un filosofo “blasfemo” - Filosofia e Scienze umane

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un filosofo “blasfemo” - Filosofia e Scienze umane
UN FILOSOFO
“BLASFEMO”
“O giovane privo di mente,
chi ti ha incantato fino al punto di indurti a credere
che tu possa divorare e avere negli intestini
quel Dio sommo ed eterno?
(Spinoza, Lettera ad Albert Burgh)
Una maledizione eterna
Se Cartesio è considerato pericoloso per la fede, Spinoza lo è ancora di più.
Un eretico come Bruno?
Ancora più radicale: uno dei pensatori più pericolosi, da questo punto di vista, dell’intera storia del
Cristianesimo. Si tratta di un ebreo che ancora giovanissimo (23 anni) viene espulso dalla sua comunità
portoghese di Amsterdam. E viene espulso - siamo nel 1655 - con un verdetto che oggi farebbe rabbrividire:
“che egli sia maledetto di giorno e maledetto di notte”, che “la collera del Signore” si abbatta su di lui e che
il Signore stesso cancelli “il suo nome da sotto il cielo”, che “nessuno comunichi con lui”.
Siamo in presenza di una comunità ebraica che usa gli stessi metodi dell’Inquisizione cattolica, o meglio
ancora, di quella spagnola.
È vero. E questo è ancora più grave se pensiamo che gli ebrei portoghesi di Amsterdam sono stati a lungo
perseguitati e cacciati dai paesi iberici per la loro fede.
Una durezza che sorprende anche perché ci troviamo in un Paese, l’Olanda, che nel ‘600 è lo Stato più
tollerante dell’Europa.
È così. L’Olanda, una volta conquistata l’indipendenza dalla Spagna, non solo diventa una potenza
commerciale, ma anche il Paese più libero: non a caso si assiste a una grande fioritura artistica e al sorgere
di università così aperte da attirare numerosi studenti e docenti stranieri.
Un clima, quindi, tutt’altro che favorevole alla caccia all’eretico.
Certo, ma sarebbe fuorviante fare dell’Olanda del Seicento una sorta di Eldorado della libertà di pensiero:
lo stesso Jan de Witt, lo statista più autorevole dell’Olanda, liberale e protettore di Spinoza, ritiene
indiscutibile il primato della Chiesa riformata olandese ed è tutt’altro che favorevole a eliminare ogni forma
di censura.
Ed è un liberale!
Sì, e nonostante le sue cautele liberali, in un momento difficile per il Paese (l’Olanda è minacciata dalle
truppe del Re Sole), viene travolto dai suoi avversari conservatori: viene linciato dalla folla e il suo corpo
appeso con la testa all’ingiù!
Un bell’esempio di tolleranza!
A caccia di professori cartesiani
Tieni presente che i calvinisti conservatori danno una vera e propria caccia ai professori di filosofia
cartesiani.
E perché mai?
Perché questi, sulla scia di Descartes, separano nettamente la filosofia dalla fede.
In nome dell’autonomia della ragione.
Infatti. E a maggior ragione i calvinisti conservatori attaccano i professori liberali di teologia che pretendono
- a loro dire - di leggere la Bibbia come se fosse un qualsiasi testo storico o letterario. È in tale contesto che
dobbiamo collocare il nostro Spinoza.
Anch’egli un professore di filosofia cartesiano e un teologo liberale?
Non è un professore e non lo diventerà mai, anche quando un personaggio politico, l’Elettore del
Palatinato, Carlo Lodovico, gli offrirà la cattedra di filosofia presso la prestigiosa università di Heidelberg: vi
rinuncerà per non perdere la libertà di pensiero.
Ma una fonte di reddito deve pur averla, tanto più dopo l’espulsione dalla comunità ebraica.
Vive lavorando come molatore di lenti.
Un mestiere umile per un filosofo.
Sicuramente. Un mestiere che, tra l’altro, non gli garantisce risorse sufficienti per vivere. Per fortuna egli
trova due protettori di rango, Jan de Witt e il suo grande ammiratore Simone de Vries, particolarmente
generosi nei suoi confronti.
Così riesce a dedicarsi ai suoi studi.
Sì, e lo fa dialogando con tanti amici. Pur avendo l’obbligo di risiedere fuori dalla città di Amsterdam, non
vive isolato, ma costituisce un vero e proprio cenacolo filosofico, anche tramite una ricca corrispondenza
epistolare con alcuni dei più qualificati intellettuali europei del tempo.
Studia, si confronta con altri e – immagino – pubblica libri.
Scrive numerose opere, ma ne pubblica solo una col suo nome e un’altra in forma anonima.
Ha paura?
La sua è una scelta dettata dalla prudenza: troppo forte è l’intolleranza nel Paese per eccellenza della
tolleranza. È il caso di ricordare che dopo l’espulsione dalla comunità ebraica egli subisce un attentato da
parte di un ebreo fanatico, un attentato da cui per fortuna esce indenne. Dopo la pubblicazione dell’opera
anonima, poi, una volta scoperto l’autore, viene accusato di immoralità, di materialismo, di ateismo. Viene
accusato in particolare di non riconoscere l’infallibilità della Bibbia e di rifiutare i miracoli.
Si tratta di “accuse” fondate?
In qualche misura sì. È il momento ora, se vogliamo comprendere tali accuse, di analizzare il percorso
filosofico e teologico del nostro.
Una forte esigenza etica
I suoi rapporti con Cartesio?
