rivista foedus n. 11
Transcript
rivista foedus n. 11
SOMMARIO Culture Economie e Territori Rivista Quadrimestrale Numero Undici, 2005 Borderline Pag. 03 Il dibattito sul federalismo e i poteri delle regioni nella scuola di Mario Quaranta Il Faro Pag. 23 Per un’altra agricoltura e un’altra alimentazione in Italia di Mariarosa Dalla Costa e Dario De Bortoli Passaggio a Nord - Est I progetti di territorio di 42 comuni in provincia di Padova, Verona e Vicenza tra imperativi economici e sviluppo sostenibile di Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli Il Sestante Pag. 36 Pag. 86 Il concetto di distretto industriale marshalliano in Becattini di Alessandra Grespan La costituzione mista nel De Magistratibus et Republica Venetorum di Gaspero Contarini a cura di Dario Ventura Focus: Norberto Bobbio Pag. 97 Pag. 112 Politica e cultura di Norberto Bobbio cinquant’anni dopo di Mario Quaranta Schede Pag. 125 ELIO FRANZIN, LUIGI PICCINATO E L’URBANISTICA A PADOVA 1927-1974. CON ALCU NI SCRITTI PADOVANI DI LUIGI PICCINATO, PREFAZIONE DI LIONELLO PUPPI, PADOVA, IL PRATO, 2004. Asterischi Pag. 126 DEVI SACCHETTO, IL NORDEST E IL SUO ORIENTE. MIGRANTI, CAPITALI E AZIONI UMA NITARIE, OMBRE CORTE, VERONA 2004. 1 2 Mario Quaranta Il dibattito sul federalismo e i poteri delle regioni nella scuola Borderline 1. Premessa Il progetto di riforma della costituzione in senso federalista, già approvato in seconda lettura dal Parlamento italiano, ha posto all’ordine del giorno, fra i vari problemi, quale deve essere, e come deve essere esercitato, il potere della regione nella gestione della scuola. Un problema di notevole importanza, dal momento che in questo campo si sono rivelati più nitidamente gli effetti molto negativi del centralismo amministrativo e culturale dello Stato. Peraltro, occorre riconoscere che tale problema non è stato a tutt’oggi oggetto di un adeguato dibattito da parte delle forze culturali del Paese, mentre esso ha una particolare urgenza, dettata dalle decisioni che il governo ha preso, e altre si accinge a prendere sull’ordinamento della scuola, i programmi, il nuovo stato giuridico degli insegnanti, e così via. Il nuovo Titolo V della Costituzione ha introdotto alcune importanti novità nella direzione di una decentralizzazione della scuola; inoltre, ora dal punto di vista giuridico la regione ha la stessa dignità del centro, e pertanto può esercitare pienamente i suoi poteri nella gestione della scuola. L’ultimo comma dell’articolo 2 (“Sistema educativo di istruzione e formazione”) della legge delega n. 53 del 28 marzo 2003 è, a tale proposito, inequivoco; “I piani di studio personalizzati, nel rispetto dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, contengono un nucleo fondamentale, omogeneo su base nazionale, che rispecchia la cultura, le tradizioni e l’identità nazionale, e prevedono una quota, riservata alle regioni, relativa agli aspetti di interesse specifico delle stesse. Anche collegata con le realtà locali”. Ci sembra una formulazione che impegna il Governo, prima di tutto, ma anche la scuola, a una progettazione nuova del proprio ruolo nella società, tenendo presente la collocazione regionale, e il fatto che il progetto culturale-educativo deve coinvolgere la cultura delle regioni, cultura che in Italia ha caratteri specifici che la contraddistingue da altri Paesi europei, come avremo modo di sottolineare. Da ciò l’opportunità di sollevare e discutere questo problema, il quale è parte integrante di un disegno federalista dello Stato che, comunque realizzato, verrà a modificare una direzione estremamente centralizzata della scuola, sia sul piano burocraticoamministrativo, sia su quello dei programmi e dei controlli. Ci soffermeremo a chiarire, prima di tutto, i termini storici e attuali in cui si è posta la scelta federalista, quali problemi ha sollevato e quali pone oggi, nel momento in cui assistiamo alla nascita dell’Europa politica unita con una propria costituzione. Il problema è estremamente complesso, perché impone, fra l'altro, una concezione nuova della scuola, un allargamento della sua autonomia e interventi sempre più ampi e decisivi degli insegnanti nella fase dell’elaborazione dei programmi e del controllo dei risultati raggiunti. 2. Origini e sviluppi del dibattito sul federalismo Prima di affrontare questo problema, chiariamo la 3 n.11 / 2005 distinzione fra federalismo antropologico e federalismo istituzionale o territoriale, enunciata e discussa da Giuseppe Gangemi (Giuseppe Gangemi, La questione federalista. Zanardelli, Cattaneo e i cattolici bresciani, Torino, Liviana-Utet, 1994), un'idea che è alla base della sua successiva analisi delle forme regionali che storicamente hanno assunto i diversi modelli di federalismo elaborati nella storia d'Italia dell'Otto e Novecento. Il primo modello scaturisce da una considerazione complessiva della storia d'Italia, del suo territorio, delle diverse e spesso divergenti esperienze storiche, politiche, culturali, e dalla conseguente necessità di considerare queste diversità non un ostacolo allo sviluppo del Paese, ma semmai una ricchezza da salvaguardare attraverso un'adeguata strumentazione istituzionale e giuridica. La storia dei diversi modelli di federalismo è approdata, con l'ultimo progetto, a una forma di federalismo che non si può richiamare a quello antropologico ma a quello istituzionale, dal momento che non è stato il punto d'approdo di una lunga, meditata discussione cui abbiano partecipato le forze culturali e politiche del Paese, ma il risultato di molte mediazioni non sempre compatibili fra loro, e soprattutto da una congiuntura politica quasi di emergenza. Il dibattito sul federalismo è esploso improvvisamente in Italia all'indomani della disintegrazione ‘etico-politica’ della “prima Repubblica”, e nella transizione a una cosiddetta “seconda Repubblica”. Anche se l’attuale governo, pur nella varietà di posizioni al suo stesso interno, ha progettato una nuova costituzione che prevede un assetto federale dello Stato italiano, non si può dire per questo di essere già passati alla realtà di uno Stato-Nazione nuovo nella forma politico-istituzionale, rispetto all’antecedente, le cui linee essenziali sono delineate dalla riforma della costituzione del 1948. L'odierno assetto è storicamente il prodotto dell’unificazione nazionale compiuta nel 1860 con la proclamazione del Regno d'Italia, e della sua centralizzazione politico-territoriale e amministrativa, secondo un modello francese-napoleonico, definito nel quinquennio 1861-1865, e rimasto sostanzialmente tale fino alla formazione della prima Repubblica in età post-fascista, attraverso cui lo schema centralista dello Stato nazionale unitario si 4 è tramandato, sia pure con alcune varianti. Nel secondo dopoguerra si istituirono delle regioni a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Val d' Aosta, Trentino Alto - Adige), che configurarono delle eccezioni periferiche al modello dello StatoNazione che continuava dal Regno d'Italia. In seguito, si istituirono le regioni in tutta la penisola, che nelle intenzioni dei governanti avrebbero voluto essere anche una concessione a un principio di decentramento amministrativo, ma che nella realtà, di fatto, ebbero piuttosto la funzione politica di consolidare tacitamente un “compromesso storico”, ripartendo sfere rispettive di sottogoverno di maggiore influenza elettorale, per aree regionali “bianche” e aree “rosse”, dove già tali influenze politiche elettorali preesistevano, come, esemplarmente, agli opposti estremi: il Veneto centrale (Vandea d'Italia, con Bergamo), e l’Emilia-Romagna comunista. Ma con tale intesa compromissoria, il modello centralista dello StatoNazione non fu superato. Quanto alle regioni, il risultato pratico, secondo alcuni storici, è stato quello non di attenuare ma piuttosto di duplicare lo statalismo centralista, dilatando la burocrazia e aumentando, e non diminuendo, le distanze tra la gestione della cosa pubblica e la ‘società civile’. A tale proposito Zeffiro Ciuffoletti afferma: “La riforma fiscale del 1971-73, azzerando l’autonomia fiscale degli enti locali, trasformandoli in centri di spesa irresponsabili e trasferendo tutto il potere fiscale allo Stato centrale ha generato un circuito perverso in parte responsabile dello spaventoso debito pubblico italiano, di gran lunga il maggiore dei paesi dell’Unione Europea. Gli sviluppi recenti del ‘regionalismo cooperativo’, sommati alla mancata riforma degli apparati centrali, hanno finito per produrre altre disfunzioni con la duplicazione delle competenze, l'ulteriore dispersione delle risorse e la fuga delle responsabilità. In sostanza, l’esperienza regionale italiana è nata e si è concretizzata secondo un modello di deresponsabilizzazione finanziaria. Lo stesso può dirsi delle autonomie comunali, dove da un ventennio sono in vigore le pratiche di governo che esaltano quasi esclusivamente la capacità di spesa e di intervento” (Ciuffoletti, cit., p. 273). Alcuni critici affermano che il risultato principale del decentramento regionale è stato l’incremento Mario Quaranta dell’assistenzialismo; in ogni caso, nè l'ordinamento regionale attuale, né un federalismo fiscale, di per sè, attuerebbero un modello federale di StatoNazione, potendone anche costituire delle premesse di fatto, ma non necessariamente. D’altra parte, una cosa sono i modelli politico-giuridici e altra cosa i processi storici da cui e attraverso cui essi sorgono, dapprima come progetti (“ideologie”), trasformandosi più o meno lentamente, a volte anche rapidamente in relazione a determinate circostanze e occasioni favorevoli, in modelli realizzati, ossia in stabili ordinamenti istituzionali. Le esperienze storiche degli Stati moderni ci insegnano che un ordinamento costituzionale di Stato, o istituzionale diverso, non può essere altro, sempre e comunque, che la formalizzazione e generalizzazione di tendenze economico-sociali, politiche, culturali, etniche, e a volte anche ‘religiose’ (normalmente connesse strettamente a quelle etniche) preesistenti. Tali tendenze naturalmente continuano, essendosi imposte come maggioritarie o altrimenti decisive di una certa scelta e soluzione politico-giuridica, in una determinata congiuntura storica favorevole. E naturalmente, come alcuni ordinamenti costituzionali, e altri politico-istituzionali diversi, sono nati e si sono consolidati nelle condizioni favorevoli in un certo periodo più o meno ampio e prolungato, rispondendo a funzioni storiche varie per cui risultavano adeguati. Così, anche con quelle funzioni, una volta che siano state esaurite, superate da necessità economiche, sociali e politiche nuove, le istituzioni di fatto si esauriscono e sono sostituite da nuovi modelli. Tutto ciò non avviene mai automaticamente e linearmente, ma attraverso periodi di transizione, che sono anche di estrema confusione, in cui ordinamenti vecchi sono giunti a un tramonto che dovrebbe precedere la loro scomparsa. Essi tuttavia sopravvivono più o meno bene, mentre si affacciano e si propongono modelli diversi e alternativi per un nuovo ordinamento, il cui avvento sembra imminente, ma che intanto non è ancora nato e consolidato. Ci sono sì, oggi, parecchi modelli e progetti di diverse forze politiche, i quali convergono in un punto, nel rifiuto parziale o totale del vecchio, mentre sono in disaccordo sul progetto del nuovo che deve nascere. Questa è la situazione in cui è esploso in Italia, nell’ultimo decennio del Il dibattito sul federalismo Novecento, il dibattito sul federalismo, in rapporto al centralismo politico-territoriale e amministrativo dello Stato-Nazione unitario di origine risorgimentale e monarchica piemontese. La confusione di termini, generalmente ideologici, storico-istituzionali, politico-giuridici, è intrinseca alla diversità, eterogeneità e ambiguità di tendenze, indissociabili dal dibattito attuale sulla trasformazione dello Stato nazionale unitario e centralista, in un altro ordinamento a sfondo federale, già definito nell'attuale schema politico-giuridico. Esso è stato posto all’ordine del giorno da una pluralità di forze politiche discordanti nei rispettivi campi (di centro-destra e di centro-sinistra), e si riflette ovviamente anche nella retrospettiva storica, che da esso scaturisce. Ciò si è portato appresso la ricerca di antecedenti ideali e di paradigmi diversi e alternativi, che precorsero nell'età risorgimentale l'unità nazionale, realizzata istituzionalmente sulla base del modello monarchico-centralista, e che continuarono anche nell'età post-risorgimentale, sia pure come tendenze prive di peso politico, nella critica all'ordinamento statale esistente. È pertanto comprensibile la confusione, anche nella retrospettiva storica, che induce a sovrapporre tematiche, problematiche, categorie ideologiche attuali, proprie della fine avvenuta del ‘secolo breve’ (1914-1991) a quelle dell’Ottocento, risorgimentali e post-risorgimentali, alla riscoperta di una continuità sommersa dal 1860 al 1991, e che ora sembra riemergere. In particolare, si tende a contrapporre in modo indifferenziato, allo schema centralista dello StatoNazione realizzato nel Regno d'Italia, una pluralità di modelli diversi ma irrealizzati. Essi hanno in comune solo l’elemento negativo dell’opposizione e della critica al progetto e alla realtà storica effettuale dello Stato nazionale unitario, ossia l'organizzazione secondo uno schema di rigido centralismo politico-territoriale e amministrativo messo in atto nel quinquennio 1861-1865 e rimasto sostanzialmente inalterato. Anzi, esso si accentuò nella transizione dalla Destra storica liberal-moderata (18611876) ai governi della Sinistra liberale, in particolare con Crispi, dal 1888, irrigidendosi al massimo con il regime dittatoriale fascista, per cui lo schema centralista di un modello cesarista-napoleonico non poteva che risultare congeniale. 5 n.11 / 2005 Dalla continuità storica accennata, sarebbe arbitrario vedere in una concezione politica generale della Destra storica liberal-moderata post-cavouriana le premesse dottrinarie e pratiche degli sviluppi di esse in una concezione e in una prassi dello Stato totalitario fascista, che è un fenomeno nuovo del XX secolo, il quale emerge dalla crisi della prima guerra mondiale. I suoi antecedenti ideologici più diretti sono piuttosto nelle concezioni nazionalistiche, organicistiche, corporativistiche, sorte nell'età giolittiana, a ridosso della guerra di Libia del 1911, con le elaborazioni politiche dottrinarie di Enrico Corradini, Alfredo Rocco, Scipio Sighele e vari altri. Il centralismo, come forma di organizzazione politico-territoriale e amministrativa dello StatoNazione moderno, di per sè, non definisce teoricamente né storicamente alcuna concezione politica generale, così, d’altra parte, come lo schema federale in quanto modello politico-istituzionale. In altri termini, centralismo e federalismo sono, dal punto di vista storico-istituzionale, due variabili nella formazione dello Stato-Nazione moderno. Questo si basa in entrambi i casi sul principio di sovranità popolare, che sostituisce il principio di sovranità per diritto divino delle Monarchie assolute dell'antico regime pre-modeno. Il popolo sovrano, o l'universalità dei cittadini aventi diritto a suffragio di fatto, può essere circoscritto dal criterio di classe censitario all'1% della popolazione nazionale, come in Francia nell'età della Monarchia liberale Orléans dal 1830 al 1848, o al 2%, di cui il 50% non votava, come in Italia nell'età della Destra storica. Ma queste restrizioni non annullano il principio di sovranità popolare nè il corrispondente modello rappresentativo parlamentare, e tanto meno il principio delle garanzie dei diritti individuali (o della libertà civile) nell'ordinamento dello Stato-Nazione moderno, che può essere comune, per tali aspetti fondamentali, sia allo Stato nazionale unitario centralizzato, sia allo Stato federale. Tali premesse sono invece vanificate dalle concezioni e dalla prassi dello Stato totalitario (di destra e di sinistra), originario del XX secolo, che si caratterizza storicamente, di fatto, nelle varianti delle sue dottrine, per la subordinazione del potere legislativo e giudiziario al potere esecutivo di governo. Tale modello si concretò nei regimi di 6 dittatura permanente, quali che siano state le giustificazioni ideologiche di essi per autolegittimarsi nell'esercizio del potere. Ma lo Stato-governo totalitario non è necessariamente una conseguenza storica del centralismo politico-territoriale e amministrativo, ma piuttosto di conflitti inter-imperialistici di potenze e di rivoluzioni e contro-rivoluzioni sociali e politiche, che sono state combattute come guerre civili, sfociando in regimi dittatoriali permanenti. In altri termini, guerre civili rivoluzionarie e contro-rivoluzionarie sono sorte e sviluppate indipendentemente da un assetto centralista o federale dello Stato-Nazione, il centralismo estremo essendo stato, però, lo sbocco di regimi dittatoriali. Storicamente, il centralismo politico-territoriale e amministrativo è stato, in Europa occidentale, anzitutto il risultato della formazione degli Stati nazionali, conseguente alla centralizzazione militare e burocratica imposta dalle Monarchie assolute tra i secoli XVI e XVIII, contro l'anarchia dei particolarismi territoriali dell'ordine feudale. Il suo schema modernizzato è stato continuato dalla Rivoluzione francese attraverso la democrazia giacobina degli anni 1792-1794, contro le tendenze federaliste girondine, e i governi del Direttorio, che sono seguiti alla reazione termidoriana antigiacobina fino al cesarismo napoleonico, dal Consolato all'Impero. È perciò la Francia che per prima ha offerto (anche al Regno d'Italia nel 18611865) il paradigma storico-istituzionale più esemplare di centralismo politico-territoriale e amministrativo di Stato-Nazione moderno nell’Ottocento, che per ambedue gli aspetti è stato opera, agli inizi del secolo XIX, del cesarismo napoleonico. Il modello storico-istituzionale federale di StatoNazione moderno deriva invece dalla rivoluzione anti-coloniale da cui, con la nuova nazione degli “Inglesi d'America”, nascono gli Stati Uniti. Il modello federale nord-americano è stato poi recepito, nella formazione politico-territoriale di alcune nuove Repubbliche dell’America ispanica, ma con diverse varianti, a cominciare dal Venezuela e dalla Nueva Granada (odierna Colombia), dal 1811 (a cui fece seguito, dal 1819, il centralismo bolivariano della ‘Grande Colombia’ o ‘Unione Colombiana’, rovesciato nel 1830), e dall'Argentina, nel congresso di Tucumán del 1816. Mario Quaranta Come abbiamo già accennato, il centralismo e il federalismo sono stati storicamente una variante nella formazione dello Stato-Nazione moderno, non per quanto riguarda i principi fondamentali della sovranità popolare, della rappresentanza parlamentare, della divisione ed equilibrio dei poteri, delle garanzie dei diritti individuali o della ‘libertà civile’, che sono comuni a entrambi i modelli, ma per quanto si riferisce all'organizzazione politicoterritoriale e amministrativa. Il sistema federale del modello nordamericano attua un decentramento orizzontale (sul territorio dello Stato-Nazione) di poteri agli Stati federati, cui corrisponde una concentrazione di poteri esecutivi supremi nel governo centrale ai vertici dell’Unione Federale, nella figura del Presidente (e capo del Governo), come necessario correttivo e riequilbrio verticale del decentramento orizzontale. Lo schema storico-istituzionale dello Stato federale moderno, determinato dalla rivoluzione anticoloniale americana, si distingue da quello confederale, con cui nel linguaggio politico comune talvolta si può confondere, come si osserva, ad esempio, in riferimento a modelli federalisti irrealizzati dell’età risorgimentale in Italia, in cui si include il progetto neo-guelfo, perché la confederazione è un’unione di Stati sovrani fondata sull'accordo di una reciproca limitazione di poteri sovrani, ma non di rinuncia alla sovranità assoluta all’unione di Stati federati. (Aa.Vv., Luigi Marco Bassani, “Federazione e confederazione. Una falsa opposizione?”, Federalismo tra filosofia e politica, a cura di Ugo Collu, Nuoro, Fondazione Costantino Nivola, 1998, pp. 51-76). 3. Federazione/confederazione: una distinzione necessaria Un contributo chiarificatore su tale problema l'ha portato Luigi M. Bassani il quale, riprendendo precedenti dottrine, afferma che la distinzione nella teoria politico-giuridica tra confederazione e federazione è alquanto labile e dubbia, in quanto essa sarebbe “tutta interna alla costruzione (ideo)logica dello stato moderno”, elaborata da giuristi francesi e germanici che “hanno sistematizzato la storia della comunità politica americana spiegando agli stessi americani che cosa era accaduto loro”. Ma Il dibattito sul federalismo essa sarebbe sconosciuta, nei termini in cui si è cristallizzata, al pensiero giuridico e politico americano classico, ossia quello del periodo che va dalla dichiarazione d'Indipendenza (1776) alla guerra civile (1861-1865), e quindi sarebbe fallace, in quanto “i pensatori americani e quelli europei maneggiavano due diversi concetti di sovranità, che a loro volta sottendono due differenti concezioni del rapporto fra comunità politica e società, fra stato e libertà e così via”. La paronimia e la omonimia, afferma Bassani, non devono quindi trarre in inganno. Infatti, “suprema autorità legislativa” è la definizione di sovranità più ardita che si riscontra nelle riflessioni americane utilizzata da John Caidwell Calhoun (1782-1850) per difendere la “sovranità dei singoli stati” nella prima metà dell'Ottocento, una definizione che da quasi tutti i giuristi europei sarebbe considerata riduttiva rispetto agli “attributi necessari della sovranità”. Il punto è evidentemente fondamentale: la dottrina costituzionale della sovranità, per come si è sviluppata in Europa dal Cinquecento in poi, è eminentemente giuridica, e richiede l'illimitata e illimitabile concentrazione del potere, ossia l'opposto del federalismo. Quando si pongono domande sulla sovranità e sulla sua localizzazione, viene da chiedersi, allora, se non ci si collochi ipso facto in un orizzonte 'altro' rispetto a quello della teoria politica del federalismo. Se la sovranità rimanda necessariamente a concentrazioni di potere sul territorio potenzialmente illimitate, come può essere utile per una trattazione del federalismo? In altri termini, dentro la gabbia di ferro della “sovranità” non si rischia di perdere di vista il tema cruciale del federalismo, l'argine al consolidamento del potere centralizzato? La centralizzazione del potere, infatti, è il dato permanente, la caratteristica ineliminabile che ha accompagnato lo sviluppo storico degli stati europei e che ha favorito il sorgere di quel modello che gli studiosi del federalismo chiamano di “stato reificato” (Bassani, cit., p. 54). (Sulla distinzione fra federazione e confederazione fra Stati, vds. Bassani, cit., pp. 55-62). Sotto lo stesso nomen “sovereignity”, conclude Bassani, si nascondono, quindi, due concezioni profondamente diverse del potere in Nordamerica e in Europa. Sintetizzando, 7 n.11 / 2005 con un apparente paradosso, si può affermare che in America il concetto di sovranità ha una funzione eminentemente anti-statalista (sovranità delle comunità politiche originarie come argine al consolidamento dell'unione), mentre in Europa la sovranità è il puntello della costruzione statale e statalista, la quale afferma la politicità della sintesi “Stato”. 4. Il modello federalista americano e quello europeo In queste osservazioni però non ci si addentra in questioni interne a teorie politico-giuridiche, ma ci si limita a constatare empiricamente le diverse tipologie di formazioni storico-istituzionali e dei rispettivi modelli. Ora, in questa prospettiva storica, è evidente e macroscopico il fatto originario che connota la nascita dello Stato-Nazione moderno di forma federale con gli Stati Uniti d'America. Lo Stato-Nazione moderno nasce come una realtà nuova, sia come nazionalità (degli “Inglesi d'America”, come poi degli “Spagnoli d'America”), sia come formazione statale dalla rivoluzione anticoloniale contro la metropoli europea. Nei territori coloniali non sussisteva affatto la nozione di ‘Stato’, mentre vigeva una realtà istituzionale di self-government locale, nelle ex tredici colonie anglosassoni, e di autonomie municipali nelle colonie ispano-americane. Il federalismo prodotto dalla rivoluzione anti-coloniale, nelle sue varianti, ha origine anzitutto da una reazione al centralismo militare-burocratico della metropoli europea esterna. La continuità di un ordine istituzionale, nel crollo di quello coloniale, si attuò nel self-government locale e nelle autonomie municipali. Questi due fatti determinarono la nascita di una pluralità di stati federati di ambito regionale (maggiore o minore), la cui differenziazione si definì fondamentalmente in base a quelle economiche e connesse, già esistenti nell'età coloniale. Nessuna delle ex regioni storiche coloniali poteva far valere la propria egemonia sulle altre. Il modello dell'Unione federale, alle origini dello StatoNazione moderno, nascente in America dalla rivoluzione anti-coloniale, doveva perciò risultare il più congeniale a una realtà sociale, politica e territoriale pluralistica, di fatto già preesistente come 8 ‘costituzione materiale’. Tale equilibrio pluralistico, intrinseco alla formazione storico-istituzionale di tipo federale, fu inoltre favorito dal fatto che nell'America anglosassone la rivoluzione anti-coloniale non fu caratterizzata alle origini e non fu seguita da violenti conflitti sociali di classe, come avvenne in Europa nel corso della Rìvoluzione francese, e oltre, ma anche in alcune aree dell'America ispanica, in cui perciò s'imposero dittature e centralismi. Una volta crollato il dominio coloniale della metropoli, gli Stati Uniti godettero del vantaggio di una frontiera continentale aperta dall'Atlantico al Pacifico (dal 1803, in seguito alla cessione della Luisiana o dei territori che si trovavano lungo il Missisipi fino al Golfo del Messico, da parte di Napoleone), in continua espansione, con la trasformazione di territori colonizzati in nuovi Stati federati, senza più la minaccia di conflitti con grandi potenze esterne confinanti. Il caso della formazione storico-istituzionale degli Stati-Nazione moderni in Europa è l'opposto. In Europa iI modello confederale è pre-moderno; storicamente ha origine da Stati (o principati, o città-stato) o altre formazioni politico-territoriali preesistenti, che si aggregano in un patto di cooperazione, ma senza rinunciare alla propria sovranità in quella superiore di una unione, come nel caso esemplare della Svizzera (che soltanto dopo il 1848 evolve verso il modello di unione federale). Ma la Svizzera costituì un'isola in Europa, per il fatto che il gioco d'equilibrio tra grandi potenze le garantì una neutralità permanente. I modelli del federalismo nordamericano e confederale elvetico furono presenti in tendenze politiche risorgimentali italiane. Il paradigma confederale fu proprio del progetto dei monarchici, cattolici-liberalmoderati piemontesi, dell'abate Gioberti, di Balbo, D'Azeglio, e dei loro associati, trovando una breve fortuna ideologica tra il 1844 e i primi quattro mesi del 1848. Per una penisola italiana (“espressione geografica”, secondo il principe di Metternich) divisa da secoli in una pluralità di principati, tra cui lo Stato pontificio al Centro, e da profonde differenziazioni economico-sociali tra Sud e Nord mai superate, una formula confederale poteva sembrare la più idonea a una sua “costituzione materiale”. E di questa, Mario Quaranta infatti, fu espressione storica il programma neoguelfo, rimasto un'ideologia politica irrealizzata (e tuttavia significativa) dell'età risorgimentale. Paradossalmente, proprio una costituzione materiale antitetica storicamente allo schema di Stato nazionale unitario centralizzato, secondo il modello francese-napoleonico, fu determinante della recezione per il nuovo Regno d'Italia. Il centralismo adottato negli anni 1861-1865 per l'organizzazione politico-territoriale e amministrativa fu la conseguenza di un'unificazione della penisola maturata improvvisamente e imprevedibilmente dal 1859 al 1860, per il concorso dell'iniziativa garibaldina di liberare il Regno delle Due Sicilie con la spedizione dei Mille, e, come conseguenza immediata, per la conquista militare piemontese attraverso i territori pontifici dell'Italia centrale, cui seguirono i plebisciti che sanzionarono con grandissime maggioranze le annessioni. In questo modo, il nuovo Stato-Nazione unificatore di una pluralità molto eterogenea di regioni storiche della penisola, nacque indipendentemente da un Congresso costituente, come continuità del Regno di Sardegna, ossia, in pratica, come il risultato di una sua improvvisa espansione politicomilitare. Il rigido centralismo del modello francese-napoleonico fu, quindi, uno strumento adottato per consolidare autoritariamente l'espansione monarchica piemontese, contro le resistenze al nuovo ordine statale che potevano provenire sia dall'alto, ossia dai legittimismi monarchici, soprattutto borbonico e lorenese, e sia anche da ondate di sovversivismo popolare spontaneo insorgente dal basso, come si manifestò dal 1866 con le proteste diffuse contro la tassa sul macinato, a causa della quale, nel 1876, cadde il governo della Destra storica liberal - moderata. Il centralismo nell'organizzazione politico-territoriale e amministrativa definita negli anni 1861-1865 appare dunque, in Italia, la risultante fondamentalmente di una necessità politica superiore di difesa dell'ordine pubblico che, nelle valutazioni dei governi delle oligarchie liberal-moderate, poteva essere minacciato, con l'unità nazionale, non solo da un ordinamento federale, ma anche da un semplice decentramento amministrativo. Su tali valutazioni dovette pesare, in particolare, la paura esercitata dalla reazione di un legittimismo borbonico Il dibattito sul federalismo che nei territori meridionali si associò, strumentalizzandolo, a un sovversivismo popolare spontaneo, intrecciatosi con il brigantaggio, contro cui fu condotta per alcuni anni una campagna di repressione militare altrettanto violenta. 5. Verso il superamento degli Sati nazionali Del federalismo però, oltre le nozioni storico-istituzionali e politico-giuridiche accennate, che nell'età di formazione degli Stati-Nazione moderni sono derivate dai paradigmi anzitutto degli Stati Uniti, e quindi subordinatamente da quelli di Repubbliche ispano-americane, costituitesi anch'esse con la rivoluzione anti-coloniale tra il 1811 e il 1830, sono state date altre diverse nozioni, definibili meta-storiche e meta-giuridiche, ossia di “una dottrina sociale di carattere globale, al pari del liberalismo e del socialismo, che non si riduce quindi all'aspetto istituzionale, ma comporta un atteggiamento autonomo, verso i valori, la società, il corso della Storia, e così via” (Lucio Levi, “Federalismo”, Dizionario di politica, Torino, Tea, 1990, pp. 374-385). In altri termini, si tratta di una “visione globale della società” così come un'ideologia totalitaria, che corrisponde a filosofie della politica, dell'etica, del diritto, della storia, e il cui il riferimento prioritario obbligato, sotto il profilo storico, va alla concezione cosmopolitica del federalismo nel pensiero di Kant, che influenzò successivamente l'utopia di Saint-Simon, di Proudhon e anche, più moderatamente, Mazzini e Cattaneo. Il federalismo kantiano è, in tale senso, un’ideologia politica utopica la cui teoria postulava (e postula) il superamento degli Stati nazionali in “un governo democratico sopranazionale, come strumento politico per instaurare relazioni pacifiche tra le nazioni e di garantirne nello stesso tempo l'autonomia attraverso la loro subordinazione a un potere superiore” (Levi, cit., p. 379). L'utopia federalista di Kant del superamento degli Stati nazionali in un governo sopranazionale democratico, è stata storicamente contraddetta dal fatto che proprio tra Otto e Novecento la spirale dei conflitti di potenza tra Stati nazionali moderni, provocati dalle lotte per la nazionalità e per la conquista dei mercati, dalle guerre doganali di ritor- 9 n.11 / 2005 sione reciproca, in un processo di sviluppo economico sempre più diseguale, corrispondente a una ineguale distribuzione di potere politico tra Stati, ha raggiunto l'apice. Essa ha esasperato e moltiplicato i fattori di anarchia e di rottura dell’equilibrio internazionale, determinando rapporti imperialistici tra i Paesi più forti e quelli più deboli. Per conservare o rovesciare tale ordine di rapporti, gli Stati nazionali non hanno trovato altra soluzione decisiva che due guerre mondiali, le quali hanno determinato un'eclissi dell'Europa come centro del mondo. Oggi, ciò che appare determinante di una tendenza al superamento degli Stati nazionali, non è tanto il fatto che si sia pervenuti a un effettivo governo democratico sopranazionale (che dovrebbe essere costituito dall'organizzazione delle Nazioni Unite), quanto piuttosto da altri due ordini di fattori. (1) Dal 1945 una nuova guerra mondiale è divenuta praticamente impossibile, almeno direttamente, tra grandi potenze, e tanto più da quando, con l'autodisintegrazione per implosione, dal 1989 al 1991, dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti sono rimasti l'unica potenza globale; (2) i processi di globalizzazione economica mondiale, ora accelerati, spingono gli Stati nazionali a una reciproca integrazione, prima di tutto economico-politica, per blocchi continentali, come nel caso dell'Unione europea, che può prefigurare, embrionalmente, una federazione (punto d’arrivo peraltro lontano). Ciò che caratterizza storicamente la sostanziale differenza di premesse e implicazioni economicosociali e politico-istituzionali, nel dibattito generale sul federalismo-centralismo, oggi, in Italia, e ieri, tra età risorgimentale e post-risorgimentale, è il fatto macroscopico che alla vigilia del terzo Millennio gli Stati nazionali moderni sono giunti al tramonto, mentre tra il 1860 e il 1870 nascevano nella penisola italiana e nel Paesi germanici (con l'Impero di Bismarck, nel 1871). Tale nascita corrispondeva anche alla formazione di due nuovi grandi mercati nazionali in Europa (il primo era stato preceduto agli inizi del secolo dall'Unione doganale), che inizialmente si aprivano al liberoscambismo commerciale, ma per volgere molto presto al protezionismo; in Italia dagli anni 1876-1878 con l’avvento della Sinistra liberale al governo. Nell’odierno dibattito sul federalismo, si sovrap- 10 pongono, in Italia, due piani molto diversi di prospettive: quello dell’integrazione degli Stati nazionali in una comunità politica europea, e quello della trasformazione istituzionale dello Stato nazionale unitario e centralista italiano in uno Stato federalista. Su nessuna delle due prospettive sussiste attualmente certezza di orientamenti precisi; ciò che sembra abbastanza sicuro finora è che, dopo le recenti elezioni per il Parlamento europeo, il processo d’integrazione continentale europea si prospetta in modo ormai irreversibile, anche se non potrà essere del tutto “armonico” e senza contraccolpi negativi su settori interni più deboli degli Stati nazionali, i quali potranno imporre delle battute d'arresto a una evoluzione della nuova organizzazione politica unitaria europea sopranazionale, che potrà configurarsi, a nostro avviso, secondo un modello federale. È prevedibile, pertanto, che il processo d'integrazione continentale europea si attuerà e si connoterà in forme di tipo federale indipendentemente dalle trasformazioni istituzionali interne allo Stato nazionale italiano, che potrebbero avvenire seguendo modelli diversi. Da una parte, si potrebbe innovare nella continuità dello Stato nazionale unitario con un sostanziale decentramento amministrativo e con un cosiddetto federalismo fiscale; dall'altra si potrebbe evolvere verso un autentico ordinamento di tipo federale attuando, ad esempio, un modello proprio, come quello delineato nel progetto approvato in prima lettura dal Parlamento. (Peraltro, permane un'incertezza di fondo, determinata dall'esplicita affermazione dell'Ulivo, ora all'opposizione, di modificare il progetto del Polo, attuale maggioranza, qualora vincesse le elezioni del 2006; un obiettivo che in questo momento ha un'indubbia possibilità di essere raggiunto). In ambedue le eventualità, o in un'altra ipotesi ancora di trasformazione istituzionale, l'evoluzione interna allo Stato nazionale italiano non sarà determinante di quella continentale europea. Al contrario, questa ha già condizionato e condizionerà ancora l'evoluzione istituzionale interna dell'Italia, che da oggi per il domani non potrà non dimensionarsi sui blocchi di forze economico-sociali predominanti e decisive, e quindi dal blocco sociale e politico del Nord nel suo complesso. D’altra parte, Mario Quaranta il blocco degli interessi del Nord è sempre stato determinante delle tendenze seguite dalle origini dell'unità nazionale in poi, ma con alcune variazioni sostanziali nel suo assetto economico-sociale e politico e in rapporto al Sud. 6. Nord e Sud nella storia d’Italia Il blocco dominante del Nord si è identificato, dall'unità nazionale al fascismo, con quello del cosiddetto ‘triangolo industriale’ piemontese-ligurelombardo. Esso ha deciso sia la politica economica liberoscambista della Destra storica fino al 1876, sia quella protezionista iniziata dalla Sinistra, poi. In entrambe le varianti, i settori regionali più svantaggiati nel loro complesso sono stati quelli meridionali. Ciò però non significa, ovviamente, tutto il Meridione come blocco indifferenziato, tanto è vero che, paradossalmente, le tendenze federaliste sono state prevalentemente centro-settentrionali, mentre le oligarchie del Sud sono state preferibilmente unitarie. L'applicazione del liberoscambismo commerciale, già dagli inizi dell’unità nazionale, provocò la rovina di una nascente industria meridionale, che era stata sviluppata con il protezionismo doganale, e che di fronte all’improvvisa invasione di merci inglesi, francesi, belghe, non trovò più la capacità di reggere la concorrenza. L'unità nazionale fin dalle sue origini ebbe, dunque, per conseguenza economica immediata, la deindustrializzazione del Meridione. Successivamente, il blocco protezionista integrale ripercosse i suoi contraccolpi più negativi ancora sul Sud. La guerra commerciale che esso provocò con la Francia, e le ritorsioni doganali di questa contro le importazioni di vini italiani colpirono rovinosamente la viticoltura meridionale. Tuttavia, del blocco protezionista integrale del Nord furono componenti sociali e politiche fondamentali anche i grandi proprietari di latifondi cerealicoli del Sud, soprattutto della Sicilia e delle Puglie. Non è d'altra parte un caso che il leader politico più rappresentativo di tale blocco sia stato il siciliano Francesco Crispi. Il rapporto Nord-Sud, fondato sull'alleanza decisiva dei proprietari di latifondi cerealicoli meridionali con il blocco protezionista settentrionale, è venuto meno con la trasformazione capitalistica industriale, la globalizzazione e l'integrazione con- Il dibattito sul federalismo tinentale europea. Di fronte a questa, è ancora l'Italia settentrionale che impone i criteri e i modi alla penisola, in cui la divaricazione del Meridione, nello sviluppo diseguale in rapporto al Nord, in proporzione si è ancora accentuato, nonostante le migliaia di miliardi che sono stati drenati dallo Stato, con la politica creditizia per il Mezzogiorno. L'integrazione continentale europea, così come la globalizzazione economica mondiale, di cui la prima è un aspetto, provocando il tramonto degli Stati nazionali ha però come contraccolpo negativo di accentuare ed esasperare all'interno di questi i settorialismi economici regionali, che operano come nuovi fattori aggravanti di uno sviluppo diseguale tra aree diverse, con maggiore asprezza, in linea generale, dove tale divaricazione preesisteva da più lungo periodo. E questo è il caso esemplare dell’Italia, che tra tutti gli Stati-Nazione dell’Europa occidentale è quello in cui il fenomeno dello sviluppo diseguale tra aree regionali interne, nel nostro caso, tra Nord e Sud, è stato più accentuato, dal momento che la divaricazione non si è prodotta con l'unità nazionale, che l'ha soltanto ampliata, ma è durata da secoli, praticamente da dopo il Mille. La gravità del fenomeno dello sviluppo diseguale tra Nord e Sud nella penisola italiana (che è un aspetto europeo-regionale di un analogo rapporto che si ripropone ampliato su scala inter-continentale; per esempio, tra America anglosassone e America latina, e in quella mondiale) spiega come il dibattito sul federalismo si sia improvvisamente generalizzato ed esasperato, in Italia, investendo tutti i settori politici, e allo stesso tempo abbia creato un’estrema confusione di idee e di prospettive, in modi che non hanno riscontro in nessun altro Paese dell'Europa occidentale. Infatti, uno squilibrio interno di sviluppo diseguale altrettanto accentuato non esiste, mentre d'altra parte, la formazione politico-istituzionale dello Stato nazionale avvenuta da molto più lunga durata è assai più consolidata; oppure, il problema politico delle autonomie regionali ha già trovato una soddisfacente soluzione all'interno dei rispettivi StatiNazione, come ad esempio nella Germania e nella Spagna. La grandezza dello squilibrio di sviluppo economico tra regioni italiane, ma soprattutto tra Nord e Sud, si può riassumere nel fatto che quat- 11 n.11 / 2005 tro regioni settentrionali, Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna, assicurano da sole il 52,3% delle entrate fiscali complessive dello Stato, ricevendo in cambio da esso un 33,9% della redistribuzione statale. Zeffiro Ciuffoletti osserva, in proposito, che tra i Paesi della Comunità europea, l'Italia è quello che presenta i più ampi divari nella capacità di produrre reddito ed entrate fiscali. Il fenomeno dello squilibrio fiscale ha soprattutto esasperato la polemica contro il centralismo, che ha avuto nella minaccia secessionista della Lega lombarda la proiezione ideologica più estrema. Ma la secessione è rimasta il motivo di un populismo demagogico che, nonostante gli appelli ai popoli “celtici” padani contro Roma, ha connotato un movimento minoritario che si è andato via via ridimensionando. L’idea di secesione non ha trovato credito in nessuna forza sociale e politica decisiva, e avendo piuttosto fatto perdere che guadagnare consensi alla Lega, è stata alla fine abbandonata. Il motivo secessionista è apparso consistente quanto l'invenzione di una nazionalità neoceltica padana, che non ha fondamenti storico-culturali. Piuttosto ne hanno semmai le differenziazioni regionali tra le aree geo-storiche dell'ex Repubblica di Venezia (che includeva le province di Brescia e Bergamo, nei cui centri municipali, non a caso, si sono registrate le affermazioni elettorali più consistenti della Lega), dell'ex Ducato di Milano, del Piemonte, dell' Emilia-Romagna, ex-pontificia e poi ex-comunista. Il secessionismo o l’invenzione della nazionalità neo-celtica padana non sono state, in conclusione, che le proiezioni di una mitologia demagogica popolana, i cui fondamenti sostanziali sono invece nella esasperata protesta contro l'eccessivo fiscalismo, diffusasi tra i nuovi ceti imprenditoriali cresciuti con la media e più ancora con la piccola industria. Questi motivi si associano, poi, a vecchi risentimenti contro la burocrazia identificata con “i meridionali”, con il sistema dei partiti, con la sinistra, con il dirigismo economico, con il sindacalismo, a cui si connettono le reazioni istintive e ovvie verso le conseguenze patologiche di un'immigrazione extra-comunitaria incontrollata, il dilagare della micro-criminalità e dell'insicurezza. E poiché, come sempre, occorre un ‘capro espia- 12 torio’, e tanto più quanto maggiori si manifestano le difficoltà di conseguire soluzioni soddisfacenti e rapide, sia su base nazionale sia su base autonoma regionale e municipale, capro espiatorio migliore non si poteva trovare che nel centralismo statale prevaricatore e inefficiente di Roma, dall’unità nazionale a oggi. Centralismo oggi rivisitato da una nuova storiografia che peraltro dimentica che esso è sempre stato uno strumento politico degli interessi predominanti del blocco del Nord, seppure con il supporto di settori subordinati del Sud. Si ha l’impressione che un carattere peculiare dell'odierno dibattito sul federalismo sia determinato da una convergenza negativa di critica generalizzata al centralismo, la quale, essendo fin troppo facile e condivisibile, ha anche l’effetto di creare un altrettanto facile mito politico di un federalismo generico, o elevato a cospirazione politica globale, o immaginato usato come un toccasana per tutti i mali economici e sociali della penisola, mentre si protraggono confusione e incertezza su progetti politici precisi e risolutivi. Come ha osservato l'ex ministro Giulio Tremonti, è certo che senza federalismo fiscale è difficile parlare di federalismo. Ma è anche vero che non necessariamente si perviene a un nuovo ordinamento federale sulla base di un progetto, delineato dallo stesso Tremonti, di un forte municipalismo che arrivi al solidarismo al vertice, “passando per le Regioni concepite come strumenti di autogoverno” (G. Tremonti-G. Vitaletti, Il federalismo fiscale, Roma-Bari, Laterza, 1994). La preoccupazione di salvaguardare il solidarismo contemperando un forte municipalismo e un autogoverno regionale, è l’ovvia conseguenza del fortissimo squilibrio nello sviluppo economico diseguale che ha caratterizzato il rapporto Nord-Sud in Italia, come in nessun altro Paese europeo. Ciò ha indotto a ipotizzare soluzioni agli opposti estremi: (1) alla minaccia secessionista della Lega in quelle aree provinciali lombardo-venete che per essere meglio inserite, con una diffusa piccola e media industria esportatrice nel mercato europeo (e particolarmente germanico), individuano nel Meridione un ostacolo al proprio sviluppo, da cui ci si dovrebbe, e ci si potrebbe per sempre liberare con una separazione statale, che consentirebbe la migliore integrazione continentale; (2) alla tendenza a garantire il “soli- Mario Quaranta darismo” nazionale a favore del Mezzogiorno (che in realtà significherebbe l’assistenzialismo, come non a torto denunciano i “nordisti”) nella continuità di un ordinamento di Stato unitario che, corretto da autonomie municipali e regionali, sostanziali e non più nominali, consenta ancora a un forte potere di governo centrale di prolungare prelievi e trasferimenti di surplus dal Nord al Sud. Questa seconda tendenza è apparsa favorita dalla circostanza che il personale politico, che ha diretto l’Italia con la coalizione governativa di centrosinistra, si è identificato praticamente con i gruppi post-comunisti e post-democratici cristiani, in prevalenza meridionali, integrati da quelli minori dell'Italia centrale. Ma la forza politica di tale tendenza proviene, non tanto da una forza elettorale di sinistra, che in realtà non ha superato, allora, il 30%, quanto piuttosto da un abile rapporto di compromesso che essa interpretò con settori decisivi del grande capitale finanziario-industriale del Nord, ai quali sarebbe nuociuto un improvviso e aggravato collasso del Meridione lasciato andare a se stesso, una volta privato del tutto del cosiddetto solidarismo assistenziale dello Stato. Inoltre, questo rapporto compromissorio si saldò, allora, ancora più fortemente a un altro fattore economico più decisivo, quello della continuità di un capitalismo di stato, seppur molto ridimensionato rispetto all'enorme e anomala espansione avvenuta dal 1933, quando in età fascista fu creato l’I.R.I. (Istituto per la Ricostruzione Industriale) a tutta l’età post-fascista, fino al 1988, quando iniziò il processo di privatizzazione. Per quanto non siano mancati portavoce di interessi del grande capitale finanziario-industriale che hanno elogiato i politici di sinistra come più convinti e coerenti liberisti di quelli liberal-moderati di centro-destra, ciò non sembra fondato che settorialmente e traversalmente. La questione fondamentale e decisiva consiste, ancora oggi, sotto la direzione dello schieramento di centro-destra, nel fatto che il settore privato del capitalismo in Italia, dall'avvento della Sinistra liberale al governo nel 1876, non è mai stato tanto forte e maturo da poter prescindere, in perfetto o quasi regime liberista, da un sostegno statale sotto varie forme, che da allora all'età della prima Repubblica si è dilatato sempre di più, e che neppure oggi, di fronte al processo di Il dibattito sul federalismo integrazione continentale europea e alla sfida della globalizzazione, si può lasciare perdere improvvisamente del tutto. l capitalismo di stato, pur ridimensionato, resta quindi uno strumento utile per alcuni settori del capitalismo privato; del resto, in Europa non è un fenomeno peculiare soltanto dell’Italia, essendolo anche della Francia, dove oggi è ancora più accentuato. L’intreccio è stato implicitamente riconosciuto da qualche esponente del centro-sinistra, quando dichiarò che il capitalismo in Italia ha bisogno della Sinistra. Ciò implica che neppure la destra liberal-moderata può in blocco prescindere dal ruolo di un sostegno statale al settore privato. Il solidarismo per il Mezzogiorno, combinandosi a tale prospettiva, si è presentato, oggi, come una piattaforma sociale e politica preferenziale di un programma tendenzialmente bipartisan, volto ad attenuare e diluire il progetto federalista in quello di un federalismo fiscale sulla base di un decentramento municipale e regionale. Questa convergenza ha fatto esasperare la protesta populista della Lega, che è stata e resta un fattore oggettivo decisivo per il Polo, anche se il suo consenso resta localizzato fondamentalmente in aree municipali lombarde e venete. È venuta meno in modo definitivo l’ipotesi secessionista, in seguito a una revisione degli stessi dirigenti intransigenti della Lega, che con quell’agitazione estremistica si sono circoscritti al ruolo di movimento protestatario minoritario di destra populista, la cui incidenza politica effettuale rimane peraltro rilevante. D’altra parte la Lega non è in grado di arrivare ad essere forza decisiva di una soluzione fondamentale, se non attraverso l’accettazione di mediazioni all’interno stesso dello schieramento politico in cui si è stabilmente collocata. A tutt’oggi la proposta federalista del Polo è sottoposta a tentativi di revisione perché si ritiene, dall’opposizione del centro-sinistra e da forze interne alla maggioranza, che abbia dato alle regioni troppi poteri. Si profila una situazione in cui si tenta di trovare una via compromissoria intermedia tra una tendenza favorevole a un federalismo attenuato nel decentramento municipale e regionale, ossia a un federalismo fiscale che salvaguardi una politica economica solidaristica per il Mezzogiorno, e una tendenza federalista più radicale, rappresentata 13 n.11 / 2005 dalla sola Lega. Comunque, la soluzione finora indviduata ha retto alle prime prove parlamentari, ma qualsiasi possa essere la linea vincente, non saranno le teoriche costituzionali, le filosofie politiche di per sè, e tanto meno le retrospettive storiografiche a produrla. Saranno le necessità nuove imposte dal tramonto degli Stati nazionali, prodotto dal duplice processo concomitante dell'integrazione continentale europea e della globalizzazione economica mondiale. Il tramonto degli Stati nazionali non significa la dissoluzione delle loro realtà storico-istituzionali, ma piuttosto un ridimensionamento funzionale e adeguato a una realtà nuova nascente, quella di una Unione espressa nella Costituzione europea, che non ha alcun antecedente storico cui riferirsi. Il suo modello non è quello dell'Unione federale degli Stati Uniti d'America, sebbene questo paradigma storico risulti fondamentale per intendere che la dottrina costituzionale della sovranità sviluppatasi in Europa dal secolo VI al XX, è stata la proiezione storica di un tipo di formazione dello Stato-Nazione moderno, ma non l’unica. Un'altra è stata quella del federalismo nord-americano alla fine del secolo XVIII; ma una terza ancora può essere quella nascente con una Unione federale europea, che conseguentemente potrà produrre, a sua volta, una nuova e originale teoria politico-giuridica. 7. Il ruolo delle regioni nella gestione della scuola Alla ricerca di un “asse culturale” Fra i molti dubbi che ha sollevato l’attuale progetto di federalismo, incentrati sui poteri affidati alle regioni, non c’è quello che riguarda la gestione della scuola da parte delle regioni, perché essa fa già parte del nostro ordinamento, ma i modi e i tempi sono ancora da definire. Da ciò l’opportunità di aprire un dibattito, dal momento che si tratta di un aspetto decisivo all’interno del progettato federalismo che, comunque definito, si contrappone a una tradizione centralistica che è all’origine del nostro Stato nazionale. Uno dei leitmotiv dell'opposizione parlamentare contro la gestione della scuola da parte delle regioni, è che essa comprometterebbe l’unità del Paese, con la legittimazione 14 dei “localismi” e conseguenti conflitti inter-regionali. Questa assunzione di nuove competenze e attribuzioni della regione nel campo dell'istruzione, ha sollevato problemi nuovi come quelli dell'equità nella scuola, di un insegnamento diversificato, interculturale, ecc.; problemi su cui ci soffermeremo brevemente e in termini problematici. Va subito detto che il ruolo delle regioni all’interno di un’Europa unita è un problema su cui discutono studiosi di tutta Europa. A tale proposito basterà fare un riferimento al convegno di alcuni anni fa (gli atti sono stati curati da Enzo Sciacca, L'Europa e le sue regioni, Palermo, Arnaldo Lombardi Editore, 1999) per renderci conto dell’importanza di tale problema negli Stati federali e non, e del ruolo che ha avuto e ha tuttora la cultura, in particolare la scuola, nella costruzione del tessuto connettivo di ogni Stato. La situazione italiana presenta una caratteristica che la contraddistingue da altri Paesi europei, sia perché l’odierno Stato unitario è stato unificato solo da 130 anni, e in modi e tempi imprevisti, allora, da tutte le forze politiche, con interventi decisivi di Paesi stranieri (Inghilterra e Francia), sia perché le regioni hanno costituito per secoli dei veri e propri Stati, per cui l’unificazione politica è avvenuta attraverso l’imposizione di un modello statale, quello piemontese, che ha provocato conflitti prolungati nel Nord e soprattutto nel Sud. Da ciò il rilievo decisivo che è stato assegnato alla “cultura” come tramite di un’unificazione intellettuale, considerata essenziale al fine di dare una ben definita fisionomia unitaria all’Italia. In altri termini, il centralismo politico e amministrativo è stato integrato da un centralismo culturale, e la scuola è stata il tramite fondamentale nella formazione dell’“italiano”, tanto che si potrebbero agevolmente delineare i tre modelli culturali che sono stati proposti, ma più spesso imposti, dai tre fondamentali regimi che si sono succeduti in Italia dall'unità nazionale a oggi: liberale, fascista-autoritario, liberal-democratico. Una delle discussioni che ha coinvolto il personale culturale dell’Italia unita è stato proprio quella per individuare, fra le molte componenti del nostro patrimonio storico, quale considerare l’asse culturale del Paese. A titolo esemplificativo, si può dire che nel campo della tradizione letteraria, centrale e prioritaria nella formazione dell’“italiano”, sia Mario Quaranta stata la Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, il quale ha delineato il paradigma di tale tradizione letteraria, rimasta pressochè inalterata nella cultura e nella scuola italiana fino ai nostri giorni (ovviamente con le integrazioni e gli aggiornamenti resi via via necessari). Nel campo della filosofia il positivismo ha dato la sua impronta ai programmi scolastici di questa disciplina; e il discorso può estendersi anche a discipline scientifiche; basterebbe ricordare quale dibattito e quali scelte sono state compiute nell’insegnamento della matematica, un campo in cui i matematici italiani hanno dato rilevanti contributi in Europa. Ora, l’attribuzione alle regioni di una parte del curriculum scolastico, cosa comporta? A questo punto si apre la discussione, avendo presente che la situazione italiana è caratterizzata da un policentrismo culturale, opposto, ad esempio, al monocentrismo francese, dove Parigi costituisce il centro dominante pressochè esclusivo della cultura, seppure oggi in forme meno esclusive. D’altra parte, non siamo all’anno zero; nel corso del Novecento, ad esempio, le culture regionali sono state valorizzate in vari momenti della nostra storia culturale; dalla “scoperta” delle città e delle regioni italiane compiuta dalla rivista “La Voce”, sorta nel 1908, abbiamo assistito a periodiche riscoperte di scrittori, scienziati, poeti, riviste, la cui incidenza è stata rilevante nell’ambito delle singole regioni; una cultura non adeguatamente conosciuta, e soprattutto non entrata nel circuito culturale nazionale, e perciò rimasta, di fatto, estranea al patrimonio conoscitivo comune, a un ethos condiviso. Basterebbe citare, a tale proposito, il fenomeno dei poeti cosiddetti “dialettali”, che solo molto tardi sono stati, per così dire, legittimati culturalmente, mentre fenomeni di utilizzo geniale di dialetti, come l’esempio rappresentato da Gadda, costituiscono dei “casi” alti e circoscritti. Esso attesta come il radicamento nel patrimonio linguistico “dialettale” sia un motivo non di arretratezza o di mero ossequio a un mondo arcaico, ma di vera e propria creatività culturale. (Un'altra, analoga esperienza è rappresentata dall'attività letteraria di Pier Paolo Pasolini). Non solo: nel 1967 fu pubblicato dall’Einaudi un libro di saggi di Carlo Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana in cui l'autore, riser- Il dibattito sul federalismo va una particolare un'attenzione “ai propositi e successi degli uomini nelle condizioni proprie in cui si trovarono a scrivere, piuttosto che all’intimità e alle risonanze lontane o, come si usa dire, all’universalità delle loro scritture”. Da ciò il privilegiamento accordato alla presenza e al radicamento regionale della letteratura, alla storia delle scuole, delle biblioteche, degli editori, degli sviluppi linguistici e filologici. Un testo, questo, che ha aperto nuove vie all’indagine e alla ricostruzione critica della nostra tradizione letteraria. Un capitolo a parte è rappresentato dal “problema della lingua”, del suo insegnamento nella scuola e del ruolo dei dialetti. Tullio De Mauro pubblicò nel 1969 brevi antologie rivolte alla scuola su Lingue e dialetti di tutte le regioni italiane (I nove volumetti, ciascuno di 28 pagine, sono stati pubblicati nel corso del 1969 da La Nuova Italia di Firenze); il Gischel di Bologna organizzò nel 1976 un convegno su Lingua, dialetti e scuola (Bologna, Consorzio provinciale pubblica lettura, 1976). Già allora fu espressa l’idea che la conoscenza del patrimonio dialettale del nostro Paese non era un rêpechage di tradizioni in via di estinzione o spente, ma un modo per rendere consapevoli gli italiani della loro cultura che continuavano ad usare, per poterla arricchire acquisendo gli strumenti linguistici, ossia conoscitivi, forniti dalla lingua italiana. Ma altri potrebbero essere i riferimenti a un dibattito e a una produzione editoriale su tali problemi che è continuata nel tempo, e che ha caratterizzato una stagione nel rinnovamento della “cultura scolastica”. Un discorso analogo potrebbe essere fatto per la storia, dove la produzione di testi, ricerche, antologie, riviste di storia delle singole regioni italiane conosce un enorme, ininterrotto sviluppo. Infine, numerose sono ormai le enciclopedie e le collane di storia delle città e delle regioni. La giustizia nel sistema scolastico D'altra parte, prima della riforma odierna della Costituzione, in cui alle regioni sono assegnati in modo inequivoco nuovi poteri nel campo dell'istruzione, abbiamo assistito a trasformazioni dell'assetto istituzionale delle competenze riguardante l'istruzione e la formazione; il decentramento amministrativo e l'autonomia scolastica è il punto 15 n.11 / 2005 d'approdo di tali trasformazioni. In un primo momento, la legittimazione è stata individuata nell'articolo 5 della Costituzione, di cui il nuovo Titolo V è stato considerato un ulteriore potenziamento. Un ruolo decisivo, in tale prospettiva, hanno assunto le leggi e i regolamenti sull'autonomia, che dal 1993 (legge n. 537) al 1999 (legge n. 559) sono state emanate e integrate dal Regolamento sull'autonomia, regolamento che dal settembre 2000 è stato applicato nella scuola italiana. In conclusione, il Titolo V è stato preceduto da una serie di atti legislativi i quali hanno via via assegnato un ruolo sempre più ampio all'amministrazione locale e regionale, nel segno di una visione decisamente anti-centralistica. Oggi, il tema della qualità ed equità del servizio scolastico è abbastanza nuovo, in Italia, e si intreccia a quello, strettamente connesso, della decentralizzazione e del ruolo della scuola nelle regioni. Un primo problema riguarda l'atteggiamento che si riscontra in Italia sul problema della giustizia del sistema scolastico. La giustizia scolastica, si afferma, non è riducibile al problema dell'accesso agli studi superiori, ma va allargato includendovi quello della distribuzione del cosiddetto “bene educativo” fra categorie diverse di studenti. La risposta è condivisibile; storicamente la riforma della scuola, come quella compiuta da Giovanni Gentile (ma il giudizio vale anche per la prima di Casati) è ispirata essenzialmente da un obiettivo “politico” (in senso lato), in cui centrale è il problema della mobilità sociale. Uno dei suoi obiettivi fondamentali è stato, come è noto, la diminuzione dell’offerta di forza lavoro intellettuale; obiettivo sostanzialmente raggiunto, perché il numero degli iscritti all’università diminuì sensibilmente, riducendo o comunque ridimensionando il fenomeno della disoccupazione intellettuale. Il fascismo ha pertanto scelto la riforma della scuola Gentile, consapevole di dover pagare un certo prezzo politico e sociale, in termini di intensità ed estensione dello sviluppo, pur di mantenere la stabilità dell’ordine attraverso il consenso e l’appoggio dei ceti medi, fra cui fondamentale quello degli insegnanti. Tale equilibrio tra scuola e società non è durato a lungo, perché non è stato mantenuto un rapporto fisso tra i posti di lavoro e il numero dei laureati e abilitati. La disoccupazione intellettuale rimase 16 fino allo scoppio della seconda guerra mondiale; le disfunzioni fra la scuola e il mercato del lavoro diventarono più profonde nel corso degli anni Trenta, in seguito allo sviluppo industriale e quello, conseguente, dei servizi. L'articolo 34 della Costituzione del 1948 fa dell'equità dell'acceso agli studi superiori l'obiettivo strategico di una politica scolastica; esso afferma: “I capaci e i meritevoli anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. E’ il modello dell’opportunità o dei punti di “partenza” che Rawls ha radicalmente criticato. Inoltre, il secondo dopoguerra è stato caratterizzato da una molteplicità eccezionale di proposte di riforma della scuola da parte sia dei governi che si sono succeduti nel corso degli anni, sia dei partiti dell'opposizione. Le