Le date della Storia L`editoriale

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Le date della Storia L`editoriale
l’antifascista
periodico degli antifascisti di ieri e di oggi
Fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini • anno LX - n° 5, 6 - Maggio-Giugno 2013
L’editoriale
Lettera al sindaco Marino
di Guido Albertelli
Caro Ignazio Marino, con la sua
elezione a primo cittadino della
Capitale sembra prendere corpo, finalmente, la speranza di far uscire
Roma da un declassamento non meritato, e farne una vera, grande città
storica proiettata verso il futuro.
Sotto tutti gli aspetti la città deve
riconquistare un’immagine simile
a quella delle altre capitali europee.
Vorremmo, innanzitutto, vederla pulita, non deturpata dal traffico sregolato e dai posteggi indiscriminati, con
marciapiedi percorribili e non occupati, né inondata dalle prime piogge.
La vorremmo, inoltre, vigilata contro
la criminalità, sia quella organizzata,
che sta soffocando i gangli vitali del
territorio urbano, sia quella comune,
le cui vittime principali sono le fasce
più deboli, anziani e immigrati.
Dovrebbero essere regolati con norme ferree i cortei e le manifestazioni, con una sorveglianza intelligente
contro la violenza. Sogniamo la sospensione dell’occupazione del suolo
pubblico da parte di bar e ristoranti
che, a centinaia, spuntano nelle vie
più caratteristiche, care ai romani
e ai turisti. Non vogliamo più dover
constatare l’assenza di vigili urbani
nei punti nevralgici per il traffico e
per il turismo.
Sarebbe, forse, un passo in avanti
rendere pedonalizzate le piccole e
medie piazza del centro, oggi invase
da auto e motorini. Non desideriamo
fare un elenco di cose note e comuni
attese che Lei ben conosce. La Sua
elevatissima moralità non affiderà
a bande politiche incompetenti il
denaro pubblico e annullerà l’indifferenza verso la memoria nobile di
una città, insignita della medaglia
d’oro della Resistenza, e sede di luoghi di grande valore simbolico (Fosse
Ardeatine, Museo di Via Tasso, il
La memoria della Repubblica
Servono i partiti e servono le radici antifasciste per uscire dalla crisi politica
di Paolo Bagnoli
O
gni crisi politica ha caratteristiche sue proprie; ognuna vive di una
sua specificità che ne rappresenta anche la qualità, vale a dire il senso più
profondo che essa racchiude, oltre le apparenti dinamiche e i tentativi di
arginamento, ricomposizione oppure riforma che si tenti di mettere in essere.
In ogni caso, per cercar di capire bisogna partire dal presente, ma per suscitare un possibile futuro positivo non si può prescindere dal porre attenzione a
ciò che sta alle nostre spalle, soprattutto quando, come nel caso italiano, la storia
“positiva” sembra essersi fermata all’inizio degli anni Novanta, quando il ciclone
di Tangentopoli cancellò non solo un sistema, ma un qualcosa in più; un qualcosa che andava salvaguardato senza che ciò facesse velo alla necessaria opera di
Le date della Storia
Mafia e Alleati uniti in Sicilia
Come dal porto di New York Cosa Nostra divenne
protagonista dello scacchiere di guerra italiano
di Antonino Pastore
Attualitá
Margherita Hack
a pagina 4
Don Gallo
a pagina 6
Cultura
Pier Vittorio Buffa
Il ruolo che la mafia italoamericana, d’accordo con quella siciliana, ha svolto nella preparazione dell’operazione Husky, lo
sbarco alleato in Sicilia, è stato per lungo tempo confinato nella
facile aneddotica che si accompagna ai grandi eventi storici.
Tale ruolo da molti storici veniva negato o minimizzato. Al più si
concedeva alle autorità di occupazione alleate, soprattutto quelle
americane, di essere ricorse, sporadicamente e per motivi di
stretta necessità, a esponenti mafiosi locali per supplire al vuoto
di potere causato dal crollo delle strutture di comando, politiche
e militari, nelle zone occupate della Sicilia. La realtà è molto più
complessa, come le più recenti ricerche storiografiche hanno
continua a pagina 16
Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma
a pagina 9
Aldo Carpi
a pagina 12
Memorie
Aldo Garosci
a pagina 22
Cesare Polacco
a pagina 24
Anna Canitano
a pagina 26
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Attualità
ghetto, Forte Bravetta, la Casa della
Memoria, Porta San Paolo).
