchiava. Ricordo una sera in particolare,
io ero stanchissima, quel giorno avevo davvero lavorato
tanto, aspettavo che tornasse Salvatore dalla cantina
per mangiare e andare a letto, ma lui tornò ubriaco,
disse che non voleva per cena la polenta che io avevo
cucinato, così iniziò prima solo a urlare ma quando io
risposi: “Per stasera questa è”, iniziò a picchiarmi e mi
diede tante botte che lo ricordo benissimo ancora oggi.
Non potevo ribellarmi, era lui che
comandava in casa
e io non potevo fare
altro che ubbidire
e sottostare, anche
per un senso di rispetto perché, se
ci si lamentava, diventavo io la svergognata che non
voleva sottostare al
proprio marito. Ora
con la vecchiaia le
cose vanno meglio,
non dobbiamo più
93
lavorare, il pane lo passa lo stato, e anche tuo nonno è
diventato più buono e comprensivo. Sono felice, cara
nipotina, che oggi tu abbia una vita migliore senza tanti
sacrifici e umiliazioni. Fatti sempre rispettare da tutte le
persone che incontrerai nel tuo cammino.
Maria Pia Mucciacito
94
Donne e Onore
La violenza sulle donne ormai esiste da secoli e non è
più accettabile. È un problema e molte volte si fa fatica a
parlarne. A questo proposito il nostro gruppo ha raccolto alcune storie vissute dalle nostre nonne di Volturino.
Una nonna ci ha raccontato che in passato la donna o
mamma era considerata una persona di poco conto rispetto al marito “padre padrone“. Il marito era la persona che comandava in casa e nei campi. La moglie doveva
svolgere le faccende domestiche, cucinare, lavorare nei
campi e crescere i figli, che spesso erano tanti. Se la moglie si ribellava, il marito “alzava quasi sempre le mani“,
la umiliava e la maltrattava. Quando l’uomo beveva
troppo, tornava a casa ubriaco e si sfogava sulla moglie
maltrattandola, spesso sotto gli occhi dei figli. Anche le
bambine lavoravano e aiutavano in casa, accudivano i
propri fratelli o sorelle più piccole e spesso non terminavano le scuole elementari. Le ragazze non potevano
uscire né potevano
andare a messa da
sole, ma dovevano
essere accompagnate da qualcuno
della famiglia e
comunque dovevano camminare
sempre con gli
occhi bassi per
non incrociare lo sguardo
di qualcuno. Quando una
95
donna partoriva, se nasceva un maschio, la famiglia era
contenta, se invece nasceva una bambina era delusa.
Un’altra nonna di Volturino ci ha raccontato la storia
di una ragazza che si era fidanzata, ma la famiglia non
accettava questo fidanzamento e allora la ragazza decise
di scappare con il fidanzato, cioè fare la fuitina quando
avrebbe compiuto la maggiore età, cioè a 21 anni (non
a 18 come adesso). La mamma di questa ragazza, saputa l’intenzione della figlia, ordinò all’altro suo figlio
di prendere il fucile e ammazzare sia la sorella che il
fidanzato. Per la famiglia la fuitina era un disonore, ed
era inaccettabile che la ragazza non ubbidisse alle regole
imposte. Tutto ciò per la famiglia era vergognoso ed
era in uso che il figlio o un componente maschio della
famiglia vendicasse il disonore subito. Fu così che il
figlio, convinto dalla madre, prese un fucile, raggiunse
il posto dove si trovavano la sorella e il fidanzato e li
uccise. Tutto questo avvenne proprio il giorno prima
del 21° compleanno della ragazza. La famiglia, seppur
addolorata dalla perdita, non si sentì più disonorata da
quel gesto di ribellione. Questo tipo di violenza a noi
ragazzi d’oggi sembra assurdo. Grazie a tante battaglie,
nonostante ci siano ancora molti pregiudizi, oggi la
donna ha gli stessi diritti dell’uomo e non è più privata
della propria libertà. Purtroppo, nonostante tutto, siamo
costretti ad assistere quotidianamente ai tanti episodi
di violenza sulle donne.