diverse soluzioni che sono state via via avanzate risultano ora del tutto sorpassate; in questo momento si tende soprattutto a una distribuzione equa del “bene educativo” fra categorie diverse di studenti; bene che non è dato, ovviamente, dal solo diploma ma da una serie di interventi educativi perlopiù personalizzati che consentono un'integrazione dei giovani nella società a un livello quantomeno accettabile. A questo proposito, il riferimento teorico d'obbligo è stato e continua largamente ad essere la posizione espressa dal filosofo John B. Rawls nell'opera del 1971, Una teoria della giustizia, opera che ha avviato un dibattito internazionale sulla giustizia nei vari campi della vita sociale (ma ora sono discussi e utilizzati anche altri modelli, come quello di Sen o di Walzer). Il modello rawlsiano ha avviato un nuovo approccio nella gestione della scuola, su cui si sono soffermati alcuni studiosi: Denis Meuret, Sophie Morlaix, e Luciano Benedusi. Decentralizzazione e unità nazionale Un altro problema riguarda il rapporto che secondo alcuni studiosi esiste fra la decentralizzazione della scuola e l'unità nazionale, unità cui la scuola italiana è stata, per così dire, deputata istituzionalmente a garantire. Indubbiamente si tratta di un problema centrale, specie nel nostro Paese, ove la scuola ha sempre svolto un ruolo “ideologico” per assicurare l'unità culturale del Paese, premessa essenziale per l'unità nazionale. I tre modelli di scuola che si sono avvicendati dal 1859 (legge Casati) ad oggi, sono Mario Quaranta caratterizzati dall'essere fondati su un ben determinato modello culturale (rispettivamente liberale, autoritario, democratico). Oggi l'identità culturale non è più raggiungibile attraverso un modello statico di cultura; essa si costruisce attraverso il confronto più o meno conflittuale fra modelli diversi e idee differenti all'interno di uno stesso modello. E non c'è una cultura “prima”, originaria da tutelare, né una cultura “superiorie” da difendere. La cultura come complesso di valori, di credenze, di tradizioni, è sempre stata, ed è particolarmente oggi in una situazione di globalizzazione, il prodotto di scambi culturali. È intercultura. “L'identità, afferma Franco Remotti, viene sempre, in qualche modo, ‘costruita’, ‘inventata’” (Contro l'identità, Laterza 1999, p. 5), e costantemente ricostruita, reinventata. Essa è il risultato di ibridazioni, rielaborazioni, cambiamenti dei propri paradigmi culturali. Chi, invece, difende o ha difeso in periodo storici precedenti, un'identità statica, fondata, appunto, su un presunto primato del proprio popolo o del proprio Stato o della propria razza, è stato o è votato al fallimento. Il dialogo interculturale è il nuovo terreno delle sfide di questo secolo; un dialogo inteso non solo come un ovvio scambio di opinioni, ma come incontro in cui ogni Paese mette in discussione i presupposti stessi della propria cultura, le identità consolidate da tradizioni, dimostrandosi disposto a rivederli e modificarli. In questo modo cesseranno le identità statiche storicamente consolidate, con l'arricchemento della propria attraverso apporti nuovi. Ebbene, se si accoglie questa nuova concezione dell'identità culturale, la decentralizzazione politica ed anche quella culturale, che ha nella scuola il suo “luogo” naturale, privilegiato, sarà necessaria. Essa consentirà la difesa e l'allargamento dell'autonomia della scuola, in cui le regioni avranno un preciso, codificato spazio d'intervento e gli insegnanti un ruolo essenziale nella progettazione culturale. Infine, un ultimo problema concerne il fatto se una politica dell'equità educativa comporti o meno la necessità di gestire la diversità con criteri differenti di giustizia, tenendo conto delle diversità geo-politiche e culturali del Paese. Siamo di fronte a una generosa utopia scolastica o a un problema che esige una risposta, sia pur provvisoria, aperta a con- Il dibattito sul federalismo ferme ma anche a rettifiche? Non ci dobbiamo nascondere che questa questione è oggi ampiamente dibattuta, in modo diverso e più spesso radicalmente diverso. Secondo alcuni studiosi, oggi siamo di fronte a un processo di globalizzazione che tendenzialmente porta all'esaurimento delle differenze fra le culture, ossia all'eliminazione delle loro identità. La globalizzazione tenderebbe a stabilire un unico codice culturale, ossia il modello occidentale, capace di uniformare i comportamenti. Di fronte a questa tendenza, i difensori del “glocalismo” avrebbero un ruolo se non marginale, tollerabile nella misura in cui questa tendenza rimane residuale, altrimenti verrebbe bloccata e resa inoffensiva. Gli antidoti alla globalizzazione, alla sua tendenza “naturale” all'omologazione culturale sarebbero stati finora inefficaci, insufficienti. (Giangiorgio Pasqualotto, Intercultura e globalizzazione, in Incontri di sguardi, Padova 2002). Questi i termini della questione secondo un orientamento interpretativo che individua nei processi di globalizzazione il pericolo dell'affermazione di un “pensiero unico”, premessa per l'emergere di una forma di totalitarismo. A tale proposito, sono del parere che la teoria della complessità, su cui ci soffermiamo nell’ultimo paragrafo, abbia dato una convincente risposta a questi timori, peraltro fondati. Sul terreno della scuola si può affermare, sulla scorta di un'esperienza europea, che il modello centralizzato sia oggi al capolinea: esso non è in grado di esercitare un controllo della scuola, né sul piano ideologico né su quello schiettamente “scolastico”. I problemi sollevati dalla presenza di studenti di altri Paesi, specie quelli dei Paesi arabi, con tradizioni culturali molto diverse dalle nostre, non si possono affronare con i vecchi, obsoleti modelli ideologici autoritariamente imposti, ma predisponendo un complesso di strumenti (culturali e istituzionali) in grado di gestire le diversità. È questo il problema che va affrontato da questa sfida epocale, cui la scuola deve contribuire ad avviare a una soluzione, tenendo conto che i due modelli finora adottati, quello della legittimazione ed equiparazione di tutte le culture e quello dell'integrazione culturale, sono sostanzialmente falliti. Dall'ineguaglianza all'equità In un recente convegno organizzao dall'ADi 17 n.11 / 2005 (Associazione docenti italiani) di Bologna, il problema dell'equità scolastica è stato affrontato sia a livello di studio, sia a quello di una valutazione di esperienze condotte nella scuola; segnaliamo alcuni dei risultati più interessanti (gli atti saranno pubblicati dall'editore trentino Erickson). Denis Meuret dell'università di Borgogna, ha discusso principi d'equità applicati alla scuola. Egli ha notato che l’idea di misurare l'equità dei sistemi educativi è in generale bene accolta, ma ben presto è abbandonata perché, fra altre ragioni, il carattere indefinito del concetto, le divergenze su che cosa sia un sistema equo, la possibilità stessa che alcuni sistemi siano più equi di altri, costringono ad indietreggiare davanti all'impresa. Nel tentativo di giustificare e fornire un quadro ragionevole e realistico per un'impresa di questo genere, Meuret ha delineato alcuni principi fondamentali. Gli indicatori d'equità devono permettere di argomentare nel quadro delle diverse concezioni della giustizia e non ìnscriversi all'interno di una soltanto. Inoltre, le diseguaglianze scolastiche possono essere raggruppate in tre grandi categorie: a) le differenze tra individui, b) le disuguaglianze fra gruppi, c) la proporzione di soggetti che si trovano al di sotto di una soglia minima. Tra le ineguaglianze, le più rilevanti sono quelle cui l'individuo non può sottrarsi: origine sociale, origine etnica, sesso; tra i beni forniti dai sistemi educativi, dobbiamo concentrarci su quelli la cui giusta distribuzione è più importante per gli individui e la società; è importante non soltanto misurare le disuguaglianze di risultati sul piano dell'apprendimento o su quello della carriera scolastica, ma anche le disuguaglianze che si situano a monte del sistema educativo, e quelle che influiscono sullo stesso processo d'insegnamento Secondo lo studioso francese, i sistemi educativi non forniscono solo conoscenze e abilità, ma sono anche una parte importante della vita degli studenti. Equità non significa soltanto che i beni legati all'istruzione devono essere distribuiti in maniera equa, ma anche che gli alunni debbono essere trattati in maniera equa dall'istituzione, dai suoi operatori o dai compagni. Ora, poiché un sistema equo è anche un sistema che favorisce l'equità sociale, gli indicatori devono riguardare non soltanto le disuguaglianze educative, ma anche gli 18 effetti sociali e politici di queste disuguaglianze. In conclusione, il sistema di indicatori deve misurare delle ineguaglianze, ma deve anche rilevare il giudizio dei cittadini e degli utenti sull'equità del sistema educativo in vigore e i criteri che fondano tale giudizio. Anche per Sophie Morlaix, dell'università della Val di Marna, l'equità dell'educazione costituisce un nodo politico fondamentale. La studiosa, fra i vari modelli di teorie della giustizia, ha scelto quello elaborato da Sen, tenendo conto delle applicazioni concrete che può avere nel campo dell'educazione. La prospettiva adottata da Sen permette dì misurare la giustizia essenzialmente sulla base della proporzione di individui al di sotto d'una certa soglia. Se ci si riferisce al sistema educativo, collocarsi al di sotto d'una data soglia di competenze costituisce senza dubbio una condizione che può avere per l'individuo gravissime conseguenze sociali. Partendo dai dati di PISA 2000, un indice ricavato dai lavori di Sen adattato al sistema educativo ci consente di compiere una serie di riflessioni riguardo alla giustizia dei diversi sistemi educativi europei. Esso ci permette, appunto, di analizzare la situazione di alunni (numero, intensità della debolezza e dispersione) al dì sotto d'una soglia ritenuta minimale di competenze. In maniera complementare, esso offre la possibilità di misurare la distanza che separa gli alunni “sotto soglia” dagli alunni che si collocano all'altra estremità della distribuzione delle competenze, ossia dagli alunni che hanno i risultati più elevati. Uno dei contributi più innovativi è stato quello di Luciano Benedusi, dell'università La Sapienza di Roma, un antesignano degli studi su questo argomento in Italia. Egli sottolinea che il concetto di equità sta diventando, a livello internazionale, un elemento di riferimento fondamentale per le politiche pubbliche in molti settori, compresa l'educazione. Esso si affianca a quelli di efficienza, efficacia e qualità, che sono stati i concetti portanti degli anni Novanta, e prende il posto di quello di eguaglianza che, dopo essere stato sulla cresta dell'onda nei venti anni precedenti, era andato mano a mano perdendo di smalto e, in qualche caso, sembrò addirittura essere stato relegato in soffitta. Ma che cosa significa equità e che cosa vi è di nuovo nel sempre più frequente uso che se ne fa in vari Mario Quaranta contesti e, in particolare, nell'educazione? Nell'opera del 1971 di Rawls, Una teoria della giustizia, ha ricordato Benedusi, la parola equità, affiancata a quella di giustizia ("la giustizia come equità"), serve a marcare il distacco dalle teorie utilitaristiche e del welfare allora prevalenti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. L'equità non si oppone così all'eguaglianza, che anzi in qualche modo rilancia rinnovandone e differenziandone i significati, ma all'efficienza-efficacia nelle versioni dei filosofi e degli economisti dell'utilitarismo e del welfare. Secondo Rawls, giustizia è quell'insieme di regole relative alla distribuzione dei “beni”, intesi in senso lato, che permette o favorisce la convivenza sociale. Nell'approccio di Rawls, la giustizia richiama I'eguaglianza, che deve però essere contemperata dalla libertà individuale, assunta come valore irrinunciabile e quindi come vincolo fondamentale. La mediazione tra eguaglianza e libertà, o fra eguaglianza e differenza, si configura in vari modi a seconda degli autori, quali Rawls, Dworkin, Walzer, Sen. “Uguaglianza di che?” si domanda Sen. Distribuire in modo egualitario un “bene” implica necessariamente accettare come giuste delle disuguaglianze nella distribuzione di altri “beni”, anche se non di tutti. Ma quali sono nell'educazione le diverse prospettive da cui si può guardare all'equità o alla giustizia? Ve ne sono diverse; una, per esempio, è quella più direttamente collegata all'idea rawlsíana di “vantaggio per gli svantaggiati”, che è stata tradotta nello specifico scolastico da Denis Meuret. Ma altre se ne possono indicare; c'è la prospettiva storicamente più consolidata, che va sotto il nome di “eguaglianza delle opportunità” o di “eguaglianza dei punti di partenza”. Ciò che distingue tale prospettiva è la mediazione tra due principi rivali: l'eguaglianza e il merito. Secondo alcuni studiosi, questa prospettiva ha limiti e debolezze: è troppo radicale, è insufficiente e per certi aspetti crudele. Un secondo approccio muove dal presupposto che l'educazione non è soltanto un “bene posizionale” ma ha un valore in sé. Questo modello è stato definito in vari modi: come “eguale cittadinanza”, o “eguaglianza dei risultati fondamentali”, teorizzato in modo particolare da alcuni economisti francesi. Un limite di questa prospettiva, presente peraltro anche in Il dibattito sul federalismo quella dell'“eguaglianza delle opportunità”, è, secondo Benedusi, l'insufficiente rilevanza accordata alla questione delle differenze, sia tra i singoli sia tra i gruppi, che la giustizia richiede di riconoscere e valorizzare. Il terzo modello può essere definito dell'“eguale rispetto"; esso riguarda non solo gli svantaggiati, i perdenti nella competizione scolastica, ma tutti, dal momento che nelle nostre società pluralistiche sono presenti molteplici differenze, di valori, culture, motivazioni, stili cognitivi e di apprendimento, che vanno tutte riconosciute dalle istituzioni educative. 8. La teoria della complessità applicata alla scuola Per comprendere la novità rappresentata dall'attribuzione della gestione della scuola alle regioni, ci soccorre la teoria della complessità, la quale ci fornisce un modello esplicativo per giustificare l'abbandono del centralismo della cultura che è stato dominante nella scuola italiana, cui è stato storicamente demandato, come abbiamo accennato, il compito di assicurare una omogeneità culturale nella formazione “dell’italiano”. Nella cultura italiana odierna la teoria della complessità è largamente presente in pressochè tutti i campi del sapere; l'idea centrale di questo nuovo paradigma, espresso da uno dei teorici più noti, Mauro Ceruti, è che la scienza classica è la scienza del ripetibile, atemporale, invariante, pertanto il residuale (il non-razionale) è solo apparente, mentre invece, ciò che era residuale è ora risultato decisivo: da ciò la necessità di ridefinire, attraverso la nozione di complessità, i criteri della razionalità. In altri termini, il modello della “ragione classica” è fondato su un'idea di legge scientifica come luogo in cui si svela l'ordine nascosto, e a questa concezione causalistica dei fenomeni, in cui la legge ha un carattere prescrittivo, la teoria della complessità contrappone una concezione “vincolistica”, secondo cui “la storia naturale si delinea come una storia di produzione reciproca di vincoli e di possibilità attraverso la coevoluzione di sistemi viventi (autonomi) e dei loro ambienti, e dei differenti sistemi viventi (autonomi) all'interno di particolari ecologie” (Mauro Ceruti, Il vincolo e la possibili- 19 n.11 / 2005 tà, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 18). In altri termini, i vincoli sono regole di un gioco che indicano ciò che non può accadere, non ciò che necessariamente succederà. Così, la teoria della complessità costituisce un'alternativa al modello positivistico e neopositivistico di razionalità; “le nuove strategie costruttive della conoscenza contemporanea hanno messo in crisi, dichiara Ceruti, l'idea che l'universo categoriale della scienza sia unitario, omogeneo al suo interno, fissato una volta per tutte” (Ceruti, cit., p. 32). Il problema conoscitivo fondamentale non è più quello di trovare un momento di unificazione dei diversi punti di vista, ma piuttosto di legittimare differenti punti di vista, nella persuasione che tutti siano produttivi di nuove idee e nuove ipotesi. All'immagine classica di una razionalità capace, attraverso sintesi sempre più ampie, di esaurire la comprensione del mondo, si contrappone, ora, quella di una ragione “plurale”. La teoria della complessità consente, dunque, di legittimare sia l'abbandono di un modello unitario, omologante della cultura sia, conseguentemente, una nuova impostazione del problema dell'apprendimento, con l'utilizzazione non più delle categorie della pluridisciplinarità o dell'interdisciplinarità che, di fatto, fornivano strumenti più sofisticati per l'apprendimento di una cultura il cui impianto unitario non era messo in discussione, ma di quella della transdisciplinarità, la quale mira alla comune costituzione degli oggetti di ricerca, e degli strumenti del pensiero che questi oggetti richiedono. Il nuovo modello di apprendimento consente non un mero accostamento tra le diverse discipline, né un loro uso plurimo su uno stesso oggetto di conoscenza, ma una costruzione della conoscenza in cui il soggetto ha un ruolo attivo e produttivo. Oggi siamo di fronte a sfide in diversi campi (della tecnologica, dell'ecologica, della globalizzazione, ecc.); la sfida della complessità costituisce, in un certo senso, la base conoscitiva di tutte le altre sfide; essa richiede l’individuazione degli ostacoli che ci impediscono la progettazione di questa nuova forma di conoscenza, imponendoci “uno sforzo trandisciplinare e interculturale per un’educazione della complessità umana” (Mauro Ceruti et alii, Pensare la diversità. Per un’educazione alla 20 complessità umana, Roma, Maltemi, 1998). Non solo: le idee prodotte dalla teoria della complessità possono essere usate nella progettazione di una nuova scuola saldamente ancorata al proprio territorio: “Le sfide ai nostri sistemi educativi, afferma Mauro Ceruti, dipendono in buona parte da intensi cortocircuiti fra le dimensioni locali e le dimensioni globali” (Gianluca Bocchi-Mauro Ceruti, Educazione e globalizzazione, Milano, Cortina, 2004, 25). Oggi, continua Ceruti, le diversità culturali, regionali, urbane, sono considerate da ogni Stato non più un ostacolo ma una risorsa; inoltre, ogni conoscenza e valutazione dei grandi temi sollevati dalla globalizzazione, come ad esempio quelli ecologici, possono essere compresi adeguatamente attraverso “una buona fruizione degli ecosistemi locali”. In conclusione, “oggi non si tratta più di prosciugare l’identità delle culture locali. Si tratta, al contrario, di supportare l’unicità (e la complessità, cioè molteplicità) degli itinerari costitutivi di quelle particolarissime culture locali che stanno diventando gli individui del nostro mondo, esponendoli alla comunicazione reciproca con quelle culture altrettanto originali (singolari e complesse) che sono costituite da altri individui” (G. Bocchi e M. Ceruti, cit., p. 77). Ora, solo una profonda conoscenza del “locale” ci consente di comprendere il “globale”, e ciò vale particolarmente oggi, nel momento in cui assistiamo all’eclissi dello Stato moderno, e alla scuola spetta l’arduo compito di formare il cittadino del mondo. Con l’attribuzione di poteri alle regioni nel campo della scuola, viene ora offerta un’occasione unica e irripetibile per creare un'effettiva unità culturale del Paese in termini sostanzialmente diversi da quelli “centralistici”, finora adottati da tutti i governi che si sono succeduti dall’unità d’Italia ad oggi. Prima di tutto, occorre precisare che ogni regione non deve abdicare a questo intervento, demandandolo ad altre istituzioni; è un campo in cui essa può intervenire con un proprio progetto, e sottoporlo al confronto con tutte le forze culturali della regione. Se la regione disporrà di una propria quota di ore da usare autonomamente, quale sarà il contenuto culturale dei programmi proposti da ogni regione? A questo proposito abbiamo presente l’esperienza Mario Quaranta della Spagna, la cui Legge organica di ordinamento generale del sistema educativo del 1990, stabilisce che le amministrazioni scolastiche promuovano l’autonomia pedagogica e organizzativa delle scuole, ritenendo che si tratti di una strategia efficace per rafforzare la qualità dell’istruzione pubblica. La successiva normativa, ossia la legge del 1995, pone l’autonomia pedagogica, organizzativa e gestionale al Primo Titolo, prescrivendo che “le istituzioni scolastiche avranno autonomia per definire il modello di gestione organizzativa e pedagogica, che si dovrà concretizzare, in ogni caso, nei corrispondenti progetti educativi, curricolari e, se del caso, norme di funzionamento”. Il rilievo dato alle regioni, all’interno di insegnamenti minimi comuni stabiliti a livello statale, che costituiscono pur sempre la base del curricolo, è molto ampio. Tanto ampio da prevedere che le regioni gestiscano il 35% dell’orario scolastico (che sale al 45% per le regioni autonome). Pur in una situazione non ancora compiutamente definita, non possiamo formulare ora un’ipotesi conclusiva. Ci sono diverse, possibili opzioni: da quella di una conoscenza della propria regione nel contesto della storia nazionale, a quella di un uti- Il dibattito sul federalismo lizzo delle ore disponibili nelle discipline in cui si riscontra un ritardo generalizzato rispetto a uno standard comune, e così via. Ci sono esigenze a volte confliggenti, e ai dirigenti delle scuole delle singole regioni spetta il compito di scegliere e decidere le linee di intervento, tenendo presente lo sfondo odierno in cui si colloca l'attività d'insegnamento. Infatti, in una situazione di mondializzazione e globalizzazione, c'è l'esigenza di dare spazio a una conoscenza diretta della propria regione, del proprio territorio, delle proprie tradizioni, e di tutti quegli aspetti che caratterizzano l’identità prima di ogni italiano. Solo se tali conoscenze sono oggetto di analisi, si può vivere in un mondo globalizzato dove le identità territoriali si integrano, appunto, con le nuove dimensioni della cultura e delle esperienze di ognuno di noi. Stabilire un rapporto equilibrato fra “locale” e “globale” è senz'altro difficile, nel momento in cui la globalizzazione fa emergere tendenze a una omologazione culturale. In questo caso, il radicamento culturale territoriale può costituire un efficace antidoto o correttivo, tale da assicurare un rapporto dinamico e aperto alle esigenze diverse e anche conflittuali fra “locale” e ”globale”. Questo saggio è stato discusso con Antonio Borio, Giuseppe Gangemi, Emilio Vendramini. ([email protected]) 21 22 Mariarosa Dalla Costa e Dario De Bortoli Per un’altra agricoltura e un’altra alimentazione in Italia. Luigi Veronelli é morto nel novembre 2004. I siti recanti il suo nome non costituiscono più un riferimento per il proggetto “Terra e Libertà/Critical Wine” che continua attraverso il sito www.criticalwine.org Il Faro La novità nel mondo agricolo in Italia identificabile nel passaggio da un sindacalismo classico, che contrattava le condizioni di lavoro ma restava indifferente a cosa e come si produceva, al movimento per un’altra agricoltura, che pone al centro l’interrogarsi sulle finalità e il senso del lavoro contadino, la riflessione a tutto campo sul mestiere di agricoltore, può apparire un fatto tardivo se paragonato ad altre esperienze in paesi a capitalismo avanzato. Anzitutto in Francia ove Paysans Travailleurs già negli anni ’80 e poi Conféderation Paysannne con J.Bové e F. Dufour (2001) aprono con molto anticipo tematiche che, nei paesi a capitalismo avanzato, si sarebbero imposte solo negli anni recenti con il dibattito sull’agricoltura sviluppatosi nella discussione sulla globalizzazione neoliberista. Il passaggio non riguarda per il momento i sindacati agricoli, Coldiretti, Cia, Confagricoltura (in Italia tra piccoli e medi contadini il primo è stato senz’altro in posizione dominante e tradizionalmente legato alla Democrazia Cristiana), organizzazioni che storicamente non hanno adottato strategie di coinvolgimento dei soci nelle discussioni di politica agricola. Il passaggio riguarda invece contadini, allevatori e cittadini non solo consumatori che nella comune volontà di dire basta ad un’agricoltura e a un allevamento fonti di un cibo sempre più portatore di malattia e rischio di morte si sono autorganizzati costruendo nuove associazioni anche sindacali, nuove reti, nuovi momenti di denuncia, di battaglia, di messa a punto di alternative. E hanno indicato altre strade possibili. Alcune associazioni si sono formate molto di recente, all’interno del movimento dei movimenti, germinate durante la manifestazione di Genova del 2001 contro il G8 e la globalizzazione neoliberista, tra queste Foro Contadino – Altragricoltura, AltrAgricoltura NordEst, mentre Co. Sp. A. (Comitato spontaneo produttori agricoli), costituito da allevatori di mucche da latte, si era formato nel 1996 attorno alla questione delle quote latte e dei superprelievi (comunemente denominati multe). Altre ancora, orientate, più che a un sindacalismo nuovo, a diffondere una diversa cultura agricola, a costruire e divulgare pratiche e criteri alternativi, già esistevano da più lunga data. Erano rimaste comunque piuttosto separate e in sordina rispetto ad un dibattito del movimento in Italia polarizzato su altre questioni. 23 n.11 / 2005 Menzioniamo in proposito Centro Internazionale Crocevia, Associazione rurule italiana (Ari), Civiltà contadina (di cui fanno parte anche i Seed savers), Associazione italiana agricoltura biologica (Aiab), Associazione italiana agricoltura integrata, Mondo biologico italiano, Associazione agricoltura biodinamica, oltre naturalmente alla galassia delle associazioni specificamente dedite alla salvaguardia della biodiversità vegetale e animale, e quindi della materia prima per un’agricoltura diversificata, che spesso costruiscono isole di coltivazione e di allevamento di specie rare. In tutto ciò che si avvicendò sulla scena politica dei movimenti in Italia negli ultimi 35 anni, si diede scarso rilievo alle esperienze di alternativa agricola vedendole piuttosto come fughe (pensiamo anzitutto alle comuni agricole degli anni ’70), mancò quindi un impegno a scandagliare le problematiche di cui erano portatrici. E’ altrettanto vero, se dobbiamo ancora fare un confronto con la Francia, che qui l’agricoltura è stata caratterizzata da una presenza dominante di aziende medie (10, 20 ettari) con tutto il portato quantitativo e qualitativo che questo significa, da una struttura produttiva più consolidata con agricoltori che hanno sempre partecipato fortemente alla vita associativa, e hanno visto in genere, in un paese che li tiene in grande considerazione, supportate economicamente e socialmente le loro rivendicazioni. In Italia il quadro è stato notevolmente differente, a partire da una scarsa considerazione nei confronti dei contadini, poca ricezione delle loro istanze per una vita dignitosa, grave impoverimento delle campagne e forte destinazione del territorio agricolo a fornire forza lavoro prima per l’emigrazione poi verso i grandi poli industriali. Nel contesto di associazioni che abbiamo poco sopra delineato gli allevatori del Cospa (o Co. Sp. A.) con una stagione di lotte che dal 1996 al 2002 li vede costruire blocchi autostradali, occupare l’aeroporto di Malpensa, manifestare presso grandi emittenti televisive portando sempre i trattori e la mucca Ercolina, hanno costituito, fuori dai sindacati, l’associazione più numerosa e battagliera. Facendo ricorsi contro i superprelievi hanno ottenuto circa 6000 sentenze a favore. Dal 2002 il Cospa si articola in tre filoni, Cospa Cobas, Liag costituitasi come sindacato e Cospa Nazionale. Il decreto Alemanno n. 119 del 2003 con il meccanismo che istituisce per il pagamento dei supreprelievi e la scadenza del 31 marzo 2004 apre un momento particolarmente drammatico. Lasciando sullo sfondo questa significativa battaglia ancora aperta dopo tanti anni di lotte e riprendendo le considerazioni sull’emergere anche in Italia di un movimento per un’altra agricoltura possiamo ribadire che, nonostante la presenza di varie esperienze agricole alternative presenti sul territorio da decenni, solo in questi ultimi anni, a partire dalla manifestazione di Genova, e quindi dall’incontro con le realtà agricole in movimento provenienti da altri paesi, esso comincia a prendere più vigore e visibilità, ponendosi come anello di Via Campesina e condividendone l’insegna della sovranità alimentare in tutte le sue implicazioni, anzitutto quella di altre relazioni tra produttori agricoli e tra produttori agricoli e cittadini. Guardando in particolare alla vicina esperienza francese di Conféderation Paysanne, di contro al modello industrial produttivista, si vuole un’agricoltura contadina, locale, sostenibile dal punto di vista sociale, economico e ambientale. Ma l’Italia è un paese dove il prezzo della terra è altissimo, se confrontato ad altri paesi europei. Il primo ostacolo allora è proprio questo prezzo, in sempre 24 Mariarosa Dalla Costa e Dario De Bortoli Per un’altra agricoltura e un’altra alimentazione più aree della penisola non ammortizzabile all’interno di un processo agricolo. Inoltre, a causa delle politiche neoliberiste che appoggiano la produzione dei grandi gruppi c’è una continua chiusura di piccole e medie aziende agricole, 50 al giorno1, circa una ogni mezz’ora , per cui molti terreni restano incolti, e nel contempo, per operazioni di speculazione finanziaria o di privatizzazione, si nega il diritto a lavorare la terra a chi vorrebbe farlo. Non a caso allora ritroviamo tra le prime forme di lotta da menzionare le occupazioni di terra per lavorarla e la loro difesa in vari modi quando, dopo tempo che i contadini la lavorano, altri cercano nuovamente di sottrargliela. E’ il caso dei soci della cooperativa Eughenia in provincia di Grosseto che da cinque anni conducono un progetto di valorizzazione di un’azienda agricola e del vicino borgo che era ormai sull’orlo dello spopolamento. Erano riusciti a rivitalizzare l’una e l’altro in base ad un progetto di agricoltura locale a ciclo corto diversificata e sostenibile sotto ogni aspetto che aveva trovato anche dei finanziamenti. Trattandosi di mille ettari, poteva rappresentare possibilità di occupazione e reddito adeguato per molti e quindi possibilità di rivilitalizzazione del borgo stesso. Volevano acquistare la terra ma la proprietà ha alzato il prezzo e, nel contenzioso che ne è nato, ha ottenuto lo sfratto anche se non ancora eseguito. Ora la partita è aperta e un gregge di pecore è stato messo dai contadini a guardia del cancello2. In una posizione molto simile si trova la Cooperativa Le Terre della Grola Ottomarzo di Sant’Ambrogio di Valpolicella3 tra le colline veronesi che coltiva da oltre vent’anni con metodo biologico tredici ettari di vigneti recuperando tecniche tradizionali di coltivazione di terre marginali e attivando nel contempo l’azienda come fattoria didattica, gestendo un agriturismo e un piccolo caseificio, mettendo anche a disposizione della cittadinanza per giochi e scampagnate o iniziative culturali e di beneficenza lo spazio esterno e i terreni. E fornendo lavoro a gente in difficoltà. La Provincia che è proprietaria di queste terre ora le vuole vendere per fare cassa ma la cooperativa vuole acquistarle ed ha promosso una raccolta di fondi. La positiva risposta alla raccolta testimonia come la cittadinanza sia ben consapevole di quanti valori aggiunti vi siano in un altro modo di gestire la terra, valori beni comuni cui la stessa città può attingere nel nuovo rapporto con la campagna. Certamente i soldi raccolti non potrebbero competere con altre offerte se la Provincia mettesse i terreni all’asta. Anche qui la partita è aperta. Sono solo due esempi ma se ne potrebbero fare molti altri nella stessa direzione. Per supportare vicende come queste ma, più largamente, per generalizzare la rivendicazione del diritto all’accesso alla terra per valorizzarla facendo agricoltura come diritto fondamentale dei contadini l’associazione Foro Contadino Altragricoltura ha promosso sul territorio nazionale la “Campagna per il diritto alla terra”. Pur nella differenza di contesto rispetto ai paesi dove Via Campesina ha una più lunga storia, questa campagna intende articolare per l’Italia il diritto all’accesso alla terra quale domanda fondamentale di questa rete di cui l’associazione è parte. Si rivendica anzitutto un modello agricolo contadino diversificato localmente che possa diffondersi e articolarsi su tutto il territorio creando larga occupazione, coltivando le specie tipiche delle varie zone salvaguardando così la biodiversità che caratterizza i vari contesti. Sarebbe inoltre necessaria, secondo quanto varie associazioni chiedono, una riformulazione del credito e della poli- Cooperativa Eughenia: “le ragioni di una battaglia del Foro Contadino Altragricoltura”, http//www.altragricoltura.org/dirittoallaterra/eughenia6feb04.htm 1 2 Da La Nazione, edizione di Grosseto, “Sfratto respinto. Resistenza passiva con le pecore”, www.altragricoltura.org/dirittoallaterra/images/lan azione-jpg “Le terre della Grola” pamphlet informativo. 3 25 n.11 / 2005 Per la documentazione complessivamente citata vedi www.altragricoltura.org 4 26 tica fiscale che favorisca questo tipo di agricoltura, il suo radicarsi e perdurare in modo da garantire una rivitalizzazione durevole del territorio. Tenendo anche presente che le varie misure di sostegno economico che già ci sono non reggono a fronte del prezzo del terreno in zone in cui c’è la pressione di attività industriali e alberghiere, come sottolinea Guglielmo Donadello di AltraAgricoltura Nord Est. Un insieme di aspetti che riconducono ad un problema di gestione oltre che di accesso alla terra. Foro Contadino - Altragricoltura nel documento “Il cibo non è una merce” afferma: “Nell’interesse di tutti i cittadini, della loro salute, del loro territorio, della giustizia sociale… noi vogliamo un’agricoltura contadina che abbia una dimensione sociale basata sul lavoro, sulla solidarietà tra produttori e consumatori ma anche tra regioni e contadini del mondo, altrimenti le regioni più ricche e gli agricoltori più forti lederanno il diritto alla vita degli altri, e questa logica non ha futuro… ogni giorno in Europa chiudono 600 aziende agricole, entro quattro anni 750.000 lavoratori agricoli italiani corrono il rischio di scomparire.” Proprio sul problema della terra che diviene sempre più drammatico questa associazione ha lanciato “L’appello per il diritto alla terra” ove si afferma: “Su tutte le difficoltà torna ad essere gravissimo un problema che l’Italia sembrava aver archiviato con le conquiste delle lotte contadine del secolo scorso ma che è sempre più drammaticamente urgente: l’accesso alla terra da parte di chi vuole lavorarla negato dagli altissimi costi dei terreni produttivi sempre più vincolati a scelte speculative e sempre meno al valore agricolo reale… Così capita sempre più spesso di vedere aziende contadine affittuarie sotto sfratto perché la proprietà preferisce realizzare la speculazione finanziaria piuttosto che garantire la conduzione agricola del terreno, aziende che gestivano proprietà pubbliche che vedono privatizzare la proprietà a prezzi inaccessibili ad un’attività contadina, giovani che vorrebbero lavorare la terra e che vedono chiedersi prezzi per ettaro inaccessibili, anziani che l’abbandonano senza che i loro terreni possano essere rimessi al servizio di una funzione sociale … La morte delle aziende contadine con l’abbandono del territorio si può e si deve contrastare.” A tal fine l’associazione ha istituito il Soccorso contadino e il Coordinamento nazionale contadino per il diritto alla terra con cui si propone di “far uscire le singole vertenze dall’isolamento e dal disinteresse coordinando le iniziative di difesa tecnica e legale, costruendo mobilitazione, aprendo tavoli negoziali per il diritto alla terra e chiedendo alle istituzioni risposte nell’interesse dei cittadini che dovrebbero rappresentare.” Molto concretamente l’associazione si propone di aprire una vertenza nazionale per il diritto alla terra articolata in quattro punti: per il blocco urgente degli sfratti e delle azioni che hanno come effetto l’espulsione dalla terra, per l’uso del patrimonio di terre pubbliche che assicuri la priorità della produzione contadina, per un piano di riordino dell’assetto fondiario che garantisca l’accesso alla terra, per l’istituzione di una banca della terra che garantisca l’uso delle terre dimesse4. Un altro ordine di problemi, che ha visto la mobilitazione di associazioni e reti, ha a che fare con la delocalizzazione delle produzioni da parte dei grandi gruppi alimentari e connessa maggiore insicurezza del cibo oltre che riduzione dei livelli di occupazione. La produzione di latte costituisce un campo particolarmente pieno di problemi che oggi, nel crac della Parmalat, si trovano espo- Mariarosa Dalla Costa e Dario De Bortoli Per un’altra agricoltura e un’altra alimentazione sti ad un ventaglio di soluzioni molto diverse fra loro. Come illustrato nel documento “Oggi di cibo si può morire” di AltraAgricoltura NordEst – Co. Sp. A. Nazionale del febbraio 2003, la prima assurdità, relativamente alla questione latte, è stato il subire l’imposizione dell’abbattimento di molti capi di bestiame in nome delle quote latte per poi trovarsi nella condizione di avere il 46% del nostro latte fresco che è latte importato. Anzi, in base ai dati di Assolatte5, il quadro sarebbe ancora peggiore. Come si legge nel documento citato, del latte importato il consumatore non sa la provenienza, ma proviene anche da zone con minori standard sanitari dell’est europeo. Il che significa per il cittadino la lesione del diritto a poter conoscere l’origine e che tipo di latte sta consumando, del diritto a poter scegliere e per di più, contrariamente alle promesse del neoliberismo, uno svantaggio economico. Infatti, se quattro anni fa, come Luciano Mioni, esponente di AltrAgricoltura Nord - Est fa presente, un litro di latte costava 980 lire alla stalla e 1600 lire al consumatore, che voleva dire circa il 50 % al produttore e il resto a chi lo commercializzava, oggi si paga un litro di latte fresco l’equivalente di 2000 o 2300 vecchie lire di cui 620 lire come prezzo alla stalla in Italia che è il punto ove in Europa costa di più. Per cui al consumatore oggi costa in media 400 lire di più e il prezzo alla stalla è calato del 30 %. All’interno di un quadro così negativo vi è anche la particolare vicenda del latte microfiltrato FrescoBlù prodotto e distribuito dalla Parmalat che, al di là del nome che porta, non è fresco in quanto trattato per scadere a dieci giorni anziché quattro (attualmente portati a sei) come il latte fresco. Stranamente questo latte nei supermercati viene spesso collocato negli scaffali del latte fresco determinando nel consumatore ulteriore confusione oltre a quella generata dal suo nome e pregiudicando i termini della concorrenza con il latte fresco. Per cui vi sono stati frequenti momenti di protesta presso la grande distribuzione per una corretta collocazione di questo latte negli scaffali. Ma le recenti vicende della Parmalat, come sottolineano gli allevatori del Cospa, possono costituire l’occasione per la grande svolta. Invece di una redditività dell’azienda basata su meccanismi finanziari, una redditività basata sul ripristino di un modello produttivo alimentare che, riconoscendo come il cibo non sia una merce qualunque, e più che mai il latte, alimento di base per tutti e in particolare per fasce deboli, ne assicuri anzitutto genuinità e freschezza reale e quindi privilegi il ciclo corto. Nel loro comunicato “Aprire una nuova stagione per la zootecnia italiana dopo i disastri colposi di Parmalat e del decreto Alemanno” gli allevatori scrivono che la vicenda di questa impresa ha “seppellito per sempre nel nostro paese la storia delle quote latte e messo fine alla chimera delle rateizzazioni tanto cara alla politica dell’Unione europea”. Dopo 25 anni di fallimentare politica lattiero casearia, prosegue il documento, lo stato e le forze politiche devono recepire la politica della sovranità alimentare, del ciclo corto e delle produzioni finalizzate alla valorizzazione delle Dop italiane nel mondo, e quindi devono cambiare modello agricolo. Si tratta, si scrive ancora nel testo citato, di recuperare un’economia reale, non fittizia, di salvaguardare una zootecnia che adotti metodi rispettosi degli animali e dell’ambiente, confermando l’importanza del ruolo multifunzionale di questo settore, soprattutto in zone di collina e di montagna che sono state particolarmente danneggiate dalle politiche neoliberiste, sposando il ciclo corto e quindi il legame della produzione con il terri- In base a tali statistiche la produzione nazionale di latte bovino 2003 è stata di oltre 105 milioni di q.li. L’importazione di latte bovino da paesi terzi è stata di 31,1 milioni di q.li. La trasformazione e consumo interno di latte bovino: 131,7 milioni di q.li. Di questo quantitativo, 100,7 milioni di q.li (76,2%) sono stati destinati alla produzione industriale (formaggi Dop e non, latte Uht) e 31,1 milioni (23.8%) all’alimentazione diretta (latte fresco). 5 27 n.11 / 2005 Ambedue i comunicati citati sono stati diffusi senza specificazione di data da Cospa Nazionale. 6 7 Rimandiamo a quanto già specificato poco sopra per il “diritto alle produzioni” 28 torio, la tracciabilità di tutta la filiera per offrire garanzia a un cittadino consumatore che, sempre più allarmato dagli scandali alimentari, si orienta quando può a produzioni locali più trasparenti e garantite. E per restituire orgoglio, aggiungiamo noi, a un produttore che vuole essere fiero del suo mestiere e aprire altri rapporti fra produttori e con i consumatori. Si ribadisce il diritto dei cittadini ad avere un latte salubre, espressione di una filiera corta, libera da Ogm, con animali alimentati senza sottoprodotti industriali. Si conclude chiedendo il ritiro del summenzionato decreto, l’assegnazione del diritto alle produzioni (in altre parole il diritto di vedersi assegnate le quote corrispondentemente al numero di mucche da latte che realmente si posseggono e alla loro capacità produttiva), di rafforzare la filiera a ciclo corto, di cambiare radicalmente le politiche lattiero casearie nel nostro paese e in Europa. In un altro comunicato stampa6 la stessa organizzazione richiede di “avere riconosciuto il diritto come aziende ad esistere, sapere con certezza cioè se si potrà continuare a lavorare e tenere aperte le aziende anche dopo l’applicazione del decreto Alemanno, di avere le assegnazioni alla produzione in base alle produzioni7, di avere una vera politica agricola nazionale e regionale che dia precise indicazioni sulla tracciabilità del prodotto da monte a valle della filiera”. E’ evidente come da questo complesso di richieste emerga una nuova visione del cibo e del lavoro, una diversa concezione dell’agricoltura, la volontà di voler esercitare una contadinità responsabile e si chiede alla politica di assumersi le sue responsabilità affinché anche contadini e allevatori possano assumersi le loro. Come scriveva anche Bové (Bové e Dufour 2001, pag. 179) “Per andare in questo senso l’azione deve svolgersi a due livelli…da parte dello stato…da parte del contadino”. Forse proprio per essere portatrici di una progettualità diversa in agricoltura queste associazioni a carattere sindacale non sono state invitate il 6 febbraio a Roma al tavolo di discussione dal Ministro dell’Agricoltura che pure aveva convocato sul caso Parmalat le organizzazioni storiche del settore e gli assessorati regionali dell’agricoltura. E questo nonostante che tali associazioni già fossero state riconosciute dallo stesso Ministro come interlocutrici per la questione avicola. Eppure il caso Parmalat costituisce indubbiamente la grande occasione per porre anzitutto la questione di una svolta, del cosa e come si produce, questioni che rendono subordinati i riferimenti agli investimenti e all’occupazione. A seconda di come questa occasione sia colta od elusa si apre o si chiude la strada per un futuro alimentare, di sviluppo e di vita diverso in Italia e in Europa. Analoghe problematiche emergono con la delocalizzazione e importazione della produzione di carne. Come ancora ci informa il documento “Oggi di cibo si può morire” che invita allo stesso tempo i cittadini a opporsi a tali politiche e a prendere contatto con le associazioni firmatarie per contribuire ai momenti di protesta e mobilitazione, da Brasile, Thailandia, Cina, Argentina provengono grandissime quantità di carne che si consumano in Italia, anzitutto polli trattati con cloramfenicolo e nitrofurani (sostanze vietate in Europa dal 1966). Ma bacitrina, spiramicina, virginiamicina e tilosina, sostanze pericolose, riconosciute potenzialmente cancerogene, vietatissime in Europa, sono utilizzate normalmente in quei paesi oltre che nell’allevamento dei polli, in quello dei suini e dei bovini che finiscono nella nostra alimentazione. E, secondo quanto si denuncia nel documento in questione, approfittando delle maglie larghe del diritto com- Mariarosa Dalla Costa e Dario De Bortoli Per un’altra agricoltura e un’altra alimentazione merciale internazionale voluto dal Wto si permette alle multinazionali produttrici di carne il raggiro dei controlli e del pagamento dei dazi, determinando un’enorme offerta di cibo scadente e pericoloso a prezzi molto bassi per le centrali di acquisto delle catene di distribuzione nazionali che genera un notevole guadagno dato che il prezzo per il consumatore resta comunque elevato. Si consente il controllo quasi monopolistico del mercato europeo. Per di più, mentre nel settembre del 2002 tutte le partite di carne avicola e derivati della stessa provenienti dal Brasile e diretti all’Unione Europea erano state controllate rispetto alla presenza di residui di nitrofurano, perché la sostanza era stata trovata in prodotti importati da questo paese, il Comitato permanente sulla catena alimentare e sulla salute ha dato l’assenso ad una proposta della Commissione europea di ridurre la frequenza dei controlli nei paesi membri al 20% delle partite. La proposta sarà adesso adottata dalla Commissione ed entrerà in vigore nelle settimane prossime. Nei luoghi ove questi vari tipi di carne non sana che noi importiamo vengono prodotti vi è lo sfruttamento selvaggio della manodopera, il depauperamento del territorio, l’inquinamento dell’ambiente derivante dalle modalità dell’allevamento intensivo con le sue ingenti dosi di prodotti farmaceutici e chimici, e dalle modalità delle monocolture intensive spesso altrettanto presenti e caratterizzate da un massiccio impiego di concimi chimici e pesticidi. E c’è ovviamente, come già dicevamo, l’assenza o la debolezza o l’inosservanza di regole sanitarie. La destinazione privilegiata di questa carne (cotolette, impanate, hamburger, cordon-bleu, petti di pollo, cosce di pollo, piatti pronti da microonde) è il catering, mense di istituti o comunque reti di refezione per anziani, mense ospedaliere, scolastiche, aziendali, dopolavoro, bar, autogrill, e altro, in genere quei luoghi ove vi sono categorie di cittadini in una condizione di debolezza o comunque con poco tempo. Per i consumatori un rischio sanitario altissimo. Già sono emersi numerosi casi di telarchia ossia pubertà precoce, 80 a Torino, 60 a Milano sotto inchiesta della procura torinese. Ma oltre alle alterazioni ormonali, che già si manifestano nei bambini nella forma di pubertà precoce, e che negli adulti sono denunciate (eccesso di estrogeni) tra le cause dell’infertilità maschile, è noto l’aumento di resistenza agli antibiotici per l’eccesso di queste sostanze che ingeriamo con l’alimentazione, è noto l’aumento di allergie specie nei bambini, per non parlare dei continui allarmi per i rischi di diffusione di morbilità nell’uomo derivanti da epidemie che scoppiano negli allevamenti intensivi e peggio ancora se con deboli o nulle regole. Per le aziende che non solo in Italia ma in Europa osservano le normative a tutela della qualità dei prodotti e della salute dei consumatori si tratta di confrontarsi con una concorrenza sleale che sempre più le costringe a chiudere. Fermo restando che, nonostante la Comunità Europea avesse vietato dal 1988 l’uso di ormoni negli allevamenti, questi di fatto vengono usati in Italia e nel resto d’Europa così come massicce dosi di antibiotici, sia in funzione preventiva di malattie sia per favorire la crescita. Per cui anche nel nostro paese si scoprono di frequente allevamenti di animali gonfiati con farmaci proibiti e altamente nocivi per l’uomo8. In particolare il boldenone è un ormone della crescita appartenente alla famiglia degli steroidi anabolizzanti le cui tracce scompaiono in 24 ore, sostanza pericolosa per l’uomo e usata illegalmente nell’allevamento di vitelli. Nel 2000 il Ministro della Sanità Sirchia aveva ordinato il sequestro di una parti- Dell’argomento hanno trattato Guglielmo Donadello e Luciano Mioni nella conferenza tenuta presso la Facoltà di Scienze politiche di Padova il 16 dicembre 2003. Tra le più recenti e allarmanti notizie in merito quella del Mattino di Padova del 17 febbraio 2004 che riportava di un’operazione del Nucleo Anti Sofisticazioni dei Carabinieri nelle province di Venezia, Padova, Treviso, Verona, Vicenza con cui sono stati effettuati ingenti sequestri di farmaci irregolari in allevamenti di animali, operazione che ha portato all’arresto di veterinari, allevatori, imprenditori agricoli, agenti di commercio, responsabili di imprese di prodotti alimentari per la zootecnia e di società farmaceutiche. 8 29 n.11 / 2005 “Lingua blu, allevatori in rivolta” in La Gazzetta del Mezzogiorno, 10 luglio 2003. 9 http://lanuovaecologia.it/scienza/biotch/1 906php 10 Dossier “Come difendersi dagli Ogm”, Greenpeace Italia, 15 maggio 2003. 11 30 ta di vitelli provenienti dall’Olanda in cui furono trovate tracce dell’anabolizzante. Ma l’ormone è stato trovato anche e soprattutto negli allevamenti italiani, specie di Lombardia, Veneto e Piemonte. La pressione delle ditte farmaceutiche perché si impieghino molti farmaci ha probabilmente avuto un ruolo nell’obbligo all’impiego del vaccino contro la Blue Tongue per le mucche che ha provocato molti aborti e molti altri problemi per cui gli allevatori si stanno battendo contro questa imposizione assurda9. In Italia non c’era vero allarme perché questa malattia che colpisce gli ovini qui aveva colpito pochissimi bovini. A volte, nonostante l’enfasi dei media per creare allarme nemmeno le influenze aviarie, che in questi ultimi anni sono state nel Veneto particolarmente frequenti, erano sempre ad alta patogenicità, e quindi tali da richiedere l’abbattimento degli animali. Qui semmai poteva subentrare un interesse a codificarle come tali per gli ingenti risarcimenti che se ne potevano trarre. Un terzo ordine di problemi, ormai ben conosciuto in tutto il mondo, su cui si è attivata anche in Italia l’azione di chi si muove per un’altra agricoltura è costituita dagli Ogm che purtroppo si sono di fatto diffusi moltissimo sia nell’alimentazione umana che animale e spesso all’insaputa dei produttori che non sanno di aver acquistato semi o altre sostanze geneticamente modificate. Anche qui nel Veneto vi sono state interviste televisive a produttori agricoli che si ritengono rovinati dal fatto che a loro insaputa le ditte gli hanno venduto semi Ogm per cui si sono trovati ad essere coltivatori di Ogm contro la loro volontà. A seguito dei rilevamenti fatti da AltrAgricoltura NordEst su Dna di piante analizzate nel Veneto due campioni su tre risultavano geneticamente modificati. L’associazione fece una denuncia in Regione ma non vi fu seguito. Al contrario quest’estate è scoppiato un “caso Piemonte” perché, a seguito del ritrovamento nella regione di 381 ettari di mais geneticamente modificato e della conseguente ordinanza regionale che imponeva ai coltivatori di distruggere le coltivazioni, si aprì un contenzioso con ricorsi al Tribunale Amministrativo Regionale per decidere chi dovesse pagare il danno. I coltivatori accusavano Pioneer Italia e Monsanto di avergliele vendute in malafede e quindi pretendevano fossero le ditte a sobbarcarsi il costo della perdita. Si può dedurre che la diffusione di questo tipo di coltivazione in Italia sia già alquanto larga e molti temono che la decisione del Parlamento europeo nell’estate del 200310 di obbligare alla segnalazione sulle confezioni, relativamente al cibo geneticamente modificato, solo oltre la soglia dello 0, 9 per cento possa rappresentare un limite facilmente innalzabile nei prossimi tempi mentre si viola fin da subito il diritto del cittadino a poter conoscere e scegliere fra cibo geneticamente modificato e non. Su questo tema l’opposizione della popolazione è diffusa, le iniziative di verifica da parte di associazioni non mancano, ma la risposta degli organi politici competenti, salvo alcune eccezioni, è di regola l’inerzia. La presenza comunque di Ogm in molti prodotti di note ditte, specialmente nei Discount, è segnalata anche da Greenpeace Italia che, nel 1993, ha pubblicato una lista rossa comprendente 35 aziende e catene alimentari per un totale di 250 prodotti contenenti presumibilmente Ogm11. Un altro punto dolente rispetto al quale invece non vi è adeguata conoscenza da parte dei cittadini e quindi non vi sono state iniziative di rilievo ma sarebbero necessarie è la forte dipendenza dall’estero che nel settore alimentare si è Mariarosa Dalla Costa e Dario De Bortoli Per un’altra agricoltura e un’altra alimentazione creata in Italia. Il 45% del latte che consumiamo arriva da Francia e Germania, il 50% della carne bovina sui banchi dei supermercati è ancora tedesca o francese, il 40% di quella suina proviene d’oltralpe (Baviera e Olanda) mentre Germania e Usa monopolizzano il mercato del grano fornendoci il 60% della materia prima usata per pane e biscotti. La denuncia arriva dalla stessa Coldiretti. Il cavallo di Troia per l’invasione sembra essere stata la grande distribuzione estera che, silenziosamente, ha colonizzato a macchia di leopardo il territorio facendo dell’Italia un paese che, nell’alimentare, dipende ormai per il 65% dalle maxicatene straniere. Per i produttori italiani questo rappresenta il forte rischio di chiudere e per i dipendenti di trovarsi senza occupazione. E’ significativo che, di fronte a tale cedimento della diga che rischia di peggiorare dopo il crac della Parmalat, il presidente della Coldiretti affermi che l’unica difesa possibile a monte è l’incentivazione del marchio “made in Italy” aggiungendo che “bisogna collegare la filiera della produzione agricola a quella distributiva e rafforzare l’obbligo dell’indicazione di provenienza su tutta la merce non solo sui prodotti doc o dop”12. Ben venga! Come vedremo poco più avanti il tema di una tracciabilità completa da monte a valle della filiera oltre che della trasparenza del processo produttivo è più che mai all’ordine del giorno da parte di chi vorrebbe anche un’altra agricoltura. Un altro fronte di mobilitazione che ha segnato scadenze importanti nell’anno appena trascorso è quello della qualità del prodotto senza esosità di prezzo. Il settore della produzione di vino rappresentata da circuiti di buoni vignaioli non sempre adeguatamente conosciuti ha fatto da apripista a iniziative nuove su questo terreno. Le coordinate entro cui si voleva far emergere il diritto alla qualità e all’accessibilità di un prodotto così importante per il piacere della tavola e non solo, era chiaramente definito nella documentazione di illustrazione dei due convegni “Terra e Libertà/CriticalWine” allo stesso tempo momenti di incontro di produttori agricoli, cittadini non solo consumatori, poeti, amministratori, studiosi: “organizzare il rifiuto del modello di sviluppo neoliberista che vuole l’agricoltura industriale e monoculturale delle multinazionali e della Unione Europea da una parte e un’elitaria produzione dei cosiddetti prodotti tipici dall’altra quali facce della stessa medaglia. Pensare a un nuovo modello con la terra/Terra che lasci spazio a produzioni, consumi, piaceri più sobriamente felici. Disegnare il circuito virtuoso tra qualità della produzione, qualità del prodotto e qualità delle relazioni sociali.” I due convegni manifestazioni si sono tenuti al Centro sociale La Chimica a Verona dall’11 al 13 aprile 2003 e al Centro sociale Leoncavallo a Milano dal 5 al 6 dicembre dello stesso anno. La novità di maggior rilievo riguardo a queste iniziative è stata la capacità di sperimentare un nuovo momento di comunità che univa il momento di un’analisi approfondita sulle politiche, sul ruolo delle multinazionali, sulla strategicità del loro controllo del settore agricolo alimentare ai fini di un dominio globale, con le problematiche impellenti di chi produce e deve guadagnare, di chi consuma e deve coniugare capacità di spesa e un buon bicchiere di vino, di chi vuole venire per incontrare, per sapere, per recitare una poesia13. Sullo stesso terreno del riconoscimento e giusto riscontro alla produzione di qualità la mobilitazione quest’anno per l’olio di oliva, prodotto fondamentale dell’alimentazione italiana e mediterranea, oggetto di molte frodi14. Al tema www.greenplanet.net 11/01/04: “La grande distribuzione parla straniero” 12 Di tali convegni e iniziative ha parlato diffusamente anche la grande stampa. Vedi www.criticalwine.org 13 14 www.tigulliovino.it/sc rittodavoi/art_012.ht m; www.oliosecondoveronelli.it 31 n.11 / 2005 Rimandiamo per tale documentazione ai siti www.veronelli.com; www.criticalwine.org 15 32 anche Report, nota trasmissione televisiva, ha dedicato una notevole puntata il 10 marzo 2002. Nel piazzale antistante il Porto a Monopoli il 2 di febbraio 2004 si è tenuta un’importante manifestazione contro queste frodi sistematiche. Con Luigi Veronelli anarchenologo e teorico della contadinità responsabile, animatore e promotore dell’iniziativa, con l’associazione Assudd e il Progetto Terra e Libertà/CriticalWine altre quaranta organizzazioni partecipavano al sit-in e all’azione disobbediente per protestare contro i traffici dell’olio di oliva, esemplificazione del malo potere delle multinazionali. I convenuti costruivano un’azione e un dibattito con forte impatto mediatico in un luogo dove da decenni non succedeva nulla. Si discuteva dell’olio di oliva come caso emblematico del dominio planetario delle multinazionali attraverso il controllo della produzione di cibo, e della loro discutibile produzione di contro alla sana produzione di un’agricoltura responsabile. Le ragioni della manifestazione erano illustrate nei vari comunicati di convocazione e qui di seguito le riassumiamo15. L’80% del mercato dell’olio di oliva italiano è in mano alle multinazionali. Le navi cisterna “trasformano” – con tranquilla truffa legalizzata – durante il percorso verso l’Italia, il loro carico di olio di semi in olio extravergine di oliva. Non si tratta di un miracolo. Basta falsificare le carte, coperti dalla legge sulle rogatorie internazionali che nasconde i reati compiuti fuori dal nostro paese. Chi ci rimette sono i consumatori (costretti a subire truffe) e gli olivicoltori (costretti a subire una concorrenza sleale che li obbliga a lavorare sottocosto, o addirittura a non raccogliere le olive). Infatti note ditte italiane pongono sugli scaffali dei supermercati olio extravergine di oliva a circa 3 euro al litro. Considerato che il contributo dell’Unione europea al produttore è di circa 1. 