Inoltre siamo sicuri che Lei garantirà il rispetto di luoghi e tradizioni
che purtroppo nel recente passato
sono stati spesso violati e minacciati
da gruppi neofascisti violenti e portatori di menzogne. Abbiamo, infatti,
molto apprezzato la Sua dichiarazione, rivolta al Partito democratico, affinché sia orgoglioso dei valori
conquistati ed ereditati nella lotta al
fascismo, per la libertà e per i diritti
sociali.
Ci scuserà di questo elenco di richieste, che vengono da un gruppo
di antica tradizione antifascista impegnato nel mantenere in vita la memoria e quei valori etici e civili che
sono alla base della Costituzione,
valori troppo spesso disattesi. Siamo
certi che con la sua sensibilità verso
gli ultimi e la sua passione inesauribile Roma ritroverà le sue radici
democratiche. Le auguriamo buon
lavoro, sperando di poterci incontrare e insieme collaborare perché, a
70 anni dalla Liberazione, la nostra
amatissima città ritrovi tutto il suo
orgoglio e sia capace di mostrare
al Paese, ai giovani, in una grande
rassegna, quanto sangue e quanto
generoso impegno hanno versato i
romani per riscattare la Patria. Lei,
commentando a caldo la vittoria, ha
parlato di Roma come capitale morale, noi siamo sulla stessa lunghezza
d’onda.
Giovanni Manildo, per la sinistra, ha vinto a Treviso
risanamento e di perseguimento giudiziario di quanto aveva provocato una
diffusa rete di malversazione e di inquinamento della politica democratica.
Il presente, appunto. Confessiamo
che tra le tante analisi che abbiamo
letto sulla vicenda politica italiana,
dalle elezioni in poi, non abbiamo
trovato nessun commento che, al di
là della disamina delle condizioni
di questo o quel partito, abbia posto
attenzione alla qualità della crisi
italiana, ovvero alla sua drammaticità. Il sistema democratico italiano
è al limite del crollo e di ciò lo sciagurato governo Monti altro non è
stato che un segnale premonitore. Le
elezioni hanno prodotto tre minoranze
di cui una assai consistente, il partito
di Grillo, chiaramente antisistema: “a
prescindere”, per usare un’espressione
cara a Totò. Delle tre minoranze il Pd
ha dimostrato sul campo l’incapacità
di essere un partito. Di ciò hanno fatto
le spese per primo Bersani, assurdamente incistatosi in un tentativo senza
bussola reale e, poi, Marini e Prodi. Il
Pd è riuscito a perdere, a sinistra, l’unico
alleato che aveva, il Sel di Vendola, e ha
rimesso al centro Berlusconi, facendone l’arbitro determinante per ogni
passaggio politico, finendo per accettare la proposta, da questi avanzata, di
un governo di grandi intese: una scelta
ingoiata a forza, motivo di ulteriori sorde
ulcerazioni.
Le grandi intese si sono avverate nel
governo Letta, una compagine dal profilo
grigio ed equivoco: più che
dettata dall’emergenza essa
sembra, al di là delle persone
che la compongono, alcune
delle quali di sicuro valore, il
gabinetto della resistenza del
sistema alla non politica, ossia
alla malattia da cui è investita
la democrazia italiana.
Il nuovo parlamento,
dopo una lunga vacanza
di
decantazione
per
vedere se poteva stare in
piedi o aspettare che un
nuovo capo dello Stato lo
sciogliesse appena insediatosi, durante l’elezione del
presidente ha dimostrato
la propria impotenza,
rappresentando,
per
molti aspetti ingiustamente, un paniere castale
asserragliato nell’incapacità di produrre scelte e,
per di più, assediato da una piazza
che Grillo ha spronato. Una piazza
forse non fascista, anche se le
dichiarazioni sul 25 aprile ricordano molto Storace, ma sfascista
certamente sì. I parlamentari che
senza colpa alcuna, se non quella di
essere tali, preferiscono uscire dalle
porte secondarie di Montecitorio
mostrano già un’abdicazione alla
loro funzione.
In un quadro generale caratterizzato dallo smarrimento della
ragione politica, con un Parlamento
depositario dell’impotenza delle
forze politiche maggiori, si è chiesto a Napolitano, lo si è supplicato,
di rimanere, per evitare avventurose
incognite e dare respiro, almeno un
po’, al sistema. Ma il governo delle
larghe intese, nei fatti, permetterà
il decorso della crisi democratica e
la riorganizzazione della destra e,
quindi, visto che più di tanto esso
non potrà durare, la sua prossima
vittoria. Forse non c’era altra scelta
ed è fuori discussione la figura di
Napolitano, il quale ha dettato le
sue condizioni e non poteva fare
diversamente.
