cogito, ergo sum...>>

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cogito, ergo sum...>>
CARTESIO (1596-1650)
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<<...cogito, ergo sum...>>
[Traduzione latina da: Cartesio, Discorso sul metodo]
Questo supremo principio della filosofia cartesiana viene formulato all’interno di una ricerca del
fondamento di un metodo (Discorso sul metodo) che doveva costituire una guida sicura in tutte le scienze.
Nell’intraprendere questa ricerca il filosofo sospende l’assenso (epoché) a ogni conoscenza comunemente
accettata, esercitando il dubbio metodico, ovvero considerando provvisoriamente falso tutto ciò su cui il
dubbio è possibile, <<per vedere se, dopo aver così proceduto, rimanesse ancora qualche cosa che fosse
del tutto indubitabile>>.
Cadono immediatamente sotto sospetto tutte le esperienze sensibili, poiché, essendo noi stati ingannati
qualche volta dai sensi, possiamo pensare che essi ci ingannino sempre, proprio quando non ce ne
accorgiamo. A questa argomentazione contro l’attendibilità dei dati sensibili Cartesio aggiunge quella del
sogno:
<<Considerando infine che gli stessi pensieri che abbiamo da svegli possono venirci anche quando
dormiamo, senza che in tale occasione ce ne sia nessuno vero, decisi di fingere che quanto fino ad allora
avevo accolto nella mia mente, non fosse più vero delle illusioni dei miei sogni. Subito però mi accorsi che
nel momento stesso in cui volevo pensare che tutto fosse falso, era necessario che io, che così pensavo,
fossi qualche cosa. Notai allora che la verità: io penso, dunque sono [nella traduzione latina: “Ego cogito,
ergo sum, sive existo”] era così solida e certa, che non avrebbero potuto rimuoverla neppure le più
stravaganti supposizioni degli scettici, e quindi giudicai che potevo accoglierla senza esitazione, come primo
principio della filosofia che andavo cercando>> [Discorso sul metodo, 1637].
Da questo primo principio Cartesio, poi, dedurrà l’esistenza di Dio e dei corpi esterni, concepiti come cose
spaziali (res extensa), ovvero geometricamente strutturate e misurabili.
Dalla certezza di esistere in quanto pensante, Cartesio deduce ora di esistere come “una cosa che pensa”
(res cogitans), ovvero come “pensiero” o anima, poiché, mentre può benissimo continuare a dubitare di
avere un corpo (oggetto di percezione sensibile e, quindi, soggetto al dubbio metodico), non può certo
dubitare di pensare:
<<...conclusi che ero una sostanza la cui essenza o natura non consiste in altro se non nel pensare, una
sostanza che, per essere, non ha bisogno di alcun luogo, né dipende da alcuna cosa materiale. Di modo che
questo io, cioè l’anima grazie alla quale io sono quello che sono, è del tutto distinta dal corpo e... non
cesserebbe di essere tutto quello che è, anche se il corpo non fosse>> [Discorso sul metodo, 1637].
Sennonché, su questo punto cruciale della filosofia cartesiana, ovvero l’esistenza di una res cogitans
separata dal corpo (dualismo cartesiano), si sono concentrate le critiche dei contemporanei di Cartesio.
Tra tutte, vale la pena segnalare quella di Thomas Hobbes, autore delle Terze obiezioni alle Meditazioni
metafisiche di Cartesio (1641), secondo il quale Cartesio ha certamente ragione nel sostenere che per
pensare bisogna esistere, ma potrebbe avere torto nell’esprimersi sul “come” esistiamo. Infatti, argomenta
ironicamente, ma logicamente Hobbes, se dire “io sono pensante” autorizza a dedurre “io sono un pensiero”,
allora potrei dire: “io sono passeggiante”, dunque “io sono una passeggiata”!
L’assurdità della conclusione evidenzia, alla luce del monismo materialistico di Hobbes, l’errore di Cartesio,
consistente in un’indebita ipostatizzazione del pensiero, ovvero la confusione dell’atto di pensare con il
soggetto di tale atto; questo soggetto potrebbe essere un organo corporeo come il cervello, di cui il pensiero
sia l’epifenomeno: <<Può darsi che una cosa che pensa sia il soggetto dello spirito, della ragione o
dell’intelletto, e, pertanto, che sia qualche cosa di corporeo; e il contrario di questa ipotesi è assunto, o
postulato, ma non provato>>.
©Angelo Mascherpa