25 euro al litro e che raccogliere le olive costa al produttore salentino 5 euro al litro in una zona come il Salento dove costa meno, mentre se si trattasse di raccoglierle sui terrazzamenti liguri o del lago di Garda costerebbe il doppio, ne deriva che l’olio venduto a 3 euro o non è extravergine di oliva o viene da paesi dove il costo della manodopera è molto ridotto. Infatti Bertolli fa parte della multinazionale Unilever e acquista solo il 20, 30 per cento di olio nazionale, Carapelli un 30 per cento e Sasso, proprietà della Nestlé, il 40 per cento di olio italiano ma niente di quello ligure. La restante e più considerevole percentuale di olio di oliva arriva dalla Tunisia, dalla Turchia, da Israele e dalla Spagna ma, e qui sta un grande problema, il consumatore non può saperlo perché sull’etichetta non è specificato in quanto il produttore non è tenuto a specificarlo. Altro aspetto è la forte esposizione di quest’olio importato a possibilità di sofisticazioni le cui tecniche si sono sempre più evolute e quindi sfuggono anche ai controlli del Nucleo Anti Sofisticazioni dei Carabinieri. Proprio il porto di Monopoli è stato scelto per la manifestazione in quanto si voleva denunciare il caso di una nave, attualmente scomparsa, che partiva con olio di nocciole dalla Turchia o da Israele e, dopo una sosta compiacente in qualche porto, sbarcava olio di oliva a Monopoli o a Barletta. Altre volte gli oli sono addirittura miscelazioni con oli non commestibili o con oli di semi fortemente colorati. Oppure anche con oli di semi geneticamente modificati. Con la manifestazione di Monopoli si è voluto diffondere la consapevolezza di cosa avviene attorno all’olio di oliva, aprire maggiori possibilità di contatto tra produttori di vero olio di Mariarosa Dalla Costa e Dario De Bortoli Per un’altra agricoltura e un’altra alimentazione oliva e consumatori interessati ad acquistarlo, chiedere un mutamento delle politiche perché possa ritrovare tutto il suo spazio e adeguato riconoscimento economico la produzione di qualità di un bene così fondamentale nella nostra alimentazione e nella nostra cultura. Percorrendo l’avvicendarsi delle proposte nel dibattito che ha accompagnato quella manifestazione, ma già discusse anche in altri momenti di incontro, come quelli sulla produzione di vino poco sopra menzionate, possiamo puntualizzare un ulteriore ordine di problemi su cui stanno crescendo l’attivismo e l’inventiva. E cioè l’esigenza di mettere a punto nuove procedure, più agili, locali, diversamente caratterizzate per certificare quei processi agricoli che vogliono dare certezza riguardo all’origine del prodotto, che offrono trasparenza e tracciabilità, qualità, che privilegiano la località. La proposta più innovativa è certamente quella delle De.co. (Denominazioni comunali) ideata da Veronelli16 e già largamente applicata. E’ il Comune, grazie ai nuovi poteri che questo ente ha in base alla legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, che predispone la procedura, molto semplice, con cui certifica direttamente che un prodotto ha origine nel suo territorio. E’ un’attività, nella nuova era dei comuni, possibile a ognuno di questi enti e che ben vale la pena di richiedere. Nonostante la presa di posizione del Ministero per le Risorse Agricole che, prima dell’inaugurazione di tale certificazione avvenuta con l’adozione della prima De. co. da parte del Consiglio comunale di Lecce il 3 febbraio 2003, aveva inviato a tutti i comuni il 19 dicembre una circolare intimidatoria che recitava: “… per definizione, ogni discriminazione fra prodotto locale ed importato, basata sulla provenienza del prodotto, crea un ostacolo ingiustificato alla libera circolazione delle merci” il comune di Lecce decise l’approvazione del “Regolamento per la tutela e la valorizzazione dei prodotti tipici locali e per l’istituzione del marchio De. co. per la difesa e la promozione delle colture e culture territoriali”. All’esempio di Lecce fecero seguito altri comuni come quello di Cartoceto che decise di istituire il marchio De. co. per il proprio olio extravergine di oliva, intervenendo per agevolare finanziariamente le aziende che decidono di produrre prodotti De. c.o. L’istituzione del registro De. co. è una speranza per molti. Significherebbe immediato benessere dei contadini, con la rinascita di molti esercenti prima costretti alla chiusura e alla miseria, con una necessità di manovalanza pagata con retribuzioni più alte e con il vantaggio consistente e su ogni piano dei cittadini in qualità di consumatori. Altrettanto innovativa la proposta del catalogo dei produttori autogestito e autocertificato, senza alcun vincolo di obbligatorietà, con cui i produttori stessi certificano il processo produttivo informando dei vari aspetti del loro lavoro inclusa la cultura su cui si basa. Una comunicazione diretta e voluta, non imposta, fra produttore e consumatore che autoresponsabilizza maggiormente e ripaga anche con la possibilità di far conoscere più realmente la complessità del proprio impegno. E ancora la proposta del prezzo sorgente per dare trasparenza al processo di formazione del prezzo finale. Con prezzo sorgente si indica il prezzo al quale il produttore all’origine vende il suo prodotto e, se inserito nell’etichetta, dovrebbe rendere riconoscibili le maggiorazioni ingiustificabili che il prodotto incontra nel suo percorso e che avvengono in generale nella filiera distributivo – commerciale sempre più concentrata in pochi poteri forti. E’ una proposta “Denominazione comunale di origine”, http://www.veronelli.c om/veronelli/news1.ht m; Denominazione comunale di origine – L’olio di oliva extravergine del Comune di Cartoceto. Regolamento Comunale per la valorizzazione delle Attività, www.veronelli.com/ve ronelli/news2htm 16 33 n.11 / 2005 messa a punto anzitutto per i produttori di vino ma può essere applicata a qualunque prodotto. Il suo spirito è di fornire uno strumento che permetta di cominciare a costruire una tracciabilità del prezzo e rappresenti l’emergere di una determinazione, da parte dei produttori, a non voler più accettare la legge per cui il prezzo si impenna dopo che il prodotto è uscito dalle loro mani e, da parte dei consumatori, a non voler più accettare imperscrutabili anse in cui il prezzo misteriosamente si moltiplica. L’esigenza che le produzioni così qualificate e certificate trovino adeguato sbocco di mercato, anzitutto locale, si incontra con la domanda di cittadini che, in misura crescente, si vanno organizzando in reti di acquisto concepite all’insegna di nuove regole che sposano quelle di un’altra agricoltura. Tra queste i Gas (Gruppi di acquisto solidale) che coinvolgono circa due milioni di cittadini e hanno fatto dell’eticità il criterio base assunto a tutto campo, nel rapporto con gli altri esseri umani, con la natura, con l’economia. Hanno programmato per il prossimo aprile un grande convegno a Firenze. Parlare più compiutamente del movimento in atto per un’altra agricoltura richiederebbe di ripercorrere l’operato delle associazioni agricole biologiche, biodinamiche, altre, presenti da più lunga data. Ma assumiamo questo operato come più conosciuto e documentato presso quelli che hanno a cuore problematiche agricole, riproponendoci comunque di trattarne in prossimi lavori. Richiederebbe anche di illustrare le molteplici esperienze espressamente dedite alla tutela della biodiversità, vegetale e animale, in quanto, come dicevamo all’inizio, concorrono a preservare la materia prima per un’altra agricoltura. Ma trattare anche di questo aspetto non è possibile nell’economia di questo lavoro, che ha inteso focalizzarsi maggiormente su altri aspetti della questione. Quanto alle esperienze illustrate possiamo concludere che da un lato riflettono la difficoltà ancora a trovare forme che incidano sui nodi duri dell’organizzazione dominante dell’agricoltura è cioè sulla sua impostazione industrial produttivistica che in questi tempi si è caricata di ulteriori negatività per ciò che concerne il contesto italiano. C’è infatti il rischio di un’ulteriore concentrazione di capitale per di più a favore di gruppi esteri nella produzione alimentare mentre nella distribuzione i gruppi esteri sono già entrati alla grande e sono in sospetto di aver favorito nei supermercati l’offerta di prodotti dei loro paesi di provenienza, anzitutto Francia e Germania. E’ possibile il dilatarsi ulteriore del varco di entrata nel settore alimentare a seguito del crac di aziende di matrice italiana. E’ probabile, se aziende italiane chiudono, un aggravarsi della disoccupazione. D’altro lato emerge da produttori e consumatori la volontà di mettere in piedi in vari modi un altro modello agricolo e alimentare, e su questa esigenza e nuova cultura si generano lotte e fioriscono nuove reti di produzione, informazione, cultura e scambio. Appare ancora per quello che è, un confronto molto impari. Ma Davide vinse il gigante Golia. Potrebbe succedere ancora? Tra le ragioni che sostengono una prospettiva ottimistica c’è la nuova composizione e determinazione di questo movimento sull’agricoltura, fatto di cittadini della campagna e della città che discutono, progettano e costruiscono rifiutando le modalità di produzione e di consumo imposte dal modello neoliberista che, non solo nella precarizzazione del lavoro e decurtazione dei servizi abbassa le condizioni di vita, ma anzitutto nel suo attacco alla terra/Terra. E quindi nella dequalificazione e inquinamento del- 34 Mariarosa Dalla Costa e Dario De Bortoli Per un’altra agricoltura e un’altra alimentazione l’alimentazione, nella negazione dell’ambiente e del paesaggio, nella privazione delle relazioni e delle sensazioni, a partire dai gusti dei prodotti della terra e dai profumi del vento. Non sono solo produttori e consumatori in quanto tali, sono cittadini, sono esseri umani che, in cerca anzitutto di vita, stanno circondando Golia. Riferimenti bibliografici José Bové e François Dufour (2001) Il mondo non è in vendita, Feltrinelli, Milano. Mariarosa Dalla Costa (1997) “L’Indigeno che è in noi, la terra cui apparteniamo”, in Vis-à- Vis, n. 5, e in A. Marucci (1999) Camminare domandando, DeriveApprodi, Roma; trad. ingl: “TheNative in Us, the Land We Belong to”, in Common Sense n. 23, 1998; e in The Commoner n.6, 2002, in www.thecommoner.org Alessandro Marucci (a cura di) (1999) Camminare domandando, DeriveApprodi, Roma. Common Sense (1998) n. 23. The Commoner (2002) n.6 in www.thecommoner.org Mariarosa Dalla Costa (2004) Riruralizzare il mondo e Due cesti per cambiare in Massimo Angelini et al., Terra e Libertà/Critical Wine, DeriveApprodi, Roma. Massimo Angelini et al. (2004) Terra e libertà/Critical Wine, DeriveApprodi, Roma. ([email protected]) 35 n.11 / 2005 “La ricerca che qui si pubblica riguarda il progetto “Un patto per lo sviluppo sostenibile del territorio”, frutto della collaborazione tra il GAL Patavino e il LAPP, nell’ambito di un accordo di programma con la Facoltà di Scienze Politiche, e fa parte del Programma Leader Plus finanziato dalla Comunità Europea mediante il Fondo Europeo FEOGA - Sezione Orientamento - nell’ambito del PIC, Leader Plus, Regione del Veneto, Italia”. 36 Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli* I progetti di territorio di 42 comuni in provincia di Padova, Verona e Vicenza tra imperativi economici e sviluppo sostenibile Passaggio a Nord-Est La ricerca è stata realizzata congiuntamente dai due autori che hanno anche discusso il testo finale. La stesura del testo è stata così ripartita: Gangemi per i paragrafi 1.1, 2.1, 3.3, 3.8, 5, 5.1, 5.2, 5.3, 5.4; Gelli per i paragrafi 1, 2, 3, 3.1, 3.2, 3.4, 3.5, 3.6, 3.7, 3.8, 3.9, 4, 6. * 1. Premessa Lo svolgimento dell’indagine che qui pubblichiamo avviene congiuntamente allo spiegamento di un dibattito in Veneto che interessa le radici del modello di sviluppo del Nordest accusato di essere sempre meno competitivo rispetto alle sfide che impone la globalizzazione, di essere poco sostenibile in quanto basato su un’organizzazione ad alto consumo di territorio e di non essere adeguato alle nuove domande sociali e alle urgenze ambientali. Un dato è che il modello del “capannone”, struttura permanente e diffusa capillarmente nel territorio, con i ritmi di lavoro massacranti che ne hanno affermato la produttività, non funziona più. Un punto di svolta viene visto nella riorganizzazione del tessuto urbano-produttivo e in particolar modo infrastrutturale che, da una parte, viene percepito come un modo per rendere più competitive le imprese del Veneto (uno slogan che circolava era: “siamo molto veloci a produrre in fabbrica, siamo lenti a distribuire sui mercati”) e, dall’altra, come un modo per ridurre l’inquinamento (un argomento di presentazione della Valdastico Sud era: “inquinano di più le macchine bloccate nel traffico, che quelle che scorrono veloci”; o anche: “più code si fanno, più si inquina”). In questo senso, la realizzazione di nuove strade renderebbe più sostenibile lo sviluppo, con ricadute positive sia sulla crescita economica che sull’ambiente. Una serie di nuove grandi opere di collegamento viario e ferroviario viene prevista e un programma quadro viene firmato nell’agosto del 2001 tra la Regione Veneto e il Governo Berlusconi appena insediato (nel quadro della legge Merloni del 1998 che regola la costruzione delle grandi opere pubbliche e prevede nuove procedure di validazione e nuove metodologie di ispezione dei progetti). Per quanto riguarda la crisi attuale delle infrastrutture nel Nordest, vi è da dire che era dal 1975 che il Parlamento e il Governo avevano bloccato la costruzione di qualsiasi autostrada in Italia ritenendo già sufficiente il sistema autostradale esistente. Soltanto un decennio dopo, a fronte dei pesanti disagi di traffico, viene consentita la realizzazione di una serie di opere di raccordo complementare alla rete esistente (da cui la realizzazione, per il Veneto, negli anni ‘90, della terza corsia della Brescia-Padova e delle tangenziali di Verona, Padova e Vicenza). Le opere da compiere sono: il passante autostradale di Mestre (da tempo in discussione), la superstrada a pedaggio Pedemontana Veneta, l’ipotesi autostradale della Nuova Romea (VeneziaRavenna), il prolungamento della Transpolesana, 37 n.11 / 2005 l’SFMR - Sistema Ferroviario Metropolitano Regionale -,il proseguimento dell’autostrada A31 Valdastico Sud (quest’ultima incontra un procedurale abbastanza difficoltoso per i pareri inizialmente discordanti del Ministero dell’ambiente e del Ministero dei beni culturali e a livello locale per le resistenze da parte di alcune amministrazioni comunali e di alcuni comitati di ambientalisti. Malgrado tutto, alla fine, la Valdastico Sud ottiene il via libera). In particolare, la ricerca ha a che fare con le conseguenze (non previste?) della decisione di costruzione della Valdastico Sud. Quest’opera ottiene, a dispetto delle proteste di qualche sindaco e dei gruppi ambientalisti, un forte consenso da parte dei sindaci dei Comuni interessati e delle popolazioni locali laddove consultate (vi è stato, ad esempio, un referendum comunale, da parte dell’amministrazione comunale di Agugliaro - il cui sindaco di quegli anni era coordinatore del Comitato della Riviera Berica per la realizzazione della Valdastico Sud - dal quale è risultato che più del 70% della popolazione condivideva l’opera). Inoltre, nell’ambito dell’ANCI Veneto, si era realizzato un coordinamento dei sindaci interessati alla Valdastico Sud per promuovere la realizzazione dell’opera nei tempi più rapidi possibili. L’indagine è andata incontro ad alcune sorprese facendo emergere delle contraddizioni alla base di questo ridisegno e nuova programmazione dello sviluppo, in particolare, nella direzione annunciata di maggiore sostenibilità. Per quanto riguarda la Valdastico Sud, infatti, c’è da evidenziare che già al suo annuncio si sono scatenate le logiche particolaristiche, forse inerziali, dell’imperativo economico così come ereditato dal passato. È stato dato avvio ad un’espansione frammentata che nell’insieme delinea ancora “tutto un capannone”, con una serie di varianti ai PRG da parte di molte amministrazioni comunali che vedono la Valdastico Sud sostanzialmente come l’opportunità per nuove zone di espansione produttiva e insediativa; questo si verifica con maggiore intensità nelle aree in prossimità dei caselli previsti. Quanto alle scelte localizzative, non si rinvengono particolari attenzioni per la selezione delle produzioni sia ai fini delle ricadute di impatto ambientale, sia del valore aggiunto (innovatività) delle produzioni e della potenziale 38 configurazione di sistemi integrati o di azioni collaborative. Il che non fa pensare che sia stato preso sul serio il dibattito che mette in luce la crisi competitiva profonda del Nordest. Per altro verso, l’ambito territoriale esplorato dalla ricerca si presenta con orientamenti di sviluppo sostenibile che riguardano i settori del turismo, dell’agricoltura specializzata e biologica, dell’agriturismo, con progetti di filiera e di nuovi distretti produttivi (agroalimentare, riciclaggio, etc.) che realmente tentano di ripensare il modello veneto e di rilanciarlo, a partire dalla valorizzazione delle risorse ambientali, del patrimonio culturale e territoriale diffuso. Tuttavia, anche questa strada presenta i suoi limiti e le sue forti problematicità. In primo luogo, vi è la questione del ricambio generazionale in agricoltura che pone un grave limite di risorse umane e di sviluppo (il destino di queste aree potrebbe diventare, definitivamente, quello dell’agricoltura estensiva a basso valore aggiunto e meccanizzata) e vi è quello del progressivo impoverimento e inquinamento delle risorse idriche del territorio (fiumi, ruscelli, ma ormai anche falde acquifere sempre più in profondità) e del paesaggio (porzioni dei colli che sono state erose dall’attività di cava; siepi e alberature, e perfino interi spazi boscosi scomparsi; i terrazzamenti in stato di abbandono). Infine, i progetti che interessano il turismo e la valorizzazione delle risorse naturali, culturali e delle produzioni enogastronomiche tipiche, che richiedono azioni integrate e logiche di rete, si scontrano con l’ancora insufficiente capacità organizzativa locale e con le tendenze campanilistiche osservate sia a livello delle istituzioni di governo locale, sia a livello dei settori di produzione. L’indagine mette in luce che non c’è una presa di consapevolezza fino in fondo delle alternative di sviluppo percorribili nel senso della sostenibilità, così come delle problematicità che esse presentano. La sensazione è che questa via, dello sviluppo sostenibile che favorisce altre attività, rispetto a quella produttiva-industriale, e che pare raccogliere il meglio dello “spirito” veneto dell’auto-organizzazione sociale e delle reti informali, si presenti parallela e compresente alla logica del “capannone” senza che si riesca a scorgere, da parte degli Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti amministratori locali (dal Comune alla Regione) e degli attori economici, il forte potenziale di conflittualità che si apre tra le due strade. È, a questo punto, che l’operato di nuovi soggetti dello sviluppo locale (come i GAL di cui si parlerà) costituitisi sulla scia di programmi comunitari, appaiono come attori potenzialmente innovatori nella ricerca di una mediazione tra le diverse istanze locali. Un altro aspetto congiunturale importante è la predisposizione, a lungo attesa, della Legge Regionale Urbanistica, che riconosce ai Comuni un ruolo vitale nella regolazione e nell’organizzazione delle attività umane nel territorio, pur introducendo indicazioni che promuovono modalità associative e cooperative (soprattutto con riferimento alla progettazione di aree produttive) e dunque una dimensione interlocale e concertativa della pianificazione territoriale. Anche per questa ragione l’indagine ha cercato di esplorare le nuove forme di amministrazione e di intervento pubblico, le esperienze di rete e di collaborazione tra Comuni per la gestione dei servizi e per la costruzione delle politiche territoriali. volume comprende vari studi di caso, uno dei quali è dedicato al GAL patavino -. I Gal selezionati dalle Regioni diventano responsabili della realizzazione del PSL e dei vari progetti nei territori di pertinenza del PSL (“Aree-Target”). Il GAL Patavino si presenta con un partenariato composto da: Provincia di Padova; Camera di Commercio, Industria e Artigianato di Padova; Ente Parco Colli Euganei (soggetti pubblici) e ASCOM, Associazione Commercianti Turismo e Servizi Padova; CIA, Confederazione Italiana Agricoltori Padova; CNA, Confederazione Nazionale Artigianato e Piccole Imprese di Padova; Confesercenti – Federazione di Padova; Federazione Provinciale Coldiretti Padova; UPA, Unione Provinciale Artigiani di Padova (soggetti privati). L’area target del PSL è interprovinciale e comprende 31 Comuni della provincia di Padova, 9 Comuni della provincia di Vicenza e 2 Comuni della provincia di Verona. Per lo svolgimento della presente ricerca, il GAL ha coinvolto l’Università di Padova (e in particolare, il Laboratorio Attori Politiche Pubbliche della Facoltà di Scienze Politiche) realizzando un’intesa di programma su cui insistono varie attività (tra cui, un laboratorio di tesi di laurea, un seminario itinerante, etc.). Una domanda specifica si è configurata nella richiesta di svolgimento di un’indagine conoscitiva sul territorio dell’area-target, nella forma della ricerca-azione, e in relazione ad un tema: quello dello sviluppo sostenibile delle risorse rurali del territorio. Quest’iniziativa si colloca anche nel quadro più ampio delle attività di ricerca che seguono un asse tematico, che è quello dell’Università “come attore di politiche di sviluppo locale e di progetti territoriali”, da decenni ben configuratosi nella realtà statunitense e dei paesi anglosassoni, ma piuttosto “nuovo” in Italia e particolarmente attuale in Veneto, in un momento in cui si chiede il ripensamento del modello di sviluppo del Nordest anche a partire dalla collaborazione tra forze politiche, forze sociali, forze economiche e ponendolo come una questione, in primo luogo, di tipo culturale. Cogliamo l’occasione per aprire una breve parentesi: l’idea di una Università come attore di politi- 1.1. Il disegno della ricerca In queste pagine sono presentati sinteticamente i risultati di una ricerca che si inserisce nell’ambito delle iniziative che il GAL Patavino ha promosso in attuazione della Azione 1.1.b del Piano di Sviluppo Locale (PSL). Per GAL (Gruppo di Azione Locale) si intendono delle associazioni di soggetti pubblici e privati che si sono costituite per contribuire all’implementazione del Programma di Iniziativa Comunitaria Leader + (Liaison entre actions de développement rural, 2000-06). I Gal vi partecipano, con l’elaborazione di un Piano di Sviluppo Locale che viene valutato dalle autorità di gestione competenti (che in Italia sono le Regioni), ai fini del finanziamento, sulla base dei Complementi di Programmazione che costituiscono un approfondimento delle linee-guida generali comunitarie per un’analisi dell’esperienza Leader in Italia, si rimanda a L. Vettoretto (Innovazione in Periferia. Sfere pubbliche e identità territoriale dopo l’iniziativa comunitaria Leader, FrancoAngeli, 2003). Il 39 n.11 / 2005 che pubbliche che operasse in concerto con la società civile (volontariato e imprese) e la politica era condivisa dalla scuola lombardo-veneta (Romagnosi, Lampertico, Morpurgo – che è stato anche rettore dell’Università di Padova – Luzzatti – che è stato anche Presidente del Consiglio). L’ultimo rappresentante, a Padova, di questa scuola e di questa impostazione di pensiero e azione è stato Giulio Alessio (fortemente avversato dal fascismo e dal rettore Carlo Anti, con metodi quasi squadristi). La gestione dell’Università di Padova nel corso del ventennio fascista ha portato, gradatamente, a togliere all’Università ogni ruolo come attore politico operante nel territorio. Questa frattura non è stata ancora del tutto risanata. Da una parte, infatti, la costituzione, nel 1924, della Scuola di Scienze Politiche e Sociali (che, nel 1934, diventa, in conformità all’art. 20 del T.U. delle leggi sull’istruzione superiore del R.D. n. 1592 del 31 agosto 1933, Facoltà di Scienze Politiche) porta a concepire questa Facoltà come uno strumento per formare personale dello Stato ligio al dovere, privo di originalità e rispettoso delle gerarchie. Il Direttore della Scuola, poi primo Preside della Facoltà, Donato Donati, riteneva che la volontà del vertice dei funzionari dello Stato, che sono i ministri, è legge, e che i funzionari preparati dalle Università, e in particolare dalla Facoltà di Scienze Politiche, dovevano acquisire e dimostrare la capacità di eseguire in modo acritico le direttive impartite. Di conseguenza, all’Università rimane solo la possibilità di puntare sulla qualità della ricerca scientifica (nei settori privi di qualsiasi contatto con, e in tematiche prive di ricadute su, la politica e sul sociale), al di là delle ricadute in termini di operazioni immobiliari nello spazio della città. Una delle ipotesi del metodo che è stato adottato per questa ricerca è che la frattura, ancora esistente, tra Università e Territorio, si possa ricomporre anche dando spazio ai saperi locali e a un tipo di conoscenza che è legato alla dimensione delle pratiche sociali. L’indagine è stata volta alla produzione di scenari di sviluppo locale, attraverso la raccolta delle rappresentazioni e dei punti di vista che gli attori politici (e in particolare gli amministratori locali) hanno delle trasformazioni territoriali e delle dina- 40 miche socio-economiche. In una prima fase è stata realizzata un’inchiesta sullo stato dei progetti e delle iniziative degli enti locali nel territorio dell’area target, nella prospettiva dello sviluppo sostenibile e della valorizzazione delle risorse rurali. L’attenzione è stata volta soprattutto agli enti locali perché il GAL patavino persegue l’obiettivo di rafforzare e densificare il tessuto delle relazioni tra gli attori economici e sociali dello sviluppo dell’area e le filiere istituzionali di rappresentanza e di governo locale. In questa prima fase, l’inchiesta è stata condotta attraverso lo svolgimento di una serie di interviste in profondità a sindaci e funzionari, tecnici, dei Comuni che ricadono nell’areatarget del PSL del GAL Patavino (ne sono state realizzate più di 80 nell’insieme) e interviste ai rappresentanti del mondo economico e produttivo locale e del sociale. È seguita l’organizzazione di un Forum per presentare e discutere i primi esiti della ricerca. Le interviste ai Sindaci (realizzate secondo uno schema di domande aperte) sono state focalizzate alla costruzione di una mappa delle interconnessioni che gli intervistati stessi ponevano tra l’obiettivo di sostenibilità e le pratiche e i progetti correnti dell’amministrazione comunale (pratiche di uso del territorio, intenzionalità dell’intervento pubblico). Non interessava chiedere loro una definizione di sviluppo sostenibile, ma comprendere la cultura e il modello di sviluppo alla base delle scelte dell’amministrazione nel porsi la questione della sostenibilità. Questo portava gli amministratori a parlare di agricoltura e dei problemi ad essa connessi, di inquinamento elettromagnetico (la questione delle antenne), di risparmio energetico (nei Comuni in cui ci si poneva il problema). Solo su suggerimento degli intervistatori, emergevano i progetti e le problematiche connesse all’inquinamento dell’acqua e dei fiumi, alla salvaguardia dell’ambiente, alle discariche e alle cave e, infine, alla raccolta differenziata dei rifiuti. A questo punto, si ricordava che l’Unione Europea considera prerequisito essenziale allo sviluppo sostenibile l’esistenza di forme di cooperazione tra Enti locali, e tra enti, imprese, organizzazioni di volontariato, reti civiche. Questo argomento portava a discutere del livello di collaborazione inter- Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti na ai Comuni (tra politici e uffici tecnici, ma anche tra maggioranza e minoranza nei consigli comunali), della collaborazione tra Comuni, dei rapporti con la Provincia e la Regione, delle altre eventuali sinergie territoriali. Dopo questo quadro iniziale, in cui si lasciava molto spazio alla presentazione dei problemi e alla libera associazione degli argomenti da trattare, si passava a domande più specifiche, del tipo: quali le variazioni al PRG e quali progetti di nuove localizzazioni produttive e abitative? quali le priorità? quali i progetti che suscitavano più consenso e quali risultavano meno popolari? quali i “sogni nel cassetto” che l’amministrazione avrebbe desiderato realizzare se avesse avuto le risorse per farlo? Per quanto riguarda gli uffici tecnici, alla realizzazione delle interviste hanno partecipato studenti della Facoltà di Scienze Politiche di Padova (retribuiti con contratti “150 ore”). Essi si presentavano con una griglia che ricalcava più o meno lo schema per i sindaci e che comprendeva anche domande più specifiche e tecniche (queste ultime strutturate), tendenti a raccogliere informazioni sulle politiche di settore in corso. Si chiedeva di precisare quali fossero le politiche che venivano realizzate in ottemperanza a direttive dell’Unione Europea, quali, invece, rientravano in più generali iniziative regionali e/o provinciali e quali, infine, nascevano da iniziative direttamente promosse dall’amministrazione e quali erano invece nate da esplicite richieste o proteste di parte della popolazione. In merito ai progetti, si chiedeva di descrivere gli obiettivi, i tempi di realizzazione e le risorse finanziarie e umane impegnate e se, in corso d’opera, fosse emersa l’esigenza di sviluppare un coordinamento ed, eventualmente, quali forme esso avesse assunto (scambio informale di informazioni, costituzione di un vero e proprio gruppo di lavoro, coordinamento a livello politico in giunta o tra commissioni consiliari), quali progetti impegnavano maggiormente l’ufficio, quali progetti avessero prodotto conflittualità nel territorio e tra la gente, etc. Di seguito, si chiedeva di rispondere non in quanto tecnici, ma in quanto cittadini, alle seguenti domande: quali le speranze e i timori per il territorio, quale il grado di consapevolezza degli eventuali rischi e opportunità nella popolazione locale; si chiedeva inoltre circa l’esistenza di occasioni di pubblico dibattito su questi problemi e quali fossero i soggetti più attivi nel territorio. In una seconda fase, l’indagine è consistita nell’elaborazione di una scheda di analisi più approfondita, per singolo Comune, così concepita: la raccolta e valutazione di una serie di dati relativi alle dinamiche demografiche e al quadro socio-economico; l’analisi SWOT come confronto per punti (di forza e di debolezza, di opportunità e di rischio) tra le percezioni degli attori locali, ricavate dalle interviste, e i dati istituzionali; la parte conclusiva era costituita da considerazioni e riflessioni sulle prospettive e gli scenari possibili. Dalle analisi SWOT sono emersi dei raggruppamenti di Comuni che condividono problematiche più o meno omogenee o sono compresi entro reti di relazioni territoriali e questo ha motivato l’obiettivo di una serie di incontri, concepiti come momenti di confronto, discussione e verifica, con gli amministratori comunali (sindaci o loro rappresentanti); incontri organizzati tenendo conto dei raggruppamenti emersi. Con gli amministratori che hanno partecipato agli incontri è stato possibile rivedere le schede e ricevere ulteriori input. Nelle varie fasi della ricerca, vi sono stati più momenti di incontro tra i responsabili dell’indagine e i rappresentanti delle organizzazioni e istituzioni che formano il partenariato del GAL patavino, per concertare il disegno della ricerca e alcuni cambiamenti resisi evidenti in corso d’opera e per restituire le percezioni che gli amministratori intervistati manifestavano sul ruolo e l’azione del GAL e sulle aspettative che essi avevano, per presentare i primi risultati e impostare le iniziative di interazione con gli amministratori e gli altri attori del territorio. La durata totale del percorso di ricerca è stata di venti mesi (dal luglio 2003 al febbraio 2005). Parallelamente è stata svolta una ricerca, con metodi analoghi, nel quadro sempre dell’implementazione del programma Leader + (GAL Delta del Po), da parte del Dipartimento di Pianificazione dello IUAV (responsabili Luciano Vettoretto e Francesca Gelli) e promossa dal Consorzio di Sviluppo del Polesine, inerente i 50 Comuni della provincia di Rovigo. Una sintesi dei risultati sarà presentata nel prossimo numero di Foedus. 41 n.11 / 2005 2. L’interpretazione del PIC Leader+ nel progetto di territorio del GAL patavino. Il Programma di Iniziativa Comunitaria Leader + è stato promosso dalla Commissione Europea, nell’ambito della programmazione 2000-06, per stimolare e sostenere le comunità rurali nella definizione di Piani di Sviluppo Locale di lungo termine, come occasioni per riflettere sulle trasformazioni dei loro territori d’uso e di circolazione e per approntare dispositivi di governance in risposta alla crescente domanda di coesione, di “messa in coerenza” dei territori, funzionale a una maggiore efficacia delle politiche di sviluppo. Il programma Leader, fin dal suo concepimento, agli inizi degli anni Novanta (Leader I e successivamente Leader II), si contraddistingue per un approccio integrato e sostenibile allo sviluppo e si basa sulla costituzione di partenariati tra soggetti pubblici e privati e reti di scambio di esperienze. I temi generali del programma come indicati dalla Commissione sono: 1) fare il migliore uso delle risorse naturali e culturali dei luoghi promovendone la valorizzazione; 2) migliorare la qualità della vita nelle aree rurali e rafforzare le produzioni tipiche locali, consentendo a quelle di nicchia l’accesso ai mercati attraverso un maggiore sforzo organizzativo; 3) promuovere i saperi locali e le nuove tecnologie per rendere le aree rurali più competitive. I presupposti dell’azione comunitaria sono, da un lato, l’identificazione di aree di intervento omogenee e di scala limitata -“Aree-Target”- (nella convinzione che l’azione integrata, così come la costituzione dei partenariati, si renda maggiormente efficace quando su scala locale), dall’altro, coerentemente con gli obiettivi della politica di coesione, la diversificazione delle attività economiche nelle aree rurali (nella convinzione che le aree, “omogenee” se prese singolarmente, contengano degli elementi di forte diversità se comparativamente considerate, in riferimento all’intero territorio dell’UE). Infine, la sperimentazione in corso con Leader + è funzionale alla definizione di una politica di sviluppo rurale che possa andare a costituire il secondo pilastro della Politica Agricola Comune, nel quadro 42 del processo di riforma avviato. La strategia offerta come traccia dalla Commissione, per agevolare i GAL nella identificazione di un “tema catalizzatore” intorno al quale far convergere l’insieme delle azioni di ogni PSL, è quella di incoraggiare l’interazione tra attori, settori e progetti costruiti intorno a un fattore forte dell’identità locale e/o delle risorse e/o dello specifico know-how dell’area. Nel concreto, le azioni pilota verteranno: sulla emersione di nuovi servizi e prodotti; sull’adozione di metodi innovativi di gestione delle risorse; sull’interazione tra settori economici che, tradizionalmente, si sono sviluppati separatamente; sullo sviluppo di forme innovative di organizzazione e coinvolgimento della popolazione locale. La politica per il territorio del GAL patavino consiste in investimenti simbolici, ovvero nella costruzione di politiche territoriali come operazioni di assemblaggio caratterizzate da produzioni di rappresentazioni, discorsi, nuove narrative. La dimensione interlocale delle politiche è centrata sulla costruzione di reti territoriali e l’attivazione di processi di governance. Il Piano di Sviluppo Locale, elaborato dal GAL patavino e oggi in corso di attuazione, si articola sui seguenti punti: 1) il presupposto di omogeneità dell’area di intervento, come era già emerso nella diagnosi socioeconomica dell’area, non può essere sostenuto se non in termini relativi (si è trattato di mettere in relazione parti di territorio diverse tra di loro, per ragioni economiche, sociali, ambientali – l’area del Parco Colli, l’area termale, l’asta dell’Adige, i Colli Berici, etc. –, ma che sono investite da alcuni problemi comuni – i nuovi progetti infrastrutturali, l’inquinamento dei corsi d’acqua, le carenze organizzative del settore agricolo e turistico, l’endemica tendenza a far prevalere istanze campanilistiche e individualistiche, etc. – che vengono comunque percepiti e rappresentati in maniera diversa); 2) in connessione con il punto di cui sopra, la scelta del tema catalizzatore è stata condizionata dalla necessità di rinvenire modalità operative e livelli simbolici per fare sistema tra i diversi frammenti di cui è composta l’area target e incentivare gli attori locali a convergere su obiettivi condivisi. La scelta Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti del tema catalizzatore, pertanto, ha privilegiato, tra le declinazioni degli orientamenti strategici offerti dal programma europeo, l’interazione tra settori economici che si sono, nel tempo, sviluppati separatamente l’uno dall’altro. Si comprende così l’attenzione a progetti di filiera che mettano in circuito i settori primario, secondario e terziario per la valorizzazione delle varie risorse ambientali, culturali, naturali e paesaggistiche (esempi: sviluppo dell’attività turistica con itinerari di visitazione del territorio che comprendono beni monumentali e storici, parchi e aree protette, oasi ecologiche, itinerari di degustazione di prodotti tipici, di cura del corpo, con le acque termali e con i fanghi, attività sportive, etc.; sviluppo di servizi per il turismo; distribuzione e commercializzazione dei prodotti; strategie di marketing territoriale; potenziamento dell’organiz- zazione di alcuni settori produttivi in funzione di percorsi di tracciabilità dei prodotti; etc.); 3) l’efficacia nell’attuazione del tema catalizzatore ha come chiave di volta il miglioramento dei rapporti tra enti locali e attori economici e sociali nell’area target. A tal fine vengono delineate specifiche azioni di attivazione del contesto locale, di coinvolgimento di attori istituzionali e si pensa all’utilità di un’indagine che, con modalità tipiche dell’inchiesta sociale, cerchi di raccogliere le diverse percezioni dello sviluppo locale con un fuoco in particolare sugli amministratori locali alle prese con l’adozione di uno stile cooperativo, con politiche di rete e con le due contrapposte ideologie della difesa dell’ambiente e della crescita economica. L’approfondimento conoscitivo delle dinamiche di interazione presenti nell’area target e dello Fig.1 43 n.11 / 2005 stato dei progetti intrapresi dagli attori dello sviluppo locale viene considerato come un presupposto fondamentale per dare una rappresentazione dell’area più che in termini di omogeneità, in termini di integrazione e di sistema. 2.1 Alcune considerazioni generali su “abiti simbolici” radicati L’area territoriale identificata dal Piano di Sviluppo Locale del GAL patavino (fig. 1) si presenta interessata e attraversata da profondi cambiamenti che riguardano la trasformazione delle destinazioni d’uso della terra e dell’organizzazione delle attività, degli stili di vita. Quali usi e attività fanno un territorio “rurale”? In che senso, in quest’area, siamo al contempo a fronte di una perdita e di un recupero - nuova acquisizione - di fattori di “ruralità”? La realtà e gli scenari futuri della previsione delle nuove espansioni produttive e residenziali, in molti Comuni, l’emergere di preponderanti funzioni turistiche, la costruzione di nuovi grandi arterie della comunicazione e della circolazione, l’entrata in gioco di nuovi attori che non appartengono al settore primario e spesso nemmeno a quello secondario, come possono stare dentro la “cornice del rurale” e con quali nuovi significati e strategie di azione? Questa domanda non è irrilevante poiché, in generale, le politiche europee per l’agricoltura vanno sempre più movendosi verso l’indirizzo di politiche di sviluppo rurale, dove la capacità di innovazione, l’assunzione di uno stile cooperativo e partecipativo, la programmazione a monte degli interventi nei singoli settori, il decentramento, sono aspetti salienti della politica. Se sarà sempre più rilevante la capacità di un territorio di rappresentarsi come “rurale”, quest’area deve cominciare a porsi il problema di valutare criticamente e produrre consapevolezza in merito alle trasformazioni in corso, per sapere nuovamente costruire la rappresentazione di sé come “rurale”. Con una premessa: non è detto che tutto ciò che di nuovo accade, sia foriero di innovazione; spesso diviene invece vettore per il ripristino di vecchie cornici per l’azione, di comportamenti e di 44 routine che si credevano fuori discussione, tanto nell’agire amministrativo quanto in quello economico (il riferimento è ad alcune dinamiche che sono conseguite all’annuncio del prolungamento della Valdastico Sud, su cui ci soffermeremo di seguito). Questo punto va chiarito con riferimento a quanto è emerso dalla ricerca: le logiche parziali dei Comuni stanno spingendo verso lo sviluppo di un numero di aree produttive artigianali e industriali eccessivo rispetto alle condizioni di crisi dell’economia (cosa che fa presupporre un fenomeno di trasformazione del rapporto tra imprese che producono per il mercato e le imprese di terzisti); quale che ne sia la ragione (e una ipotesi sarà avanzata più avanti), il risultato in termini di logica collettiva o sociale rischia di essere praticamente disastroso. Si prospetta, in conseguenza della conclusione della Valdastico a Sud, lo sviluppo di una nuova area ad elevata urbanizzazione, con zone produttive dove prima vi erano campi agricoli, delimitata dall’autostrada A4 Brescia-Padova (tratto Vicenza-Padova), dall’autostrada A13 PadovaBologna (tratto Padova-Rovigo), dalla SS434 Transpolesana Rovigo-Verona (tratto Badia Polesine-Rovigo) e dalla A31 Valdastico Sud (tratto Vicenza-Badia Polesine - vedi fig.2 -). Quest’ultima autostrada separerà i Colli Euganei dai Colli Berici (passando per i Comuni Torri di Quartesolo, Longare, Montegalda, Montegaldella, Castegnero, Nanto, Mossano, Barbarano, Alettone, Agugliaro, Noventa Vicentina, Poiana Maggiore – per la provincia di Vicenza – Rovolon, Ospedaletto, Saletto, Santa Margherita, Megliadino San Fidenzio, Megliadino San Vitale, Piacenza d’Adige, Montagnana - per la Provincia di Padova -, Badia Polesine, Lendinara, Canda – per la Provincia di Rovigo). Il Parco Colli Euganei appare destinato a diventare l’area verde di una nuova area di espansione insediativa e produttiva policentrica cresciuta quasi completamente priva di controllo (proprio perché il fenomeno non è ancora stato posto con chiarezza all’attenzione degli attori politici locali o regionali). Il tutto in un momento in cui la stessa Regione si rende consapevole della crisi definitiva del “modello di sviluppo veneto” consolidato Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti Tracciato della Valdastico Sud Fig.2 45 n.11 / 2005 (quello dei “capannoni”) e propone una reinversione dei processi insediativi verso lo sviluppo sostenibile. Lo sviluppo sostenibile ha molto a che fare con politiche dell’Unione Europea. La Strategia della Commissione Europea per lo sviluppo sostenibile (2001), il Libro Bianco della Commissione Europea sulla Governance (2002), la Comunicazione della Commissione sull’orientamento di base per la sostenibilità del Turismo Europeo (2003), il Programma d’Iniziativa Comunitaria Leader+ per lo sviluppo rurale, sono tutti documenti e politiche che come approccio allo sviluppo sostenibile promuovono in primo luogo le occasioni e la capacità di cooperazione, tra istituzioni e tra settori di politiche, di fare-rete, di sviluppare il dialogo come confronto tra diversi punti di vista e diverse pratiche e l’interazione, in tutte le forme in cui si può dare. L’approccio integrato risulta essere la chiave di quest’orientamento allo sviluppo sostenibile e della programmazione. La politica per lo sviluppo sostenibile, nel nostro Paese come in quest’area, in particolare nel campo ambientale, sembra funzionare e produrre qualche risultato configurandosi come politica regolativa e procedendo per “bastoni e carote”, cioè, con l’imposizione di vincoli normativi e tasse, con incentivi e premi per chi accetta di intraprendere un nuovo percorso. Ma questa modalità, queste tecniche, sono di per se stesse sufficienti per sviluppare una nuova coscienza diffusa e condivisa, per consentire la svolta – lo slittamento della nostra percezione - a livello cognitivo e delle pratiche di azione territoriale? Questo era l’obiettivo dell’indagine e si è trovato qualcosa su questa direzione. In particolare, un obiettivo cruciale era quello di riscoprire, anche attraverso le filiere, la pratica della cooperazione. Contrariamente alle aspettative, sono emersi, in gran parte dell’area target del GAL patavino, i pesanti effetti dei processi di metropolizzazione e/o di urbanizzazione diffusa ricorrenti nelle aree più sviluppate del NordEst. E soprattutto si sono ritrovate logiche parziali (di settorializzazione) che, singolarmente considerate possono anche apparire razionali, ma nell’insieme producono risultati incontrollabili (di frammentazione e di- 46 spersione) e non desiderati. In questo contesto, la posta in gioco che offre il GAL patavino è forse poco rilevante dal punto di vista materiale (finanziario), rispetto a molte altre politiche, ma può essere rilevante dal punto di vista simbolico. Qui, tuttavia, ci si deve confrontare con l’incertezza del ruolo del GAL che è l’unico tavolo di negoziazione dove si incontrano le associazioni di categoria con gli enti pubblici del territorio, ma che incontra delle difficoltà nel tentativo di orientarsi in modo da generare sinergie verso altri progetti che promuovono iniziative di messa in rete e di sviluppo del capitale endogeno. L’ambiguità del GAL patavino sta nel fatto che è, insieme, non solo una società che gestisce delle risorse limitate, ma anche l’unione di nove attori pubblici e privati. Molte di queste organizzazioni avevano potere, un tempo, come gruppi di pressione politica (e forse ne hanno ancora singolarmente considerate), ma non riescono a costituire una forza di pressione come collettivo. In questo senso il GAL patavino, per quanto costituisca una associazione formalizzata, fa fatica a produrre e consolidare processi virtuosi di mutua collaborazione o sinergie tra i soci. Questo è notato dai sindaci dei Comuni dell’area target che si aspettano dal GAL patavino solo contributi per piccole iniziative e nessuna risorsa, né economica e nemmeno politica, per affrontare i grossi problemi delle aree in cui operano. La conseguenza è che l’area target appare come un luogo in cui nessuno cerca di inserire le strategie di sviluppo dei singoli Comuni in una strategia collettiva. Questo è particolarmente preoccupante se si pensa che molte delle associazioni di categoria che costituiscono il GAL patavino sono relative all’agricoltura o all’artigianato, cioè ai settori nei quali i fenomeni macroscopici che sono descritti si stanno manifestando e sui quali finiranno per gravare in prospettiva. Abbiamo riscontrato, inoltre, una certa presenza di grosse aspettative nei confronti del GAL patavino laddove non vi fossero attori che avessero creato attese sulla capacità di cooperazione dei Comuni. Il riferimento è ai Colli Berici dove la Provincia di Vicenza si è mostrata poco attiva e, quindi, ci si aspetta che il GAL patavino costituisca un’occasio- Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti ne per sviluppare nuove forme di cooperazione o, comunque, un modo di uscire da situazioni che sono percepite come di marginalizzazione e isolamento. Al contrario, invece, si riscontra uno scarso appeal del GAL patavino in aree come quella della bassa padovana dove la Provincia di Padova si è mostrata attiva, anche se i risultati non sono stati quelli che ci si sarebbe aspettato, e anche se gli stessi intervistati ammettono che la Provincia coinvolge nel senso che comunica le decisioni prese per tutti, ma non ascolta e non accoglie le esigenze che partono dal basso. Un metodo che, come si dirà più avanti, ha contribuito a che non si notasse il processo di sviluppo in atto in un territorio molto vasto (il nuovo quadrilatero Vicenza-PadovaRovigo-Piacenza d’Adige) destinato, probabilmente, a costituire un’area in cui si ripeteranno gli stessi problemi già riscontrabili nel quadrilatero Padova-Vicenza-Treviso-Mestre. te esistenti tra amministrazioni comunali, viste come organizzazioni formali o come vettori dell’azione di singoli – sindaci, funzionari - che si occupano delle politiche comunali e che svolgono vari “ruoli di rete” (di comunicazione, costruzione di accordi, valutazione, mobilitazione, etc.). Alcuni di questi li abbiamo individuati e intervistati. Alcune opportunità e vincoli di natura esogena (è il caso ad esempio della legge nazionale che incentiva le forme di associazioni tra Comuni), possono innescare o favorire la formazione di reti territoriali che saranno poi più o meno attive e feconde, a seconda che gli attori coinvolti adottino strategie creative di progettazione e mettano in gioco altre risorse (seguitando con l’esempio di cui sopra, per questo alcune Unioni di Comuni si limitano alle forme della gestione congiunta di servizi, mentre altre diventano attori di politiche territoriali). A volte, alcune esperienze di associazione e collaborazione sono definite “reti” dall’osservatore esterno, mentre coloro i quali ne sono coinvolti non si vedono come “soggetti in rete” (possono essersi formate su una singola issue, per l’implementazione di una politica, etc.). La prima evidenza è che i Comuni dell’area-target si presentano già in rete, su di una serie di progetti e di attività specifiche che condividono. Spesso, uno stesso Comune, appartiene contemporaneamente a più reti, piuttosto diversificate, il che richiede l’impegno di risorse ingenti di tempo, di competenza, di organizzazione. Ne riportiamo di seguito alcuni esempi, per procedere poi alla trattazione di alcuni casi paradigmatici (riscontrati tra i Comuni dell’area). 3. Reti di relazione territoriale dell’area target e nuove forme di amministrazione pubblica Una parte della ricerca è stata orientata alla mappatura delle reti di relazione che coinvolgono Comuni dell’area target e alla ricostruzione delle possibili tipologie di rete, considerando il maggiore o minore grado di istituzionalizzazione con cui si presentano. L’operazione di mappatura è funzionale alle indicazioni del tema catalizzatore del PSL mirate ad incrementare l’interazione tra settori di intervento pubblico ed attori economici dell’area. È riconosciuta l’importanza che le reti informali, come tessuto di reciprocità, hanno avuto nel sistema produttivo e sociale del Veneto e nella configurazione del “modello del Nordest”. In anni recenti, le reti di relazione territoriale sono diventate una risorsa strategica da giocare nelle politiche pubbliche e sono, con sempre maggiore consapevolezza, ritenute necessarie per il successo di azioni che abbiano per obiettivo di “catalizzare” le energie (imprenditoriali, politiche) diffuse, di attivare processi di apprendimento sociale e di promuovere la diffusione di pratiche, lo scambio di esperienze e la socializzazione del cambiamento. La ricerca ha tentato di esplorare le reti informali o istituzionalizza- 3.1 Primo esempio: le Unioni di Comuni Le prime Unioni si sono formate a partire dal 1995, pur essendo state introdotte dal legislatore con la legge dell’8 giugno 1990, n. 142 che prescrive che, in previsione di una loro fusione, due o più Comuni contermini, appartenenti alla stessa provincia, ciascuno con popolazione non superiore a 5000 abitanti, possono costituire una Unione; può anche far parte dell’Unione non più di un Comune con popolazione tra i 5000 e i 10.000 abitanti; all’Unione competono le tasse, le tariffe e i contributi dalla stessa 47 n.11 / 2005 gestiti. Il Veneto è stata una Regione che ha svolto un ruolo di avanguardia nell’utilizzare le opportunità offerte da questa legge. La legge del 3 agosto 1999 n. 265 prevede disposizioni in materia di autonomia e ordinamento degli Enti Locali nonché modifiche alla legge 142 e chiarisce il ruolo delle Regioni nel favorire il processo di organizzazione sovracomunale dei servizi. Con questa legge vengono dettati criteri nuovi diretti ad escludere dalla ripartizione dei fondi statali i Comuni con popolazione superiore ai 30.000 abitanti. Un successivo atto legislativo di riferimento è stato il T.U. delle leggi sull’ordinamento degli Enti Locali approvato con il D.L. 18 agosto 2000, n. 267. Il Decreto del Ministero dell’Interno, in data 1 settembre 2000, n. 318, disciplina la ripartizione dei contributi spettanti ai Comuni istituiti a seguito di procedure di fusioni, alle Unioni di Comuni e alle Comunità Montane svolgenti l’esercizio associato di funzioni comunali. Segue, poi, il Decreto 2 luglio 2001 del Ministero dell’Interno per la determinazione del contributo erariale da attribuire alle Unioni di Comuni e alle Comunità Montane svolgenti l’esercizio associato di funzioni. L’ultimo atto normativo è del 2004, con uno schema di decreto del Consiglio di Stato, per apportare modifiche al Decreto 1 settembre 2000, che ha per scopo quello di tener conto delle esperienze maturate negli anni e di ovviare, visto i limitati fondi stanziati, agli squilibri derivanti dalla corresponsione di contributi ad Unioni cui partecipano enti di rilevanti dimensioni demografiche e di rafforzare la garanzia che i contributi statali vengano attribuiti alle Unioni di Comuni che effettivamente necessitano di risorse. Questo per favorire i piccoli Comuni. Il futuro dell’Unione di Comuni è un tema fortemente sentito e sono in corso varie indagini che tentano un bilancio delle esperienze fin qui compiute, promosse da vari enti (tra cui l’ANCI Veneto). È in questo quadro di attenzione che abbiamo considerato lo stato delle Unioni in questa parte di territorio. Quindici dei quarantadue Comuni costituenti l’area target sono compresi in Unioni di Comuni (si tratta di sette Unioni) che rappresentano una formula associativa di una certa rilevanza; ad esempio, nella vicina provincia di Rovigo troviamo un 48 solo caso di Unione, pur nella prevalenza di Comuni di piccole e piccolissime dimensioni. Il primo elemento di rilievo che emerge da una riflessione su questo tipo di formalizzazione di relazioni cooperative, è che, comprendendo le Unioni, in alcuni casi, anche Comuni non appartenenti all’area target, queste Unioni costituiscono reti che vanno al di là del territorio di riferimento del Piano di Sviluppo Locale. Un primo esito atteso delle Unioni è di migliorare e diversificare l’offerta di servizi ai cittadini, secondo parametri amministrativi di efficienza e di qualità. Un secondo elemento di rilievo è costituito dal tipo di esperienza gestionale che, attraverso le Unioni, i piccoli Comuni possono maturare: se è vero che la trattabilità di alcuni problemi non è più pensabile nella ristretta dimensione comunale, la soluzione delle Unioni è, sul piano sperimentale, uno strumento innovativo da utilizzare per affrontare problemi che altrimenti non potrebbero essere affrontati a livello locale. Questa delle Unioni è anche una via per formare competenze di tipo amministrativo, finanziario e di tipo contrattuale (nel senso che chi vi partecipa fa esperienza del metodo della concertazione territoriale). Inoltre, abitua molti amministratori e funzionari a non pensare nella dimensione della scala dei mille abitanti, ma a ragionare nei termini di una più ampia scala, a non ragionare da soli, ma tra “pari” (gli altri sindaci, gli altri funzionari, etc.). Riferendoci ai Comuni compresi nell’area-target e situati nel territorio della Provincia di Padova, il Comune di Battaglia Terme (assieme ai Comuni di Cartura, Due Carrare, Casalserugo, Maserà di Padova), fa parte dell’Unione di “Padova Sud”, che conta 29.077 ab. I Comuni di Urbana, Masi, Castelbaldo (assieme a Casale di Scodosia, Merlara) formano l’Unione “della Sculdascia”, con 13.615 ab. Boara Pisani e Vescovana hanno costituito da sole un’Unione, con 4.110 ab. Baone, Cinto Euganeo, Arquà Petrarca formano un’altra Unione ancora. Terrazzo, sito nel territorio della Provincia di Verona, si trova compreso nell’Unione “dell’Adige-Fratta” (con i Comuni di Bevilaqua, Bonavigo, Boschi Sant’Andrea, Minerbe, Sant’Anna), che conta 11.930 ab. I Comuni di Megliadino San Fidenzio, Megliadino San Vitale Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti formano (assieme a Saletto, Santa Margherita d’Adige) l’Unione della “Megliadina”, che conta 8.579 ab. I Comuni di Grancona, San Germano dei Berici, Zovencedo, compresi nel territorio della Provincia di Vicenza, compongono l’Unione “Colli Berici Val Liona”, con 3.655 ab. Alcune Unioni funzionano al momento secondo una logica di razionalizzazione e messa in coerenza del quadro delle risorse e di alcune funzioni, con la prevalente finalità di condividere i costi di attività di tipo amministrativo (a partire dal personale, che lavora a turni nei Comuni dell’Unione), godere di più competenze tecniche, per variegare l’offerta dei servizi, migliorare il sistema di raccolta dei rifiuti, il servizio di vigilanza municipale o di trasporto pubblico. Altre si sono più spiccatamente orientate a costituirsi non solo come strumenti di gestione, ma anche come occasioni di incontro e di riflessione congiunta sulle condizioni del territorio, nonché di sinergia per la partecipazione ad altri progetti, ove occorra presentarsi in più Comuni. Ad esempio, l’Unione dei Comuni della Sculdascia ha creato, tra gli amministratori, occasioni per nuove forme di cooperazione (il progetto di distretto produttivo; azioni per la valorizzazione del territorio). La stessa cosa è successa nell’ambito dell’Unione dei Colli Berici Val Liona. Dalle interviste raccolte emerge una valutazione piuttosto positiva dell’esperienza delle Unioni, per quanto sia molto diffusa l’enfasi sulla fatica del percorso di amalgama e di realizzazione concreta degli accordi, da un lato, e, dall’altro, si sottolineino le incertezze per il futuro, previste alla chiusura della fase di finanziamento nazionale. Alla base del successo di una Unione si rintracciano, in genere, una serie di fattori, tra cui: le relazioni informali di amicizia e una certa atmosfera di fiducia tra i sindaci, ancor più che l’appartenenza allo stesso schieramento politico; il senso di incertezza sulle possibilità di mantenere gli standard di offerta di servizi in una fase di trasferimenti decrescenti dallo Stato agli enti locali, donde il desiderio di confrontarsi su problemi condivisi di gestione; la dimensione simile dei Comuni, così che, da parte degli amministratori, si ha la percezione di trovarsi tra “pari”; il consenso da parte anche delle opposizioni politiche in Consiglio Comunale e delle Associazioni di Categoria nel territorio. L’esperienza più rilevante, quella nella quale ci sembra di avere individuato le motivazioni più forti, è la già menzionata Unione “Colli Berici Val Liona”. Questa Unione è considerata come esemplare dal momento che ha portato alla condivisione di tutte le funzioni (con l’esclusione degli uffici che gestiscono i lavori pubblici) e non si esclude la realizzazione della fusione tra i tre Comuni. Questa Unione ha messo insieme le risorse di cui singolarmente i Comuni sono dotati (le prospettive di riutilizzo delle cave in galleria, i vecchi molini, l’ingente patrimonio boschivo che, nel caso di Grancona e Zovencedo copre la quasi totalità della superficie, i beni architettonici e altre risorse ambientali) in progetti di valorizzazione del territorio. Tuttavia, la logica cooperativa dell’Unione non sempre è stata riconosciuta a livello istituzionale e soltanto le pratiche informali di fruizione dei servizi sul territorio hanno aiutato lo svilupparsi di una realtà di fatto intessuta di frequentazioni e relazioni. Per esempio, le Chiese dei tre Comuni fanno parte di diversi vicariati. Questa situazione evidentemente frutto di decisioni precedenti e oramai inattuali rispetto alle logiche territoriali in atto che vanno verso l’integrazione piuttosto che la divisione, viene di fatto bypassata dalle pratiche d’uso della popolazione locale. La gente si muove, per le funzioni, da una Chiesa a un’altra indipendentemente dai Comuni in cui risiede (infatti nelle frazioni, varie chiese non hanno un parroco stanziale). Gli stessi parroci hanno un ruolo di rilievo nella comunità e collaborano con i Comuni nella diffusione delle notizie importanti. Un problema recentemente emerso è che, nel realizzare i circondari, i tre Comuni dei Colli Berici sono stati inseriti, dalla Provincia, in due circondari diversi (tra l’altro, spaccando in due il territorio dei Colli Berici) per motivi di rispetto dei collegi elettorali esistenti. Le amministrazioni comunali non sono riuscite a far modificare la decisione. In sintesi, questa Unione non è motivata unicamente da ragioni funzionali, ma ad essa portano spinte più profonde e di diversa provenienza (che non sempre vengono riconosciute a livello istituzionale e, a volte, vengono contrastate con decisioni burocratiche che non tengono conto delle pratiche sociali prevalenti). 49 n.11 / 2005 Tra le motivazioni che spingono i piccoli Comuni ad associarsi, vi è anche l’interesse ad appartenere a un circuito dove vi è un Comune più forte nelle relazioni territoriali e può esercitare un ruolo di apripista; in queste reti cercano di inserirsi anche Comuni che, altrimenti, rimarrebbero isolati (un esempio è quello del Comune di Masi dove l’appartenenza all’Unione ha contribuito a controbilanciare il rapporto di dipendenza che si era instaurato, nel tempo, con la vicina Badia Polesine, di cui Masi tendeva a sentirsi sempre più una succursale). Se quella dell’Unione è una formula organizzativa e gestionale, cui sono ricorsi molti Comuni dell’area target, tuttavia la condivisione in alcuni casi è stata limitata a servizi di tipo tecnico-amministrativo per diminuire i costi e in pochi altri si estende a una più ampia serie di utilità: servizi sociali (assistenza agli anziani, servizi sanitari, assistenza a domicilio, etc.), trasporti collettivi comunali e intercomunali (scuolabus, pulmini per attività sportive o ricreative per i giovani, ambulanze, etc.), raccolta rifiuti, etc. Per esempio, nell’ambito dell’Unione dei Comuni della Sculdascia, la raccolta dei rifiuti organizzata con il sistema “porta a porta” ha portato ottimi risultati nel giro di poco tempo. In generale, le Unioni sembrano funzionare adeguatamente, tanto che si possono individuare singole aree territoriali che possono essere pensate come ambiti di programmazione territoriale, e le aspettative sono di estendere la cooperazione dal piano della gestione degli interessi economici e dei servizi alla costruzione di una visione dello sviluppo turistico delle zone e a politiche culturali e di valorizzazione delle risorse del territorio. Un’altra prospettiva da considerare è lo sviluppo di capacità delle Unioni di rappresentarsi all’esterno come attore collettivo unitario, il che rafforza le posizioni di contrattazione con gli Enti sovraordinati. Per questa via le Unioni potrebbero proporsi come modalità di collaborazione non finalizzate a singoli scopi di fornitura di servizi, ma veri e propri attori di livello sovra-comunale, che producono identità nuove fondate sulla condivisione di esperienze concrete e non solo di intenzioni. Nella prospettiva del Piano di Sviluppo Locale del GAL Patavino, alcune Unioni di Comuni potrebbero essere prese in considerazione come reti cui fare riferimento 50 per innescare, attraverso l’implementazione e la partecipazione a qualche azione concreta nel territorio, relazioni con altri soggetti di politiche del territorio e in rapporto ad altre finalità. Molti Comuni non hanno formato Unioni, per ragioni di diverso tipo (per es., non sono riusciti a raggiungere un’intesa ed un accordo soddisfacenti) e hanno solo stipulato forme di convenzione e di accordo per la condivisione di singoli servizi. Ad esempio, il Comune di Barbona ha intrapreso la strada della gestione congiunta di singoli servizi tecnici-amministrativi con i Comuni di Lusia, Sant’Urbano e Frassinelle nel Polesine. Arre assieme con Anguillara, Bagnoli di Sopra, Terzetto e Tribano condividono la polizia municipale e sempre Arre condivide con il solo Bagnoli di Sopra la raccolta di rifiuti. Valutando comparativamente i casi di Unione costituiti con successo o meno, con i casi di Comuni che hanno preferito evitare l’esperienza formalizzata delle Unioni e hanno stipulato convenzioni per singoli servizi, si può trarre una indicazione di carattere più generale: alcuni Comuni hanno preferito mantenersi dentro la logica, ben sperimentata nel NordEst da ormai oltre un secolo, delle organizzazioni consortili per affrontare cooperativisticamente singoli problemi (l’acqua, i rifiuti, etc.), mentre una buona percentuale di altri Comuni hanno pensato che l’esperienza maturata nelle pratiche consortili (che nel caso dei Comuni consistono, spesso, nel portare fuori dall’amministrazione, dandosi una organizzazione privatistica, soluzioni a problemi anche di interesse pubblico e tradizionalmente oggetto di mediazione politica) potesse essere mantenuta dentro l’amministrazione e affrontata con gli strumenti tipici del diritto pubblico, ma solo in organizzazioni più ampie (le Unioni di oltre cinquemila abitanti e non i Comuni di mille o ancor meno abitanti). Su questo aspetto si ritornerà più avanti, ma è evidente che si tratta di un punto nodale che rispecchia due diverse concezioni della cultura politica: quella che affronta la sussidiarietà preferibilmente con gli strumenti societari del diritto privato, portando alcune questioni amministrative fuori dall’amministrazione in senso stretto, e quella che affronta la sussidiarietà preferibilmente con gli strumenti associa- Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti tivi del diritto pubblico, facendo rimanere le questioni amministrative dentro l’amministrazione, ma solo fornendosi di una amministrazione più grande. Naturalmente, per comodità si sono contrapposte queste due strade come alternative; di fatto esse possono anche essere utilizzate in modo complementare, avendo alcuni Comuni deciso di realizzare delle Unioni per affrontare un tipo di problemi e, insieme, aderito ad alcuni consorzi per affrontarne degli altri. molti dei quali sono adesso disponibili sul sito. Dalle interviste ai sindaci è emerso un giudizio positivo sul patto territoriale, che avrebbe consentito la realizzazione di una serie di utilità sopperendo la mancanza di attivazione in questo senso della Provincia ma, soprattutto, avrebbe costituito un’occasione per gli amministratori locali di incontrarsi e di interrogarsi sulle condizioni del territorio, di tentarne una rappresentazione in base ad un’analisi condivisa dei punti di forza e di debolezza, di conoscere e di confrontare i rispettivi punti di vista. Il filo conduttore del Patto non sembra affatto distante da quello che connota anche il PSL del GAL Patavino: l’interesse è alla valorizzazione dei prodotti di qualità, prodotti tipici “di nicchia” e delle filiere agro-alimentari (ci sono molte specialità lattiero-casearie, insaccati, ortofrutticolo fresco e conservato, ecc.; c’è il radicchio rosso e i vini doc dei Colli Berici); molta attenzione è dedicata alla tutela delle risorse ambientali, al patrimonio architettonico-culturale (ci sono delle pregevoli ville, cave, etc.) e alle valenze paesaggistiche in equilibrio con la promozione delle attività turistiche. 