Cartesiana è la sua aspirazione che avverte fin da giovane di giungere a una verità immutabile. Cartesiano è
pure il bisogno di adottare un metodo rigoroso, essenziale al fine di purificare la mente dagli errori.
Un metodo deduttivo sul modello euclideo.
Sì, un metodo capace di condurre a delle proposizioni assolutamente indubitabili. Ma nel giovane Spinoza vi
è pure un’altra esigenza, quella di operare, una volta scoperta la verità, una radicale conversione di vita.
Un’esigenza etica.
Infatti: l’esigenza di condurre una vita ispirata al “vero bene” e non ai beni effimeri delle ricchezze, degli
onori, dei piaceri.
Un modello ascetico.
Un modello di vita libero dalle menzogne e dai falsi beni.
Una superstizione la credenza nei miracoli
Quali le menzogne?
Spinoza non ha dubbi: occorre portare alle estreme conseguenze la rivoluzione scientifica dell’età moderna.
Liberarsi, ad esempio, dall’antropocentrismo?
Certo: non ha alcun fondamento la convinzione che l’uomo sia il fine del cosmo. Nell’universo non esistono
scopi e, di conseguenza, è un peccato di presunzione pensare che il cosmo sia finalizzato all’uomo.
Fin qui nulla di nuovo: anche secondo Galileo e Cartesio nell’universo non esiste alcun finalismo.
Galileo e Cartesio, a dire il vero, non escludono per nulla l’esistenza di fini, ma semplicemente si limitano ad
affermare che l’indagine di tali fini è esclusa dall’ambito scientifico-razionale. Ecco perché Spinoza, con la
sua tesi, provoca un vero e proprio terremoto.
Demolisce l’intera Bibbia.
Certo: salta tutta la concezione ebraico-cristiana di Dio. Dio non agisce per alcun fine. L’ordine che regna
nell’universo è un ordine necessario.
Alludi alle leggi scoperte dalla scienza.
Sì: tutto in natura è necessario.
Saltano quindi anche i miracoli.
Non vi è dubbio: la credenza nei miracoli non può che essere una superstizione perché non possono
esistere eventi in aperta violazione dell’ordine immutabile della natura.
Neppure se voluti da Dio.
Già. Le leggi dell’universo altro non sono che decreti divini. Credere nei miracoli, quindi, significa credere
che Dio agisca contro i suoi decreti. Immutabile è la natura divina, immutabili dunque le sue leggi.
Sì, ma i miracoli sono oggetto di fede.
Certo, ma si tratta di una fede irrazionale, di una fede che di fatto non conduce a Dio, ma all’ateismo.
All’ateismo?
Sì: se Dio fosse costretto a ricorrere a un miracolo, a sospendere cioè le sue leggi, questo sarebbe la
dimostrazione che non è onnipotente.
Ma in questo modo viene messo in discussione l’intero Cristianesimo.
Non c’è dubbio: la credenza nei miracoli, secondo Spinoza, non è che una superstizione, anche la credenza
in quel miracolo dei miracoli che è la risurrezione di Gesù Cristo senza la quale il Cristianesimo sarebbe del
tutto vuoto.
Questo non è che l’esito inevitabile dell’autonomia della ragione esaltata da Cartesio. È la prova che le
preoccupazioni di tanti intellettuali cristiani nei confronti del filosofo francese erano fondate.
Certamente: applicare rigorosamente la ragione (in questo caso la ragione “scientifica”) alla Bibbia può
diventare un’operazione altamente pericolosa per la fede.
Un Dio impersonale
Può far saltare la stessa idea cristiana di Dio: se questi non agisce per dei fini, non è libero. Quindi la sua
creazione non è libera, ma necessaria.
Già, se Dio agisse per un fine, significherebbe che vuole qualcosa che gli manca e, di conseguenza, non
sarebbe infinito. Alla stessa stregua non può neppure creare dal nulla: come potrebbe un Dio infinito creare
qualcosa di altro da sé?
Ma allora che cosa può distinguere Dio da mondo?
La distinzione c’è (la analizzeremo), ma è indubbio che da quanto detto viene esclusa la trascendenza di
Dio. Il rapporto che vi è tra Dio e l’universo è un rapporto necessario, un rapporto di tipo geometrico.
Qui vedo ancora l’impronta di Cartesio.
Infatti: l’universo procede necessariamente da Dio come dalla definizione di triangolo segue che la somma
degli angoli interni equivale a un angolo piatto.
Un Dio del genere non ha più nulla del Dio della tradizione occidentale.
È così. Siamo in presenza non solo di un Dio impersonale, ma anche di un Dio immanente alla natura. Da qui
la formula spinoziana “Deus sive Natura”.
Dio, dunque, si identifica con la Natura.
La formula non rende bene il discorso complessivo di Spinoza, discorso la cui comprensione richiede di
riprendere un concetto chiave della metafisica aristotelica e dello stesso sistema cartesiano: la sostanza.
Un concetto metafisico? E che cosa c’entra con la rivoluzione scientifica?
Una deduzione rigorosa che scardina il pensiero occidentale
Può sembrare strano, ma il capolavoro di Spinoza, l’“Etica”, ricorre ampiamente a un linguaggio mutuato
dalla filosofia aristotelica e scolastica.
Il pensatore olandese, in perfetta sintonia con Cartesio, intende costruire un sapere che abbia la struttura
rigorosa della geometria euclidea: una sorta di teoremi dedotti necessariamente da premesse evidenti.
Ecco perché riprende dalla tradizione metafisica il concetto di sostanza.
Perché si tratta di una definizione evidente?