Miriana Albano
Jasmin Albano
Maria Melito
Nando Iorio
Pasquale Ramieri
Filomena D’Andola
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Il coraggio di una donna
Caro diario,
oggi è venuto a trovarmi il mio nipotino ed ho trascorso
un pomeriggio davvero particolare: mi sono sentita importante perché lui mi ha chiesto di raccontargli una storia del mio passato che riguardasse il coraggio delle donne. Mi sono emozionata nel sapere che oggi, anche nelle
scuole, si affronta l’argomento delle donne e del loro
coraggio, di donne che devono superare tanti problemi,
cattiverie e maltrattamenti. Mi sono anche commossa
perché, ho avuto l’occasione, rara, di andare a cercare nei
ricordi. Sì, l’ho trovata una storia davvero particolare,
una storia di coraggio nella vita di tutti i giorni. All’inizio degli anni
Cinquanta,
dopo la guerra, io abitavo
in una stradina al centro
del paese e,
poiché ero la
prima figlia
di ben sette,
d o ve v o a l zarmi presto
per badare un po’ alla casa e un po’ ai miei fratelli, visto
che mia madre e mio padre dovevano alzarsi presto per
andare in campagna. Così tutte le mattine, assistevo
sempre alla stessa scena che mi è rimasta impressa per
tutta la vita. La mia vicina di casa, che noi tutti chiama-
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vamo “Zia Maria”, era rimasta vedova in giovane età a
causa della guerra e, avendo sei figli piccoli da accudire
e non possedendo nemmeno un pezzetto di terra da coltivare, era costretta ad andare a lavorare “alla Puglia”.
Sì caro diario, è un vecchio modo di dire e ricordo che
significava “andare a lavorare in alcune terre”, ancora
più a sud delle nostre campagne, dove ogni giorno si
andava in gruppi per riuscire fino alla sera a portare a
casa il necessario per sfamarsi. Ogni mattina zia Maria
si alzava alle quattro e con tanta tristezza nel cuore, si
preparava per andare a lavorare nei campi. La cosa che
le dispiaceva di più era lasciare i suoi figlioletti nei loro
lettini e non poter preparare loro almeno un po’ di latte
e pane. La ricordo sempre vestita di nero, con il suo
fazzoletto in testa, che andava verso la piazza del paese
dove c’era il raduno di tante donne come lei, che ogni
giorno andavano a lavorare “alla Puglia”. Salivano su
mezzi di trasporto che non erano certo comodi come
quelli di oggi, dovevano avere per forza tanta volontà
di lavorare ma soprattutto tanto coraggio per affrontare,
ogni giorno, non solo la fatica fisica del duro lavoro dei
campi, ma soprattutto le umiliazioni e i maltrattamenti
dei loro “caporali” i quali approfittavano spesso delle
vedove e delle giovani donne non ancora sposate. Ma
una cosa è certa, zia Maria era tanto coraggiosa e sapeva che prima o poi avrebbe dato ai suoi figli una vita
dignitosa. Una cosa che le dava conforto era sapere che
i suoi vicini di casa le davano comunque una mano,
infatti, a quei tempi eravamo tutti molto più uniti e noi,
che abitavamo nella stessa stradina, spesso avevamo le
porte aperte e ci aiutavamo l’uno con l’altro. Anche a
me, è capitato, qualche mattina, di dare un po’ di latte
che avevo preparato per i miei fratelli ai nostri vicini di
casa. Ecco, i figli di zia Maria erano un po’ i figli di tutte
le famigle della stradina di casa mia. La solidarietà che
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teneva uniti, ha dato coraggio a zia Maria. Un giorno
però lei decise, con ancora più coraggio, di lasciare quei
“caporali” che la maltrattavano e la sfruttavano e da sola
cominciò ad arrangiarsi con altre donne per cercare di
lavorare un po’ meno lontano da casa e più lontano dai
maltrattamenti. Oggi zia Maria è molto anziana e dal
suo sguardo si capisce che ha avuto una vita molto dura
ma il suo coraggio non le ha mai fatto perdere l’amore
per la famiglia e la fede in Dio. Ha anche saputo tenere
nascoste le sue paure, ma ha condiviso con gli altri il
suo coraggio. Ora sono un po’ stanca e devo salutarti,
ma sono felice di averti raccontato il coraggio di una
donna qualunque.