Il problema è un altro e torniamo
a quanto non è stato rilevato da
alcun commentatore; vale a dire che
quando una democrazia constata
che vi è solo una scelta possibile per non tracollare, nel caso la
supplica a Napolitano, essa è già
in parte già tracollata. Una delle
caratteristiche del sistema democratico, infatti, è quella di poter
annoverare più di una scelta possibile; quando questa si riduce a una,
allora il problema è serio, molto serio.
La gravità sta tutta nei tre partiti
che, in effetti, partiti non sono.
Del Pd abbiamo detto. Il partito di
Grillo si commenta da solo e per
di più sostiene una “democrazia
senza partiti”. Il Pdl è una proprietà
privata di Berlusconi, una delle cause
dell’aggravarsi della crisi italiana. A
contorno una sinistra che non c’è
e non perché Vendola non sia di
sinistra, ma perché non si può far
conto sulla esclusività di Sel per una
prospettiva storica di cosa vuol dire
“sinistra”. La rinascita di una sinistra, degna di questo nome, è oggi
legata a quella di un socialismo autonomo, antagonista della barbarie del
capitalismo finanziario, concepito
dentro la cultura politica occidentale
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Attualità
Primo giorno di lavoro del sindaco Marino che si reca in Campidoglio in bicicletta, scortato da due vigili, anch’essi in bicicletta
e capace di essere un movimento che
governa lo Stato e le masse popolari.
In Italia un po’ tutto è anomalo,
anche le grandi intese lo sono, pur
nell’interpretazione che ne ha dato
Napolitano. Non sono scandalose
in sé: in momenti particolari sono
state fatte in molti altri paesi democratici. La differenza è che in quei
paesi il motivo identitario democratico era saldo e proprio questo
permetteva la transitoria anomalia come un passaggio dentro la
normalità. Così non è per l’Italia,
dal momento che il vuoto partitico (su cui, in linea generale, si
è soffermato a lungo, di recente,
Fabrizio Barca nel suo paper) ha
portato con sé la perdita d’identità
della democrazia repubblicana, oggi
esclusivamente rappresentata da
Giorgio Napolitano.
Non sappiamo cosa potranno
produrre le grandi intese; auguriamoci una legge elettorale decente
e costituzionale; sicuramente, finito
il suo tempo che non sarà brevissimo, ma nemmeno molto lungo, si
tornerà alle urne. Allora la questione
della riforma costituzionale diventerà praticamente ineludibile e con
l’aria di destra che tira, peraltro
annunciata dal governo Monti, e a
quanto ne è seguito, la questione
democratica diventerà prioritaria e
richiederà grande, ma grande attenzione, considerata la fragilità che
oramai registra il tanto sbandierato
“patriottismo costituzionale” che
è un qualcosa di più complesso che
non la semplice aderenza allo spirito
e alla lettera della Costituzione. Il
rischio è che si arrivi a un cambio del
profilo costituzionale senza partiti,
ossia senza i soggetti che sono titolari
del “mandato politico”. C’è pericolo
che la democrazia repubblicana si
trasformi in qualcosa di altro, in ogni
modo in uno Stato regolato da meno
diritti e forme democratiche.
Sulla natura di questo presente,
naturalmente, tanto altro potrebbe
essere detto; quanto sopra accennato pensiamo sia sufficiente a far
comprendere come si tratti di un
vero e proprio presente storico; vale
a dire il punto di arrivo di uno smarrimento della Repubblica che, con
Tangentopoli, ha perso cognizione
della propria memoria, delle proprie
radici, della sua costruzione costituzionale, della nozione sociale
particolarmente presente nelle linee
guida della democrazia costituzionale italiana. Crediamo non sia un caso
che non si parli più di antifascismo:
se se ne parla o è per destrutturarlo,
oppure per sottoporlo a interpretazioni che conducono a giudizi forzosi e
forzati che, trincerandosi dietro il velo
della storia, finiscono non per aiutare
la verità, ma per mettere sotto accusa
la verità centrale, ossia il motivo cui
dobbiamo la libertà, la democrazia e la
Repubblica. Di ciò non c’è più memoria. Ma il solo mettere in parallelo
l’Italia 1945-1993 e l’Italia 1994-2013
dà subito il senso del problema.
