charlie - Presenza Amica
Transcript
charlie - Presenza Amica
CHARLIE C’è che il mondo va di fretta e non ci aspetterà. C’è che in vero presto toccheremo l’eternità. E lo faremo insie me. Stanno tutti bene, ma noi staremo qua. – La Folla Alle volte ho come l’impressione di ricordare un vecchio amico. Alt re volt e lo ricordo con certezza. Ed altre, il più delle volte, mi convinco di aver sognato ogni cosa. Non si può dire che il mio sia proprio un esempio di vera amic izia. O meglio, non si può dire che sia un esempio di amicizia vera, reale: piuttosto è fittizia. È un po’ come quando si parla del teatro: esso è finto, non reale, ma ugualmente spesso è vero nella percezione che se ne ha e dalle quinte e dalla platea. Molti di noi hanno memoria della propria infanzia per un semplice motivo: l’orgoglio genitoriale ci ha imposto la visione dei filmini di famiglia, ed è per questo che rivalutiamo certi momenti come importanti anche se, in effetti, oggettivamente irrilevanti. Non è forse la forza del cinema sublimare l’inutile e imbalsamare l’inezia a discrezione di altri? Dicevo, mi capita di ricordare un vecchio amico. No, domando scusa. Dicevo che mi capita di averne l’impressione. Ecco, così va meglio. <<Ma non è che lo conosci da molto tempo… semmai lo conoscevi molto tempo fa!>>, diceva il buon dottore in un episodio de “La signora in giallo”. In effetti, ad una conclusione del genere ci sarei potuto arrivare anche da solo. C’era anche Leslie Nielsen in quell’episodio. Era lui il vecchio amico. Il mio invece si chiama Charlie, o almeno credo. Quindi in verità non lo conosco. Ciò che resta di lui è l’ immag ine nella mia testa. Una folla di immag ini. Una folla di spettri. Ciò che resta di Charlie è una folla. Poi d’un tratto un sentiero. Lo sguardo si sposta su ogni cosa ma pure su nulla, com'è normale quando un luogo non lo si è mai visto. I passi lenti, uno dietro l'altro, sembrano infiniti in mezzo agli alberi. La meta ignota. Comunque vicina, molto vicina. Davanti a me avanza un bamb ino in calzoni chiari e camicia elegante. E' di spalle e della testa posso vedere solo i corti capelli scuri. Eppure sono sicuro che sta parlando. Non odo la sua voce ma la SENTO. Le parole inconsistenti. I suoni deboli all'esterno che rimbombano nella testa amplificati fino allo sfin imento. A tratti il mondo stesso è muto. Si muove a scatti. Sembra un film espressionista. Ma so cosa sta dicendo. Lo so ma non lo ricordo. Oppure lo ricordo ma non lo so, difficile dirlo. Poi, d'improvviso, la figura che mi guida nella boscaglia si b locca, si guarda intorno circospetta e timorosa. Sta tremando. Posa lo sguardo su di me e, indicando qualche metro più avanti, muove debolmente la bocca senza che ovviamente alcun suono ne provenga. Allora lo ignoro consapevolmente e, in preda a un misto insano di eccitazione e paura, butto l'occhio in quella direzione, sul punto indicato, in fondo a una profonda buca. Ciò che vedo mi atterrisce: un corpo spento, una vita infranta. Cavolicchio, c’è un uomo morto laggiù... un cadavere grande e grosso! Adesso si alza e comincia ad inseguirci sbavando e sbraitando... ci azzannerà la testa e succhierà via il cervello! Nulla d i tutto questo. Il corpo resta immobile nel suo angolino, con un braccio orrendamente attorcigliato intorno alla testa. L'osso deve essere slittato dalla spalla durante la caduta. E neppure sono spaventato o schifato mentre lo penso, anzi sembro quasi contento. D'ora in avanti io e l'amico al mio fianco potremo vantarci di aver visto un vero cadavere, con il sangue e tutto il resto! Chissà quante volte è rotolato prima di fermarsi? Poi mi ritrovo un momento a riflettere, cerco l'appoggio di un albero con la mano sin istra mentre con l'altra mi porto via il sudore dalla fronte. Cristoddio, quanti dettagli. Comunque. Soltanto adesso mi rendo conto di quanto fugace può essere l'esistenza, e così lotto per non piangere e vomitare