Donna - ISC Monti Dauni
Transcript
Donna - ISC Monti Dauni
Istituto Scolastico Comprensivo “DIOMEDE” v oci i Donne g silenziosamente randi Edizioni del Rosone Si ringrazia il prof. Tommaso Albano, direttore del Centro Studi Diomede, per il pregevole ruolo che svolge nel territorio e nella scuola. In copertina Disegno a carboncino di Israel Albano Tutti i diritti sono riservati Giugno 2015 © Edizioni del Rosone «F. Marasca» via Zingarelli, 10 – 71100 Foggia [email protected] www.edizionidelrosone.it Stampa: Arti Grafiche Favia, Modugno (Ba) Questo libro è dedicato al nostro Dirigente scolastico, prof.ssa Rosa Manella. La sua professionalità e serietà non è mai venuta meno, ha agito sempre con perspicacia e correttezza, contribuendo alla crescita culturale ed interiore di tutti i docenti e alunni. Le rivolgiamo il nostro semplice “grazie“. 7 Una società che ignora le donne difficilmente progredisce Prefazione Comunità lontane più di 50 km dal capoluogo della provincia cui appartengono, lassù sui Monti Dauni, ma distanti molto di più da quei simboli della modernità che, subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, cominciavano a essere presenti nella città. Piccole e povere comunità, quelle del Subappennino Dauno, piccole e chiuse agli scambi. Diffidenti. A distanza di pochi chilometri si parlano dialetti diversi: a Motta Montecorvino, a Volturino, a Celenza Valfortore, a Carlantino, a San Marco la Catola… la discontinuità linguistica testimone della discontinuità delle comunità che difendono strenuamente tradizioni, riti, ma anche pregiudizi. Una comunità che si teneva insieme, e per certi aspetti accade tuttora, grazie a rituali, al ferreo rispetto delle tradizioni e a omertose complicità. Comunità dove il ritmo della natura e l’alternarsi delle stagioni servivano per tentare di trarre il meglio dal lavoro dei campi, non per cercare momenti o periodi di spensieratezza o di divertimento. Comunità in cui non c’era soluzione di continuità tra la vita e la morte: si nasceva in casa e in casa si moriva. Spesso, poi, lo stesso evento della nascita poteva portare con sé la morte della mamma, del bambino o di entrambi. Ed ecco che vita e morte coincidevano in un costante e ininterrotto alternarsi. La vita che rappresentava una fortuna se a nascere era un maschio che avrebbe garantito la continuità del nome della famiglia e la forza delle braccia nel lavoro dei campi. 8 Il quadro storico, sociale e culturale in cui si sviluppano le storie che vogliamo raccontarvi, è proprio quello della società patriarcale in cui si trovano a lottare le nostre protagoniste. Questo lavoro vuol essere, infatti, un pensiero al coraggio delle donne, un invito alla consapevolezza, al rifiuto dell’indifferenza, una denuncia contro tutti i soprusi e le vessazioni, contro il silenzio delle donne che tacciono le angherie a cui sono sottoposte. Una piccola testimonianza della storia locale che, tuttavia, non ci fa dimenticare il presente. La violenza contro le donne, tematica quanto mai urgente nella nostra “evoluta” società, è forse la più vergognosa tra le violazioni dei diritti. Essa non conosce confini temporali o geografici, né culturali o economici, e fintanto che continuerà non potremo pretendere di aver compiuto dei reali progressi verso l’uguaglianza, lo sviluppo e la pace. Si parte, pertanto, dalla storia per recuperare la memoria di un problema che sembra affondare le proprie radici in un passato lontano che noi oggi, attraverso un veloce excursus, ripercorriamo. Questo passato ci restituisce però anche storie positive di forza e sostegno da parte delle comunità, di impegno politico di una minoranza, come quella femminile, che sta contribuendo alla salvaguardia del nostro territorio e che, a livello nazionale, fa sentire forte la sua voce dagli scranni del Parlamento. Le nostre storie parlano di eroine “silenziosamente grandi”, perché tanto generose da offrire alle nuove generazioni il valore più importante, quello della memoria, anche se dolorosa e carica di inquietudini. I nostri racconti affondano le radici in epoche assai lontane che hanno visto la nascita di molti dei nostri paesi e durante le quali gli eventi della micro storia si sono amalgamati a quelli della Storia. Anche in questa cornice prendono piede vicende di un coraggio tutto al femminile. Infine è apparso doveroso omaggiare la forza e la caparbietà di giovani poco più che adolescenti “costrette” ad attraversare l’Oceano per inseguire il sogno di una vita migliore. 9 Con il nostro lavoro e con il contributo prezioso dei nostri ragazzi, abbiamo voluto rendere il giusto tributo a tutte le donne e in particolare a quelle di Carlantino, Celenza Valfortore, Motta Montecorvino, San Marco la Catola, Volturino, raccontando storie “invisibili” da sempre ignorate e disconosciute. Storie di coraggio, di soprusi, di donne popolane, aristocratiche, donne d’azione e di pensiero, testimoni che hanno contribuito a salvaguardare, a proteggere, a sostenere nei momenti difficili il nostro territorio e a scriverne la Storia. Le Docenti Prof. ssa Annita Montepeloso Prof.ssa Margherita Sassone Plesso di Carlantino Prof.ssa Nicoletta Lombardi Plesso di Celenza Valfortore Prof.ssa Angela Covino Prof.ssa Angela Bianco Plesso di Motta Montecorvino Prof.ssa Anna Rita Catignano Prof.ssa Carmelina Vitacchione Plesso di San Marco la Catola Prof.ssa Antonietta Malaspina Prof.ssa Marisa Marzano Plesso di Volturino Nell’ambito del progetto “Voci di donne“, noi alunni attraverso indagini e inchieste siamo riusciti a ricostruire storie, aneddoti e pensieri di vita quotidiana e vissuta nelle nostre piccole comunità. Questa raccolta non pretende di essere una grande opera letteraria, ma solo dei grani di memoria del vissuto a noi più vicino. Un grazie a tutti quelli che con il loro impegno hanno permesso di realizzarlo. Gli alunni Voci da... ... Carlantino 15 Intervista allo storico del paese Noi ragazzi della scuola secondaria di Carlantino abbiamo aderito al progetto “Voci di donne”. I nostri insegnanti, dopo averne presentato gli obiettivi e lo scopo, ci hanno esortato a trovare informazioni su donne del nostro paese che si sono distinte in qualche campo in particolare, e così sono iniziate le ricerche. Tutti noi abbiamo chiesto alle nostre famiglie notizie a riguardo, ma i loro ricordi risultavano piuttosto frammentari o distorti, così abbiamo deciso di rivolgerci all’unica persona del paese che poteva darci una mano: il signor Girolamo Josa, appassionato di storia e tradizioni locali, autore di diversi libri, nonché artefice di molti alberi genealogici di famiglie carlantinesi presi in esame addirittura dall’Università degli Studi di Napoli per alcune ricerche di genetica. Così, il 17 ottobre 2014, il signor Josa è stato invitato nella nostra scuola per essere intervistato da noi sull’argomento del progetto. Una nostra compagna gli ha dato il benvenuto, successivamente abbiamo iniziato a porgli delle domande preparate in precedenza. Dalle risposte dateci, in maniera dettagliata e corretta, è emerso che il nostro paese non vanta donne che hanno cambiato la Storia, tuttavia ce ne sono state alcune che nel loro piccolo hanno contribuito a inculcare ideali e insegnamenti attraverso la loro vita e il loro esempio. Tra queste, il signor Josa, ha menzionato la signora Donna Maria Fusco che si è prodigata per Carlantino in molte occasioni aiutando i più poveri, insegnando alle ragazzine a ricamare e ai ragazzi i precetti religiosi, 16 Incontro con il signor Josa donando inoltre alla parrocchia alcuni locali. Dal momento che il signor Josa aveva portato con sé una parte di quei famosi alberi genealogici, una nostra compagna gli ha chiesto informazioni sui suoi antenati, rivelando di aver trovato tempo fa una bellissima testimonianza di vita… un diario di famiglia. Particolare dell’albero genealogico del Signor Josa 17 Una meravigliosa scoperta Io sono Emanuela, una normale adolescente che viaggia senza mezzi di trasporto, cioè molto con la fantasia. Voglio narrarvi di una persona… no, non si tratta di me, ma di una Emanuela Capozio donna incredibile. È iniziato tutto in quel giorno di pioggia. Leggevo il mio libro, quando una voce mi interruppe: “ Emanuela, per favore vai a prendere su in soffitta le luci di Natale?”. Era mia madre che è solita interrompermi sempre sul più bello. Urlai: “Vado!”. Salii per le scale ed entrai nella stanza e, scovando, trovai uno scatolone; lo aprii e quello che all’apparenza sembrava un ricettacolo di giornali e cianfrusaglie, diventò un forziere ricco di tesori; intendo dire perle di vita, storie, fotografie, racconti, lacrime e soprattutto insegnamenti. Era pieno di cose, ma mi colpì una in particolare: un diario. Nella prima parte, datata 1976, si presentava una donna che spiegava come, all’età di 76 anni, aveva deciso di scrivere queste pagine e di lasciarle in eredità ai suoi cari. 18 Carlantino, 5 febbraio 1976 Io Coscia Maria Giovanna scrivo questo diario per lasciarvi uno scritto della mia vita. Miei cari figli, questo è il ricordo che voglio lasciare e vi assicuro che tutto quello che scrivo è la pura verità. Sono venuta al mondo il 14 febbraio 1900, mia madre aveva 46 anni e mio padre 45. Particolare dell’albero genealogico della Fam. D’Amelio Mi hanno chiamato Maria Giovanna e mi hanno accolto con molta gioia, anche se ero l’undicesima figlia. Mi consideravano l’ultimo fiore della loro vita e, data la loro età, erano molto contenti del dono mandatogli da Gesù. Mia madre diceva che ero piccolissima, ma molto bella ed intelligente, mi chiamavano la farfalletta. […] Mio padre era pazzo di me ed anche io lo adoravo. Appena tornava dalla campagna, mi baciava e mi faceva sedere sulle sue ginocchia. 19 Mia madre invece si divertiva a vestirmi e pettinarmi; ricordo che avevo dei bei capelli lunghi ed ondulati che lei era solita legarmi con due fiocchetti. Mi metteva un vestito con l’elastico in vita, molto arricciato. Ero una bambina molto vivace, giocavo e saltavo tutto il giorno e chiunque mi guardava scoppiava a ridere. Mio padre era molto fiero di me e mi proteggeva da tutti. Ricordo che il mio primo gioco fu quello delle cinque pietre. Ero talmente abile che quando giocavo con le mie amiche vincevo sempre e tornavo a casa con tutte le spille che avevo vinto. Mi piaceva molto anche cantare e ballare, infatti, conoscevo tutti i canti e tutti i balli. Quando poi c’erano le belle giornate, prendevo la mia sediolina e mi sedevo davanti casa, tutti quelli che passavano si fermavano per ascoltarmi e darmi un bacio. Questa vita è continuata fino a sei anni, quando i miei genitori mi mandarono a scuola. […] Maria Giovanna da giovane Naturalmente scesi di sotto e corsi a chiedere a mia madre chi fosse quella misteriosa “scrittrice”. Lei disse che non sapeva chi potesse essere. Cercai per tutto Carlantino il viso di questa donna, ma la risposta era sempre stata vicino a me. Andai da mia nonna che, sfogliando il dia- 20 rio, ritrovò in quelle parole la sua mamma, cioè la mia bisnonna. La sera ricominciai a leggere il mio libro di avventura che adesso non sapeva di niente. Ripresi il diario e iniziai a sfogliarlo. Pagina dopo pagina scoprii che essendo nata nel 1900, la mia bisnonna aveva vissuto le terribili conseguenze della Grande Guerra di cui conservava un ricordo vivo anche da anziana. […] Era il 1918 e in Italia arrivò la Spagnola che colpiva le persone malate e le donne incinte. Purtroppo morì anche mio padre lasciando una moglie di 64 anni, mia sorella di 21 anni che era fidanzata e si doveva sposare, mio fratello […] e me che avevo appena compiuto 18 anni. Mia madre, ormai anziana, non faceva che piangere per la perdita di papà e noi, vedendola così disperata, piangevamo con lei. […] Presto restammo senza pane e fummo costrette a lavorare a giornate da un fratello di mamma. Lavoravamo in campagna tutta la settimana, in cambio della cena e di quattro chili di pane a fine settimana, pane che noi consegnavamo a nostra madre che era vecchia e aveva un braccio leso. Nonostante tutto mia madre si sforzava per non farci mancare il necessario. Infatti, dei quattro chili di pane che le portavamo, ne mangiavamo solo una parte e il resto lo conservava per eventuali giorni di pioggia in cui non avremmo potuto lavorare, sosteneva che avremmo in ogni caso dovuto mangiare e che lei non lavorando poteva sopravvivere anche con un solo pasto al giorno. Vi racconto queste cose per descrivere la miseria in cui eravamo cadute. […] All’apparenza mi sembrava la storia di una donna semplice nata a Carlantino e da lì partita, subito dopo la Grande Guerra, per intraprendere un viaggio tor- 21 mentato ma carico di speranza, com’è stato per molti a quell’epoca. In quelle parole si rifletteva una realtà diversa dalla mia, eppure così simile… […] Ora però voglio parlarvi della mia partenza per l’America avvenuta il 26 marzo 1919. Si trattava del primo imbarco dopo la guerra con una nave che si chiamava “Patria”. Siamo partiti da Carlantino in sedici, con un carro trainato da due cavalli ed abbiamo impiegato quasi un’intera giornata per arrivare a Lucera da dove, con una “lettorina”, siamo andati a Foggia per prenotare il treno per Napoli. Siamo arrivati a Napoli alle dieci di sera e il sopragente ci ha portati in un albergo per dormire. Il giorno, alle sei, dopo esserci svegliate, siamo andate al Consolato per ottenere il visto per l’espatrio. Trovammo una fila interminabile tanto che riuscimmo ad avere il visto all’una di pomeriggio. Poi il sopragente ci ha accompagnate al porto, dove era ormeggiata la nave e siamo salpati da Napoli alle cinque del pomeriggio. I marinai fecero suonare tre volte la sirena. La sera ci hanno dato da mangiare e ci hanno portato a dormire in uno stanzone. Io non ho dormito, ma ho pianto tutta la notte perché non capivo dove stavamo andando. Il giorno dopo siamo arrivati a Palermo e abbiamo visto la terra che si allontanava lentamente. Quando la sera andammo a dormire osservai attentamene le coperte e mi accorsi che erano quelle dei militari e che erano piene di pidocchi così grossi che sembravano scarafaggi e che facevano camminare le coperte da sole. Le feci vedere a mia madre che cominciò a piangere e restammo tutta la notte sulla scala della nave senza dormire. Il giorno successivo facemmo vedere i pidocchi agli altri passeggeri che si arrabbiarono e si lamentarono con il Capitano. Questi, quando vide le coperte, rimase sbalordito, ordinò 22 immediatamente che venissero disinfestate le camere e che ci venissero consegnate delle coperte pulite. Nonostante le premure del Capitano, io e mia madre eravamo spaventate e non dormimmo per tre notti. Il pranzo consisteva in una pasta con lenticchie e torsoli di cavolo, che ci sembrava disgustosa, nonostante la fame, e la sera alici piene di sale e di ruggine. Il viaggio è stato lunghissimo, è durato 16 giorni e 16 notti, non so quanto mare abbiamo attraversato, non si vedeva altro che cielo e acqua. Sono stati giorni molto duri, senza dormire e senza mangiare, mi si erano persino marciti i denti, riuscivo solo a piangere. Quando stavamo per avvicinarci a New York, il Capitano ci svegliò per farci vedere la Statua della Libertà. Uscimmo sul ponte della nave e vedemmo una “donna” tutta nuda con una striscia che le copriva la vergogna e sul seno c’era scritto: ”Viva la libertà”. Non so descrivervi la gioia che provammo nel rivedere