È evidente, pur con tutte le insufficienze del vecchio sistema, che una
democrazia senza la gente non può
reggere. Una democrazia senza gli
strumenti propri che permettono alla
gente di avere identità democratica
e diversificata e di essere e sentirsi
Paese nei valori sanciti dalla Costituzione e peculiari della natura della
democrazia italiana non vive. Una
democrazia senza partiti politici veri
e propri, ma basata su temporanee
coalizioni in lotta solo per il governo,
come se questo fosse il valore unico
ed esclusivo della politica e del suo
operare, è destinata a tracollare. E non
vi è sistema istituzionale che risolva la
questione, perché sono i partiti, particolarmente per lo specifico della storia
italiana, ad avere il mandato politico
della democrazia, delle sue forme, dei
suoi valori e della sua capacità di pensare
la politica così come deve essere, ossia,
quale azione collettiva.
Alla base del percorso con il quale
viene costruito il sistema democratico vi è l’antifascismo, non una parola
che si qualifica come contro, bensì un
concetto positivo e, quindi, non appartenente alla storia di ieri, ma alla politica
stessa della Repubblica.
Non averlo capito ha condotto l’Italia allo stato attuale; non capacitarsene
renderà assai arduo far uscire democraticamente il Paese dalla crisi. La
memoria della Repubblica è fondamentale per salvaguardare e rilanciare la
sua vitalità e la sua essenza; non è una
questione da storici, ma il cuore di una
ricostruzione valoriale ed effettuale
della politica democratica italiana e,
quindi, per un futuro di libertà.
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Attualità
L’Italia che vorrebbe Margherita
Colloquio con l’astrofisica Margherita Hack su politica, tasse, donne
di Giulietta Rovera
«L’aldilà non m’è mai interessato. Ho sempre riflettuto sull’aldiqua», ama sostenere: la sua vita è tuttavia la
palese dimostrazione di come non si sia limitata a “riflettere
sull’aldiqua”. Siamo di fronte a uno dei personaggi italiani
più carismatici per via dell’ingegno vivissimo, il coraggio, la coerenza, la combattività: Margherita Hack, 91 anni
a giugno e tuttora attiva su tutti i fronti, a cominciare da
quello politico. La celebre astrofisica, prima donna in Italia
a dirigere un osservatorio astronomico, quello di Trieste,
deve la sua popolarità non solo all’aver saputo trasformare
un oggetto d’antiquariato in uno dei primi osservatori al
mondo per strumentazione, ricerca e personale. Non solo
alla battaglia combattuta e vinta per la democratizzazione e
la modernizzazione della ricerca in astronomia, e aver fatto
decollare l’astrofisica in Italia. Ma anche per aver partecipato a tutte le battaglie che avevano a che fare con la libertà
e la giustizia. E questo fin da ragazzina. La storia politica di
Margherita ha inizio, infatti, nel lontano settembre del ’38,
quando furono emanate le leggi razziali e il fascismo mostrò
il suo volto abietto e spietato. Nel ’40, alla vigilia dell’esame
di maturità, la sua presa di posizione di fronte ai compagni
fascisti a proposito delle leggi razziali le costerà 40 giorni di
sospensione, oltre a essere rimandata a ottobre in tutte le materie.
Acchiappare Margherita Hack per un’intervista non
è facile, perché sempre impegnatissima in convegni e
dibattiti, ma se riesci a parlarle rimani conquistato dalla
semplicità dei modi, la passionalità mediterranea, l’accento
toscano che non si è appannato nel corso degli anni e la
totale indipendenza da mode e conformismi.
Che cosa pensa la grande scienziata della situazione politica? «Penso che avrebbe dovuto esserci un accordo fra Pd
e grillini: molti di loro vogliono infatti le stesse cose, cioè
riforma della legge elettorale e abolizione del conflitto
d’interesse. Invece ci ritroviamo con un governo Pd-Pdl
condannato all’immobilismo perché è stato come mettere
insieme l’acqua e il foco». Quindi, a suo avviso, il governo
attuale avrà vita breve? «Durerà fino a quando non si
toccheranno le leggi fatte da Berlusconi a difesa dei propri
interessi. E non si può andare avanti così, ignorando che è
proprietario di tre televisioni e quindi dotato della possibilità di esercitare un’enorme influenza sul Paese. Per
questa ragione ritengo che la prima mossa da fare sia
liquidare l’alleanza Pd-Pdl, trovare un accordo con M5S,
e varare riforme favorevoli all’Italia». Non sarà facile,
visto che sono stati proprio i grillini a non mostrarsi
aperti all’offerta di Bersani. «E hanno dimostrato una
completa assenza di buon senso. Mi auguro che non
continuino a irrigidirsi, che trovino un’intesa con il Pd
sulle riforme più urgenti e le facciano. Devono rendersi
conto che da soli non arrivano da nessuna parte, mentre,
invece, insieme con il Pd possono realizzare, per lo meno
in parte, i programmi che si erano prefissi».