Raffaele Puntonio
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La sfortuna di essere donna
Oggi al telegiornale ho visto uno dei tanti episodi di
violenza sulle donne. Così mi è venuta in mente la mia
vita, quando ero giovane. Tutto iniziò ottantatré anni
fa quando sfortunatamente nacqui femmina; ero la delusione della mia famiglia perché a quei tempi nascere
femmina era una disgrazia; infatti, all’età di dodici anni
dovetti lasciare la scuola per prendermi cura dei miei
tre fratelli, perché ero la più grande. Volevo andare a
scuola per imparare, come tutte le persone benestanti,
ma purtroppo io non avevo una famiglia ricca. Dovetti
aiutare mia madre a fare tutti i servizi di casa come
andare a lavare i panni alla fiumara, andare a prendere
con un secchio l’acqua alla fontana e pulire la casa. Continuai così fino all’età di sedici anni, quando un giorno
alla fiumara trovai Ndoniuc u mttor di cui mi innamorai,
ma quando lo dissi ai miei genitori, mio padre si arrabbiò tantissimo perché lui aveva programmato di farmi
sposare con un uomo ricco che a me non piaceva perché
aveva dieci anni più di me; poi mia madre aggiunse che
Ndoniuc veniva da una famiglia che non aveva niente,
così mi proibirono di uscire di casa per paura che potessi
incontrarlo. Sono rimasta chiusa in casa per due anni
e durante questo periodo ho ricamato un grandissimo
corredo per le mie nozze. Arrivati i miei diciotto anni,
dovetti sposare a forza Nicolino, quello che i mie genitori
volevano. Dopo un anno dal matrimonio nacque mio
figlio Giacomino che mi diede la forza di andare avanti
con coraggio e sopportare mio marito. Ogni volta che
Nicolino andava a lavorare nei campi, piangevo perché
100
non sopportavo il fatto di aver sposato un uomo che non
amavo, infatti, amavo ancora Ndoniuc. Una sera stavo
piangendo, come al solito, ma Nicolino arrivò prima e
mi vide piangere, a quel punto chiese delle spiegazioni e
io con coraggio gli dissi tutta la verità, cioè che amavo un
altro. Pensavo non la prendesse tanto male e invece iniziò a picchiarmi talmente forte che restai stesa a terra per
molte ore; dicendogli la verità peggiorai ancora di più le
cose e iniziò a picchiarmi ogni sera. Avevo paura e non
mi piaceva per niente la mia situazione e speravo tanto
che un bel giorno Nicolino morisse. Dopo qualche anno
restai vedova e con un figlio da crescere e comunque la
vita restò sempre difficile perché le donne, soprattutto
se sole, non vengono prese mai in considerazione.
Elisabetta Silvestro
Mariapia D’Andola
Daniele Savino
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Miuccia: una storia come tante…
Mi chiamo Filomena, ma tutti
mi chiamano Miuccia. Io vivevo
con mio marito Andrea e i miei
otto figli in una piccola casa di
campagna vicino Volturino.
Povera me, che brutto destino
ho avuto! Andrea, mio marito,
mi ha fatto passare tanti guai.
Al brutto carattere si è aggiunto
Giuann sorament (è un modo di
dire a Volturino che significa
“bere sempre vino”). La mattina
mi alzavo prestissimo e andavo
alla fontana a prendere l’acqua;
facevo tanti lavori: cucinavo, accudivo i miei figli, lavavo fagotti
di panni alla fiumara e facevo tanti lavori nei campi.
Quando era il tempo della mietitura andavo a spigolare,
cioè a raccogliere le spighe di grano dove non arrivava
la trebbia. Il grano che raccoglievo lo usavo per fare la
farina agli animali. Tre, quattro volte al mese “ammassavo” cioè facevo il pane in casa. Lavoravo tantissimo,
ma il lavoro più faticoso era sopportare la gelosia e i
maltrattamenti di Andrea. Lui mi assillava di domande:
“perché avevo fatto tardi, perché non c’era abbastanza
vino, chi avessi incontrato alla fontana” e… tante volte
si finiva per litigare e le botte le prendevo io. I bambini
si spaventavano e piangevano, anche il piccolo Mattiuc
che è il mio “figlio di latte”. Io, per racimolare qualcosa,
102
davo il mio latte a un bimbo che non era il mio. Il sette di
settembre, il giorno prima della festa del paese, Andrea
andò a Foggia a portare alcuni documenti all’Ente Riforme. Mentre aspettava la littorina, a Lucera, incontrò
cummar Carulin, una donna di Volturino forte, decisa
e senza peli sulla lingua. Cummar Carulin prese per il
braccio Andrea e gli disse: “Ehi tu! Da quella pour fighie
tu che voi? Miucc i l’ai crisciut ei boun, pulit… stut… tu
si nu disgraziat! A mugghi d’ Utrin t’si capat”(Ehi tu! Da
quella povera ragazza cosa vuoi? Miuccia io la conosco
bene: è brava, pulita... scaltra... tu sei un disgraziato! Hai
scelto la migliore del paese). La signora Carulin, alzando
l’indice destro con tono minaccioso, gli disse: “Recurdt,
quid cha fai t’jè pccat.” (Ricordati, quello che fai è peccato).
Andrea con un mezzo sorriso rispose: “Non ci sono
problemi zia Carulì”.
Povera me, povera me! Quando tornò a casa sembrava un diavolo. Mi arrabbiai così tanto che il latte si
“avvelenò” e Mattiuc e Pasqualin stettero male. E questo
accadde l’otto settembre. Tanto si sa che ogni festa “s’arm
na cummedia” (nasce un grosso litigio). Che potevo fare?
Dove potevo andare? A chi lasciavo i miei figli? E se fossi
andata via con i mie figli loro non avrebbero avuto un
padre. E la gente cosa avrebbe pensato di me?
Vittorio Di Pasqua
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Storia di ordinaria violenza
Sono Giuseppina, madre di tre figli molto bravi che
mi aiutano in questi anni di vecchiaia. Mio marito non
c’è più. La mattina, quando mi sveglio, prego e dico:
“Dio aiutami ogni giorno, la mia vita era molto brutta.