finalmente la terra, tutti si misero a piangere. Il Capitano fece un discorso e disse che non dovevamo piangere, ma dovevamo ringraziare Gesù per averci dato la forza di affrontare un viaggio così lungo e faticoso, che dovevamo essere contenti di essere arrivati in America giacché quello era il primo viaggio dopo la guerra e che ci sarebbe potuto accadere qualunque cosa. Io e mia madre aspettammo fino alle nove quando arrivò mio fratello che ci prese in consegna. Ma dopo il triste viaggio le sorprese non erano ancora finite, infatti, appena arrivate trovammo le fabbriche tutte chiuse. […] Andai avanti a leggere dell’esperienza di Maria Giovanna a New York. È difficile pensare a quella realtà in crisi, ma all’epoca era proprio così, infatti, le fabbriche erano chiuse, ma Maria Giovanna trovò ospitalità dal fratello che nonostante fosse senza lavoro accolse lei, la mamma e la sorella senza chiedere denaro in cambio, almeno fino a quando non avessero trovato un’occupa- 23 zione. Fortunatamente un giorno riuscì ad ottenere un posto in fabbrica. All’inizio era confusa dal rumore assordante dei macchinari e dalla velocità del lavoro, ma poi si abituò e riuscì a superare tutte le paure e le difficoltà di chi proviene da una realtà di paese, totalmente diversa da quella della grande città. […] Arrivò però finalmente il momento in cui le fabbriche ricominciarono ad aprire. Mio fratello ci diede un elenco dei posti in cui dovevamo andare e cosa dire per chiedere di lavorare. Per molti giorni girammo inutilmente in tutte le fabbriche senza avere risposta. Tornavamo a casa stanche e affrante, non avevamo neanche la forza e la volontà di mangiare. Mia madre cercava di rincuorarci ed era convinta che con il tempo le cose si sarebbero aggiustate. Era ormai maggio, mese in cui a Carlantino si festeggiava la Madonna dell’ Annunziata e noi Le portavamo i fiori raccolti in campagna. Così il primo maggio ci siamo alzate, come al solito, e abbiamo deciso che, se quel giorno la Madonna ci avesse fatto trovare lavoro, noi tutte avremmo spedito una parte dei soldi guadagnati, per i fuochi d’artificio da sparare il giorno della festa. Può sembrare strano, ma quel giorno trovammo tutte lavoro in una fabbrica di munizioni che aveva appena aperto. Non so come descrivere la gioia che provammo quel giorno, eravamo così euforiche che non riuscimmo più a ritrovare la strada di casa. Il giorno dopo ci alzammo per andare a lavoro, ma quando arrivammo ci prese lo sconforto per tutte le macchine che si trovavano in quella fabbrica e per il rumore assordante che ci impediva addirittura di sentire quello che ci diceva il capo. Il nostro lavoro consisteva nell’inserire in casse di legno dei pezzi che uscivano da un nastro trasportatore. Il nastro però scorreva molto velocemente e i pezzi erano coperti di colla calda che non doveva raffreddarsi. 24 Il primo giorno il capo ci fece affiancare da una signorina italiana che, visto il nostro sconforto, ci consolò assicurandoci che i primi giorni era normale non riuscire a prendere tutti i pezzi, ma con il tempo saremmo state in grado di fare da sole tutto il lavoro. La sera tornavamo a casa distrutte e pensavamo che il lavoro era troppo pesante per noi e che non ci saremmo mai abituate al rumore. Nonostante tutto continuavamo ad andare in fabbrica e dopo una settimana, ci hanno consegnato la prima busta paga con dentro dieci dollari. Per noi era la prima busta ricevuta e ci siamo ricordate immediatamente della promessa fatta alla Madonna. Abbiamo quindi spedito i soldi a mia sorella Antonietta, che ha esaudito il nostro desiderio facendo fare un fuoco intorno a tutta la Cappella. Dopo la prima settimana il lavoro ci sembrava più sopportabile, la paga era aumentata e la sera non volevamo smettere di lavorare. Dal momento che lo straordinario era pagato il doppio, chiesi al datore di lavoro di farmi lavorare più ore. Lavoravo in tutto dodici ore al giorno, dalle sei della mattina fino alle sei di sera, non mi fermavo neanche per la pausa del pranzo. Il mio unico pensiero era di guadagnare abbastanza per poter ripagare il debito a mio fratello. […] Non spendevo niente per mangiare, pensavo che quei soldi mi sarebbero serviti per tornare in Italia. […] In fabbrica però io non ho mai mangiato e, quando suonava la sirena per la pausa e le mie amiche andavano a mangiare, io correvo a chiudermi in bagno per non far capire che non avevo comprato il pranzo. Non facevo parola della mia situazione nemmeno con mia madre per non darle dispiacere, ma ricordo che al mio ritorno a Carlantino avevo ventitré anni e pesavo trentadue chili. Grazie, però, al mio sacrificio sono riuscita in tre anni a restituire i soldi. […] Quindi decise, nonostante il parere contrario della famiglia, specialmente di suo fratello, che l’amore 25 avrebbe prevalso e che sarebbe ritornata in Italia per riabbracciare il suo fidanzato, che intanto la aspettava a Carlantino. […] Partii dall’America il 15 giugno e arrivai a Carlantino il 24 giugno 1923, nove giorni di navigazione sulla nave Giuseppe Verdi che era molto diversa da quella che ci aveva portato in America. Era una nave pulita e si teneva la Messa tutti i giorni. […] Quando sono arrivata a Carlantino, il 24 giugno, a Celenza c’era la festa di San Giovanni. La banda dopo aver suonato a Celenza venne a Carlantino per la festa di Sant’Antonio. […] Non potete immaginare la mia gioia nel rivedere il mio fidanzato dopo quattro anni, di poter stare di nuovo insieme, andare insieme a messa e alla processione, ci sembrava di toccare il cielo con un dito. La gente non riusciva a capire come avessi fatto a lasciare la mia famiglia in America e a tornare a Carlantino per lui. […] Così il 2 settembre ci siamo sposati e da quel giorno la mia vita è cambiata. […] Tornata dunque in Italia, la vita non fu facile per Maria Giovanna: dovette lavorare per tre anni come becchina e pulire per tre volte a settimana le strade di Carlantino. Era un lavoro difficile, ma con forza e perseveranza riuscì a resistere pur di sfamare la famiglia. […] Noi non avevamo più soldi e dovemmo fare il debito ancora una volta. Notte e giorno pensavamo che se non avessimo pagato avremmo dovuto vendere la casa; io piangevo ed ero incinta del secondo figlio. Poi un giorno pensai che potevamo fare domanda al Comune perché assumessero mio marito come becchino. [...] Il Podestà ci conosceva, la moglie era stata la mia balia e mi aveva anche cresimata, così accolse subito la nostra richiesta. La paga era di duecento lire al mese e il lavoro consisteva nel pu- 26 lire il paese tre giorni alla settimana e quando qualcuno moriva bisognava portarlo in Chiesa e il giorno dopo al Cimitero. […] Nonostante però questo lavoro, non solo non riuscivamo a pagare i nostri debiti, ma dal momento che era nato anche il secondo figlio, non potevamo soddisfare nemmeno le normali esigenze di una famiglia di quattro persone. Così pensai che mio marito poteva tornare a lavorare in campagna mentre io potevo tranquillamente fare il suo lavoro di becchino. La mattina mi alzavo di buon’ora, prendevo il mulo, i tini, la scopa e la pala e cominciavo a pulire, prima la piazza poi la seconda strada e infine la terza strada. Dovete sapere che allora il paese non era com’è adesso, le case non avevano i bagni e tutte le persone, grandi e piccini, facevano i loro bisogni fuori; le donne spazzavano la casa e buttavano fuori l’immondizia, così fino alla sera le strade erano interamente coperte di sporcizia. Per pulire tutto ci voleva uno stomaco da cavallo e la sera quando tornavo a casa non avevo voglia né di mangiare né di bere tanto ero stomacata dall’immondizia vista e raccolta. Quando poi moriva qualcuno, per portare la bara erano necessarie quattro persone: due becchini erano dipendenti del Comune e altri due li pagavano i familiari. La tariffa era di dieci lire per portare il morto prima in Chiesa e poi al cimitero. Se moriva una persona dell’ultima strada per arrivare al cimitero bisognava fare una strada tutta in salita. Pensate che per la fatica si scorticava la schiena e la piaga guariva dopo un mese. Ma pur di guadagnare dieci lire e non essere costretta a vendere la casa io e mio marito abbiamo portato tutti i morti al cimitero. Tutta la famiglia si vergognava del mio lavoro e anche mio marito non era contento del fatto che una donna portasse le bare. Io però gli facevo capire che era molto più importante guadagnare i soldi necessari per pagare i debiti. Così ho continuato a fare il lavoro da becchino insieme a mio marito e se moriva un bambino, andavo solo io. Infatti, la bara piccola potevo portarla in testa senza l’aiuto di nessuno. […] 27 Quando le fu tolto il lavoro di becchina Maria Giovanna si demoralizzò, ma non si lasciò abbattere e in effetti poco dopo riuscì ad ottenere la gestione di un forno. Certamente non fu un lavoro facile perché per tutto il giorno respirava polvere e si affaticava molto, tuttavia garantì a lei e alla famiglia il sostentamento. […] Ora vi racconterò come è cominciata la storia del forno: queste persone avevano un forno in casa, ma ormai erano vent’anni che non veniva più usato. […] Ero disperata e piangevo ormai da giorni perché ci avevano tolto il lavoro da becchino, quando una notte mi venne in sogno Donna ***e mi disse che non dovevo più piangere, […] mi disse di andare a chiedere a suo figlio di affittarmi il forno, così con il pane che avrei fatto potevamo guadagnare. […] Cominciai subito a cuocere il pane, ma mai avrei pensato che tutto il paese si sarebbe rivolto a me, tanto da dover fare sei forni al giorno. La sera tornavo a casa con tanto pane da sfamare tutta la famiglia e ne avanzava anche. Tutte le persone per bene venivano a comprare il pane da me perché era ben cotto. Così per tredici anni ho fatto questo lavoro, inginocchiata davanti al forno a respirare fumo e cenere. Ma dovevo farlo perché avevo una famiglia numerosa da sfamare. elio ’Am Fam. D 28 Mio marito mi aiutava come poteva, il giorno andava in campagna e la notte andava a prendere la paglia, io invece facevo il giro del paese per prendere le ordinazioni dalle persone. Il periodo più brutto è stato durante la Seconda Guerra mondiale perché in casa non avevamo provviste e la notte mio marito andava scalzo in campagna, i piedi erano talmente induriti che non si infilavano più neanche le spine. Tutti i miei sacrifici erano rivolti al bene dei miei figli, volevo che non avessero la mia stessa sfortuna, avrei sempre voluto proteggerli dal vento, dal sole e dalla pioggia. […] Nonostante non abbia avuto una esistenza facile questa donna non si è mai lasciata travolgere dagli eventi negativi, ma è andata avanti con forza e sangue freddo, riconoscendo le cose belle e veramente importanti della vita, tra le quali l’istruzione che, senza dubbio, per lei ha rappresentato la possibilità di riscatto per se stessa e la sua famiglia. […] Da parte mia ringrazio i miei genitori di avermi dato la possibilità di andare a scuola, perché nel 1919 dopo la guerra, solo chi era istruito poteva imbarcarsi per l’America. […] Sono convinta anche del fatto che chi sa leggere e scrivere ha la vita moltiplicata per tre dalle cose che può imparare dai libri. Anche se ho smesso di andare a scuola a 11 anni, ancora oggi, a 76 anni, mi piace leggere e scrivere e voglio continuare a fare tutti i miei lavori. […] Ho fatto studiare tutti i miei figli perché sono convinta che chi sa leggere e scrivere ha quattro occhi che permettono di camminare notte e giorno e di leggere i cartelli che ti indicano la strada giusta. [...] Quel diario lo divorai, perché già dalle prime pagine capii che mi avrebbe dato qualcosa. Non avendo però 29 avuto la fortuna di conoscere la mia bisnonna, ho pensato di rivolgermi a lei con una lettera immaginaria. Cara nonna, grazie perché mi hai fatto conoscere l’importanza dell’istruzione, e che ci sono state persone che hanno messo a rischio la propria vita, a causa della guerra o intraprendendo pericolosi viaggi, per dare a noi un “Oggi”. Grazie perché ho capito che chiunque può fare la Storia; mi hai fatto comprendere l’importanza di un sogno, e che è vitale avere sangue freddo per inseguirlo. Grazie a te ho inteso che il presente ha avuto un “passato” e che tutti sono stati quello che sono io adesso; che la vita va vissuta con i suoi alti e bassi e che tutto può migliorare. Grazie a te la mia famiglia è quello che è; mi hai insegnato che l’età non conta, se realmente si crede in qualcosa. Insomma, ti ringrazio per aver fatto parte della mia vita e mi dispiace di non averti conosciuta personalmente. Tua nipote Emanuela. 30 La signora Maria Giovanna e sua nipote 31 Classe I C Donato Rosario Carozza - Fiorello Coscia - Giambattista Coscia - Luisa Coscia - Sonia De Marco - Maria Assunta Guerrera - Jennifer Morrone -Giovannangela Pia Pirro - Erika Pisani - Ylenia Pisani - Giada Pia Spallone - Romina Zelia Classe II C Teresa Celeste Accetturo - Emanuela Capozio - Maria Michela Cicchetti - Antonio Coscia - Michele Coscia - Pasquale Coscia - Raffaele Genovese - Giuseppe Pio Guerrera - Paola Miranda - Nicoletta Morrone - Antonio Pio Morrone - Fiore Santalucia Classe III C Lucia Donatella Accetturo - Elena Capozio - Deborah Coscia - Elisabetta Pia Coscia - Simone Coscia - Anna Pisani - Grazia Pisani - Antonio Salcito Una menzione particolare va all’alunna Emanuela Capozio che ha curato e redatto, in collaborazione con le docenti, la stesura del racconto pubblicato. ... Cele e r o t r o f l nza Va 35 La classe II A, nel ricercare donne che avessero compiuto qualcosa di importante per il proprio territorio, ha appreso di una donna davvero eccezionale, sia per quello che è riuscita a realizzare, sia perché ha agito in un periodo in cui le donne non erano dedite alla politica, agli affari e a prendere decisioni importanti. Il suo nome è Eleonora Siscar, figlia di Paolo Siscar, conte di Cosenza. La sua vita sarebbe potuta essere priva di qualsiasi nota di merito, se il suo destino non le fosse stato tanto avverso. Infatti le scelte politiche poco felici del marito, Carlo Gambacorta, barone di Celenza Valfortore, hanno fatto sì che le doti eccezionali di questa energica e virtuosa donna, come la definisce M. Cerulli nella sua opera, si manifestassero e giungessero fino a noi. Gli alunni della II A, dopo aver svolto diverse ricerche, hanno deciso di trascrivere quanto appreso come se fosse la stessa Eleonora a narrare gli eventi, da un punto di vista affatto soggettivo, in una sorta di diario. Si sono interrogati circa quali sentimenti dovesse provare questa nobildonna e, pertanto, hanno aggiunto considerazioni, che non sono presenti in alcun libro di cronistoria locale. Grazie a questo lavoro hanno capito meglio le dinamiche della micro-storia e della Storia, soprattutto riflettendo sul Sacco di Roma nel 1527 e la devastazione di Celenza nel 1528. 36 Fortezza di Celentia ad Valvam, 31 maggio 1543 È da giorni che si è insinuato nel mio cervello questo tarlo, non riesco in nessun modo a togliermelo dalla mente. E poi è giusto così, soprattutto nei confronti di Carlo. Vedova prima del tempo, devo raccogliere tutte le riflessioni, che ho scritto in questi anni di dura lotta, sostenuta solo dalla speranza di un futuro migliore per i miei figli e dal desiderio di riscattare l’onore dei Gambacorta, e devo consegnarle a mio figlio Giampaolo, perché faccia le scelte giuste e possa vivere a Celenza con Costanza, figlia dell’uomo che ho ritenuto per anni l’Usurpatore. 