Sì: non è un caso che Spinoza dia alla definizione di sostanza un ruolo fondante.
Una sorta di “cogito, ergo sum” cartesiano?
Sì.
La definizione che ne dà Aristotele mi pare ineccepibile: un conto è un accidente che non può esistere da
solo e un conto la sostanza che non ha bisogno di altro per esistere.
Ineccepibile come ineccepibile la definizione di Cartesio: la sostanza è ciò che è in sé e si definisce per sé.
Cartesio non fa che rimarcare l’idea di autosufficienza della sostanza: poiché questa non ha bisogno di altro
per esistere, si definisce per sé.
È vero, ma Cartesio arriva a sostenere che, se si vuole essere rigorosi, sostanza è solo: Dio: è questi, infatti,
che non ha assolutamente bisogno di altro per esistere e per essere definito.
Cartesio, tuttavia, si contraddice perché riconosce come sostanze sia la “res cogitans” che la “res extensa”,
che, in quanto create da Dio, non possono essere definite sostanze.
È così. Ecco allora la definizione che dà Spinoza di sostanza: “ciò che è in sé ed è concepito per sé: ovvero
ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa, dal quale debba essere formato”.
Vedo che non fa altro che articolare meglio le definizioni di Aristotele e di Cartesio.
Ma con conclusioni radicalmente nuove. Egli arriva, ad esempio, a dedurre dalla definizione di sostanza che
questa debba essere increata. La ragione è semplice: se fosse creata, il suo concetto avrebbe bisogno di un
altro concetto (il concetto di creatore) per essere pensato, ma questo è contro la stessa definizione di
sostanza. Non solo: la sostanza non può che essere infinita.
Già, se fosse finita, sarebbe delimitata da altro e, di conseguenza, il suo concetto avrebbe bisogno del
concetto di altro per essere pensato.
Vedo che hai colto bene la logica deduttiva di Spinoza. E ciò vale anche per l’unicità della sostanza (se non
fosse unica, sarebbe delimitata da altra e quindi non sarebbe infinita) e per la sua eternità.
La sostanza, dunque, in quanto increata, infinita, unica ed eterna non può che coincidere con Dio, lo stesso
risultato a cui giunge Cartesio.
È vero, ma Cartesio - è il caso di ripeterlo – considera sostanze anche la materia e lo spirito.
Dato che la sostanza è infinita e dato pure che la sostanza si identifica con Dio, allora, abbiamo un’ulteriore
prova che Dio si identifica con la Natura. La formula di cui prima (“Deus sive Natura”), di conseguenza,
rispecchia bene il pensiero di Spinoza.
Un Dio che non si identifica col cosmo
Hai ragione di insistere perché tutto quanto è emerso finora conduce in quella direzione. Ma ora vediamo
che non è così. Il filosofo olandese introduce il concetto di “attributo”.
Di che si tratta?
È ciò che l’intelletto coglie come proprietà essenziale della sostanza. Poiché la sostanza è infinita - così
argomenta Spinoza - non può che avere infiniti attributi. La conclusione è chiara: l’universo fisico (la
cosiddetta “res extensa” di Cartesio) è solo un attributo della sostanza.
E gli altri?
Ne conosciamo solo un altro: il pensiero, ciò che secondo Cartesio è la “res cogitans”.
La sostanza, quindi, è anche pensiero.
È questo il traguardo del nostro discorso: Dio (la sostanza infinita…) non si identifica con la Natura fisica
perché, oltre ad aver tale dimensione materiale, ha pure infiniti altri attributi tra cui il pensiero.
Possiamo parlare di panteismo.
Meglio parlare di “panenteismo”: tutto – dalla materia allo spirito – è in Dio.
Tutto? Anche questo sasso?
Certo. Le cose, secondo Spinoza, altro non sono che modalità dell’attributo “estensione”, come le idee altro
non sono che modalità dell’attributo pensiero.
Cade quindi l’idea di Dio della tradizione occidentale: Dio non è puro spirito.
Infatti: è anche materia.
Un’affermazione che potrebbe apparire blasfema.
E lo è per il tempo in cui vive Spinoza. Dio, pur essendo anche pensiero, è del tutto impersonale perché non
ha volontà, non ha alcuna libertà di scelta. Ecco l’idea - di cui abbiamo già parlato – di un nesso geometrico
tra Dio e il mondo.
Un nesso che è interno a Dio.
Sì: non vi è nulla, infatti, al di fuori di Dio.
Non si può, dunque, parlare di Dio come causa del mondo.
Se ne può parlare come si può dire che la definizione di triangolo è la causa della somma dei suoi angoli
interni (una somma equivalente a un angolo piatto).
Il mondo, quindi, non avrebbe potuto essere diverso da come è.
Infatti: nell’universo non vi è nulla di “contingente”, non vi è nulla, in altre parole, che avrebbe potuto non
essere o essere diverso.
Ma allora, secondo tale logica, tutto ciò che è in natura è perfetto.
Sicuramente.
Una grande costruzione teorica fondata su una credenza erronea
Ma in natura vi sono cose brutte e c’è il disordine.
I concetti di bello e brutto, di ordine e disordine sono concetti umani che nascono dall’ignoranza dell’uomo:
non hanno nulla quindi a che vedere con la natura. È proprio contro l’ignoranza che Spinoza conduce una
battaglia culturale. È la stessa ignoranza, infatti, che ha generato la falsa idea di Dio.
L’idea di un Dio persona, libero, creatore, Padre…?
Sì, si tratta di un’idea che è figlia dell’ignoranza: gli uomini credono, sbagliando, di essere liberi e ci credono
perché non conoscono le cause delle loro decisioni.
