Eclipse

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Eclipse
LIBRO
IN ASSAGGIO
ECLIPSE
DI STEPHENIE MEYER
Eclipse
DI STEPHENIE MEYER
I
Ultimatum
Bella, non capisco perché tu costringa Charlie a passare biglietti a Bill come
fossimo alle elementari se volessi parlarti mi basterebbe rispondere al
E' una scelta tua, no? Non puoi tenere il piede in due
Cos'è che ti sfugge del concetto "nemici mortali" e, che
Senti, so che è una reazione idiota, ma davvero non si può
Non possiamo essere amici se tu passi il tuo tempo con un branco di
Se ti penso troppo è ancora peggio, perciò ti prego di non scrivermi più
Si, anche tu mi manchi. Un sacco. Ma tanto non serve a niente. Scusa
Jacob.
Sfioravo il foglio con le dita e sentivo i solchi nei punti in cui aveva premuto la
penna così forte sulla carta da rischiare di bucarla. Me lo immaginavo
scarabocchiare furioso con la sua grafia disordinata, barrare righe su righe
quando non trovava le parole giuste, o addirittura spezzare la penna in due
nella mano troppo grossa, cosa che spiegava le macchie d’inchiostro di cui
era cosparsa la pagina. Immaginavo le sue sopracciglia aggrottate per la
frustrazione, la fronte corrugata. Se gli fossi stata accanto, forse mi sarei
messa a ridere. Non farti scoppiare la testa, Jacob, gli avrei detto. Di’ le cose
come stanno.
Anche in quel momento avevo voglia di ridere, rileggendo le parole che già
sapevo a memoria. La sua risposta al mio biglietto implorante — consegnato
grazie a Charlie e poi a Billy, proprio come alle elementari — non mi
sorprendeva. Ne avevo intuito il senso ancora prima di aprire la busta.
A sorprendermi era il dolore che mi provocava ogni riga cancellata, come se
le lettere avessero il profilo di lame affilate. E ancora, dietro ogni incipit furioso
incombeva un abisso di sofferenza: sentivo le ferite di Jacob bruciare più delle
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mie.
Mentre meditavo, dalla cucina giunse l’odore inconfondibile di qualcosa che
cuoceva. In un’altra casa, il fatto che qualcuno stesse cucinando al mio posto
non sarebbe stato fonte di panico.
Infilai il foglio stropicciato nella tasca posteriore e scesi le scale con un balzo.
Aprii lo sportello del microonde mentre il vasetto di sugo che Charlie vi aveva
infilato terminava il suo primo giro.
«Dove ho sbagliato?», chiese Charlie.
«Prima devi togliere il coperchio. Il metallo non va nel microonde». Mentre
parlavo aprii il vasetto, versai metà del suo contenuto in una ciotola che infilai
nel microonde e riposi il vasetto nel frigo; regolai il timer e lo feci partire.
Mentre mi davo da fare, Charlie assisteva dubbioso. «Almeno gli spaghetti
vanno bene?».
Osservai la pentola sul fornello, la fonte dell’odore che mi aveva messa in
guardia. «Ogni tanto va mescolata», dissi a mezza voce. Trovai un cucchiaio
e cercai di scomporre la poltiglia compatta che ribolliva sui fondo.
Charlie sospirò.
«Cosa stavi combinando?», chiesi.
incrociò le braccia e restò a fissare la pioggia che scrosciava fuori dalla
finestra. «Non so di cosa tu stia parlando», mugugnò.
Non riuscivo a capire. Charlie cucinava? E perché quell’aria arcigna? Edward
non era ancora arrivato; di solito mio padre riservava quel genere di umore al
mio ragazzo e si impegnava a definire il concetto di “indesiderato” con ogni
parola e azione. Gli sforzi di Charlie, oltretutto, erano superflui: Edward
sapeva esattamente cosa pensava mio padre, senza bisogno di gesti teatrali.
La parola “ragazzo” mi faceva mordicchiare le guance con una tensione
innaturale, mentre mescolavo la pasta. Non era la definizione giusta, niente
affatto. Avevo bisogno di qualcosa che esprimesse meglio la dedizione
eterna.., ma termini come “destino” e “fato” aggiungevano un che di posticcio
se usati in una normale conversazione.
Nella mente di Edward c’era un’altra parola, la vera fonte della tensione che
avvertivo. Solo a pensarci mi venivano i brividi.
Fidanzato. Oddio. Cercai di scrollarmi il pensiero di dosso. «Mi sono persa
qualcosa? Da quando spetta a te preparare la cena?», chiesi a Charlie.
Punzecchiavo il grumo di pasta che ballonzolava nell’acqua bollente. «O
meglio, cercare di prepararla».
Charlie scrollò le spalle. «Non mi pare che la legge mi vieti di cucinare in casa
mia».