1495 Lo sapevamo che sarebbe stato un azzardo quello di appoggiare i Francesi, ora ne paghiamo lo scotto. Carlo aveva deciso così ed ora devo andar via dal mio castello… Carlo con i suoi fratelli si trova a Napoli, prigioniero degli Aragonesi, che lo hanno punito per il suo comportamento, ma solo a mio marito hanno tolto tutti i beni, anzi i suoi feudi sono passati nelle mani del fratello Francesco. Che assurdità! Eppure Federico dovrebbe sapere che è stato proprio suo cugino a tradirlo e ad allearsi con i Francesi. Sì, proprio quel sant’uomo, il Cattolico! Così Ferdinando spera di ottenere il regno di Napoli e con la Sicilia e la Sardegna diventare il più potente dei re della zona. Folle! I Francesi non glielo permetteranno mai! 37 1501 Oggi ho appena saputo che Federico ha consegnato il suo regno a Luigi XII… spero di poter riabbracciare presto mio marito, ma le voci non sono rassicuranti. Tutti conosciamo la perfidia degli Spagnoli. Dopo il tradimento pretenderanno tutti i possedimenti del regno di Napoli e non credo che i Francesi saranno disposti a rinunciare. Di certo le due parti non terranno fede al trattato di Granada. Carlo mi ha riferito nella sua missiva che ha buone speranze di riabbracciare tutti noi, dal momento che Federico ormai ha perso e che lui ora dovrebbe essere riconosciuto come alleato degli spagnoli. Sinceramente io sono sfiduciata… 1503 Sono passati due anni e non ancora posso rivedere il padre dei miei nove figli. Giovanni Paolo non fa altro che chiedermi di Carlo, non ricorda più il suo volto, la sua voce… sono davvero disperata! Mi è stato riferito da fonte certa che il generale spagnolo, Consalvo di Cordova, è stato costretto a rifugiarsi a Barletta, già da sette mesi. Due anni fa non mi sbagliavo, né gli Spagnoli né i Francesi sono disposti a cedere, a loro non basta la metà: vogliono tutto. Tanto la guerra non sta distruggendo i loro territori, non sono le loro mogli o i loro figli a subire tutte queste umiliazioni. 38 30 maggio 1503 Il messo mi ha appena riferito che Consalvo è stato accolto a Napoli come liberatore la settimana scorsa. Forse potremo rivedere Carlo! Il generale spagnolo è salvo grazie al coraggio di tredici eroi italiani, tra questi c’era anche un certo Miale da Troja. Tredici italiani hanno sfidato e vinto tredici militari francesi, nei terreni che si estendono tra Andria e Corato, il 13 di febbraio. Spero solo che ora Luigi XII accetti la sconfitta. 17 dicembre 1503 I Francesi non hanno accettato la sconfitta: prevedibile! Le battaglie sono all’ordine del giorno. Mi è stato riferito che l’esercito francese è stremato. Ma io ormai sono del tutto sfiduciata. 20 gennaio 1504 Luigi XII finalmente, dopo la capitolazione di Gaeta, ha riconosciuto Ferdinando re di Napoli. Ho iniziato a sperare di nuovo, sono al settimo cielo, ma ho paura di rimanere delusa. 27 febbraio 1504 I tempi si allungano… vivo nell’attesa del ritorno di Carlo, le ore mi sembrano anni, i giorni secoli… Carlo mi dice di non disperare: è solo una questione di tempo. Mi rassicura che ritornerà addirittura da padrone. Al momento non voglio e non posso farmi illudere, vivo così ormai da nove anni. 39 1508 Sono passati quattro anni dall’ultima volta che ho preso questi fogli per appuntare le mie riflessioni. E sono passati tredici anni d’inferno dalla prima volta che ho iniziato a scrivere… inferno non certo voluto da Carlo; quando due potenze si schierano bisogna decidere da che parte stare e questo ha fatto Carlo Gambacorta, signore di una piccola baronia, per cercare di salvaguardare il proprio territorio, i suoi sudditi e i propri eredi… tutto vano! Ora sembra (quanti anni di “sembra!”) che tutto si stia risolvendo per il verso giusto. Vorrei vedere dopo l’aiuto che ha ricevuto Ferdinando da mio marito! È stato dichiarato traditore, ha perso la libertà e i beni. A giorni Carlo ha un incontro con il Viceré, Giovanna d’Aragona, che deciderà sulla sua sorte. Sì, l’incontro è stato positivo… che gioia! I miei figli rivedranno il padre ed io mio marito! Ho potuto riabbracciare mio marito e possiamo ritornare nel nostro amato castello. Il Viceré ha stabilito che i possedimenti devono ritornare nelle mani di Carlo, che, come indennizzo, deve versare al fratello Francesco ogni anno cinquanta ducati dai duecento concessigli dalla “Cattolica Maestà”… 1528 Ero certa che non avrei più scritto nulla su questi fogli… illusa! Anzi questi fogli sparsi sono tra le poche cose che sono riuscita a salvare. A Carlo sono stati confiscati tutti i beni… è già da una settimana che è andato via da Celenza. Questa volta non ci sono speranze, l’imperatore non lo perdonerà per il suo tradimento. Avevo implorato mio marito perché non appoggiasse il 40 generale francese Lautrech. Carlo V, dopo che ha acquisito con l’inganno il titolo di imperatore, è divenuto il sovrano più potente di tutti, nonché il più vendicativo. Già dopo lo scorso 6 maggio a Roma, Sua Maestà imperiale non si è smentito. Due giorni fa le truppe imperiali, guidate da Pietro Rossi e da Fabrizio Marramaus, hanno saccheggiato e bruciato il nostro tenimento. Non ho parole per descrivere la mia delusione: il Castello della Valva, che mio suocero Giovanni aveva iniziato a costruire e che Carlo ed io avevamo portato a termine nel 1519, è stato completamente distrutto dalle truppe imperiali, forse sarebbe meglio dire dai barbari imperiali. 2 luglio 1530 Dopo il marito, mi è stato tolto anche Gian Vincenzo, il mio adorato figlio, generale d’artiglieria, che, come suo padre, aveva tradito l’imperatore… è partito esule col principe di Melfi verso Angoulème. Ora so che morirò senza il conforto di Carlo e di Gian Vincenzo. 1533 Avevo perfettamente ragione: per Carlo Gambacorta non ci sono più speranze. La Baronia di Celenza è passata a Girolamo Tuttavilla, con Decreto Regio dell’8 aprile. In questo decreto mio marito è definito un fellone, perché non sottomesso ai comandi dell’imperatore… i signori di piccoli territori sono meno liberi dei propri sudditi! Ora i nostri tenimenti sono passati ai Tuttavilla, perché Girolamo si è dimostrato “fedele”, pertanto viene in questo modo ricompensato per i “servigi prestati” contro i Turchi nel Peloponneso. 41 Fin quando era il fratello di mio marito, Francesco Gambacorta, ad essere chiamato signore della Baronia di Celenza, potevamo sperare di ritornare ad essere “i signori baroni”, ma ora non c’è un minimo barlume di speranza… Ma io faccio solenne giuramento, per l’onore dei miei figli, per l’onore dei Siscar miei ascendenti, per l’onore di mio marito, che io riuscirò a riscattare questi territori e che i Gambacorta torneranno ad essere i signori di Celenza. Dicembre 1541 Ho ricevuto tempo addietro la risposta alla mia richiesta, perché la mia prole, nonostante discendente da un “ribelle”, possa ereditare i miei possedimenti. L’imperatore ha accolto questa mia petizione, così i miei figli, alla mia morte, erediteranno le baronie di S. Giovanni Maggiore e di Puzzano, che il 22 luglio 1530 comprai con i trentamila ducati, che il Conte di Aiello, mio padre, mi diede quando mi sposai, come dote. Ora non mi resta che ratificare presso la Regia Tesoreria questo privilegio, con la modica cifra di seicento ducati! Ma non mi ritengo ancora soddisfatta: i Gambacorta devono tornare ad essere i signori di Celenza. 24 maggio 1543 Ora ho raggiunto il mio scopo, Carlo può essere soddisfatto di me… senza false modestie devo dire che io lo sono. Ieri ho acquistato, per ventiquattromila ducati, la Terra di Celenza, grazie al privilegio di successione ottenuto da Carlo V mio figlio Giampaolo sarà il prossimo barone di Celenza, un Gambacorta. 42 1549 Ho lottato strenuamente per riottenere i beni e i diritti che Carlo aveva perso, ora sono di nuovo la Baronessa, ma non mi sento felice, soddisfatta sì, ma felice non certo. Fino a ieri almeno avevo l’assurda speranza di riabbracciare Carlo, ma proprio ieri questa mi è stata strappata… Carlo è morto, mi sento ancora più sola, ma devo continuare a mantenere il mio contegno, dopo tutto io sono la Baronessa… Celenza, 1555 Carissima madre, la mia ammirazione nei tuoi confronti, già esagerata, non può che aumentare leggendo queste tue pagine. Sei stata e lo sarai sempre per noi motivo di orgoglio. Nonostante le tante avversità, non ti sei mai lamentata, non hai mai recriminato sui presunti sbagli di nostro padre, anzi hai cercato di riscattare l’onore dei Gambacorta e, perché energica e virtuosa, ci sei riuscita. Purtroppo queste parole non le potrai mai ascoltare… ma mi piace pensare che dal Cielo tu possa venire a conoscenza dei miei pensieri e del mio amore nei tuoi riguardi. Di questo sono certo: tu sei in Paradiso! Durante le tue esequie è apparso un uccelletto bianchissimo, che è volato via al termine della cerimonia. Tutto il tuo popolo è rimasto ammirato per l’evento e ha pensato che l’uccello altri non era se non la tua anima. E questo lo penso anch’io. Addio Mamma. Giampaolo Gambacorta. 43 Classe II A Giusy Arpino - Francesco Canonico - Giannantonio Caruso - Pasquale Codianni - Giuseppe Di Ianni - Aurora Di Vito - Giovanni Di Vito - Francesco Faioli - Alessia Iamele - Emanuele Iamele - Emiliano Iosa - Michele Lombardi - Nicla Maddalena - Antonio Perrella - Tonia Rutigliano ... Motta Montecorvino 47 … verità nascoste 8 Gennaio 2010 Cara figlia mia, alla fine della mia vita con tanto dolore ho il desiderio di raccontarti un po’ della mia storia. Io non so se ve ne siete mai accorti tu e tuo fratello, ma la mia vita non è stata tanto semplice. Voglio cominciare dall’inizio: nella mia famiglia di origine non mancava niente, c’era tutto, anche il rispetto, ma all’età di diciannove anni ho incontrato tuo padre per la prima volta ed è da qui che cominciò la mia sofferenza. Era giugno, mi trovavo a una festa e lì l’ho visto. Si avvicinò a me dicendomi, con aria arrogante, che a settembre ci saremmo sposati, dopo che lui avrebbe mietuto, arato e preparato il terreno per novembre. Io, perplessa e confusa, non ebbi il coraggio di rispondere niente. A settembre, puntuale, tuo padre si presentò a casa e decise, insieme ai miei genitori, la data delle nozze, la dote da portare con me e il viaggio di nozze. Per un breve periodo di tempo la nostra vita fu alquanto tranquilla, sembrava una favola anche se tuo padre aveva degli scatti di ira e io avevo un po’ paura. Tu sai che il lavoro in campagna è molto duro: ci si alzava presto, la mattina accudivo gli animali e poi venivo a svegliarvi, arrivavo alla sera stanca morta. Nel frattempo il carattere di tuo padre peggiorava fino a quando non uscì in tutta la sua cattiveria: bastava una parola sbagliata e uno sguardo diverso dal solito per picchiarmi. Avrei voluto un marito diverso. Un giorno io e tuo padre eravamo seduti vicino al camino, lui mi fece una domanda. Io risposi, 48 ma lui notò in me un tono di voce diverso dal solito, si alzò e con tanta violenza prese la sedia su cui era seduto e me la diede in testa causandomi ferite. Così andai al pronto soccorso e il medico, che ormai mi conosceva molto bene, dati i miei ripetuti traumi mi chiese cosa fosse successo. Io gli risposi che ero scivolata nella stalla. Lui fece finta di credermi, ma già sapeva da che cosa o meglio da chi erano state causate le mie ferite. Dal mio matrimonio mi aspettavo un finale diverso con tanta felicità e un po’ più d’amore. Nonostante tutto sono contenta di avervi messo al mondo e di avervi dato tutto l’affetto che durante il matrimonio, da parte di tuo padre, non ho ricevuto. Ora tu, figlia mia, hai deciso si seguire l’esempio del tuo malvagio papà e lo hai dimostrato abbandonandomi, ma la mia gioia siete voi figli miei: vi amo. Ora, cara, ti saluto continuando a vivere nella speranza che un giorno possa finalmente riabbracciarti e vivere con te gli ultimi anni della mia vita. Con affetto, tua mamma. Caterina Cairelli Giovanna Piccirilli Antonella Valentino 49 Il brigantaggio al femminile 50 Dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie all’Italia, con a capo Vittorio Emanuele II di casa Savoia, sorse un movimento di opposizione all’unificazione che toccò quasi esclusivamente il Mezzogiorno: il Brigantaggio. Anche nel nostro paese, Motta M.no, operarono, guidati da Matteo Di Carlo, Giovanni Pepe, Pasquale Romano e Tommaso Grampone, i briganti, uomini fedeli al re Borbone Francesco II, chiamato dal popolo “Franceschiello”. Per garantire la vita dei cittadini e le proprietà private, per la tutela dell’ordine pubblico e per la repressione di questo fenomeno, fu istituita anche in Motta M.no, come in quasi tutti i paesi del Meridione, la Guardia Nazionale, costituita da Carabinieri, soldati, ma anche da gente del posto favorevole all’unificazione. Secondo la visione tradizionalista della storia, il termine brigante indicava gruppi armati di delinquenti che depredavano, saccheggiavano e uccidevano, vivendo alla macchia, ma studi moderni hanno dimostrato che non si trattava di fuorilegge e assassini, ma di gente stanca dei soprusi perpetrati dai piemontesi a danno della gente del Sud. 51 Così, dopo decenni di omissioni e di silenzi, sono stati pubblicati studi e organizzate mostre che hanno evidenziato la funzione che uomini e donne di diversa estrazione sociale hanno ricoperto nel processo risorgimentale con le loro idee e il loro impegno nella lotta. Alle rivolte che si svilupparono in tutto il Mezzogiorno tra la seconda metà del 1860 e del 1861, periodo del cosiddetto “Grande brigantaggio”, partecipò un numero alto di donne: tante donne che trovarono il coraggio di opporsi a un esercito che avrebbe dovuto essere garante di una rivoluzione sociale a tutela dei diritti dei più deboli, delle classi sociali più svantaggiate, ma che invece si mostrò garante, ancora una volta, delle classi sociali più agiate. Le donne che presero parte direttamente agli assalti e alle depredazioni, erano tutte popolane che pagavano direttamente le conseguenze dell’oppressione piemontese. Furono tante le donne, soprattutto parenti dei briganti, a lottare in prima fila e a rendersi protagoniste di delitti, che furono perfino arrestate e poi liberate, dopo alcune settimane, sotto la pressione popolare. Verso la fine del 1861, la repressione del Governo si fece spietata e feroce, costringendo le bande dei briganti ad abbandonare le proprie case e ad assumere un’organizzazione più efficiente per sfidare le truppe piemontesi. La tecnica che adoperarono fu quella della guerriglia per evitare lo scontro frontale. In una società fondata sulla forza, sulla violenza fisica e morale, sull’onore, in questa organizzazione maschile, le donne potevano avere solo un ruolo di supporto, in quanto, al livello operativo e di comando, la presenza delle donne era incompatibile con il codice culturale vigente. Non c’è da stupirsi, quindi, che la presenza delle donne nelle bande sia stata minima. In Capitanata il numero delle attrici del brigantaggio 52 risulta essere di 35 su un totale di 1459 briganti, pari al 2,5%1. La Prefettura di Foggia, nel 1863, annoverava su 509 nominativi appena 8 donne, provenienti quasi tutte dal Subappenino Dauno. Qualche ragazza più insofferente, vide nella vita con le bande un’occasione per sfuggire a un destino segnato dalla miseria e dalla subordinazione: in una società contadina, nella quale l’uomo nasceva in profonda miseria, senza diritti e senza proprietà, l’unico diritto e l’unica proprietà che poteva rivendicare erano quelli sulle proprie donne. La maggioranza di queste donne ribelli era costretta a sparire nei boschi per sfuggire all’arresto o alle violenze dei militari. Infatti, tra le misure repressive c’era l’arresto dei familiari dei briganti e le donne, madri, mogli, figlie, sorelle e amanti, non sfuggivano a questa regola. Alcune di esse furono condannate perché colpevoli di aver portato un po’ di cibo ai figli latitanti e quasi tutte conobbero il carcere. Molte donne, proprio per sfuggire al carcere, preferirono la vita libera e rischiosa delle bande accanto ai propri uomini, e se c’era da fare a schioppettate non si tiravano indietro. Volevano essere anch’esse delle vere e proprie brigantesse, in grado di sparare, accoltellare e uccidere. Avevano delle armi e spesso vestivano abiti maschili. Venivano chiamate, con disprezzo, drude. Soltanto poche donne, però, divennero molto importanti per il ruolo fondamentale svolto: molte di loro assicuravano i collegamenti con i briganti, rifornivano di viveri i propri uomini, venivano utilizzate, fingendo di svolgere lavori nei campi, come vedette e informatrici o agli incroci delle strade o nei punti di passaggio obGiuseppe Clemente, Il Brigantaggio in Capitanata. Fonti documentarie e anagrafe, Presentazione di Raffaele Colapietra, Roma, Archivio Guido Izzi, 1999. 