insieme. Un bambino perde del tutto la propria innocenza nel momento in cui scopre che presto o tardi morirà. Mentre comincio a perdere i sensi lentamente, mi affloscio su l terreno freddo e marcio, fissando i p iedi scalpitanti del mio amico corrermi incontro. Ecco che una voce diversa raggiunge il fondo oscuro dei miei pensieri fanciulleschi e ne spazza via le bricio le sotto il tappeto. Una voce profonda, adulta, si trova ora nella mia testa e (ci giurerei) non andrà più via. La voce è di quelle che ti avviluppa e ti comprime, ti seduce e ti violenta, ti accompagna e ti trascina costringendoti alla follia. Rido piano. Ho la testa pesante, come quella di un uomo pieno di preoccupazioni e, in fine, giungo alla conclusione più ingombrante di tutte; la più assurda, la più stronza, la più inaccettabile tra le verità: l'esistenza di un extra indesiderato nel pacchetto vita; l’esistenza della morte. Sento sul mio corpo le forti mani d i un altro: il mio amico mi sta aiutando ad alzarmi. Prima di abbandonare quel luogo per sempre, riprendo finalmente coscienza e lancio un ultimo sguardo in quel fosso. Lo sconosciuto è ancora lì, con i suoi rid icoli scarponcini da passeggio color ruggine e la faccia mezza mang iata dai vermi. Lo analizzo a denti stretti, sempre a distanza, sempre col fiato sospeso. E senza indugiare oltre faccio un cenno al mio amico di fare strada verso casa, concedendomi un'altra perla di saggezza prima di tornare bambino: col mento alzato e l'espressione grave di chi vorrebbe non sapere… penso: un viaggio di sola andata. Cazzo. Giro i tacchi e aumento il passo. Ora sto correndo. Mi pare di sentire mia madre urlare: non devi correre nei boschi, è pericoloso… Forse quel tizio non aveva una madre. Mi fermo. Mi guardo attorno. Il mio amico aspetta una decina di metri più avanti e mi squadra paziente, all'ombra di una fronda, tanto che il viso è sempre nascosto. L'esitazione dura un attimo. Riprendo la marcia. Ed è presto il buio. Quella notte mi svegliai nel garage. Avevo camminato nel sonno. Avevo camminato nel sogno. Mi ritrovai nell’angolo della caldaia, di fronte alle biciclette. Dietro le biciclette c’era uno scatolone. Dentro lo scatolone c’era un berretto. Avete capito bene, c’era proprio un berretto di quelli in stoffa con la visiera. Tutto sgualcito, ma ancora d’un pezzo. Nemmeno seppi dove l’avevo comprato o chi me l’avesse regalato, però mi piacque e così lo misi in testa o non me lo levai più. A tutt’oggi lo porto col sole, con la neve, persino mentre faccio la doccia. Persino mentre faccio l’amore. Mentre faccio l’amore con le donne. E l’amore con gli uomini. Ce l’ho sempre con me. Non me ne separo mai. Neppure sul posto di lavoro. Ho cambiato tanti lavori negli u ltimi anni, ma il cappello mai. Quella notte mi svegliai nel garage. Avevo fame. Tornai a letto e dormii di un sonno pallido, senza sogni. Se potessi raccontare ciò che l’amore significa nella mia vita, non mi giudichereste. Però non lo sapete. Non ancora. Un giorno, quando avevo 16 o 17 anni, mi scoprii a fissare il soffitto in attesa del suono della sveglia. Mi detestai per tanta mediocrità e così feci sparire la sveglia. Ma questo successe dopo. Sul momento mi passai una mano sulla fronte e mi stupii nel trovarla bollente. Corsi lesto nel bagno e puntai lo specchio del lavabo, scorgendovi riflesso per un solo istante il volto stanco di un altro. Di uno sconosciuto. Era quello di Charlie. Poi passò tutto. La luce meschina del mattino. Tentai un sorrisetto ironico: peccato, soltanto una smorfia. E dovevo radermi. Alcuni minuti più tardi mi trovavo in cucina. Mio padre, all’altro capo del tavolo, mi scrutava incuriosito. <<Qualcosa non va?