Ma la libertà umana è evidente: come si può negarla?
Cartesio non ha alcun dubbio: secondo lui la “res cogitans”, a differenza della materia, è libera. Ma Spinoza
è dell’avviso opposto.
Contro tutti e contro lo stesso senso comune.
Già, il filosofo olandese demolisce un altro tabù millenario.
Ma quale tabù? Se l’uomo non fosse libero, non sarebbe uomo, ma un automa. Cadrebbe anche qualsiasi
forma di punizione: come potrebbe un tribunale punire una persona se questa non fosse responsabile
perché non libera?
Non hai torto: le conseguenze sarebbero terribili. Spinoza però nol le teme. Ciò che egli si propone è
liberare gli uomini dall’ignoranza, quella ignoranza che ha generato dei veri e propri castelli ideologici. Che
l’uomo non sia libero è già implicito in quanto finora abbiamo detto: le leggi della natura scoperte dalla
scienza sono necessarie.
Ma l’uomo non è solo natura fisica, è anche spirito: Cartesio ha ragione.
L’uomo fa parte della natura: perché dovrebbe essere considerato un’isola privilegiata? Solo una
concezione “angelica” dell’uomo come quella di Cartesio lo può innalzare al di sopra della natura.
Ma Spinoza non si limita a questo: proprio a partire dalla credenza erronea della libertà umana, cerca di
ricostruire la genesi della stessa idea di Dio.
Non vedo quale rapporto ci sia tra i due temi.
L’uomo, secondo il pensatore olandese, si crede libero, ritiene cioè di scegliere liberamente dei “fini” e i
“mezzi” per raggiungerli. Proprio per questo, guardandosi intorno a se stesso, è portato a vedere una serie
di mezzi: il sole serve per illuminare, gli occhi per vedere, le erbe e gli animali per nutrirsi.
Perché è portato a vedere? Vede: forse che gli occhi non hanno la funzione di vedere?
Secondo Spinoza si tratta di una proiezione umana (o meglio di una erronea credenza umana) nella natura,
una proiezione che conduce l’uomo a credere che ci sia qualcuno che ha predisposto tali mezzi per lui.
Spinoza dunque arriva a smantellare l’antropocentrismo.
Dio rifugio dell’ignoranza
In perfetta sintonia con la rivoluzione scientifica: non solo con tale rivoluzione l’uomo non è più al centro
del cosmo, ma è lo stesso metodo scientifico che, come abbiamo già visto, esclude il finalismo. Spinoza va
avanti con la sua analisi e giunge a concludere che Dio altro non è che il rifugio dell’ignoranza.
In che senso?
L’uomo si chiede: perché Dio ha creato il mondo per gli uomini? Perché – si risponde – vuole legarli a sé ed
essere tenuto da loro in sommo onore. Ecco perché gli uomini hanno inventato le preghiere e i riti religiosi:
per ingraziarsi Dio e avere da lui ciò di cui hanno bisogno. Qualcosa, però, non quadra: in natura non ci sono
soltanto cose utili, ma anche dannose, dalle malattie ai terremoti.
Cose dannose che – immagino – vengono attribuite a Dio quali mezzi per punire i malvagi.
È proprio così. Dio, oltre che Persona, è considerato come un Giudice che punisce chi commette dei peccati.
Viene rafforzata in tal modo l’immagine antropomorfica di Dio.
Infatti. Ma c’è dell’altro che non quadra: i terremoti, le malattie colpiscono indifferentemente tutti, ingiusti
e giusti.
Questo dimostra che l’immagine di Dio-Persona-Giudice va in frantumi.
Gli uomini, a questo punto, dovrebbero abbandonare l’idea di un Dio antropomorfo e invece no: si
convincono che Dio agisca secondo un disegno provvidenziale di cui l’uomo è ignaro.
Dio diventa, quindi, il… rifugio dell’ignoranza.
Certo: gli uomini, non riuscendo a spiegare il male che colpisce gli innocenti, arrivano ad attribuire a Dio un
disegno provvidenziale che è al di fuori dalla portata della conoscenza umana.
In questo modo, è vero, Spinoza demolisce radicalmente l’immagine antropomorfica di Dio, ma questa non
è una novità: anche Galileo prende le distanze da una lettura letterale della Bibbia, lettura da cui emerge
chiaramente un Dio fatto a misura umana.
Non è una novità, ma è Spinoza che ne spiega la genesi, una genesi che è radicata nell’ignoranza.
Le contraddizioni della Bibbia
Non è dunque Dio che ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, ma viceversa.
Infatti. Dio, secondo Spinoza, è stato creato a immagine e somiglianza dell’uomo, o meglio, sulla base
dell’erronea credenza dell’uomo di essere libero: da qui la concezione finalistica della natura e da qui la
concezione antropomorfica di Dio, una visione, quest’ultima, che viene tenacemente conservata
nonostante le smentite dell’esperienza. Ecco perché il filosofo olandese ritiene di dovere combattere una
lotta contro la superstizione religiosa. Una lotta che lo conduce anche a sottolineare le contraddizioni della
Bibbia (la compresenza, ad esempio, nei testi sacri dell’ordine immutabile della natura e degli eventi
miracolosi).
Contraddizioni che non possono essere attribuite a Dio.
Già: è impensabile che Dio sia incoerente con se stesso. Da qui la tesi di Spinoza: la Bibbia non contiene
verità né su Dio né sulla natura, ma solo un messaggio morale.