3.2 Secondo esempio: reti da politiche concertative Reti territoriali informali tra soggetti pubblici e privati possono essere sostenute e rafforzate, quanto inibite, per effetto di politiche pubbliche (nazionali, europee, etc.) di intervento sul territorio. Altresì, politiche di tipo concertativo e partecipativo – pensiamo agli strumenti della programmazione negoziata o ai Programmi di Iniziativa Comunitaria – possono promuovere l’organizzazione di reti e associazioni anche formalizzate tra Comuni e tra amministrazioni comunali e altri attori del territorio. In particolare, quasi tutti i Comuni dell’area-target sono stati coinvolti dall’implementazione di uno o più patti territoriali, con esiti molto diversi. Si tratta di politiche che sono condotte secondo approcci partecipativi e cooperativi. Il Patto Territoriale Area Berica I novi Comuni del Vicentino sono stati interessati dall’implementazione del “Patto Territoriale Area Berica”, che si è formalizzato nel 2000 con la realizzazione di un Protocollo d’Intesa e di un Tavolo di Concertazione cui hanno aderito 24 Comuni del Vicentino, la Provincia di Vicenza, le Associazioni sindacali dei lavoratori, le Associazioni di categoria dell’artigianato, dell’industria e del commercio di Vicenza (il Comune di Noventa Vicentina è stato incaricato di fare da capofila). Nel 2001 è stata firmata una Convenzione tra Sindaci come accordo per l’attivazione e la gestione dello Sportello Unico in forma associata tra i 24 Comuni; si è provveduto anche all’informatizzazione dei PRG Comunali, I due Patti Territoriali (generalista e dell’agricoltura) della Bassa Padovana I Comuni dell’area-target che ricadono nel territorio della Provincia di Padova sono per lo più compresi nei due patti territoriali della Bassa Padovana, che vedono come soggetto responsabile la Provincia di Padova. Il Patto Territoriale Generalista della Bassa Padovana, attivato nel 2001, vede assieme, oltre alla Provincia di Padova, 46 Comuni su 104 della Provincia di Padova (23 comuni dell’area target ne risultano compresi), le Associazioni Imprenditoriali e del Lavoro, il Sistema Bancario Locale. Questo Patto è servito soprattutto per finanziare investimenti infrastrutturali e alcuni Comuni dell’area-target ne sono stati beneficiari (come nel caso di Castelbaldo, di Sant’Urbano, di Monselice, di Megliadino San Fidenzio e di Megliadino San Vitale, di Tribano, di Bagnoli di Sopra). Gli interventi andavano dalla valorizzazione delle aree naturalistiche ad itinerari turistici, al recupero di edifici, alla costruzione di svincoli stradali. Per fare un esempio, nel caso del Comune di 51 n.11 / 2005 Castelbaldo, attraverso l’adesione ai patti territoriali, sono stati realizzati una serie di progetti di recupero (sistemazione dell’area golenale; di un ex casello idraulico; del Bacino Spazzolare; azioni di rimboschimento e recupero dello Scolo Fossetta). Più in generale, dalle interviste effettuate, emerge come la valutazione dell’impatto di questa politica nel territorio non abbia suscitato grandi entusiasmi presso gli amministratori. Il Patto non ha innescato l’attivazione di reti di relazioni territoriali né l’elaborazione di una visione comune del territorio, né ha diffuso una cultura della programmazione: a detta dei più, si è risolto nella realizzazione di una serie di singoli interventi al di fuori di una concezione generale dello sviluppo dell’area e di una riflessione sulle strategie future. Il Patto Territoriale specializzato in Agricoltura della Bassa Padovana, sempre del 2001, ha coinvolto 51 Comuni dei 104 della Provincia di Padova (e 22 Comuni dell’area-target compresi negli ex-mandamenti di Montagnana, Este, Monselice, Conselve), ha avuto come soggetto responsabile la Provincia di Padova e l’interessamento delle Associazioni imprenditoriali e del lavoro, del Sistema bancario locale. Pur caratterizzato, nelle intenzioni generali, alla promozione di filiere vitivinicole e ortofrutticole, del sistema agro-alimentare, e alla tutela dell’ambiente, alla fine è consistito nel finanziamento di 26 imprese e dalle interviste non risulta che abbia generato l’innesco di circoli virtuosi di rete tra imprenditori ed Enti Locali, o altri soggetti di politiche locali. Ad una prima valutazione sembra di poter concludere che l’esperienza di implementazione dei due Patti nella Provincia di Padova si presenta abbastanza distante da quelle che sono le finalità e gli orientamenti del Piano di Sviluppo Locale del GAL Patavino, pur nella cornice della apparente condivisione di temi comuni. Queste che dovrebbero essere pratiche di concertazione e di sperimentazione di metodologie di programmazione e di messa in rete delle politiche e degli attori non hanno in realtà prodotto integrazione nel territorio, ma hanno piuttosto contribuito al radicamento di logiche preesistenti, tipicamente distributive. 52 Quindi, non sembra che sia possibile perseguire la strada dell’attivazione di queste reti di attori attraverso nuovi progetti, proprio perché le reti sono più formali che effettive. Nel Caso del Patto dell’Area Berica, invece, una simile ipotesi potrebbe essere presa in considerazione. Il Patto Territoriale del Basso Veronese I due Comuni dell’area-target compresi nel territorio della Provincia di Verona, risultano fare parte del Patto Territoriale del Basso Veronese (che tuttavia è partito piuttosto tardi e di cui, al momento della realizzazione della ricerca, non si disponeva di materiale empirico per la valutazione). Un’opera che ha una valenza di tipo infrastrutturale, ma anche simbolica, e che sarà realizzata grazie al contributo del patto è il ponte tra Terrazzo e Carpi di Villa Bartolomea. Villa Bartolomea è un Comune della provincia di Verona e appartenente all’area target del GAL patavino, che si trova dall’altra parte dell’Adige, dove passa la strada da Ovest a Est più facilmente percorribile. Questo dà al Comune un vantaggio competitivo perché, nella bassa padovana, una strada parallela o quasi (lungo la direttrice Ovest-Est) è quella di Montagnana-Este-Monselice fortemente intasata e solo lentamente percorribile in molte ore della giornata. Il Comune di Terrazzo, anch’esso della provincia di Verona, aspira quindi a un ponte che lo colleghi direttamente a Villa Bartolomea e di fatto alla Transpolesana oltre l’Adige. A questo obiettivo Terrazzo dedica molte energie, ormai da tempo, e sulla sua realizzazione sta maturando molte aspettative. Più precisamente, la realizzazione del ponte risulta tra le opere pubbliche da realizzare nel 2002-05. Il finanziamento è sostenuto per quasi la metà della cifra dalla Regione (+ di 5.000.000). Circa 774.000 euro provengono da Terrazzo (e la cifra rappresenta un investimento consistente data la popolazione di poche migliaia di abitanti), da Villa Bartolomea (516.000 euro) e dal Comune di Castegnaro (258.000 euro). Il resto della cifra proviene dalle rinunce dei progetti non realizzati che si trovavano in posizione precedente nella graduatoria iniziale del patto territoriale. Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti Progetti Strategici e PTCP rimentale finalizzata al miglioramento della qualità ambientale territoriale. Nell’ambito di questo “spazio laboratoriale”, sono previste iniziative congiunte tra soggetti coinvolti nelle politiche per l’ambiente, così come si dovrebbero promuovere strategie partecipative. Il PTCP è atteso come una nuova occasione nel senso che manca ancora una definizione del coordinamento urbanistico e dei PRG, che, come vedremo di seguito, si rende urgente nell’area-target. Questa situazione, in parte, si sta sbloccando con la definizione della legge urbanistica regionale, da tempo attesa, che è comunque orientata a porre al centro della pianificazione del territorio i Comuni. Anche in questa prospettiva, è indispensabile lavorare nella direzione di una maturazione della cultura e dei modi di operare nel territorio degli amministratori locali. Altre ‘reti’, potrebbero essere considerate i tanti tavoli di discussione nati ad esito dell’elaborazione del Progetto Strategico della Provincia di Padova, che come aspirazione ha proprio quella di produrre conoscenza del territorio attraverso l’interazione dei suoi attori-chiave (individuati in un percorso analitico) e di qui muovere all’elaborazione di strategie congiunte di sviluppo. Il tema della sostenibilità dello sviluppo è considerato uno dei principali su cui richiedere con varie modalità uno sforzo comune. Tuttavia, la valutazione di che cosa è il Progetto Strategico ed il percorso della sua realizzazione è piuttosto diversa a seconda che venga prodotta come riflessione all’interno della stessa Provincia o dei Comuni che ne sono stati interessati. Dalle interviste, emerge che i Comuni hanno opinioni differenti sul Progetto Strategico (su ciò che è, su come è…) così come ne fanno una differente valutazione in termini critici, se la prospettiva è quella di produrre valore aggiunto sul territorio. La sensazione è che gli amministratori abbiano effettivamente vissuto diversamente la propria esperienza di partecipazione alla costruzione di questa politica, nei fatti e nelle loro proprie cornici interpretative e di senso; la cosa non si presenta scissa dal fatto che è prevalente una valutazione positiva dell’operato della Giunta Provinciale e in particolare del Presidente. Nel caso dei patti territoriali sopra-menzionati, tuttavia, questo meccanismo non si osserva in alcun modo. Il Progetto Strategico complessivamente appare come una potenzialità da sondare, nell’attivazione di reti e di iniziative sul territorio, nella prospettiva del Piano di Sviluppo Locale del GAL Patavino. Per esempio, altre ‘reti’, più informali, si stanno costituendo nella “bassa padovana”, tra amministratori locali, nella forma di tavoli di discussione che riguardano temi pensati come problemi comuni, su cui andrebbero individuate soluzioni comuni: così, alcuni sindaci ci hanno segnalato un tavolo sui temi dell’urbanistica e uno su quelli dell’ambiente. Un’altra possibilità che si apre è quella del Progetto preliminare del PTCP, che ha messo su un laboratorio “buone pratiche”, come azione spe- 3.3 Terzo esempio: le reti consortili Quello che qui si vuole indicare per rete consortile è una associazione mediante la quale più soggetti, che esercitano attività simili o complementari, coordinano, disciplinano o mettono in comune alcune fasi dell’attività che già svolgono o istituiscono appositamente una nuova iniziativa con il concorso di tutti i soci. Vi è il semplice consorzio tra soli attori economici (per esempio il consorzio agrario tra coltivatori) o il consorzio tra soli enti locali (per esempio l’associazione tra più Comuni o tra Province o tra Province e Comuni) o il consorzio tra privati ed enti locali (per esempio un consorzio di bonifica). Ai fini della nostra indagine il consorzio tra soli attori economici è stato realizzato o tentato in varie circostanze, per esempio per realizzare la tracciabilità di un prodotto o per arrivare a un marchio o a una certificazione, soluzioni ritenute indispensabili soprattutto nei contesti di accentuata frammentazione e dispersione delle iniziative e delle energie imprenditoriali. Si è trattato di realizzare la delega di alcune funzioni a privati. Cosa che è normalmente riscontrata in molte amministrazioni e che, però, non innova le amministrazioni stesse. Con la gestione di alcuni servizi attraverso la formula dell’appalto si trasferisce soltanto al di fuori dell’amministrazione locale una qualche fun- 53 n.11 / 2005 zione amministrativa. Alcuni esempi sono stati riscontrati ad Agna dove sono stati realizzati il Consorzio Bacino Padova 4 per la raccolta differenziata e vari accordi per la gestione di servizi (in particolare l’acquedotto). Un interessante tipo di rete consortile è quella che unisce insieme più enti locali o soggetti pubblici e privati per la realizzazione di qualcosa che, generalmente, viene affidata alla gestione dell’ente locale. Sono esclusi dall’essere fatte rientrare in questo tipo di reti le Unioni di Comuni o qualsiasi altra forma di collaborazione tra enti locali che venga realizzata attraverso la ristrutturazione delle diverse amministrazioni e non attraverso la costituzione di una società apposita che gestisca, al di fuori delle amministrazioni, le attività consorziate. Si parla di reti consortili e non di soli consorzi perché, a volte, la rete di fornitori che contribuiscono a realizzare l’attività viene gestita con accordi di programma che costruiscono una rete di fornitori, di distributori, di utilizzatori di benefici che sono progettati a monte, come tende a fare ogni buona amministrazione pubblica. Una delle risorse che maggiormente abbondano nel NordEst sono le capacità imprenditoriali che portano, a volte, dentro le amministrazioni lo stesso spirito che fa prosperare le imprese. Per esempio: il Comune di Tribano parte con l’obiettivo di realizzare una piscina riscaldata e scoperta, oltre a vari altri servizi sportivi, sapendo che può riuscire a trovare, in qualche piega dei bilanci regionali o provinciali, un finanziamento per realizzare questo progetto. Poi, però, si pone il problema che la piscina costa e potrebbe incidere notevolmente sul già magro bilancio del Comune. Quindi, per realizzare questo iniziale progetto, decide di pensare ancora più in grande e proporre un sistema di produzione di energia con l’attività di riscaldamento che funzioni a biomassa (la trasformazione in biomassa dovrebbe prevenire l’effetto-vento sulle sementi e l’impatto ambientale sarebbe “a pareggio” perché l’anidride carbonica che una pianta ha assorbito per crescere viene restituita al momento della combustione). Il Comune realizza che occorrono vari milioni di Euro per questo progetto e che solo in parte possono essere trovati nelle pieghe dei bilanci degli enti pubblici. Un milione, per esempio, 54 viene trovato nei fondi UE assegnati alla Regione Veneto per contributi alle nuove iniziative per produrre energia (su 14 milioni gestiti dalla Regione, Tribano ne ha ricevuto uno e spera che, non riuscendo la Regione a trovare progetti credibili per spendere tutti i soldi, un’altra parte delle quote restanti possano essere aggiunte al milione per lo stesso progetto). Il Comune, infatti, deve trovare quanti più finanziamenti è possibile e recuperare, dai privati, il resto della cifra fino a coprire 7,5 milioni di Euro. Naturalmente, ricorrere a finanziamenti di privati significa coinvolgere i privati non solo nelle spese, ma anche nei profitti che se ne possono ricavare e questo può essere realizzato solo attraverso una società di cui sia azionista anche il Comune. Inoltre, vi sono altri vincoli che devono essere rispettati perché, per legge, non è possibile che una società qualsiasi produca energia e la utilizzi in proprio (per scaldare la propria piscina). L’energia elettrica prodotta deve essere immessa nella rete ENEL e, poi, ricomprata dall’ENEL. Più il progetto si precisa, più diventa complesso e maggiore è il numero degli attori che devono essere coinvolti, fin quando il progetto non diventa credibile agli occhi di molti che, all’inizio, erano scettici. Da quel momento in poi, sono gli stessi aspiranti a contribuire al progetto e a presentarsi offrendo, per esempio, le biomasse da utilizzare come combustibile (problema di non facile soluzione perché se si utilizza il legno con una coltivazione creata appositamente, occorrono sette anni per ottenere il combustibile e per quei sette anni bisogna dare degli anticipi agli agricoltori, etc.). Non è solo un esempio, ma è quanto ci ha raccontato il sindaco di Tribano e può anche far riflettere su quello che può essere il contributo del NordEst, nella sua capacità di rivoluzionare la tradizionale concezione dell’amministrazione: portare la soluzione di alcuni dei problemi amministrativi, al di fuori della pubblica amministrazione con lo strumento dell’attività consortile: è quanto, un secolo fa, avevano imparato a fare, nel NordEst, l’Università che insegnava la cooperazione, la politica che realizzava reti virtuose e manifestava, nell’amministrare, il buon senso tipico di chi ha capacità di intraprendere o di industriarsi e il volonta- Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti riato e le imprese che si prestavano per il valore sociale dell’opera con l’intento di realizzare il giusto profitto, non il profitto massimo possibile. Dice il sindaco di Tribano: “Siamo partiti con l’idea di creare un impianto natatorio, ma ci spaventava il fatto che questo era una struttura che aveva solo dei costi. Una piscina così concepita diventava un figlio da mantenere per tutta la vita. Perciò, abbiamo pensato di affiancare alla piscina una struttura che produca reddito. La somma di queste due cose avrebbe dovuto dare il pareggio di tipo economico e il pareggio di tipo ambientale. Con questo progetto riusciremo a garantire il riscaldamento a un costo inferiore del 20% rispetto all’attuale prezzo del gas metano. Ridurremo anche una serie di altri costi derivanti dalla manutenzione delle caldaie, dai vigili del fuoco, etc. che costituiscono solo un onere. L’intenzione è di servire tutta la zona industriale, circa una trentina di imprese di dimensioni medio-grandi, non piccole attività artigianali, oltre ad edifici pubblici, come la sede del Comune, la palestra, la scuola elementare. Avremo la possibilità anche di ridurre l’inquinamento, dimettendo tutte le vecchie caldaie spesso controllate male. Logicamente sarebbe ottimale se il legno per la combustione provenisse dai dintorni in modo da garantire quelle fonti di reddito che verranno a mancare quando i fondi dell’agricoltura saranno sospesi per l’allargamento della UE. Ci sarà la possibilità, da parte del Parco Colli, della Provincia di Padova, di smaltire le ramaglie, magari attraverso un sistema di raccolta differenziata. Potrebbe essere addirittura utilizzato il granturco inteso come parte residua rispetto a quella venduta che adesso resta per terra: anche quella è biomassa. È prevista la produzione di 5 quintali circa di ceneri al giorno, che potrebbero essere sparse in agricoltura. Questo potrebbe diventare un programma pilota per il Veneto che ha un’esigenza enorme di energia attualmente prodotta solo da centrali a gas. Pulendo il nostro territorio, potremmo fare delle microcentrali che aiuterebbero a realizzare con quel materiale, che adesso va buttato via, un risparmio energetico. Per la realizzazione di questo progetto, abbiamo costituito una S.p.A. e l’abbiamo aperta ai privati. Hanno già aderito tre imprese private che hanno sottoscritto il capitale sociale. Il controllo rimane all’ente locale che ne mantiene la gestione. Questo progetto è realizzabile quasi in ogni Comune, creando dei piccoli comprensori di 10/15 mila abitanti”. Il sindaco di Tribano, intervistato il 20 febbraio 2004, racconta un caso emblematico. In due mandati, egli ha improntato l’amministrazione del Comune su canali alternativi all’amministrazione tradizionale: ha concepito l’amministrazione come strumento per la soluzione dei problemi attraverso la sussidiarietà orizzontale ogni qual volta sia stato possibile. Il sindaco non crede alle Unioni dei Comuni che aumentano i costi e che diventeranno poco attraenti nel momento in cui finiranno i finanziamenti statali per realizzarle. L’amministrazione in senso stretto, con i suoi vincoli burocratici e sindacali, tendenzialmente, aumenta i costi, raramente riesce nell’obiettivo di diminuirli (su questo hanno insistito molto anche altri sindaci intervistati). Solo l’innovazione amministrativa nella gestione di alcuni servizi e l’uscita dalle burocrazie amministrative e dalle loro lentezze, con la costituzione di società secondo il principio della sussidiarietà orizzontale, può produrre aumenti reali di rendimento degli investimenti realizzati. La prova sta in un’altra esperienza, simile al progetto ipotizzato intorno alla combustione delle biomasse, ma certamente meno complessa, che è stata portata a compimento con successo negli anni precedenti. Il Comune di Tribano considerava troppo onerosi gli appalti ai privati per la raccolta di rifiuti e ha deciso di costituire una società che svolgesse, a costi contenuti, questa funzione. Dopo i primi successi, si è rivolto ad altri Comuni per offrire i propri servizi e, nel tempo, questa società ha finito per servire oltre quaranta Comuni. Il capitale azionario della società si è allargato con la partecipazione di molti dei Comuni serviti e con l’ingresso dei privati. Tribano è rimasto il socio comunale di riferimento con il 10% delle azioni. La società non solo ha abbassato i costi del servizio a parità di prestazioni, ma porta anche profitti all’amministrazione. Questo tipo di cooperazione rappresenta una via possibile per interpretare la nozione di rurale in un’area che è caratterizzata sia da attività di tipo industriale che da attività di tipo agricolo e vi è una forte richiesta di energia. In questo contesto si cerca 55 n.11 / 2005 di puntare sulla messa a sistema di più settori. 3.4 Quarto esempio: le reti di promozione del territorio Si tratta di associazioni di natura più informale che mettono insieme istanze di marketing territoriale, di organizzazione di riti di riconoscimento identitario delle comunità locali (che non necessariamente si riconducono all’appartenenza a un unico Comune) nella forma di feste, celebrazioni, degustazioni di prodotti, fiere, che hanno un carattere popolare e coinvolgono trasversalmente soggetti eterogenei. Questo tipo di reti sono in forte crescita in questo come in altri territori e possono essere considerate un elemento caratterizzante delle politiche di sviluppo rurale, coincidendo con la riscoperta e la valorizzazione delle usanze locali, della memoria storica dei luoghi e delle risorse ambientali e naturali. Per fare alcuni esempi, vanno segnalate reti nate sull’obiettivo di valorizzare un prodotto o realizzare occasioni di incontro: le reti delle “Associazioni nazionali Città del Vino” (che ha dei riferimenti di tipo non locale essendo una organizzazione già esistente a livello nazionale, a cui hanno aderito alcuni Comuni dell’area target) e le “strade del vino” (anche questa organizzazione di livello nazionale) che riguarda la promozione dei territori di un vino e implica, per le aziende che vi aderiscono, un impegno comune che comporta una serie di adeguamenti e di requisiti (certificazione dei prodotti, cura della qualità del servizio, delle capacità di comunicazione, etc.). I Comuni dell’area target che fanno parte delle Città del vino sono Bagnoli di Sopra, Baone, Cinto Euganeo e Vo (insieme ad altri Comuni che non fanno parte dell’area target). Oggi si contano, in Veneto, sei strade del vino. Una di queste è la strada del vino Colli Euganei cui sono associati vari locali di ristorazione, enoteche, agriturismi, molte aziende agricole, etc. che si trovano nei Comuni di Arquà Petrarca, Battaglia Terme, Due Carrare, Galzignano Terme, Montegrotto Terme, Rovolon, Selvazzano Dentro, Torreglia, Baone, Cinto Euganeo, Este, Monselice, Padova, Rubano, Teolo, Vo. Oltre ai Comuni di cui sopra, sono asso- 56 ciati, come amministrazioni, i Comuni di Abano, Cervarese S. Croce, Lozzo Atestino, la Regione Veneto, la Provincia di Padova e, come associazione di categoria, la Camera di Commercio di Padova. Lungo la strada del vino dei Colli Euganei si possono visitare i luoghi del Petrarca, Goethe, Foscolo, Byron e Shelley. Si può fare golf, equitazione, cicloturismo, trekking, bird watching, etc. Una seconda strada del vino, che interessa Comuni dell’area target, è lo Stradon del vin Friularo, che fa riferimento alla zona del “doc Bagnoli” e comprende i Comuni di Bagnoli di Sopra, Agna, Arre, Battaglia Terme, Bovolenta, Candiana, Cartura, Conselve, Due Carrare, Monselice, Pernumia, San Pietro Viminario, Terrassa Padovana e Tribano. Una interessante iniziativa è quella dei dieci Comuni del Montagnanese (si tratta dei Comuni di Casale di Scodosia, Castelbaldo, Masi, Megliadino S. Fidenzio, Megliadino S. Vitale, Merlara, Montagnana, Saletto, Santa Margherita d’Adige, Urbana) che si trovano assieme intorno all’organizzazione del “Palio dei 10 Comuni”. Il Palio recupera una tradizione storica intorno a una serie di eventi. Questa occasione di incontro è molto sentita ed è presente nei racconti degli amministratori dei Comuni che vi partecipano, ma anche di altri Comuni che la assumono come esempio di manifestazione riuscita. Un ulteriore esempio è la “biciclettata” nei Comuni dell’Unione Padova Sud (Battaglia Terme, Cartura, Casalserugo, Due Carrare e Maserà di Padova). Si tratta di un giro in bicicletta non competitivo e aperto a tutti che si svolge nel mese di settembre all’insegna del motto “Una giornata alla scoperta del territorio e delle persone perché l’Unione non sia solo una questione amministrativa”; e così via dicendo. Va ricordata anche la Festa della patata americana, dei sugheri e del formaggio che si tiene ad Anguillara e che è un evento che ha messo in collaborazione soggetti pubblici e privati (tra i Comuni anche Agna, Candiana e Bagnoli di Sopra; Camera di Commercio; Consorzio Giotto; PromoPadova; Consorzio delle Proloco del NordEst, etc.). A Baone si realizzano varie sagre, tra cui la più importante e consistente per numero di soggetti coinvolti, è la “Vini Euganei a primavera” che si tiene a Villa Beatrice Monte Gemola. Si tratta di Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti una mostra di vini e di degustazione di prodotti (prosciutto dop di Montagnana, miele e marmellate del padovano, etc.). Nell’ambito dell’Unione Val Liona (Comuni di Zovencedo, Grancona e San Germano), si realizza una mostra annuale dei prodotti tipici che mette insieme le associazioni di categoria e i produttori locali con gli enti locali. politici, tecnici, imprenditori, operatori del mondo della formazione, etc. Un punto centrale è sicuramente tentare di organizzare attività e progetti alla luce di una cultura della programmazione congiunta, della cooperazione e della partecipazione, tra soggetti pubblici e privati, valorizzando la pluralità dei punti di vista e promovendo le differenze territoriali come risorse. Nella fattispecie, il GAL Patavino opera nel campo dello sviluppo rurale che, per sua natura, non è mai settoriale ma territoriale (che è qualcosa di diverso e più adeguato di: “intersettoriale”) ed ha un impegno specifico nella direzione dello sviluppo sostenibile delle risorse rurali. 3.5 Quinto esempio: il GAL Patavino, che rete è? Fare rete delle reti. Il GAL Patavino ha precedenti esperienze nell’implementazione del Programma d’Iniziativa Comunitaria Leader per lo sviluppo rurale, e con Leader + si presenta come un partenariato pubblico-privato, che mette assieme Enti Pubblici (Provincia di Padova, Ente Parco Colli, Camera del Commercio di Padova) e Associazioni di Categoria del primario, secondario, terziario, sul presupposto di essere il più possibile rappresentativo degli interessi e delle attività che vengono condotte nell’area-target. Ha una dimensione territoriale che si qualifica come interprovinciale, mettendo insieme Comuni della Provincia di Padova, di Verona, di Vicenza. Abbiamo già accennato al tema catalizzatore e alle azioni su cui è impegnato e che si trovano delineate nel Piano di Sviluppo Locale. Per i Comuni dell’area target come per gli altri attori locali può rappresentare una buona opportunità per incontrarsi e confrontarsi sulle valutazioni dell’andamento delle politiche (promosse dalla Provincia, dalla Regione; dall’Unione Europea; dai singoli Comuni) che impattano l’area, su cui è evidente che c’è discordanza e frammentazione. Inoltre, offre un supporto pratico per affrontare la questione di come sviluppare una programmazione territoriale che si contestualizzi rispetto alle varie attività ed iniziative di settore. La posta in gioco che offre il GAL Patavino è poca cosa dal punto di vista materiale (finanziario) rispetto a molte altre politiche di sviluppo, ma può essere assai rilevante dal punto di vista simbolico e della attivazione di reti di relazione territoriali e di occasioni di apprendimento tra amministratori, Il GAL come arena deliberativa Come rete, il GAL agisce con una funzione particolare che è quella della costruzione del dialogo e del confronto tra soggetti diversi, cercando di strutturare apposite occasioni di interazione (attraverso progetti, eventi, etc.). Le culture organizzative delle associazioni che costituiscono il GAL patavino fanno fatica ad assumere la forma mentis deliberativa che sarebbe necessaria per rendere il GAL patavino una arena deliberativa efficace. In questo senso il GAL patavino è rimasto più il soggetto implementatore di un piano (e in questo diventa essenziale il ruolo del tecnico con funzione di coordinatore) che una arena capace di produrre processi virtuosi o sinergie tra coloro che fanno parte del partenariato. Un altro modo per riguardarlo come arena deliberativa è pensare alla sua possibile azione di riequilibrio della rappresentanza degli interessi territoriali, una arena più inclusiva delle domande delle categorie meno strutturate o organizzate (un esempio è il caso della rete informale dei bed & breakfast, che sono esperienze sviluppatesi molto recentemente, che, al tavolo del GAL, riescono a dare visibilità alle proprie domande e proposte contribuendo in parte a moderare la monocultura alberghiera delle grandi lobby del turismo termale; un altro esempio è il lavoro che si fa della valorizzazione dei prodotti di nicchia e dell’attività di chi li produce, di cui si cerca di potenziare l’organizzazione perché diventino più visibili sul mercato). 57 n.11 / 2005 Questo pregio e questa potenzialità non sempre sono notati dai sindaci dei Comuni dell’area target che, in un’ottica distributiva, si aspettano dal GAL solo la spartizione dei contributi per supportare piccole iniziative e non sono convinti che il GAL abbia la forza di mobilitare altre risorse economiche o politiche, per affrontare i grossi problemi delle aree in cui operano. La conseguenza è che nell’area target le singole strategie di sviluppo dei Comuni non vengono inserite in una strategia collettiva. Questo è particolarmente preoccupante se si pensa che molte delle associazioni di categoria che costituiscono il GAL sono relative all’agricoltura o all’artigianato, cioè ai settori per i quali il bisogno di spazi di rappresentanza e di tavoli di concertazione territoriale dove trovare sinergie sono particolarmente rilevanti e finiranno per gravare in prospettiva. Abbiamo riscontrato, inoltre, una certa presenza di grosse aspettative nei confronti del GAL laddove non vi fossero attori che avessero creato attese sulla capacità di cooperazione dei Comuni. Il riferimento è ai Colli Berici dove la Provincia di Vicenza si mostra come poco attiva e, quindi, ci si aspetta che il GAL patavino costituisca un’occasione per sviluppare nuove forme di cooperazione o, comunque, un modo di uscire da situazioni che sono percepite come di marginalizzazione e isolamento. Si riscontra, invece, uno scarso appeal del GAL in aree come quella della bassa padovana dove la Provincia si mostra attiva, anche se i risultati non sono quelli che si auspicano, e anche se gli stessi intervistati ammettono che la Provincia coinvolge nel senso che comunica le decisioni prese per tutti, ma non ascolta e non accoglie le esigenze che partono dal basso. Un modo possibile per il GAL patavino, di acquistare maggiore appeal dove altri attori occupano la scena da protagonisti principali, è quello di intervenire nella produzione di scenari di sviluppo locale e di narrative delle trasformazioni territoriali in corso. Il compito di raccogliere le rappresentazioni, le cornici e i quadri di significato con cui gli attori locali giustificano ciò che fanno e come lo fanno è stato affidato, in particolare, a questa indagine. Con questa indagine, il GAL patavino ha inteso contribuire a una politica per il territorio dell’a- 58 rea target dando particolare rilievo alla conoscenza prodotta attraverso l’interazione tra gli attori locali e con essi, ma anche dando rilievo alla raccolta e diffusione dei saperi locali relativi a ciascun settore produttivo e all’amministrazione locale. Con questa restituzione dei risultati dell’indagine, vengono prospettati vari indirizzi futuri possibili e linee di azione, tra le quali il GAL patavino dovrebbe selezionare quelle che più sono confacenti all’obiettivo di suggerire scenari di azione ad attori politici, come la Provincia, dotati di più risorse, di più appeal, ma, per i motivi che si sono già detti, non sempre capaci di accogliere le esigenze che partono dal basso. 3.6 Sesto esempio: i contenitori di reti L’Ente Parco Colli è in fin dei conti un’altra occasione, per i Comuni che ne fanno parte, di fare rete attorno a iniziative comuni: la promozione del distretto termale e soprattutto del percorso di certificazione Emas che ha messo insieme in uno sforzo congiunto i 5 Comuni del bacino termale (Abano, Montegrotto, Teolo, Battaglia, Galzignano) e l’Ente Parco Colli, ne è una dimostrazione. Questa ‘rete’, dunque, è un esempio di relazione prodotta dall’operato di un soggetto giuridicamente riconosciuto e istituito per legge regionale, molto presente per la sua attività di regolazione, che può assumere caratteristiche meno formali e rigide attraverso la condivisione di pratiche e di esperienze comuni su progetti e iniziative locali. In fin dei conti, è una questione di orientamento e di interpretazione che si può assumere nel corso dell’azione, a fare la differenza. La capacità dell’Ente Parco Colli di costruire azioni partecipative con altri soggetti-chiave del territorio, quindi, di sviluppare sempre più un’attitudine collaborativa e meno burocratica, sarà determinante per la rilevanza che questo attore potrà assumere agli occhi degli Enti Locali e nella percezione degli abitanti e dei visitatori. Dalle interviste è emersa una percezione della politica ambientale portata avanti dall’Ente Parco Colli del tipo “del bastone e della carota”. Da un lato, l’azione vincolistica del Parco è presupposto di salvaguardia ambientale e questo aspetto è riconosciuto ampiamente dagli amministratori locali; dall’al- Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti tra, l’azione vincolistica del Parco, operando in un’area fortemente antropizzata, viene vista come un ostacolo allo sviluppo e alla libertà di programmazione dei Comuni. I quindici Comuni facenti parte dell’Ente Parco Colli hanno tuttavia condizioni diverse di rapporto con l’Ente Parco legate a vari fattori: l’avere o meno l’interità del territorio nell’Area del Parco (nel caso in cui parte del territorio è esterno al Parco, si rende possibile raggiungere un equilibrio tra valorizzazione delle risorse ambientali e spinte all’espansione produttiva e residenziale; la qual cosa non è ininfluente ai fini del ricavato ICI, che è stato per molti anni la fonte di entrate più consistenti per i Comuni da cui attingere per l’offerta dei servizi alla popolazione); l’organizzazione degli organi decisionali e amministrativi dell’Ente che viene definita come “ingessata”, in quanto costituita da rappresentanti selezionati nei Consigli Comunali, oltre che dai sindaci dei Comuni nell’Ente Parco. L’opinione dei sindaci intervistati è che i consiglieri comunali risentono, più dei sindaci, delle contrapposizioni di schieramento politico (il che riprodurrebbe, a livello più vasto, le stesse logiche della divisione tra maggioranze e minoranze non sulla sostanza dei problemi da trattare, ma sugli schieramenti politici di partenza). Un esito evidente di questa impostazione è che il “contenitore rete” dell’Ente Parco Colli produce non tanto reti “bridging” (che costituiscono ponti o canali di connessioni che includono realtà anche tra loro distanti), quanto reti “bonding” (che rafforzano i canali già consolidati di interazione). Alcuni Comuni rivendicano più potere, nella forma di un voto che valga di più di quello di altri, per il fatto di avere l’interità del territorio dentro l’Ente Parco Colli e per essere, di conseguenza, più condizionati dalle decisioni dell’Ente (gli altri Comuni possono, infatti, realizzare altrove quello che l’Ente proibisce loro di realizzare nel territorio del Parco). Indipendentemente dal colore politico o dalle dimensioni dei Comuni o quant’altro che li differenzi, molti sindaci richiedono uno sfoltimento del Consiglio di Amministrazione dell’Ente che, a loro dire, si realizzerebbe al meglio sostituendo i consiglieri comunali con i soli sindaci dei quindici Comuni. Le interviste raccolgono anche tutto un altro ver- sante di percezioni dell’operato dell’Ente Parco e della sua immagine nel territorio. Le cornici prevalenti sono quelle dell’Ente Parco come soggetto finanziatore di progetti che altrimenti sarebbe difficile sostenere con le risorse dei singoli Comuni e conferiscono all’Ente un ruolo di “Agenzia di Sviluppo Locale”, cioè di promotore verso l’esterno della valenza e delle qualità dei colli e di soggetto di marketing territoriale. Su questo aspetto si lamenta una scarsa disponibilità al coordinamento delle tante iniziative frammentate nel territorio che partono dai Comuni, ma anche dalle Associazioni di Categoria, dalla Camera di Commercio, dalla Provincia, dal GAL patavino, etc. Questi conflitti si avvertono soprattutto nell’abito della valorizzazione dei prodotti locali (vino, olio, miele, etc.) e nelle iniziative di realizzazione di percorsi turistici e di attraversamento del territorio. La sensazione è che “troppi” soggetti nell’area si occupino di politiche del turismo. Questa critica è un’arma ambivalente. Se, da un lato, sottolinea la scarsa maturità dell’Ente, fin qui mostrata, di attivare un processo di mobilitazione degli attori locali su una politica ambientale e di sollecitare la loro crescita culturale nella direzione di una maggiore consapevolezza dei valori della sostenibilità, dall’altro, mette in evidenza la scarsa propensione degli attori locali a intraprendere percorsi di autorganizzazione e di promozione dal basso del coordinamento e dell’integrazione territoriale. Quasi che la domanda di un coordinamento fosse immediatamente traducibile nell’identificazione di un coordinatore che coincide con un’istituzione e un’autorità ben definita e non comporti, invece, l’attivarsi e il rendersi protagonisti e responsabili. Il problema è che la risorsa che viene mobilitata per il coordinamento è quella di “autorità precostituita” e non quella del potenziamento delle capacità organizzative e delle competenze e conoscenze che si hanno del territorio (saperi locali). L’interpretazione stessa della nozione di sostenibilità dello sviluppo è controversa: in alcuni casi, si inquadrano in questa cornice azioni di tipo settoriale specifiche per l’ambiente; in altri, si intende una azione di tipo intersettoriale e trasversale tra settori di attività e ambiti di esperienza (economia, ambiente e società) che necessita in primo luogo 59 n.11 / 2005 di azioni di tipo partecipativo. 3.7 Settimo Esempio: progetti che si realizzano attraverso reti Si tratta di reti tra enti locali, ma non solo, che nascono per consentire la realizzazione di progetti di dimensione interprovinciale o comunque di scala vasta. Ad esempio, possiamo comprendere in questa categoria iniziative come quella detta Sentinella dei Fiumi che, promossa nel 2002 dalla Provincia di Venezia, per azioni di risanamento e monitoraggio dei Fiumi Adige, Fratta, Gorzone, Brenta e Bacchiglione, coinvolge alcuni Comuni dell’area target (Castelbaldo e altri). Quella della realizzazione di opere pubbliche, congiuntamente tra più soggetti, è un altro esempio che si può far ricadere in questo tipo di reti. Nell’area target osserviamo una serie di realizzazioni che possono essere comprese in questa categoria: la costruzione di un palazzetto dello sport cui partecipano assieme Bagnoli di Sopra, Arre e Corbezzolo; il progetto di pista ciclabile tra Arre, Maserà, Bagnoli, Cartura, Conselve, e Anguillara; l’anello delle piste ciclabili intorno ai Colli Euganei che interessa tutti i Comuni sui Colli. Un altro tipo di operazioni è quelle che si svolgono, congiuntamente tra più Comuni, per la valorizzazione di prodotti tipici (vedi l’Associazione tra Boara Pisani, Stroppara e Anguillara per il riconoscimento della patata americana come prodotto tipico); ancora segnaliamo, a Cervarese Santa Croce, gli interventi sul fiume Bacchiglione (disinquinamento e recupero navigabilità) con i Comuni di Montegalda e Montegaldella e con finanziamenti della Regione; a Zovencedo, Grancona e San Germano, nell’ambito dell’Unione Val Liona, interventi che vanno dalla realizzazione di piste ciclabili tra i Comuni, al piano del rumore e al progetto di un’isola ecologica per la raccolta dei rifiuti ingombranti. 3.8 Ottavo esempio: dinamiche localizzative delle funzioni produttive di sistemi produttivi locali Una funzione importante è svolta da alcune polarità che si sono configurate nel territorio e che sono 60 conseguenti a un misto di fattori di scelte localizzative e di infrastrutturazione (linee di traffico). Queste polarità creano delle gerarchie, spesso soltanto temporanee, influenzando i flussi di circolazione, le specializzazioni nel territorio e gli usi della popolazione. Anche questo tipo di situazioni determinano delle appartenenze e delle condivisioni con Comuni esterni all’area target e, come si era detto già nel descrivere i casi di Unioni di Comuni, potrebbero essere interpretate come tessuti di relazione non formalizzati o istituzionalizzati (perciò, forse, meno evidenti alle logiche amministrative) da potenziare nella direzione della costruzione di reti intese come “ponti” verso altri territori e di alleanze territoriali più estese. La valenza di queste gerarchie è che sono capaci di strutturare delle cornici di riferimento per l’azione sul piano cognitivo (che si rinvengono nelle rappresentazioni e nelle percezioni che gli attori locali costruiscono delle dinamiche territoriali); inoltre, contribuiscono a determinare una rendita che si manifesta come vantaggio posizionale di alcune aree rispetto ad altre, che viene giocata in termini simbolici e che acquista peso nella negoziazione politica, anche su scala sovralocale. Una di queste gerarchie territoriali, da verificare se sia conseguenza di una fase di transizione o di qualcosa di più stabile, è stata individuata nella fascia di Comuni del vicentino che è costituita (da Est verso Ovest) dai seguenti Comuni: Albettone che ha una percentuale di addetti all’industria (35,2%) superiore alla media provinciale (34%), ma un reddito basso, più vicino a quello di un Comune agricolo (17.400 euro contro 24.400 della media provinciale al 31-12-2000); Villaga che ha una percentuale di addetti all’industria elevata (28%) e un reddito ancora più basso (16.100 euro); S. Germano dei Berici con una percentuale di addetti all’industria elevata (42%) e un reddito relativamente basso (18.300 euro); Orgiano con il 39,1% di addetti all’industria e un reddito di 21.600 euro pro capite; Alonte con il 114,1% di addetti all’industria e un reddito molto elevato (35.200 euro) ma dove, evidentemente, la maggioranza delle persone che lavorano nell’area industriale del Comune vivono e risiedono in altri Comuni. I Comuni in questione sono confinanti l’uno con Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti l’altro e occupano una fascia che attraversa i Colli Berici da Est a Ovest e ci è sembrato di poter evidenziare in loro varie tendenze: 1) un reddito industriale relativamente alto che convive con un reddito montano molto basso (si pensi a Zovencedo, privo di attività industriali e un reddito montano di 7.600 euro); 2) la sensazione che molti di coloro che lavorano nelle zone industriali di questi Comuni vivono e siano residenti altrove (e questo concorre a tenere basso il reddito medio pro capite di ciascun Comune, compreso Alonte che ha un reddito molto elevato ma una percentuale di addetti all’industria talmente assurda e “impossibile” da poter sembrare sbagliata); 3) oltre al flusso di pendolarismo legato al lavoro, la circostanza che molti di questi Comuni presentano degli indici assai bassi di servizi, funzioni commerciali e attività istituzionali mostra che è presente anche un notevole flusso di popolazione che si muove da questi ad altri Comuni alla ricerca di servizi, strutture commerciali e istituzioni. Queste aree sono pertanto interessanti da osservare come “territorio di circolazione” oltre che per le dinamiche localizzative delle funzioni produttive. Lonigo e Noventa Vicentina costituiscono le due polarità dell’area e sono i centri di riferimento per la concentrazione di servizi alla popolazione. I dati che emergono, relativi all’occupazione nei settori produttivi, sono da ricomprendere in una situazione più complessiva che contraddistingue questi Comuni e che si connota per le difficoltà delle economie locali a garantire le condizioni minime di benessere alle popolazioni. La scelta di investire nello sviluppo delle attività produttive, in un certo periodo storico di crisi dell’agricoltura, è sembrata quella più praticabile o necessaria per migliorare le condizioni dell’economia e per rendere disponibili nuovi posti di lavoro e frenare l’esodo della popolazione. Tuttavia, dalle interviste ai sindaci, emerge una consapevolezza dei limiti di questa scelta ovvero dell’impiego di modelli produttivi che si basano su un alto consumo di territorio e che sono scarsamente attenti agli effetti nel medio-lungo periodo (inquinamento, congestione, depauperamento delle risorse naturali, etc.) di decisioni che hanno alla base “l’imperativo economico”. In una prospettiva di sostenibilità il futuro dell’area dipende dalla capacità di mobilitare altre risorse per lo sviluppo territoriale nella direzione della valorizzazione ambientale e della capacità di concepirsi come un sistema integrato di servizi e funzioni ecocompatibili. In questo senso, le polarità e gerarchie territoriali devono essere messe in discussione, ma non nella direzione di ripetere gli “errori” dell’alto vicentino. La costruzione del prolungamento della Valdastico Sud è una posta in gioco di cui si sta assumendo consapevolezza (nell’ambito dei tavoli di concertazione del patto territoriale, si è sviluppato un confronto in merito tra gli amministratori locali) e rappresenta una “prova” per l’area dei Berici di mettere al lavoro le capacità di organizzazione e autodeterminazione che gli amministratori locali hanno mostrato in altri campi. La Valdastico, come linea di attraversamento del territorio, potrebbe essere interpretata come un vettore di traffico turistico che intercetta parte dei flussi di movimento, che dal Brennero si riversano, via Verona, sulla riviera romagnola, e li trasferiscono via Vicenza verso la zona dei Colli, Berici da una parte ed Euganei dall’altra. In tale prospettiva, l’insistenza di questa porzione di territorio, nell’ambito dell’area target del PSL del GAL patavino, appare particolarmente sensata dal momento che i Colli Euganei stanno vivendo un momento in parte analogo, aiutato però dalla presenza dell’Ente Parco che salvaguarda il territorio dal subire gli eccessi della crescita economica. Quello che un po’ sorprende è che non si stia innescando un processo di confronto di esperienze tra i Berici e gli Euganei nell’ambito del GAL patavino come tavolo di confronto territoriale (ma anche in altri contesti, per esempio provinciali o regionali) tanto più che con Leader + la dimensione interprovinciale delle aree target è stata posta come condicio sine qua non in sede di valutazione dei PSL in quanto essenziale alla prospettiva di sostenibilità dello sviluppo. Si sta perdendo un’occasione perché gli argomenti da discutere in ambito interprovinciale sono tanti e riguardano anche la valorizzazione di risorse già disponibili che si tratta solo di mettere in circuito: per esempio, il patrimonio architettonico e monumentale di cui dispongono vari Comuni del vicentino, ma anche i Comuni del padovano a loro più vicini; per esem- 61 n.11 / 2005 pio, la produzione di vini e altri prodotti tipici che, singolarmente presi, rappresentano delle produzioni di nicchia, mentre insieme assumerebbero massa critica sul mercato; per esempio gli agriturismi e tutto il circuito della ristorazione e dell’ospitalità. L’insieme di queste risorse possono suggerire politiche di fruizione turistica del territorio più credibili e sulle quali è necessaria una programmazione congiunta che può seguire due strade rispetto alla necessità di un coordinamento: quella della auto-organizzazione spontanea dei Comuni e quella di una autorità sovralocale che si occupa di pianificare il territorio. 3.9 Nono esempio: alcuni casi paradigmatici Il Comune di Abano Il Comune di Abano Terme non risulta essere compreso in nessuno dei Patti Territoriali della Bassa Padovana, mentre rientra nella proposta per l’istituzione della città metropolitana di Padova. Ovviamente, è evidente come le caratteristiche del territorio di Abano (per densità abitativa, tipo di edilizia ma soprattutto tipo di attività e di attori significativi dello sviluppo) siano al limite della considerazione di “ruralità”, risultando più immediatamente percepibile il carattere urbano. Tuttavia, proprio la ricomprensione di Abano all’interno dell’area-target del GAL Patavino assieme ad altri Comuni limitrofi che condividono il bacino termale, riesce a mettere le qualità specifiche di Abano in relazione con altre qualità dell’area, più tipicamente “rurali”. In fin dei conti, il rurale è piuttosto “un effetto-prodotto” di un’insieme di interazioni tra soggetti e politiche territoriali, nella cornice di un’idea di sviluppo comune (se si riuscisse a concepire e a conferire effettività ad una rappresentazione condivisa del territorio, cosa che costituisce, in questa prospettiva, il principale impegno del GAL patavino nel territorio e la peculiarità e innovazione del suo contributo). Abano Terme ha un piccolo lembo di territorio dentro il perimetro dell’Ente Parco Colli, istituito, ricordiamo, per Legge Regionale. Questa condizione consente al Comune di Abano molte cose: di essere per esempio compreso nell’area target del 62 PSL del GAL patavino e di entrare in contatto con un soggetto che come sua propria ‘mission’ ha quella della diffusione di una cultura del rispetto e della valorizzazione delle risorse ambientali e naturali, della promozione delle attività che vengono condotte nel territorio se assumono l’orientamento della sostenibilità dello sviluppo (così anche per la conduzione delle attività agricole e delle attività turistiche). Il Comune di Alonte Un secondo caso paradigmatico è quello del Comune di Alonte che si presenta con dati di forte differenziazione dal contesto degli altri Comuni facenti parte dell’area target del PSL del GAL patavino. Questo caso ci consente di riflettere in particolare su un aspetto: il coefficiente di densità media abitativa per kmq che, secondo i parametri introdotti dal PIC Leader, è indicativo di “ruralità” (120 abitanti per kmq). Alonte, con una densità di 118,6 abitanti per kmq, si presenta coerente rispetto a questo parametro; senonché, analizzando la struttura dell’economia locale, e in particolare considerando le più recenti trasformazioni che lo riguardano, si presenta con una serie di caratteristiche che fanno riflettere sull’ambiguità della definizione di area rurale che non può essere vincolata soltanto a indicatori quantitativi. Ad Alonte, infatti, i dati relativi all’andamento demografico non presentano l’indice di invecchiamento tipico delle zone rurali (la popolazione è molto giovane e l’indice di invecchiamento è la metà di quello provinciale), su cui interviene il programma Leader, né si riscontra un reddito pro capite basso (in questo caso il reddito, di 35.200 euro, è più alto della media provinciale di 24.400 euro al 31-12-2000, fonte CCIAA) e l’attività decisamente prevalente ed in crescita è quella industriale (il numero di addetti è tre volte più alto della media provinciale). Il 114,10% della popolazione attiva è occupata nel settore Industria, perché Alonte è uno di quei Comuni capace di attrarre imprese nelle aree artigianali. Non stupisca la percentuale superiore a cento degli addetti all’industria che vuol dire che gli addetti ai settori sono calcolati dal numero di Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti addetti nelle imprese insediate nel territorio del Comune, mentre la popolazione attiva viene calcolata dalle liste dei residenti presenti in Comune (la qual cosa fa sì che, come nel caso di Alonte, si arrivi a queste percentuali che sono paradossali e sembrano sbagliate). La chiara predominanza delle attività industriali che ci fa discutere il carattere di ruralità dell’area, tuttavia, non esclude altri elementi che giustificano la presenza di Alonte nell’area target del GAL patavino. Innanzitutto il fatto che Alonte non presenti alcune caratteristiche tipiche del centro urbano (data la modesta consistenza del settore servizi e commerci e l’occupazione nel settore istituzionale, quest’ultima quasi inesistente); infatti, Alonte è diventato un centro di lavoro pendolare piuttosto che un polo integrato di attività sociali e industriali. Un secondo elemento da considerare è l’agricoltura solo marginalmente estensiva. In controtendenza con i Comuni limitrofi, nell’ultimo ventennio, si è avuta una diminuzione della SAU ad agricoltura estensiva ed un aumento significativo della SAU ad agricoltura specializzata (uva per vini DOC). Vi è stato anche un aumento della SAU a prati e pascoli, a fronte di una diminuzione drastica del numero di capi allevati nel paese. A questo punto, il problema che si pone è quello dell’equilibrio tra crescita industriale e sviluppo di altre attività (tra cui l’agricoltura specializzata); problema che può essere ricondotto alle questioni connesse alla sostenibilità dello sviluppo rispetto alla quale il rurale può essere un operatore significativo di integrazione e di costruzione di identità. A conferma di questo, vanno osservate le reti presenti nel territorio: la partecipazione di Alonte al Patto Territoriale dei Colli Berici può avere un valore decisamente positivo per agganciare il paese ad una riflessione e programmazione di area vasta e per non far perdere il senso di comunità e dell’identità berica, nonché per “fare esercizio” di progettazione congiunta. Come solo altri pochi Comuni, i dati relativi al PRG di Alonte sono già presenti nel sito del Patto Territoriale. In particolare, il Patto Territoriale ha costituito un’occasione per promuovere un dibattito nell’area sul modello di sviluppo da perseguire ponendo come estremamente deleterio il modello prati- cato nella zona nord del vicentino e maturando un diverso approccio al tema della sostenibilità. Ad Alonte, una serie di singoli progetti mostrano il subentrare di una certa sensibilità ecologica: l’ecocentro, l’impianto di fitodepurazione, l’attenzione alla raccolta differenziata, etc. Il Comune di Bagnoli di Sopra Il caso di Bagnoli di Sopra è esemplificativo di territori in cui si sono stratificati gli effetti, fortemente diversi, di politiche eterogenee (per i presupposti, le strategie ispiratrici e il tipo di risorse impiegate) che si sono succedute nel tempo. Così si possono trovare concentrati a Bagnoli gli effetti di politiche di sviluppo industriale e di attività produttive a rischio ambientale, la coltivazione di produzioni biologiche e specializzate, le riqualificazioni di beni monumentali e storici; donde, le ipotesi di valorizzazione turistica. La questione fondamentale per il futuro di Bagnoli è intervenire in una situazione di compresenza di varie direttrici di crescita non sempre compatibili. Da un lato, infatti, si trova una imprenditorialità locale piuttosto vivace che ha risolto i problemi di occupazione e di reddito per quanto, ancora, non abbia attratto popolazione residente. Dall’altro, vi è anche una situazione di vivace associazionismo che rappresenta un potenziale per passare dalla riqualificazione dei beni immobili al loro utilizzo secondo progetti mirati di tipo sociale e/o turistico. Da un altro lato ancora, vi è la sperimentazione agricola in corso con le produzioni biologiche e specializzate che potrebbe essere opportunamente valorizzata, se agganciata ad altre attività. Tutte queste energie dovrebbero trovare un tema catalizzatore e un’impostazione per il futuro, anche per non finire per confliggere l’una con l’altra. Bagnoli di Sopra ci è sembrato un Comune in cui queste eterogeneità si manifestano con particolare significatività, ma è anche vero che situazioni del genere, solo meno evidenti, ci sono sembrate essere diffuse in vari altri Comuni dell’area target. Questo sia per le scelte eterogenee fatte all’interno di un Comune da un’amministrazione o da diverse amministrazioni con visioni alternative dello sviluppo locale, sia per scelte eterogenee 63 n.11 / 2005 fatte da amministrazioni di Comuni diversi e confinanti tra loro (che magari avevano, all’inizio, posizioni simili se non identiche). Tornando a Bagnoli di Sopra, un problema è la presenza di attività produttive a rischio ambientale che è il retaggio di un passato in cui il Comune non era in grado di selezionare le industrie che volevano insediarsi. Adesso le capacità di negoziazione del Comune sembrano essere aumentate, al punto che al Cosecon è stato affidato il compito di effettuare una valutazione di impatto ambientale per le nuove imprese che fanno domanda di insediamento nell’area. Si presenta come eterogenea rispetto alla situazione di rischio ambientale proveniente dall’industria, l’agricoltura che, pur svolgendo un ruolo minore nell’economia locale, si sta sviluppando attraverso l’aumento delle coltivazioni di pregio. Inoltre, a complicare ulteriormente il quadro dell’eterogeneità, Bagnoli dispone di un patrimonio monumentale e ambientale (bosco, oasi, ville, etc.) che potrebbe essere opportunamente valorizzato, con attività che differiscano da quelle industriali, per riequilibrare la crescita troppo orientata allo sviluppo industriale. I primi segnali di una situazione di possibile incompatibilità tra gli indirizzi di sviluppo dei singoli “settori” (turistico, industriale, agricolo) sono sempre più evidenti nell’azione dei vari comitati (degli agricoltori biologici, degli abitanti) che si oppongono alla presenza di produzioni a rischio. I Comuni di Arquà Petrarca e Agna. Quello che si cercherà di dimostrare, con gli esempi di Arquà Petrarca e Agna, è la tesi secondo cui le condizioni di sviluppo di una località, di un paese, non dipendono esclusivamente da fattori geografici e storici, e cioè dall’insieme del patrimonio di risorse naturali e ambientali, delle istituzioni formali esistenti, del quadro normativo, etc., che costituirebbero dei vincoli strutturali allo sviluppo. Per valutare le potenzialità e capacità di sviluppo di una località occorre guardare a quello che le società locali ed i governi locali fanno e scelgono di fare, approntando progetti, piani, varie azioni di intervento che servono a provocare il coinvolgimento e l’attivazione di gruppi locali, scoprendo risorse e 64 potenzialità inedite, anche con una buona dose di invenzione. Nella concezione dei progetti di sviluppo, l’essenziale, secondo questa impostazione, è abbandonare una visione economica e ambientalista rigida, di tipo determinista, che decide aprioristicamente quale intervento può funzionare o meno in una determinata situazione sulla base della sola considerazione delle cosiddette “caratteristiche del sistema” (locale). Per di più identificando questo con una nozione di ambiente come insieme delle risorse fisiche e naturali preesistenti. Peraltro, una prima evidenza che salta agli occhi è che località che dispongono di risorse naturali non molto differenti tra loro, spesso hanno esiti di sviluppi assai diversi. L’esempio di Arquà Petrarca è significativo come soluzione di un modello alternativo di crescita basato piuttosto che sulla espansione delle attività produttive e della residenzialità, sulla valorizzazione del patrimonio locale con operazioni di marketing territoriale e anche una buona idea ispiratrice di partenza. Il territorio di Arquà Petrarca si trova interamente compreso nel perimetro dell’Ente Parco Colli. L’economia del paese, tradizionalmente agricola, costituisce a tutt’oggi una porzione consistente del reddito locale ma è stata potenziata attraverso una particolare strategia volta agli aspetti legati alla trasformazione e commercializzazione dei prodotti, fino ad oggi caratterizzate da scarsa attenzione. L’amministrazione comunale si sta, infatti, impegnando per ottenere la certificazione del marchio ISO 14001 per i prodotti tipici e opera per la difesa della biodiversità e per la valorizzazione della fertilità dei terreni e vi è inoltre una vivace produzione di manifestazioni locali legate all’agricoltura e alle produzioni tipiche locali. Fin qui una storia che si ripete in vari Comuni compresi nell’Ente Parco Colli Euganei. La vera svolta si è avuta con la valorizzazione dei monumenti legati alla figura del Petrarca, la gestione della cui immagine è andata verso un modello imprenditoriale. L’idea è stata quella di agganciare il circuito Petrarca (fatto di itinerari di visitazione, manifestazioni, degustazione di prodotti tipici locali, ospitalità) alle potenzialità del circuito termale per attrarre visitatori. Per questa ragione, in tutti gli ultimi anni, l’azione dell’am- Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti ministrazione è stata finalizzata alla sensibilizzazione della popolazione residente a investire in attività turistiche che valorizzino il patrimonio storico e culturale e il paesaggio, con iniziative per sviluppare la ricettività (per esempio, l’offerta di bed & breakfast, di agriturismi, negozi tipici, etc.). L’economia locale ha avuto così un notevole impulso che sta trascinando anche altre attività. Per esempio, dal 2000 è stata iniziata l’agricoltura biologica e si è passati da 5 a 37 aziende che fanno prodotti biologici certificati. Si è, poi posto, come centrale, il problema di migliorare la distribuzione e vendita del vino e dell’olio che avviene ancora in maniera frammentata e la scelta di puntare su prodotti a denominazione comunale. Se questa strategia rappresenta un’occasione, per Arquà Petrarca, di sviluppo anche in prospettiva futura, bisogna fare qualche considerazione sul contesto nel quale Arquà si colloca. Infatti, i Comuni dei Colli sono caratterizzati, allo stesso tempo, da azioni cooperative e atteggiamenti competitivi. Per esempio, per quanto riguarda i vini, vi sono varie etichette in competizione tra loro e i produttori preferiscono usare strategie di comunicazione singole, nella prevalenza dei casi, anziché agire in maniera cooperativa, capitalizzando le risorse comuni, nella prospettiva della formazione di un distretto enogastronomico. Occorrerebbe che nascano iniziative congiunte per la promozione dei prodotti e su questo punto non è ancora del tutto chiaro quale sia l’attore capace di accompagnare un simile processo. Agna è un paese di antica fondazione ed è stato luogo di eventi storici di rilievo di cui si porta il ricordo ancora nello stemma comunale. A seguito della bonifica ultimata nel XVI secolo, che ha persino prosciugato un lago, grande impulso fu dato all’agricoltura che ha prodotto un rapido incremento demografico. L’attività agricola è stata rivalutata dopo gli anni Cinquanta del XX secolo per contrastare la forte emigrazione dei decenni precedenti. Ancora oggi l’economia locale si basa principalmente sulle attività agricole e su quelle artigianali. Tuttavia, l’agricoltura è sostanzialmente estensiva tranne la coltura specializzata del melone nei mesi estivi. Differentemente dalla realtà dei Comuni limitrofi che presentano una frammentazione della proprietà agricola, con un alto numero di piccole aziende, ad Agna vi è una agricoltura che ha una lunga storia di grossi proprietari di terre. Storicamente erano tre (si trattava di ebrei che hanno acquistato la pienezza dei diritti con Napoleone, compreso quello della proprietà di terre, e che vivevano a Padova o altrove), ma una di queste grandi proprietà si è smembrata, anche se recentemente è apparso un quarto grosso proprietario. In anni recenti, ci sono state delle difficoltà che hanno investito l’agricoltura (che non è più il settore trainante e non riesce a trasformarsi nella direzione di colture specializzate più redditizie) così come la capacità del Comune di essere un polo di attrazione rispetto ai Comuni vicini (vedi il mercato domenicale che attira espositori e visitatori da tutta la bassa padovana e la recente crescita, come fattore di attrazione, del polo di Conselve). In questa situazione, le strategie dell’amministrazione comunale, sono state orientate, da un lato, verso l’investimento nell’edilizia residenziale e nell’espansione dell’attività produttiva cercando però un’intesa con i Comuni di Anguillara, Bagnoli e Tribano che hanno rinunciato a ulteriori aree artigianali (dunque in un’ottica di complementarietà), dall’altro, attraverso lo sviluppo di rapporti, collaborazioni, reti di relazioni con i Comuni limitrofi e altri attori territoriali (relazioni costruite nel tempo intorno alla figura del Sindaco che è in carica da oltre venti anni e ai ruoli che egli ha ricoperto in ambiti politici amministrativi di livello provinciale: Presidente dei tre acquedotti di Monselice, Este e Conselve; consigliere provinciale; etc.). Un punto centrale di questa struttura di relazioni è rappresentato dal fatto che oggi si possono giocare le conseguenze non attese e non pianificate di un’iniziativa che dura da 45 anni: la mostra-concorso Nazionale di Pittura, Acquarello e Grafica “G.B. Cromer” che costituisce un evento importante che ha fatto conoscere Agna in ambito anche nazionale e che ha prodotto una rete virtuosa di rapporti. Nel caso di Agna è stato utilizzato un progetto che mobilita risorse organizzative locali e reti di relazione; invece, i progetti di valorizzazione 65 n.11 / 2005 intrapresi da altri Comuni, attraverso la realizzazione di singole opere pubbliche (piste ciclabili, recupero di spazi urbani, di beni architettonici, etc.), non innescando una attivazione delle reti di relazione, sono meno efficaci rispetto agli obiettivi dichiarati. Considerando la posizione di Agna nella bassa padovana, compressa tra le aree industriali (polo del conselvano), da un lato, e, dall’altro, i Comuni agricoli che costituiscono l’asta dell’Adige, questa capacità di aver generato un flusso di visitatori che vanno ad Agna per qualcosa che è stato inventato in loco può mostrare come un piccolo Comune possa diventare un polo di attrazione. Su questa esperienza di successo varrebbe la pena di riflettere per coglierne le potenzialità di trasferibilità ad altri ambiti, in particolar modo nella direzione dello sviluppo dell’attività turistica. Le altre iniziative che già esistono in altri Comuni vicini (le feste, le sagre, gli itinerari ciclabili, etc.) potrebbero rientrare in un quadro di programmazione e integrazione interlocale che si basi sulla cooperazione tra i Comuni e il coordinamento delle loro iniziative. E tuttavia, proprio questo è quello che manca: la coordinazione e la capacità di vedere insieme la soluzione di un problema che è di tutti. Il Comune di Barbona Barbona si presenta come un caso paradigmatico di possibile esito della crisi del mondo rurale tradizionale nella mancanza di alternative. Si tratta del più piccolo Comune della provincia di Padova per numero di abitanti e presenta un andamento demografico caratterizzato dal calo continuo della popolazione. Il principale problema è, infatti, costituito dall’abbandono, da parte della popolazione residente del paese, per le limitatissime occasioni di occupazione e svago che esso offre. Parimenti, non riesce ad essere appetibile per residenzialità proveniente da fuori. Le attività commerciali e industriali sono praticamente assenti. Il fiume era un’opportunità per attività economiche e non lo è più e si lamenta la sensazione di accentuato distacco che i possenti argini hanno creato anche sul piano visivo costituendo una barriera difficile da superare. 