Dio amami tanto così come amo te”.
Quando ho conosciuto Francesco non era come adesso, c’era la povertà, ma eravamo felici e abbiamo deciso
di sposarci. Dopo il matrimonio abbiamo scoperto che
mia suocera aveva la tubercolosi. Io e Francesco quindi
le abbiamo regalato una nipotina “Antonietta”; mia
suocera, però, dopo tanta felicità, morì.
Francesco diventò triste e a volte era arrabbiato con
tutti. La mattina mi svegliavo presto e andavo a lavorare
con Antonietta perché non potevo lasciarla sola. Lavoravo in una villa e mi occupavo dei servizi domestici
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per una donna benestante e tenevo la piccola sempre
vicino a me perché temevo le succedesse qualcosa. Un
giorno, tornata a casa, portai la bambina a letto. Quando
tornò Francesco era arrabbiato, aveva giocato a carte
con i suoi amici al bar e aveva perso; venne verso di me
e mi chiese dei soldi per giocare ancora, ma io gli dissi
che non c’erano soldi da perdere al gioco e lui allora
iniziò a picchiarmi. Dopo questa aggressione si calmò e
tornò ad amarmi e lo perdonai. Nacquero due gemelli,
Giuseppe e Giovanni. Antonietta, che ormai era grande,
accudiva i suoi fratelli quando io non c’ero. Francesco
ogni tanto andava al bar e quando tornava mi insultava
e poi la mattina ridiventava normale. Dopo tanti anni
la situazione peggiorò, Francesco mi picchiava tutte le
sere e l’unica cosa che potevo fare era pregare.
Dio mi salvò, Francesco morì e da allora la mia vita
divenne più tranquilla.
Francesca Pompa
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S’nucc e Pasqualin
Mi chiamo Teresa, anche se qui a Volturino tutti mi
chiamano S’nucc. Nel 1928 mi sono sposata con Pasqualino. Forse ero troppo giovane. Pasqualino era un bell’
uomo, un lavoratore ma con un brutto difetto: la gelosia.
Quando mi sono sposata, pensavo di aver fatto un affarone, sposavo un ragazzo che non aveva più la mamma.
Come si dice a Volturino: «I figh sul s’accattn a om», cioè
i figli che non hanno la mamma valgono tantissimo
perché non si deve “ sopportare “ la suocera che spesso
vive con i figli maschi. Invece non ho fatto un affarone:
Stù crist vale più di quattro suocere insieme. Quanto ho
dovuto sopportare! Pasqualino vedeva cose che non
esistevano. Immaginava che io sorridessi al suo amico.
Oh, a che porta la gelosia! Mi vietava di uscire.
Quando lui andava a lavorare in campagna mi diceva
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di chiudermi dentro casa e di non aprire a nessuno, neanche a sua madre se fosse tornata dall’aldilà. Un giorno
mi permise di andare in chiesa alla messa delle sei. Era
una trappola, aveva mandato il suo amico Antonio per
spiarmi e scoprire quale strada facessi e con chi parlassi.
Quante botte ho preso! Quanta è bella la libertà! Avrei
preferito andare “a pugghie” (andare a lavorare in Capitanata) anziché stare chiusa in casa.
Una sera, dopo l’ultimo litigio, Pasqualino iniziò a
sentirsi male e dopo tre giorni morì con la spagnola.
Dopo tutti questi litigi, mi sentivo più serena ma devo
ammettere che un po’ mio marito mi manca.
Serena Di Pasqua
107
Una vita difficile
Mi chiamo Rosa, oggi ho 92 anni e per molto tempo
il mio corpo dovette subire violenze spietate da quello
che anni fa chiamavo mio marito, Luigi.
Disgraziatamente nacqui femmina, da una famiglia
modesta. Mio padre e mia madre erano grandi lavoratori e, come sapete
bene, allora si lavorava
soprattutto nei campi
guadagnando ben poco.
Eravamo quattro fratelli, io ero la più grande e
sono l’unica ancora in
vita. Nonostante fossi
la prima figlia, i miei
genitori per mantenerci
facevano grossi sacrifici, vendendo le uova
perché avevamo
qualche
gallina.
Andavo
a scuola, ma finita la 5a elementare, avrei voluto tanto
continuare gli studi però i miei genitori non me lo hanno
permesso perché sarebbe stato un grosso peso per loro,
così mi sono subito dedicata alle faccende domestiche.
Andavo alla fontana a riempire l’acqua e a fiumar a
lavare i panni; ho anche accudito l’ultimo dei miei fratelli che aveva appena due anni .
Ero spesso triste, ma forse era quello il mio destino.
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All’età di 18 anni i miei genitori volevano che mi sposassi, ma assolutamente non volevo sposare l’uomo che
loro avevano in mente. Ero già stanca della vita.