Questo significa che su Dio e la natura è la ragione che deve pronunciarsi, non la fede.
Infatti. La fede, quindi, non ha alcun potere di giudicare la ragione. L’autorità religiosa, di conseguenza, non
ha alcun potere di censurare una ricerca razionale: ragione e fede appartengono ad ambiti diversi.
Quindi anche la religione non può essere giudicata dalla ragione, ma Spinoza giudica – eccome! – la
religione.
Non la giudica, ma ne delimita il campo. L’uomo religioso, in altre parole, può essere giudicato solo sulla
base della coerenza col messaggio morale della Bibbia (opere di giustizia e di carità), non sulla base di
speculazioni filosofiche o teologiche.
Dunque l’uomo religioso, se rimane nel suo ambito, non dovrebbe cadere nel fanatismo.
Esatto: sono i teologi, non gli uomini religiosi autentici, che con i loro dogmi seminano zizzania che a sua
volta genera conflitti religiosi.
Spinoza, però, togliendo all’autorità religiosa il potere di giudicare la libera indagine razionale, di fatto
rivendica la libertà umana che – abbiamo visto – è negata dallo stesso Spinoza.
È vero: il nostro, contro tutte le persecuzioni religiose presenti in Olanda, rivendica la libertà di pensiero,
libertà che costituisce la stessa natura dell’uomo.
In contraddizione con se stesso.
Due facce della stessa realtà
Riprenderemo il problema. Ora vediamo di chiarire proprio la natura dell’uomo di cui abbiamo appena
parlato.
Spinoza non certo riesce a risolvere il mind-body problem.
Diciamo che, con la sua impostazione, ha in mano una carta in più per risolverlo: secondo lui, infatti, il
pensiero e l’estensione, ovvero lo spirito e la materia non sono due sostanze, ma solo due punti di vista
diversi (attributi) della medesima realtà.
Ma anche se non sono due sostanze, sono tra loro eterogenei e quindi non possono comunicare a vicenda.
E infatti le due facce non comunicano, ma sono solo pur sempre due punti di vista della stessa realtà: non
c’è l’una senza l’altra. In altre parole nell’uomo non vi è alcun evento mentale che non sia accompagnato
dall’analogo evento fisico.
Spinoza quindi recupera la concezione unitaria dell’uomo, superando così il dualismo cartesiano.
In qualche misura sì: l’uomo è un qualcosa che non è né mentale né corporeo, ma che si manifesta sia come
dimensione mentale che come dimensione fisica, due dimensioni che sono tra loro parallele.
Come la vergogna che si manifesta sia come percezione mentale che come rossore del viso.
È così: è quello che verrà chiamato parallelismo psico-fisico. Non è pensabile che un evento fisico provochi
un evento mentale e viceversa: gli eventi mentali agiscono solo su altri eventi mentali, come gli eventi
corporei agiscono solo su altri eventi corporei. Un sentimento come la tristezza, ad esempio, riflette solo
uno stato del corpo, stato che può essere causato solo da un altro corpo.
Una superstizione la credenza nell’immortalità dell’anima
Non è dunque pensabile che, quando muore il corpo, l’anima possa sopravvivere.
Infatti: secondo Spinoza l’anima individuale non può essere immortale.
È questo il prezzo che il filosofo olandese deve pagare prendendo le distanze dal dualismo cartesiano.
Non si tratta di un prezzo: secondo lui l’immortalità dell’anima individuale è una superstizione perché,
quando viene meno il corpo (e quindi anche le relazioni con gli altri corpi), l’uomo non può provare né
sensazioni, né emozioni, né avere dei ricordi. Una superstizione che i teologi hanno tutto l’interesse ad
alimentare.
Perché?
Perché, evocando lo scenario del paradiso e dell’inferno, riescono a convincere meglio i credenti ad agire in
un determinato modo.
Premio e pena che, nell’impostazione spinoziana, non hanno alcun senso neppure durante la vita terrena
dell’uomo.
Secondo Spinoza l’uomo non è dotato di libero arbitrio: egli, infatti, è soggetto al determinismo universale
sia sul fronte delle idee (che sono determinate da altre idee all’infinito) che sul fronte degli eventi fisici
(anch’essi determinati all’infinito da altri eventi fisici).
L’uomo non è libero come non è libero Dio.
Del resto è una conseguenza ineluttabile: l’uomo fa parte di Dio e, in quanto tale, non può sottrarsi al
determinismo universale. Eppure Spinoza, affrontando il tema dell’etica, parla ampiamente di libertà.
Contraddicendosi.
Procediamo con calma. Un punto è certo: essendo l’uomo soggetto al determinismo universale, l’etica non
può essere espressa da comandi, ordini, norme.
Ma che etica sarebbe, se non ci fosse alcuna norma?
L’etica di Spinoza è di tipo descrittivo, non normativo.
Il nostro, dunque, non condanna i vizi degli uomini.
Li descrive, o meglio indaga le passioni come qualunque evento necessario, spiegandone le cause.
E quali sarebbero queste cause?
Spinoza individua la legge generale: ogni ente - e quindi anche l’uomo - tende a conservare il proprio
essere, anzi ad accrescerne la vitalità.
Si tratta dell’istinto di autoconservazione.
Non esiste il bene in sé
Siamo in presenza di una spinta interna, di un impulso naturale, di un impulso che può essere contrastato
solo da cause esterne.
Se si tratta di una spinta naturale, l’uomo non può che cercare l’utile, ciò che appunto è finalizzato
all’autoconservazione e all’accrescimento della stessa sua utilità.