66 La principale fonte di reddito, in loco, è costituita dall’agricoltura e la produzione più rilevante è rappresentata dagli ortaggi che vengono commercializzati a Lusia. Questo tipo di produzione specializzata viene però realizzata come secondo lavoro, dal momento che la maggior parte della popolazione attiva trova occupazione fuori dal paese. Il Comune è costituito da vari piccolissimi gruppi di case sparsi nel territorio, senza un vero principio di agglomerazione urbana, anche per l’assenza di piazze e spazi pubblici di qualche tipo. Questa mancanza viene percepita, dagli amministratori, come un grave limite che rende difficile la socializzazione tra gli abitanti. A ciò si aggiunge l’assenza di scuole che diminuisce ulteriormente, per i più giovani, l’occasione di conoscersi e frequentarsi tra loro. A rendere ancora più critica la situazione, la sussistenza di debiti del Comune (eredità delle precedenti amministrazioni) che ha posto grossi limiti all’azione dell’attuale amministrazione che, tuttavia, si è mostrata attiva nel reperire finanziamenti europei e regionali per realizzare vari progetti di natura urbanistica (una piazza, progetto a tutt’oggi ancora non finanziato) e sociale, in particolare volti ai più giovani (escursioni, iniziative di aggregazione, ludico-ricreative). I problemi di bilancio del Comune hanno anche ostacolato la collaborazione con le amministrazioni vicine per la gestione congiunta di servizi tecnici e amministrativi che avrebbe potuto costituire una via per limitare le spese. Barbona presenta tuttavia delle qualità ambientali e paesaggistiche che potrebbero essere utilmente giocate nella direzione della fruizione turistica del territorio (vedi attività di bird watching, progetto dell’oasi, piste ciclabili, percorsi sull’argine e tentativi di valorizzazione del fiume). Dato l’ambiente ancora intatto e la disponibilità di case da ristrutturare, uno scenario possibile è quello di utilizzare il patrimonio immobiliare esistente come seconde case per periodi di ferie. Un secondo possibile scenario è quello di utilizzare il patrimonio immobiliare come abitazione principale di famiglie attratte, per lavoro, nella zona (di cui si prevede un forte sviluppo) tra Boara Pisani, Vescovana e Granze. Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti 4 In che senso si cambia? Amministratori alle prese con “l’ideologia della difesa dell’ambiente” e con “l’ideologia della crescita”. rienze acquisite nel contesto dell’attività di amministrazione pubblica. Se un aspetto si è potuto osservare è che, trattandosi spesso di politiche territoriali che hanno alla base elementi di tipo relazionale, il carattere del singolo, le sue proprie opinioni, i valori di riferimento, risultano una componente rilevante per il successo dell’iniziativa, per la capacità di gestione e di trattamento dei conflitti. Probabilmente l’unica differenza sostanziale per l’analisi è che l’operato degli amministratori che sono in carica da molti anni, può essere valutato in un’ottica di medio-lungo periodo, quindi, con più elementi a disposizione. I nuovi sindaci I sindaci dei Comuni compresi nell’area-target (PSL, GAL Patavino) che sono stati intervistati si identificano secondo due profili e due stili differenti, entrambi affermati e riconosciuti nel settore dell’amministrazione pubblica nella realtà italiana. O sono politici di professione e ricoprono la carica di sindaco da molti anni (sono al secondo mandato, da quando è stata introdotta la legge per l’elezione diretta del sindaco, e in molti casi hanno avuto precedenti esperienze come sindaci o assessori, consiglieri comunali), oppure, sono insegnanti, professionisti, imprenditori prestati alla politica e di recente esperienza come amministratori. Ciò ovviamente ha delle conseguenze, che si possono osservare nei processi cui partecipano, in termini di strutturazione di relazioni e reti nel territorio, di visione dell’interesse generale, di ambizioni personali, di peso e influenza personale, di conoscenza dei meccanismi del funzionamento della macchina comunale. Tuttavia, i risultati del loro impegno come amministratori non sembrano evidenziare particolari vantaggi o maggiore adeguatezza e capacità nell’un caso o nell’altro, soprattutto nella conduzione dell’attività che più sembra essere diventata quella preponderante, cioè, saper concertare, sedersi e partecipare a molti tavoli di confronto e di negoziazione. In fin dei conti, il mestiere di amministratore è cambiato molto, negli ultimi anni, con l’introduzione di strumenti come quelli della pianificazione negoziata, i programmi europei, e si è rimodellato con l’apporto di professionalità e competenze che si sono maturate in altri campi. Stabilire accordi, sia con soggetti pubblici sia con soggetti privati, fare un gioco di squadra per potere attingere a risorse finanziarie o per realizzare un progetto sembra qualcosa che si apprende nel corso dell’azione in molti settori di attività e che non riguarda più solo ‘la politica’; l’essenziale è, dunque, averne fatto esperienza ed essere capaci di trasferire questo patrimonio personale di espe- Tra imperativi economici e investimenti simbolici In generale, dalle interviste effettuate risulta che i sindaci dei Comuni dell’area-target si presentano consapevoli, a livello discorsivo, delle problematiche dello sviluppo sostenibile e, nella descrizione e rappresentazione che restituiscono dei territori comunali di propria pertinenza, mostrano di conoscere le attività agricole, i prodotti locali, gli aspetti legati alle caratteristiche della produzione e dell’organizzazione del lavoro. In altri termini, sono molto attenti al territorio in cui agiscono e alla tutela e valorizzazione delle qualità ambientali dello stesso. Sono molto ricettivi nei confronti delle potenzialità dell’introduzione di usi innovativi delle aree agricole, soprattutto se in connessione con l’offerta turistica: amano e appoggiano l’insediamento di agriturismi e di bed & breakfast; ragionano e incoraggiano la sperimentazione di culture di qualità, di forme di organizzazione della vendita dei prodotti e di apertura a nuovi mercati; incentivano la costruzione di piste ciclabili, per le quali sono costantemente alla ricerca di finanziamenti, e desidererebbero poter fare molto di più per la manutenzione degli argini, il ripristino di sentieri ormai abbandonati, di paesaggi terrazzati e alberati irrimediabilmente sottratti da anni di sfruttamento delle risorse naturali e ambientali. In molti casi si è evidenziata una notevole sensibilità per gli aspetti diremmo ‘sociali’, come assistenza e cura quotidiana delle categorie ‘deboli’ o 67 n.11 / 2005 più bisognose del sostegno pubblico, come l’organizzazione di attività culturali e di aggregazione: le amministrazioni comunali finanziano e supportano in vario modo palii, feste paesane, sagre, dove si possono assaggiare i prodotti della tradizione o indossare costumi d’epoca, ripercorrere la memoria quasi perduta di vecchie usanze. I sindaci osservano con entusiasmo il successo di pubblico di questi eventi e riscoprono una comunità locale che non è vero che trova le sue piazze ormai soltanto nei grandi centri commerciali (che pure frequenta). Tra i Comuni che promuovono o sono luogo di iniziative che s’inscrivono in quest’orizzonte di senso sono da segnalare, con riferimento all’aera target: Agna, per la festa padronale di San Lorenzo che dura sei giorni, il mercatino domenicale con oltre 200 venditori provenienti dai Comuni vicini, il “Concorso di Pittura, Acquarello e Grafica” (che si tiene da 45 anni e che ha fatto conoscere Agna a livello nazionale); Anguillara, per la festa della patata americana, dei sugheri e della quercia (che coinvolge Agna, Candiana e Bagnoli di Sopra), la festa del formaggio e il concorso nazionale di organo; Arre, per la festa del grano e il mercatino dell’antiquariato e per il Carpe Diem Beer Festival come attrazione di un pubblico giovane; Arquà Petrarca, per la festa della giuggiola gestita dalla Pro Loco e per la festa dei prodotti biologici (a parte le manifestazioni legate alle celebrazioni del Petrarca, altrove già menzionate); San Germano dei Berici, per la Sagra della Cesola, la Sagra di San Martino, la Mostra dei prodotti agroalimentari e delle erbe spontanee in Val Liona; Candiana per la mostra dell’artigianato, la festa per la valorizzazione dei prodotti locali e la festa degli immigrati (che è concepita nell’ambito delle politiche di sostegno alla popolazione extracomunitaria, come momento di socializzazione tra gli abitanti di Candiana e dei Comuni dell’intorno e la nuova popolazione straniera); Barbona, dove si segnala la festa degli aquiloni; Battaglia Terme, che si distingue per le iniziative volte alla valorizzazione delle vie d’acqua (vedi manifestazioni come il “Canale Fiorito”); etc. Tutto questo mondo fatto di piccoli e grandi progetti, riscopre e reinventa i territori e le identità locali di molti Comuni minori che si sono trovati da 68 qualche decennio a fronte del grave problema, spesso, dello spopolamento per l’abbandono delle tradizionali attività agricole, per l’attrazione esercitata dai centri urbani, per le difficoltà occupazionali e la scarsa offerta di servizi scolastici, sanitari e per il tempo libero, di infrastrutture per la mobilità. E allora, che cosa fare? Nella sfida a sopravvivere, i piccoli centri della campagna reinterpretano le carenze e i punti di debolezza, gli elementi critici del territorio alla luce delle nuove domande che il diffondersi di una sensibilità ecologista e la non sostenibilità del modello di sviluppo delle aree densamente produttive e trafficate, congestionate del NordEst, hanno fatto esplodere di recente. I punti di debolezza possono costituire opportunità di sviluppo alternativo, essere fuori mano può attrarre segmenti di popolazione urbana, alla ricerca di migliori condizioni abitative, al contatto con gli elementi della natura; si può migliorare l’offerta di servizi. Per alcuni territori, le cui qualità ambientali e paesistiche sono di indubbia attrattiva, riorganizzarsi sulla base dell’offerta turistica differenziata è un’impresa relativamente praticabile: i Colli Euganei si impongono complessivamente come un sistema piuttosto organizzato e competitivo per le produzioni tipiche, la ricettività e le strutture di ospitalità, mentre comincia a diffondersi una nuova cultura organizzativa del settore turistico; la preziosa risorsa dei fanghi termali ha fatto di Abano, Montegrotto (e in misura assai minore Galzignano, Battaglia e Teolo, che hanno seguito un diverso modello di sviluppo del termalismo) delle mete del turismo termale, con una grande affluenza di visitatori, grandi alberghi, per quanto più recentemente il settore sia entrato in crisi per gli effetti negativi della formazione di una sorta di monocultura turistica. Là dove gli sforzi sono concentrati nella direzione del potenziamento delle risorse del turismo rurale, in genere si cerca di integrare i progetti e le iniziative di riqualificazione e di recupero di spazi urbani, di beni storici e architettonici, di siti di interesse paesistico e ambientale con la promozione e il rafforzamento sul mercato dei prodotti di nicchia (vedi l’associazione di: percorsi enogastronomici, biciclettate, passeggiate per boschi o attraverso le campagne, lungo gli argini, visite alle ville, ai Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti musei, a siti archeologici, etc.). Si tratta di investimenti simbolici ovvero della costruzione di politiche territoriali come operazioni di assemblaggio (bricolage), ove un aspetto importante è costituito dalla cura dell’immagine del territorio; le strategie di marketing più tradizionali sono accompagnate da tutta una produzione di rappresentazioni, discorsi, narrative che fanno leva sul patrimonio naturale, culturale, sulle produzioni locali non soltanto in un’ottica di fruizione e di commercializzazione ma anche di rafforzamento dei fattori di identità territoriale, con qualche spunto d’innovazione e soprattutto con un certo riscontro d’interesse e di partecipazione delle comunità locali ma non solo, come mostrano i dati relativi ai flussi turistici. In altre parti dell’area target del PSL del GAL patavino l’interpretazione che viene data alle mutate condizioni di contesto è orientata verso la progettazione di nuovi quartieri di espansione residenziale e al potenziamento dei servizi di base per la popolazione residente; quella residenziale è una specializzazione non necessariamente affiancata dall’offerta di spazi per la localizzazione di attività produttive. Tra gli esempi di politiche e strategie di sviluppo sensibili alla nozione di sostenibilità e basate sul principio della valorizzazione delle risorse endogene, nell’ambito dell’area target del PSL del GAL patavino, segnaliamo di seguito i casi di: Masi, un Comune di dimensioni molto piccole ma con un forte potenziale di qualità del territorio, fino ad oggi sostanzialmente trascurate, da promuovere a fini turistici, che l’attuale amministrazione è impegnata a valorizzare attraverso una serie di iniziative e progetti (quali la costruzione di un Ostello, piste ciclabili, servizi di ristorazione lungo il fiume, etc.), funzionali anche al rafforzamento della vocazione residenziale della zona; Barbona, un Comune piccolissimo che ‘resiste’ allo spopolamento e alle difficoltà strutturali dell’economia agricola locale, grazie all’impegno dell’amministrazione per la riqualificazione e il recupero del paesaggio rurale, dei siti di sicuro pregio naturale e ambientale, dei percorsi lungo gli argini (nonché a politiche sociali con attività di animazione, a carattere ludico-educativo, mirate soprattutto ai giovani e agli studen- ti) utilizzando finanziamenti europei e, dove, inoltre, si è costituito un Comitato per la valorizzazione e la difesa delle biodiversità dell’oasi floro-naturalistica (tra i progetti futuri, si pensa di investire in un percorso ciclabile che porti fino ad Este, collegandosi alle piste ciclabili che sono state realizzate nei Comuni intermedi); Bagnoli di Sopra, dove si prevede il completamento della pista ciclabile che passa anche per Arre, Maserà, Cattura, Conselve e Anguillara e dove si è operata la valorizzazione della presenza di beni architettonici e monumentali (si tratta sia di palazzi storici, come il complesso Villa Widmann, sia del recupero di importanti fabbricati rurali); Montegrotto Terme, dove è in atto la realizzazione di piste pedonali e sentieri ciclistici con la finalità di rivitalizzare il turismo delle Terme; Torreglia, dove si trova la bellissima Villa dei Vescovi, vi è una pista ciclabile ma sono molto numerosi soprattutto i sentieri realizzati (48 sentieri), affidati al servizio forestale (per quanto abbiano prodotto conflitti con i proprietari dei terreni sui quali passano); i 15 Comuni del Parco Colli Euganei dove si sta realizzando un complesso e variegato percorso di piste ciclabili, piste a cavallo e sentieri; infine, l’area tra Vescovana e Anguillara dove lungo gli argini dell’Adige è prevista la realizzazione di piste ciclabili. Se in questi Comuni abbiamo trovato che la realizzazione di piste ciclabili e sentieri risulta essere l’elemento caratterizzante e ricorrente (perfino un po’ di moda), in altri troviamo invece come elemento catalizzatore la riqualificazione dei siti di cava dismessi e abbandonati; così, Cervarese Santa Croce è luogo di interventi e di progetti di recupero e di valorizzazione ambientale, come il Parco urbano a Monte Merlo (per la parte del monte che è rimasta), il museo della trachite in una ex cava, associati alla creazione di numerosi sentieri e itinerari di visitazione del patrimonio monumentale (dalla Chiesa e Castello medioevale a Monte Merlo; alle vecchie fontane; ecc.); a Rovolon una cava viene trasformata in area attrezzata per il turismo e inoltre si osserva come attraverso i progetti di promozione turistica del territorio l’attività agricola tradizionalmente intesa ridefinisca la propria funzione rispetto alla cura dell’ambiente e assuma un nuovo ruolo rispetto allo sviluppo dell’economia 69 n.11 / 2005 locale; a Battaglia Terme vi sono vari interventi di riqualificazione delle cave dismesse (trasformate in zone per picnic e sosta di camper; una proposta di progetto di recupero riguarda il sito dell’ex cava, nella zona Ferro di Cavallo, dove si vorrebbe costruire una sala congressi e attività sportive legate alla roccia), ed è forte la presenza dell’associazionismo legato alla vita dei canali con l’organizzazione di manifestazioni ed eventi caratteristici (cui si aggiungono la presenza di un museo della navigazione interna, i progetti di recupero del Castello del Catajo e, in prospettiva, di percorsi di visitazione turistica delle ville, con barca e bus, in cooperazione con altri Comuni); a San Germano dei Berici il recupero di una cava dismessa prevede anche l’attrattiva di un laghetto interno, da percorrere in barca; ad Orgiano la chiusura di una cava costituisce la possibilità di creare un bacino idrico; a Grancona la presenza di cave di pietra di notevole bellezza (sono talmente interessanti che vi sono richieste, da parte dell’Unesco, di considerarle patrimonio del mondo) ha dato luogo a varie originali idee di valorizzazione e costituisce un’attrattiva turistica unitamente ai vecchi molini, ai beni architettonici e artistici (tra cui la Villa FracanzanPiovene del 1700, nella quale è stato realizzato un museo contadino, il Palazzo dei Vicari della fine del ‘500, nel quale si trova la casa museo del pittore Paolo Orgiano e altre ville, chiese), e a luoghi paesaggisticamente pregevoli; a Cinto Euganeo vi sono progetti già realizzati e in corso di attuazione per la valorizzazione di siti di interesse archeologico e ambientale (Buso della Casara, ecc.), concepiti anche come protezione del territorio che è idrogeologicamente fragile; etc. Rispetto all’area dei Colli Euganei i territori della provincia di Padova che si trovano più a sud, lungo l’Adige, hanno fatto oggettivamente più fatica ad organizzarsi e pur con delle differenze tra situazioni Comunali, sono rimasti in bilico e nell’incertezza: in una prima fase non sono stati investiti dai processi di industrializzazione del NordEst, ma soltanto in alcuni casi è stato compreso il valore aggiunto che il mantenimento di un ambiente sano e tranquillo poteva avere, una volta che si fossero presentati gli effetti negativi dello sviluppo industriale nelle altre aree, e fosse maturata l’esi- 70 genza di una revisione del modello si sviluppo economico, verso un approccio di sostenibilità. In molti Comuni, il potenziale vantaggio acquisito, rispetto alle aree congestionate e sature di insediamenti produttivi, rispetto al paesaggio e alle risorse naturali degradate, è stato messo a repentaglio una volta che si è presentata l’occasione, in concomitanza con l’annuncio dei nuovi recenti progetti di infrastrutturazione del territorio (su questo punto ci soffermeremo di seguito); in altri, è stato difficile sostituire le attività agricole se non che con attività produttive diffuse capillarmente e frammentate, in genere artigianali, che alle volte sono penetrate nel tessuto urbano dei centri abitati portando disagi. In altri ancora, si sono presentati pesanti problemi di inquinamento dei terreni agricoli a causa delle sostanze nocive trasportate dai fiumi (come il Fratta), come di seguito si esporrà più approfonditamente, e molte aree in attesa di complessi interventi di bonifica sono state sottratte alla coltivazione, portando le economie locali a situazioni di crisi profonda. In generale, nella zona della cosiddetta bassa padovana, le risorse idriche scarseggiano, si praticano culture a seminativo, che non richiedono cura quotidiana, a differenza delle culture tipiche e si cercano altre forme e fonti di occupazione. La considerazione di questi aspetti porta già delle valutazioni critiche rispetto a quella spiccata sensibilità ambientale che abbiamo prima descritto come valore diffuso tra gli amministratori locali. Ovvero, il problema è trovare forme di convivenza tra questi grossi problemi e la nuova prospettiva e sensibilità per lo sviluppo sostenibile che si sta diffondendo anche tra gli amministratori locali. Quella della gestione delle risorse idriche e dell’inquinamento dei suoli agricoli e delle acque dovrebbe essere un’emergenza di primo piano che mobilita compatti gli amministratori, i politici locali, ma in verità non emergono forme di collaborazione significativa tra Comuni, su queste emergenze ambientali, e dalle interviste viene fuori che i sindaci hanno diverse opinioni a riguardo, non c’è consenso sulla diagnosi e rappresentazione dei problemi e delle relative soluzioni. Ma che cosa succede in questi territori all’annuncio di nuovi progetti di espansione infrastrutturale, Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti se ci si trova a fronte della previsione della realizzazione, a breve, di una nuova arteria strategica per i collegamenti tra Nord e Sud, come il prolungamento della Valdastico a Sud? Quali conseguenze alla luce di una simile novità? Se prima abbiamo descritto comportamenti che mostravano, da parte degli amministratori locali, una spiccata sensibilità per la difesa dell’ambiente, con una certa propensione per la sperimentazione e l’innovazione, l’aspetto su cui adesso dobbiamo concentrarci è la riaffermazione di una vera e propria ideologia della crescita, che porta con sé cornici della conservazione, vecchi comportamenti di sfruttamento delle risorse e di utilizzi del suolo. Le aree della “bassa padovana”, soprattutto nella zona ad ovest, vengono investite in pieno dal percorso della nuova arteria stradale, e questo viene visto come un’opportunità di modificare le attuali gerarchie territoriali e le condizioni di sviluppo. Si aprono quelle che vengono descritte in genere dagli amministratori intervistati delle “nuove progettualità”, che consistono sostanzialmente nel rendere disponibili aree agricole per la localizzazione di nuovi insediamenti produttivi, o l’espansione di quelli esistenti, secondo indici abbastanza significativi. Tempestivamente si predispongono e si approvano Varianti al PRG, per regolamentare i nuovi usi e le nuove scelte localizzative. Solo per fare qualche esempio, a Vescovana, che si è trovata in posizione strategica rispetto ai nuovi progetti di infrastrutturazione, è stata prevista una nuova area industriale di 500.000 mq; a Bagnoli di Sopra dove esiste già un’area produttiva, di circa 500.000 mq, ubicata vicino a Conselve e Arre, si aggiunge la previsione di un nuovo ampliamento dell’area produttiva, con variante al PRG, di circa 800.000 mq; a Candiana, oltre alla disponibilità, già in essere, di una ampia zona industriale (160.000 mq), è in corso un ampliamento dell’area industriale (altri 200.000 mq) con attenzione, però, all’impatto ambientale e alla qualità dell’aria (con piste ciclabili e verde); a Rovolon è prevista una area artigianale di 100.000 mq nella zona a valle del Parco dove si prospetta un ulteriore sviluppo industriale; tra i Comuni dei colli Berici, Asigliano progetta una nuova zona produttiva (organizzata da privati) più grande di quella esistente nel Comune di Noventa Vicentina e contemporaneamente mette in campo una serie di progetti per la tutela del paesaggio, la difesa dell’ambiente e la riqualificazione del territorio; nuove aree di espansione produttiva e residenziale sono altresì previste da Albettone (che ha già una buona presenza di industrie), Alonte (che ha più addetti all’industria che popolazione attiva) che ha previsto tuttavia singoli progetti che mostrano l’emergere di una certa sensibilità ecologica (la costruzione di un ecocentro, il monitoraggio delle attività estrattive e un impianto di fitodepurazione); Villaga (che ha già una base consistente di addetti all’industria) ha predisposto una variante al PRG per la realizzazione di una zona produttiva e residenziale. Si sono riscontrati anche esempi di Comuni che hanno cercato (con successo o meno) l’accordo per realizzare un’area produttiva comune: in questa direzione si sono mossi i Comuni di Agna, Anguillara, Bagnoli di Sopra, Tribano e Arre; i Comuni di Boara Pisani, Stanghella e Vescovana che hanno cominciato a pensare a delle strategie associate di sviluppo industriale per complessivi 1.000.000 di mq. Accanto a questa espansione delle aree produttive, si sono riscontrati anche progetti di espansione residenziale; come nel caso del Comune di Agna, di Vescovana, di Boara Pisani, dove si sta costruendo una nuova area residenziale di 100.000 mq complessivi (attrezzata a verde e provvista dei principali servizi -scuola, farmacia-, etc.); etc. Tuttavia, le attività che si pensa di insediare nella maggior parte dei casi non trovano un progetto a monte da parte dei singoli Comuni o da parte dei Comuni tra di loro e queste nuove previsioni avvengono sostanzialmente in assenza di una programmazione (alcuni provvedimenti per mitigare gli effetti dell’espansione produttiva sono presi dai singoli Comuni limitatamente al territorio comunale di propria giurisdizione; ad esempio, in previsione di un aumento di traffico, spesso sono previsti spostamenti delle arterie di attraversamento dei centri abitati verso anelli periferici per mitigare gli effetti della circolazione di troppi veicoli). 71 n.11 / 2005 5. L’ambiguo rapporto tra costi della crescita e risorse ambientali nell’area target del GAL patavino Quasi un anno fa, è arrivato l’ottavo Rapporto Demos a spiegarci che il NordEst, la “locomotiva d’Italia” è finito, che si è stancato di lavorare, che il benessere costruito può bastare e che bisogna pensare a difenderlo e a salvaguardare la qualità della vita, con attenzione soprattutto all’ambiente e al territorio, che sono stati oggetto di un uso a volte indiscriminato e comunque fortemente intensivo. Contemporaneamente, negli stessi giorni, è arrivato anche un rapporto di Ricerca della Fondazione Nord Est su: Rovigo 2004. Sfide e opportunità per la società e l’economia che ci ha spiegato che il futuro di quest’area può consistere, da un lato, nell’incentivazione di tipologie di produzioni innovative e ad alto valore aggiunto (quali ad esempio quelle, attualmente in espansione, del settore della telefonia e degli apparecchi tecnologici); dall’altro, nell’agricoltura biologica e in nuove tecniche di sfruttamento dei terreni che ne aumentino la resa e la produttività, conciliandosi con la preservazione dell’ambiente rurale. La lettura congiunta di queste due ricerche, si può così sintetizzare: nelle aree troppo contaminate dagli inquinamenti provocati dall’eccesso di sviluppo si chiede che si realizzino meno capannoni, mentre nelle aree non ancora contaminate si spera in un modello di sviluppo alternativo e in una maggiore consapevolezza e controllo della crescita economica e degli effetti sul territorio delle scelte di sviluppo. Queste due ricerche sono state fatte, più meno, dagli stessi ricercatori. Diverso è solo il committente: nel vicentino, hanno commissionato la ricerca l’Associazione Industriali e la Banca Popolare di Vicenza; nel rodigino, ha commissionato la ricerca il Consorzio di Sviluppo del Polesine. Sui giornali locali le due ricerche sono finite insieme, descritte, a volte, nella stessa pagina e il lettore si è formato l’opinione che le due ricerche presentassero un quadro che, integrato, poteva dare l’immagine completa dell’evoluzione attuale del Nord Est: disinvestimento al di sopra della linea Milano-Venezia e investimento alternativo, nel senso di non inquinante, nella bassa fino al Po. 72 I due gruppi di ricercatori hanno svolto il loro lavoro fermandosi solo alle risposte che gli operatori economici, da loro contattati, hanno fornito a un questionario strutturato. Il problema è che questo tipo di strumento, spesso, descrive atteggiamenti e non coglie i più realistici comportamenti. E qui va chiarito che si intende con il termine atteggiamento ciò che la gente dice di desiderare o voler fare. Il questionario, per quanto possa contenere domande su comportamenti, ottiene quasi sempre risposte su atteggiamenti. È atteggiamento anche l'opinione, il sentimento, la credenza o la preferenza dichiarata. Siccome nel questionario strutturato quello che si ottiene, attraverso le risposte, è ciò che si dichiara (cioè il come ci si atteggia) la risposta su atteggiamenti è sempre, per definizione, non affetta da errori di alcun tipo. L'errore comincia quando si confonde l'atteggiamento con il comportamento. Comportamento o behaviour è, invece, ciò che la gente fa, ha fatto o farà. Nel questionario strutturato, la domanda sul comportamento spesso si rivela una domanda sull'atteggiamento corrispondente perché l'informazione fornita riguarda non ciò che effettivamente si fa, bensì ciò che la gente vuole far sapere di voler fare, di avere fatto o di stare facendo. Tuttavia, una intervista in profondità, cioè un colloquio con l’intervistato basato su domande precise e richieste di approfondimenti sulle dichiarazioni che questi va facendo, molto più facilmente permette di cogliere i comportamenti reali. Nelle nostre interviste a quasi tutti i sindaci dell’area target del PSL del GAL patavino, la domanda che regolarmente veniva fatta, dopo avere ricevuto le affermazioni sul modello di sviluppo sostenibile che si stava perseguendo nel proprio Comune, era quella relativa alle recenti modifiche apportate al Piano Regolatore. Capitava, così, di ricevere adesioni - all’ipotesi di puntare su uno sviluppo alternativo, sull’alta tecnologia (più raramente sull’agricoltura biologica essendo evidente che il ricambio generazionale impediva anche soltanto di mantenere molte delle produzioni tipiche della zona) molto simili a quelle che la citata ricerca su Rovigo 2004 ha riscontrato. Solo che, quando si passava alla presentazione delle varianti apportate al Piano Regolatore, cioè al piano concreto dei comporta- Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti menti della Giunta e del Consiglio comunale, il quadro cambiava completamente: tutti i Comuni o quasi si erano affrettati, da tempo, ad approvare varianti ai Piani Regolatori sia per aree artigianali o industriali che per l’edilizia residenziale. Come abbiamo già avuto modo di considerare erano così sorti, in ogni Comune, anche piccolo, che fosse in prossimità della Valdastico o di una bretella o di una strada a scorrimento veloce, centinaia di capannoni in un periodo in cui l’economia appariva chiaramente in crisi. Inoltre, malgrado la crisi, tutti i sindaci hanno assicurato che i capannoni erano già stati acquistati, praticamente sin da quando erano stati terminati. Nella nostra ricerca, nella prima parte delle interviste, quando si è domandato ai sindaci dei progetti di sviluppo sostenibile, si è sentito dare risposte analoghe: nelle zone più industrializzate della provincia di Padova, si è sostenuto, è ora di finire di costruire nuovi capannoni e nuove imprese ed è necessario cominciare a pensare a un migliore uso del territorio e a una conseguente migliore qualità della vita; nella “bassa padovana”, si è spesso ripetuto, bisogna puntare su modelli di sviluppo alternativi rispetto a quelli dell’alta vicentina e del padovano. Quindi, su uno sviluppo basato sulle nuove tecnologie e sull’agricoltura biologica. Solo nella seconda parte dell’intervista, quando si è cominciato a parlare di varianti ai piani regolatori, si è cominciato a capire che la cementificazione del territorio stava procedendo inesorabilmente in una direzione che le retoriche argomentative dei singoli non erano disposte ad ammettere. Questo ci ha portato a concludere che, malgrado gli atteggiamenti, dal rodigino al vicentino siano concordi nel sostenere che non si crede più nel vecchio modello di sviluppo del Nordest e non lo si vuole, i comportamenti di fatto sono di segno contrario: il vecchio modello di sviluppo del Nordest non è finito, non è sparito dalla testa di molti attori politici ed economici; l’agricoltura alternativa, sognata nel rodigino, è la stessa agricoltura alternativa che veniva sognata, fino a pochi anni fa, nella bassa padovana e che, adesso, è diventata impossibile perché è sparita sotto i colpi di una decisione presa, oramai in corso di attuazione: la realizzazione della Valdastico, l’autostrada che è destinata a congiungere Trento e Rovigo, via Vicenza e la Transpolesana. 5.1 I problemi ambientali Quello che è mancato, in queste interviste, è la percezione dell’insieme: nessun sindaco sembrava accorgersi che si trovava in una situazione come quella descritta da Jon Elster come esempio di razionalità parziale. La storia è la seguente: dieci famiglie di contadini hanno il podere in riva a un fiume. Sull’argine di ogni podere, vi è una fila di alberi la cui funzione è quella di contenere gli argini. Un contadino pensa che il taglio dei suoi soli alberi non metterà a rischio questi argini che saranno ancora contenuti dalle radici degli alberi dei vicini. Quindi, decide di tagliare i suoi alberi e di aumentare la produzione di seminato. Cosa che gli permette di aumentare di una percentuale più o meno piccola il proprio reddito. La logica di questo contadino si dimostra ineccepibile, allo stato dei fatti. Di fronte al suo risultato positivo, anche gli altri contadini decidono di essere razionali e di tagliare i loro alberi in riva al fiume. Anche essi seminano e aumentano il loro reddito il primo anno. Nell’inverno, però, la prima piena delle acque del fiume strappa ai loro campi più terreno di quanto ne occupassero gli alberi sugli argini. Il risultato della somma di tante decisioni razionali individuali non è sempre uguale alla somma dei risultati parziali. La razionalità collettiva, infatti, funziona sulla base di altri principi e sul presupposto della cooperazione. Se tutto questo è vero, vuol dire che molti hanno perso quell’occasione di sviluppo alternativo che tutti, a bocce ferme e non pressati dalle offerte, consideravano o considerano essere la più desiderabile. I fattori che più emergono come capaci di rivoluzionare completamente il territorio sono: - la costruzione di nuove strade a scorrimento veloce (soprattutto le autostrade) - il ricambio generazionale in agricoltura Questo si sta verificando in un territorio, come mostra la cartina di seguito (fig.3), in cui l’incidenza percentuale dell’edificato per ettaro è già molto elevata (la previsione è che il relativo vuoto che si riscontra a sudovest di Padova e a Sud di Vicenza sarà presto colmato per la costruzione della 73 n.11 / 2005 Valdastico Sud). 5.2 Il traffico Il primo di questi due fattori (costruzione di autostrade) sembra ovvio, ma non lo è affatto se si pensa che esso interviene a rivoluzionare il territorio molto prima che l’opera in questione sia messa in cantiere. Un esempio viene dato dal progetto di Fig.3 Fonte : PTRC Regione Veneto Consistenza dell’ edificazione : Processi di diffosione 74 realizzazione del prolungamento della Valdastico a Sud, su cui già ci siamo soffermati. Nell’attesa che sia costruita, i sindaci dei Comuni vicini o prossimi ai Comuni attraversati o adiacenti al percorso dell’autostrada si stanno organizzando con varianti a piani regolatori per costruire tangenziali, bretelle e zone industriali che saranno operative molto prima che l’autostrada sia conclusa. Il fatto è che ogni autostrada agisce più in profondi- Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti tà di quanto si presuppone e coinvolge, spesso, nel sistema viario che ne consegue, non solo le strade parallele, ma anche quelle trasversali. Con un problema, però: strade parallele e trasversali agiscono in modo non sempre omogeneo sul territorio; infatti, più in profondità agiscono i sistemi viari (cioè più lontano vanno su linee trasversali e più lontano portano gli effetti in termini di sviluppo produttivo), più dolorose e inspiegabili sono le sacche che rimangono non toccate da questo sviluppo. Quando si parla del sistema viario del Nordest, che è oggettivamente carente, si parla di una rete di strade che, troppo spesso, è al servizio di una politica di decentramento produttivo e non uno strumento di razionalizzazione degli insediamenti produttivi. Pensiamo, per esempio, al sistema viario che va da Padova a Rovigo: viene servito dall’autostrada Padova Bologna, che ha pochi caselli e, quindi, si è pensato bene di accompagnare questa arteria con una (relativamente) veloce strada parallela che ha il compito di far passare Comune per Comune il traffico che altrimenti salterebbe i comuni tra un casello e l’altro. Ottima soluzione che non ha, però, impedito che il traffico (accompagnato dallo sviluppo delle attività produttive) si muovesse in profondità da Monselice verso Este e oltre, creando quasi sempre una specie di corteo che si muove a passo d’uomo, a qualsiasi ora, nel tratto che va intorno ad Este ed oltre Este. Malgrado le enormi difficoltà di scorrimento, niente impedisce che quelle stesse aree, già in difficoltà, e quelle vicine, siano le aree in cui più consistente è la diffusione di nuove attività produttive. Il sistema viario che sarà realizzato attraverso la Valdastico dovrebbe essere caratterizzato da numerosi caselli: praticamente uno per ogni Comune per il quale l’autostrada passa. Questo renderà inutile la costruzione o il rafforzamento di una parallela provinciale all’autostrada. Se, come molti si aspettano, quell’autostrada porterà sviluppo industriale, è da ipotizzare che l’area dei colli finisca per diventare, come già si sta accingendo ad essere, un grande parco interno a una vasta area metropolitana, che si troverà imbrigliata tra tre tratti autostradali (Vicenza-Padova; Padova-Rovigo; Valdastico Sud) e un tratto della Transpolesana (Badia Polesine-Rovigo); con la conseguenza che si alzerà di molto la percentuale dell’edificato tra Padova, Vicenza, Badia Polesine e Rovigo e si creerà un barriera tra Colli Euganei e Colli Berici. Qualcosa di analogo (diventare una specie di parco interno a un’area metropolitana) potrebbe succedere anche ai Colli Berici, per quanto la sensazione sia che essi siano più lontani dal correre questo rischio. Per quanto molti comitati aspettino che i loro ricorsi blocchino tutti, la sensazione è che queste cose si faranno. Nel frattempo, il semplice annuncio del loro farsi ha già portato a un rivolgimento colossale perché si sono suscitate ambizioni incontenibili. Un problema è che non necessariamente la Valdastico diffonderà con uniformità tutti i suoi vantaggi: qualche area avrà ritmi di sviluppi deludenti, rispetto alle aspettative suscitate; altre avranno ritmi di sviluppo superiori a quelli previsti e, presumibilmente, nel punto di sbocco della Valdastico, la Transpolesana che porta da Piacenza d’Adige a Rovigo e all’autostrada Padova-Bologna, si creerà una vasta area di insediamenti produttivi che frantumerà le caratteristiche di uniformità della bassa padovana. E siccome lo sviluppo si paga, occorrerà domandarsi quali saranno i costi di questo stravolgimento che si preannuncia radicale e repentino; anzi, dal momento che, a volte, i costi si diffondono nel territorio attraverso l’acqua, l’aria, il traffico, etc., molti costi potrebbero risultare suddivisi o condivisi tra più Comuni, mentre i vantaggi potrebbero essere concentrati su un minor numero di Comuni. Abbiamo sentito molti sindaci dire: se solo ci fosse un ponte che attraversi questo fiume o una bretella che faccia questo percorso, etc., i vantaggi in termini di sviluppo sarebbero immediati. Abbiamo preso sul serio, senza porci alcun dubbio, queste considerazioni fin quando non ci è successo di percorrere una delle strade che il sindaco, che avevamo appena intervistato, aveva segnalato come il problema che impediva lo sviluppo della zona. Il sindaco sognava una bretella a scorrimento veloce ed affidava alla bretella la soluzione di molti dei problemi del suo Comune. Solo che, ritornando in macchina verso Padova, ci siamo 75 n.11 / 2005 accorti che occorrevano dieci minuti per percorrere la strada definita insoddisfacente. Forse è stato un caso, forse è stata l’ora favorevole, ma ci è venuto il dubbio che la costruzione di una bretella avrebbe ridotto di soli cinque minuti il percorso verso quel paese e cinque minuti in più non ci sembrano un ostacolo così insormontabile da costituire la causa dei ritardi nello sviluppo. La rimozione di questo preteso ostacolo non ci è sembrata una politica sufficiente a risolvere i problemi lamentati nell’intervista. Quest’esempio ci è sembrato la prova di comportamenti che, a volte, non sono affatto dettati da visioni strategiche condivisibili: sembra quasi un luogo comune che si ripete da anni nel NordEst e che consiste nel chiedere strade sempre migliori e sempre più veloci attribuendo a queste i motivi del mancato sviluppo di alcune aree e delle difficoltà di altre aree. Una ricerca condotta con lo stesso metodo dell’intervista in profondità (e realizzata da alcuni ricercatori del Dipartimento di Pianificazione dello IUAV di Venezia) sta mostrando che anche nel rodigino si sono progettate numerose zone industriali, nella forma di vere e proprie macroaree produttive e in assenza di una programmazione-quadro o di motivazioni credibili per giustificare dimensioni così ingenti (con buona pace della ricerca Rovigo 2004 che ha colto solo gli atteggiamenti): si parla infatti di 6.000.000 di metri cubi di nuove espansioni (non è stato possibile quantificare con esattezza i milioni di metri quadri progettati o già realizzati nella bassa padovana, ma le cifre sono più o meno quelle) e in assenza, tranne che in pochi casi attribuibili all’impegno specifico di singole amministrazioni comunali, di piani e procedure di selezione delle tipologie di produzione (non soltanto sotto il profilo dell’impatto ambientale ma anche del valore aggiunto e del contenuto di innovazione delle produzioni). Quindi, identica situazione di atteggiamenti retorici che puntano su modelli di sviluppo alternativi (alte tecnologie e agricoltura biologica o specializzata) e di comportamenti reali che li smentiscono (sia nel rodigino che nella bassa padovana). Con una differenza, però: che le aree lottizzate costruite nel rodigino restano, per il momento, o non urbanizzate o urbanizzate e invendute, mentre sono dichiarati tutti venduti i capannoni costruiti nella 76 bassa padovana. La differenza è attribuibile all’effetto atteso dalla Valdastico perché la situazione di crisi delle piccole e medie imprese del Nordest in questi ultimi anni non giustificherebbe la costruzione di tanti capannoni in nessuna delle due aree. Se, quindi, i capannoni vengono venduti nel quadrilatero Padova-Vicenza-Badia Polesine-Rovigo e non vengono venduti nelle aree a Sud o a Est, ciò dipende dal fatto che la speculazione sui capannoni punta su un’area che si presenta con tutte le caratteristiche dell’area destinata, appena finita l’autostrada, a ritmi di cementificazione molto elevati. Questo ha due conseguenze. Una politica e l’altra economica. Cominciamo da quella politica: tutti i politici della provincia e della città di Padova hanno gli occhi puntati verso Treviso e Venezia, come a un’unica area metropolitana che dovrebbe condividere identici problemi e prospettive e che, quindi, nel futuro, dovrebbe darsi un coordinamento. Se ne parla tanto sui giornali e sui mass media provinciali e regionali, mentre sta sfuggendo un fenomeno ancora più macroscopico che si sta realizzando in un’area più vasta che dovrebbe, presumibilmente, conoscere ritmi di urbanizzazione molto elevati nei prossimi dieci anni. Il fenomeno non solo non è previsto, ma nemmeno sospettato: questo impedirà, presumibilmente, che si prendano misure per impedire che questo sviluppo avvenga in modo disordinato e attraverso uno spreco enorme di territorio di cui, tutti, più in avanti, avranno di che lamentarsi. La provincia di Padova è, ovviamente, interessata in pieno da questo fenomeno ed è proprio la provincia quella che meno di tutti ha percepito la dimensione del fenomeno. Questo malgrado le varie occasioni costituite dall’implementazione di politiche di natura contrattuale come il Patto Territoriale Generalista della Bassa Padovana, attivato nel 2001, che come abbiamo visto vede assieme, oltre alla Provincia di Padova, 46 Comuni su 104 della Provincia di Padova (23 comuni dell’area target ne risultano compresi) e il Patto Territoriale specializzato in Agricoltura della Bassa Padovana, sempre del 2001, che ha coinvolto 51 Comuni dei 104 della Provincia di Padova (e 22 Comuni dell’area target). Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti BELLUNO TREVISO Fig.4 Fonte: Piano Regionale dei Trasporti del Veneto 2004. VICENZA VERONA VENEZIA PADOVA Rete Autostradale : linee continue autostrade esistenti linee tratteggiate autostrade di progetto ROVIGO BELLUNO FELTRE CONEGLIANO PORTOGRUARO CITTADELLA PIOVENE ROCHETTE TREVISO VICENZA MESTRE PADOVA VENEZIA SAN BONIFACIO VERONA MONSELICE VILLAFRANCA DI VERONA ROVIGO CHIOGGIA Fig.5 Fonte: Piano Regionale dei Trasporti del Veneto 2004. Rete Stradale Primaria : linee continue reticolo stradale esistente linee tratteggiate strade di progetto 77 n.11 / 2005 Con nessuno di questi due patti si è percepita la dimensione del fenomeno in atto della speculazione sulle aree industriali che stanno spingendo verso la riproduzione del modello del NordEst in queste aree in cui il territorio non aveva ancora subito veri e propri traumi (anche a causa di una agricoltura intensiva e specializzata che ormai non regge più al rapido ricambio generazionale). Questo malgrado tutti i sindaci intervistati, indipendentemente dal loro essere di destra o di sinistra, abbiano sempre dichiarato che il Presidente della Provincia si stia movendo abilmente spingendo verso forme di cooperazione fortemente regolate dall’alto. Questo metodo della regolazione dall’alto, che intraprende iniziative di partecipazione strumentali alla costruzione del consenso su decisioni già prese, evidentemente non funziona, non è capace di cogliere realmente le esigenze del territorio. Passiamo, ora, alla conseguenza economica: la piccola e media impresa è in difficoltà; ciononostante, si fanno molti capannoni e vi sono altrettanti acquirenti; è evidente che vi è in circolazione un eccesso di capitali che si sta indirizzando verso la speculazione immobiliare; è una situazione frequente in periodo di crisi, quando non si vuole lasciare inutilizzato il proprio danaro; solo che questa volta la speculazione si concentra sui capannoni. L’ipotesi è che si stia realizzando anche una riorganizzazione delle attività attraverso la delocalizzazione: le imprese che lavorano per conto terzi hanno sempre rappresentato il vero motore dello sviluppo del NordEst; imprese che diventavano grandi hanno incoraggiato loro operai ad acquistare macchine e decentrare varie fasi della produzione all’esterno della prima società; a loro volta, i più fortunati di questi operai hanno potuto fare altrettanto con altri operai, una volta che si sono sviluppate le imprese, i margini di guadagno che venivano lasciati alle imprese per conto terzi sono stati, comunque, negli scorsi decenni, abbastanza elevati. Ora, potrebbe non essere più vero: l’accaparramento di capannoni potrebbe essere realizzato da imprenditori che prospettano, per il loro settore, vacche sempre più magre nei prossimi anni e, quindi, sono intenzionati ad affittare questi nuovi capannoni a loro terzisti disposti a lavorare per loro con margini di profitto molto 78 più bassi rispetto al passato. La minaccia della rescissione del contratto di affitto potrebbe costituire la forma di pressione che permette di costruire rapporti di scambio a sfavore dei terzisti. Questa ipotesi non è così campata in aria se si pensa che, proprio in questo periodo di crisi, nuove schiere di imprenditori e artigiani sono state arruolate tra gli extracomunitari, cioè categorie sociali più deboli contrattualmente dell’abitante del posto. Se questo è vero, il modello del NordEst è destinato a rimanere ancora vivo e vitale, ma al costo di un assottigliamento dei margini di profitto complessivi che, nelle nuove categorie di artigiani e imprenditori, non sarà distinguibile dal puro salario. 5.3 Il ricambio generazionale in agricoltura L’agricoltura è la grande malata di quest’area. Eppure si era pensato e si pensa tuttora all’agricoltura come risorsa, come potenzialità da sfruttare con logiche da filiera che salvaguardassero l’ambiente. E di potenziali filiere se ne sono individuate tante nell’elaborazione del Piano di Sviluppo Locale del GAL patavino. Abbiamo riscontrato, invece, che è in corso un processo ben diverso che può essere descritto come passaggio dall’agricoltura specializzata (ad alta intensità di utilizzo di lavoro umano) alla agricoltura estensiva (ad alta intensità di utilizzo di macchine). I piccoli appezzamenti di terreno tradizionali vengono abbandonati dalle nuove generazioni e la tendenza è quella di riunirne tre o quattro in un appezzamento unico di media grandezza per renderli attraenti dal punto di vista dell’agricoltura estensiva. Questo porta a minori introiti per ettaro, ma con il vantaggio di minor costo del lavoro per ettaro. La conseguenza è che i minori costi compensano i minori ricavi a partire dalla dimensione media dell’appezzamento da coltivare. Quindi, il vantaggio in termini di calcolo economico (in un contesto in cui il lavoro è sempre più scarso e più caro) è a favore dell’estensivo (motivo per cui, con il ricambio generazionale, tanti più campi vengono coltivati estensivamente). Questo sarebbe un bene se non vi fossero degli Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti svantaggi: 1) una diminuzione costante della qualità dei prodotti coltivati (esemplare il caso del grano padovano che è diventato, a detta di alcuni, quasi immangiabile e viene regolarmente tagliato con grano americano di rinforzo); 2) la sparizione progressiva di alberi e siepi che, una volta, frenavano i venti che, adesso, senza ostacoli, spazzano i campi e asportano la terra secca di superficie; 3) il degrado progressivo delle vie di deflusso delle acque (fossi e canali) sia per i rifiuti che vi si accumulano senza che alcuno se ne curi con la frequenza e solerzia necessaria, sia perché la seminazione automatica spesso deborda nel fosso e riempie di radici e, poi, di erbacce; 4) il problema della compresenza di attività produttive a rischio ambientale (retaggio di un passato in cui i Comuni non sono stati in grado di selezionare le industrie che volevano insediarsi) e di colture biologiche (ad esempio a Bagnoli di Sopra si riscontra un inquinamento per la lavorazione di PVC, nylon e materie plastiche e un innalzamento del conflitto tra la popolazione locale e i coltivatori biologici riuniti in comitati, da una parte, e dall’altra, imprenditori del settore industriale). Tutto questo tende a delineare uno scenario preoccupante: per il ricambio generazionale che non si realizza; per il fatto che alcune coltivazioni estensive sono sopravvissute in questi anni anche grazie ai contributi della PAC (Politica Agricola Comune), una politica tipicamente distributiva che ha impegnato fino ad oggi poco meno del 50% dei fondi comunitari. Ma, la PAC è stata oggetto di un lungo processo di riforma che muove decisamente nella direzione dello sviluppo rurale e verso la considerazione dell’agricoltura come settore produttivo fortemente interconnesso con la sostenibilità ambientale e la salute pubblica; inoltre, lo scenario di questa politica nella situazione dell’UE allargata a 25 Paesi è profondamente mutato sotto l’aspetto budgetario: si sa che ci sarà un sostanzioso spostamento dei contributi a favore dei Nuovi Paesi Membri. Tuttavia, solo pochi tra i sindaci intervistati hanno fatto riferimenti espliciti alle conseguenze di questi mutamenti per l’economia locale (certamente se ne preoccupano il sindaco di Vescovana e il sindaco di Megliadino S. Fidenzio). Come se il problema, per gli altri, non esistesse o non fosse rilevante. Probabilmente, questo è un problema che interesserà i sindaci che verranno. Forme di agricoltura estensiva prevalgono a Masi, dove si riscontra la perdita dei frutteti e si fa sentire molto il problema del ricambio generazionale, legato anche all’alto indice di invecchiamento della popolazione. Inoltre il mancato controllo dei fossi produce, a volte, allagamenti, mentre la sparizione di alberi e siepi ha effetti sulla circolazione dei venti e sulla tenuta del suolo (nel caso di Masi, sono i Comuni vicini che creano, con i fossi ostruiti, allagamenti in alcune zone residenziali del paese); l’inquinamento del Fratta costituisce un problema per la campagna oltre che per la salute e se ne denuncia la dannosità. Situazioni analoghe si riscontrano a Megliadino S. Vitale (anche nelle Valli dove era stata sempre intensiva), a Tribano, ad Arre, dove la tendenza prevalente è alla trasformazione dell’agricoltore in lavoratore part-time; a Cinto Euganeo, se un prezioso apporto all’economia del Comune è dato da decine di imprese agricole sparse in un territorio vasto, molte di queste sono imprese realizzate da lavoratori di altri settori che, part-time, fanno ancora gli agricoltori (il venire meno di questa delicata organizzazione doppiolavoristica è visto dagli amministratori come un fatto grave che farebbe crollare del tutto l’economia locale); a Vescovana, l’agricoltura ruota intorno a poche grosse aziende affidate in mano a terzisti; a Boara Pisani si osserva (dall’intervista al sindaco) come la mentalità tipica contadina sia restia alla logica del lavorare in cooperativa; a Galzignano Terme, si lamenta la mancanza di marchi di commercializzazione dei prodotti agricoli, così come a San Germano dei Berici si riscontra la difficoltà di far riconoscere con marchio proprio alcuni prodotti locali di pregio (come ad esempio il prosciutto della Val Liona) e ad Arquà la mancanza di un marchio comune per i prodotti dell’agricoltura e in particolare per la commercializzazione dell’olio; a Megliadino S. Fidenzio, gli agricoltori sono sempre di meno, spesso lavorano per conto terzi (non sono proprietari dei terreni) e coltivano prodotti non specifici della zona per venderli nei territori che hanno il marchio su quei pro- 79 n.11 / 2005 dotti; a Terrazzo, vi è difficoltà a trovare il numero di aziende necessario per realizzare il distretto alimentare che potrebbe rappresentare un’opportunità per la zona; etc. La scomparsa dell’agricoltura intensiva, e del tipo di agricoltore attivo in questo modo di coltivare la terra, significa anche la scomparsa dell’attività agricola più vicina a quell’obiettivo di sviluppo sostenibile che sempre più importanza sta acquistando, in ambito UE. La prima conseguenza dell’agricoltura estensiva è che sempre di meno sono curati gli argini e i fossi e sempre di più gli alberi sono considerati come degli ostacoli alle macchine che lavorano la terra e come un elemento improduttivo. Nel fosso non si può seminare e, ai lati del fosso, spesso, si trovano degli alberi (e anche questo sottrae terra alla coltivazione). La conseguenza è stata che i fossi ricoperti o seminati, spesso, rendono difficile il deflusso delle acque. Una volta, dalla strada, non si riusciva a vedere il primo piano dei casali perché lo impedivano le file di alberi che segnavano confini o fossi e argini. Continuando così sempre meno finanziamenti dell’Unione Europea potranno essere intercettati da aziende ed enti locali. Infatti, è presumibile che, dopo l’ingresso di altri dieci nuovi Paesi nell’UE, saranno finanziati soprattutto quei progetti finalizzati al sostegno dell’agricoltura come attività che garantisca sviluppo sostenibile. Ed anche qui i documenti dell’UE sono molto chiari: solo attraverso cooperazione e sussidiarietà orizzontale si può fare vero sviluppo sostenibile. Tutto questo malgrado i sindaci sostengano che i contadini veneti sono abituati a fare tutto da soli e sono poco disponibili a queste nuove forme di cooperazione. Ci sembra, inoltre, che la malattia dell’agricoltura sia anche collegata con il problema della proliferazione di aree residenziali e produttive. Spesso si ha la sensazione, dalle interviste effettuate, che la richiesta di linee di scorrimento più veloci, ma anche le varianti al piano regolatore per costruire aree produttive o aree residenziali derivano, soprattutto, dal fatto che il bisogno di costruire si sposa con il problema del ricambio generazionale. Vi è un continuo e costante ritmo di abbandono delle campagne: molti agricoltori, che si ritirano dall’attività o vanno in pensione, non sono sostitui- 80 ti da figli che facciano dell’agricoltura il loro lavoro a tempo pieno. La conseguenza è che, spesso, laddove per vari motivi non è possibile passare o passare subito alla coltivazione estensiva (per la quale ci vogliono campi più estesi di quelli lasciati liberi dagli agricoltori anziani che abbandonano le coltivazioni intensive) l’esproprio da parte del comune è più gradito e desiderato di quanto dovrebbe. Anzi, a volte è persino sollecitato. Lo dimostra il fatto che, solo in pochi Comuni, sono stati segnalati conflitti, per le varianti ai piani regolatori, tra agricoltori che vogliono difendere la propria attività tradizionale e amministratori che vogliono costruire vaste aree produttive e residenziali. Alcuni di questi conflitti sono stati contenuti in limiti accettabili; altri sono conflitti ancora latenti che i sindaci (malgrado gli evidenti cartelli di protesta all’ingresso di alcuni Comuni) tendono ancora a sottovalutare. Questo è, anche, segno della crisi agricola perché, laddove l’attività agricola è ancora fiorente, i conflitti tra agricoltori, che difendono le loro terre dall’esproprio e gli amministratori comunali, sono spesso talmente forti da produrre la presentazione di liste civiche. Un conflitto di questo genere si è verificato a Maserà, dove è sorto un comitato per ridimensionare l’area artigianale che doveva svilupparsi al posto di aziende che producevano il noto radicchio di Maserà. Non è questo il contesto per approfondire tale questione, anche perché Maserà è fuori dell’area target, ma ne segnaliamo la rilevanza, in quanto siamo convinti che solo dove l’agricoltura non è più considerata una risorsa strategica, il consumo del suolo può essere così elevato come è emerso dalle nostre interviste. Infine uno dei problemi prevalenti dei Comuni dell’area target che hanno l’attività agricola come preponderante è l’alta frammentazione della proprietà agricola, anche se vi sono eccezioni dove le grandi proprietà adatte per la coltivazione estensiva esistono da sempre (Agna è uno dei pochi casi in cui le grandi proprietà agricole sono rimaste intatte nelle loro dimensioni, più o meno, da sue secoli, dalla Rivoluzione Francese, quando alcune famiglie veneziane, di religione ebraica, affrancate dai limiti giuridici prima esistenti per gli ebrei, hanno potuto diventare proprietari di terra e hanno deciso di investire nel Comune di Agna). Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti Vi sono tuttavia delle situazioni in controtendenza rispetto al prevalere dell’agricoltura estensiva. Per esempio, a Castelbaldo l’economia rurale è diventata anche occasione per la nascita di un settore agroalimentare; le attività di trasformazione dei prodotti agricoli sono organizzate nell’ambito di una grossa cooperativa incentrata sulla lavorazione della frutta. Più in generale, molte aziende si sono inoltre orientate all’agricoltura biologica, per quanto si evidenzi ancora l’assenza di strategie di operazioni di marketing dei prodotti, per cui pur essendovi sperimentazioni innovative interessanti, esse stentano a trovare sbocchi adeguati all’esterno per una mancata o scarsa visibilità di quello che si produce. Anche Anguillara presenta una agricoltura dinamica e in particolare emerge la produzione tipica della patata americana (si è riusciti ad arrivare al marchio) e si è costituito un Consorzio della patata americana. Coltivazioni di tipo biologico e prodotti tipici (radicchio rosso, riso, vite, con la produzione del vino friularo doc) si trovano a Bagnoli di Sopra, ad Arquà Petrarca (giuggiole, piselli, olive, olio, miele e uva da vino), a Terrazzo (mela, pera, pesca e vino), a Torreglia come a Galzignano Terme (cultura intensiva della vite e produzione di vini tipici), ad Arre (vino doc, ortaggi e vivai), a Boara Pisani (alberi da frutta, patata americana e ortaggi), che gode dei vantaggi di un ampio vicino mercato di sbocco, soprattutto per gli ortaggi, appena oltre Adige (Lusia). In quest’ultimo caso l’ambiente rurale attraente e la ricerca di una buona qualità della vita si sono tradotti in azioni di valorizzazione dell’edilizia rurale di pregio e dell’Adige, a fini di navigabilità e di visitazione turistica (con la costruzione, ad esempio, di attracchi fluviali). Analogamente a Candiana la presenza di produzioni specializzate (vino doc), di agriturismi e di beni architettonici monumentali (Villa Garzoni, Villa Renier, etc.) ha portato a rafforzare le prospettive di sviluppo turistico, con progetti di valorizzazione dei corsi d’acqua, di realizzazione di piste ciclabili, con azioni di promozione di manifestazioni culturali e iniziative per lo sviluppo del bosco (con il motto “un albero per ogni nato”, l’amministrazione comunale e i cittadini hanno nel tempo realizzato 22 ettari di nuovo bosco). Nei Comuni dell’area Berica, a San Germano dei Berici, Alonte Asigliano, Grancona e Albettone si produce uva per vini DOC; ad Asigliano si riscontra anche la produzione di radicchio rosso; ad Alettone la serricoltura; ad Orgiano si evidenzia l’apertura di un agriturismo didattico. 5.4 L’acqua Tra i costi più gravosi, uno di questi sarà rappresentato dall’acqua. Il tema dell’acqua si farà ancora più pregnante e urgente: è emerso, infatti, dalle interviste che per trovare acqua, non solo nei Comuni industrializzati, ma anche in quelli in cui ancora prevalenti sono le attività tradizionali, occorre prenderla da sempre più lontano e da sempre più in profondità. Questo fatto che oggettivamente spaventa, spinge anche verso l’esigenza di affrontare i problemi in modo cooperativo. La sensazione che si ha è che molti si siano abituati a convivere con i problemi del progressivo inquinamento delle falde acquifere e dei corsi d?acqua (tranne per il caso del Fratta Gorzone che spaventa tutti, ma non per gli stessi problemi). Quello del Fratta Gorzone è un problema troppo complesso, da una parte, e, dall’altra, se ne stanno già occupando Regione e Provincia. Il fatto che la gente sia consapevole e non guardi con emotività il problema dell’acqua (a cominciare da quello dei pozzi) può essere di aiuto ad affrontarlo in termini cooperativi, ma è anche il sintomo di una sottovalutazione della questione. Sono anni che tutte le organizzazioni mondiali segnalano che l’acqua, soprattutto quella potabile, sarà il problema cruciale del secolo che è appena iniziato. Persino il pentagono ha lanciato un allarme considerando l’acqua come la risorsa che sostituirà il petrolio come causa dei conflitti internazionali. Non ci vuole molto per sostenere che sarà anche un elemento di conflitto tra aree industriali e non, tra aree dove l’acqua è ancora pulita e aree dove non lo è più. Infatti, più si va lontano per cercare e convogliare acqua, più si è dipendenti da tutti i territori attraversati da quella conduttura: già adesso, d’estate, certi acquedotti non riescono a portare acqua a sufficienza fino agli ultimi Comuni allacciati a quella rete idrica. Presto questi conflitti tenderanno ad acuirsi e ad intensificarsi. Analoghi conflitti si svi- 81 n.11 / 2005 lupperanno sul tema di chi inquina e con che cosa. Già adesso sono state rilevate varie forme di lamentele sul Fratta e Fratta Gorzone. La caratteristica di queste lamentele è che non sono coerenti: vi è chi si lamenta del cromo esavalente che continua ad arrivare malgrado i depuratori cui sono da anni allacciate le concerie della valle del Chiampo; vi è chi sostiene che cromo non ce ne è più, ma ci sono polveri in abbondanza; tutti, infine, che lamentano che vi è tanta salmonella (e qualcuno aggiunge che, pazienza, perché la salmonella è ormai dappertutto). Insomma, non pare essersi ancora sviluppato un metodo di valutazione comune, nato da un confronto e da un’abitudine alla discussione. Eppure un metodo comune deve essere trovato su questo tema che sarà cruciale nei prossimi decenni. Anche perché, se queste difficoltà per l’acqua sono già appena sopportabili oggi, quando l’immagine del territorio, per esempio intorno al Fratta, è un’immagine di territorio rurale, certamente meno lo saranno in futuro quando, con la costruzione della Valdastico, e se i progetti dei sindaci intorno ai caselli dell’autostrada non si riveleranno delle utopie, il bacino del Fratta sarà percepito come un’area metropolitana a vocazione industriale. E, allora, tutto cambierà. 6. Conclusioni Le dinamiche che interessano l’area che è stata oggetto di osservazione rendono chiaramente percepibile la dimensione interlocale e contestuale delle politiche pubbliche che in essa hanno corso, dai nuovi progetti infrastrutturali alle varie scelte localizzative alle iniziative per il turismo, per la conservazione e valorizzazione dell’ambiente, ecc. Nell’attuazione delle politiche si determinano molteplici spazi d’interazione e hanno luogo effetti, attesi e non, che producono cambiamenti e incidono sull’organizzazione e sull’assetto del territorio; si ridefiniscono i sistemi di relazione e i ruoli che gli attori hanno; cresce la trama delle interdipendenze ed entrano in gioco le reti – più o meno formalizzate - di relazione territoriale come fattori organizzativi importanti; emergono nuove domande politiche e sociali. Se nella formazione dell’agenda poli- 82 tica e istituzionale locale si pone la questione dell’efficacia delle politiche di sviluppo, occorre sottolineare come la logica dell’intervento pubblico (che, nell’implementazione locale corrente, si definisce nell’ambito dei confini amministrativi vigenti, comunali o provinciali, e in rapporto alle strutture di relazione e agli spazi di rappresentanza entro questi istituzionalizzati) si dimostri inadeguata o insufficiente a fornire risposte alle domande emergenti, che richiedono un ripensamento della governance locale e delle forme di amministrazione, con particolare riferimento alle modalità di coordinamento e alle strategie di integrazione territoriale, alle pratiche d’uso del territorio. Emerge altresì con forza l’impegno da parte di istituzioni come le Province ad assumersi compiti di programmazione e di guida, nella direzione della “messa in coerenza” delle decisioni e delle iniziative dei singoli Comuni e della partecipazione attiva degli attori economici e sociali alla costruzione delle politiche territoriali. Questi Enti territoriali utilizzano vari strumenti e pratiche di pianificazione e di intervento, sulla scia di programmi-quadro nazionali ed europei o predisponendo iniziative specifiche appositamente approntate. A tal proposito, la Provincia di Padova spicca per l’attenzione volta, negli ultimi anni, ad operazioni di acquisizione di dati, informazioni, conoscenze sullo stato del territorio e dei progetti in corso. L’azione continuativa di monitoraggio e mappatura è stata ritenuta prioritaria e funzionale alla programmazione e alla progettazione di politiche e alla messa a punto di singoli interventi. La consultazione del sito Internet della Provincia (www.provincia.padova.it) mette il “visitatore” a fronte di una articolata banca-dati, provvista di vari “portali” (dagli itinerari enogastronomici al patrimonio storico-architettonico, alle manifestazioni, alle fattorie didattiche, ai distretti produttivi, ai patti territoriali, ecc.) e dei documenti e materiali di ricerca, analisi per ogni settore di politica. Alla voce “urbanistica”, ad esempio, compare una gamma di strumenti e piani per come di seguito riportato: 1 ) Piano strategico provinciale; 2) Carta sulla permeabilità dei suoli della Provincia; 3) Piano provinciale delle piste ciclabili; 4) Sistema delle reti ecologiche provinciali; 5) Piano provinciale della viabilità; 6) Piano d’area Giuseppe Gangemi e Francesca Gelli I progetti di territorio di 42 comuni veneti regionale “Il Bilancere – Corridoio Metropolitano PD-VE”; 7) Carta della navigabilità dei corsi d’acqua; 8) Censimento delle architetture vegetali; 9) Mosaicatura provinciale dei piani regolatori comunali; 10) Documento di Valutazione Ambientale Strategica (V.A.S.); 11) Studio di attualità del P.U.R.T.; 12) Pianificazione sul sistema territoriale della “Saccisica” e della “Bassa Padovana”; 13) Linee guida EMAS per gli insediamenti produttivi. Quest’attività assai ricca è avvenuta in buona parte nell’ambito del percorso di elaborazione del nuovo Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (che è stato adottato nel 2004) per il quale è stato messo su un vero e proprio osservatorio (non soltanto come centro di raccolta-dati, ma anche di osservazione di “buone pratiche” e di creazione di link e possibili spazi d’incontro tra settori e tra soggetti delle politiche territoriali). Un apporto importante è costituito dalla mappatura e informatizzazione delle previsioni dei PRG Comunali che pur presentando ancora delle incompiutezze offre finalmente e per la prima volta un quadro delle trasformazioni territoriali in atto. È possibile così assumere una visione d’assieme della crescita delle attività produttive e dell’espansione delle zone residenziali e industriali, commerciali e dei problemi di eccessiva concentrazione e congestione di alcune porzioni di territorio, soprattutto in prospettiva della realizzazione dei nuovi progetti infrastrutturali. Ad un primo sguardo appare evidente che questa crescita è avvenuta in mancanza di un quadro di programmazione e di un progetto di territorio e dei molti problemi che si aprono (tra cui, come far sì che i Comuni si rendano interpreti consapevoli e responsabili di questo stato di cose). Quello che tuttavia non è possibile percepire da queste rappresentazioni sono gli effetti dello sviluppo di aree contermini, delle province di Vicenza, di Verona, ecc., che sono investite in buona sostanza dalle medesime dinamiche e che la ricerca qui presentata ha cercato di esplorare e di mettere in luce, constatando anche una certa standardizzazione degli effetti che alcune politiche (europee, nazionali) producono (piste ciclabili, musei rurali diffusi, prodotti tipici e nuovi marchi, sagre e feste paesane, spazi dismessi recuperati a verde pubblico, si ripetono con poche varianti più o meno in tutti i territori). I confini provinciali, cui i Piani si riferiscono, racchiudono un mondo che sembrerebbe isolato dall’influenza dei processi in atto nei territori vicini, che la nuova e pur attenta programmazione provinciale sembra non vedere, misconoscendo appunto la dimensione intrinsecamente interlocale delle politiche, soprattutto se si considerano le pratiche d’uso del territorio (al di là delle scelte istituzionali e programmatiche) e la complicata trama degli spostamenti delle popolazioni che si muovono, sempre più e con varie finalità, nei territori. Se facciano riferimento agli scenari che la realizzazione della Valdastico Sud apre, la grossa espansione produttiva che interessa alcuni Comuni del Vicentino, ad esempio, complica la percezione delle conseguenze sociali e ambientali che nel padovano si avranno, e interviene a segnare una separazione (una barriera tra realtà Berica e Euganea) piuttosto che un attraversamento. Abbiamo visto come, nell’ambito del Patto territoriale che ha interessato 22 Comuni dei Berici, sia stata prodotta per istanza “dal basso” l’informatizzazione dei PRG Comunali. Dunque, dei dati già si dispone, quello che manca è un approccio deliberativo e partecipativo (non pro-forma, ma effettivo) alla costruzione delle politiche territoriali e un attore che di questa strategia voglia farsi interprete e portatore. Appare urgente comporre un quadro congiunto delle trasformazioni territoriali in atto, che prima che tentare di “mettere in coerenza” i territori, cercando di operare una razionalizzazione (sul presupposto della compresenza nell’area di diverse vocazioni e attività che sono in conflitto e che, nel tempo, tenderanno a diventare reciprocamente incompatibili), tenti di metterli in relazione. Questo sforzo dovrebbe vedere la mobilitazione degli attori locali, piuttosto che (o non solo che) l’attesa del coordinamento a livello Regionale e istituzionale, attraverso atti pianificatori e provvedimenti legislativi che “disciplinano”, in cui la risorsa che viene mobilitata è quella di autorità-potere piuttosto che di conoscenza, competenza sociale. Mentre, la Regione Veneto potrebbe senz’altro svolgere ancor più un ruolo di stimolo, di promo- 83 n.11 / 2005 zione del dibattito, di sensibilizzazione e di produzione di nuove rappresentazioni (e spazi di rappresentanza) dei processi territoriali in atto. La dimensione interprovinciale e la logica trasversale della politica Leader e del progetto di territorio del GAL Patavino in particolare è sembrata potere costituire una risorsa che forse si potrebbe attivare ulteriormente e in altri contesti, valorizzandone soprattutto la direzione di senso e l’orientamento. La formula del partenariato pubblicoprivato, adottata per l’elaborazione e la messa in atto del PSL, che come abbiamo avuto modo di discutere, porta al confronto e alla collaborazione ([email protected]) 84 soggetti che generalmente agiscono individualmente e separatamente, con tutti i suoi limiti e le difficoltà, predispone un contesto di interazione reiterato che può innescare processi di apprendimento e di costruzione di progetti comuni di territorio. In quest’ottica è stato visto anche l’Ente Parco Colli che da “vigile guardiano” potrebbe portarsi ad essere “soggetto catalizzatore”; allo stesso modo, i Comuni e le Province nelle loro varie forme di associazione e rete possono giocare un ruolo assai importante, sviluppando collaborazioni e alleanze tra territori, anche a partire da singole iniziative e progetti. ([email protected]) 85 Alessandra Grespan Il concetto di distretto industriale marshalliano in Becattini Il Sestante Il concetto di distretto industriale è un concetto che ormai da molto tempo è al centro del dibattito tra gli economisti ed è stato oggetto di interesse anche per gli studiosi di altre discipline: sociologi, storici, geografi, metodologi. Normalmente, il primo uso del concetto viene fatto risalire ad Alfred Marshall, sebbene si tratti di un termine comparso ancora prima dell’opera di questo autore. Lo si può già trovare in Cooke Taylor (per un saggio del 1841) e in Hearn (per uno scritto del 1863). Già in quegli anni, infatti, la circostanza che alcune aree della Gran Bretagna, prima fra tutte il Lancashire, fin dai tempi della prima industrializzazione, si fossero differenziate dal resto del paese emergendo come distretti industriali in cui la produzione industriale si era specializzata e concentrata, fu un fenomeno troppo evidente per sfuggire all’attenzione. Tuttavia, solamente con l’opera marshalliana il concetto di distretto industriale si è trasformato da concetto generico, semplicemente descrittivo, a concetto teorico importante della scienza economico-sociale. Proficuamente utilizzato da Alfred Marshall verso la fine del 1800, tale concetto viene ripreso e riutilizzato, intorno al 1969, da Giacomo Becattini, il più autorevole fra gli economisti italiani che rivendicano l’ispirazione marshalliana della teoria dei distretti industriali e il primo in Italia ad avviare una riflessione teorica in materia applicando tale concetto alla realtà della Toscana, il laboratorio dove ha realizzato gran parte delle sue ricerche. Solo dopo il recupero di Becattini dell’opera di Marshall hanno preso avvio in Italia numerosissimi studi sui sistemi locali di piccole imprese. 86 Molti sono stati gli studiosi che, spinti dalla rilevanza dei distretti industriali e dalle loro performance di successo nell’economia, hanno intrapreso molteplici ricerche ed analisi allo scopo di ricercarne le origini, i caratteri strutturali, le modalità di crescita, i punti di forza e quelli di debolezza e gli strumenti di governance. Fondamentali, ad esempio, sono stati gli studi di Michael Porter, studioso americano che analizzando il vantaggio competitivo delle nazioni, ha individuato nei distretti le ragioni del successo italiano sui mercati mondiali. Ricordiamo inoltre Enzo Rullani, Tiziano Raffaelli, Maria Tinacci Mossello e molti altri ancora. La lista è ormai diventata quasi interminabile. Ma definire il concetto di distretto industriale è un compito piuttosto delicato e difficile, da un lato perché si tratta di un concetto in continua evoluzione e una attenta definizione non può che essere “un’istantanea” di una realtà come appare in quel momento, dall’altro perché la grande varietà dei contenuti delle aree indicate come distretti, ognuna diversa dalle altre con proprie particolarità e caratteristiche, rende arduo ogni tentativo di spingersi oltre una generica definizione e di proporne una più specifica. Brusco – in un saggio del 1992 citato da Mistri - ad esempio, sostiene che “un distretto industriale di norma comprende molte imprese di piccole dimensioni, ma anche imprese di medie dimensioni e qualche volta alcune imprese di dimensioni rilevanti. Comunque la tipologia dei rapporti fra tali imprese può variare da distretto a distretto” (Mistri 1993, 36). La definizione data da Brusco, che include anche la presenza ed il ruolo delle Alessandra Grespan imprese di dimensioni più grandi, si distingue, ad esempio, da quella di Sengenberger e Pyke - in un saggio sempre del 1992 e sempre citato da Mistri per i quali “il distretto è una rete di imprese di piccole dimensioni che attraverso la specializzazione e la subfornitura dividono fra loro il lavoro richiesto per la fabbricazione di merci particolari” (Mistri 1993, p. 36). La definizione data da Becattini, invece, come ha sempre notato Mistri (1993) è molto più ampia: non è incentrata sulla dimensione delle imprese, ma sulla natura dell’organizzazione della rete di imprese, e sottolinea l’importanza dell’insieme dei rapporti che legano persone, imprese e territorio. Tuttavia, sebbene non esista una definizione univoca di distretto industriale, numerosi autori concordano nel definire un distretto come un sistema produttivo geograficamente definito, caratterizzato da un alto numero di imprese di piccole o molto piccole dimensioni, impegnate in diversi stadi e in modi diversi nella produzione di un certo prodotto (Pyke, Becattini e Sengemberger 1991). Nonostante siano oramai parecchi gli studiosi ad elaborare teorie sul concetto di distretto industriale, penso che sia convinzione diffusa che in Italia il titolo di padre fondatore di tale concetto possa essere attribuito a Giacomo Becattini al quale possono essere ricondotti tutti gli studi successivi. Il distretto industriale come modello di sviluppo economico alternativo Becattini è stato il primo economista a mettere in risalto l’esistenza di una molteplicità di sentieri di sviluppo rendendosi ben presto conto che “lo sviluppo di un’area è il risultato dell’accoppiamento di formule produttive che si possono ridurre ad un certo numero, forse non grande, ma superiore a uno, con un numero indeterminato di combinazioni socioculturali prodotte dalla storia nei diversi luoghi della terra. (…) I problemi di un’area si possono risolvere solo prestando attenzione al suo passato, in particolare ai caratteri della sua popolazione formatisi nel corso dei secoli. (…) Insomma la storia conta.” (Becattini 1998, 43). Da ciò risulta che una soluzione socioeconomica adatta per una certa area non lo è necessariamente per un’altra; questo vale per le diverse Regioni italiane e persi- Il concetto di distretto no per le diverse parti di una stessa Regione. Questa convinzione porta Becattini ad intraprendere un lungo percorso di studio sui distretti industriali, intesi come modello di sviluppo economico alternativo a quello previsto dal paradigma dominante. In questo modo, dopo quasi mezzo secolo di dominio della teoria economica che vedeva nella grande impresa taylorista e fordista il paradigma della modernità industriale, Giacomo Becattini arriva a sostenere che: “la dimensione media dell’impresa non è di per sé un indicatore univoco di efficienza e competitività; in Regioni come la Toscana, Emilia, Veneto, la base industriale è data dai suoi distretti industriali; la “base della base” è data dall’accumulazione di conoscenze ed esperienze nella testa degli imprenditori e dei lavoratori del distretto; nel mondo della globalizzazione e della crescente varietà delle tecnologie, la varietà delle culture e delle esperienze storiche delle comunità industriali italiane è un punto di forza irrinunciabile” (1998, 75-76). Becattini, ipotizzando che il fattore determinante dell’industrializzazione di alcune zone dell’Italia non è stato il semplice proliferare di piccole unità produttive, ma il loro raggrupparsi in sistemi territoriali, afferma che l’unità di analisi deve cambiare: non può più essere la piccola singola impresa, ma il distretto industriale, composto da molte piccole imprese. Esiste pertanto una differenza sostanziale tra le piccole e medie imprese appartenenti ad un distretto e le piccole e medie imprese al di fuori dei distretti. È in un suo scritto del 1979, che Becattini pone, per la prima volta in modo esplicito, come chiave interpretativa dello sviluppo locale, il concetto marshalliano di distretto industriale, considerandolo l’unità d’indagine più adatta in relazione alla situazione economica italiana. Il distretto industriale appare l’unità di analisi più conveniente, in quanto realtà diversa dall’impresa e dal settore industriale, che possiede le caratteristiche virtuose di entrambe. Il distretto, infatti, è più dell’impresa, perché in esso ha luogo una serie di episodi produttivi che riguardano l’impresa, ma si svolgono fuori di essa; il distretto è meno del settore industriale perché la sua attività non copre tutta quella del settore. Becattini, nel corso della sua ricostruzione della vicenda intellettuale marshalliana, cerca di comprendere il ragionamento che ha condotto 87 n.11 / 2005 Marshall (1966) al concetto di distretto industriale, partendo da un passo contenuto nel libro primo dei Principles of Economics in cui Marshall scrive: “Gli economisti studiano le azioni dell’individuo, ma le studiano in relazione alla vita sociale, piuttosto che a quella individuale (…) Essi guardano al comportamento di un’intera categoria di persone, che può essere una nazione, solo un distretto, o più spesso, l’insieme di persone impegnate in una data attività in tempi e luoghi specifici, e, grazie a statistiche o con altri mezzi, determinano quanto denaro, in media, i membri del gruppo in esame sono disposti a pagare per acquistare un certo bene che desiderano, o quanto bisogna offrire loro per indurli a sottoporsi ad un certo sforzo o sacrificio spiacevole” (Marshall citato da Becattini 1987a, 26). Da questo passo, secondo Becattini, si comprende che “le propensioni rilevanti dell’agente economico marshalliano, non sono le preferenze vuote e generiche del soggetto economico degli economisti puri, né le propensioni funzionali alla crescita del sistema nel suo insieme degli agenti economici classici, ma sono sempre propensioni di soggetti rappresentativi di aggregati sociali storicamente e geograficamente determinati. La realtà sociale marshalliana non è un accozzo di atomi senza patria né storia, ma un complesso di gruppi sociali territorialmente distinti” (1987a, 26). Marshall quindi tiene sempre presente sullo sfondo la dimensione storico-geografica. Becattini, inoltre, evidenzia come Marshall si opponga agli epigoni classici in tema di economie di scala e di grande impresa sostenendo che “Il consueto modo di trattare dei vantaggi della divisione del lavoro e della produzione su larga scala appare sotto un certo aspetto insoddisfacente. Infatti, il modo in cui questi vantaggi sono discussi nella maggior parte dei trattati di economia è tale da implicare che i più importanti di essi possano di norma essere ottenuti solo mediante la concentrazione di grandi masse di lavoratori in immensi stabilimenti (…) almeno in certi settori manifatturieri, i vantaggi della produzione su larga scala possono in generale essere conseguiti sia raggruppando in uno stesso distretto un gran numero di piccoli produttori, sia costruendo poche grandi officine (…) Per molti tipi di merci è possibile suddividere il processo di produzione in parecchie fasi, ciascu- 88 na delle quali può essere eseguita con la massima economia in un piccolo stabilimento (…) Se esistesse un gran numero di questi piccoli stabilimenti specializzati per l’esecuzione di una particolare fase del processo produttivo, vi sarebbe spazio per redditizi investimenti di capitale nell’organizzazione di industrie sussidiarie rivolte a soddisfare i loro bisogni particolari” (Whitaker 1975, citato da Becattini 1987b, 46). La concentrazione del capitale e delle conoscenze produttive e commerciali in poche grandi imprese non è quindi per Marshall una necessità economica per ogni attività industriale; anzi essa può avere effetti negativi come l’indebolimento dell’offerta dell’iniziativa individuale. Marshall individua nella localizzazione dell’industria i vantaggi dell’addestramento di manodopera specializzata e della più rapida circolazione delle idee. Per comprendere l’origine di questi vantaggi basta pensare che quando in molti si interessano ad una attività, si possono trovare parecchi di loro che sono idonei, per doti intellettive o caratteriali, a concepire idee nuove le quali potranno poi essere studiate e migliorate da numerosi cervelli. Ogni nuova idea sperimentata può di conseguenza essere una opportunità per riflettere ed avere nuove ispirazioni (Becattini 1987b). Nello sviluppare le sue analisi, Marshall, considerando che anche l’impresa, come l’individuo, non è mai isolata dalle relazioni socio-economiche del luogo a cui appartiene, assume l’organizzazione come elemento primario di indagine, ponendo l’accento, in particolare, sul meccanismo di specializzazione-integrazione che contraddistingue il processo di crescita di un organismo. Nell’analisi di Marshall, la chiave per comprendere le origini della nozione di economie esterne di localizzazione è data dall’inserimento dell’organizzazione tra i fattori della produzione. L’organizzazione sociale e industriale alla quale Marshall si interessa è sottoposta a processi tali per cui lo sviluppo dell’organismo, sia sociale che fisico, comporta, da un lato, una crescente suddivisione delle funzioni tra le sue varie parti e, dall’altro, una maggiore integrazione, connessione tra di esse. In questo modo ogni parte diventa sempre meno autosufficiente e sempre più dipendente dalle altre parti per il proprio benessere. Nella specializzazione industriale questo meccani- Alessandra Grespan smo di differenziazione/integrazione si realizza nella scomposizione del processo produttivo in imprese di fase individuali (divisione del lavoro), e si ricompone alla scala dell’intero sistema locale, in un intreccio dinamico di concorrenza e cooperazione. Alla luce di questa concezione della realtà, appare chiaro che il conseguimento di economie nella produzione non dipende tanto dalle dimensioni della singola impresa ma dal modo in cui la produzione è organizzata e interagisce con l’ambiente sociale e produttivo dove essa si svolge. È con le premesse appena illustrate che, secondo Becattini, Marshall giunge a formulare la sua definizione di distretto industriale, presentato come una possibile alternativa al modello della grande impresa di organizzare la produzione, in certi settori manifatturieri, senza che si debba rinunciare ai vantaggi della divisione del lavoro. Nei Principles of Economics (1890), e successivamente in Industry and trade (1919), sulla base della conoscenza acquisita attraverso lo studio dello sviluppo industriale di alcune aree dell’Inghilterra vittoriana che si erano notevolmente differenziate dal resto del paese fin dai tempi della rivoluzione industriale come Sheffield (metallurgia) e Lancashire (tessile), definisce il distretto industriale come una organizzazione su base locale formata da una concentrazione di molte piccole industrie specializzate che, condividendo lo stesso territorio, si specializzano e sviluppano legami stabili, creando una intensa divisione del lavoro ed una cooperazione tra soggetti specializzati in determinate fasi dello stesso ciclo produttivo. Alla base della costruzione teorica del distretto industriale sta il concetto di “economie esterne” per mezzo del quale Marshall spiega l’esistenza di processi cumulativi e di rendimenti crescenti nel processo produttivo geograficamente concentrato (Becattini 1979). Marshall valuta la competitività e la vitalità delle imprese nei distretti in termini di efficienza ed assegna grande importanza alle “economie derivanti da un aumento della scala della produzione di una data specie di merci” (Bellandi 1987, 52). All’interno delle economie di scala egli distingue due tipologie di economie: 1) le economie interne, che dipendono dalle risorse delle singole imprese, dalla loro organizzazione, dall’efficienza della loro amministrazione e che si espri- Il concetto di distretto mono attraverso costi medi decrescenti realizzati all’aumentare della produzione e quindi sono economie tipiche delle grandi imprese; 2) le economie esterne, che dipendono dallo sviluppo generale dell’industria e determinano una riduzione dei costi medi delle imprese che appartengono all’industria in questione anche se ogni impresa mantiene costante sia la produzione che gli impianti. Il vantaggio competitivo dei distretti industriali deriva dalle economie esterne. Alla base di questo concetto marshalliano si trovano i vantaggi della concentrazione territoriale (locale) e della specializzazione (settoriale). Le economie esterne, esterne alla singola impresa ma interne al distretto, nell’analisi marshalliana “costituiscono vantaggi equivalenti alle economie interne di scala e i piccoli produttori ne possono fruire, purché siano sufficientemente concentrati sul territorio e sia possibile suddividere il processo di produzione in fasi, ciascuna delle quali possa essere eseguita con la massima economia in un piccolo stabilimento” (Tinacci Mossello 1987, 97). I fattori di successo dei distretti industriali si giocano quindi prevalentemente sul concetto di economie esterne, o ancora meglio, di economie esterne di agglomerazione, dovute alla concentrazione geografica di una moltitudine di piccole imprese e delle quali un’impresa può avvantaggiarsi se inserita in un agglomerato relativamente grande. Si tratta di economie che si manifestano attraverso specifici vantaggi, come ad esempio la riduzione dei costi di produzione e di transizione, e possono assumere più forme. Le economie esterne hanno in Marshall un carattere di forte radicamento territoriale, di rilevante complementarietà, e di forte irreversibilità fondata nelle strutture storico sociali, a differenza delle economie interne che hanno un ciclo vitale con fondamento quasi biologico che prevede un processo di sviluppo e uno di decadenza. La struttura socio-economica generatrice di un tale valore è la comunità e la famiglia da cui si sviluppa un sistema di imprese integrate che favoriscono le economie esterne che si traducono a loro volta in atmosfera industriale, caratteristica peculiare del distretto industriale marshalliano. Nel pensiero marshalliano il distretto industriale non è riducibile alla semplice somma delle imprese in esso insediate, ma ne sono parte costitutiva 89 n.11 / 2005 anche l’insieme dei rapporti sociali e delle tradizioni produttive che si sono sedimentate localmente (Corò 1995). Con il concetto di “industrial atmosphere” Marshall indica un fenomeno di condivisione sociale del sapere produttivo. Tale concetto è una delle caratteristiche essenziali della tipica “fabbrica senza mura” marshalliana: esso non sta ad indicare un sapere generico e indistinto, né depositato in un luogo specifico (come ad es. un reparto specializzato di una grande unità produttiva), bensì si riferisce ad un sapere diffuso e ad un insieme di conoscenze pratiche che costituiscono il patrimonio distintivo dell’economia locale. È un patrimonio di conoscenze distintive in quanto la sua riproducibilità in contesti diversi è problematica, essendo costruito su tradizioni e culture sociali che non si possono trasferire con la stessa facilità con la quale si può spostare un singolo insediamento produttivo (Corò 1995). Il concetto marshalliano di atmosfera industriale, definito da Rullani (1995) una sorta di “bene pubblico” invisibile, sta ad indicare un insieme di cultura, di linguaggio condiviso, di conoscenze implicite, di norme sociali di condotta. Esso esprime una comunanza territoriale, storica e culturale; è uno dei vantaggi competitivi di cui godono le imprese appartenenti al distretto industriale in quanto riduce i costi di transizione tra le imprese, elevando il valore economico degli scambi (Corò 1995), diminuisce i costi di relazione tra soggetti interagenti e i costi di informazione e di coordinamento. Secondo Mistri il distretto industriale, inteso nel senso di Marshall e così come riproposto da Becattini, rappresenta “un sistema autopoietico dotato di una sua chiusura sul lato delle competenze comunicative che appartengono al distretto industriale specifico e che quando variano divengono rapidamente patrimonio comune delle imprese che vi fanno parte, al punto che si può parlare di apprendimento cumulativo e sociale” (1997, 152). Secondo l’approccio autopoietico, nell’uso che ne fa Mistri, un sistema vivente è un’entità autonoma che trova in sé stesso le regole del suo funzionamento e dei rapporti con l’ambiente esterno. Un sistema autopioetico ha una organizzazione tale per cui esso è in grado di mantenersi continuamente da solo con i propri mezzi e mediante la sua stessa dinamica (Mistri 1997). 90 Inoltre, l’universo di tali competenze comunicative dà luogo ad un “sapere condiviso” (Rullani 1992, citato da Mistri 1997, 152) che Marshall indica con il termine “industrial atmosphere”. Il distretto industriale marshalliano viene inteso da Mistri come forma autopoietica ricollegandosi al pensiero di Becattini che lo definisce un “ispessimento localizzato” che presenta una certa stabilità nel tempo e che paradossalmente mantiene maggiormente la sua identità come distretto industriale quanto più esso è in grado di rinnovare continuamente sé stesso (1987b). Il distretto industriale è pertanto un sistema autopoietico capace di autogenerarsi e di mantenere la sua stabilità topologica. In altre parole, esso è capace di modificare la propria struttura mantenendo inalterata la propria organizzazione e sopravvivendo così come distretto. Il distretto può anche modificare la propria organizzazione, ma in questo modo finirebbe di esistere come distretto e assumerebbe una forma diversa (Mistri 1997, 153). L’unità a cui Marshall fa riferimento è quindi il distretto industriale. “È a questo - scrive Becattini che si riferiscono le condizioni di densità di popolazione, di dotazione infrastrutturale, di atmosfera industriale, che sono la fonte e il risultato, la causa e l’effetto, di quella parte dei rendimenti crescenti che non si spiega né con le economie interne di scala, né con le vere e proprie innovazioni” (1987b, 47). È a queste condizioni che si riconduce quella parte di rendimenti crescenti, ossia “quel di più” di produttività che fa emergere il Lancashire in Gran Bretagna, la Ruhr in Germania, Prato ed altri distretti in Italia. Ciò che tiene insieme le imprese del distretto industriale marshalliano è una rete complessa ed inestricabile di economie e diseconomie esterne, di congiunzioni e di connessioni di costo, di retaggi storico-culturali, che avvolge sia le relazioni interaziendali che quelle interpersonali (Becattini 1987b, 47). Il distretto industriale come concetto socioeconomico Prima di Marshall, l’espressione distretto industriale si riferiva ad un concetto di significato generico e stava ad indicare semplicemente un’area contraddistinta dalla presenza di attività industriali, a prescindere dalla sua estensione geografica, dalle Alessandra Grespan caratteristiche dell’organizzazione produttiva della sua attività industriale, e dalle interdipendenze dell’attività industriale con la struttura sociale. Solamente con Alfred Marshall il concetto di distretto industriale racchiude in sé una accezione socio-economica-territoriale che supera il vecchio significato generico di distretto industriale. Il distretto industriale marshalliano possiede un forte contenuto territoriale: la dimensione geografica come quella storica assume una rilevanza particolare. Becattini, riprendendo le intuizioni di Marshall, in tema di distretti industriali, ed adattandole al contesto italiano, giunge a formulare una propria definizione di distretto industriale, inteso come: “un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali” (1989, 112). Nel pensiero di Becattini la prima componente essenziale nel processo di sviluppo del distretto è quindi il territorio, inteso come insieme di fattori storici, culturali e sociali. Becattini lo concepisce come un elemento attivo, poiché è al suo interno che nascono i nuovi modelli di organizzazione della produzione. In altre parole, il territorio contribuisce alla formazione del distretto industriale: il processo di produzione di un distretto si attua infatti grazie alla concentrazione in un’area determinata di più unità produttive specializzate appartenenti alla stessa industria. La dimensione territoriale è quindi parte integrante del processo produttivo. Il territorio diventa il fattore strategico delle opportunità di sviluppo di alcune aree considerandone le diverse condizioni storico-culturali e le caratteristiche economiche; assume inoltre un ruolo molto importante nel generare e sostenere la competitività, in quanto è il luogo in cui si organizzano le forme di cooperazione fra le imprese e la divisione sociale del lavoro. La crescita dei distretti industriali passa dunque attraverso un sistema di condizioni ambientali che sono contenute nelle condizioni sociali. La seconda componente necessaria per la nascita di un distretto industriale è la popolazione di piccole e medie imprese indipendenti, nessuna dominante sull’altra in termini di dimensione o di Il concetto di distretto relazioni interindustriali, “tendenzialmente coincidenti con le singole unità produttive di fase” (Becattini 1989, 125). Per popolazione di imprese Becattini non intende un insieme “di singole imprese accidentalmente concentrate in certi luoghi, e men che meno un diffuso tessuto, ma un sistema di imprese caratterizzato da un’intensa divisione del lavoro a cui (…) si attribuiscono doti di efficienza e flessibilità tali da farne delle realtà significative nei mercati mondiali di certi tipi di prodotti” (1998, 41). Il distretto è dunque “un caso di realizzazione localizzata di un processo di divisione del lavoro” (1989, 114). Con il termine localizzato Becattini non intende una casuale concentrazione di processi produttivi in un determinato luogo, bensì “un radicamento nel territorio che non può essere separato concettualmente dal suo processo di formazione” (1989, 115). Ogni processo produttivo di un distretto ha quindi peculiarità diverse da quelle di ogni altro distretto. Da queste premesse, Becattini giunge ad affermare che ogni unità produttiva operante in un distretto è una unità con una sua propria storia autonoma, ma anche un meccanismo del distretto. Per queste motivazioni egli ritiene fondamentale, soprattutto all’interno di un’economia come quella italiana, distinguere le piccole imprese che appartengono ad un distretto dalle piccole imprese che non appartengono ad un distretto. Le prime appartenendo ad un aggregato sociale, devono essere considerate in modo diverso dalle seconde. Non è corretto, quindi, a suo parere, il confronto fra piccole imprese appartenenti ad un distretto e piccole imprese operanti in altri contesti (1998). Infine, la terza componente è la comunità locale. Un distretto industriale non si caratterizza infatti solamente da un sistema locale di imprese fra loro in relazione, ma anche da una comunità di persone che vivono quelle relazioni in termini economici, sociali e culturali. L’aspetto più peculiare di questa comunità di persone è che in essa si viene a stabilizzare nel corso del tempo un sistema di valori comune che coinvolge tutti gli aspetti della vita. Tale sistema di valori, precisa Becattini (1989), rappresenta uno dei requisiti necessari per la formazione del distretto e per la sua riproduzione. Ma non tutte le combinazioni di valori danno luogo 91 n.11 / 2005 alla nascita e allo sviluppo del distretto industriale: affinché si formi un distretto è necessario che questo sistema di valori non ostacoli l’intrapresa economica e l’innovazione tecnologica, altrimenti si verificherebbe un ristagno sociale e di conseguenza il distretto non si formerebbe. Da quanto appena detto si può sostenere che nel distretto, a differenza di quanto accade in altri ambienti, la comunità e le imprese tendono, per così dire, ad interpretarsi a vicenda. “Non si tratta semplicemente di una forma organizzativa del processo produttivo di certe categorie di beni, ma di un ambiente sociale in cui le relazioni fra gli uomini dentro e fuori dai luoghi della produzione, nel momento della accumulazione come in quello della specializzazione, e le propensioni degli uomini verso il lavoro, il risparmio, il gioco, il rischio, ecc., presentano un loro peculiare timbro e carattere” (Becattini 1987a, 8). È, più semplicemente, un nucleo di relazioni stabili vita-lavoro, un sistema sociale. Le caratteristiche strutturali del distretto industriale Dimensione. Becattini (1989) ritiene che data la molteplicità delle fasi e il meccanismo della loro suddivisione, sia naturale ipotizzare dimensioni tecniche ottime abbastanza basse. Tuttavia questo non esclude che alcune imprese possano avere anche dimensioni abbastanza grandi. La modesta dimensione delle imprese specializzate in una o più fasi implica una divisione del lavoro di tipo orizzontale, anziché la tendenza all’integrazione verticale. Le dimensioni ridotte delle aziende fanno sì che il numero degli addetti e l’ammontare dei beni capitali e di prodotto di ciascuna impresa non possono essere molto elevati, e quindi questo rende possibile dare luogo ad una gestione individuale e familiare delle aziende stesse. Si tratta infatti di imprese a forte tradizione artigianale, per lo più a conduzione individuale o familiare, dove l’imprenditore stesso può partecipare direttamente all’attività produttiva eseguendo in prima persona mansioni operaie e tecniche, e spesso gli stessi impianti sono fisicamente localizzati nelle vicinanze della residenza dell’ “imprenditore capo-familia”. 92 Becattini, a questo proposito, parla di “animal spirits delle popolazioni” (1998, 58), per indicare quell’impasto di sentimenti che anima appunto le famiglie del distretto e che appare come fattore decisivo per il successo: si tratta di una forte spinta interiore, di sacrifici di energie e di tempo, di un miscuglio di solidarietà e rivalità, di concorrenza e collaborazione, e di emulazione ed invidia. Considerata l’articolata divisione del lavoro, di cui si è ampiamente parlato, e quindi il fatto che ogni fase produttiva è complementare alle altre, si può comprendere l’esistenza di una fitta rete di rapporti di interdipendenza fra le imprese distrettuali. Ogni azienda, quindi, pur avendo una sua autonomia organizzativa, partecipa alla formazione di quella che Marshall definisce “fabbrica senza mura”, ossia un’unica ed immensa fabbrica. Infatti, se prendiamo in considerazione congiuntamente le tre caratteristiche del distretto (modesta dimensione delle imprese, grande numerosità delle imprese, raggruppamento in uno stesso territorio), si può notare che, se le imprese del distretto sono singolarmente piccole, esse formano un sistema che presenta una dimensione complessiva piuttosto rilevante. “È anche grazie alla rilevante dimensione complessiva del distretto industriale se le singole unità che lo compongono, in certe condizioni, possono beneficiare, prevalentemente sotto forma di economie esterne, dei vantaggi della specializzazione e della produzione su larga scala” (Dei Ottati 1987, 120-121). In altre parole, grazie a questa struttura, un distretto industriale può beneficiare dei vantaggi delle economie di scala proprie delle aziende di grandi dimensioni e in più avere la flessibilità produttiva propria delle aziende di piccole dimensioni. Concorrenza e cooperazione. Il fatto che il distretto sia costituito da un gran numero di piccole imprese specializzate, raggruppate in una stessa località, non è privo di conseguenze sul tipo di rapporti economici esistenti tra soggetti che vivono e lavorano in altre città. Affinché questo modello di organizzazione economica funzioni è necessario che vi sia una particolare consuetudine di cooperazione reciproca estesa ai rapporti economici. Solo dove esiste questa consuetudine, secondo Marshall, è possibile che il Alessandra Grespan processo economico sia organizzato nel rispetto del modello del distretto industriale. A questo proposito, secondo Becattini, si potrebbe sostenere che all’interno dei distretti industriali vi sia un apparente paradosso: il fatto che essi diano luogo, contemporaneamente, ad una vivacissima concorrenza e ad una considerevole cooperazione fra le imprese che ne fanno parte. Si tratta di aspetti contradditori, in quanto la presenza dell’uno dovrebbe escludere l’altro, ma il distretto “è un ambiente dove i fenomeni della concorrenza e della cooperazione si manifestano in forma accentuata e interagiscono fra loro in modo economicamente virtuoso, tale cioè da alimentare una continua crescita della produttività” (Becattini 1998, 50). Pertanto, la vivacissima concorrenza interna al distretto presuppone e continuamente rigenera, forme poco visibili, ma non per questo meno potenti, di collaborazione consapevole e semiconsapevole fra agenti del distretto. Nel distretto industriale, quindi, i rapporti che intercorrono fra i soggetti sono il risultato del combinarsi della concorrenza nei mercati del distretto con la collaborazione reciproca. Concorrenza e cooperazione si sviluppano insieme, creando una miscela equilibrata di potenzialità e stimoli, cui le aziende sono chiamate a rispondere e che contribuiscono a mantenere il distretto coeso e dinamico. Pertanto nel distretto sono presenti, a tutti i livelli, flussi continui di conoscenza, informazioni e know-how (Becattini 1998). La competitività deriva dalla struttura stessa del distretto industriale: l’elevata concentrazione di imprese, la loro piccola dimensione, la loro specializzazione in una certa fase del processo produttivo. Dall’altro canto la cooperazione deriva dal fatto che i soggetti all’interno di un distretto industriale, in quanto raggruppati stabilmente in uno stesso ambiente sociale, condividono una medesima cultura (stesso linguaggio, stessi valori, stessi significati) e medesime regole di comportamento (consuetudini). L’integrarsi di concorrenza e cooperazione è essenziale per l’efficacia del distretto industriale, in quanto rafforza lo stimolo di ricercare le soluzioni produttive meno costose e la spinta di rinnovarsi continuamente, ossia favorisce il processo di cambiamento continuo (Dei Ottati 1987). Nella misura Il concetto di distretto in cui la cooperazione svolge un ruolo di garanzia contro i rischi maggiori che possono derivare partecipando al gioco economico, essa consente di aumentare il numero dei partecipanti; di conseguenza permette di economizzare la capacità di iniziativa e la disponibilità al rischio (entrambe essenziali per il cambiamento). In questo modo, secondo Becattini, i rischi di coloro che intraprendono una attività economica sono ridotti, visto che in caso di insuccesso possono fare appello alla collaborazione altrui. La cooperazione consente anche un’efficace coordinamento delle attività strettamente complementari, cioè dirette a soddisfare specifiche esigenze qualitative e quantitative delle imprese acquirenti e quindi un contenimento dei costi. L’abbassamento dei costi permette di godere delle economie esterne. In definitiva, la cooperazione contribuisce all’integrazione del sistema, mentre la concorrenza lo mantiene flessibile e innovativo. Molteplici sono i vantaggi del bilanciamento fra concorrenza e cooperazione. La loro interazione dà luogo ad un circolo virtuoso che mantiene l’equilibrio dinamico fra le due forze e riproduce la competitività e le condizioni di sopravvivenza del distretto come sistema socioeconomico vitale e coeso (Becattini 1998). Il mercato. Becattini nel definire il mercato ideale di un distretto industriale ritiene che, nonostante l’intensa concorrenza infra e inter-distrettuale, esso non debba essere inteso come un complesso omogeneo di compratori (o venditori) indifferenti ai produttori (o compratori) e ai luoghi di produzione (o di consumo) e interessati solamente ai prezzi delle materie prime, dei beni, dei servizi e delle macchine. Nel mercato dei distretti industriali, è a suo parere necessario fornire, insieme alle merci, molte informazioni, poiché considera quelle incorporate nel prezzo insufficienti per la scelta (Becattini 1989). Becattini ritiene essenziale che ogni distretto abbia una propria “immagine” (Becattini 1989, 119) distinta sia da quella delle imprese che lo compongono sia da quella degli altri distretti. È necessario che la “merce rappresentativa” di un distretto si differenzi nel livello di qualità, nei materiali utilizzati per la sua creazione, nei trattamenti tec- 93 n.11 / 2005 nici e in molti altri aspetti, dalle altre merci simili ad essa affinché esista qualcosa di determinante ai fini della sua scelta e preferenza. “La nascita e lo sviluppo di un distretto industriale è quindi non semplicemente il risultato locale dell’incontro di certi tratti socio-culturali di una comunità (sistema di valori, di orientamenti e di istituzioni), di caratteristiche storico-naturalistiche di un’area geografica (orografia, reti e nodi di comunicazione, forme di insediamento, ecc.), e di caratteristiche tecniche del processo produttivo (decomponibilità dei processi, brevità della serie, ecc.), ma anche il risultato di un processo di interazione dinamica (un circolo virtuoso) fra la divisione-integrazione del lavoro nel distretto e l’allargamento del mercato dei suoi prodotti (…) L’uno quindi alimenta l’altro.” (Becattini 1989, 120). Flessibilità. Le caratteristiche principali che contraddistinguono la struttura produttiva di una impresa distrettuale sono: 1) l’elasticità (variazione quantitativa della domanda), cioè la possibilità di ridurre il volume della produzione senza che il costo del prodotto aumenti ad un livello tale da non essere più competitivo; 2) la flessibilità (variazione qualitativa della produzione), cioè la possibilità di ottenere, dalla stessa struttura tecnico organizzativa, prodotti diversi senza essere costretti a sopportare “oneri di trasformazione” incompatibili con la situazione economica e concorrenziale dell’impresa. Il distretto industriale vanta una certa abilità nel fronteggiare situazioni di diffusa incertezza grazie alla propria capacità di adattamento e quindi di innovazione. Si può dire che, nei distretti, non è tanto rilevante il know-how tecnico, bensì la capacità di adattarsi continuamente ai cambiamenti esterni. Becattini riconosce ai distretti industriali delle straordinarie “doti di efficienza e di flessibilità tali da farne delle realtà significative nei mercati mondiali di certi tipi di prodotti” (1998, 41). Questa flessibilità deriva dalle modeste dimensioni delle unità produttive che consentono una rapida riconversione dei processi all’evolversi dei mercati e delle tecniche. L’organizzazione produttiva non è comunque l’unico fattore determinante della flessibilità: per realizzarla è necessaria anche la disponibilità dei sog- 94 getti ad accettare il mutamento continuo e ad essere in grado di rispondere a situazioni nuove. Si può dire che è la stessa struttura sociale presente all’interno del distretto ad essere particolarmente adatta al coordinamento flessibile delle risorse. La possibilità di utilizzare risorse familiari e comunitarie, ad esempio, ha creato, da una parte, le condizioni per cui i lavoratori si adattano alle esigenze di un lavoro flessibile, dall’altra, le condizioni grazie a cui i datori di lavoro hanno accesso ad una fonte di lavoro flessibile. Inoltre, gli stretti legami comunitari e di parentela hanno fornito sia meccanismi di mutua assistenza nei momenti di bisogno, sia le risorse necessarie per creare nuove imprese, grazie anche alla fiducia reciproca dei soggetti. Le imprese di un distretto possono così fare affidamento su una manodopera che accetta elevati livelli di flessibilità e di mobilità del lavoro. I lavoratori devono essere sempre in grado di rispondere a situazioni nuove; essi devono pertanto possedere una qualificazione professionale specializzata, ma non parcellizzata, e quindi flessibile (Dei Ottati 1987). Innovazione e tecnologia. Il veicolo principale di sviluppo del distretto industriale è il progresso tecnologico, l’innovazione e l’informazione. Il distretto industriale marshalliano appare, quindi, come “sistema territoriale strutturato e dinamico”. La capacità innovativa diffusa è uno degli elementi più qualificanti del distretto industriale. È proprio “la sequela d’innovazioni che hanno dato origine e restituito impulso alla formazione e allo sviluppo dei sistemi locali. Innovazioni fondate sulla conoscenza diretta dei bisogni dei consumatori, sull’approfondita padronanza di un materiale, sulla necessità di rimuovere una strozzatura nel processo produttivo, sull’esaurimento degli schemi organizzativi consueti, e così via escogitando” (Becattini 1998, 57). L’innovazione, sinteticamente rappresentata dal progresso tecnico, rende possibile lo sviluppo estensivo del sistema con una ulteriore divisione del lavoro, e quindi un aumento del numero delle piccole imprese (Mistri 1993). La produzione di innovazioni nei distretti è stimolata dal clima sia di cooperazione che di competi- Alessandra Grespan zione. Da una parte, il clima di cooperazione reciproca, che consente in caso di bisogno di contare sulla altrui collaborazione, stimola i soggetti ad intraprendere i processi innovativi. Dall’altra parte, la concorrenza ininterrotta fra le imprese porta ad innalzare continuamente gli standard qualitativi e ad introdurre cambiamenti nei processi di produzione per poter soddisfare sempre di più le esigenze di mercato. Le imprese sono così consapevoli che se non si innovano e non saranno competitive per prezzo e qualità e i loro potenziali compratori si rivolgeranno altrove. L’innovazione nel distretto è agevolata anche dalla presenza di nuclei specializzati in industrie ausiliarie o complementari (settori della filiera) dotati di specifiche atmosfere tecniche, cioè di tecnologie, di convenzioni di scambio e di modelli organizzativi condivisi da un gruppo di produttori operanti nella medesima attività (Bellandi 1997). La presenza di diverse atmosfere tecniche, ossia di diverse conoscenze, favorisce combinazioni originali di idee su prodotti, processi, mercati, e perciò una capacità innovativa diffusa. Alcune innovazioni possono ricevere un ampio successo economico ed essere così elemento di aggregazione per nuovi nuclei di specializzazione. In questo modo si aprono ulteriori possibilità di interazione innovativa fino ad innescare un circolo virtuoso (Bellandi 1997). Le innovazioni dei distretti non sono di tipo radicale ma incrementale, che si formano attraverso un processo di “learning by doing”, dall’intuizione di qualche operatore. Le caratteristiche dei distretti industriali ora, nell’era della globalizzazione, sono certamente diverse, come d’altronde quelle delle grandi imprese, in relazione ai cambiamenti che sono intervenuti nell’economia mondiale. Ma nonostante presentino caratteristiche nuove, suggerite o imposte dall’emergere dei nuovi contesti mondiali, i distretti sono ancora una struttura portante dell’economia. Non a caso Becattini aveva già preannunciato un decennio fa che si sarebbe parlato “dei sitemi produttivi locali del Duemila come degli eredi legittimi dei distretti industriali marshalliani inglesi dell’Ottocento e dei distretti italiani del tardo Novecento” (1998, 73). Secondo Becattini alla base dei cambiamenti intervenuti nei distretti industriali stanno due complessi di forze: uno esterno, che Il concetto di distretto deriva dai mutamenti intervenuti nelle condizioni di mercato e nella tecnologia mondiale; uno interno che deriva dallo sviluppo stesso dei distretti. Una volta iniziati questi cambiamenti alcuni studiosi hanno colto l’occasione per preannunciare una imminente dissoluzione dei distretti ma, dopo molti anni di trasformazioni in corso, si può dire con assoluta certezza che oggi si continua a parlare di distretti industriali e forse in modo ancora più accentuato rispetto ad un decennio fa (Becattini 2001). D’altronde, come ha già affermato Becattini, “il fatto che i distretti industriali stiano subendo delle trasformazioni non è di per sé allarmante (…) sarebbe anzi più sconcertante se, viste le enormi trasformazioni che stanno avvenendo nell’ambiente economico, i distretti non subissero cambiamenti” (1998, 103). È quindi un bene se tali sistemi produttivi locali si dimostrano reattivi alle variazioni dell’ambiente e non ha importanza se ciò li porta a percorrere strade che sembrano lontane da quelle presunte. E poi, non dimentichiamo, prima di arrischiarci di parlare di dissoluzione dei distretti, che il distretto è fin dalla sua origine un sistema evolutivo nel quale regna una cultura di cambiamento: esso muta, si adatta, si evolve e può quindi rispondere alle sfide imposte dal processo di globalizzazione. Riferimenti bibliografici BECATTINI, G. (1987), Dal settore industriale al distretto industriale. Alcune considerazioni sull’unità di indagine dell’economia industriale, Rivista di economia e politica industriale, n. 1, 1979, pp. 721. Ristampato in: Mercato e forze locali: il distretto industriale, G. Becattini (a cura di), Bologna, Il Mulino BECATTINI, G. (1987a), Introduzione: Il distretto industriale marshalliano: cronaca di un ritrovamento, pp. 7-34, in: G. Becattini (a cura di), Mercato e forze locali: il distretto industriale, Bologna, Il Mulino BECATTINI, G. (1987b), L’unità di indagine, pp. 35-48, in: G. Becattini (a cura di), Mercato e forze locali: il distretto industriale, Bologna, Il Mulino. Questo scritto riproduce, lievemente modificato il precedente: “Dal settore industriale al distretto industriale”, Rivista di economia e politica indu- 95 n.11 / 2005 striale, 1979, pp. 7-21. BECATTINI, G. (1989), “Riflessioni sul distretto industriale marshalliano come concetto socio-economico”, Stato e Mercato, n. 25, aprile, pp. 111128. BECATTINI, G. (1998), Distretti industriali e made in Italy. Le basi socioculturali del nostro sviluppo economico, Torino, Boringhieri BECATTINI, G. (2001), “La via dei distretti supera il nanismo”, Il Sole 24-Ore, 11 marzo BELLANDI, M. (1987), La formulazione originaria, pp. 49-68, in G. Becattini (a cura di), Mercato e forze locali: il distretto industriale, Bologna, Il Mulino BELLANDI, M. (1997), Le logiche del cambiamento nei distretti industriali, in L. Ferrucci e R. Varaldo (a cura di), Il distretto industriale tra logiche di impresa e logiche di sistema, Milano, Franco Angeli CORÒ, G. (1995), “Il sostegno locale all’apertura internazionale: le condizioni di un servizio”, Oltre il ponte, n. 50 DEI OTTATI, G. (1987), Il mercato comunitario, pp. 117-142, in: G. Becattini (a cura di), Mercato e ([email protected]) 96 forze locali: il distretto industriale, Bologna, Il Mulino MARSHALL, A.(1966), Principles of Economics, London, Macmillan, 8°ed. (1° ed. 1890) MARSHALL, A. (1919), Industry and Trade, London, Macmillan MISTRI, M. (1993), Distretti industriali e Mercato unico europeo: dal paradigma della localizzazione al paradigma dell’informazione, Milano, Franco Angeli MISTRI, M. (1997), Distretti industriali e competenza comunicativa come processo autopoietico, in Benedetti E., M. Mistri e S. Solari (a cura di), Teorie evolutive e trasformazioni economiche: complessità, auto-organizzazione ed autopoiesi in economia, Padova, CEDAM PYKE, F., G. BECATTINI e SENGENBERGER (1991), Distretti industriali e cooperazione fra imprese in Italia, Firenze, Banca Toscana RULLANI, E. (1995), “Distretti industriali ed economia globale”, Oltre il ponte, n. 50 TINACCI MOSSELLO, M. (1987), Economie di agglomerazione e sviluppo economico, pp. 93-116, in: G. Becattini (a cura di), Mercato e forze locali: il distretto industriale, Bologna, Il Mulino Dario Ventura La costituzione mista nel De Magistratibus et Republica Venetorum di Gasparo Contarini Il Sestante I. Repubblicanesimo, federalismo e costituzione mista La fortuna del pensiero politico di Gasparo Contarini ha avuto una vicenda alquanto singolare. Il De magistratibus et republica Venetorum infatti, pur rappresentando la più completa ed esauriente opera sulla struttura politica della repubblica di Venezia composta da un cittadino veneziano, è stato tuttavia a lungo trascurato, proprio in Italia, dagli studiosi del pensiero politico e della storia delle idee politiche. L’opera del cardinale infatti, a motivo della messe di informazioni – invero piuttosto dettagliate – che fornisce sulle istituzioni della repubblica veneta e sul loro funzionamento, è stata certamente oggetto dell’attenzione degli storici che si occupano della storia di Venezia e dell’Italia nella prima età moderna; ma indubbiamente lo spessore filosofico del De magistratibus et republica Venetorum non è stato adeguatamente focalizzato. Coloro che per primi hanno gettato luce su quest’ultimo fondamentale aspetto dell’opera di Contarini sono stati alcuni storici anglosassoni, come Frederic C. Lane o William J. Bouwsma, e studiosi della New Political History quali John G. A. Pocock e Q. Skinner. Costoro, in qualità o di promotori e sostenitori, o di storici di quella corrente di pensiero denominata repubblicanesimo – o “ideologia repubblicana”, basata sulla presunta supremazia del pensiero politico repubblicano, o, come è stata chiamata dai suoi critici (Pecchioli 1971, 693-708; Cochrane – Kirshner 1975, 321-334; Vasoli 1977, 661-670), “ideologia americana” – hanno dedicato la loro attenzione (anche) a Contarini e a Venezia in quanto hanno visto nella Serenissima una tappa del percorso storico e filosofico-politico del repubblicanesimo, che nacque a Firenze agli inizi del XV secolo per approdare negli Stati Uniti d’America attraverso la Gran Bretagna e, appunto, Venezia1. Le considerazioni qui presentate non intendono seguire la via discendente dal ricco e vivace dibattito, per lo più di carattere metodologico, che tale filone interpretativo ha generato per stabilire la liceità o meno dell’interpretazione della Venezia di Contarini quale momento del suddetto percorso; sarà bensì imboccato il cammino contrario che risale alle fonti e si tenterà di addentrarsi nel testo del De magistratibus et republica Venetorum per capire mediante quali strumenti concettuali il cardinale analizzi e presenti la costituzione, la forma politica della sua città natale. Tale strumentario concettuale – che, per anticipare quanto si vedrà in seguito, è rappresentato dalla nozione di costituzione mista – È doveroso precisare che, nella lunga introduzione all’edizione italiana della sua opera, J. G. A. Pocock scrive che è errato sostenere – come fa invece C. Vasoli in particolare – che "io mi unisco a Bouwsma e a Lane nel sostenere che fu tramite l’esempio di Venezia che i valori repubblicani passarono nella tradizione anglo-americana. Venezia, in effetti, ha un ruolo secondario e per certi aspetti figura nel ruolo di antagonista nella storia che narro" (Pocock 1980, 28). 