>> accennò poco convinto, fissandosi le mani. ‘Ecco!’, pensai. Pare che questo fosse il massimo di solidarietà ed interesse che il mio vecchio era in grado di sopportare in un giorno. Infatti, quello non attese risposta, ma si dileguò silenziosamente ed accorse in direzione della porta d’ingresso. Mi resi conto che sapeva che io sapevo. Frequentava un’altra donna, e aveva capito che ne ero al corrente. Questo è il motivo per cui teneva le distanze. Il motivo per cui evitava il confronto. Il motivo era la vergogna. Sembrava comunque soddisfatto per aver adempiuto i suoi compiti paterni col minimo sforzo. Avrebbe preso i mezzi pubblici per andare in ufficio, pendolare della vita. Per quanto mi riguarda, avevo ancora il sedere incollato sulla sedia e masticavo (ruminavo, è più corretto) lentamente, distratto. L’appetito è un lusso che appartiene a persone senza problemi. Lo affermo con una certa sicurezza, pure se non sono sicuro di ricordare esattamente quali problemi avessi all’epoca. Ammesso che ne avessi. In ogni caso, comparve mia madre nella stanza: dimostrava almeno vent’anni di troppo, ma sembrava non importarle. Un rapido oscuro scambio e già avevo ripreso la via delle mie stanze. Mi lavai. Mi vestii. Mi pettinai. Non dissi una parola uscendo di casa e mi diressi a scuola. Sul percorso incrociai una ragazza che conoscevo da diverso tempo, ex compagna delle medie. Per farla breve, l’avevo adorata fin dal primo istante. E all’epoca di quell’incontro continuavo a ritenerla speciale. La feci ridere. Volevo baciarla. Le chiesi se ricordava un ragazzino di nome Charlie e lei rispose che no, non lo ricordava. Mi chiese chi fosse. Le dissi che non lo sapevo, però era mio amico. La feci ridere ancora. <<Come puoi dirlo?>>, accennò. <<Ho sognato che mi salvava da un’invasione di zombie, credo>>. Lo aveva fatto. Ma lo zombie era uno soltanto. E non era quel corpo nel fosso. Lo zombie ero io. Lui era la folla. E mi aveva salvato da me stesso perché lui era mio amico. Non ho mai avuto degli amic i. Non so cosa sign ifichi avere degli amic i. Charlie è il mio ricordo più bello. E quella ragazza è una delle mie donne. Ne ho avute tante, ma nessuna come lei. Bisogna che capiate però che per possedere una donna è sufficiente farla ridere davvero. Nient’altro. E lei rise di me. Rise con me. Molt e volte. In molte posizioni. Per molte ore. Non mi amò mai. Lo giuro. La prima volta che vidi Charlie avevo appena compiuto otto anni. Era gennaio e faceva un freddo da pazzi. Era tardi, quasi le sei del pomeriggio. Lo ricordo benissimo. Passava ore da solo nel cortile della palazzina, quella dove abitavo con la mia famig lia, e di tanto in tanto creava omini d i terra bagnata con l’intenzione di farne bersagli per una fionda. Sembrava quasi aspettare qualcosa di importante. Quel giorno, il giorno di Natale, lo avvicinai facendomi lentamente strada nella neve alta circa un metro. Egli probabilmente mi sentì ansimare per la fatica perché d’un tratto si girò senza mostrare alcuna sorpresa. Anzi, mi invitò celermente (silenziosamente) a partecipare al suo gioco. A proposito di quel primo incontro, in seguito mi disse con uno strano sorriso: <<d’ora in poi stai attento a quello che desideri quando soffi sulle candeline… i sogni certe volt e si avverano>>. Ma questo successe dopo. Comunque, fu proprio un sogno quello che Charlie mi fece vivere negli anni seguenti. Giacché non avevo mai avuto un vero amico, lasciai (chissà poi quanto) consapevolmente che il nuovo arrivato entrasse nella mia vita come un fratello, un padre, un prete, insomma una guida. Facevamo tutto insieme, due parti perfettamente autonome e distinte di una stessa anima in subbuglio. Accadeva spesso che lo cercassi invano anche per settimane, durante le quali scompariva senza lasciare traccia per ripresentarsi all’improvviso e senza dare spiegazioni. Ormai lo avevo accettato, e in fondo non mi dispiaceva avere qualche ora per conto mio visto che con lui era impossibile provare solitudine. Ora come ora saprei dirvi che la sua intelligenza pareggiava la mia, e molte volte pareva quasi superarla. Ci d ividevamo i compiti come una squadra perfetta, sviluppando passo