È così: non esiste il bene in sé, ma è bene ciò che noi vogliamo e desideriamo per noi stessi.
Siamo di fronte a una morale utilitaristica.
Spinoza non ne dà un’accezione negativa. Egli non fa che descrivere i comportamenti dell’uomo e
indagarne le cause. Quando un soggetto riesce a soddisfare il suo desiderio naturale di autoconservazione,
prova gioia, e prova tristezza quando, al contrario, non ci riesce. Ecco, secondo Spinoza, i tre ingredienti
primari della vita affettiva: il desiderio (che ha come oggetto la propria autoconservazione e ciò che esalta
la propria vitalità), la gioia e la tristezza.
Fin qui mi pare tutto chiaro, ma come si spiega l’amore?
Un soggetto prova il sentimento dell’amore quando la gioia che sente è associata all’idea di chi l’ha causata.
E odio nel caso contrario, quando la tristezza è associata all’idea di chi l’ha provocata.
Infatti.
Allora Dio, in quanto infinito, in quanto cioè non ha nulla al di fuori di sé, non può provare né amore né
odio.
Senza dubbio. Viene meno, dunque, un altro pilastro del Cristianesimo: Dio è amore.
Se le emozioni, i sentimenti, le passioni sono eventi naturali e necessari, l’uomo non può che essere passivo.
Non è così, secondo Spinoza: di fronte alle passioni noi possiamo essere “attivi” o “passivi”, in altre parole
“liberi” o “schiavi”.
Come potremmo essere liberi, se tutto - anche l’odio, la collera, la vendetta – è un evento naturale e
necessario?
Il paradosso della libertà
Dipende dal nostro atteggiamento, da come cioè percepiamo le passioni: o da ignoranti o da sapienti. È
l’ignoranza che ci porta ad essere schiavi delle passioni ed è la conoscenza che ci libera da tale schiavitù.
Ma è proprio grazie alla conoscenza che noi siamo consapevoli che tutto è necessario!
Sì: proprio perché sappiamo che tutto è necessario, sappiamo di non avere alcun potere di controllo su ciò
che causa le nostre passioni.
Non possiamo, dunque, che essere passivi.
No: proprio perché sappiamo che nessuno ha delle colpe in quanto ogni evento umano è determinato da
una catena infinita di eventi, allora l’odio e la collera vengono meno. Altro che passivi!
Diventiamo liberi nel momento in cui siamo consapevoli che tutto è necessario: non è un vero e proprio
paradosso?
Potrebbe apparire un paradosso, ma è l’unica libertà che ci è consentita ed è l’unico modo per essere
“attivi”: il conoscere non è l’“attività” della ragione? Nella misura in cui agiamo “secondo la guida della
ragione”, nella misura in cui, cioè, ci liberiamo dall’ignoranza, noi ci liberiamo da ciò che ci turba. Ci
liberiamo anche da quelle passioni – la paura e la speranza – che sono alla base della superstizione
religiosa.
Ma questo sarebbe il paradiso terrestre!
E lo è: Spinoza parla di “beatitudine” che non è il premio promesso dai cristiani per l’aldilà, ma un traguardo
che può essere raggiunto in questa vita.
Purché noi ci mettiamo dal punto di vista di Spinoza.
Sì, un punto di vista che può condurci addirittura al punto di vista di Dio stesso.
Ma questa è una bestemmia: l’uomo è finito, mentre Dio è infinito.
È vero, ma secondo Spinoza, non è impossibile: si tratta di un traguardo che possiamo raggiungere quando
diventiamo consapevoli che noi siamo in Dio, che tutto deriva dagli attributi divini e che tutto ciò che è in
Dio presenta una necessità geometrica. È da questo punto di vista che possiamo volare al di là del divenire
e del tempo e di cogliere tutto “sub speciae aeternitatis” come Dio coglie se stesso.
Un punto di vista - checché ne pensi Spinoza - al di là della portata dell’uomo.
Spinoza sa bene che siamo di fronte a una conquista che non può essere definitiva perché l’uomo è pur
sempre un essere finito e quindi determinato da altri esseri finiti. È convinto, comunque, che tale conquista
possa essere agevolata all’interno di uno Stato fondato sulla ragione, di uno Stato cioè che metta tutti
(anche con la costrizione) nelle condizioni di “vivere secondo il precetto della ragione”, condizioni che
eliminano le prepotenze individuali e consentono lo sviluppo della libertà per tutti.
Ancora il tema della libertà.
La laicità dello Stato
Sì, in primis, l’abbiamo già detto, la libertà di pensiero. Spinoza ha presente l’intolleranza di cui si
macchiano in Olanda sia le autorità religiose che politiche, intolleranza che può essere eliminata solo se
l’autorità religiosa e l’autorità politica operano nel loro ristretto ambito: è proprio quando la prima si
intromette negli affari dello Stato che si generano divisioni capaci di portare anche a guerre di religione.
Quindi anche lo Stato non deve intromettersi negli affari delle autorità religiose.
Lo può fare soltanto prendendo provvedimenti in materia religiosa (provvedimenti, naturalmente, relativi a
comportamenti esteriori) finalizzati ad ostacolare lo strapotere di una Chiesa e dunque a salvaguardare la
stabilità dello Stato. Lo Stato, secondo Spinoza, è sovrano e, in quanto tale, non può essere subordinato ad
alcuna autorità.
Una sovranità che è legittimata da chi?