1 97 n.11 / 2005 sarà analizzato così come esso è stato recepito, inteso, delineato ed “usato” da Gasparo Contarini, senza occuparsi delle influenze che esso ha avuto (o può aver avuto) sul pensiero politico successivo, ma gettando invece uno sguardo sui riferimenti filosofici del pensiero politico del cardinale. II. I "luoghi della mistione" nella costituzione di Venezia Libertà (libertas) ha qui un doppio significato: essa indica tanto un regime non tirannico, quanto l’indipendenza da ogni dominio esterno. I Veneziani credevano di possedere la libertas in entrambi questi significati (Gilbert 1988, 119). 2 98 Nel tardo Medioevo e nell’Evo Moderno la repubblica di Venezia fu ammirata e considerata come una sorta di leggenda, di caso straordinario in tutta Italia ed anche in Europa. Questa fama era dovuta principalmente alla libertà2, alla pace e stabilità interne, di cui sempre godette la repubblica veneta, nonostante essa avesse vissuto momenti di crisi anche grave. Fin dalle prime pagine del De magistratibus et republica Venetorum, Gasparo Contarini dimostra di essere ben conscio dell’eccezionalità della sua città e ne fornisce subito la spiegazione: Venezia "avanza" (Contarini 1551, 9) tutte le altre formazioni politiche non solo e non tanto per il luogo sicuro in cui sorge, ma soprattutto "per la forma di Republica dalla quale si fa la vita degli uomini beata" (Contarini 1551, 9). Il cardinale ammette che la storia ha conosciuto repubbliche superiori a quella veneta per "imperio, stato e gloria di guerra" (Contarini 1551, 9), ma osserva come nessuna di queste possa essere paragonata alla città lagunare per "istituzione" (Contarini 1551, 9) e "leggi accomodate a bene e felicemente vivere" (Contarini 1551, 10). Sono proprio le leggi il motivo della pace, della stabilità, della libertà della repubblica di Venezia, il motivo per cui essa passerà alla storia come Serenissima. E lungo tutto il De magistratibus et republica Venetorum, Contarini tesse l’elogio di coloro che emanarono tali leggi: gli "antichi maggiori" (Contarini 1551, 10), ossia i fondatori di Venezia. Costoro furono uomini eccezionali quanto a "sapientia, industria, virtù d’animo, carità verso la patria" (Contarini 1551, 10), persone che "non si dilettarono d’ambizione né di boria, ma solamente ebbero cura del ben della patria e dell’utilità comune" (Contarini 1551, 11) e che si occuparono in primis di orientare ed ordinare la vita dei cittadini all’uso della virtù (Skinner 1989, 248-249). Un merito particolare Contarini ascrive agli "antichi maggiori": nella loro opera fondativa essi "posero studio maggiore nella pace che nella guerra" (Contarini 1551, 19). Il cardinale non vuol certo sostenere che i fondatori trascurarono "gli uffici della guerra" (Contarini 1551, 19), bensì sottolineare come costoro si adoperarono in primo luogo affinché in nessun modo "si dissolvesse la civile concordia" (Contarini 1551, 19). Per Contarini è proprio questo lo scopo per cui, confortati anche dall’opinione dei "filosofi famosi" (Contarini 1551, 18) secondo i quali la repubblica si deve "temperare dello stato dei nobili e di quello popolare […] per fuggire gli incomodi dell’uno e dell’altro governo e per averne tutte le utilità" (Contarini 1551, 18), essi "fecero quella mescolanza di tutti gli stati che giusti sono, acciocché questa sola republica avesse il principato Regio, il governo dei nobili e il reggimento dei cittadini" (Contarini 1551, 19). Nel presentare e descrivere la repubblica di Venezia e i suoi magistrati, il cardinale ricorre – come si può desumere dai passi appena riportati – a quella concettualità, a quella tradizione di pensiero che è indicata con l’espressione di “costituzione mista”. Vanno subito sottolineati due aspetti, che già si possono Dario Ventura G.Contarini e la costituzione mista rilevare da queste due citazioni: in tutto il De magistratibus et republica Venetorum Contarini non usa mai l’espressione “costituzione mista”; non solo, ma per indicare i componenti di cui la repubblica veneziana è mescolanza, usa – verrebbe da dire indifferentemente – diversi vocaboli: il cardinale infatti parla di "stato" ma anche di "principato" regio ed usa i termini di "governo", come pure di "stato" ed anche di "reggimento", per indicare tanto l’elemento popolare quanto quello nobiliare (Contarini 1551, 72, 74, 92). Ciò che tuttavia salta immediatamente all’occhio, è non solo l’uso di una terminologia instabile, fluttuante, ma soprattutto il fatto che il cardinale presenta la repubblica della sua città natale come mescolanza, ora di due elementi (il popolare ed il nobiliare), ora di tre (il regio, il popolare ed il nobiliare). Si è insomma in presenza, oltre che di una terminologia multiforme, varia, anche di una molteplicità e diversità a livello concettuale. Nell’utilizzare la categoria indicata dall’espressione “costituzione mista”, Contarini infatti si rifà a due differenti concettualità: ad una prima, quella che prevede la mistione di due soli componenti, la quale è riconducibile, in modo piuttosto chiaro, alla scienza politica di Aristotele; ad una seconda, di ispirazione polibiana3 e – per indicare un referente più prossimo a Contarini – tomista: "Politia bene commista ex regno… et aristocratia… et ex democratia" (Thomas de Aquino 1988, I-II, 105, 1). Verso la fine del ‘200, seguendo fedelmente San Tommaso che indicava in quella mista la miglior forma di “costituzione”, è Enrico da Rimini a parlare per primo di Venezia come di regimen mixtum. Questa concezione è ripresa, circa un secolo più tardi, da Pier Paolo Vergerio nel suo De repubblica Veneta e, nella prima metà del ‘400, dal cronachista Lorenzo De Monacis. La teoria che vedeva nella repubblica di Venezia la realizzazione dell’ideale della “costituzione mista” (contemplante la mistione delle forme della monarchia, dell’aristocrazia e della democrazia) è riproposta con forza da Giorgio da Trebisonda attraverso la presunta derivazione dell’ordinamento veneziano dalle Leggi di Platone (Ventura 1981, 533-542; Gilbert 1988, 121-123). Non solo queste due distinte concettualità – per così dire – si accavallano ed intrecciano nel corso di tutto il De magistratibus et republica Venetorum, ma è fin da subito indispensabile notare come il cardinale se ne serva in modo decisamente libero e disinvolto e quindi, in definitiva, originale. Per dipanare quest’intricato nodo di tradizioni, è opportuno iniziare dal riferimento ad Aristotele. Lo Stagirita definisce la politeia (intesa come forma specifica di costituzione) come, "per dirla in maniera generale, una mistione di oligarchia e democrazia" (Aristotele 1993a, 1293 b 33-34). Nel nono capitolo del quarto libro della Politica, Aristotele spiega infatti che costruire una politeia vuol dire mettere insieme elementi della democrazia ed elementi dell’oligarchia, "prendendo per così dire un sumbolon da ciascuna delle due" (Aristotele 1993a, 1294 a 35). Tre sono i "luoghi della mistione" (Aristotele 1993a, 1294 a 36): • Le assemblee giudiziarie. Il criterio oligarchico prevede ammende per i ricchi che non vi prendono parte e per i poveri nessun compenso se vi partecipano; invece il criterio democratico elimina l’ammenda per i ricchi che non partecipano, ma stabilisce una ricompensa per i poveri che vi prendono parte. "Prendere contemporaneamente queste due disposizioni è una soluzione comune e intermedia tra le due legislazioni e per ciò stesso caratteristica di una politeia, poiché è una mescolanza di due regimi" (Aristotele 1991-1996, 1294 a 43-45). Ciò che "È infatti chiaro che si deve ritenere migliore quella costituzione che è composta da tutti e tre gli idiomi menzionati in precedenza [ossia basileia, aristocratia, democratia]" (Polibio 1987, 6, 3, 7). 3 99 n.11 / 2005 La funzione del Maggior Consiglio, come subito si vedrà, era quella di scegliere i cittadini che dovevano rivestire le varie magistrature. Ma non solo. A Venezia tutte le leggi erano emesse "sotto nome del Doge" (Contarini 1551, 23), fatta eccezione per il periodo intercorrente tra la morte di un Doge e la proclamazione del suo successore, durante il quale le leggi erano "ordinate dall’autorità di questo Consiglio" (Contarini 1551, 26). 4 100 qui vuol dire lo Stagirita è che in una politeia sono previste tanto un’ammenda per i ricchi che non partecipano alle assemblee giudiziarie, quanto una indennità per i poveri che invece vi prendono parte. • Le assemblee deliberative. Secondo gli oligarchici il merito (ossia il requisito che è necessario soddisfare per essere cittadini e, in quanto tali, poter appunto aspirare ad esser membri dell’assemblea) è quello di un censo elevato; secondo i democratici il merito è rappresentato dalla semplice eleutheria (libertà) o da un censo esiguo. In una politeia il merito richiesto è quello di un censo che sia mediano tra quelli prescritti dalle due costituzioni. • Criterio di assegnazione di cariche e magistrature. Il criterio oligarchico è quello dell’elezione; il criterio democratico è quello del sorteggio. In una politeia le cariche sono elettive, ma indipendenti dal censo. È di importanza fondamentale far presente subito il seguente aspetto: se si assume come prospettiva il secondo dei due punti sopra elencati, allora la repubblica di Venezia non appare certo come mescolanza di elementi e criteri diversi. Contarini spiega come il merito per essere cittadini – così stabilirono gli "antichi maggiori" – non sia la ricchezza, neppure un censo intermedio. Tra i nativi veneziani sono invece cittadini i nobili. Usando quest’ultimo termine, il cardinale intende significare non solo e non tanto la nobiltà di sangue, bensì la virtù: i nobili sono infatti uomini "chiari per virtù, benemeriti della Republica" (Contarini 1551, 22), tutti coloro che con ricchezze e prove di valore "han fatto beneficio alla Republica" (Contarini 1551, 22) e la hanno onorata; i nobili non praticano la professione di artigiano, servo o mercenario, ma fin da ragazzi si dedicano agli studi liberali o all’arte marittima (Contarini 1551, 140-142). A questo punto, anche tralasciando la natura del rapporto tra i concetti di nobiltà e di virtù (tutt’altra che chiara nelle parole di Contarini), è già possibile fissare e sottolineare un aspetto di importanza decisiva: poiché il merito è unicamente ed univocamente inteso come nobiltà, Venezia, sotto questa specifica ma fondamentale prospettiva, è un’aristocrazia. I cittadini della repubblica veneta sono solo i nobili; detto altrimenti, nel Maggior Consiglio – l’assemblea cui accedevano tutti i cittadini veneziani, "appresso il quale è la somma autorità di tutta la Republica" (Contarini 1551, 23)4 – siedono soltanto i nobili: "i nostri maggiori ordinarono saviamente che la plebe non fosse ammessa a questa compagnia di cittadini nella quale è tutta la possanza della Republica" (Contarini 1551, 20). La mistione di "stato" popolare e "stato" dei nobili si verifica invece a Venezia in relazione al terzo "luogo" elencato da Aristotele. La procedura mediante la quale il Maggior Consiglio "crea" (Contarini 1551, 26) tutti i magistrati ed assegna le cariche di Senatore e di Doge, è una complicatissima ed originale mescolanza di sorteggio ed elezione. Nella sua struttura essenziale, tale procedimento consta di molteplici passaggi in cui, tra tutti i cittadini riuniti nel Maggior Consiglio (ossia i soli nobili!) viene sorteggiato un gruppo, il quale elegge un altro numero di cittadini, tra i quali vengono nuovamente sorteggiati altri cittadini ancora, i quali – a loro volta – ne eleggono altri. E così in questo modo per più volte (il numero delle quali varie a seconda dell’incarico che deve essere assegnato) finché, mediante l’ultima fase che consta sempre di un’elezione, viene "creato" il magistrato. Per quel che riguarda la procedura di "creazione" dei soli Senatori, ovvero i membri del Senato, l’assemblea cui apparteneva "la cura del governo della Dario Ventura G.Contarini e la costituzione mista Republica" (Contarini 1551, 77), si deve notare come in questa sia riscontrabile la presenza di un ulteriore criterio. Infatti, oltre a quello popolare (corrispondente al criterio che per Aristotele è democratico) e a quello nobiliare (rispondente a quello che per lo Stagirita è il criterio oligarchico), compare anche un criterio che – visto il palese riferimento alla Politica di Aristotele pur in assenza di una citazione diretta – si potrebbe denominare aristocratico: l’anzianità5. Per il cardinale, come la natura "ha così disposto l’ordine di tutto il mondo, che le cose prive di senso e di intelletto, dalle adorne di mente e di ingegno siano rette e governate" (Contarini 1551, 73), così ha di conseguenza stabilito che "in questa radunanza di uomini, la quale da noi vien chiamata città, i più vecchi ai più giovani debbano essere preposti di prudenza" (Contarini 1551, 73). Rispetto ai giovani infatti, gli anziani sono meno esposti al vento delle passioni ed hanno più esperienza. Pertanto, "quando questo ammaestramento s’accosta il più che può alla Natura, l’imperio dei vecchi non può dai più giovani essere in alcun modo biasimato e per questa cagione far nascere sollevamento nella Republica" (Contarini 1551, 73). Con l’istituzione della suddetta procedura nella creazione dei magistrati, gli "antichi maggiori" conseguirono due risultati egualmente importanti e significativi. Mediante il sorteggio ottennero che tutti i cittadini potessero partecipare con ugual “peso” e probabilità alla "creazione" dei magistrati e contemporaneamente che le cariche fossero distribuite tra i membri di tutte le famiglie6. Grazie a ciò fu così possibile evitare che una o poche casate diventassero troppo potenti rispetto alle altre, alimentando così il risentimento delle famiglie escluse con serio pericolo per la concordia tra i cittadini e quindi per la pace e la stabilità della repubblica (Contarini 1551, 39). Mediante l’elezione resero possibile evitare l’inconveniente dell’estrazione a sorte, ovverosia che le magistrature potessero essere ricoperte da persone ad esse non adeguate (Contarini 1551, 42). In considerazione di questa modalità procedurale, Contarini può dunque affermare che nell’assegnazione delle cariche è "mista insieme con la specie popolare la forma dei savi maggiori e nobili" (Contarini 1551, 42)7. La modalità in cui sono istituite ed organizzate le tre Quarantie – i principali tribunali di Venezia – presentano un riferimento al primo di quelli che Aristotele ha indicato come i luoghi della mescolanza tra oligarchia e democrazia. L’assegnazione di un compenso ai membri poveri del tribunale è un provvedimento che viene adottato allo scopo di coinvolgere anche i cittadini meno facoltosi nella vita politica. Tale emolumento consente infatti a costoro di lasciare le loro occupazioni personali e di poter pertanto svolgere la mansione di giudice non solo senza essere economicamente danneggiati, ma anzi, da questo punto di vista, gratificati. Ebbene, poiché "le più volte" (Contarini 1551, 105) i cittadini (comunque nobili) che rivestono la funzione di giudice nelle Quarantie non sono abbienti, le leggi veneziane prevedono una diaria per costoro (mentre non sanzionano con un’ammenda quei membri ricchi che non prendono parte alle sedute del tribunale pur essendone stati "creati" membri): in tal modo anche "i cittadini di basso grado hanno adito alla Republica" (Contarini 1551, 105). Stando così le cose, si deve concludere che le Quarantie erano costituite secondo quello che lo Stagirita aveva stabilito essere il criterio democratico. Non si deve tuttavia sopravvalutare l’importanza di questo “segmento” delle istituzioni veneziane, giacché, come vedremo in seguito, il controllo dei "cittadini di basso 5 Per l’autore della Metafisica è infatti l’anzianità il criterio che permette di accedere alla funzione di governo e regola l’alternanza tra governanti e governati nelle aristocrazie (Aristotele 1993a, 1329 a 2-19 e, soprattutto, 1332 b 35-41). 6 "Cosa propria […] e peculiare è di ogni Republica che della publica potestà molti partecipino. E quella cosa è molto giusta, che i cittadini tra loro uguali […] non siano diseguali nel conseguir gli onori" (Contarini 1551, 3940). E i cittadini veneziani sono, per Contarini, uguali tra loro, in quanto tutti ugualmente nobili. Nel passo appena riportato si trova un palese riferimento – seppur in assenza di una esplicita citazione – alla dottrina aristotelica del giusto distributivo. (Aristotele 1993b, 1131 a 10 – 1131 b 24; Aristotele 1993a, 1301 b 29-39, 1302 b 12-14). 7 E, aggiunge il cardinale, "pure con siffatta temperanza, che quella che è dei nobili e maggiori, avanzi la ragione popolare" (Contarini 1551, 42). Tale precisazione è addotta per il fatto che l’ultima e decisiva fase della procedura di "creazione" dei magistrati era sempre rappresentata da una elezione 101 n.11 / 2005 In relazione a quanto appena detto è opportuno ricordare che, in un contesto politico-culturale premoderno come quello cui appartiene anche Contarini, l’agire politico consta tanto del “governare”, quanto dell’”essere governato” (Duso 1999, 56-61). Può inoltre essere utile ricordare la definizione di cittadino che dà Aristotele: cittadino è "quegli che ha la facoltà di partecipare all’ufficio di consigliere e di giudice" (Aristotele 1993a, 1275 b 19-20). 8 102 grado" sulle Quarantie era comunque equilibrato e controbilanciato, nell’ambito complessivo della forma mista della repubblica di Venezia, dal controllo su altre istituzioni esercitato dai cittadini di grado più alto. Non riferendosi più ad alcuno dei luoghi della mistione indicati da Aristotele, ma sempre usando il concetto di mescolanza di due elementi, il popolare e il nobiliare, Contarini presenta ancora un altro aspetto “misto” della repubblica veneta: la modalità procedurale secondo la quale delibera il Senato, che, come visto, è l’assemblea cui "appartiene tutta la cura del governo della Republica" (Contarini 1551, 77). Il cardinale spiega come fosse compito del Collegio dei Proconsultori o "Savi" (Contarini 1551, 23) elaborare e formulare le proposte dei decreti, le quali, per avere vigore, dovevano essere confermate (non dibattute, bensì semplicemente convalidate) dal Senato – ossia da tutti i senatori riuniti in assemblea – mediante una votazione a scrutinio segreto. In tal modo di "consigliarsi" (Contarini 1551, 92) del Senato, secondo Contarini "appare chiaramente un certo mescolamento di leggi dello stato popolare e della Republica dei nobili" (Contarini 1551, 92). Il fatto che la prerogativa del Senato sia limitata alla votazione (senza possibilità di controproposta) dei progetti di decreto presentati dal Collegio dei Savi rappresenta "lo stato dei nobili" (Contarini 1551, 92); mentre il fatto che le proposte dei Proconsultori, per aver il titolo giuridico di decreto o senatoconsulto, debbano essere confermate dal voto del Senato, "è come un ordine di popolar governo" (Contarini 1551, 92). È qui opportuno notare come la procedura deliberativa appena descritta fosse seguita da tutte le magistrature della Serenissima. Il cardinale osserva come gli "antichi maggiori" avessero stabilito che nessun magistrato potesse, da solo, "essere arbitro, ovvero giudice, di nessuna cosa; ma in ogni cosa hanno voluto che la somma autorità e arbitrio fosse attribuito ai Consigli ovvero ai Collegi" (Contarini 1551, 101). Ebbene, mentre solo i Capi del Collegio ("creati" dal Collegio stesso) disponevano della prerogativa di formulare le proposte di provvedimenti, solo il Consiglio nella sua interezza poteva approvarli e licenziarli. A questo punto è possibile trarre una prima conclusione. Come già si è detto, se si assume come prospettiva quella del merito, ossia del requisito da soddisfare per poter essere cittadini, Venezia è un’aristocrazia, poiché cittadini sono solo ed esclusivamente i nobili (in quanto per nobiltà – come visto – è da intendersi la virtù). Quello del merito è un punto di vista imprescindibile, perché permette di distinguere tra chi è cittadino e chi non lo è, ovverosia consente di definire, cioè di delimitare e di circoscrivere, all’interno di una comunità più o meno vasta di uomini, la cittadinanza, ovvero l’insieme di coloro che hanno titolo, valore politico, ossia possono agire politicamente8. Tuttavia tale punto di vista chiarisce un aspetto che certamente è fondamentale – come lo è appunto quello della definizione della cittadinanza – ma che è, per così dire, preliminare. La prospettiva del merito dice infatti ancora molto poco circa la forma politica, la “costituzione” di una cittadinanza, ossia circa le "parti" che la compongono (che, appunto, la “costituiscono”); circa le istituzioni e le magistrature (e il loro funzionamento), le strutture e le leggi le quali concretamente formano una società politica in quanto tale, nelle, mediante e secondo le quali si articola l’agire politico di una cittadinanza, le quali fanno, di un insieme formale di cittadini (formale in quanto si tratta semplicemente di uomini che formalmente soddisfano un determinato requisito), una società politica, ovvero un Dario Ventura G.Contarini e la costituzione mista insieme di uomini che concretamente vive ed agisce politicamente. Ebbene, presentando le cariche e le magistrature in vigore nella repubblica di Venezia ed elencandone le competenze e le funzioni, il cardinale, allo scopo di spiegare le modalità procedurali mediante le quali i cittadini potevano ricoprire tali cariche e secondo le quali ogni magistratura giungeva alla deliberazione, ricorre – come visto – a quella che più sopra è stata indicata come la prima delle due concettualità denominate (ambedue) con l’espressione di “costituzione mista”: quella che contempla la mescolanza di due elementi, ossia il popolare ed il nobiliare, ricorre cioè al modello aristotelico. III. Le parti della repubblica veneziana Dopo aver esposto il procedimento mediante cui il Senato giunge alla promulgazione di un senatoconsulto, Contarini scrive: "non solamente in tutto il corpo insieme di questa Republica, ma ancora in qualunque parte e membro di quella, chi con dritto occhio riguarda troverà questo mescolamento che ho detto: col quale questi giusti modi e ragioni del governare siano unitamente congiunti in una specie e forma della Republica nostra" (Contarini 1551, 92). Insomma: all’interno di ogni parte e membro della Serenissima, ovvero all’interno di ogni suo organo istituzionale (per quel che riguarda le procedure sia di deliberazione che di "creazione"), si trova una mescolanza di più modi e ragioni, ossia di più criteri; precisamente – come fin qui visto – il popolare ed il nobiliare. Sorge però ora spontanea una domanda: quali sono queste "parti", queste "membra" della repubblica? Quali "parti", "membra" formano, “costituiscono” l’insieme formale dei nobili come un effettivo ed attivo corpo politico? Quali sono le "membra" che fanno sì che l’insieme formale dei cittadini diventi e sia una cittadinanza concreta, ossia una società politica che, in quanto tale, agisce politicamente? O, detto altrimenti: quali sono queste "parti" in e mediante le quali i cittadini agiscono politicamente, ossia sono appunto tali, cioè cittadini? A Venezia l’elemento regio era rappresentato dal Doge, il popolare dal Maggior Consiglio, quello nobiliare dal Senato e dal Consiglio dei Dieci (Contarini 1551, 72, 74). È qui importante prestare attenzione alla terminologia con cui il cardinale connota le suddette "parti". Queste sono denotate da Contarini nel modo seguente: il Doge, "il Principe nella Città di Venezia" (Contarini 1551, 44), "dimostra la persona d’un Re e una specie di governo Regio" (Contarini 1551, 44); il Maggior Consiglio "dimostra lo stato popolare" (Contarini 1551, 72); infine il Senato ed il Consiglio dei Dieci "rappresentano lo stato dei nobili" (Contarini 1551, 74). Queste stesse tre parti vengono descritte dal cardinale come segue: il Doge "mostra una possanza Regia, avendo maggiormente una sembianza di Re […] e dignità di Re" (Contarini 1551, 23); chi guarda costui vi può "scorgere una specie di Re" (Contarini 1551, 50); il Maggior Consiglio "ha nella Republica similitudine dello stato popolare" (Contarini 1551, 23); il Senato ed il Consiglio dei Dieci "mostrano una certa specie dei nobili" (Contarini 1551, 23). Tutte le proposizioni di questo gruppo di citazioni, pur riferendosi ad un oggetto diverso, hanno un elemento in comune: sono costruite mediante il medesimo schema formale. Sia il Doge, che il Maggior Consiglio, che il Senato (e il Collegio dei Dieci) sono presentati come somiglianti a qualcosa che, però, in realtà non sono. Ma per appurare il ruolo del concetto di “costituzione mista” nel De magistrati- 103 n.11 / 2005 "Nel Contarini è viva […] anche se per lo più inespressa, la coscienza della stratificazione sociale del patriziato, di cui “stato misto” e “stato aristocratico” rappresentano proiezioni costituzionali, due piani che variamente combinati articolano la partecipazione allo stato misto dei cittadini patrizi secondo il diverso rango sociale" (Ventura 1981, 552). 9 104 bus et republica Venetorum di Contarini, è ora indispensabile vedere che cosa si intenda con questa espressione, quali siano cioè i casi in cui, riferendosi ad una formazione politica, è lecito parlare di “costituzione mista”. Ebbene questa categoria indica una forma costituzionale sui generis (Nippel 1980, 21) "con cui si intende una regolamentazione istituzionalizzata del compromesso tra gli strati sociali" (Nippel 1980, 51). Si è insomma in presenza di una “costituzione mista” quando una società politica riflette, nelle sue istituzioni e leggi, un equilibrio, un accordo (o accomodamento) tra le parti sociali di cui è composta; ovvero quando le istituzioni e gli organismi di una società politica sono espressione o lasciano trasparire o sono il risultato di un bilanciamento, un compromesso tra le parti che la compongono. Così, si può parlare di “costituzione mista” quando il requisito da soddisfare per poter accedere all’assemblea e poter essere membro del tribunale (ed essere pertanto cittadino) è, ad esempio, un censo intermedio: questo è infatti un caso in cui si trova espresso e riflesso a livello “istituzionale” (com’è quello cui l’assemblea e il tribunale si riferiscono) l’equilibrio tra la parte dei ricchi e quella dei poveri. Oppure si è in presenza di una “costituzione mista” quando ciascun organismo istituzionale è l’espressione di una parte della società politica, e ciò avviene in modo tale che, a livello “istituzionale”, i vari organismi esprimono e riflettono quello stesso rapporto di equilibrio e bilanciamento reciproco in cui si trovano le rispettive parti “sociali” di cui essi sono l’espressione (Nippel 1980, 24). Tenendo presente quanto appena detto, si dovrebbe giungere alla conclusione che Venezia non può essere intesa come una “costituzione mista”: non si può infatti parlare di un "regolamento istituzionalizzato di un equilibrio (o compromesso) tra le parti" – per esempio tra ricchi e poveri, o tra nobili e non-nobili, per calarsi nella realtà veneziana – per il semplice fatto che questo "compromesso", in qualsiasi modo lo si voglia intendere, non c’è, e non c’è in quanto non è necessario. E questo perché solo i nobili sono cittadini, tutti i non-nobili sono rigorosamente esclusi; e le tre più importanti istituzioni della Serenissima – considerate sia singolarmente, sia nei rapporti tra loro intercorrenti – non esprimono e riflettono nessun equilibrio tra parti “sociali” diverse perché lo spazio politico è totalmente riservato (e gelosamente custodito) da una sola ed unica parte degli abitanti di Venezia: i nobili, appunto. Ci si potrebbe esprimere nel seguente modo: i nobili sono sì una “parte” (tra l’altro minoritaria) degli abitanti della città lagunare, ma ne rappresentano al contempo il “tutto politico”. Un “tutto politico” omogeneo, compatto e – verrebbe da dire – caratterizzato da una sostanziale uguaglianza al suo interno (Contarini 1551, 30, 75). Insomma, considerata la definizione comune di “costituzione mista”, non resta che concludere che Venezia è un’aristocrazia. A meno che Contarini non intendesse la nobiltà veneziana come essa stessa composta di "parti", di cerchie diverse9. Per trovare una prova testuale di tale ipotesi è necessario ricordare i vocaboli mediante i quali il cardinale denota e connota le tre "parti" della repubblica. Quando infatti scrive che il Maggior Consiglio "dimostra lo stato popolare", Contarini intende dire che il Maggior Consiglio è espressione di quello che si potrebbe chiamare il “patriziato minore”. Se l’autore del De magistratibus et republica Venetorum connota il Maggior Consiglio come somigliante allo "stato popolare", ciò è dovuto al fatto che, nella repubblica di Venezia (un’aristocrazia, poiché suoi cittadini erano solamente i nobili), il Dario Ventura G.Contarini e la costituzione mista “patriziato minore” è il corrispettivo della cerchia popolare – “sta al posto” che quest’ultima occupa – in una costituzione autenticamente mista (ossia in una costituzione le cui parti sono “socialmente” eterogenee: i ricchi e i poveri, i nobili e i non nobili). Ben si capisce il motivo per cui il cardinale scrive che il Maggior Consiglio è simile allo "stato popolare" (verrebbe da dire “solamente” simile: “solamente” simile perché non lo è, non lo può essere): in esso infatti sedevano solo ed esclusivamente i nobili; il popolo – le arti, le corporazioni, i non-nobili – ne era rigorosamente escluso. Allo stesso modo, quando Contarini scrive che il Senato e il Consiglio dei Dieci rappresentano lo "stato dei nobili", intende dire che queste due magistrature di Venezia sono espressione di quello che si potrebbe chiamare il “patriziato maggiore”, ossia delle famiglie più importanti della Serenissima10; verrebbe da dire che queste due magistrature rappresentano le casate più potenti ed influenti (tra cui i Contarini). Se il cardinale connota il Senato e il Consiglio dei Dieci come "una certa specie" di un non meglio specificato "stato dei nobili", ciò è dovuto al fatto che, nella repubblica di Venezia, il “patriziato maggiore” è il corrispettivo della cerchia nobiliare – “sta al posto” che quest’ultima occupa – in una costituzione autenticamente mista. Ben si capisce il motivo per cui Contarini scrive che Senato e Consiglio dei Dieci sono simili (“solamente” simili) allo "stato dei nobili": a queste due magistrature spettava il governo della repubblica di Venezia11 ; ebbene, se è certamente vero che i loro membri erano nobili, è altrettanto vero che anche i cittadini da essi governati erano comunque tutti nobili, tanto quanto loro. Il Doge è presentato come il più importante dei magistrati, come l’indispensabile principio di unità della repubblica veneta12 , come colui cui è "scolpita nel core la cura di conservare il bene comune e di tutta l’unione civile" (Contarini 1551, 45)13 . Il cardinale però spiega come, in realtà, egli rivesta una funzione principalmente consultiva, in quanto egli "da solo nulla può fare" (Contarini 1551, 49). Il Doge, infatti, "ottiene quella potestà, che a qualsiasi Collegio dei Cittadini può aggiungere sé per collega al Presidente della Magistratura: ha l’ugual potestà che hanno tutti gli altri Presidenti e ciò affinché soprattutto possa a tutti consigliare" (Contarini 1551, 49); e, al momento di deliberare, "nulla autorità ha di più che ciascuno di quelli che nell’ufficio di quella Magistratura si ritrovano" (Contarini 1551, 49): il suo voto “vale” tanto quanto quello degli altri membri del Collegio, ossia – per così dire – “vale uno”. Ben si capisce il motivo per cui Contarini scriva che il Doge è simile (“solamente” simile) a un re: è vero che il dogato era una carica vitalizia e che disponeva di tutti gli attributi e gli onori della regalità (Contarini 1551, 50-61, 69-70); ma non ne presenta le prerogative essenziali: l’ereditarietà della carica e soprattutto l’autorità di governo. Il Doge è infatti un nobile (appartenente al “patriziato maggiore”) che – come detto – svolge un’importante funzione di raccordo. Ora: la cittadinanza veneziana – come il cardinale ribadisce lungo tutto il corso della sua opera – era composta dai soli nobili e pertanto, da questo specifico punto di vista, la repubblica di Venezia non può che essere classificata come un’aristocrazia. Nondimeno, come si è visto, Contarini usa la concettualità indicata dall’espressione “costituzione mista” per illustrare i magistrati e la repubblica dei Veneziani. La contraddizione che si potrebbe riscontrare tra il presentare chiaramente la repubblica di Venezia come un’aristocrazia e il descriverne la 10 Per meglio comprendere il significato delle espressioni “patriziato minore” e “patriziato maggiore”, è opportuno tener presente che, in occasione della “Serrata” del Maggior Consiglio (1297-1323), il patriziato veneziano "fu da subito diviso al suo interno tra famiglie ricche e famiglie povere, tra famiglie demograficamente forti e famiglie deboli o sull’orlo dell’estinzione. Ci fu altresì una divisione per rango di cui l’interprete più importante è l’autore della Venetiarum Historia, che scrive verso la metà del 1300. Costui diede vita in pratica alla lista di quelle ventiquattro famiglie, le “nobiliores” – che saranno note più tardi come “case vecchie” o “longhe” – alle quali l’autore volle attribuire origini tribunizie in epoca bizantina" (Müller 1992, 53). 11 Tutta la cura del governo della Republica appartiene al Senato" (Contarini 1551, 77). Il Consiglio dei Dieci era nato come organo di garanzia e controllo della "salute della Republica" (Contarini 1551, 86), aveva cioè il compito di custodire la costituzione veneziana così come questa era stata consegnata alla città dagli "antichi maggiori". 105 n.11 / 2005 Tuttavia tale magistratura aveva ampliato sempre più le sue funzioni e competenze, giungendo a controllare l’aspetto finanziario-economico della repubblica veneta (Contarini 1551, 90). "Chi dubita che ogni compagnia da una certa catena d’unità non si tenga stretta e legata insieme? […] L’unità non si può comodamente ritenere se non da uno, il quale sia superiore alla moltitudine e a tutti i Magistrati […] e che raccolga la moltitudine quasi in un certo modo dispersa e sbandata e la restringa insieme quasi in un corpo" (Contarini 1551, 45). 12 Egli deve far sì che "tutte le cose consonino al bene comune e si riferiscano all’unione civile, [affinché nessun magistrato] per soverchi accuratezza […] sia di danno cagione alla publica utilità" (Contarini 1551, 48). Per Contarini è opportuno che la preoccupazione che tutte le cose "consonino" al bene comune sia affidata ad una persona sola per il fatto che "quello di che molti hanno cura, tutti parimenti dispregiano" (Contarini 1551, 47). 13 106 composizione (la “costituzione”) ricorrendo comunque al concetto di “costituzione mista”, è evitata dal cardinale mediante il modo decisamente originale in cui egli utilizza la categoria di “costituzione mista”; un uso che si concilia con la concezione di Venezia come aristocrazia. Contarini infatti impiega il concetto di “costituzione mista” comprendente tre elementi per presentare e descrivere le "membra", le "parti" che “costituiscono” la nobiltà veneta in quanto repubblica; le "parti" in e mediante le quali si snoda e si estrinseca l’agire politico dei cittadini Veneziani (chiaramente, dei nobili veneziani) in quanto tali, cioè – appunto – cittadini. Ed utilizza la categoria di “costituzione mista” che contempla due elementi (servendosi anche, ma non solo, del primo e del terzo dei luoghi della mistione proposti da Aristotele), per spiegare le modalità procedurali con cui tali "parti" – si passi l’espressione – “funzionano”, ossia deliberano, e mediante cui è regolato l’accesso ad esse. Ci si potrebbe insomma esprimere in questo modo: Contarini proietta, costruisce e, in definitiva, risolve la concettualità indicata dall’espressione “costituzione mista” – tanto di tre quanto di due elementi – tutta all’interno dell’aristocrazia, ossia della cittadinanza composta di soli nobili, veneziana. IV. Le tre grandezze politiche A questo punto è opportuno ritornare alla domanda posta all’inizio della precedente sezione: quali sono le "parti" della repubblica di Venezia? La risposta fornita ha evidenziato come il cardinale, col vocabolo "parti" si riferisca a cerchie, insiemi “sociali” e, congiuntamente, alla loro espressione (al loro riflesso) a livello “istituzionale”. Tuttavia un passo del De magistratibus et republica Venetorum permette di pensare come Contarini attribuisca al termine "parti" un ulteriore e diverso significato. "Poscia che del Gran Consiglio, il quale in questa Republica dimostra lo stato popolare, e del Principe, il quale una forma di Re rappresenta […] abbiamo trattato, par che l’ordinata opera richieda che noi riferiamo dell’altre parti di questo governo, le quali rappresentano il reggimento dei Nobili" (Contarini 1551, 72). Leggendo queste righe, si può allora pensare che il cardinale, chiamando "parte" lo "stato popolare", la "forma di re" e il "reggimento dei nobili", intenda indicare tre funzioni o principi politici all’interno del governo di Venezia. Le tre "parti" indicano allora – per così dire – tre grandezze politiche corrispondenti tanto a tre soggetti reali (il “patriziato minore”, il Doge e il “patriziato maggiore”) quanto a tre funzioni politiche: rispettivamente la funzione del suffragio, quindi quella del consiglio ed infine quella del governo. Queste tre funzioni possono anche essere considerate come tre principi politici: rispettivamente, come il principio democratico, monarchico ed aristocratico; o, per essere più aderenti alla terminologia contariniana, principio popolare, regio e nobiliare. Allorquando il cardinale parla di "stato popolare, Regio e nobiliare" (Contarini 1551, 74), sembra infatti intendere il termine "stato" non solo nel senso di cerchia “sociale”, ma anche appunto nel senso qui indicato di “principio politico”. Ebbene, nella repubblica di Venezia ad ogni soggetto reale corrisponde un principio e quindi una funzione politica: infatti, al “patriziato maggiore” corrisponde il principio nobiliare, in quanto esso esercita la funzione politica del governo (“attraverso” gli organi istituzionali del Senato e del Consiglio dei Dieci di cui – come visto – esso è espressione); al “patriziato minore” corrisponde il principio Dario Ventura G.Contarini e la costituzione mista popolare, in quanto esso esercita la funzione politica del suffragio, ovvero della "creazione" di tutti i magistrati (“attraverso” il Maggior Consiglio di cui – come visto – esso è espressione); al Doge, un nobile appartenente al “patriziato maggiore”, infine corrisponde il principio regio, in quanto egli esercita la funzione del consiglio (e – come visto – dell’unificazione). E importante sottolineare un ultimo aspetto: Venezia è per Contarini non solo una “repubblica mista” (in quanto – come visto – “costituita” di più "parti"), ma è anche una “repubblica mista” ordinata bene, saggiamente. Nel fondarla, infatti, gli "antichi maggiori" non solo "fecero quella mescolanza di tutti gli stati che giusti sono" (Contarini 1551, 19), ma anche "paiono con una certa bilancia eguale aver mescolato le forme di tutti" (Contarini 1551, 19). Per il cardinale cioè nessuna delle tre "parti", ossia delle tre grandezze politiche di cui si è parlato più sopra, predomina sulle altre due14 ed anzi, il fatto che tra di esse viga un sostanziale equilibrio rappresenta il segreto della pace e della stabilità interne della Serenissima. Si potrebbe poi arguire che Venezia è per Contarini una “repubblica mista” ben ordinata anche per il fatto che ciascuna delle tre funzioni politiche (ovvero ciascuno dei tre principi politici) corrisponde a quello che rappresenta il suo soggetto reale. O, detto altrimenti, a Venezia nessun soggetto reale concentra in sé, esercita più funzioni politiche, se non solamente quella che gli è propria. Se quanto qui detto è derivato da un modo di intendere il significato del termine "parti" diverso da quello che abbiamo considerato nella terza sezione, la conclusione della risposta alla domanda con cui quest’ultima era iniziata è comunque uguale: Contarini concepisce, costruisce e risolve la concettualità indicata dall’espressione “costituzione mista” tutta all’interno dell’aristocrazia veneziana, in quanto i tre suddetti principi le sono riferiti e – si passi l’espressione – “applicati” in modo esclusivo. Pertanto, alla luce di tutto quanto fin qui detto, se certamente non è errato classificare la repubblica di Venezia come un’aristocrazia, tuttavia risulta insufficiente. Si potrebbe quindi definire in modo più soddisfacente la repubblica veneta, con formula soltanto apparentemente paradossale, come una "aristocrazia mista" (Gaeta 1981, 632-641). V. Un’"aristocrazia mista" La domanda posta all’inizio della terza sezione – ossia quali sono le "parti" della repubblica di Venezia, ovvero cosa intenda Contarini con il vocabolo "parti" – ci aiuta a gettare luce su un ulteriore aspetto dell’opera e del pensiero del cardinale. Il passo seguente, che è opportuno citare per intero, permette di individuare un terzo significato della parola "parte". "Niuna più contagiosa et maligna peste può spargersi per la Republica, che se alcuna parte di quella voglia essere superiore all’altra: essendo che così, per ciò che non si tiene giusta la bilancia della giustizia, è impossibile che si conservi la pace et l’unità tra i Cittadini, il che per usanza suole avvenire dovunque più cose in uno si radunano. Così si dissolve ogni cosa mista, se alcuno degli elementi dei quali il corpo è composto, vorrà l’altro superare. Così ogni consonanza si fa dissonanza, se una corda, o una voce, alzerai più che sia di mestieri. Con non disegual ragione, se vorrai che la Republica abbia salda base et fermo fondamento è necessario che quel prima si osservi, che l’una parte non si faccia più potente 14 Del Maggior Consiglio Contarini dice: "appresso il quale è la somma autorità di tutta la Republica" (Contarini 1551, 23); osserva come il Doge "sia superiore alla moltitudine e a tutti i Magistrati" (Contarini 1551, 45); spiega come "tutta la cura del governo della Republica appartiene al Senato" (Contarini 1551, 77); afferma che il Consiglio dei Dieci "appresso i Veneziani è di somma autorità" (Contarini 1551, 86). Queste citazioni insomma rappresentano l’ulteriore riprova che il cardinale non vede né istituisce alcuna gerarchia tra le "parti" della repubblica veneta. 107 n.11 / 2005 dell’altra: ma tutte, per quanto si possa fare, siano partecipi della potestà publica. Laonde molto egregiamente hanno voluto i nostri maggiori ordinare, che nella Republica nostra fosse fatta in perpetuo questa legge, che non solo nel Senato, ma neanche negli altri Magistrati, avessero luogo più persone della medesima schiatta" (Contarini 1551, 76). Da questo lungo passo si evince che Contarini col termine "parti" qui intende ciascuna delle famiglie patrizie di Venezia e che sono esse gli "elementi" della repubblica, non i singoli individui, i singoli nobili. È certamente vero che nel Maggior Consiglio sedevano tutti i patrizi maschi che avessero compiuto venticinque anni; ma sarebbe scorretto dal punto di vista storico-concettuale intendere costoro come individui astrattamente singoli, assolutamente liberi ed uguali tra loro, ossia come individui in quanto tali, sciolti cioè e, appunto, astratti, da qualsiasi relazione sociale. Il patriziato veneziano non era una unità di singoli individui uguali intesa come grandezza costituente, bensì era una realtà costituita, precisamente costituita in famiglie ed in quanto tale esercitava le sue funzioni politiche. Il vincolo che legava ciascun nobile alla sua famiglia di appartenenza (e quindi il fatto che il ruolo di "elemento", di “cellula vivente” della repubblica e della sua vita politica era giocato dalle famiglie e non dagli individui) emerge chiaramente in più punti del De magistratibus et republica Venetorum. Basti pensare al fatto che ogni giovane nobile non era immediatamente – “automaticamente” – ammesso al Maggior Consiglio. Egli doveva infatti portare all’Avogaria la prova (che poi sarebbe stata giudicata dalla Quarantia) che egli era un nobile. Ebbene, questa prova consisteva in ciò: due testimoni dovevano giurare che costui era figlio di padre e madre nobili e nato da un matrimonio legittimo (Contarini 1551, 25-26). Un giovane poteva quindi sedere nel Maggior Consiglio solo se apparteneva ad una casata nobile: ciò insomma significa che solo la sua famiglia di appartenenza poteva permettere (o meno) e mediare l’ingresso di un giovane nella cerchia dei cittadini. Si pensi poi alla modalità in cui il Maggior Consiglio esercitava la sua funzione politica principale, quella del suffragio. Vi era una legge che impediva a più di un nobile della stessa famiglia di far parte dei cinque ordini di elettori (Contarini 1551, 30). Non solo: il Maggior Consiglio era chiamato ad esprimere il suo gradimento, uno per volta, su ciascuno dei cinque candidati a ricoprire una magistratura (ciascuno "creato" da uno dei cinque ordini di elettori); chi, tra i cinque, otteneva più voti era nominato magistrato. Ebbene, quando il Maggior Consiglio doveva esprimere la sua preferenza su un candidato, una legge imponeva ai familiari di costui di non partecipare al voto (Contarini 1551, 35, 37-38). In occasione poi dei comizi annuali per la "creazione" dei Senatori era osservata una legge che stabiliva sia che ciascuno dei sessanta Senatori "creati" dal Maggior Consiglio appartenesse ad una famiglia diversa, sia che tra i sessanta Senatori nominati da quei primi sessanta non più di due appartenessero alla stessa casata (Contarini 1551, 75-76). Questi tre luoghi, oltre a dimostrare che gli "elementi" della repubblica veneta erano le famiglie, dimostrano anche che il “peso” nella vita politica, la “quota di partecipazione” – si passi questa espressione – alla "publica potestà" (Contarini 1551, 39) di ciascuna casata erano, se non perfettamente uguali a quelli di ciascuna altra famiglia, comunque non significativamente sovra- o sottodimensionati: nessuna "parte", come visto nel passo riportato all’inizio della presente sezione, è "più potente dell’altra, ma tutte, per quanto si possa fare, son parteci- 108 Dario Ventura G.Contarini e la costituzione mista pi della potestà publica" (Contarini 1551, 76). Ma all’interno del patriziato veneziano vi erano anche differenze: come visto nella terza sezione vi erano un “patriziato maggiore” ed uno “minore”. Differenze che traspaiono in modo chiaro allorquando Contarini tratta – per esempio – delle Quarantie. Come appurato nella seconda sezione, il cardinale spiega che i membri di questi tribunali erano, generalmente, "Cittadini di picciolo grado e bassa condizione" (Contarini 1551, 105): evidente riferimento alla presenza di un “patriziato minore” e quindi, per converso, di uno “maggiore”. Quando poi si tenevano i comizi per la "creazione" del nuovo Doge, il penultimo ordine di elettori (costituito da undici cittadini, sorteggiati all’interno di un gruppo di altri quarantacinque cittadini) eleggeva in qualità di ultimo ordine di elettori (coloro che "creavano" il nuovo Doge) "quarantuno dei primieri e più nobili Senatori": evidente riferimento alla presenza di un “patriziato maggiore” e quindi, per converso, di uno “minore”. Questi due luoghi dimostrano l’esistenza di differenze all’interno del patriziato di Venezia. Differenze sicuramente di ricchezza, ma anche di “forza” e “peso” demografico e di rango (Müller 1992, 53-61). In ogni caso differenze qualitative. Ciò che qui preme sottolineare è che queste differenze qualitative tra le "parti" (ossia le famiglie) non venivano affatto livellate, azzerate, nel e dal momento politico; al contrario esse avevano un significato politico fondamentale e costitutivo: proprio di tali "parti" era costituita la repubblica di Venezia e proprio tale differenza qualitativa permetteva di pensare all’agire politico della cittadinanza veneziana, che consisteva nel governare e nell’esser governato e che concretamente si articolava nelle tre diverse funzioni politiche del suffragio, del governo e del consiglio (che infatti, come visto, corrispondevano a tre soggetti reali differenti). È ora possibile chiarire meglio il significato dell’espressione “aristocrazia mista”, formula con cui, concludendo la precedente sezione, è stata definita la repubblica veneta. Se tale locuzione suona paradossale ciò è dovuto al fatto che in essa convivono i due concetti di uguaglianza (cui rinvia il termine “aristocrazia”) e di diversità (cui rinvia il termine “mista”). È infatti innegabile che Contarini presenti – si sforzi di presentare – i nobili e le famiglie patrizie come, se non perfettamente uguali, comunque non disuguali tra loro nel disporre di “porzioni” della "potestà publica". Gli "antichi maggiori", nel fondare e costituire la repubblica di Venezia, hanno infatti applicato saggiamente il principio del giusto distributivo, che il cardinale menziona seguendo fedelmente l’insegnamento aristotelico: "agli eguali cose eguali si diano e agli diseguali le diseguali" (Contarini 1551, 41; Aristotele 1993b 1130 a 10 – 1131 b 24). Ma a Venezia i cittadini erano tutti nobili, tutti ugualmente nobili in quanto tutti virtuosi (ossia in quanto soddisfacevano tutti al merito richiesto per essere cittadini: la virtù, appunto), ed è questo il fondamento per cui "nella Republica Veneziana si distribuiscono tra i cittadini i Magistrati, che per quanto possibile sia, tutte le famiglie di qualsivoglia cognome avranno ad essere partecipi di qualche grado d’onore" (Contarini 1551, 40). Ma in questa costruzione c’è anche spazio per la diversità: nella forma della repubblica veneta – che proprio per questo motivo non può che essere “mista” – sono infatti presenti (e necessarie) le tre diverse funzioni politiche del suffragio, del governo e del consiglio, esercitate rispettivamente dal Maggior Consiglio, dal Senato e Consiglio dei Dieci, dal Doge. Dunque funzioni politiche diverse – esercitate da organi istituzionali 109 n.11 / 2005 Va comunque ricordato che il Doge proveniva da una delle famiglie appartenenti al “patriziato maggiore”. 15 diversi – corrispondenti ai tre soggetti reali, necessariamente diversi, interni alla cerchia dei nobili veneziani: rispettivamente il “patriziato minore”, il “patriziato maggiore” e il Doge15 . A questo punto sorge spontanea una domanda: come possono coesistere uguaglianza e differenza senza collidere in una contraddizione? O, detto altrimenti: i patrizi e le casate veneziani erano tra loro uguali o diseguali? È lo stesso Contarini che, mediante l’ennesimo riferimento ad Aristotele (Aristotele 1993a, 1280 a 2224, 1301 a 28-35, 1301 b 35-39), sembra suggerire una risposta: "dove i primieri l’uguaglianza misurano solo col numero et quei dipoi la disuguaglianza solo con le ricchezze, questi et quegli sono in manifestissimo errore. Conciosia che coloro che di numero sono uguali, non sono del tutto, ma in qualche parte uguali; et coloro che sono di ricchezze diseguali non si debbono del tutto, ma in qualche parte stimare diseguali" (Contarini 1551, 41). Insomma: se è vero che le famiglie nobili sono tra loro uguali per il fatto di essere – appunto – nobili, ciò allora non significa che siano assolutamente uguali; così come, se è vero che le casate son tra loro diverse per ricchezza, “forza” demografica e rango, ciò allora non significa che siano assolutamente diverse. È quindi il non concepire in modo assoluto l’uguaglianza e la diversità che rende pensabile una “aristocrazia mista”, ossia una forma di repubblica in cui gli "elementi" (cioè le famiglie) hanno parte “quantitativamente” uguale (o non significativamente disuguale) nella detenzione della "potestà publica"; e in cui tra gli "elementi" sussistono comunque differenze qualitative coessenziali e necessarie ad un agire politico (a un esercizio della "potestà publica") snodantesi nelle tre funzioni “qualitativamente” diverse del suffragio, del governo e del consiglio. Riferimenti bibliografici Aalders, G. J. D. (1968), Die Theorie der gemischten Verfassung im Altertum, Amsterdam, A. M. Hakkert. Aristotele (1991-1996), Politique, 3 tomes, Texte établi et traduit par J. Aubonnet, Paris, Les Belles Lettres. Aristotele (1993a), Politica, a cura di R. Laurenti, Bari, Editori Laterza. Aristotele (1993b), Etica Nicomachea, introduzione, traduzione e parafrasi di C. Mazzarelli, Milano, Rusconi Libri. Bouwsma, W. J. (1973), Venice and the political education of Europe, pp. 445466, in J. R. Hale (edited by), Renaissance Venice, London, Faber and Faber. Bouwsma, W. J. (1977), Venezia e la difesa della libertà repubblicana, Bologna, Il Mulino (trad. it. Ballerini). Casini, M. (1992), La cittadinanza originaria a Venezia tra i secoli XV e XVI. Una linea interpretativa, pp. 133-150, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Vicenza, Il Cardo. Cochrane, E. – Kirshner, J. (1975), “Deconstructing Lane’s Venice”, Journal of Modern History, XVII, 2, pp. 321-334. Contarini, G. (1551), De magistratibus et republica Venetorum, in Vinegia per Baldo Sabini. Duso, G. (1999), La logica del potere, Storia concettuale come filosofia politica, Roma-Bari, Editori Laterza. Gaeta, F. (1981), L’idea di Venezia, pp. 565-641, in Storia della cultura veneta, 3 / III, Vicenza, Neri Pozza Editore. 110 Dario Ventura G.Contarini e la costituzione mista Garin, E. (1963), Cultura filosofica toscana e veneta nel quattrocento, pp. 1129, in V. Branca (a cura di), Umanesimo europeo e Umanesimo veneziano, Firenze, Sansoni. Gilbert, F. (1968), “The date of the composition of Contarini’s and Giannotti’s books on Venice”, Studies in the Renaissance, XIV, pp. 172-184. Gilbert, F. (1973), Venice in the Crisis of the League of Cambrai, pp. 274-292, in J. R. Hale (edited by), Renaissance Venice, London, Faber and Faber. Gilbert, F. (1977), Religion and Politics in the Thought of Gasparo Contarini, pp. 247-267, in F. Gilbert, History, Choice and Commitment, Cambridge, Massachussetts and London, England, The Belknap Press of Harvard University Press. Gilbert, F. (1988), La costituzione veneziana nel pensiero politico fiorentino, pp. 115-170, in F. Gilbert, Machiavelli e il suo tempo, Bologna, Il Mulino (trad. it. De Caprariis, Gozzi). Gilmore, M. (1973), Myth and Reality in Venetian Political Theory, pp. 431-444, in J. R. Hale (edited by), Renaissance Venice, London, Faber and Faber. Lane, F. C. (1978), Storia di Venezia, Torino, Giulio Einaudi Editore (trad. it. Salvatorelli). Müller, R. C. (1992), Espressioni di status sociale a Venezia dopo la “serrata” del Maggior Consiglio, pp. 53-61, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Vicenza, Il Cardo. Nippel, W. (1980), Mischverfassung und Verfassungsrealität in Antike und früher Neuzeit, Stuttgart, Klett-Cotta. Pecchioli, R. (1971), Recensione a Venice and the Defense of Republican Liberty, Studi Veneziani, XIII, pp. 693-708. Pocock, J. G. A. (1980), Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, 2 voll., Bologna, Il Mulino (trad. it. Prandi). Polibio (1987), Storie, libri 1.-40., a cura di N. Criniti, A. Vimercati, N. Golin, Milano, Rusconi. Thomas de Aquino (1988), Summa Theologiae, Albae Pompeiae, Editiones Paulinae. Skinner Q. (1989), Le origini del pensiero politico moderno, 2 voll., Bologna, Il Mulino (trad. it. Ceccarelli). Vasoli, C. (1977), “The Machiavellian Moment: a Grand Ideological Synthesis”, Journal of Modern History, XLIX, 4, pp. 661-670. Ventura, A. (1981), Scrittori politici e scritture di governo, pp. 513-563, in Storia della cultura veneta, 3 / III, Vicenza, Neri Pozza Editore. Dario Ventura è dottorando in filosofia politica presso l’Università di Padova. ([email protected]) 111 Mario Quaranta “Politica e cultura” di Norberto Bobbio cinquant’anni dopo Focus: Norberto Bobbio 1. Compiti dell'intellettuale in una società democratica A cinquant'anni dalla sua prima pubblicazione, riappare l'opera di Norberto Bobbio del 1955, Politica e cultura, con un'ampia introduzione di Franco Sbarberi, a cui il curatore ha aggiunto in appendice, e opportunamente, il saggio del 1956 Ancora dello stalinismo: alcune questioni di teoria (Einaudi, Torino 2005, pp. XLI-273). In un momento in cui il pensiero e l'attività di Bobbio continua ad alimentare la discussione e una diffusa pubblicistica, la riproposta di quest'opera è quanto mai opportuna, non solo perché, come afferma Sbarberi, è un “testo esemplare di filosofia civile”(p.VIII), ma anche perché insegna un metodo per avviare il dialogo fra posizioni culturali, ideologie e progetti politici diversi. Un problema, questo, ancora oggi di estrema attualità. Il curatore inizialmente fa riferimento alle letture e ai lavori di Bobbio precedenti l'opera del 1955 (in cui sono raccolti quattordici saggi pubblicati dal 1951 al 1955), e accenna al personalismo laico di Bobbio, che costituisce, a mio parre, il suo apporto filosofico più importante, che rimase lo sfondo permanente della sua successiva ricerca sulla società, lo stato, la politica. È l'esito, afferma in termini persuasivi il curatore, del suo utilizzo del metodo fenomenologico husserliano esteso “dall'esperienza logica all'esperienza dei valori”(p. XI). Ma il curatore, che al pensiero etico-politico di Bobbio ha dedicato un corposo capitolo nell'opera L'utopia della libertà uguale (Bollati Boringhieri, Torino 1999), attribui- 112 sce forse troppi padri al personalismo bobbiano. Sbarberi si sofferma sul modello d'intellettuale che Bobbio ha proposto alla cultura italiana, in un momento in cui, specie dopo la morte di Stalin (1953) era lecito attendersi in Italia una distensione nei rapproti fra le forze culturali, fin'allora inchiodate nella difesa ad oltranza del rispettivo campo di appartenenza (americano o sovietico). (Manca, però, l'interlocutore cattolico; una “trascuratezza” che è una costante in Bobbio). Egli delinea un modello di intellettuale come “coscienza critica delle forme di esercizio del potere” (p. IX), ove è centrale l'idea di tolleranza, e alla cui base c'è “l'individuo inteso come persona” (p. X). Il “centro unificante di Politica e cultura, afferma Sbarberi, è il confronto pubblico tra un liberale di provenienza azionista e alcuni tra i più autorevoli comunisti italiani […] sul rapporto tra intellettuali e politica e sul modo di tutelare i diritti fondamentali di libertà nei regimi politici postrivoluzionari”(p. XIII). Viene così fatto cadere l'altro interlocutore, ossia l'intellettuale liberal-democratico che non era disposto a dialogare con i comunisti, ritenendo impossibile qualsiasi forma di collaborazione culturale, prima ancora che politica. A tale proposito basterà ricordare che il movimento neoilluminista, entro cui si colloca pienamente l'attività culturale di Bobbio, di cui questo testo è il frutto politico-culturale più maturo, aveva escluso l'appartenenza dei marxisti, ritenendo prioritario l'obiettivo della formazione di una forza culturale laica, e di una filosofia che nel manifesto programmatico del movimento, scritto da Nicola Abbagnano che ne fu l'artefice, L'appello alla ragio- Mario Quaranta ne e le tecniche della ragione (1952), si richiamava esplicitamente a John Dewey, bersaglio polemico dei marxisti italiani. Nei suoi interventi, dunque, Bobbio dialoga sia con gli intellettuali liberal-democratici, sia con quelli comunisti. Ai primi si rivolge per legittimare un confronto con i comunisti, nella persuasione che sia possibile trovare un terreno d'intesa; ai secondi per sollecitare un chiarimento su alcuni punti centrali di dottrina, e rendere così possibile una ricostruzione comune della cultura italiana, dal momento che il marxismo è parte integrante della cultura laica che ha avuto la sua genesi nell'illuminismo. Il marxismo deve però riconoscere che "la libertà borghese ha posto in termini irreversibili, il problema della libertà individuale"; problema che costituisce tuttora un discrimine, il criterio metodico per valutare qualsiasi orientamento politico, comunismo incluso. Al centro di questa operazione culturale c'è un'idea nuova dell'attività culturale che Bobbio definisce “come sfera di autonomia nei confronti di ogni potere organizzato”, e ciò in polemica soprattutto con i comunisti, afferma Sbarberi, i quali peraltro furono i più solleciti interlocutori, con Della Volpe, Bianchi Bandinelli e lo stesso Togliatti. 