Ero innamorata di un ragazzo che avevo conosciuto
“alla fontana” e se proprio dovevo sposarmi, avrei preferito lui. Il mio rifiuto verso il loro intento fu inutile. I
miei genitori non vollero capirmi e dopo qualche mese
mi costrinsero a pronunciare quel maledetto “Sì” .
Cominciò allora la mia disperazione, anche se col passare degli anni iniziai ad amare mio marito. Vivevamo
in una piccola casa in campagna, non mi faceva andare
dai miei genitori e non mi permetteva di uscire e, poiché
era molto geloso, si arrabbiava facilmente, molte volte
senza motivo e io non potevo dire nulla perché era lui
che comandava.
La tristezza e la malinconia facevano parte ormai di
me, passavo intere giornate a piangere.
Dopo tre lunghi anni mi accorsi di aspettare un bambino. All’inizio non ero molto felice, perché non avrei
mai voluto quel padre per i miei figli .
Intanto gli insulti e le umiliazioni continuavano,
nonostante lui mi prometteva sempre che sarebbe
cambiato.
Cercavo in tutti i modi di addolcirlo ma non serviva a
niente. Durante la gravidanza non mi sentivo bene, ma
lui non mi aiutava in niente. Il giorno più bello passato
con lui? Il giorno della nascita di mia figlia. Sembrava
che volesse cambiare veramente, ma non fu così. Solo
i primi giorni è sembrato un’altra persona, ma dopo
qualche mese iniziarono di nuovo grida e schiaffi. Non
avevo più la forza di reagire, pensavo solo a far crescere
mia figlia e pensavo a come sarebbe stato il suo futuro.
Una sera ero già a letto, lui rientrò molto tardi, entrò in
camera, arrabbiato (come sempre) solo perché aveva
saputo che io e mia figlia eravamo andate a fare visita
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ai miei genitori. Non mancava occasione per sgridarmi
e insultarmi. Il bene che io provavo per lui diminuiva
sempre più, allora ho pensato di andarmene di casa,
portando con me mia figlia.
Subito, pentita di essere scappata, ritornai da lui,
anche sapendo che ero priva di qualsiasi forma di felicità e di qualsiasi cosa bella che la vita avrebbe potuto
offrirmi, ma lo feci perché era pur sempre mio marito e
il padre di mia figlia.
L’11 settembre 1997 mio marito morì per un infarto;
provai una sensazione di vuoto, ma senza alcun rimorso
andai avanti perché gli avevo sempre portato rispetto.
Non sono stata la sola donna nella mia comunità a
sopportare tutto questo.
Giuseppina D’Onofrio
Gaia Tarallo
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Nonna Giuseppina e il matrimonio
per procura
Noi ragazzi, parlando del problema della violenza
sulla donna, ci siamo resi conto che non immaginiamo
neanche quali siano stati i sacrifici e le sofferenze delle
nostre nonne o bisnonne.
Oggi, trovandoci davanti ad un camino con un fuoco scoppiettante, una nonna ha iniziato a raccontarci
la vita che si svolgeva a Volturino quando lei aveva
la nostra età. Molte famiglie vivevano in campagna e
non conoscevano neanche il significato della parola
“libertà“. Le donne erano disprezzate fin dalla nascita,
infatti il proverbio dice: ”Mala nuttat e la fighja femmn”.
La famiglia era patriarcale, cioè il potere era nelle mani
del padre e i figli che si sposavano abitavano tutti insieme e molto spesso succedeva che l’ultima nuora era
veramente considerata l’ultima arrivata e il suo parere
non valeva niente. La nonna, con un grande sospiro e
con voce commossa, riprende il suo racconto dicendo
che a Volturino le donne che non si sposavano venivano considerate zitelle, cioè ragazze costrette a vivere
nell’ombra della famiglia e a fare tutto quello che ad
esse veniva ordinato. La nonna aggiunge: ”Avrei voluto tanto vivere tutti i momenti più belli della mia vita
come quello del fidanzamento”. A Volturino, di solito,
il ragazzo camminava per “adocchiare” la ragazza e le
occasioni per conoscerla erano diverse: i matrimoni o
alla fontana, alle feste o in chiesa. Mi ricordo ancora che
c’erano delle persone, chiamate ruffian, che, magari per
una piccola ricompensa (grano, orzo, vino), creavano
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un “contatto“ tra il ragazzo e la ragazza. Il “ruffiano“,
durante le trattative, indossava dei calzini rossi e una
cravatta rossa che spesso gli venivano regalati dalle
famiglie. Una volta “adocchiata“ la ragazza, il giovane
cercava di farsi notare e molto spesso, quando la incontrava, la guardava e cercava di incrociare il suo sguardo.