Secondo Spinoza la sovranità dello Stato è legittima se sono gli stessi cittadini che, al fine di superare lo
stato di guerre di tutti contro tutti, affidano allo Stato il potere di garantire a tutti la libertà dalla paura e la
libertà di pensare. È preferibile, però, che tale sovranità sia associata a un regime democratico: è solo con la
democrazia che i cittadini non trasferiscono la sovranità in modo definitivo ad altri.
La libertà di pensiero che deve essere garantita dallo Stato, però, può generare anche un aperto dissenso
nei confronti dello Stato stesso.
È vero. Secondo il nostro la libertà di pensiero e di parola deve essere totale, ma non la libertà di azione: il
dissidente può criticare anche aspramente una legge, ma, finché tale legge rimane in vigore, è tenuto a
rispettarla.
Incoerenze di due filosofi
Siamo di fronte a una concezione politica più che ragionevole (oltre che attualissima), ma ho la sensazione
che il filosofo olandese tradisca le premesse generali del suo sistema.
Come del resto le tradisce lo stesso Cartesio, in qualche misura il modello di Spinoza.
Un modello? Siamo agli antipodi: Cartesio fornisce argomenti nuovi a difesa del Cristianesimo, mentre
Spinoza arriva a demolire tutta la tradizione biblica.
È vero, ma si tratta di due razionalisti, di due pensatori cioè che ritengono che il punto di partenza della
conoscenza sia la ragione.
Ciò che è evidente alla ragione.
Appunto, l’impostazione della geometria euclidea. Possiamo dire, anzi, che Spinoza, pur prendendo a
modello Cartesio, è più “geometrico” del maestro perché nell’“Etica” adotta proprio il procedere tipico
degli “Elementi” di Euclide. Tutte e due, poi, intraprendono la loro avventura filosofica mossi dalla comune
esigenza di fondare il sapere sulla roccia, giusto come nelle scienze matematiche.
Ma poi questo rigore non sempre è applicato. Abbiamo visto, ad esempio, gli attributi “pensiero” ed
“estensione”: non vengono per nulla dedotti dalla definizione di sostanza.
E neppure dalle altre definizioni che Spinoza pone alla base del sapere, come ad esempio la definizione di
“causa sui”: ciò la cui essenza coincide con l’esistenza, ciò, in altre parole, che non ha bisogno per esistere
di essere causato da altro. Vi sono poi altre affermazioni spinoziane che non sono matematicamente
dedotte.
Tutto il pensiero politico, ad esempio.
Sì. Ma anche Cartesio non riesce a dedurre tutto. Vedi la morale. Nella fase del dubbio metodico egli adotta
una morale provvisoria (“obbedire alle leggi e ai costumi” del paese, “essere fermo e risoluto” nelle proprie
azioni, “vincere sempre se stessi” invece che pretendere vincere la “fortuna”), morale destinata ad essere
sostituita da una definitiva, ma che non viene mai dedotta. Cartesio, però, nella sua opera pubblicata nel
1649 (“Les passions de l’âme”) non manca di parlare di esigenze etiche.
Faccio fatica a trovare una giustificazione: volontà e comportamento appartengono, secondo Cartesio, a
due sostanze incomunicabili.
Non hai torto: il dualismo cartesiano pare un grosso ostacolo. Come sai, però, il filosofo francese individua
un ponte nella ghiandola pineale.
Una ghiandola che non deduce.
È vero, ma poi Cartesio è coerente: gli animali, essendo solo corpo, hanno reazioni automatiche agli stimoli
che provengono dai sensi, mentre l’uomo no.
Il protagonismo dell’uomo
Le reazioni del suo corpo, però, sono meccaniche.
Sì, ma l’uomo è anche mente e, in quanto tale, è libero. È libero, quindi, di controllare le sue passioni, di
controllare, ad esempio, la sua reazione di fuga di fronte alla vista di un pericolo. Senza il controllo della
ragione la reazione di fuga è automatica, meccanica, come appunto negli animali. L’uomo, però, proprio
grazie alla volontà, può decidere di acquisire delle abitudini tese a contrastare le reazioni meccaniche. Se,
ad esempio, di fronte alla vista di un pericolo, ci abituiamo ad associare la vergogna, grazie a tale abitudine,
il meccanismo naturale di fuga viene sostituito da un meccanismo da noi voluto: di fronte al pericolo,
dunque, non saremo più spinti alla fuga, ma l’affronteremo, considerato che ci vergogniamo della fuga, con
coraggio.
Anche se dentro una incoerenza di fondo (la ghiandola pineale) mi pare più convincente la morale di
Cartesio rispetto a quella di Spinoza: qui vedo il protagonismo dell’uomo, non nella pseudo-morale di
Spinoza.
Ma anche in Spinoza troviamo che l’uomo, se guidato dalla ragione, può dominare le passioni invece che
essere dominato.
Sì, ma il dominare in Spinoza non ha alcun effetto sul comportamento: l’uomo saggio è libero perché “sa”
che nessuno ha colpe o meriti.
Certo, ma un effetto c’è: l’odio e la collera vengono meno e questo non può che generare serenità.
In Spinoza, però, non troviamo il ruolo della volontà.
È vero. Spinoza nega che ci sia nell’uomo una facoltà quale la volontà. Secondo lui esistono solo singole
volizioni.
Una ragione in più per preferire Cartesio.
Nonostante le differenze, però, ci sono degli aspetti comuni tra i due. Anche per Cartesio la passione
fondamentale è l’impulso all’autoconservazione. La conseguenza è chiara: non è il bene ciò che noi
amiamo, ma riteniamo essere bene ciò che favorisce e accresce la nostra autoconservazione.