1 53 bligato per segnalare che le truppe stavano arrivando e quindi dare modo ai propri uomini di scappare. Alcune erano considerate delle vere e proprie spie, pronte a indicare tutti i movimenti delle truppe piemontesi, altre portavano aiuto ai briganti o li nascondevano in luoghi considerati sicuri, dimostrando amore continuo verso i propri parenti. Erano madri, mogli, sorelle che si mettevano per strade di montagna o collina, trovavano il coraggio di uscire di casa, osare contro la legge, affrontare il buio, vincere la paura e sfidare la sorte. Alcune di loro amarono i propri uomini al punto da cavalcare un cavallo, imbracciare un fucile e morire sulle montagne con loro per difenderli. Tra gli avvenimenti che videro come protagoniste le donne dei briganti nel nostro territorio, è da ricordare quello del giorno 9 settembre 1860. Alla periferia di Motta M.no arrivò un plotone di vigili appartenenti alla Guardia Nazionale che perlustrava la zona per reprimere gli atti vandalici dei briganti. 54 La notizia era giunta per tempo in paese grazie alla staffetta di informazioni portate avanti dalle donne intente a lavorare nelle campagne circostanti. Alcune di esse, terrorizzate, si erano chiuse nelle cantine delle proprie case, altre, invece, erano pronte a sfidare la Guardia Nazionale e andare ad avvisare i propri parenti affinché si tenessero ben nascosti fino alla fine della perlustrazione. 55 Intanto il plotone, giunto in paese, aveva cominciato a seminare il panico… … tirando fuori con la forza quelli che erano considerati traditori e fuorilegge:… 56 … insultavano, malmenavano, torturavano indifferentemente uomini, donne, anziani e bambini per far confessare loro i nascondigli dei briganti. Queste scene di violenza gratuita fecero temere che qualcuno potesse parlare. Mentre la colonna di soldati attraversava le vie del paese, una donna, certa Berenice Ciaburri, discendente da nobile famiglia napoletana, seconda moglie di Matteo Petitti, ritenuto fuorilegge perché dedito al brigantaggio, essendo molto pratica nel maneggio delle armi, al passaggio dei militari impugnò il suo archibugio e sparò da un balcone… 57 … colpendo il cavallo su cui viaggiava il comandante della Guardia Nazionale di Lucera, Gaetano De Peppo. Da questo colpo prese avvio una sparatoria tra popolo mottese e militari che durò quasi tutta la notte.2 Per quest’azione le autorità del Comune dovettero recarsi a Foggia e dar conto, di persona, al Governatore della Provincia.3 P. Gramegna, Motta Montecorvino. La sua vita attraverso i secoli: dalle origini ad oggi. Foggia, Grafiche Leone, 1970, pp. 91- 92. 3 L’anno Mille ottocento sessantuno, il giorno 3 marzo in Motta. Riunitosi il Decurionato nel solito locale delle loro riunioni, previo invito del Sindaco Presidente, il quale ci ha prospettato quanto appreso. Il giorno 16 del mese di Settembre, il Governatore della Provincia con suo foglio della stessa data trasmesso al Sindaco, al Capitano della Guardia Nazionale di Motta, per mezzo del Capitano Comandante la Guardia Nazionale di Lucera ci 2 58 Mentre i soldati erano impegnati a difendersi dall’attacco dei cittadini insorti, incoraggiati dall’audacia di questa donna, la stessa riuscì altrettanto audacemente a uscire dal paese e a battere i sentieri più nascosti per mettersi in salvo e cercare l’aiuto delle bande dei briganti. dice che si fosse recato in Foggia una commissione dei cittadini di Motta composta dai signori Sindaco, Capitano, Decurioni Alberto Calabrese, Francesco Lojacono, Costanzo Petti cittadino, D. Aquilino Renzone, da D. Matteo Massenzio sacerdoti, onde presentarsi al Sig. Governatore per far conoscere il netto della disgrazia avvenuta fra i cittadini di Motta e la Guardia Nazionale di Lucera e di altri paesi comandata dl Capitano sig. De Peppo, cioè dello scambio di diverse fucilate tirate vicendevolmente. […] In P. Gramegna, Motta Montecorvino. La sua vita attraverso i secoli: dalle origini ad oggi. Foggia, Grafiche Leone, 1970, pp. 91-92 59 Non per questo, però, la signora Ciaburri dimenticò di essere, innanzitutto, una mamma: prima di mettere a repentaglio la sua vita, si assicurò che i propri figlioletti fossero al sicuro con i nonni. Il suo secondo pensiero fu per il marito. Infatti, percorrendo sentieri scoscesi e ricchi di insidie, arrivò da lui e, insieme, passando per i boschi che sovrastano Pietra M.no, Castelnuovo della Daunia, Torremaggiore e San Severo, dopo giorni di cammino, trovarono riparo sotto il convento di San Matteo, a San Marco in Lamis. 60 Da qui il marito tornò alla lotta contro i piemontesi a Motta M.no, mentre la donna condusse per due anni una vita tranquilla cercando di coltivare delle amicizie. In particolare confidò il suo segreto a una donna del posto che, però, la tradì consegnandola alla Guardia Nazionale. 61 Classe III E Caterina Cairelli - Luca Di Carlo - Donato Lepore - Carmine Limongelli - Pietro Papa - Giovanna Piccirilli -Antonella Valentino I disegni sono stati prodotti dai ragazzi durante il Laboratorio “IL FUMETTO”, tenuto dal prof. Germano Massenzio. Si ringrazia la Direzione del Museo della Civiltà contadina e delle Tradizioni popolari di Motta Montecorvino per la documentazione storica relativa all’evento “I briganti della porta accanto”. a M n a ... S a l o t a C rco la 65 I lavori, realizzati dagli alunni delle classi I, II, III B di San Marco la Catola, presentano la condizione della donna nel loro piccolo paese in passato e nella realtà odierna. La donna di ieri, dedita solo alla famiglia, era moglie e madre attenta, coraggiosa, instancabile, ma non di rado anche umiliata e sottomessa. Oggi, invece, le donne sammarchesi non solo sono spose e madri, ma lavoratrici e, in alcuni casi, per amore del paese, dedite anche alla politica. San Marco la Catola, infatti, vanta la presenza di donne, ”quote rosa”, che collaborano nell’amministrazione del Comune. 66 Silenziosamente grandi Quale il ruolo della donna nella nostra piccola realtà? C’è stata qualche donna in particolare che si è distinta in positivo per il bene della nostra comunità? Abbiamo chiesto in giro a persone un po’ “più avanti negli anni” ponendo loro tali domande e ci siamo resi conto che in realtà nel nostro piccolo paese nessuna donna ha avuto un ruolo di rilievo importantissimo, ma nel concreto la storia l’hanno resa possibile donne comuni che nella loro quotidianità hanno lottato e sostenuto la famiglia e l’intera comunità sammarchese pur restando nell’ombra delle pareti domestiche, lasciando agli uomini l’aureola di protagonisti. La donna ha sempre avuto un ruolo importante per la famiglia a S. Marco. Durante la Seconda Guerra mondiale, poiché quasi tutti gli uomini erano al fronte, le donne ”tiravano avanti” la famiglia lavorando duramente soprattutto nei campi; portavano con loro, nelle cunue messe sulla testa, i bambini piccolissimi. Non c’era la scuola materna e i bambini più grandicelli venivano affidati ad alcune donne che li accudivano durante la giornata in cambio di cibo. 67 Le donne s’ingegnavano in tutti i lavori: lavoravano col fuso la lana delle pecore e poi la tingevano nell’acqua con il mallo delle noci, che le dava un bel colore beige scuro. Non c’era l’acqua nelle case ed erano quasi sempre le donne ad andare ad attingerla con le conche alla fontana o nei pozzi. Il pane si faceva in casa ed erano solo le donne che se ne occupavano. Le nostre nonne ricordano che il lavoro cominciava dalla pulizia del grano che si metteva su un tavoliere, si scartavano i chicchi non buoni e poi si portava al mulino per farlo macinare. Una donna, la fornaia, di giorno andava da chi doveva impastare il pane per ben tre volte: una prima volta diceva di iniziare ad impastarlo; più tardi, dopo che la pasta era lievitata, diceva di fare le pagnotte e un’ultima volta di portarle al forno. Tante donne, soprattutto quelle più povere, si alzavano al mattino presto per andare a cercare la legna da utilizzare per riscaldare i propri figli. Tante altre andavano a raccogliere le cicorie selvatiche e le portavano a casa delle famiglie più benestanti per avere un piatto di farina e un pezzo di lardo in cambio. Non c’era acqua in casa e per lavare i panni alcune donne li radunavano e li portavano a lavare al fiume; li stendevano sulle siepi e la sera li riportavano puliti nelle case. Erano sempre le donne la forza della famiglia. Si svegliavano all’alba per preparare la pizza di granturco che cuocevano su una pietra rovente per la colazione dei loro cari. Col tempo il lavoro non è stato più così pesante per le donne, grazie all’aiuto degli elettrodomestici. A dimostrazione, a nostro avviso, di quanto le donne di San Marco, nella loro semplicità e quotidianità, siano state “silenziosamente grandi”, ci sono alcune testimonianze che abbiamo raccolto. 68 La prima riguarda la poetessa Consiglia Recchia, la quale ha vissuto la Seconda Guerra mondiale ed ha trascritto i suoi ricordi di guerra in un volumetto di poesie intitolato “Endecasillabi per una guerra”. Il racconto, tratto sia dalle poesie che dall’intervista effettuata a Consiglia Recchia, è una storia tutta al femminile; ripercorre, infatti, i principali eventi della guerra, vissuti da Consiglia Recchia insieme alla mamma e alla sorella Rina, rimaste sole poiché il papà e il fratello maggiore erano impegnati nel conflitto mondiale. Consiglia racconta: “Ero molto piccola quando è scoppiata la Seconda Guerra mondiale. I ricordi dei primi anni di guerra non sono nitidi data la mia giovane età, ma lentamente, scavando nella mia memoria, affiorano diverse immagini”. Ma ecco che affiora pian piano qualcosa dall’inconscio, quasi una dissolvenza… “Il primo ricordo legato a questi anni è quello di mio padre che mi teneva in braccio, davanti al camino, tra le sue gambe per ripararmi dal fuoco. Era appena arrivato dall’Albania e poi, all’improvviso, ma non ricordo quando, è ripartito per la guerra”. La mia guerra, vera si dipana sul filo della memoria;… comincia davanti al camino; faccia tesa verso la fiamma oltre le braccia di papà, solo un frugolo ero; … ripartì, ma in fede non ricordo quando e mi sforzo invano. “In seguito fu mio fratello Giovanni a partire per la guerra. Era il maggiore di sei fratelli e quando fu richiamato alle armi era quasi ventenne. Prima della sua partenza ci riunimmo tutti intorno al letto nuziale per pregare davanti al dipinto del Sacro Cuore di Gesù. Ricevemmo, in seguito, solo una cartolina da Eboli e poi 69 non avemmo più notizie di lui. Solo dopo diversi mesi arrivò una lettera dalla Macedonia e una fotografia”. Da Eboli il ponte d’una cartolina postale e dopo, il silenzio totale… Poi una lettera e la fotografia… “Porto anche fisicamente il ricordo della terribile guerra e precisamente del bombardamento di Foggia. Mi trovavo a casa e stavo giocando sul terrazzino dove c’erano dei pomodori messi in appositi contenitori ad essiccare al sole. All’improvviso sentii il rumore di tantissimi aerei che provenivano da Campobasso, così mi arrampicai sul bordo della “sarola” per vederli meglio, ma caddi sui pomodori procurandomi una profonda ferita alla testa. La cicatrice c’è ancora”. E viene per me il tempo di soffrire per una grave ferita di guerra. ... È spesso ancora il segno della cicatrice dovuta alla missione distruttrice di Foggia, rasa al suolo in uno schianto. “Una mattina, mentre ero sul balcone a giocare con l’acqua che si era depositata sulla ringhiera, vidi arrivare i Tedeschi che chiesero a Pinuccio Manella come arrivare al Castello. Con l’arrivo dei Tedeschi , mamma si preparò a portarci via da casa. Andammo al seminario, ma i Tedeschi arrivarono anche lì da don Antonio. Ricordo che io e mia sorella Rina dormivamo a terra, davanti all’ingresso ed avevamo paura ad alzare gli occhi per guardare i soldati tedeschi dei quali infatti ricordo solo gli stivali. Fummo costretti, dunque, ad andare via dal seminario”. Ci guida, a sera, nella nostra fuga da casa al non distante seminario per noi ospitale; ma presto una ruga, una crepa nel progetto… Viene il sonno, turbato da lacerti 70 d’incubi; di primo mattino, sciolti gli indugi, ancora in fuga tuttavia, noi, mamma e figli, ce ne andiamo via. “Pensammo di trovare rifugio presso il Convento dei Cappuccini, ma a metà strada dovemmo cambiare meta; restammo al frantoio di Malpece su insistenza dei proprietari, nostri amici. Durante la permanenza al frantoio, con il coprifuoco in vigore, l’unico a poter uscire era mio fratello Nicola che indossava la veste talare perché stava diventando sacerdote. Andava a casa a prendere le provviste nascoste da mia madre per sfamarci. L’impresa per fortuna è andata sempre a buon fine”. In fuga di nuovo e verso il convento dei Cappuccini. Tu proponi e scegli ma dispone Dio provvidenziale; a mezza strada il cambio della meta: calda, vera amicizia e una discreta insistenza c’inducono a restare in un frantoio… “L’occupazione tedesca fu molto dura. I Tedeschi confiscavano animali e viveri e uccidevano i maiali per le strade. Quei giorni non passavano mai: noi bambini non avevamo spazio per giocare e soprattutto dovevamo stare in silenzio per non attirare l’attenzione delle ronde tedesche”. Animali e vivande confiscano i Tedeschi ed uccidono i maiali, urlanti per le strade… Nel vano zeppo c’è ben poco spazio per ragazzi e per bambini più usi a giochi, chiasso e corse per la via di casa… “La notte di San Francesco, un boato segnò la fine della guerra: stavano bombardando il Ponte dei Tredici archi. Il rombo fu talmente forte che i vetri della finestra si ruppero e quasi caddero su me e mia sorella Rina, più 71 esposte rispetto alle altre bambine di Lucera, orfanelle che dormivano insieme a noi in quell’enorme stanza senza letti. Dopo il crollo del ponte, arrivarono gli Americani e noi tonammo a casa nostra, liberi di giocare. Gli Americani ci riempirono di dolci e di doni di ogni genere e finalmente noi ritornammo ad essere bambini”. A segnar la fine c’è un notturno boato… Il turno poi degli Americani, dopo il crollo notturno del ponte dei Tredici archi divelto al modo d’un viburno frollo. Torniamo a casa nostra e noi bambini a liberi giochi ed a sbarazzini discorsi italo-inglesi coi soldati… “Il giorno dell’Epifania ricevemmo una graditissima sorpresa… Eravamo appena tornati dalla messa e mia madre stava accendendo il fuoco quando entrò Amodio e chiese a mia madre se la fiamma del focolare fosse in grado di riscaldare un reduce di guerra, giunto a piedi nella neve a San Marco: quel reduce era mio fratello Giovanni, tornato dalla prigionia, dopo mesi e mesi di silenzio. Fu un vero miracolo dell’Epifania”. Dalla sua greca amara prigionia silente, dura e lunga mesi e mesi, come un fantasma, nel giorno festivo, egli compare, quasi un redivivo per familiari e parenti sorpresi, sconvolti e certo travolti, in balia di una gioia immensa, quasi magia, miracolo anzi dell’ Epifania. La seconda storia ha come protagonista una donna che si è distinta per il coraggio e la determinazione con cui ha saputo, da sola, provvedere ai suoi figli quando il marito era in Eritrea: la signora Pasqualina. La testimonianza che riportiamo di seguito ci è stata resa dal figlio Nicolino. 