passo quel feeling che infondo avevamo sempre avuto. Per farla breve, l’avevo adorato fin dal primo istante. Solo che con lui nulla era semplice. Se volevo amarlo, dovevo innanzitutto amare me stesso. Perché lui era me ed io ero lui. Due giorni e due notti trascorremmo nell’armadio di Madame Rivette, prima che la mia vicina di casa si decidesse a tornare dalla villeggiatura. Sentii mia madre urlare il mio nome per le scale, nel cortile dove avevo conosciuto Charlie, nella strada e olt re. Non risposi mai. Dovevo stare lì, col mio amico. Aspettammo perciò molte ore, uscendo a turno soltanto per usare il bagno. Tra parentesi, un servizio borbonico, da veri signori. Al nostro arrivo, più che un armadio ci trovammo di fronte un vero e proprio guardaroba da Teatro dell’Opera. Per la noia, provammo persino alcuni di quei vestiti. Erano enormi e profumatissimi. Li rimettemmo al loro posto con grande referenza. Poi li provammo di nuovo. Il tempo non passava mai. Finalmente la signora fece il suo ingresso trionfale. Camminava esitante su alti tacchi scintillanti, color dell’odio. La mirammo scendere i pochi scalini che dall’ingresso danno al salotto e gettare la pelliccia su d i una sedia con un magico sospiro. Per farla breve, la adorammo fin dal primo istante. Allora lei cominciò a spogliarsi, convinta d’esser sola, senza fretta e con ardore. O almeno è ciò che parve ai nostri occhi, ma forse era solo l’estasi di Santa Teresa in versione restaurata. Sfilò gaiamente la calza dalla gamba destra. Da qui all’eternit à, baby. Parole di Charlie. Poi la calza dalla gamba sinistra. Charlie ed io ci alternavamo con l’occhio sul buco della serratura, pulsanti come cicale d’estate. D’un tratto Charlie si mise una mano sui pantaloni, all’altezza della cintola, e cominciò a strofinare come si farebbe con la lampada di Aladino. Sapevo che non si faceva così, ma mica potevo dirgli qualcosa! Sudava copiosamente. Come un maiale, sudava. Provai ad imitarlo ma, se devo essere sincero, mi sentii un po’ stupido. Intanto Madame Rivette aveva tolto anche la camicetta ed era rimasta in gonna e reggipetto. Per noi poveri mortali, un sogno ad occhi aperti. Meglio anche di una collezione di biglie. Doveva avere all’incirca quarant’anni all’epoca, la signora. Certamente doveva portarseli bene perché, da quando il ricco consorte aveva preferito il veleno ad una vita di sproloqui ed agiatezze, non era mai rimasta a corto di pretendenti di ogni risma. La guardammo sedere sovrappensiero sull’angolo del letto e fumarsi una lunga sigaretta, così mezza svestita, per circa mezz’ora. La guardammo scivolare nell’oblio della disperazione e risalirne pacatamente, come d’incanto, al suono del campanello della porta. La guardammo alzarsi e inventarsi un contegno. Poi rivestirsi in gran fretta. Alla porta c’era mia madre. Mi cercava. L’ospite non poté aiutarla e così se ne andò borbottando. Charlie però non s’era accorto di nulla, tant’era preso dall’attività che sopra v’ho descritto: si massaggiava nervosamente in ogni dove, ora, come in preda ad un attacco di allergia. Sembrava stesse per scoppiare. Ma non accadde nulla del genere. Tra i vicin i di casa ce n’era un’altro che non potrò mai dimenticare. Non ricordo come si chiamasse né se l’ho mai saputo, ma ricordo che era un uomo grassissimo. Era proprio enorme. Se non l’avessi visto coi miei occhi, vi giuro che non sarebbe umanamente concepibile per me. Ma la realtà è diversa. E la realtà dei mostri è ingiu sta, altrimenti non esisterebbero quegli ingrati degli ebrei. Parole di Charlie, credo. Insomma c’era questo tizio, viveva al terzo piano. Una mattina che passai davanti alla sua porta per arrivare alle scale, questi la aprì quel tanto che bastava per mettere fuori un braccio ed agguantarmi. Pochi secondi e mi trovai nella sua casa, con una mano puzzolente sulla faccia. Cercai di divincolarmi p iù che potevo, ma mi fu impossib ile evitare il peggio. Non