Quando riusciva a parlarle spesso le rivolgeva frasi
molto semplici come: “T voj met a fa l’amor c me? Tenghe
nnduzione bone”. La ragazza di solito rispondeva: “Ci
devo pensare“. Una volta che la ragazza era d’accordo iniziava il periodo di fidanzamento che a volte era
molto lungo; lui spesso si recava a casa della ragazza
con un cugino o con uno zio per farle capire che aveva
intenzioni serie; qualche volta veniva invitato a pranzo
ed era lei a cucinare per dimostrare di essere una brava
donna di casa. Dopo due o tre mesi di fidanzamento,
c’era l’incontro dei genitori delle due famiglie che iniziavano a parlare sia delle doti dei propri figli che della
“dote“ e delle spese del pranzo di nozze. A Volturino
112
si usava che i genitori della sposa si occupassero del
mobilio e dei panni, nonché di un quantitativo di rame
e di lana; mentre i genitori dello sposo provvedevano
alla casa e al pranzo di nozze nonché alla futura nuora
regalando una catenina d’oro. Il mobilio era costituito
da una camera da letto e da una vetrinetta crestaller. Il
rame serviva per le pentole tiell, la lana per riempire
il materasso. Una ragazza veniva giudicata da come
riusciva a “sistemare il letto“. Naturalmente il fidanzamento durava sette o otto mesi. La data delle nozze in
genere veniva fissata in pieno inverno, periodo in cui la
campagna non richiedeva manodopera e i raccolti erano
già stati venduti. Il pranzo di nozze si svolgeva in casa
e a cucinare erano di solito i parenti o gli amici; il menù
era sempre lo stesso: maccarune e carne. Per l’occasione
la famiglia dello sposo macellava due o tre agnelli o un
vitello, a seconda delle possibilità. Non mancava mai il
suonatore d’organetto, la quadriglia e la tarantella che
allietavano la cerimonia. Con voce rauca, la nonna continua il suo racconto dicendo che lei non aveva potuto
vivere tutto questo e che a causa della povertà dovette
sposarsi per procura. La procura che, anche se restava
un freddo pezzo di carta con bolli, timbri e contro timbri, era comunque messaggera d’amore e di unione.“Io,
infatti - aggiunge - mio marito l’ho conosciuto attraverso
una fotografia perché di solito erano i parenti emigrati
che mandavano delle foto dei ragazzi con tutti i loro
dati. Così anch’io inviai la mia fotografia e in questo
modo ci siamo conosciuti io e Vincenzino. Tutti e due
eravamo analfabeti ed eravamo costretti a rivolgerci ad
altri per scrivere, leggere o per far interpretare le proprie
emozioni, pensieri e sentimenti.
113
Gennaio 1947
Carissima Giuseppina,
Risponto alla tua disederata lettera colla data del 21 corrento meso e rilevato che stai beno di salute. E così lo stesso
tiassicuro anco di me. Qua lavoro notte e giorno, la paca è
buona e così presto potrò accattare una casa per noi per quanto diventiamo marite e moglia. Qua alla Merica si mangio
male, a saucicchia è senz pepone. Sto sempre appensare al
giorno che tu giungerebbe inna Merica.Ti mante una fota
che mi tiena sempre vicino atte sulla culunetta. Non altro da
giungero, sono in fretta, tanti cari saluti alla tua famiglia,
alla cummara Miucc e a Cummara Riunucc, azizì Ciccilliuc
e salut a mia matra e sciosia maria.
Salute e bacio convero cuoro sempre tuo affezionato.
Ti auguro buone notizio. Tanuccio
Volturine Aprile 1947
Caro Tanuccio
Venco a rispondere con cueste due righi di lettera per dirti
mie notizzie che alla cuala grazia iddio stiamo beno. Non vete
lora che giungia il giorno dello sposalizio, che dopo venco
anco io alla Merica che così ti aiuta a quatagnare i tollari. E
ti aiuta con il manciare e ti porte la savicicchia picanto. Anco
io ti mante la foto di me che la tiene sui mobbili mericani.
Non giunche oltre ti mantano cari salute tutti di famiglia, i
combari e commare e anco i vicini di casa.
Ti abbraccio fortemento tua promesso sposa Giuseppina.
Mi sono innamorata di un ‘immagine senza mai aver
sentito la sua voce, il suo respiro, senza averlo mai guardato negli occhi o senza aver preso la sua mano. Tutto
era affidato alla fantasia, quella fantasia che mi aiutava
a sopravvivere e a superare le difficoltà e la povertà in
cui si viveva. Io ero considerata una “vedova bianca “
e non ho vissuto nessun tipo di emozione come quello
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di ricevere e donare regali; per me le domeniche erano
tutte uguali, tra me e Vincenzino c’era solo il mare, un
grande mare. Per me non c’è stato lo scambio delle fedi
“nuziali“ e del romantico “Sì“. Non c’è stata la prima
notte di nozze. Il mio cuscino era bagnato di lacrime e la
coperta di seta per il primo letto è rimasta piegata nella
cascia (baule). La mia via crucis sentimentale sembrava
non finire mai. Dopo il matrimonio ho dovuto inviare
la carte in Argentina per il ricongiungimento familiare.