72 “Mi chiamo Nicolino, figlio di Antonio Manella e Pasqualina Mucci, terzo di otto fratelli, nato nel lontano 1928. Ho tanti ricordi del passato, ma ve ne voglio raccontare uno in particolare. Nel 1938 mio padre e tanti altri del paese furono richiamati dallo Stato per andare a lavorare in Africa, in Eritrea per la precisione, allora colonia italiana. Mussolini a quei tempi mandava tante imprese italiane, comandate dal generale Badoglio, a svolgere lavori di bonifica del territorio, con la promessa di affidarle, in seguito, a contadini italiani affinché le coltivassero. Così mio padre dovette partire, lasciando mia madre con sei figli e in attesa del settimo. Fu un momento difficile; di positivo c’era il fatto che al più presto sarebbero arrivati i soldi. Mia madre, dunque, donna di rara intelligenza, provvedeva ai nostri bisogni e ci educava a contribuire all’economia della famiglia. Passarono giorni e poi mesi, ma i soldi spediti da mio padre non arrivavano, così mia madre si rivolse a persone autorevoli del paese per risolvere il problema, purtroppo, però, senza risultato. Presa, dunque, dalla disperazione decise di scrivere alla regina, in modo tale da metterla a conoscenza della situazione della sua famiglia e di quella di tante altre del paese che versavano nella medesima condizione. La lettera ebbe un riscontro quasi immediato; infatti, il 10 aprile del 1939, giorno della nascita del settimo figlio, arrivò la risposta della regina e il mandato per poter riscuotere all’ufficio postale”. Lettera inviata alla Regina Elena, recitata dalla signora Mucci Pasqualina e ricordata a memoria dalla figlia Elvira, sorella di Nicolino La sottoscritta Mucci Pasqualina nata il 13 febbraio 1899 a Tufara Valfortore provincia di Campobasso, residente a San Marco la Catola provincia di Foggia, si rivolge alla Sua Maestà. O Regina, mio marito Manella Antonio è partito per l’Africa, in Eritrea, richiamato dallo Stato per lavorare, per poter mandare avanti i nostri sei figli. A tutt’oggi, dopo mesi e mesi, non è arrivata una lira; il signor podestà dice che lui non sa niente; ancor di più è grave 73 perché non ho sue notizie e nemmeno le altre mogli. La situazione è allarmante, angosciosa e a dir poco penosa per questi bambini miei e per tanti altri dei quali sono qui presenti le care Madri e che purtroppo stanno assaporando la povertà. Io mamma, spinta da dolore, faccio appello alla SUA MAESTA’REGINA, affinché voglia prendere a cuore la mia richiesta di aiuto. Mi affido speranzosa e fiducia al Suo buon cuore e alla Sua sensibilità per ottenere un piccolo contributo. Le scrivo anche a nome di tutte le mamme che sottoscrivono questa lettera e che sono nelle stesse condizioni mie. La ringraziamo in ginocchio, salutandoLa con umiltà. Il Signore La protegga e noi tutte pregheremo tanto per la VOSTRA MAESTA’, dolcissima Augusta Regina. Signora Mucci Pasqualina, moglie di Manella Antonio Altre mogli Successivamente a tutto ciò, le mamme tutte la sollecitarono a fondare la Segreteria, divenendone Segretaria, del Partito Comunista, con 500 donne iscritte. Come abbiamo notato, donne che a San Marco hanno fatto qualcosa di straordinario, non ne abbiamo avute. Grandiose però le donne del nostro paese lo sono state nella vita di ogni giorno: hanno curato le loro famiglie quando i mariti erano lontani in guerra o emigrati all’estero per lavoro. Tutte queste donne di cui abbiamo parlato sono, secondo noi, veramente straordinarie. Classe II B Maurizio Cassano - Lucia Cilfone - Solaika Cilfone - Carmen Coscia - Giuseppe De Martinis - Carmine Ferrara - Valeria Iannantuoni - Lorena Lembo - Federica Marucci - Pasquale Moffa - Carla Pasquino - Linda Santone - Giusy Vecchiarino 74 Storie di quotidiana sottomissione San Marco la Catola, 6 dicembre 2014 Caro diario, oggi ho un sacco di cose interessanti da raccontarti. In questi giorni, infatti, mi è capitato di parlare a lungo con alcune donne anziane del mio paese, dalle quali ho appreso molte informazioni, anche poco belle, su come venivano trattate le donne a San Marco la Catola un po’ di tempo fa. Le simpatiche nonnine, tutte sulla ottantina, mi hanno raccontato che le donne, ai loro tempi, non avevano gli stessi diritti degli uomini. Infatti, non potevano studiare, lavorare, esprimere la loro opinione, ma dovevano solo occuparsi della famiglia, dei figli e del lavoro nelle campagne. Tra i figli c’era una differenza di trattamento: mentre le donne dovevano solo stare in casa, sottomesse da ragazze alla volontà paterna e da sposate a quella del marito, i maschi potevano uscire e svagarsi come volevano. Non tutte le donne potevano andare a scuola e quelle a cui era consentito, la frequentavano al massimo fino alla quinta elementare, mentre i fratelli potevano anche proseguire gli studi. Prima di andare a scuola, però, dovevano recarsi alla fontana a prendere l’acqua o sbrigare le faccende domestiche; una volta tornate da scuola, poi, spesso andavano ad aiutare i genitori nei campi o dovevano preparare la cena per i loro genitori e fratelli. Nei pochi momenti liberi, facevano diversi tipi di giochi: bolì-bolò (la campana), mazz e piuz, il gioco della corda, 75 il gioco dello schiaffo; in casa, invece, si giocava con le bambole di pezza fatte da loro. Praticamente, mio caro diario, una donna doveva imparare sin da piccola ad essere una buona casalinga e basta e il suo normale destino, nonché il suo unico scopo nella vita, era il matrimonio. Ah, a questo proposito ho fatto un’altra bella (si fa per dire) scoperta: molti matrimoni venivano combinati, cioè erano i genitori a scegliere il marito alle proprie figlie. Quelle più ribelli, pur di sposare il ragazzo amato, dovevano fare la fuitina, cioè scappare con il fidanzato in modo tale da mettere i genitori di fronte al fatto compiuto. Sembra che una delle preoccupazioni principali dei genitori nei confronti delle figlie femmine fosse quella di cominciare a preparare il corredo sin da quando erano ancora piccole; in genere si acquistava la stoffa da cui un po’ per volta ottenere lenzuola, tovaglie e asciugamani da ricamare solitamente la sera, a lume di candela. Fino a un po’ di tempo fa c’era anche la consuetudine di stilare, prima del matrimonio, i cosiddetti nutament matrimoniali cioè capitoli matrimoniali o carte dotali. Essi consistevano nell’elenco minuzioso di tutti i beni che la famiglia della sposa assegnava in dote alla propria figlia. Le ragazze non potevano uscire assolutamente da sole, anche se erano fidanzate, ma dovevano essere sempre accompagnate da qualcuno. Con il matrimonio, però, la condizione della donna 76 non cambiava molto, anzi in alcuni casi peggiorava. Spesso gli sposini non andavano a vivere da soli, ma capitava non di rado che dovessero andare a vivere nella casa dei genitori del marito. Se prima erano sottomesse alla volontà del padre, dopo il matrimonio erano obbligate a sottostare alla volontà del marito, considerate una loro proprietà: dovevano accudire i figli, lavorare in campagna, raccogliere la legna per il fuoco che serviva sia per riscaldare la casa che per cucinare, prendere l’acqua alla fontana… insomma... una vita durissima. Per non parlare poi delle violenze fisiche che molte donne dovevano subire! Purtroppo le nonnine con cui ho parlato mi hanno riferito che molte donne venivano maltrattate. Alcune signore venivano picchiate violentemente dai mariti gelosi, anche solo per un semplice saluto da parte di un altro uomo; a volte si arrivava a calci e a pugni anche per una semplice discussione tra marito e moglie; tutto ciò poteva avvenire indifferentemente tra le mura domestiche, ma anche di fronte ad altre persone o per strada. Tra le diverse storie ascoltate, una mi è rimasta particolarmente impressa: quella di un marito che picchiava la moglie per qualsiasi sciocchezza; quest’uomo, però, essendo molto più basso della moglie, le ordinava di inginocchiarsi per poterla picchiare. Tutti sapevano, tutti conoscevano, ma nessuno diceva niente, era il normale corso degli eventi: le donne dovevano subire e dovevano stare anche zitte! Una vita non facile, dunque! A quei tempi, la donna era succube dell’uomo, non le era permesso contraddire il marito o tralasciare i lavori domestici che, come ho già detto, erano molto pesanti. Insomma, con sorpresa e meraviglia, ho appreso della condizione difficile delle donne di qualche anno fa. Alla mia età sembra tutto facile e dovuto… Per fortuna oggi molte cose sono cambiate, la donna 77 è indipendente ed emancipata, non è più costretta alla sottomissione e al silenzio, non è più relegata tra le pareti domestiche. Oggi nessun campo è riservato solo al sesso forte. Le donne hanno dimostrato di non essere inferiori all’uomo in nessun ambito: è sposa, madre e lavoratrice. Purtroppo, però, non mancano episodi di violenza e soprusi nei confronti delle donne. Molto è stato fatto, ma c’è ancora tanto da fare! Ora, caro diario, devo proprio andare, ma prima di salutarti vorrei lasciarti dei versi che ho letto sulla donna e che la nostra società dovrebbe fare propri: “Dio non ha creato la donna dalla testa dell’uomo perché fosse sua dominatrice, non l’ha creata dal piede perché fosse la sua schiava, ma l’ha creata dalla costola perché stesse vicino al cuore”. Classe I B Bruno Aldi - Gianluca Ferrara - Erica Forte - Andrea Iannantuoni - Domenik Perna - Giovanni Santacroce - Francesca Tufarolo Classe II B Maurizio Cassano - Lucia Cilfone - Solaika Cilfone - Carmen Coscia - Giuseppe De Martinis - Carmine Ferrara - Valeria Iannantuoni - Lorena Lembo - Federica Marucci - Pasquale Moffa - Carla Pasquino - Linda Santone - Giusy Vecchiarino 78 Le quote rosa di San Marco La Catola La presenza femminile all’interno di amministrazioni pubbliche non è mai stata qualcosa di ovvio, come invece quella maschile. È stato necessario un disegno di legge del 2005 e successive leggi per garantire una quota minima di presenza femminile all’interno del Parlamento, con l’introduzione delle quote rosa non solo in politica ma anche negli organi di amministrazione e nelle società controllate dalla Pubblica Amministrazione. Le quote rosa sono, dunque, quote minime di presenza femminile all’interno degli organi politici istituzionali, elettivi e non. Nel mondo della politica la percentuale delle donne presenti è sempre stata molto bassa; in Italia si attesta intorno al 19%, molto lontano dalla percentuale ideale che è del 50%. La donna deve essere parte attiva della vita politica e questo non significa che il suo ruolo debba limitarsi al diritto di voto, ma ogni donna può e deve essere eletta per avere la possibilità di migliorare la società e se stessa. Questo deve averlo ben compreso il sindaco del nostro paese sig. Paolo De Martinis, eletto nel maggio del 2013, che ha voluto al suo fianco, per amministrare il Comune, ben due donne, le sig. re Lucia Vitarelli e Filomena Cilfone. Per saperne di più abbiamo chiesto di incontrare sia il Sindaco che le due signore. Su nostro invito la sig.ra Vitarelli e la sig.ra Cilfone sono venute a scuola il 23/10/2014 e abbiamo chiesto loro 79 come mai sono scese in politica e quali progetti hanno per San Marco. Entrambe ci hanno spiegato che la loro decisione di impegnarsi in politica è stata dettata solo dall’amore verso il proprio paese, per cercare di migliorare le cose affinché i nostri giovani e ragazzi continuino a vivere a San Marco, senza avere il desiderio di scappare via. Stanno lavorando per cercare di cambiare la mentalità dei nostri concittadini: occorre impegnarsi in prima persona e non aspettare che a tutto debba pensare l’amministrazione comunale. Le idee che ci hanno illustrato sembrano valide: cooperative agricole per ritornare alla coltivazione di un particolare vitigno, il Carmuntell, e di uliveti, da cui trarre prodotti doc; cooperative sociali che si occupino dell’assistenza di anziani soli, che non vogliono lasciare la propria abitazione ma anche la realizzazione di una residenza per coloro che vogliono trascorrere in compagnia gli ultimi anni della propria vita, trasformazione delle abitazioni abbandonate in B&B per incentivare il turismo, considerata l’ubicazione e l’aria pura di San Marco La Catola. Al termine chiediamo alle signore di fissare un appuntamento con il Sindaco. E, infatti, il 03/11/2014, insieme alla prof.ssa Vitacchione, ci siamo recati al Municipio, dove ci attendeva la signora Vitarelli, la quale, prima di accompagnarci dal Sindaco, ci ha guidato nella visita ai vari uffici: Istat, Anagrafe, Stato Civile, Ragioneria, Servizi Sociali e Lsu (Lavoratori Socialmente Utili), Segretario comunale. A costui abbiamo chiesto di cosa si occupasse e ci ha spiegato che svolge il ruolo di notaio, in quanto è presente ogni volta che si riunisce la Giunta o il Consiglio, perché deve verbalizzare le sedute e si occupa anche dei contratti dell’Ente. Durante la visita abbiamo notato che nella maggior 80 parte degli uffici lavorano soprattutto donne, ma non è stato sempre così. Infatti, ci viene raccontato che fino a circa 35 anni fa negli uffici prevalevano gli impiegati, mentre le poche donne lavoravano solo presso la biblioteca o la scuola. Finalmente arriviamo nell’ufficio del Primo Cittadino, per l’attesissimo incontro. Il Sindaco è stato felice di accoglierci e ci ha subito spiegato che nel suo Gabinetto (a questa parola tutti noi abbiamo riso) avvengono le riunioni della Giunta, ma anche gli incontri con i componenti dello staff, di cui il Sindaco si è voluto circondare. Gli abbiamo chiesto perché abbia voluto delle donne al suo fianco per l’amministrazione del nostro paese, perché proprio loro e quali siano i compiti della signora Vitarelli e della signora Cilfone, la quale nel frattempo ci ha raggiunti. Il Sindaco ci ha detto che le donne possiedono quella marcia in più che gli uomini non hanno, che sono più attente, più riflessive e più sensibili degli uomini e che, se avesse potuto, avrebbe sicuramente preferito più donne al suo fianco, ma per il numero di abitanti di San Marco, la Giunta può essere composta solo da tre persone e nel nostro caso dal Sindaco, dal vicesindaco e, appunto, dalla signora Vitarelli, eletta come consigliere, a cui ha dato l’incarico di assessore. All’assessore Vitarelli, quindi, il Sindaco ha affi- 81 dato diversi settori come: spettacoli e manifestazioni, turismo, verde pubblico, istruzione, servizi sociali e cimiteriali. Inoltre, il Sindaco ha voluto circondarsi di uno staff, composto da quattro persone e una di queste è la signora Cilfone, con il compito di supportare i progetti della Giunta e di portare alla sua attenzione le problematiche più urgenti del paese e dei suoi cittadini. Il Sindaco ci ha spiegato di averle voluto al suo fianco perché sa che sono persone affidabili, su cui può contare e, infatti, si trova molto bene a lavorare con loro. Inoltre, ha tenuto a precisare che entrambe hanno rinunciato all’indennità prevista per il loro servizio. Dopo aver salutato il Sindaco, l’assessore Vitarelli e la signora Cilfone ci hanno fatto visitare la Sala del Consiglio comunale, dove, prima di offrirci merendine e bevande, ci hanno mostrato registri di consigli comunali risalenti al 1945, scritti con una meravigliosa grafia. Finito lo spuntino a sorpresa, che ci avevano preparato, siamo tornati a scuola soddisfatti per aver capito che le persone del Municipio non sono lontane da noi, anzi lavorano per noi e, soprattutto, con la speranza che questa amministrazione, dove la quota rosa svolge un ruolo importante, faccia grandi cose per il nostro amatissimo piccolo paese. Classe III B Selina Bozzuto - Erika Colagrossi - Valentina Colagrossi - Lorenzo D’Antino - Vincenzo Pio Ferrara Davide Gallo - Paola Iannantuoni - Gabriele Leccese - Arianna Montagano - Vittorio Pasquino Il disegni sono di Arianna Montagano (pag. 63), Carmen Coscia (pag. 66), Lucia Cilfone, Carmen Coscia, Valeria Iannantuoni, Lorena Lembo, Carla Pasquino, Linda Santone (pag. 75). ...Volturino 85 La storia e le storie delle donne di Volturino emergono dalle ricerche che i ragazzi della scuola secondaria di Volturino hanno svolto durante l’anno scolastico. Dai racconti semplici, che spesso narrano di esperienze comuni, emerge un vissuto dimenticato che è stato storia del nostro territorio e che, per rispetto a quanto fatto e subito dalle donne, abbiamo l’imperativo di non rimuovere dalla nostra memoria. Improprietà e imperfezioni presenti nei racconti e riportati in forma vernacolare, ci auguriamo potranno essere capiti e scusati dai cultori di questa forma linguistica. 