ne feci mai paro la con nessuno. Tranne che con Charlie. Lui capii ogni cosa ancora prima che arrivassi a dire ‘ehi, non portava i pantaloni…’. Volle stare con me durante tutto il giorno successivo, il mio amico, e fece di tutto per farmi stare bene. Per un po’ di tempo avevo suonato la batteria. Lo facevo per distendere i nervi, se non ricordo male. Non credo funzionasse, però mi divertivo. Vi è mai capitato di vedere in televisione De Piscopo coi ragazzi di Scampìa? Che artista il vecchio Tullio! Vederlo all’opera lascia immancabilmente un senso di beatitudine, di sublime e servile contrizione. Potrebbe andare avanti a suonare all’ infinito, per quanto mi riguarda. Lo farei persino presidente. Alla mia batteria mancavano i piatti. L’avevo trovata ad un prezzo stracciato da un rigattiere giù sul lungomare. Per farla breve, l’adorai fin dal primo istante. Con Charlie non si era mai parlato di musica, ma potrei anche sbagliarmi. La sua musica era la vita, così la mia vita era diventata la musica. Bisognava che ci completassimo, io e il mio amico. Un caldo pomeriggio di primavera mi incamminai fischiettando giù per la scalinata centrale, senza particolari aspettative. Passai davanti ad una lercia vetrina coperta di vapore gocciolante. Ne rimasi affasc inato e così entrai esitante. Sulle prime non vidi nulla: una densa fumaria ed un odore di mandorle coprivano ogni dove nella stanza, tanto che era impossibile stabile quanto fosse grande. Arrivai su l fondo a passetti brevi, col muso alzato e gli occhi chiusi. Presi uno spigolo col piede ma feci di tutto per non urlare. Piansi esattamente due lacrime di dolore. L’una è inevit abile, fa parte del rituale; l’altra la ricordo perché ricordo di essermela leccata via dalle labbra. D’improvviso, una voce squillante mi fece sobbalzare e la testa di un vecchio con una folta barba argentata si fece largo tra le nubi di quel paradiso. Era Pietro. Non il santo del famoso cancello. Soltanto Pietro, il padrone del negozio. <<Vorresti un paio di tamburi?>>, mi urlò. <<Che tamburi?>>, risposi tartagliando. <<Massì, lo sai. Quei tamburi che ci fanno le canzoni!>> - <<Non saprei. Quanto costano?>> - <<Tu quanto hai in tasca?>>. E così ne venni fuori più povero ma più felice. Usai la mia nuova batteria per riempire i lunghi e solitari pomeriggi estivi. La usai troppo, forse, perché me ne stancai presto e altrettanto presto la dimenticai. Come vien facile dimenticare ciò che ci viene a noia. E le persone, pure. Dimentichiamo anche loro. Ma non gli amici. Quelli restano. Oppure ritornano. Le folle. Qualche anno fà stavo ancora a casa coi miei. Figlio unico, viziato fino al midollo. Una sera a cena domandai a mia madre se ricordava un ragazzino di nome Charlie. Come al suo solito mi squadrò da capo a piedi e prese tempo. Nemmeno lei ne aveva memoria. Mangiammo carne alla pizzaiola e contorno di funghi trifolati. Lo ricordo perché ci trovai un capello – quasi certamente mio, ma che cosa importa?! – e da quella volta non ci fu piatto nel quale non guardai alla ricerca di parrucche settecentesche prima di consumare i pasti. Era una reazione istintiva. Adoravo la cucina di casa ma detestavo i capelli. Avevano un sapore amarognolo che non si addiceva al mio temperamento. Ero stronzo da ragazzo. Charlie ed io attraversavamo la città più volte per gustare il gelato più buono sulla faccia della terra. E lo era per davvero. Sceglievo sempre il cioccolato, mentre lui la van iglia. Bisognava che ci completassimo. Passavamo delle ore per le strade, alla scoperta di posti nuovi e inesplorati, di cani da bastonare e mendicanti da derubare. Charlie aspettava sempre che fossi io a dare il via. Si divertiva ad aspettarmi. A farmi prendere le decisioni. Ma, come vi ho detto, era lui la guida. Ricordo una mattina sul tardi, era settembre o forse ottobre. Scovammo un povero disgraziato in un vicolo che contava le monete ricevute dai passanti. <<Cosa ne pensi?