È Spinoza, quindi, che copia Cartesio.
Diciamo che si trova in sintonia col padre del razionalismo. Il filosofo francese, inoltre, anticipa la
classificazione delle passioni – ciò che Spinoza poi sviluppa – distinguendo quelle primitive da quelle
derivate. Le primitive sono la meraviglia, l’amore, l’odio, il desiderio, la gioia e la tristezza.
Amore e odio in Spinoza non sono per nulla passioni primitive.
Le differenze ci sono, ma i due presentano una profonda assonanza. Quando Cartesio affronta la passione
del desiderio e sottolinea che tale desiderio non può avere come oggetto qualcosa che non dipende da noi,
afferma che quanto accade “è diretto dalla Provvidenza divina, il cui decreto eterno è talmente infallibile e
immutabile che, se si eccettuano le cose che questo stesso decreto ha voluto che dipendessero dal nostro
libero arbitrio, dobbiamo pensare che a nostro riguardo non accade nulla che non sia necessario e come
fatale”.
Da ciò, quindi, deriva che anche Cartesio esclude i miracoli.
La sua concezione della natura è rigorosamente meccanicistica e deterministica.
Però Cartesio salva la libertà umana, ciò che Spinoza nega nel modo più categorico.
Sì, il filosofo francese lo rimarca più volte: è questo libero arbitrio che ci eleva al di sopra del mondo
animale. È questo, anzi, che ci rende in qualche misura simili a Dio perché diventiamo padroni di noi stessi.
Siamo noi, ad esempio, che possiamo liberamente evitare un cattivo uso delle passioni oppure i loro
eccessi. Tocca a noi, di fronte alla pressione forte di una passione, decidere di dilazionare il giudizio o
metterci addirittura a pensare alle ragioni contrarie. Tra le passioni Cartesio conferisce una considerevole
importanza alla generosità: è questa che, di fronte agli errori commessi dagli altri, ci conduce più a scusarli
che a condannarli, a vedere cioè in tali errori più una carenza di conoscenza che l’assenza di buona volontà.
Anche qui vedo un’affinità con Spinoza: sia l’uno che l’altro indicano una strada che conduce ad acquisire
uno stato di imperturbabilità.
Sì, ci sono addirittura dei passi che avvicinano molto le due posizioni: anche Cartesio sottolinea il fatto che
“tutti i turbamenti che vengono dall’esterno non hanno alcun potere” di nuocere all’anima, semmai questi
servono “ad aumentare la sua gioia, poiché il vedere di non poter essere offesa da essi le fa conoscere la
sua perfezione”. Differenze, quindi, ma anche molti aspetti in comune: con la duplice natura delle passioni,
fisiologica e psichica, Cartesio non anticipa in qualche misura la concezione spinoziana della realtà che è
una, ma si manifesta sia nella sua dimensione fisica che in quella mentale?
Un pensatore irriverente
Il più radicale, però, è senza dubbio Spinoza.
Certamente. E questa radicalità appare in modo ancora più evidente nelle sue opere postume e,
soprattutto, nell’epistolario. In una lettera a Henry Oldenburg, ad esempio, il nostro ironizza sulla credenza
nella risurrezione di Gesù Cristo: “Obietti che tutti gli apostoli hanno creduto nel modo più fermo che Cristo
è risorto dalla morte e che è realmente asceso al cielo: cosa che io non nego. Anche Abramo credette che
Dio fosse stato a pranzo con lui, e tutti gli Israeliti credettero che Dio, circondato dal fuoco, fosse sceso dal
cielo sul monte Sinai”.
Un filosofo irriverente.
Di sicuro. Al giovane Albert Burgh, da poco convertito al cattolicesimo, così arriva a dire: “O giovane privo di
mente, chi ti ha incantato fino al punto di indurti a credere che tu possa divorare e avere negli intestini quel
Dio sommo ed eterno?”.
Siamo di fronte a un pensatore tutto razionalità, assolutamente incapace il cogliere il salto della fede.
È vero, ma è il caso di ricordare che Spinoza trova nella stessa Bibbia la conferma del suo pensiero. Sempre
a Oldenberg scrive: “Tutte le cose, dico, in accordo con Paolo, sono in Dio e si muovono in Dio”.
Un inno a Gesù Cristo
E c’è di più. Il filosofo olandese nutre una vera e propria ammirazione nei confronti di Gesù Cristo. Nel
Trattato teologico-politico (l’opera pubblicata anonima) lo considera una figura eccezionale perché si eleva
al di sopra della massa degli uomini prigionieri dell’ignoranza e delle passioni: è lui il saggio che, a differenza
degli stessi profeti, comunica con Dio non mediante immagini e neppure fisicamente a faccia a faccia come
Mosè, ma “da mente a mente”; è lui che incarna il modello di sapienza umana, vale a dire la conoscenza
naturale di Dio di cui le leggi sono manifestazioni; è lui che è il maestro di un messaggio morale che ha una
portata universale perché tratto dalle leggi di natura che regolano il vivere degli uomini.
Un vero e proprio inno alla figura di Gesù Cristo: altro che filosofo blasfemo!
Così scrive di lui un critico di oggi, Filippo Mignini: “Se nella storia dell’Occidente questi è stato e continua
ad essere un ‘segno di contraddizione’, nel divenire della civiltà egli appartiene all’esigua schiera dei
liberatori. È la voce mite e ferma che l’Occidente offre alla storia del mondo” [(a cura di Filippo Mignini)
Spinoza, Opere, Mondadori, Milano 2007, p. LVIII].