86 Il lavoro di una donna Noi donne siamo state trattate sempre con inferiorità. Nonostante ora ci sia la parità dei diritti, gli uomini credono di essere sempre superiori. Anni fa, però, la situazione era peggiore. Sono Maria, una anziana signora come tante, con molti nipoti, figli, una vita frenetica, … c’è qualcosa però che mi distingue dalle altre donne. Per i miei nipoti, sono una donna diversa da tutte le altre, forse perché ai miei tempi era tutto diverso. Oggi ci si lamenta per niente, ma davvero poche persone sanno cosa significhi la parola dolore. Secondo le teorie più antiche è sempre stato l’uomo il capofamiglia, colui che lavora e che gestisce la famiglia. Io non sono d’accordo. Ai miei tempi, sin da quando ero una ragazzina, sono stata sempre 87 io a mettere in ordine la casa, a istruire i miei fratelli a preparare da mangiare, a curare i nostri animali. La mia vita passata non ha niente a che fare con quella di oggi. Quando sono cresciuta, la mia vita non è che sia migliorata molto. Mio marito lavorava in fabbrica, non lo vedevo quasi mai e, quando eravamo soli, mi trattava male, come una poveraccia, come una sua schiava e lo stesso faceva con i nostri figli. Non so dire purtroppo se sia stato un bene, ma l’ho perso in un incidente in fabbrica. Sapevo bene di non essere amata da lui, ma quello che provai in quel periodo fu una sensazione di vuoto, nonostante tutto quello che mi aveva fatto passare. Dovetti continuare io a mandare avanti la famiglia. Cercai un lavoro, ma si sa, le donne non sono tagliate per questo! Era la tipica frase che mi diceva puntualmente ogni datore di lavoro. Alla fine, riuscii a trovare un posto come cameriera di un bar, venivo pagata pochissimo e trattata male. Ora come ora posso ritenermi fortunata: ho una casa, figli, nipoti, un cane e sono circondata da tanto amore, per la prima volta. Spero che nel futuro non ci siano più queste situazioni. La condizione della donna è diversa, ma siamo sicuri che ci sia realmente la parità dei diritti in Italia? Giusy Postiglione 88 Angiolina e la rivolta delle donne Eravamo a casa di nonna per festeggiare il mio compleanno. Avevo preparato tutto: l’angolo buffet con tante cose buone da mangiare e da bere, l’angolo della musica con i cd preferiti da me e dai miei compagni di classe. Mentre stavamo ballando con la musica “a palla“, per gioco, abbiamo iniziato a colpirci con patatine, noccioline, wafer e pezzi di pizza. Avevamo perso un po’ il controllo quando ad un tratto entrò nonna Lina con le mani nei capelli per tutto quel fracasso, dicendo: «Oh, quedda rasc ca tnet!» (Oh, quell’abbondanza in cui vivete!) Pasquale uscì dal gruppo e chiese scusa a nonna Lina per il nostro atteggiamento e, quasi per farci perdonare, invitò nonna Lina a raccontarci un po’ della sua vita e a farci capire cosa significasse privarsi di qualcosa e di come si potesse soffrire la fame. Facemmo sedere comodamente nonna Lina, vista la sua bella età di 95 anni, con noi tutti intorno a lei, pensando che ci aspettasse un racconto lungo e noioso, ma non appena nonna Lina iniziò a parlare restammo affascinati subito dal tono delle parole e dal racconto. La nonna, con una mente lucida e con un atteggiamento deciso, iniziò così: ”Mia madre mi raccontò che tutti gli uomini, tra cui mio padre (tate), un giorno partirono per andare a combattere la Prima guerra mondiale. Nel nostro paese mio padre non fu l’unico a partire, ma partirono in tanti, tutti coraggiosi e forti. Molte donne come mia madre restarono da sole ad affrontare non una ma molte difficoltà come lavorare nei campi, sfamare i propri figli e partorire. Ricordo che spesso, insieme ai miei fratelli, sono andata a dormire 89 senza cenare o mangiando delle verdure povere raccolte nei campi. Era brutto e triste andare a letto a stomaco vuoto. Ricordo che una volta in cui ero particolarmente affamata, riuscii ad infilarmi nel pollaio della vicina e rubare due uova; notai, poi, con la coda dell’occhio, in un angolo, un po’ di grano che presi vergognandomi comunque di quello che stavo facendo, ma nello stesso tempo non dimenticando la fame che avevamo io e i miei figli. Tornai a casa, preparai un po’ di pane e una piccola frittata e mangiammo tutti insieme; l’odore della frittata e il sapore del pane creò un’atmosfera di festa. Il giorno seguente, avendo il rimorso di coscienza, andai in chiesa per confessare questo peccato perché pesava come un macigno, quando davanti alla chiesa del paese incontrai cummar Giuseppina con altre donne e con loro, spettegolando un po’, capii che noi donne a Volturino eravamo tutte nella stessa condizione disperata. Entrammo in chiesa e parlammo di questo con il parroco Don Giacomo D’Antini che, dispiaciuto, disse di non poter fare nulla; uscimmo e cummar Giuseppina infuriata, vagando nel paese, incoraggiò tutte le donne ad organizzare una protesta per la condizione di povertà e a ribellarsi. Fu così che il giorno dopo cummar Giuseppina, di buon’ora, si alzò e iniziò a protestare e man mano che le donne uscivano di casa, si aggiungevano a lei. Eravamo un esercito di donne e tutte unite; eravamo tante e decidemmo di andare alla casa comunale come forma di protesta, ma arrivate, nessuno aprì. Continuammo ad urlare, quando dall’uscio comparvero due carabinieri. Cummar Angiolina e cummar Carmelina, che erano quelle più robuste e più decise, facendosi largo tra le altre si avvicinarono ai Carabinieri urlando: “Noi vogliamo solo pace, pane e marito!“. Erano le sole cose che volevamo, spinte dalla disperazione. Il silenzio dei Carabinieri, invece di calmare gli animi, li esasperò e iniziando da cummar Angiolina 90 e cummar Carmelina, tutte ci infuriammo e aggredimmo i due poveri Carabinieri, malmenandoli. Forzammo l’ingresso del Comune, riuscendo ad entrare come un uragano nelle stanze dove prendemmo tutto quello che trovammo (carte, documenti, ecc) e lo portammo nella piazza principale di Volturino, facendone un gran falò. Dopo questa giornata, noi donne continuammo per un lungo periodo a protestare in piazza. Trascorse alcune settimane, quando andammo a ritirare il sussidio, ci accorgemmo che c’era stato un aumento che ci permise di vivere con più dignità”. A conclusione di questo racconto, la nonna ci guardò negli occhi e continuò a parlare ricordando soprattutto ai ragazzi di non sottovalutare mai le donne perché in caso di bisogno queste hanno la forza, il coraggio, la voglia di superare tutti gli ostacoli che si presentano durante la vita. Tutto questo per noi è stata una grande lezione. Classe II D Jasmin Albano - Miriana Albano - Donato Bilancia - Isabella Caitatu - Maria Ana - Agnese Ciufalo - Filomena D’Andola - Giuseppina D’Antini - Vittorio Di Pasqua - Elisa Graziano - Maria Graziano - Ferdinando Iorio - Maria Melito - Donatina Mucciaccito - Pasquale Ramieri - Manuela Recchia - Gabriele Salvatore - Lucia Santacroce - Maria Pia Santacroce 91 Cara nipotina mia Cara nipotina mia, sai oggi al telegiornale ho sentito una storia brutta di una donna che veniva perseguitata dal marito anche dopo essersi lasciati. Sai queste cose sono brutte a sentirsi ma almeno oggi si possono denunciare. Quando io ero giovanissima e non mi chiamavano ancora zia Antonia ma Antoniettina, mi ero innamorata di un bellissimo giovane, e anche lui di me. Mio padre non voleva e appena lo seppe, fece il “diavolo a quattro”. Mi picchiò, impedendomi di vederlo e malmenò anche mia madre che, essendo incinta da poco, ebbe un aborto. Dopo alcuni mesi ho dovuto fidanzarmi con tuo nonno, che allora non mi piaceva per niente, perché aveva sempre il viso tutto rosso e per questo lo chiamavano Salvatore “Pomodoro”. A quel tempo non ci si ribellava e accettai passivamente la decisione di mio padre sposando quello che tutti chiamano zio Tore, un uomo che ho dovuto imparare ad amare, a conoscere e a sopportare, perché da giovane tuo nonno non aveva il carattere buono e generoso che tu conosci. Io ho dovuto sempre ubbidirgli, anche quando avrei preferito fare diversamente e ti assicuro, cara nipotina mia, che ci sono state tante e tante occasioni per farlo. Ricordo che un giorno volevo andare a casa di mio padre perché era ormai in fin di vita e mi impedì di farlo perché diceva che mio padre non gli aveva donato un pezzettino di terra a Carignani, a cui lui teneva molto. Ero delusa, scontenta e triste con Salvatore e arrabbiata con mio padre che me l’aveva fatto sposare. I tempi erano duri, c’era tanta miseria e bisognava lavo- 92 rare tanto. Andavo in campagna a raccogliere le spighe dietro ai mietitori. Ai miei tempi si faceva tutto a mano ed era molto faticoso. Quando tuo padre era ancora in fasce, non potendo lasciarlo a nessuno, lo portavo con me in campagna, giravo la sella del cavallo e questa diventava una “culla”; era lì che faceva le sue ninne. Il lavoro non era solo questo, ad esempio, dovevo anche andare alla fontana alla Croce per riempire l’acqua che ci serviva per l’uso domestico; bisognava andare alla fiumara e lavare i panni, cucinare e sistemare la casa. Dopo tutto questo lavoro capitava anche che mio marito mi maltrattava o picchiava. Ricordo una sera in particolare, io ero stanchissima, quel giorno avevo davvero lavorato tanto, aspettavo che tornasse Salvatore dalla cantina per mangiare e andare a letto, ma lui tornò ubriaco, disse che non voleva per cena la polenta che io avevo cucinato, così iniziò prima solo a urlare ma quando io risposi: “Per stasera questa è”, iniziò a picchiarmi e mi diede tante botte che lo ricordo benissimo ancora oggi. Non potevo ribellarmi, era lui che comandava in casa e io non potevo fare altro che ubbidire e sottostare, anche per un senso di rispetto perché, se ci si lamentava, diventavo io la svergognata che non voleva sottostare al proprio marito. Ora con la vecchiaia le cose vanno meglio, non dobbiamo più 93 lavorare, il pane lo passa lo stato, e anche tuo nonno è diventato più buono e comprensivo. Sono felice, cara nipotina, che oggi tu abbia una vita migliore senza tanti sacrifici e umiliazioni. Fatti sempre rispettare da tutte le persone che incontrerai nel tuo cammino. Maria Pia Mucciacito 94 Donne e Onore La violenza sulle donne ormai esiste da secoli e non è più accettabile. È un problema e molte volte si fa fatica a parlarne. A questo proposito il nostro gruppo ha raccolto alcune storie vissute dalle nostre nonne di Volturino. Una nonna ci ha raccontato che in passato la donna o mamma era considerata una persona di poco conto rispetto al marito “padre padrone“. Il marito era la persona che comandava in casa e nei campi. La moglie doveva svolgere le faccende domestiche, cucinare, lavorare nei campi e crescere i figli, che spesso erano tanti. Se la moglie si ribellava, il marito “alzava quasi sempre le mani“, la umiliava e la maltrattava. Quando l’uomo beveva troppo, tornava a casa ubriaco e si sfogava sulla moglie maltrattandola, spesso sotto gli occhi dei figli. Anche le bambine lavoravano e aiutavano in casa, accudivano i propri fratelli o sorelle più piccole e spesso non terminavano le scuole elementari. Le ragazze non potevano uscire né potevano andare a messa da sole, ma dovevano essere accompagnate da qualcuno della famiglia e comunque dovevano camminare sempre con gli occhi bassi per non incrociare lo sguardo di qualcuno. Quando una 95 donna partoriva, se nasceva un maschio, la famiglia era contenta, se invece nasceva una bambina era delusa. Un’altra nonna di Volturino ci ha raccontato la storia di una ragazza che si era fidanzata, ma la famiglia non accettava questo fidanzamento e allora la ragazza decise di scappare con il fidanzato, cioè fare la fuitina quando avrebbe compiuto la maggiore età, cioè a 21 anni (non a 18 come adesso). La mamma di questa ragazza, saputa l’intenzione della figlia, ordinò all’altro suo figlio di prendere il fucile e ammazzare sia la sorella che il fidanzato. Per la famiglia la fuitina era un disonore, ed era inaccettabile che la ragazza non ubbidisse alle regole imposte. Tutto ciò per la famiglia era vergognoso ed era in uso che il figlio o un componente maschio della famiglia vendicasse il disonore subito. Fu così che il figlio, convinto dalla madre, prese un fucile, raggiunse il posto dove si trovavano la sorella e il fidanzato e li uccise. Tutto questo avvenne proprio il giorno prima del 21° compleanno della ragazza. La famiglia, seppur addolorata dalla perdita, non si sentì più disonorata da quel gesto di ribellione. Questo tipo di violenza a noi ragazzi d’oggi sembra assurdo. Grazie a tante battaglie, nonostante ci siano ancora molti pregiudizi, oggi la donna ha gli stessi diritti dell’uomo e non è più privata della propria libertà. Purtroppo, nonostante tutto, siamo costretti ad assistere quotidianamente ai tanti episodi di violenza sulle donne. Miriana Albano Jasmin Albano Maria Melito Nando Iorio Pasquale Ramieri Filomena D’Andola 96 Il coraggio di una donna Caro diario, oggi è venuto a trovarmi il mio nipotino ed ho trascorso un pomeriggio davvero particolare: mi sono sentita importante perché lui mi ha chiesto di raccontargli una storia del mio passato che riguardasse il coraggio delle donne. Mi sono emozionata