>>, mi disse Charlie. E non risposi. I minuti passavano. E non rispondevo. Allora lu i fece per avanzare, però per finta, per mettermi fretta. Così mi decisi e mi avvicinai al tizio, di cui g ià sentivo la puzza a distanza. Charlie restò indietro e mi osservò con un ciuffo di capelli rovesciato sugli occhi. Vedevo doppio e a stento camminavo dritto. Sembravo come drogato. Un passo trascinavo e l’altro accennavo un salto. Ero strafatto di noia. Ero strafatto di Charlie. Mi girai e lo trovai a fissarmi, così come l’avevo lasciato. Non aveva mosso un mignolo. Da lì era difficile dire se sorridesse, ma giurerei che era proprio così. Infine arrivai a destinazione, mi bloccai ai p iedi del nostro nuovo passatempo. Sfiorai il bicchiere stracciato con la punta della scarpa e lo costrinsi a guardarmi negli occhi. Nei suoi ci scorsi, incredibilmente, ‘li mari, i monti, il ciel e il mondo stesso’, e lo odiai per questo. Lo odiai perché amava la vita. Lo odiai perché io ne avevo una migliore che però odiavo. Odiavo tutto. Odiavo anche Charlie, ma lui era mio amico. E così mi g irai a cercarlo e lo trovai sempre lì, all’ingresso del vicolo. All’improvviso, senza alcun preavviso, questi mi corse incontro. Allora, per timore che volesse defraudarmi dell’impresa, tirai un calcio al b icchiere e mi affrettai a raccoglierne il contenuto dal terreno. Il mendicante urlava. Urlava forte. Come la maggior parte dei condannati sul patibolo. Non provai alcunché in quel momento. Agii meccanicamente, coi denti serrati. <<Muoviti, ci hai messo troppo>>, mi disse Charlie quando arrivò ansimando. E corremmo lontano con le tasche piene di spicci. Avremmo avuto altro gelato. L’agosto del 1999 resterà sempre impresso nella memoria perché conobbi Nicole. La spiaggia è un luogo perfetto dove incontrare persone nuove, ma ai bamb ini questo non interessa perché per loro un posto vale l’altro. Verso il tramonto dell’ultimo giorno di vacanze mi fermai sul bagnasciuga, a terminare i dettagli del mio castello di sabbia. Scavai decine di cunicoli, posai le conchiglie sulle cime delle torri e dei pezzetti di plastica tutt’intorno ad imitazione di trappole contro gli invasori. Ecco d’un tratto due esili gambette fare capolino nel mio campo visivo, accompagnate dalla voce più limpida che avessi mai sentito: <<Posso aiutarti?>>. Era una femmina. Non proprio bella, anche se dicono che i bambini lo sono tutti. Però era bellissima. Un caschetto di capelli castani le incorniciava un viso d i madreperla e due occhi d’un azzurro indelebile. La verità è negli occhi. Ormai l’avrete capito. Si accomodò al mio fianco, stringendosi sfacciatamente. Parlava tanto e non finiva di gesticolare. Me ne innamorai, di quell’amore che solo un idiota può provare davvero. Trascorremmo l’ora più dolce di tutta la mia vita. La marea si alzò, ma noi no. L’acqua si portò via il castello a poco a poco. E lo stesso non ci alzammo. Invece ci raccontammo tutte quelle inezie di repertorio sulle nostre abitudini, le materie preferite a scuola, i gusti alimentari, i colori… Stando a quanto diceva, era piena di amiche del cuore. Non ebbi il fegato di riferirle che il mio unico amico non si faceva vedere da quasi un mese. Era uno di quei periodi. Mentii, e lo feci molto bene. Charlie sarebbe stato fiero di me. A volt e Nicole si rivolgeva all’orizzonte e si distraeva. Non lo faceva apposta, era semplicemente troppo viva per limitarsi al qui e adesso. <<L’anno prossimo torni?>>, mi chiese. Risposi che non lo sapevo. <<Devo andare... - accennò – tu rimani?>>. Risposi che non lo sapevo. Guardò a lungo nei miei occhi, e forse ci vide qualcosa che non le piaceva perché fece per girarsi senza aggiungere altro. Ormai ero pronto ad alzarmi anch’io, quando lei si fermò e rimanendo immobile disse: <<Vuoi essere mio amico?