Dopo circa sei mesi, mi sono imbarcata su un bastimento per terre lontane; ero terrorizzata e con la morte nel
cuore lasciavo la mia famiglia e la terra in cui ero nata;
avevo solo la speranza di un futuro migliore e, durante quei lunghi giorni sul bastimento, immaginavo di
abbracciare un uomo che avevo visto e costruito solo
nei miei sogni. Anche se sono stata una fidanzata bianca, credo di essere stata una brava moglie e una brava
mamma. Ho creduto molto nel mio matrimonio e nella
mia famiglia e la mia grande forza ha superato ogni
tempesta. Il mio coraggio è stato ed è quello di tante
donne italiane all’estero.
Questo umile scritto è un omaggio a nonna Giuseppina grazie alla quale, noi ragazzi della III D, abbiamo
avuto modo di apprezzare e vivere il presente alla luce
della memoria del passato.
Israel Albano - Angelica Circelli - Gaetano Clemente - Ilenia Coluccelli - Michelangelo Creta
- Mariapia D’Andola - Stella Dell’Aquila - Giuseppina D’Onofrio - Katia Ferro - Rosa Iorio - Jessica
Langione - Robinson Pellegrino Palumbo - Gabriel
Petecchia - Rosa Recchia - Andrea Saccone - Giovanni
Saccone - Pio Salvatore - Daniele Savino - Elisabetta
Silvestro - Gaia Tarallo
POESIE
117
La donna è...
La donna è una persona assai speciale
che non puoi fare a meno d’amare
ha un cuore tenero e pieno d’amore,
ma molte volte può trasformarsi in dolore.
La donna è qualcosa fuori dal normale
che non devi mai sottovalutare
certe volte viene apprezzata,
altre invece viene maltrattata.
La donna è una notizia al telegiornale
di cui non si fa che parlare
viene insultata, a volte picchiata
e ogni due giorni una viene ammazzata.
La donna non è proprietà dell’uomo
e nonostante abbia raggiunto la parità
non avrà mai la sua stessa dignità:
è ancora vittima della sua diversità.
Donato Lepore
118
Donna
Donna, non sei soltanto l’opera di Dio
ma anche degli uomini, che sempre
ti fanno bella con i loro cuori.
I poeti ti tessono una rete
con fili di dorate fantasie;
i pittori danno alla tua forma
sempre nuova immortalità.
Il mare dona le sua perle,
le miniere il loro oro,
i giardini d’estate i loro fiori
per adornarti, per coprirti,
per renderti sempre più preziosa.
Il desiderio del cuore degli uomini
ha steso la sua gloria
sulla tua giovinezza.
Per metà sei donna,
per metà sei sogno, per tutti:
uomini e bambini.
Ludovica Iamele
119
Le donne di Volturino
Le donne di Volturino
sono felici fin dal mattino.
Sono dolci e assai carine,
nonostante quello che hanno dovuto patire.
Attenti a non farle troppo innervosire!
Tante difficoltà hanno dovuto superare,
tra guerre, carestie
e anche tante malattie.
Sono state sempre sorridenti
anche quando non avevano
niente da mettere sotto i denti!
Sono donne forti e comprensive,
con un cuore sincero
e aiutano il prossimo per davvero!
Ti sono accanto nel bisogno
e inseguono sempre il loro sogno.
Tra pizzi e merletti si scambiano ricette
e restano per sempre amiche perfette.
Sono di mezza statura
e vivono a contatto con la natura.
Sono quasi tutte casalinghe,
il loro primo pensiero è la famiglia.
Ci sono molte donne anziane
operose ed umane.
In estate con i loro vicini
si siedono sopra i gradini
e stanno lì a parlare per ore
e a guardar il tramonto del sole.
Antonella Schiavitto
Giuseppe Albano
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A tutte le donne
A tutte le donne che camminano controvento,
a tutte le donne che affrontano mareggiate
sempre più minacciose,
a quelle che non si fermano davanti a nulla.
A tutte le donne che non hanno un sorriso,
a tutte quelle che in silenzio subiscono
violenza.
A tutte le donne libere
e a tutte quelle di cui nessuno vede le ferite
e che ancora lottano
per la propria libertà.
A tutte quelle senza volto né nome,
a tutte le donne forti e coraggiose.
Alle donne, speranza del mondo,
che fanno risplendere il buio.
Carmen Coscia
Dedicato alla donna
Donna forte e fragile,
sei come una farfalla
dai mille colori.
C’è chi ti ammira con amore
e chi ti spezza le ali mutilando la tua persona
e violando la tua dignità.