nel sapere che oggi, anche nelle scuole, si affronta l’argomento delle donne e del loro coraggio, di donne che devono superare tanti problemi, cattiverie e maltrattamenti. Mi sono anche commossa perché, ho avuto l’occasione, rara, di andare a cercare nei ricordi. Sì, l’ho trovata una storia davvero particolare, una storia di coraggio nella vita di tutti i giorni. All’inizio degli anni Cinquanta, dopo la guerra, io abitavo in una stradina al centro del paese e, poiché ero la prima figlia di ben sette, d o ve v o a l zarmi presto per badare un po’ alla casa e un po’ ai miei fratelli, visto che mia madre e mio padre dovevano alzarsi presto per andare in campagna. Così tutte le mattine, assistevo sempre alla stessa scena che mi è rimasta impressa per tutta la vita. La mia vicina di casa, che noi tutti chiama- 97 vamo “Zia Maria”, era rimasta vedova in giovane età a causa della guerra e, avendo sei figli piccoli da accudire e non possedendo nemmeno un pezzetto di terra da coltivare, era costretta ad andare a lavorare “alla Puglia”. Sì caro diario, è un vecchio modo di dire e ricordo che significava “andare a lavorare in alcune terre”, ancora più a sud delle nostre campagne, dove ogni giorno si andava in gruppi per riuscire fino alla sera a portare a casa il necessario per sfamarsi. Ogni mattina zia Maria si alzava alle quattro e con tanta tristezza nel cuore, si preparava per andare a lavorare nei campi. La cosa che le dispiaceva di più era lasciare i suoi figlioletti nei loro lettini e non poter preparare loro almeno un po’ di latte e pane. La ricordo sempre vestita di nero, con il suo fazzoletto in testa, che andava verso la piazza del paese dove c’era il raduno di tante donne come lei, che ogni giorno andavano a lavorare “alla Puglia”. Salivano su mezzi di trasporto che non erano certo comodi come quelli di oggi, dovevano avere per forza tanta volontà di lavorare ma soprattutto tanto coraggio per affrontare, ogni giorno, non solo la fatica fisica del duro lavoro dei campi, ma soprattutto le umiliazioni e i maltrattamenti dei loro “caporali” i quali approfittavano spesso delle vedove e delle giovani donne non ancora sposate. Ma una cosa è certa, zia Maria era tanto coraggiosa e sapeva che prima o poi avrebbe dato ai suoi figli una vita dignitosa. Una cosa che le dava conforto era sapere che i suoi vicini di casa le davano comunque una mano, infatti, a quei tempi eravamo tutti molto più uniti e noi, che abitavamo nella stessa stradina, spesso avevamo le porte aperte e ci aiutavamo l’uno con l’altro. Anche a me, è capitato, qualche mattina, di dare un po’ di latte che avevo preparato per i miei fratelli ai nostri vicini di casa. Ecco, i figli di zia Maria erano un po’ i figli di tutte le famigle della stradina di casa mia. La solidarietà che 98 teneva uniti, ha dato coraggio a zia Maria. Un giorno però lei decise, con ancora più coraggio, di lasciare quei “caporali” che la maltrattavano e la sfruttavano e da sola cominciò ad arrangiarsi con altre donne per cercare di lavorare un po’ meno lontano da casa e più lontano dai maltrattamenti. Oggi zia Maria è molto anziana e dal suo sguardo si capisce che ha avuto una vita molto dura ma il suo coraggio non le ha mai fatto perdere l’amore per la famiglia e la fede in Dio. Ha anche saputo tenere nascoste le sue paure, ma ha condiviso con gli altri il suo coraggio. Ora sono un po’ stanca e devo salutarti, ma sono felice di averti raccontato il coraggio di una donna qualunque. Raffaele Puntonio 99 La sfortuna di essere donna Oggi al telegiornale ho visto uno dei tanti episodi di violenza sulle donne. Così mi è venuta in mente la mia vita, quando ero giovane. Tutto iniziò ottantatré anni fa quando sfortunatamente nacqui femmina; ero la delusione della mia famiglia perché a quei tempi nascere femmina era una disgrazia; infatti, all’età di dodici anni dovetti lasciare la scuola per prendermi cura dei miei tre fratelli, perché ero la più grande. Volevo andare a scuola per imparare, come tutte le persone benestanti, ma purtroppo io non avevo una famiglia ricca. Dovetti aiutare mia madre a fare tutti i servizi di casa come andare a lavare i panni alla fiumara, andare a prendere con un secchio l’acqua alla fontana e pulire la casa. Continuai così fino all’età di sedici anni, quando un giorno alla fiumara trovai Ndoniuc u mttor di cui mi innamorai, ma quando lo dissi ai miei genitori, mio padre si arrabbiò tantissimo perché lui aveva programmato di farmi sposare con un uomo ricco che a me non piaceva perché aveva dieci anni più di me; poi mia madre aggiunse che Ndoniuc veniva da una famiglia che non aveva niente, così mi proibirono di uscire di casa per paura che potessi incontrarlo. Sono rimasta chiusa in casa per due anni e durante questo periodo ho ricamato un grandissimo corredo per le mie nozze. Arrivati i miei diciotto anni, dovetti sposare a forza Nicolino, quello che i mie genitori volevano. Dopo un anno dal matrimonio nacque mio figlio Giacomino che mi diede la forza di andare avanti con coraggio e sopportare mio marito. Ogni volta che Nicolino andava a lavorare nei campi, piangevo perché 100 non sopportavo il fatto di aver sposato un uomo che non amavo, infatti, amavo ancora Ndoniuc. Una sera stavo piangendo, come al solito, ma Nicolino arrivò prima e mi vide piangere, a quel punto chiese delle spiegazioni e io con coraggio gli dissi tutta la verità, cioè che amavo un altro. Pensavo non la prendesse tanto male e invece iniziò a picchiarmi talmente forte che restai stesa a terra per molte ore; dicendogli la verità peggiorai ancora di più le cose e iniziò a picchiarmi ogni sera. Avevo paura e non mi piaceva per niente la mia situazione e speravo tanto che un bel giorno Nicolino morisse. Dopo qualche anno restai vedova e con un figlio da crescere e comunque la vita restò sempre difficile perché le donne, soprattutto se sole, non vengono prese mai in considerazione. Elisabetta Silvestro Mariapia D’Andola Daniele Savino 101 Miuccia: una storia come tante… Mi chiamo Filomena, ma tutti mi chiamano Miuccia. Io vivevo con mio marito Andrea e i miei otto figli in una piccola casa di campagna vicino Volturino. Povera me, che brutto destino ho avuto! Andrea, mio marito, mi ha fatto passare tanti guai. Al brutto carattere si è aggiunto Giuann sorament (è un modo di dire a Volturino che significa “bere sempre vino”). La mattina mi alzavo prestissimo e andavo alla fontana a prendere l’acqua; facevo tanti lavori: cucinavo, accudivo i miei figli, lavavo fagotti di panni alla fiumara e facevo tanti lavori nei campi. Quando era il tempo della mietitura andavo a spigolare, cioè a raccogliere le spighe di grano dove non arrivava la trebbia. Il grano che raccoglievo lo usavo per fare la farina agli animali. Tre, quattro volte al mese “ammassavo” cioè facevo il pane in casa. Lavoravo tantissimo, ma il lavoro più faticoso era sopportare la gelosia e i maltrattamenti di Andrea. Lui mi assillava di domande: “perché avevo fatto tardi, perché non c’era abbastanza vino, chi avessi incontrato alla fontana” e… tante volte si finiva per litigare e le botte le prendevo io. I bambini si spaventavano e piangevano, anche il piccolo Mattiuc che è il mio “figlio di latte”. Io, per racimolare qualcosa, 102 davo il mio latte a un bimbo che non era il mio. Il sette di settembre, il giorno prima della festa del paese, Andrea andò a Foggia a portare alcuni documenti all’Ente Riforme. Mentre aspettava la littorina, a Lucera, incontrò cummar Carulin, una donna di Volturino forte, decisa e senza peli sulla lingua. Cummar Carulin prese per il braccio Andrea e gli disse: “Ehi tu! Da quella pour fighie tu che voi? Miucc i l’ai crisciut ei boun, pulit… stut… tu si nu disgraziat! A mugghi d’ Utrin t’si capat”(Ehi tu! Da quella povera ragazza cosa vuoi? Miuccia io la conosco bene: è brava, pulita... scaltra... tu sei un disgraziato! Hai scelto la migliore del paese). La signora Carulin, alzando l’indice destro con tono minaccioso, gli disse: “Recurdt, quid cha fai t’jè pccat.” (Ricordati, quello che fai è peccato). Andrea con un mezzo sorriso rispose: “Non ci sono problemi zia Carulì”. Povera me, povera me! Quando tornò a casa sembrava un diavolo. Mi arrabbiai così tanto che il latte si “avvelenò” e Mattiuc e Pasqualin stettero male. E questo accadde l’otto settembre. Tanto si sa che ogni festa “s’arm na cummedia” (nasce un grosso litigio). Che potevo fare? Dove potevo andare? A chi lasciavo i miei figli? E se fossi andata via con i mie figli loro non avrebbero avuto un padre. E la gente cosa avrebbe pensato di me? Vittorio Di Pasqua 103 Storia di ordinaria violenza Sono Giuseppina, madre di tre figli molto bravi che mi aiutano in questi anni di vecchiaia. Mio marito non c’è più. La mattina, quando mi sveglio, prego e dico: “Dio aiutami ogni giorno, la mia vita era molto brutta. Dio amami tanto così come amo te”. Quando ho conosciuto Francesco non era come adesso, c’era la povertà, ma eravamo felici e abbiamo deciso di sposarci. Dopo il matrimonio abbiamo scoperto che mia suocera aveva la tubercolosi. Io e Francesco quindi le abbiamo regalato una nipotina “Antonietta”; mia suocera, però, dopo tanta felicità, morì. Francesco diventò triste e a volte era arrabbiato con tutti. La mattina mi svegliavo presto e andavo a lavorare con Antonietta perché non potevo lasciarla sola. Lavoravo in una villa e mi occupavo dei servizi domestici 104 per una donna benestante e tenevo la piccola sempre vicino a me perché temevo le succedesse qualcosa. Un giorno, tornata a casa, portai la bambina a letto. Quando tornò Francesco era arrabbiato, aveva giocato a carte con i suoi amici al bar e aveva perso; venne verso di me e mi chiese dei soldi per giocare ancora, ma io gli dissi che non c’erano soldi da perdere al gioco e lui allora iniziò a picchiarmi. Dopo questa aggressione si calmò e tornò ad amarmi e lo perdonai. Nacquero due gemelli, Giuseppe e Giovanni. Antonietta, che ormai era grande, accudiva i suoi fratelli quando io non c’ero. Francesco ogni tanto andava al bar e quando tornava mi insultava e poi la mattina ridiventava normale. Dopo tanti anni la situazione peggiorò, Francesco mi picchiava tutte le sere e l’unica cosa che potevo fare era pregare. Dio mi salvò, Francesco morì e da allora la mia vita divenne più tranquilla. Francesca Pompa 105 S’nucc e Pasqualin Mi chiamo Teresa, anche se qui a Volturino tutti mi chiamano S’nucc. Nel 1928 mi sono sposata con Pasqualino. Forse ero troppo giovane. Pasqualino era un bell’ uomo, un lavoratore ma con un brutto difetto: la gelosia. Quando mi sono sposata, pensavo di aver fatto un affarone, sposavo un ragazzo che non aveva più la mamma. Come si dice a Volturino: «I figh sul s’accattn a om», cioè i figli che non hanno la mamma valgono tantissimo perché non si deve “ sopportare “ la suocera che spesso vive con i figli maschi. Invece non ho fatto un affarone: Stù crist vale più di quattro suocere insieme. Quanto ho dovuto sopportare! Pasqualino vedeva cose che non esistevano. Immaginava che io sorridessi al suo amico. Oh, a che porta la gelosia! Mi vietava di uscire. Quando lui andava a lavorare in campagna mi diceva 106 di chiudermi dentro casa e di non aprire a nessuno, neanche a sua madre se fosse tornata dall’aldilà. Un giorno mi permise di andare in chiesa alla messa delle sei. Era una trappola, aveva mandato il suo amico Antonio per spiarmi e scoprire quale strada facessi e con chi parlassi. Quante botte ho preso! Quanta è bella la libertà! Avrei preferito andare “a pugghie” (andare a lavorare in Capitanata) anziché stare chiusa in casa. Una sera, dopo l’ultimo litigio, Pasqualino iniziò a sentirsi male e dopo tre giorni morì con la spagnola. Dopo tutti questi litigi, mi sentivo più serena ma devo ammettere che un po’ mio marito mi manca. Serena Di Pasqua 107 Una vita difficile Mi chiamo Rosa, oggi ho 92 anni e per molto tempo il mio corpo dovette subire violenze spietate da quello che anni fa chiamavo mio marito, Luigi. Disgraziatamente nacqui femmina, da una famiglia modesta. Mio padre e mia madre erano grandi lavoratori e, come sapete bene, allora si lavorava soprattutto nei campi guadagnando ben poco. Eravamo quattro fratelli, io ero la più grande e sono l’unica ancora in vita. Nonostante fossi la prima figlia, i miei genitori per mantenerci facevano grossi sacrifici, vendendo le uova perché avevamo qualche gallina. Andavo a scuola, ma finita la 5a elementare, avrei voluto tanto continuare gli studi però i miei genitori non me lo hanno permesso perché sarebbe stato un grosso peso per loro, così mi sono subito dedicata alle faccende domestiche. Andavo alla fontana a riempire l’acqua e a fiumar a lavare i panni; ho anche accudito l’ultimo dei miei fratelli che aveva appena due anni . Ero spesso triste, ma forse era quello il mio destino. 108 All’età di 18 anni i miei genitori volevano che mi sposassi, ma assolutamente non volevo sposare l’uomo che loro avevano in mente. Ero già stanca della vita. Ero innamorata di un ragazzo che avevo conosciuto “alla fontana” e se proprio dovevo sposarmi, avrei preferito lui. Il mio rifiuto verso il loro intento fu inutile. I miei genitori non vollero capirmi e dopo qualche mese mi costrinsero a pronunciare quel maledetto “Sì” . Cominciò allora la mia disperazione, anche se col passare degli anni iniziai ad amare mio marito. Vivevamo in una piccola casa in campagna, non mi faceva andare dai miei genitori e non mi permetteva di uscire e, poiché era molto geloso, si arrabbiava facilmente, molte volte senza motivo e io non potevo dire nulla perché era lui che comandava. La tristezza e la malinconia facevano parte ormai di me, passavo intere giornate a piangere. Dopo tre lunghi anni mi accorsi di aspettare un bambino. All’inizio non ero molto felice, perché non avrei mai voluto quel padre per i miei figli . Intanto gli insulti e le umiliazioni continuavano, nonostante lui mi prometteva sempre che sarebbe cambiato. Cercavo in tutti i modi di addolcirlo ma non serviva a niente. Durante la gravidanza non mi sentivo bene, ma lui non mi aiutava in niente. Il giorno più bello passato con lui? Il giorno della nascita di mia figlia. Sembrava che volesse cambiare veramente, ma non fu così. Solo i primi giorni è sembrato un’altra persona, ma dopo qualche mese iniziarono di nuovo grida e schiaffi. Non avevo più la forza di reagire, pensavo solo a far crescere mia figlia e pensavo a come sarebbe stato il suo futuro. Una sera ero già a letto, lui rientrò molto tardi, entrò in camera, arrabbiato (come sempre) solo perché aveva saputo che io e mia figlia eravamo andate a fare visita 109 ai miei genitori. Non mancava occasione per sgridarmi e insultarmi. Il bene che io provavo per lui diminuiva sempre più, allora ho pensato di andarmene di casa, portando con me mia figlia. Subito, pentita di essere scappata, ritornai da lui, anche sapendo che ero priva di qualsiasi forma di felicità e di qualsiasi cosa bella che la vita avrebbe potuto offrirmi, ma lo feci perché era pur sempre mio marito e il padre di mia figlia. L’11 settembre 1997 mio marito morì per un infarto; provai una sensazione di vuoto, ma senza alcun rimorso andai avanti perché gli avevo sempre portato rispetto. Non sono stata la sola donna nella mia comunità a sopportare tutto questo. Giuseppina D’Onofrio Gaia Tarallo 110 Nonna Giuseppina e il matrimonio per procura Noi ragazzi, parlando del problema della violenza sulla donna, ci