>>. Risposi che non lo sapevo. Non l’ho più rivista, ma qualche anno dopo ho conosciuto Lindsay. Già il fatto che si chiamasse come la discussa ex beniamina della Disney – e che, come lei, fosse immoralmente rossa – avrebbe dovuto convincermi a fare più e meglio. Senza considerare poi che io stesso sarei dovuto essere più maturo. Ma Charlie doveva avermi abbandonato ormai definitivamente perché ricordo che le giornate sembravano tutte uguali, il cibo insapore e le persone insopportabili. Io compreso. Tutti tranne Lindsay. Per non so quale assurdo motivo, una domenica pomeriggio accettai il consiglio di mia madre di aggregarmi ad un gruppo di coetanei che andavano in piscina. Arrivati lì, quei poveri stolti si arrovellarono per decidere quanto tempo passare fuori e quanto dentro l’acqua, mentre il sottoscritto si era appiso lato su un largo asciugamano, in un angolo dell’orribile edificio. Qualunque cosa mi fosse accaduto intorno mi sarebbe stato indifferente in quanto, preparato all’inevitabile noia, mi ero premunit o di portare il lettore cd con tutta la mia collezione musicale. Eppure, d’un tratto, qualcuno mi rifilò una gomitata in mezzo alle scapole… era Lindsay. Sembrava affannata. Mi chiese scusa sorridendo e raccolse un pallone il cui lancio era evidentemente venuta a ricevere sulla mia schiena. Poi se ne andò sculettando. Questo me lo ricordo bene. Tornò qualche minuto più tardi, fresca come una rosa. Mi si accostò e mi levò le cuffie dalle orecchie. <<Che cosa ascolti?>>, mi chiese. <<Nulla… - biascicai, fissandomi i p iedi e bruciando in viso, mentre tentavo con le mani sudate di spegnere quell’aggeggio – solo Elton John>> - <<Adoro Elt on John!>>, urlò lei, gettando le braccia al cielo. - <<Davvero?>> - <<Certo! Posso sentire?>>. Le lasciai una cuffia e riaccesi il lettore. Mi spiegò una sua teoria secondo la quale la musica inglese aveva qualcosa di mag ico. Definì “bagno spirituale” una canzone in particolare di cui ho purtroppo dimenticato il titolo e dovette ammettere che essa risplendeva di luce propria. Cominciò a cantarla senza fare un fiato, mimando solo con le labbra. Anche lei risp lendeva. Il suo sguardo danzava sopra la mia spalla, verso un mondo troppo grande per i comuni mortali. Ma non troppo grande per lei. Mi ricordò Nicole. Volevo baciarla. Non dissi nulla e rimanemmo così per non so quanto tempo: forse ore. Sono certo che, per qualche minuto, sovrappensiero, le massaggiai un avambraccio graziosamente coperto di lentiggini. Sono certo che lei non lo ritrasse. Sono certo che mi mancava Charlie. Ricordo che una mattina mi alzai con l’intenzione di tornare alle scuole elementari per cercare un tema fatto anni orsono. Un tema che piacque tanto alla maestra di italiano da finire con l’essere letto persino dal direttore. Un tema sull’amicizia. Ovviamente avevo scritto di Charlie. Ovviamente non lo ritrovai. Mi dissero che tutto il materiale di quel periodo era andato perso in un incendio degli archivi. Tipico. Pensai di cercare quella maestra e di domandarle se si ricordava del mio tema. Se si ricordava di Charlie. Non lo feci subito perché mio vergognavo. Ragionai sul da farsi: immaginai persino di cercare i compagni di classe, di parlare con qualcuno di loro e cercare di inserire il nome del mio amico nel discorso per rendermi conto delle reazioni. Magari qualcuno di loro sarebbe saltato in piedi. Invece cercai la maestra. Sembrava l’ idea più logica, visto che aveva corretto il mio tema e l’aveva proposto per un riconoscimento. Fu piuttosto facile scoprire dove abitava. Quando la trovai mi salutò calorosamente e mi invitò a prendere un tè con lei. Parlammo a lungo di cose inutili. Sembrava molto invecchiata e sofferente. Aveva perso il marito in un incidente di caccia e ora viveva con la sorella in un’ampia villa di fronte a un parco. Lo avevo attraversato per arrivare lì, il parco. Finalmente le chiesi ciò che mi interessava. Rispose: <<Me lo ricordo bene quel tema, caro Bill>>. Ma il mio nome non è Bill. Nemmeno lei poteva parlarmi d i Charlie. Valutai di