Sai essere mamma, amica e compagna,
punto fermo di chi ti sta vicino. Linda Santone
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Centro Studi “Diomede”
L’Istituto Comprensivo “Diomede” tiene insieme sei
plessi, sei comuni, sei realtà con tante storie ed esperienze del passato, ma soprattutto con migliaia di persone
che oggi vi abitano e che hanno milioni di sogni, progetti
e speranze che vogliono realizzare nella loro Terra.
Pensando a ciò è nato il Centro Studi “Diomede” con
lo scopo di offrire un approfondimento dei problemi
relativi al territorio in cui opera.
Per l’attuazione di tale finalità, il Centro Studi dell’Istituto Comprensivo “Diomede” svolge attività di ricerca,
sperimentazione, formazione e valutazione nei diversi
settori scientifici e operativi; effettua, in qualità di osservatorio, un monitoraggio costante e tempestivo sulla
situazione del territorio, sulle opportunità e sulle priorità
che si prospettano e cura l’informazione e la documentazione attinente a qualsiasi livello; presta, nel proprio
settore di competenza, consulenza ad altre istituzioni,
sia pubbliche che private; redige un rapporto annuo sui
vari ambiti che interessano il territorio in cui opera.
Tali propositi sono maturati anche in seguito ad una
serie di esigenze palesate da alcuni docenti, in modo
particolare da parte del prof. Nicola Cocumazzo: in
primo luogo la necessità di raccogliere i lavori scolastici
realizzati nel corso dei vari anni, di cui spesso si perdono
le tracce, custodirli in biblioteche scolastiche e farne delle
pubblicazioni da divulgare anche all’esterno della scuola
stessa; in secondo luogo la consapevolezza di vivere in
un territorio dal passato straordinario, di cui pochi hanno conoscenza, ma da cui molti sono costretti a scappare.
Il nostro (poiché esso è di tutti ed è aperto a tutti)
Centro Studi è stato pensato, per certi aspetti, all’incon-
124
trario, cioè partendo dalle potenzialità del territorio,
dalla sua storia passata ma, immaginando il suo futuro
(green economy, bio food economy, new renewable
energy), affinché possa diventare un riferimento e un
supporto per aziende ed Enti che vogliano investire
nel nostro territorio, progettare uno studio per i nuovi
servizi intercomunali che porterebbero alle popolazioni
dei servizi migliori, più efficienti e più economici, che
possano rendere più gradevole, senza ulteriori costi, la
vita nei nostri paesi.
Per cercare di raggiungere questi obiettivi, l’Istituto
Comprensivo “Diomede” ha in questi ultimi anni già intrapreso progetti di partenariato con associazioni, quali
“Fondazione con il Sud”, per lo sviluppo di progetti di
stage, alternanza scuola lavoro, attività laboratoriali
pratiche; ha stipulato accordi di rete con le Camere di
Commercio provinciali e regionali con relativa partecipazione a convegni e concorsi per lo sviluppo di nuova
imprenditorialità rivolti anche a bambini della scuola
primaria; ha attivato corsi Pon per lo sviluppo con i
ragazzi della scuola secondaria.
Questi gli elementi di spunto iniziali, che vorremmo
incardinare in eventuali, forse remote, possibilità di
uno sviluppo che non c’è mai stato. D’altronde, se ad
un paese estirpi gli uomini migliori e releghi le donne
ad accudire frotte di bambini e a spezzarsi la schiena
per cercare di tirare avanti, come si può pretendere che
questo cresca, faccia nascere idee, crei posti di lavoro?
Da qui l’idea, forse utopica, di voler diventare il punto
di riferimento per i nostri ragazzi, per i docenti, per il
territorio, di voler offrire opportunità di conoscenza di
ciò che ci circonda, degli uomini e delle donne che hanno
avuto il coraggio di credere che da qui si può partire…
con le idee e non più con le valigie.
Il Direttore
Prof. Tommaso Albano
125
BIBLIOGRAFIA
Anonimo, Monografia storica del Comune di Celenza Valfortore.
M. Cerulli, Celenza Valfortore nella cronistoria, Celenza Valfortore 1965.
G. Clemente, Il Brigantaggio in Capitanata. Fonti documentarie
e anagrafe, Presentazione di Raffaele Colapietra, Roma, Archivio Guido Izzi.
P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, Prato 1865.
P. Gramegna, Motta Montecorvino. La sua vita attraverso i secoli:
dalle origini ad oggi. Foggia, Grafiche Leone, 1970
G. Pacichelli, Del Regno di Napoli in prospettiva, Napoli 1703.
C. Recchia, Endecasillabi per una guerra, Edizioni del Leone,
1994
127
INDICE
Prefazione ........................................................ pag.
7
Voci da...
... Carlantino ....................................................
... Celenza Valfortore ......................................
... Motta Montecorvino ..................................
... San Marco la Catola ...................................
... Volturino......................................................
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13
33
45
63
83
Poesie................................................................»115
Centro Studi “Diomede”................................
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123
Bibliografia.......................................................»125