siamo resi conto che non immaginiamo neanche quali siano stati i sacrifici e le sofferenze delle nostre nonne o bisnonne. Oggi, trovandoci davanti ad un camino con un fuoco scoppiettante, una nonna ha iniziato a raccontarci la vita che si svolgeva a Volturino quando lei aveva la nostra età. Molte famiglie vivevano in campagna e non conoscevano neanche il significato della parola “libertà“. Le donne erano disprezzate fin dalla nascita, infatti il proverbio dice: ”Mala nuttat e la fighja femmn”. La famiglia era patriarcale, cioè il potere era nelle mani del padre e i figli che si sposavano abitavano tutti insieme e molto spesso succedeva che l’ultima nuora era veramente considerata l’ultima arrivata e il suo parere non valeva niente. La nonna, con un grande sospiro e con voce commossa, riprende il suo racconto dicendo che a Volturino le donne che non si sposavano venivano considerate zitelle, cioè ragazze costrette a vivere nell’ombra della famiglia e a fare tutto quello che ad esse veniva ordinato. La nonna aggiunge: ”Avrei voluto tanto vivere tutti i momenti più belli della mia vita come quello del fidanzamento”. A Volturino, di solito, il ragazzo camminava per “adocchiare” la ragazza e le occasioni per conoscerla erano diverse: i matrimoni o alla fontana, alle feste o in chiesa. Mi ricordo ancora che c’erano delle persone, chiamate ruffian, che, magari per una piccola ricompensa (grano, orzo, vino), creavano 111 un “contatto“ tra il ragazzo e la ragazza. Il “ruffiano“, durante le trattative, indossava dei calzini rossi e una cravatta rossa che spesso gli venivano regalati dalle famiglie. Una volta “adocchiata“ la ragazza, il giovane cercava di farsi notare e molto spesso, quando la incontrava, la guardava e cercava di incrociare il suo sguardo. Quando riusciva a parlarle spesso le rivolgeva frasi molto semplici come: “T voj met a fa l’amor c me? Tenghe nnduzione bone”. La ragazza di solito rispondeva: “Ci devo pensare“. Una volta che la ragazza era d’accordo iniziava il periodo di fidanzamento che a volte era molto lungo; lui spesso si recava a casa della ragazza con un cugino o con uno zio per farle capire che aveva intenzioni serie; qualche volta veniva invitato a pranzo ed era lei a cucinare per dimostrare di essere una brava donna di casa. Dopo due o tre mesi di fidanzamento, c’era l’incontro dei genitori delle due famiglie che iniziavano a parlare sia delle doti dei propri figli che della “dote“ e delle spese del pranzo di nozze. A Volturino 112 si usava che i genitori della sposa si occupassero del mobilio e dei panni, nonché di un quantitativo di rame e di lana; mentre i genitori dello sposo provvedevano alla casa e al pranzo di nozze nonché alla futura nuora regalando una catenina d’oro. Il mobilio era costituito da una camera da letto e da una vetrinetta crestaller. Il rame serviva per le pentole tiell, la lana per riempire il materasso. Una ragazza veniva giudicata da come riusciva a “sistemare il letto“. Naturalmente il fidanzamento durava sette o otto mesi. La data delle nozze in genere veniva fissata in pieno inverno, periodo in cui la campagna non richiedeva manodopera e i raccolti erano già stati venduti. Il pranzo di nozze si svolgeva in casa e a cucinare erano di solito i parenti o gli amici; il menù era sempre lo stesso: maccarune e carne. Per l’occasione la famiglia dello sposo macellava due o tre agnelli o un vitello, a seconda delle possibilità. Non mancava mai il suonatore d’organetto, la quadriglia e la tarantella che allietavano la cerimonia. Con voce rauca, la nonna continua il suo racconto dicendo che lei non aveva potuto vivere tutto questo e che a causa della povertà dovette sposarsi per procura. La procura che, anche se restava un freddo pezzo di carta con bolli, timbri e contro timbri, era comunque messaggera d’amore e di unione.“Io, infatti - aggiunge - mio marito l’ho conosciuto attraverso una fotografia perché di solito erano i parenti emigrati che mandavano delle foto dei ragazzi con tutti i loro dati. Così anch’io inviai la mia fotografia e in questo modo ci siamo conosciuti io e Vincenzino. Tutti e due eravamo analfabeti ed eravamo costretti a rivolgerci ad altri per scrivere, leggere o per far interpretare le proprie emozioni, pensieri e sentimenti. 113 Gennaio 1947 Carissima Giuseppina, Risponto alla tua disederata lettera colla data del 21 corrento meso e rilevato che stai beno di salute. E così lo stesso tiassicuro anco di me. Qua lavoro notte e giorno, la paca è buona e così presto potrò accattare una casa per noi per quanto diventiamo marite e moglia. Qua alla Merica si mangio male, a saucicchia è senz pepone. Sto sempre appensare al giorno che tu giungerebbe inna Merica.Ti mante una fota che mi tiena sempre vicino atte sulla culunetta. Non altro da giungero, sono in fretta, tanti cari saluti alla tua famiglia, alla cummara Miucc e a Cummara Riunucc, azizì Ciccilliuc e salut a mia matra e sciosia maria. Salute e bacio convero cuoro sempre tuo affezionato. Ti auguro buone notizio. Tanuccio Volturine Aprile 1947 Caro Tanuccio Venco a rispondere con cueste due righi di lettera per dirti mie notizzie che alla cuala grazia iddio stiamo beno. Non vete lora che giungia il giorno dello sposalizio, che dopo venco anco io alla Merica che così ti aiuta a quatagnare i tollari. E ti aiuta con il manciare e ti porte la savicicchia picanto. Anco io ti mante la foto di me che la tiene sui mobbili mericani. Non giunche oltre ti mantano cari salute tutti di famiglia, i combari e commare e anco i vicini di casa. Ti abbraccio fortemento tua promesso sposa Giuseppina. Mi sono innamorata di un ‘immagine senza mai aver sentito la sua voce, il suo respiro, senza averlo mai guardato negli occhi o senza aver preso la sua mano. Tutto era affidato alla fantasia, quella fantasia che mi aiutava a sopravvivere e a superare le difficoltà e la povertà in cui si viveva. Io ero considerata una “vedova bianca “ e non ho vissuto nessun tipo di emozione come quello 114 di ricevere e donare regali; per me le domeniche erano tutte uguali, tra me e Vincenzino c’era solo il mare, un grande mare. Per me non c’è stato lo scambio delle fedi “nuziali“ e del romantico “Sì“. Non c’è stata la prima notte di nozze. Il mio cuscino era bagnato di lacrime e la coperta di seta per il primo letto è rimasta piegata nella cascia (baule). La mia via crucis sentimentale sembrava non finire mai. Dopo il matrimonio ho dovuto inviare la carte in Argentina per il ricongiungimento familiare. Dopo circa sei mesi, mi sono imbarcata su un bastimento per terre lontane; ero terrorizzata e con la morte nel cuore lasciavo la mia famiglia e la terra in cui ero nata; avevo solo la speranza di un futuro migliore e, durante quei lunghi giorni sul bastimento, immaginavo di abbracciare un uomo che avevo visto e costruito solo nei miei sogni. Anche se sono stata una fidanzata bianca, credo di essere stata una brava moglie e una brava mamma. Ho creduto molto nel mio matrimonio e nella mia famiglia e la mia grande forza ha superato ogni tempesta. Il mio coraggio è stato ed è quello di tante donne italiane all’estero. Questo umile scritto è un omaggio a nonna Giuseppina grazie alla quale, noi ragazzi della III D, abbiamo avuto modo di apprezzare e vivere il presente alla luce della memoria del passato. Israel Albano - Angelica Circelli - Gaetano Clemente - Ilenia Coluccelli - Michelangelo Creta - Mariapia D’Andola - Stella Dell’Aquila - Giuseppina D’Onofrio - Katia Ferro - Rosa Iorio - Jessica Langione - Robinson Pellegrino Palumbo - Gabriel Petecchia - Rosa Recchia - Andrea Saccone - Giovanni Saccone - Pio Salvatore - Daniele Savino - Elisabetta Silvestro - Gaia Tarallo POESIE 117 La donna è... La donna è una persona assai speciale che non puoi fare a meno d’amare ha un cuore tenero e pieno d’amore, ma molte volte può trasformarsi in dolore. La donna è qualcosa fuori dal normale che non devi mai sottovalutare certe volte viene apprezzata, altre invece viene maltrattata. La donna è una notizia al telegiornale di cui non si fa che parlare viene insultata, a volte picchiata e ogni due giorni una viene ammazzata. La donna non è proprietà dell’uomo e nonostante abbia raggiunto la parità non avrà mai la sua stessa dignità: è ancora vittima della sua diversità. Donato Lepore 118 Donna Donna, non sei soltanto l’opera di Dio ma anche degli uomini, che sempre ti fanno bella con i loro cuori. I poeti ti tessono una rete con fili di dorate fantasie; i pittori danno alla tua forma sempre nuova immortalità. Il mare dona le sua perle, le miniere il loro oro, i giardini d’estate i loro fiori per adornarti, per coprirti, per renderti sempre più preziosa. Il desiderio del cuore degli uomini ha steso la sua gloria sulla tua giovinezza. Per metà sei donna, per metà sei sogno, per tutti: uomini e bambini. Ludovica Iamele 119 Le donne di Volturino Le donne di Volturino sono felici fin dal mattino. Sono dolci e assai carine, nonostante quello che hanno dovuto patire. Attenti a non farle troppo innervosire! Tante difficoltà hanno dovuto superare, tra guerre, carestie e anche tante malattie. Sono state sempre sorridenti anche quando non avevano niente da mettere sotto i denti! Sono donne forti e comprensive, con un cuore sincero e aiutano il prossimo per davvero! Ti sono accanto nel bisogno e inseguono sempre il loro sogno. Tra pizzi e merletti si scambiano ricette e restano per sempre amiche perfette. Sono di mezza statura e vivono a contatto con la natura. Sono quasi tutte casalinghe, il loro primo pensiero è la famiglia. Ci sono molte donne anziane operose ed umane. In estate con i loro vicini si siedono sopra i gradini e stanno lì a parlare per ore e a guardar il tramonto del sole. Antonella Schiavitto Giuseppe Albano 120 A tutte le donne A tutte le donne che camminano controvento, a tutte le donne che affrontano mareggiate sempre più minacciose, a quelle che non si fermano davanti a nulla. A tutte le donne che non hanno un sorriso, a tutte quelle che in silenzio subiscono violenza. A tutte le donne libere e a tutte quelle di cui nessuno vede le ferite e che ancora lottano per la propria libertà. A tutte quelle senza volto né nome, a tutte le donne forti e coraggiose. Alle donne, speranza del mondo, che fanno risplendere il buio. Carmen Coscia Dedicato alla donna Donna forte e fragile, sei come una farfalla dai mille colori. C’è chi ti ammira con amore e chi ti spezza le ali mutilando la tua persona e violando la tua dignità. Sai essere mamma, amica e compagna, punto fermo di chi ti sta vicino. Linda Santone 123 Centro Studi “Diomede” L’Istituto Comprensivo “Diomede” tiene insieme sei plessi, sei comuni, sei realtà con tante storie ed esperienze del passato, ma soprattutto con migliaia di persone che oggi vi abitano e che hanno milioni di sogni, progetti e speranze che vogliono realizzare nella loro Terra. Pensando a ciò è nato il Centro Studi “Diomede” con lo scopo di offrire un approfondimento dei problemi relativi al territorio in cui opera. Per l’attuazione di tale finalità, il Centro Studi dell’Istituto Comprensivo “Diomede” svolge attività di ricerca, sperimentazione, formazione e valutazione nei diversi settori scientifici e operativi; effettua, in qualità di osservatorio, un monitoraggio costante e tempestivo sulla situazione del territorio, sulle opportunità e sulle priorità che si prospettano e cura l’informazione e la documentazione attinente a qualsiasi livello; presta, nel proprio settore di competenza, consulenza ad altre istituzioni, sia pubbliche che private; redige un rapporto annuo sui vari ambiti che interessano il territorio in cui opera. Tali propositi sono maturati anche in seguito ad una serie di esigenze palesate da alcuni docenti, in modo particolare da parte del prof. Nicola Cocumazzo: in primo luogo la necessità di raccogliere i lavori scolastici realizzati nel corso dei vari anni, di cui spesso si perdono le tracce, custodirli in biblioteche scolastiche e farne delle pubblicazioni da divulgare anche all’esterno della scuola stessa; in secondo luogo la consapevolezza di vivere in un territorio dal passato straordinario, di cui pochi hanno conoscenza, ma da cui molti sono costretti a scappare. Il nostro (poiché esso è di tutti ed è aperto a tutti) Centro Studi è stato pensato, per certi aspetti, all’incon- 124 trario, cioè partendo dalle potenzialità del territorio, dalla sua storia passata ma, immaginando il suo futuro (green economy, bio food economy, new renewable energy), affinché possa diventare un riferimento e un supporto per aziende ed Enti che vogliano investire nel nostro territorio, progettare uno studio per i nuovi servizi intercomunali che porterebbero alle popolazioni dei servizi migliori, più efficienti e più economici, che possano rendere più gradevole, senza ulteriori costi, la vita nei nostri paesi. Per cercare di raggiungere questi obiettivi, l’Istituto Comprensivo “Diomede” ha in questi ultimi anni già intrapreso progetti di partenariato con associazioni, quali “Fondazione con il Sud”, per lo sviluppo di progetti di stage, alternanza scuola lavoro, attività laboratoriali pratiche; ha stipulato accordi di rete con le Camere di Commercio provinciali e regionali con relativa partecipazione a convegni e concorsi per lo sviluppo di nuova imprenditorialità rivolti anche a bambini della scuola primaria; ha attivato corsi Pon per lo sviluppo con i ragazzi della scuola secondaria. Questi gli elementi di spunto iniziali, che vorremmo incardinare in eventuali, forse remote, possibilità di uno sviluppo che non c’è mai stato. D’altronde, se ad un paese estirpi gli uomini migliori e releghi le donne ad accudire frotte di bambini e a spezzarsi la schiena per cercare di tirare avanti, come si può pretendere che questo cresca, faccia nascere idee, crei posti di lavoro? Da qui l’idea, forse utopica, di voler diventare il punto di riferimento per i nostri ragazzi, per i docenti, per il territorio, di voler offrire opportunità di conoscenza di ciò che ci circonda, degli uomini e delle donne che hanno avuto il coraggio di credere che da qui si può partire… con le idee e non più con le valigie. Il Direttore Prof. Tommaso Albano 125 BIBLIOGRAFIA Anonimo, Monografia storica del Comune di Celenza Valfortore. M. Cerulli, Celenza Valfortore nella cronistoria, Celenza Valfortore 1965. G. Clemente, Il Brigantaggio in Capitanata. Fonti documentarie e anagrafe, Presentazione di Raffaele Colapietra, Roma, Archivio Guido Izzi. P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, Prato 1865. P. Gramegna, Motta Montecorvino. La sua vita attraverso i secoli: dalle origini ad oggi. Foggia, Grafiche Leone, 1970 G. Pacichelli, Del Regno di Napoli in prospettiva, Napoli 1703. C. Recchia, Endecasillabi per una guerra, Edizioni del Leone, 1994 127 INDICE Prefazione ........................................................ pag. 7 Voci da... ... Carlantino .................................................... ... Celenza Valfortore ...................................... ... Motta Montecorvino .................................. ... San Marco la Catola ................................... ... Volturino...................................................... » » » » » 13 33 45 63 83 Poesie................................................................»115 Centro Studi “Diomede”................................ » 123 Bibliografia.......................................................»125