chiudere rapidamente la conversazione inventandomi un impegno urgente. Feci proprio così. Presi la via di casa attraverso lo stesso parco. Piansi tutta la notte e anche quella seguente. Le notti in cui non riuscivo a dormire sapevo di trovare Charlie nel cortile dove ci eravamo conosciuti. Passavamo lì i pomeriggi invernali a giocare con la neve fino allo sfin imento. Ma la notte era diverso: sedevamo al centro di una grande fontana inattiva e ci scambiavamo impressioni sulla vita. Eravamo molto saggi. Charlie era molto saggio. Una volta dedusse che diventare vecchio sarebbe stata la più grande avventura della mia vita, ma che la sua non avrebbe avuto la stessa intensità. Lui era lì per me. Il resto non contava. Constatò che i bambini sono grotteschi perché sono incompleti, adult i a metà, e che nulla g li avrebbe potuto far cambiare idea. Disse decine di cose, per la maggior parte geniali. Charlie era geniale. Mi viene in mente il coniglio invisibile di quel vecchio film con James Stewart. Ecco, alle volte mi sento come se fossi il mitico Jimmy, anche se quando parlo non sembro un minorato mentale. Poveraccio, vivere con quell’accento. In ogni caso le notti con Charlie si rivelavano sempre fruttuose e illuminanti. Era un vulcano di idee, il mio amico. Come quella volta in cui ci perdemmo per le campagne intorno alla città fino al calar della sera: fu un’esperienza elettrizzante. Difficile dire se un’emozione simile si sia mai ripetuta per me. Probabilmente no. Sono di quelle cose che provi solo in compagnia. Nella solitudine la paura diventa l’ultimo dei tuoi problemi, ma in compagnia puoi concentrarti sulla parte divertente. Parola di Charlie, credo. Avrò avuto 9 o 10 anni. Nessuno dei due aveva con sé l’orologio. Avevamo passato la g iornata a vagare senza meta, fingendo di essere esploratori dell’ignoto. Ci perdemmo, quindi, e cominciammo a guardarci intorno sfregando le mani. L’adrenalina era a mille. Avevamo tanta energia che ci pareva di essere in quattro. Potevamo fare ciò che volevamo, nessuno avrebbe alzato un dito laggiù. Puntammo alla boscaglia vic ina. Fatto il danno, ora pretendevamo la beffa. Volevamo gli animali feroci. Volevamo fuggire dall’ignoto. Correre come non ci fosse stato un domani. Charlie lasciò, come al solito, scegliere a me la direzione. Decisi per una democratica conta ad occhi chiusi. Quando li riaprii, Charlie non era dove l’avevo lasciato ma diversi metri più in là: puntava enigmaticamente col dito verso una buca nel terreno. Non era grandissima, però nemmeno troppo piccola. Lo raggiunsi e buttai uno sguardo sul fondo e ci vidi un uomo. No, non un uomo: quell’uomo. Quello del sogno. Lo sconosciuto coi suoi ridicoli scarponcini da passeggio color ruggine. Allora non era un sogno. Ma ormai l’ho scritto, e comunque potrebbe essere una coincidenza. Mi girai a guardare Charlie, che mi guardò a sua volta. Aveva il viso coperto dal solito ciuffo di capelli. Poi di nuovo guardai nel fosso. Cristoddio, i vermi sulla sua faccia. Una folla di vermi. La folla. Per fortuna non sarà più solo. Ci ripensai: non era carino fissarlo a quel modo. Feci un passo indietro ma questa volta non caddi su me stesso, non sudai freddo e non mi sentii male. Non ci fu bisogno dell’aiuto di Charlie, questa volta. Me ne andai con le mie gambe. E questa volta facevo strada io. Non devo correre nei boschi, è pericoloso, pensai. Mi venne da ridere. Non ho chiesto mai nulla a Babbo Natale, perché era grasso e mi faceva paura. Eppure mi ha sempre portato qualcosa. Un inverno come gli altri mi portò Charlie. Quando scoprii che i regali sotto l’albero ce li metteva mio padre, rimasi sconvolto. Temevo che egli potesse togliermi il mio amico così come me l’aveva portato. Ecco perché non presentai mai Charlie a casa. Non volevo che i miei sapessero che lo tenevo ancora con me. Che lo tenevo stretto. Non volevo che sapessero che l’amavo. Perché lui era Charlie, il mio amico.