«Se non lo sai tu. . . », risposi sorridendo e lanciando un’occhiata al suo
distintivo appuntato sul giubbotto di pelle. «Ah ah. Buona questa». Si levò il
giubbotto, come se fosse stato il mio sguardo a ricordargli che ancora lo
indossava, e lo ripose sull’appendiabiti riservato al suo equipaggiamento. Il
cinturone con la pistola era già a posto: da settimane non sentiva il bisogno di
indossarlo, nemmeno in servizio. Nessuna sparizione inquietante aveva più
turbato la vita della cittadina di Forks, nello Stato di Washington, né c’erano
più stati avvistamenti di lupi giganteschi e misteriosi sotto la pioggia
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incessante che avvolgeva i boschi...
Scolai gli spaghetti in silenzio, sicura che Charlie avrebbe scelto da solo il
momento per espormi le sue preoccupazioni. Mio padre era un uomo di
poche parole e il fatto che si fosse sforzato di organizzare una cena con tutti i
crismi stava a dimostrare che le parole che aveva nella testa in quel momento
erano molte, molte più del solito.
Diedi la solita occhiata all’orologio, un gesto che ormai compivo
meccanicamente ogni manciata di minuti. Mancava soltanto mezz’ora.
Il pomeriggio era sempre la parte più difficile della giornata. Da quando il mio
ex migliore amico (e licantropo) Jacob Black aveva fatto la spia riguardo alla
motocicletta che avevo guidato di nascosto — tradimento architettato in modo
da farmi mettere in castigo e impedirmi di frequentare il mio ragazzo (e
vampiro) Edward Cullen — a Edward era permesso di venirmi a trovare
soltanto dalle sette alle nove e mezza di sera, sempre all’interno dei miei
confini domestici e sotto la supervisione dell’immancabile sguardo acido di
mio padre.
Un vero giro di vite, rispetto al castigo precedente, meno rigoroso, a cui ero
stata costretta dopo tre giorni di lontananza immotivata da casa e un tuffo
dalla scogliera.
Ovviamente vedevo Edward a scuola, e in questo Charlie non poteva mettere
il becco. Inoltre, Edward passava quasi tutte le notti nella mia stanza, ma
Charlie non ne era esattamente al corrente. L’abilità di Edward
nell’arrampicarsi in silenzio fino alla mia finestra, al primo piano, era utile
quasi quanto la sua capacità di leggere nei pensieri di mio padre.
Benché il pomeriggio fosse l’unico momento della giornata che passavo
lontana da Edward, era sufficiente a rendermi irrequieta, e le ore non
passavano mai. Eppure sopportavo la punizione senza lamentarmi, prima di
tutto perché sapevo di averla meritata, e poi perché non sopportavo l’idea di
ferire mio padre andandomene di casa proprio in quel momento, quando al
mio orizzonte incombeva una separazione permanente, ancora invisibile a
Charlie. Mio padre si sedette a tavola con un grugnito e sfogliò il giornale
umido. Pochi secondi dopo schioccò la lingua in segno di disapprovazione.
«Dovresti smettere di leggere il giornale, papà. Ti innervosisce e basta».
Ignorò le mie parole e continuò a mugugnare con il quotidiano tra le mani.
«Ecco perché nelle città piccole si sta meglio! Ridicolo».
«Adesso che c’è che non va nelle città grandi?».
«Seattle si sta candidando a capitale nazionale degli assassini. Cinque casi
irrisolti di omicidio nelle ultime due settimane. Vivresti mai in un posto del
genere?».
«Credo che Phoenix si piazzi ancora meglio in classifica, papà. E io ci ho
vissuto». E non avevo mai rischiato di restare vittima di un omicidio come
dopo aver traslocato nella sua cittadina sicura. Anzi, comparivo nelle liste dei
bersagli di parecchi killer... Tra le mie mani il cucchiaio ebbe un sussulto e
fece tremare l’acqua.
«Be’, io nemmeno se mi pagassero», disse Charlie.
Rinunciai a salvare la cena e la servii così com’era: fui costretta a usare il
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coltello da carne per tagliare la porzione di spaghetti di Charlie e poi la mia,
sotto il suo sguardo rassegnato. Charlie inondò il proprio piatto di sugo e ci si
buttò. Io nascosi la mia poltiglia alla stessa maniera e lo imitai, con molto
meno entusiasmo. Per qualche istante mangiammo in silenzio. Charlie era
ancora impegnato a studiare la cronaca, perciò ripresi la mia copia malconcia
di Cime tempestose da dove l’avevo lasciata quel mattino a colazione e cercai
di perdermi nell’Inghilterra di fine diciannovesimo secolo in attesa che mio
padre parlasse.
Proprio mentre leggevo del ritorno di Heathcliff, Charlie si schiarì la voce e
gettò a terra il giornale.
«E vero», disse. «C’è un motivo per cui ho deciso di fare questa cosa». Indicò
con la forchetta la poltiglia collosa. «Volevo parlarti».
Riposi il libro; la costa era talmente distrutta che si appiattì sul tavolo.
«Bastava chiedere».
Aggiornata il giovedì 17 aprile 2008
Edizione Mondolibri S.p.A., Milano
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