2. Ragioni di un dissenso Sbarberi fornisce un quadro articolato del dibattito che si è intrecciato fra i tre comunisti citati e Bobbio; in particolare egli utilizza nuovi documenti (soprattutto lettere) sul rapporto di Bobbio con Bianchi Bandinelli, che sembra l'interlocutore più aperto al dialogo, rispetto all'atteggiamento “teologico” di Della Volpe (cui Sbarberi riserva una certa sprezzatura), e a quello di Togliatti, in cui prevalgono considerazioni politiche. Sono indicati i motivi di ambiguità presenti nella politica culturale del Pci, allora oscillante “tra segnali di apertura e appelli all'ordine" (p. XVIII), ove emblematico è il “caso” del “Politecnico” di Vittorini, chiuso d'autorità. Ma c'è stata anche la pubblicazione dei Quaderni del carcere di Gramsci, “Società”, con il suo percorso accidentato, fino a “Il Contemporaneo”, che aprì vari dibattiti, sulla filosofia americana, sul bilancio di dieci anni di storia culturale italiana, sul neorea- Politica e cultura di Norberto Bobbio lismo, ecc. Il curatore sottolinea, peraltro, il “totale dissenso dalla figura gramsciana del partito come intellettuale collettivo” (p.XVIII) di Bobbio, ove risiede, a mio parere, uno dei limiti della posizione del filosofo torinese. Ma quali sono, in sintesi, le critiche che Bobbio rivolge agli intellettuali comunisti? Sbarberi le individua con precisione: i comunisti: “a) non chiariscono se la libertà individuale e le tecniche giuridiche elaborate dal liberalismo vadano o meno salvaguardate in una società avviata al socialismo; b) non criticano le misure liberticide adottate in Unione Sovietica durante l'èra staliniana; c) non contestano mai le decisioni politiche dei dirigenti di partito e dunque non esercitano “l'eguale libertà" di critica manifestata verso gli atti repressivi degli avversari di governo” (p.XXV). E su queste tre posizioni individua i limiti di fondo della politica, oltre che della politica culturale, dei comunisti, rispondendo ad alcuni tentativi di fornire una risposta compiuti soprattutto da Bianchi Bandinelli. Che dire? Che a Bobbio sfugge in larga misura sia il rapporto fra il Pci e il Pcus, che è di sostanziale subordinazione; sia che il marxismo cui si trova di fronte è piuttosto, o in larga parte, lo zdanovismo, che è profondamente anti-illuministico perché nega la legittimità stessa di una dinamica fra posizioni culturali differenti, proclamando il primato del partito in tutti i campi dell'attività politica, culturale e scientifica; ossia nega la pre-condizione per l'instaurazione di un dialogo. D'altra parte Bobbio dedica due saggi all'esperienza dello stalinismo, cui va aggiunto quello posto in appendice. Siamo di fronte a una delle più acute analisi che siano state pubblicate nel corso del triennio 1954-1956 in cui, in Italia, c'è stato un ampio dibattito sul comunismo, in particolare sullo stalinismo. Nel primo, Pace e propaganda di pace, Bobbio strappa il velo pacifista e dell'indipendenza politica al movimento dei “Partigiani della pace” e, sulla scorta di affermazioni dello stesso Stalin, afferma che il suo fine principale non è la pace ma la “distruzione dell'imperialismo”, mentre quello dichiarato come prioritario - la pace - è allora un obiettivo tattico. Rispetto a una vasta pubblicistica denigratoria nei confronti di quel movimento, que- 113 n.11 / 2005 sto scritto rappresenta una pacata analisi delle ragioni politiche e ideologiche che presiedono alla sua creazione, integrate da una decisiva domanda sulla sua efficacia: “È utile che un grande movimento per la pace si ponga nell'attuale movimento storico a fianco di un gruppo di potenze contro l'altro gruppo?”. La risposta è ovvia. Nel secondo, Democrazia e dittatura, una volta precisato che la dittatura come “reggimento politico” non si oppone alla democrazia in senso generico ma proprio alla liberal-democrazia, afferma che il contrasto fra regime sovietico e regimi occidentali non è riducibile a quello “tra maggiore o minore democrazia”, ma a quello “tra dittatura e regime liberale”, ove il discrimine è dato dall'assenza o dalla presenza della libertà. Il terzo saggio posto in appendice, è il punto d'approdo dell'analisi di Bobbio dello stalinismo, dai cui risultati è ripartito per approfondire il dialogo e la critica del marxismo. In Ancora dello stalinismo: alcune questioni di teoria, Bobbio parte dal Rapporto di Krusciov per sostenere che esso è “la più spietata smentita delle illusioni rivoluzionarie”, ossia del comunismo come società superiore a quella capitalistica e della stessa teoria marxista. Esso infatti rivela che il regime sovietico è, di fatto, una tirannia, e secondariamente evidenzia un limite di fondo della teoria marxista stessa che non ha previsto tale fenomeno, né, una volta accertato, ha saputo fornirne un’accettabile spiegazione. Bobbio va oltre l'analisi compiuta da Togliatti nell'intervista a “Nuovi Argomenti”, in cui afferma che nell'Urss di Stalin c'è stato “l'accumularsi di fenomeni di burocratizzazione, di violazione della legalità, di stagnazione e anche, parzialmente, di degenerazione, in differenti punti dell'organismo sociale”. Subito dopo Togliatti delimita tale presa di posizione, affermando che la sovrapposizione “di un potere personale alle istanze collettive di origine e natura democratica“, è stata “parziale ed ha probabilmente avuto le più gravi manifestazioni alla sommità degli organi direttivi dello Stato e del partito”. (“Nuovi Argomenti”, 20, 1956, p. 113). Bobbio è più radicale: nel regime staliniano siamo di fronte a una forma classica di tirannia, un tipo di regime conosciuto e analizzato fin dall'antichità. La ragione fondamentale della mancata comprensio- 114 ne di tale fenomeno da parte del marxismo è che esso si è fondato sul principio di autorità, e perciò è stato costitutivamente incapace di comprendere i fenomeni storici nuovi come, appunto, la dittatura personale di Stalin. “In nessuno dei testi della dottrina era scritto che durante il periodo della dittatura del proletariato vi sarebbe stato un periodo più o meno lungo di tirannia, e neppure che tale evento fosse possibile”. Si potrebbe dire, riassuntivamente, che secondo Bobbio c'è una fallacia dello storicismo marxista: se il marxista afferma che c'è stata effettivamente una tirannia, smentisce la dottrina che la escludeva, e se afferma che non c'è stata, va contro un'evidenza storica incontrovertibile, riconosciuta dagli stessi marxisti sovietici come Krusciov. Pertanto, siamo di fronte a uno scacco teorico del marxismo, la cui origine va individuata in alcuni suoi “pregiudizi teoretici”, il maggiore dei quali è una concezione della storia “a disegno” di stampo hegeliano. Il marxismo è una filosofia della storia, ossia una concezione necessaristica della storia, come quella hegeliana e quella comtiana, sia pure con approdi diversi. Inoltre, il marxismo ha sì una teoria del potere, di come si conquista (“Lenin insegna esclusivamente come si conquista”), ma non una teoria dell'esercizio del potere. La superiorità del liberalismo risiede nel fatto che esso è essenzialmente una teoria dell'esercizio del potere, in cui l'aspetto più importante è il problema dell'abuso del potere e dei possibili rimedi. Un problema, quest'ultimo, assente nel marxismo il quale, relegando i fenomeni politici a fatti sovrastrutturali, li considera contingenti e pressochè ininfluenti sulla struttura della società. La tesi sulla mancanza di una compiuta teoria dello stato nel marxismo, nota Sbarberi, sarà riproposta vent'anni dopo, e “scuoterà i pensieri e le passioni di un vasto settore del mondo comunista e della cultura del dissenso” (p. XLI). Infine, accenniamo al rapporto Bobbio-Croce, che è stato complesso e differenziato nei vari momenti in cui Bobbio ha “fatto i conti” con il filosofo napoletano. È stato un dialogo ininterrotto, in scritti ove ci sono rettifiche, aggiustamenti, critiche, senza giungere mai né a una ripulsa come quella che ha avuto verso Gentile (“oggi non posso rileggerlo Mario Quaranta senza provare dispetto e vergogna”), né a pacificate mediazioni. E Sbarberi evidenzia le ragioni di questo atteggiamento che fu fecondo negli anni. Alcune delle più interessanti lettere che si sono scambiati Bobbio e Rossi-Landi pubblicate nel numero precedente di questa rivista vertono, appunto, su Croce, sul suo magistero etico-politico, sulla validità delle sue scelte filosofiche, sulla sua attualità. In appendice a questa recensione pubblichiamo un'altra lettera di Rossi-Landi, in cui il filosofo milanese chiarisce il suo rapporto con Croce, che è antitetico a quello di Bobbio. Nella seconda appendice si pubblica una lettera di Bobbio (con la risposta), provocata da una mia “lettura” di Politica e cultura, considerata all'interno del movimento neoilluminista degli anni Cinquanta, in cui ebbe una funzione fondamentale. Bobbio fornisce utili precisazioni sulla sua biografia intellettuale, definendo il suo rapporto con Croce di “concordia discors”, che mi sembra una definizione tipicamente bobbiana, ossia aperta a ulteriori precisazioni e approfondimenti. Sono infine concorde nella valutazione complessiva che il curatore dà di quest'opera, quando afferma che essa ha “svolto una funzione analoga a quella esercitata da Liberalism di Hobhouse nell'Inghilterra del primo Novecento e da Liberalism and Social Action di Dewey negli Stati Uniti tra le due guerre” (p. VIII). 3. “Democrazia” e “democrazia progressiva” Un aspetto decisivo del dialogo Bobbio-Togliatti è rappresentato, secondo il curatore, dallo “schema togliattiano della "democrazia progressiva", condizionato per un verso da una lettura fortemente ideologizzata della storia più recente e per l'altro da un'idea indeterminata (volutamente indeterminata) della direzione verso cui la democrazia dovrebbe "progredire"” (p. XXII). L'uso del termine democrazia progressiva, precisa Sbarberi, è maturato nella situazione di una divisione delle sfere d'influenza fra le grandi potenze, pertanto tale parola d'ordine sarebbe l'applicazione italiana di una strategia elaborata dal Komintern. In altre parole, la democrazia progressiva sarebbe un obiettivo tattico imposto dall'assegnazione Politica e cultura di Norberto Bobbio dell'Italia al campo anglo-americano ove, esclusa la conquista del potere a breve termine, si elabora l'obiettivo di democrazia progressiva come “un'ipotesi di lungo periodo” (p. XXVIII). Senza entrare nel merito di un dibattito sulla democrazia progressiva che ha impegnato parecchi storici, e su cui Sbarberi è intervenuto in un precedente lavoro (I comunisti italiani e lo stato: 19291945, Feltrinelli, Milano 1980), notiamo che quel termine è stato usato dallo stesso Togliatti per una breve stagione; c'è chi, come Mauro Scoccimarro, ha preferito il termine "Nuova democrazia"; e comunque Bobbio non l'ha mai assunto come riferimento del modello di democrazia dei comunisti con cui fare i conti. E questo è un indubbio limite di questo confronto. Infine, occorre ricordare che sulle caratteristiche stesse che doveva avere la democrazia progressiva si è discusso all'interno del Partitio comunista. Ad esempio, la posizione di Eugenio Curiel è diversa da quella di Togliatti, in cui erano presenti motivi precisi che lo inducevano ad assumere un atteggiamento critico nei confronti della democrazia rappresentativa. C'è stato chi, come Cesare Luporini, ideologo del togliattismo, tentò di integrare la linea politica togliattiana con una conseguente linea culturale, espressa nel noto saggio Leopardi progressivo (1947). L'affermazione della necessità di una democrazia “progressiva” comporta implicitamente o esplicitamente una presa di distanza critica dalla democrazia rappresentativa che pure si ritiene necessaria; necessaria ma non sufficiente. Secondo Togliatti la contraddizione maggiore della democrazia rappresentativa è sul piano sociale, nel senso che essa non elimina affatto lo sfruttamento capitalistico. Ciò significa, per Togliatti, che i comunisti non possono esaurire il loro programma politico ed economico nell'instaurazione di un regime che accetta lo sfruttamento. Inoltre, la democrazia rappresentativa ha dimostrato storicamente di non sapersi opporre al fascismo e al nazismo. Le interpretazioni della democrazia progressiva sono, dunque, diverse in Togliatti e in Curiel, i quali appartengono a due differenti generazioni. Per Togliatti la democrazia progressiva consiste sostanzialmente nella democrazia rappresentativa garantita, data la sua debolezza, dall'alleanza fra i 115 n.11 / 2005 tre grandi partiti di massa: democristiano, socialista, comunista, dai sindacati e dalle organizzazioni di massa. Non c'è, come ritiene Barberi, un problema di accelerazione nel procedere ai cambiamenti sociali. L'alleanza fra i tre grandi partiti democratici e antifascisti di massa mantiene la porta aperta verso il futuro garantito dalla graduale maturazione culturale e politica del popolo. Per Curiel, invece, la democrazia progressiva ha un'articolazione più complessa. In comune con il pensiero di Togliatti vi è la consapevolezza della fragilità della democrazia rappresentativa nel suo rapporto con le masse, pertanto bisogna procedere rapidamente alla liquidazione di tutta la struttura statale rafforzata ed estesa dal fascismo, che è in antitesi con la democrazia rappresentativa. Questo è il compito storico che secondo Curiel è assegnato ai Comitati di Liberazione nazionale. Contemporaneamente, è necessario avviare la formazione d'un sistema di democrazia diffusa e decentrata, parallelo alla democrazia rappresentativa, ossia il sistema dei consigli, che ha due compiti: da un lato garantire la democrazia rappresentativa e dall'altra superarne il limite, ossia l'accettazione dello sfruttamento capitalistico che la delegittima davanti alle masse popolari. Anche per Curiel non vi è la necessità nè di un programma definito nè di una scadenza temporale; la chiave di volta è la maturazione culturale e politica delle masse popolari, che costituiscono la maggioranza dei cittadini. Rispetto all'esperienza storica statale dell'Urss, in Togliatti vi è un'intransigente esaltazione motivata dalla guerra antifascista, in Curiel vi è una implicita affermazione della necessità del suo superamento. In conclusione, la democrazia progressiva si distacca in Curiel, sia dalla dittatura del proletariato secondo il modello sovietico, sia dalla democrazia prefascista, ed è fondata sulla distruzione delle istituzioni del fascismo (una posizione che è stata poi respinta dalla Costituente). Peraltro, la guerra fredda ha reso inattuali i tentativi di Togliatti, se mai ci sono stati effettivamente, di smarcarsi dall'esperienza sovietica; solo dopo il XX congresso del Pcus (1956) egli affronterà in vari scritti l'analisi dei rapporti tra democrazia e socialismo. La decisione di Bobbio di eslcudere dalla discussione il modello togliattiano di democrazia pro- 116 gressiva ha indubbiamente indebolito tale dibattito, inchiodandolo su un terreno, democrazia sì-democrazia no, che non poteva approdare se non al ribadimento delle posizioni iniziali. In parte, è stato il classico “dialogo fra sordi”, in cui entrambi rifiutano di porsi sul terreno dell'altro. Così, quando Bobbio parla di liberalismo o democrazia, Togliatti gli risponde come se parlasse di liberalismo o democrazia pre-fascista, e quando Togliatti parla di democrazia come democrazia progressiva, Bobbio l'intende come escludente aspetti importanti della democrazia parlamentare come l'alternanza. L'analisi che Barberi compie delle posizioni di Ranuccio Bianchi Bandinelli, conferma questa ambiguità di fondo che permane fra gli interlocutori. Nota conclusiva Come abbiamo notato, Bobbio si è spinto molto avanti nel ritenere possibile un'evoluzione democratica del comunismo italiano rispetto al modello sovietico. Nel saggio Democrazia e dittatura afferma: “Se finora, per ragioni storiche determinate, lotta all'interno prima, difesa dall'accerchiamento esterno poi, e soprattutto mancanza di una tradizione liberale nei paesi in cui finora si è attuato, lo stato proletario non ha potuto reggersi che in forma di dittatura, non è detto che non possa reggersi in forma liberale e democratica in altri paesi e in avvenire”; ove è chiaro il riferimento all'Italia. Ma qual è stato l'approdo del suo dialogo con i comunisti? Esso si è interrotto dopo i cosiddetti “fatti d'Ungheria”, ossia con l'invasione dell'armata sovietica in quel Paese e il ristabilimento del precedente rapporto di subordinazione politica con l'Urss. La posizione assunta dal Pci di difesa incondizionata dell'Urss ha determinato una cospicua uscita dal Pci di intellettuali, e ha chiarito in termini inequivoci che non c'erano margini, all'interno del Pci, per una discussione sul regime sovietico, che rimaneva il modello di società socialista. Bobbio è intervenuto nel 1957 con una recensione al libro di Antonio Giolitti, Riforme e rivoluzione (Einaudi, Torino, pp. 62), in cui il dirigente comunista interviene nel dibattito aperto dall'intervento sovietico in Ungheria, e sostiene alcune delle posizioni espresse da Bobbio in Politica e cultura; in Mario Quaranta particolare quella sul nesso democrazia-socialismo. La recensione, che da allora non è stata più ripubblicata, viene posta come terza appendice, perché ci sembra una presa di posizione in cui Bobbio è vicino alle posizioni di Giolitti; ciò lo farà avvicinare al Partito socialista, e comunque ad accentuare gli aspetti del socialismo rispetto a quelli liberali nel suo pensiero. Il testo di Giolitti è, a mio parere, dopo lo scritto di Giacomo Matteotti del 1923, Direttive del Partito socialista unitario italiano, la formulazione più rigorosa del riformismo socialista espressa dalla cultura politica italiana del novecento. E il fatto che la posizione di Giolitti sia stata ritenuta da Togliatti stesso incompatibile con la sua permanenza nel Pci, ha chiarito ulteriormente che la posta in gioco non era solo politica ma anche morale. L'affermazione conclusiva del breve scritto di Bobbio è infatti questa: “Chi richiama il socialismo al riconoscimento Politica e cultura di Norberto Bobbio del valore essenziale della democrazia pare a me che non solo indichi un orientamento politico ma esprima pure una scelta morale”. Dieci anni dopo Bobbio ribadirà le sue posizioni sul tema della democrazia: "Dopo la crisi dello stalinismo, afferma, è aumentata la consapevolezza dell'importanza non soltanto strumentale ma essenziale della democrazia formale, cioè del valore costitutivo e non soltanto procedurale di certe regole del gioco e della necessità di un preventivo accordo da parte di tutti sul rispetto di esse" (“Resistenza”, gennaio 1967). Sarà su queste basi, e quella del suo rapporto con Giolitti ("L'uomo politico che godeva la mia fiducia era un vecchio amico, Antonio Giolitti”, .Autobiografia, Laterza, Bari 1997, p. 182) che Bobbio appoggerà l'unificazione socialista di quegli anni, e nel Congresso del Psi del 1978 sosterrà la candidatura di Golitti in alternativa a quella di Craxi. APPENDICE I Pubblichiamo la lettera di Ferruccio Rossi-Landi a Norberto Bobbio, a integrazione delle altre su Benedetto Croce già pubblicate nel numero precedente. Rossi-Landi ha posto, a matita, una intestazione esatta nella lettera n. 22 (“arrivata il 5 agosto”), mentre, essendo la data di partenza scritta da Bobbio solo mercoledì 3, senza precisazione del mese, ha scritto a matita “luglio” accanto al 3 di Bobbio. Quella lettera era stata, quindi, datata come spedita il 3 luglio 1955. Da un controllo effettuato su un calendario del 1955, è risultato che si trattava, invece, di mercoledì 3 agosto 1955. Inoltre, la lettera n. 7 datata 29 aprile 1954 è, invece, dell’8 settembre 1955. Questo per il numero precedente, n. 10, della rivista. La lettera che pubblichiamo in questo numero è del 29 luglio 1955. Questo vuol dire che le tre lettere vanno in questa successione: la lettera di Rossi-Landi, Criticare Croce, è del 29 luglio 1955; la risposta di Bobbio, Apologia di Benedetto Croce (n. 22), è del 3 agosto 1955; la seconda lettera di Rossi-Landi, Attualità di un Anti-Croce (n. 7), è dell’8 settembre 1955. Criticare Croce 29 luglio 1955. Caro Professor Bobbio, rispondo con qualche ritardo alla sua lettera del 17 perchè essa mi è giunta quasi alla vigilia della mia partenza per quest'isola felice, (ancora tale benché in via di corruzione turistica), nella quale ho trapiantato la redazione italiana di “Occidente” e dovrei redarre il saggio per il PAC e compiere varie altre cosucce, ma dove in realtà la natura assorbe al punto di addormentare e placare ambizioni e frenesie. È quindi con un certo non volontario distacco che rispondo ora ai suoi vari argomenti. D'accordo dunque sul saggio della Griziotti. Buzano, invero, scrive in tono di voler farlo rifare. Vedremo di convincerlo della necessità di scartarlo subito. Quanto a quello di Saffirio, d'accordo su 117 n.11 / 2005 molte riserve: lei ha letto le mie note, e ha constatato che un sociologo, è aperto alla critica e desideroso di imparare molto di più di un filosofo idealista (la mente che si esprime nella "gratitudine" di Saffirio è molto diversa da quella che si esprimeva nelle precisazioni polemiche di un Croce o di un Gentile: pensi al carteggio Croce-Vossler). Sì, francamente penso che una parte delle sue reazioni al saggio di Saffirio sia dovuta all'ostilità verso la sociologia, assorbita col latte, eccetera, come lei stesso scherzosamente dice. Quei sociologhi tentano di porre ordine in un terreno che i padri spirituali cui lei si riferisce volevano ad ogni costo tener sgombro dall'avanzata dei metodi della scienza. Una volta di più, non interessano i loro risultati contingenti quanto i loro metodi e le loro intenzioni. Mentre questi esprimono un desiderio di sapere, di potenziare la presa umana sul mondo e anche sull'uomo stesso, l'avversione che si giustifica con la modestia e con l'ingenuità dei loro primi risultati esprime a mio avviso un preconcetto di ordine metafisico, e precisamente il desiderio di non vedere se stessi come uomini messi a quella sorta di lucida berlina che è l'indagine scientifica. Simone de Beauvoir fa della letteratura molto intelligente, i sociologhi fanno della scienza ancora posticcia e talvolta puerile. La prima non ha bisogno di essere incoraggiata, i secondi sì. La letteratura rimarrà sempre letteratura o esperienza personale, o generalizzazione affatto arbitraria, o intuizioni anche profonde e felici. Perché dovremo professare una filosofia che stia dalla parte della letteratura in quei suoi aspetti? Dal mio punto di vista, una tale professione è un sottoprodotto del desiderio magari consciamente eliminato di poter costruire una metafisica altrettanto futile, per esempio quella di un Croce o di un Gentile. In altre parole, la giustezza di tono che si può conseguire in letteratura, e che appare così grossolanamente negata dai primi tentativi dei sociologhi (sul che siam d'accordo), sollecita il metafisico al programma di ripeterla anche in filosofia, con in più la guarentigia di una descrizione reale della Realtà, da conseguirsi con metodi teoretici e speculativi. Ma basta di ciò in questa sede. Quanto alle molto acute osservazioni che la lettura della prima stesura del mio talk per la BBC le ha 118 suggerite, le dirò senza riflettere che ne terrò il massimo conto nella seconda stesura - intendo che darò in ogni caso al suo punto di vista il peso che esso merita anche a prescindere dalla misura del mio accordo personale. Riflettendo (nel senso chiarito) aggiungerò che ho dovuto lasciar passare diversi giorni prima di giungere per quel che mi concerne a una decisione intellettuale sul seguente punto: la misura in cui le sue osservazioni fossero dettate dalla ragione in quanto distinta dal sentimento. Il punto era ed è per me di grande importanza sia a titolo di chiarificazione personale sia come strumento per distinguere fra lei e me su taluni problemi. Lei certo sa come queste decisioni intellettuali siano ardue da conseguirsi. Non si sorprenderà se le dico che ho dedicato gran parte del lungo viaggio da Milano all'Elba a girare e rigirare in testa le sue frasi, tenendole per così dire ferme in vari contesti che andavo via via immaginando. Anche ieri, mentre inseguivo sott'acqua certi pesci lungo la punta di Fetovaia, mi sforzavo di decidere se ero io a sbagliare i punti a, b, c…n, oppure no. Ho deciso di no, alla fine: cioè ho deciso che la sua reazione è dettata prevalentemente dal sentimento. A lei spiace che si parli male di Croce per ragioni prevalentemente affettive, e vorrebbe che certe cose fossero taciute perché vuol bene alla di lui memoria e ne sente ancora la forza e ne immagina le sferzanti risposte. Inoltre trova ingeneroso il mettere alla luce le piaghe della nostra cultura all'estero. Io credo che tutto ciò debba essere fatto. Quello che vado sforzandomi di proporre e che a poco a poco cercherò anche di provare, è in fondo un'ipotesi stopriografica che serva a spiegare i fenomeni nella loro complessità nel modo più semplice. Che Croce sia l'autore di alcune teorie importantissime, che abbia scritto dei bei libri, che fosse un grande scrittore (come lei dice, non senza una punta di patetica insistenza), a me non interessa: son cose risapute, e non sarò certo io che starò a ripeterle dopo che centinaia di studiosi le han dette nel corso di molti decenni. (È chiaro che se scrivessi un libro complessivo su Croce darei a quei fatti il dovuto rilievo). A me interessa ciò che nella figura di Croce non è stato finora posto nella dovuta luce, ed è proprio ciò che mi serve a costruire l'ipotesi storiografica di cui sopra. A parte le pruden- Mario Quaranta ze suggerite dall'etichetta accademica, trovo inutile ripetere ancora una volta quali siano stati i meriti di Don Benedetto. Vediamo piuttosto fino in fondo come egli, idealista hegeliano e dittatore nella vita privata, pontefice illiberale, e via dicendo, abbia contribuito a quel clima che tanto ci ha fatto soffrire e del quale ancora non riusciamo a liberarci. Anche quello che potrei chiamare un residuo di bontà patriottica da parte sua mi trova in dissenso. Prendiamo il suo implicito paragone fra Croce e Churchill. Del secondo sono state scritte in Inghilterra cose molto più atroci che del primo in Italia, e ciò proviene proprio da una situazione che noi dobbiamo mettere in luce. Ma il paragone, a mio avviso, non regge. Churchill fu uno statista grandissimo che non comprese diverse cose importanti. Croce fu un filosofo potente, attivo ed efficace, ma a mio avviso non grande; e rimase sordo alla quasi totalità di tutto ciò che nella filosofia (o forse nel pensiero) del Novecento era veramente nuovo: dalla logica simbolica alla sociologia, dal marxismo (che dichiarò spento!) all'analisi del linguaggio, dalla psicoanalisi alla nuova fisica e anzi a tutta la scienza della natura e via dicendo. Non si Politica e cultura di Norberto Bobbio tratta dunque di "diffidare" dello straniero che viene a parlarci male dei suoi grandi uomini: si tratta di valutare, al di là del discorso e dell'atteggiamento, la cosa, nel caso ciò che ha fatto Churchill in confronto a ciò che ha fatto Croce. Bisogna andar giù fin verso il fondo della cosa, fronteggiarla anche se ci fa male (anche quando le orecchie compresse dolgono, dicevo a me stesso inseguendo quei tali pesci). E’ questo l'unico modo di essere poi ottimisti in maniera costruttiva. Avrei moltissime altre cose, ma il foglio è finito e io sono stato già abbastanza impertinente. Una sola cosa: io non ho detto che gli italiani siano inferiori agli inglesi anche di fronte al problema della morte. Ho detto solo che esso ha più importanza per i primi che per i secondi: forse ciò implica che i primi sono superiori, non le pare? Perché lei vede una presa di posizione in uno scherzo, se questo non corrisponde a un paradigma che lei ha già pronto prima della lettura. Ferruccio Rossi-Landi presso Battaglini, S. Mamiliano, MARINA DI CAMPO (Elba, Livorno). APPENDICE II Sull'opera di Bobbio Politica e cultura ho pubblicato un saggio nel 1989, Noberto Bobbio ideologo del neoilluminismo. Per una lettura di Politica e cultura, “Il Protagora”, 15-16. Prima della pubblicazione ho fatto pervenire il dattiloscritto a Norberto Bobbio e ad Aurelio Macchioro. Pubblico la lettera di Bobbio in cui egli esprime una valutazione su tale scritto e la mia riposta. Torino, 4 luglio 1989 Caro Quaranta, ho letto con molto interesse le pagine a me dedicate. Mi sono parse particolarmente felici le prime in cui lei tiene conto di quell'articolo sul Gentile, che è pochissimo conosciuto. Sulle origini del mio personalismo da Scheler non saprei dire. Ma che il personalismo (a dire il vero filosoficamente ben poco approfondito) sia stato il primo e principale motivo della mia filosofia “militante”, mi pare indubbio. Molto opportuna mi è sembrata la citazione di un altro dei miei articoli meno conosciuti, La persona e lo stato che io stesso avevo dimenticato e che pure contiene in nuce, come lei ha osservato, il mio pensiero politico senza che io stesso ne sia stato in tutti questi anni consapevole. Totalmente d'accordo sull'ambiguità della mia posizione nei riguardi di Croce, che potrebbe essere definita, con una espressione cara sia a Croce sia a Gentile, di “concordia discors”. Mi convince meno invece la contrapposizione finale con Gramsci, non perché il contrasto non ci sia, ma perché non mi pare che la Sua interpretazione dell'intellettuale in Gramsci sia quella giusta. Se dovessi farle un'osservazione critica direi che il saggio è un po' troppo lungo specie nella parte 119 n.11 / 2005 espositiva dei singoli articoli, che avrebbero potuto essere riassunti in modo più sintetico. Infine, pensavo che l'avrebbe maggiormente colpita la dichiarazione secondo cui sarei stato un illuminista pessimista, che è forse una chiave di spiegazione di molte delle mie ambiguità. Se questo Suo articolo è servito anche a provocare Macchioro, di cui da tanto tempo non ho più notizie, è una ragione di più per rendergli merito. Grazie dei vari articoli, e i più cordiali saluti, Norberto Bobbio A questa lettera ho risposto il 7 agosto. […] Intanto le debbo due precisazioni. Sulla genesi del suo personalismo penso soprattutto a Kant più che a Scheler (la frase del saggio è un po' ambigua). Forse è stato sollecitato a studiare Kant da Pastore? Rileggendo la sua introduzione successiva agli scritti kantiani, ho visto che si tratta di una lettura laica dopo Scheler, cioè con l'esclusione teorica di un possibile approdo religioso. (In tale direzione - e proprio attraverso la lettura di KantScheler - va negli stessi anni Mario Manlio Rossi). Sull'intellettuale in Gramsci, penso che abbia pesato, nella interpretazione della vostra generazione, l'utilizzo fatto dal Pci. Avevate di fronte la concezione dell'intellettuale-funzionario di un partito di massa, tipica di Togliatti e che vale sia in una concezione di destra (fascismo-Guf, istituzioni corporative, ecc.), sia in una di sinistra. L'elaborazione di Gramsci è l'unico esempio di un tentativo di dare una risposta - teorica e pratica - alternativa a quella fornita dallo stalinismo e dal fascismo. Giungo infine al punto dolente, cioè al suo pessimismo, oggetto di discussione-contrapposizione con Macchioro e su cui ho messo un inconcluso punto interrogativo. Aurelio ritiene che si tratti di un aspetto dell'“oscurismo” (non, illuminismo!) bobbiano. Io lo riallaccio alla formula gramsciana “pessimismo della ragione, ottimismo della volontà”: una formula che considero caratteristica di un atteggiamento decisionista. Per l'autentico illuminista vale il contrario: ottimismo della ragione, pessimismo della volontà, nel senso che la fiducia nella ragione permane anche quando si è consapevoli che il progetto di grandi mutamenti richiede tempi lunghi (epocali, a volte). La prima formula, invece, dà adito a credere che la volontà (individuale o collettiva) possa realizzare ciò che la ragione non riesce ancora a delineare con chiarezza. (E c'è tanto crocianesimo in questo decisionismo). Io sto ora rileggendo alcuni suoi scritti politici per avere la “prova” che lei accosta la sua formula a quella gramsciana, dopo di che posso sciogliere quell'interrogativo. Infine sono d'accordo con lei (e con Macchioro!) sulla lunghezza inutile del saggio; l'amico Antonio Quarta mi comunica che il testo andrà in stampa a settembre e così durante questa settimana prosciugherò il lavoro accontentando i due esigenti lettori. (Tralascio Geymonat, il quale dice acriticamente sempre troppo bene di ciò che scrivo!). Un saluto cordiale Mario Quaratnta APPENDICE III Riforme e rivoluzione* di Norberto Bobbio Un discorso teorico sul recente saggio di Antonio Giolitti Riforme e rivoluzione potrebbe cominciare da questa frase: “L'esperienza ormai ci ha insegnato, smentendo opinioni semplicistiche largamente diffuse, che contraddizioni profonde [...] sono possibili anche nella società socialista, almeno fino a quando essa non abbia saputo ordinarsi 120 in democrazia socialista” (p. 53). Il Vico, com'è noto, elaborò nuovi canoni per indagare le origini delle nazioni, ma non li applicò, molto probabilmente per essere lasciato in pace dai censori, alla storia degli Ebrei, perché costoro avendo ricevuto “aiuti straordinari dal vero Dio” avevano “durato nell'umanità”, mentre le altre nazioni erano precipitate dopo il diluvio “in un error bestiale”. I teorici e storici marxisti si sono comportati nello stesso modo, e forse per le stes- Mario Quaranta se ragioni, con l'Unione Sovietica. Marx aveva insegnato che la storia umana procede attraverso continue contraddizioni. Sin dai Manoscritti del '44 aveva indicato nella “negatività” intesa come “principio motore e generatore” della storia il contributo di Hegel alla storia del pensiero. E se non si vuole usare il termine “dialettica”, nel consueto modo ambiguo e approssimativo, bisognerà intenderla anzitutto come la teoria della “forza del negativo” nelle vicende umane; perciò chi distingue il lato buono dal lato cattivo di ogni evento e accetta solo il primo e rifiuta il secondo, si toglie la possibilità di comprendere il moto della storia, non scrive narrazioni storiche ma apologie. Contro Proudhon Marx scriveva una frase che, letta sostituendo “regime sovietico” a “feudalesimo”, acquista nuovo sapore: “Se all'epoca del regime feudale, gli economisti, entusiasmati dalle virtù cavalleresche, dalla bella armonia fra i diritti e i doveri, dalla vita patriarcale delle città […], infine da tutto ciò che costituisce il lato buono del feudalesimo, si fossero posti il problema di eliminare tutto ciò che offusca questo quadro - servitù, privilegi, anarchia - che sarebbe avvenuto? Sarebbero stati annullati tutti gli elementi che costituivano la lotta e si sarebbe soffocato in germe lo sviluppo della borghesia. Insomma si sarebbe posto l'assurdo problema di eliminare la storia”1. Ma per i marxisti ortodossi questo avvertimento di Marx continuò a valere, nel migliore dei casi, solo per la storia profana delle nazioni capitalistiche che perduravano nell'“error bestiale”, ma perdette ogni efficacia nella storia sacra dell'Unione Sovietica che aveva ricevuto “aiuti straordinari” dai soli legittimi interpreti della verità. Là gli eventi umani seguitavano a generar contraddizioni su contraddizioni, sempre più gravi e intollerabili; qua le contraddizioni erano finite, la forza del negativo era spenta: tutto era buono, tutto era positivo. Il metodo dialettico che doveva servire a scoprire gli erramenti altrui, era messo fuori uso dove non c'erano più errori da scoprire ma soltanto verità da glorificare. Ora la svolta del XX Congresso ha avuto anche questa conseguenza: gli intellettuali marxisti sono diventati sempre più consapevoli che in una concezione laica del mondo non vi è posto per una storia sacra né l'umanità si può dividere con un taglio Politica e cultura di Norberto Bobbio netto in ebrei e gentili. Anche il regime sovietico, fondato come ogni altro potere politico su determinati rapporti di produzione, provoca per lo stesso trasformarsi di questi rapporti le sue lotte, genera le sue contraddizioni. Contraddizioni tra burocratizzazione e iniziativa personale, tra dittatura e garanzie giuridiche, tra partito unico e necessità degli antagonismi, tra governo forte e controllo democratico, tra indottrinamento e sviluppo della cultura, tra ragione di stato e etica individuale, tra economia di guerra ed ecoantagonismi, tra governo forte e controllo [...], tra rafforzamento del potere sovietico al di fuori dei confini dell'URSS e rispetto dei valori nazionali, tra egemonia della nazione più forte e autonomia delle nazioni più deboli: quanto materiale per uno storico di buona fede che, convinto della bontà del metodo dialettico, non si limiti ad applicarlo ai cattivi che devono diventar buoni ma anche ai buoni che possono diventare cattivi. Una prima ragione d'interesse del saggio di Giolitti sta dunque nella dichiarata consapevolezza che solo un fanatico o un dogmatico possa ormai sfuggire alla responsabilità della critica delle contraddizioni e in fin dei conti in un uso più conseguente della dialettica. Ma la dialettica non è soltanto un metodo per individuare le contraddizioni: indica la via per risolverle. Qui Marx, seguendo ancora una volta Hegel, aveva accettato per la soluzione delle antitesi il criterio della negazione della negazione, cioè della soppressione che è insieme superamento. Non ci sarà bisogno di ricordare il celebre passo del Capitale, criticato da Dühring e difeso da Engels, in cui Marx, a proposito dello sviluppo della proprietà, aveva tracciato le linee di un processo che muovendo dalla proprietà privata capitalistica intesa come negazione, generava dal suo stesso seno la negazione della negazione, cioè una nuova forma di proprietà. Questo principio della negazione della negazione significava che il momento della soluzione non era una eliminazione totale del momento precedente ma piuttosto una sua trasformazione e conservazione. Il concetto del passaggio dal vecchio al nuovo inteso come trasformazione assoluta apparteneva semmai al razionalismo astratto dei giusnaturalisti, i quali - si pensi allo Hobbes e anche al Rousseau consideravano lo stato civile, sorto sulla dissoluzione 121 n.11 / 2005 dello stato di natura, come un sistema completamente nuovo di rapporti tra gli uomini, come la nascita di un uomo nuovo che, per dirla con Rousseau, non avrebbe più ascoltato “l'impulso fisico” ma “la voce del dovere”, e sarebbe stato costretto d'ora innanzi “a consultare la propria ragione prima d'ascoltare le proprie inclinazioni”2. Sinora, nel rifiuto della civiltà liberale i teorici del comunismo sovietico, affascinati dalle conquiste del nuovo regime e insieme resi ottusi dall'isolamento, si dimostrarono miglior seguaci del mito giusnaturalistico della trasmutazione che non del criterio dialettico della soppressione-superamento. Il regime sovietico fu esaltato come il novus ordo, come il Leviatano possente e pacifico che viene a far giustizia una volta per sempre dell'anarchia distruttiva dello stato di natura e nel grembo del quale confluisce per morire di morte naturale o violenta tutto il passato. Rivoluzione non è "tabula rasa" Anche su questo punto bisogna dar atto a Giolitti di aver fatto un uso più conseguente della concezione dialettica della storia. Uno dei temi principali del saggio è espresso con queste parole: “Una nuova classe dirigente, portatrice e artefice di uno stadio più avanzato di civiltà, non può svolgere la propria funzione egemonica sull'intera società se non facendo proprie, per potenziarle, arricchirle e rinnovarle, tutte le conquiste del progresso" (p. 36). Alla teoria della tabula rasa Giolitti contrappone la tesi che una nuova civiltà non distrugge mai tutto il passato, ma ne assorbe le forze migliori e se ne alimenta. Egli vede la classe dirigente del proletariato esercitare la sua funzione storica con l'accogliere risultati e conquiste della civiltà liberale come l'habeas corpus, la divisione dei poteri, la libertà di pensiero, il suffragio universale, “che appartengono all'umanità civile, perché rappresentano un progresso nell'organizzazione dell'umana società” (p. 36), anche se le forme istituzionali, non saranno le stesse e la divisione dei poteri, ad esempio, non sarà più tra le funzioni di governo, ma tra il potere politico, quello sindacale e quello della scienza. Alla rivalutazione del passato democratico Giolitti ricollega la questione della “via nazionale” al socialismo. Egli è fautore della via nazionale, perché via nazio- 122 nale significa rifiuto di un'astratta eversione e inserimento in una tradizione il cui riconoscimento è compito della classe politica che miri non ad un'effimera dittatura ma ad una durevole egemonia. Di conseguenza: “il socialismo in un paese economicamente sviluppato e già retto da un ordinamento democratico non può concepirsi disgiunto dalla democrazia” (p. 35). II riformismo socialdemocratico Certamente, qui può nascere il dubbio che la posizione di Giolitti imperniata sul tema del socialismo nella democrazia, sfoci in una tradizionale accettazione della socialdemocrazia e perciò sia destinata a rinfocolare vecchie dispute più che a stimolarne di nuove. In realtà la posizione di Giolitti è più sottile e complessa. O almeno bisogna distinguere in essa l'atteggiamento verso il riformismo da quello verso la democrazia. Rispetto al riformismo, direi che tutto lo sforzo di Giolitti consista nello sfuggire alla solita alternativa: o riforme o rivoluzione; cioè nel sottrarsi al gioco delle parti contrapposte nello schieramento socialista europeo per giungere ad una conclusione su per giù di questo genere: “in un certo senso” riforma e rivoluzione non son termini contrapposti, e pertanto la tradizionale alternativa “in un certo senso” è falsa. Giolitti scrive: “Nei paesi dove le strutture capitalistiche sono più solide e più sviluppate e dove l'imperialismo ha le sue posizioni di forza, è sulle contraddizioni intrinseche al modo di produzione che la classe operaia deve far leva: la via rivoluzionaria è quella delle riforme di struttura” (p. 25). In questo passo, e in altri analoghi, i termini “riforma” e “rivoluzione” non sono adoperati come contrari e quindi incompatibili ma come implicantisi nel rapporto di mezzo a fine. Perciò la tesi che ne deriva si può formulare in questo modo: le riforme sono il mezzo per attuare la rivoluzione. Con un certo schematismo si può dire che questa posizione si differenzia tanto da quella rivoluzionaria secondo la quale la rivoluzione è un mezzo per attuare le riforme, tanto da quella riformista nel senso corrente della parola e qui chiamata di riformismo neo-capitalistico, secondo cui le riforme Mario Quaranta sono il mezzo per evitare la rivoluzione. A ben guardare Giolitti sfugge alla alternativa, perché, rispetto ai riformisti, opera con un concetto diverso di riforma, dove “riforma” significa riforma di struttura e non nella struttura; e, rispetto ai rivoluzionari, opera con un concetto diverso di rivoluzione, che non significa più il complesso degli atti violenti compiuti in vista della conquista del potere, ma trasformazione radicale delle principali strutture di una società e quindi della direzione politica (sia essa avvenuta attraverso la violenza o meno). Ai riformisti, soprattutto a quelli di oggi, in sostanza Giolitti si contrappone, perché le riforme di cui parla sono riforme destinate “a realizzare la rivoluzione socialista” e non già “la conservazione del capitalismo”; ai rivoluzionari per partito preso si contrappone insistendo sul fatto che ciò che conta non è il modo della trasformazione della società (violenza nella conquista e dittatura nell'esercizio), ma il contenuto di questa trasformazione, e che il modo appartiene alla contingenza storica (ed è un errore costituirvi sopra una teoria valida per tutti i tempi) e soltanto la trasformazione socialista della società appartiene alla sostanza del socialismo. Il fatto poi che si contrapponga a entrambi, non vuol dire che sia equidistante rispetto alle due posizioni estreme: la differenza dal riformismo è o pretende di essere essenziale, riguarda il fine: “Dopo la seconda guerra mondiale la socialdemocrazia, nella sua grande maggioranza, ha esplicitamente rinunciato anche al socialismo come fine, ha messo definitivamente Marx in soffitta dando per superata l'analisi marxista del capitalismo e ad essa ha sostituito le teorie economiche del "neocapitalismo"” (pp. 12-13); la distinzione dal socialismo rivoluzionario, invece, verte o pretende di vertere su una questione secondaria o di opportunità, cioè riguarda non il fine ma i mezzi: “Gli strumenti della democrazia hanno oggi un'efficacia rivoluzionaria, perché sono per natura e per definizione strumenti in mano della maggioranza, che la minoranza può cercare di accaparrarsi solo deformandoli o neutralizzandoli” (p. 35). Perno di questa posizione è il concetto gramsciano di “egemonia”. Giolitti lo adopera dichiaratamente contro il riformismo, che è pur sempre viziato da una concezione deterministica dello sviluppo eco- Politica e cultura di Norberto Bobbio nomico e fatalistica della storia; ma se ne vale pure per opporsi ai teorici della violenza che rovesciano il naturale rapporto tra economia e politica e pretendono di affidare alla conquista del potere politico quelle riforme che non sono ancora state attuate nel processo di trasformazione economica. Anche su questo punto non si potrebbe desiderare maggiore chiarezza: “La funzione dirigente della classe operaia deve esercitarsi anzitutto nel processo produttivo e da qui conquistare il potere politico” (p. 23). Debbo dire che qui la equidistanza mi pare meno rispettata a favore della posizione riformista. Il termine “riformismo” ha almeno due significati: oltre al significato già incontrato di teoria delle riforme sulla struttura e non della struttura, ha anche quello di teoria del progresso graduale contrapposto a salto qualitativo. Ora la precedenza del momento economico su quello politico è generalmente propria della concezione evolutiva o riformistica della storia, di quella concezione secondo cui la storia procede a gradi e non a salti, anche se essa non è affatto contraria ad una delle principali leggi della dialettica marxistica, alla legge della trasformazione della quantità in qualità, richiamata esplicitamente da Marx nel Capitale e messa in particolare onore da Engels nella Dialettica della natura. Democrazia: scelta morale Per quel che riguarda la democrazia, la differenza dell'atteggiamento di Giolitti dalle posizioni socialdemocratiche sembra meno netta. Se infatti in un primo tempo egli valuta positivamente il metodo democratico più che altro per ragioni storiche e unicamente in funzione delle particolari condizioni politiche in cui si troverebbero certi paesi in confronto di certi altri, alla fine, là dove il saggio riecheggia moti d'animo nati dai fatti d'Ungheria, si eleva a considerare la democrazia come mezzo inerente alla realizzazione del socialismo e come tale necessario. Citiamo ancora una di quelle frasi dal taglio netto che sono un pregio del libro ed esprimono forza di convinzione e rigore mentale: “La democrazia socialista non si edifica con mezzi antidemocratici” (p. 52). Il comune rapporto tra conquista violenta e dittatura da un lato e conquista ed esercizio democrati- 123 n.11 / 2005 ci dall'altro viene invertito: quel che là era eccezione qui diventa regola e viceversa. Democrazia e socialismo sono considerati ormai come due momenti inscindibili di un unico processo. Non vedo come una simile affermazione sia potuta avvenire senza una profonda rimeditazione non solo della prassi comunista ma anche della teoria marxista e leninista del potere. Penso che tra comunismo e democrazia vi sia una differenza non facilmente conciliabile, perché non riguarda questo o quello espediente da adoperare in questa o quella circostanza, ma la visione generale della storia e dell'uomo. L'etica comunista è pur sempre un'etica della violenza, voglio dire una concezione che partendo da una critica feroce della società in cui il militante si trova a vivere, e non avendo nessuna fiducia nel moto spontaneo delle cose, ciò che un liberale avrebbe detto il libero gioco delle forze naturali, ritiene che solo una minoranza organizzata, disciplinata e credente (il partito, il nuovo principe) sia in grado di far progredire l'umanità verso il meglio, e in definitiva che per salvare gli uomini bisogna forzarli ad entrare. L'etica democratica, che è nata dalle lotte contro l'intolle([email protected]) 124 ranza dogmatica delle chiese e contro il dispotismo principesco, è un'etica della spontaneità che, considerando la società sempre in crisi e sempre in movimento, crede nella fecondità della lotta, nella forza e nel valore della responsabilità individuale, nel compromesso provvisorio e sempre rinnovabile come mezzo di risoluzione dei conflitti. Lo spettacolo delle grandi lotte che a Marx suscitò il pensiero della storia come teatro dell'alienazione umana che ben poteva giustificare la violenza purificatrice, al vecchio Kant meditante sul progresso umano fece esprimere l'elogio degli antagonismi che soli assicurano lo sviluppo delle facoltà naturali dell'uomo e quindi della civiltà, purché vengano a poco a poco disciplinati dal diritto. Perciò chi richiama il socialismo al riconoscimento del valore essenziale della democrazia pare a me che non solo indichi un orientamento politico ma esprima pure una scelta morale. * "Notiziario Einaudi”, giugno 1957. 1. Miseria della filosofia, Roma, Edizioni "Rinascita, p. 99. Il corsivo è mio. 2. Contratto sociale, lib. I, cap. VIII. ELIO FRANZIN, LUIGI PICCINATO E L’URBANISTICA A PADOVA 19271974. CON ALCUNI SCRITTI PADOVANI DI LUIGI PICCINATO, PREFAZIONE DI LIONELLO PUPPI, PADOVA, IL PRATO, 2004. Schede La tesi fondamentale espressa dall'autore è che la storia urbanistica di Padova nel Novecento sia caratterizzata da una doppia continuità, da un lato i gruppi sociali dominanti (l’anti-urbanistica) hanno imposto fino ai giorni nostri i loro poteri di distruzione del centro storico testimoniati dallo sventramento del quartiere di Santa Lucia, dalla costruzione della zona ospedaliera sopra le mura cinquecentesche e sopra un canale, dai tombinamenti dei corsi d’acqua. A questa linea, che è risultata vincente, si è opposto per decenni l’urbanista Luigi Piccinato, il maggiore urbanista italiano del Novecento, e intellettuali che facevano riferimento al suo pensiero e ai suoi piani regolatori. Per la città di Padova, in momenti diversi, dal 1927 fino al 1974, egli elaborò ben cinque piani: un caso unico nella storia dell’urbanistica italiana. Lo sventramento del centro storico padovano fu deciso con il piano regolatore degli ingegneri T. Paoletti e G. Peressutti approvato prima dal Consiglio comunale e poi dalla legge del 23 luglio 1922 n. 1043 precedente alla marcia su Roma del fascismo. L’equazione sventramento dei centri storici uguale politica urbanistica del fascismo nel caso padovano si dimostra non fondata. E in effetti il piano di sventramento del 1922 fu contestato anche da numerosi intellettuali che aderivano al fascismo, come per esempio Gustavo Giovannoni, un grande storico dell’architettura, o Corrado Ricci. Si può ritenere da molti elementi diretti e indiretti che il piano di sventramento del centro storico padovano, realizzato da un'unica impresa chiamata APE, sia stato concepito da speculatori romani che utilizzarono i loro rapporti con ambienti ecclesiastici. L’opposizione al piano di sventramento di Padova si sviluppò a livello nazionale e locale. Ma nel 1927 con la nomina del primo podestà di Padova, il conte Francesco Giusti del Giardino, i difensori del centro storico padovano subirono un duro colpo. Fu costruita la nuova facciata del palazzo comunale, dedicata ai caduti della Prima guerra mondiale, che nascose quella appena riapparsa del Palazzo degli Anziani, un monumento medievale di grandissimo valore artistico e simbolico. Questo intervento particolarmente distruttivo fece capire alla parte più colta della cittadinanza cosa stava succedendo nel quartiere di Santa Lucia, dove si abbatterono edifici come la casa di Pietro d’Abano e del Mantegna. Si può affermare che dal 1927 in poi il centro storico padovano prima e durante il regime fascista e poi durante il periodo in cui il Comune è stato ininterrottamente diretto dalla Democrazia cristiana con i suoi alleati, ha continuato a subire dei colpi durissimi, grazie ad operazioni che spesso sono state decise o giustificate da alcuni docenti universitari e perfino da un rettore. Insomma, secondo l'autore c'è una continuità, dal fascismo in poi, nella classe dirigente padovana, di una linea di anti-urbanistica, la quale è pertanto particolarmente estesa e robusta, se ancora nell'estate del 1974 fu sconfitto l’assessore all’urbanistica Francesco Feltrin, un allievo politico di Piccinato, il quale era contro lo sviluppo “ a macchia d?olio” della città, mentre Piccinato sosteneva uno sviluppo “stellare”. Pietro Bardella 125 DEVI SACCHETTO, IL NORDEST E IL SUO ORIENTE. MIGRANTI, TALI E AZIONI UMANITARIE, OMBRE CORTE, VERONA 2004 CAPI- Asterischi Tra i diversi motivi di interesse e di originalità di questo libro, ve ne sono due che lo rendono altamente pionieristico, meritorio e fecondo di ulteriori sviluppi, speriamo anche dell’Autore stesso. Il primo rimanda al tentativo di una lettura intrecciata delle migrazioni di capitali e di persone, magari con direzioni parallele e invertite, come le delocalizzazioni industriali del Nordest italiano in Romania e l’arrivo, da quel Paese, di molti migranti sia uomini che donne: “Nel corso degli anni Novanta la delocalizzazione dei distretti industriali e l’immissione di manodopera immigrata nelle imprese collocate in Italia sono andate di pari passo” (p. 176). Il secondo consiste nella focalizzazione di un caso empirico in cui l’azione umanitaria – nella fattispecie nel Kosovo – si specializza come funzione di un controllo eterodiretto di un territorio e di una democrazia a sovranità revocabile. In questo caso “le organizzazioni umanitarie costituiscono un potere crescente in grado di suscitare dinamiche di cambiamento nelle aree oggetto di intervento” (p. 96). Tenendo presenti questi due fili conduttori non è difficile immaginare quanto distante sia l’approccio di Sacchetto da una problematizzazione classica del fenomeno dell’immigrazione nel nostro Paese e delle correlate politiche di intervento. La lettura, le categorie adottate, le comparazioni sono dense di concettualizzazioni fortemente extranormative, con la scelta di un terreno ibrido, tra sociologia, antropologia e riferimenti storico - politici di contorno. Tutto si incardina con una categoria fondante, molto densa di strutture concettuali, come il confine: “I confini geografici separano aree politiche definendo un interno e un esterno al fine di garantire un controllo più sicuro del flusso di individui e merci. Chi attraversa un confine,…incrementa o 126 diminuisce valori economici di se stesso o della merce che trasporta, entrando a far parte di relazioni produttive e di scambio indipendentemente dall’attraversamento legale o illegale della frontiera” (pp. 31 –2). Ciò che sovrintende al complesso intreccio di migrazioni di persone, di capitali, di guerre e di azioni umanitarie è la potenza strutturante gerarchie che agisce attraverso recinzioni e processi di sconfinamento. Secondo l’Autore questa gerarchia via guerra si concretizza con la costruzione di uno spazio senza possibilità di mobilità territoriale, la “ricostruzione” definisce e circoscrive il suo oggetto e il suo ambito di intervento chiudendo varchi per una mobilità verso e dall’esterno. Invece via pace si identifica con le strategie di transizione alla “costruzione politica della forza – lavoro migrante” (p. 63). Come nelle istituzioni totali descritte da Erwin Goffman il recinto confinario è la linea dura, seccamente operativa, della svalorizzazione della soggettività oltreché del suo controllo disciplinare. Questa finalità si esplicita nella forma che assumono i nuovi conflitti bellici, con la loro aleatoria contingenza e imprevedibilità, innescano crisi senza fine delle comunità di prossimità: “Nel lungo decennio jugoslavo, ad esempio, alla dissoluzione delle comunità esistenti è corrisposta la costruzione di società commerciali caratterizzate da regimi lavorativi meno democratici e, più in generale, da nuovi precetti disciplinari” (p. 70). L’Autore assume qui la formula di Barman per la quale la globalizzazione struttura i territori come “ghetti”, che sono delle anti –comunità, dei luoghi in cui la vicinanza fisica non crea legame, anzi l’individuo è anonimo, pulsionale e irrelato. Le vicende del Kosovo come si situano dentro questo sofisticato modello interpretativo? Per Sacchetto si tratta esattamente dell’allungamento verso il basso della gerarchia dei poteri globali sui territori attraverso i dispositivi della recinzione confinaria materiale. Essendo il prodotto di queste dinamiche globali di potenza le società confinarie come quella kosovara non incarnano l’ideale della comunità di prossimità “buona” contro la società di mercato “cattiva”. Ma perché la comunità, questa comunità si disintegra? Le risposte possibili da tentare sono diverse. Evidentemente sotto una certa soglia di riconoscimento reciproco “faccia a faccia” la caratterizzazione spontanea dei rapporti comunitari non riesce a fare legame in un contesto privo di protezioni politico – istituzionali. I legami si disgregano e gli individui si allontanano, non venendo compresi da quella forma sovra – ordinante, che conferisce certezze ai diritti personali. Questa forma o quel contesto debbono originarsi in modo extra – comunitario e rendono possibile la comunità, l’integrarsi delle soggettività che la abitano. Questa paradossale esigenza di generare il comunitario da una forma extra – comunitaria di autorità segna tutta la ricerca di Marco Dogo, il suo interrogare il difficilissimo intreccio tra democrazia nazionale e identità etnico – territoriale che presiede alla mancata modernizzazione dei Balcani. La “balcanizzazione” non è l’esplosione di puri “ethnoi” tra di loro incomponibili per la loro pervicace volontà di differenza; bensì è l’inversione del rapporto tra comunità etnico – territoriale che si vuole im – mediato fondamento della democrazia nazionale. Riecheggiando Attilio Brunialti, rara figura di studioso e politico italiano dedito alla conoscenza dell’Est e dei Balcani afferma: “nessun collegamento automatico va stabilito fra l’esistenza di un gruppo etnico e la formazione di uno stato” (Marco DOGO: Storie balcaniche, LEG, Gorizia, 1999, p. 62). La natura virtuosa dei legami comunitari si da pertanto solo dove lievita il “mistero” di un’obbligazione pubblica che assegna i diritti personali. Per la Romania lo scenario cambia: il territorio viene organizzato in base alle potenze di recinzione confinaria puramente immateriali. Non si pongono come per il Kosovo il precedente della guerra, le migrazioni interne, l’invadenza umanitaria nella regolazione delle strutture sociali o, peggio ancora, una sovranità etero –determinata (il Governatore del Kosovo veniva nominato dall’ONU). Per quanto giovane e acerbo, a volte un po’ sgangherato, qui un contesto politico – istituzionale esiste sia dal punto di vista della legittimazione dell’autorità sia della produzione del diritto. La problematica della transizione sostituisce quella della ricostruzione. Ne deriva una riconfigurazione puntigliosa di tutte le categorie che descrivevano la dimensione confinario – ghettizzante del Kosovo. Questo grande Paese cerniera tra Europa orientale e Balcani evita la guerra, assiste al crollo del Conducator senza affidarsi a un processo rivoluzionario reale di riforme di struttura. Ma per come lo si guardi è l’immane arretratezza economica che lo attanaglia e ne condiziona tutto il futuro. Il Dossier pubblicato dalla rivista “East” del gruppo bancario Unicredito con il significativo titolo “Attenti a quei dieci, sono venti volte più poveri” espone una tabella dal significato erudissimo: nell’Europa dei Quindici la ricchezza media pro –capite è di 41.628 euro, in quella allargata dei Dieci di 1.891 euro, in Romania 338 (East n. 2/2004, pp. 90 – 7. La tabella è pubblicata a pag. 94). I capisaldi analitici di Devi Sacchetto sul caso Romania sono i seguenti: 1) fallimento della transizione via autogoverno nelle sue diverse forme: urbana, rurale, mineraria; 2) esposizione totale ai capitali esteri, alla loro logica predatoria, priva, fino a pochissimo tempo fa di regole minimali di rispetto e di tutela del territorio di intervento; 3) caratteristiche estensivo – diffusive della presenza italiana “collocandosi al sesto posto in termini di valore tra i vari capitali nazionali presenti in Romania, ma al primo posto per numero di aziende straniere esistenti in questo paese: 10.634 su un totale di 82.424” (p. 143); 4) “L’ideologia che sostiene il ritornello del mantenimento in Italia dei centri decisionali, la testa, e del decentramento della mera esecuzione di operazioni ripetitive o banali segnala il livello neo – colonialista del capitalismo italiano e il suo ruolo di comprimario nella sempre più rigida divisione internazionale del lavoro” (p. 148). Anche in tempi recentissimi la Camera di Commercio italiana in Romania ha ribadito la natu- 127 n.11 / 2005 ra fittizia di una buona parte delle 16.000 aziende italiane registrate in quel Paese: “sono imprese, per così dire “sentimentali”, poco avvezze alla produzione industriale. Insomma c’è la partita IVA, manca tutto il resto. A compensare, tanto, tanto amore per le bellezze autoctone. E’ la delocalizzazione del cuore, appendice romantica della corsa a nuovi Eldoradi…” (“Romania affari e doppia vita. Migliaia di aziende “finte” per coprire le scappatelle” in “Corriere del Veneto” del 22 aprile 2005, p. 5).Qui il libro si incanala troppo su un sentiero fortemente ideologico, mettendo in sequenza la natura drasticamente neo – coloniale delle delocalizzazioni e la segmentazione dell’immigrazione secondo rigide linee di dominio regolativo della forza – lavoro migrante: “i migranti si trovano così in un altro mercato del lavoro, in cui l’inferiorizzazione diventa processo sociale costitutivo della possibilità della loro presenza” (p. 221). Ne viene, per l’Autore che: “Le recinzioni sono quindi essenziali nella costruzione dell’attuale sistema di produzione e di riproduzione capitalistico perché tengono a distanza gli individui e permettono una valorizzazione gerarchizzata” (p. 258). Questa conclusione perentoria a mio avviso non tiene conto di due ulteriori sviluppi dell’indagine e delle pratiche sociali. La prima è che nello sradicamento, come dice Derrida, il singolo vive l’esperienza estrema del riconoscimento dell’altro e del tentativo, dentro questo riconoscimento, di un reciproco “appaesamento”. E’ la dimensione dell’alterità come straniero che apre a questa radicale chanche di vita (Jacques DERRIDA: Il monolinguismo dell’altro, trad. it. Cortina, Milano 2004). Ma volendo scendere dall’empireo filosofico alla vicenda più terrena dei conflitti constatiamo giorLuca Romano 128 no dopo giorno che la tetragona forma del dominio capitalistico globale muove in realtà anch’essa eserciti di funzionari alienati, ovvero completamente spaesati da queste dinamiche di migrazione permanente. Molto efficace, da questo punto di vista, la testimonianza di quell’imprenditore che trovandosi sempre meglio ambientato nella sua attività delocalizzata, si chiede: “Ma che ci torno a fare in Italia?” (p. 251). La seconda è che i destini migranti possono anche rappresentare storie di emancipazione, nel caso di lavoratori ma anche di molte donne lavoratrici, che si giocano il tutto per tutto dentro sistemi che non sono mai ermeticamente chiusi. Non è detto che nel nostro Paese il futuro dei migranti sia inesorabilmente destinato alla gerarchizzazione confinaria. I segnali sono plurali, soprattutto ora che stiamo assistendo all’incontro delle “seconde generazioni” sia di migranti che di popolazioni riceventi che entrano in rapporto con le altre (cfr. Maurizio AMBROSINI Stefano MOLINA: Seconde generazioni. Un’introduzione al futuro dell’immigrazione in Italia, edizioni Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2004). Ma anche rispetto alle modalità attraverso cui si ridisegna la composizione sociale nei Paesi europei a sviluppo maturo la presenza di persone migranti nel lavoro autonomo e nelle professioni non è più residuale e risibile come dieci quindi anni fa. Ciò nonostante l’approccio antropologico culturale di Devi Sacchetto a questi destini migranti appare il più pertinente per dare alle tormentate vicende del mondo contemporaneo il sapore dell’esistenza senza i falsi orpelli dei formulari giuridici, delle politiche e delle azioni umanitarie. ([email protected])