A poco a poco, a parlare di certi argomenti l’intransigente “amica delle stelle” si accalora, la voce si alza
di tono e l’indignazione rompe gli argini. «Ma lo sa che
la cassa integrazione è vuota, e quindi i disoccupati
non potranno nemmeno più contare su questo aiuto? E
intanto si vuole non solo abolire, ma addirittura restituire l’Imu a tutto il Paese, una tassa che permette ai
comuni di affrontare spese ed incombenze! Ormai si
versava l’Ici da tanto tempo, la gente s’era abituata:
cancellando quella tassa, si è voluto creare un problema
che non c’era. I progetti assurdi da cancellare sono altri:
il ponte sullo Stretto; restituire una tassa già pagata;
comprare cacciabombardieri quando la Costituzione dice
espressamente che l’Italia ripudia la guerra! Alle volte mi
sembra di vivere in un mondo di pazzi».
Meno male che ci sono i gatti, pensi, perché quando
si accalora, una di queste simpatiche bestiole le scivola
accanto e lei accarezzandola si placa. Da quasi trent’anni,
Margherita vive insieme con il marito, il latinista Aldo
De Rosa, e otto gatti, a Roano, un quartiere non lontano
dal centro di Trieste, in una villetta a due piani, circondata da un giardino e sommersa di libri: ovunque ci sia
un piano d’appoggio, a fasci, a mucchi, a pile, ci sono
libri: 25.000 stando agli ultimi calcoli. Ritiene reale il
rischio di una deriva demagogica? Ossia di un’altra vittoria di Berlusconi? «Spero di no. Però se gli italiani sono
tanto imbecilli da volere ancora al governo un personaggio che ha mandato all’aria il Paese, allora vuol dire che
non ci si merita altro». Bisogna però dare atto al governo
Letta di aver mostrato qualche segno di buona volontà:
con l’aver dato il dicastero delle Pari opportunità e quello
dell’Emigrazione a due donne nate all’estero ha aperto al
multiculturalismo. «Per ora», mormora, poco convinta.
«In realtà, un’apertura alle donne c’era già stata con
Monti: non dimentichiamo la Severini e la Cancellieri,
alle quali non erano stati affibbiati i soliti ministeri della
Cultura o della Salute».
Nel ’64, lei è stata la prima donna in Italia a essere
nominata direttore di un osservatorio astronomico.
Ritiene che in campo professionale la situazione della
donna sia migliorata o pensa che ci sia ancora tanto da
fare? «Mi pare che le cose stiano cambiando. Abbiamo
poche donne in politica, ma in altri campi sono numerose
e in posizioni di rilievo: tante sono prefetto, magistrate.
Attualità
Abbiamo avuto una donna presidente della Confindustria. C’è
certamente molto da fare, perché
tuttora le donne hanno meno diritti,
ma credo dipenda in larga misura
proprio dalle donne, che spesso
sono troppo timide, troppo remissive, non hanno abbastanza fiducia
in sé e si fanno problemi dove non
ci sono. Io non mi sono mai sentita
a disagio, né ho mai sentito come un
peso il fatto di essere donna in un
ambiente maschile: mi sono sempre
sentita un individuo, che voleva
rispettati i suoi diritti. Dipende
forse dall’educazione che si riceve
da bambine». Un reato come il
femminicidio, non dimostra come il
nostro Paese sia ancorato a modelli
ancestrali? «Purtroppo da generazioni si è radicata l’idea del maschio
padrone che ha la proprietà della
donna. Ma qui si tratta di delinquenza, e la delinquenza c’è sempre
stata. Anzi, oggi certe cose sono
inconcepibili: si pensi alla diversità
di trattamento riservato a uomini e
donne a proposito del reato di adulterio. A metà degli anni Cinquanta
ci fu il celebre caso di Fausto Coppi
e della Dama Bianca: furono accusati entrambi di adulterio, ma a
finire in galera fu solo lei. Si pensi
al delitto d’onore. Per secoli la
donna è stata succube, di tutti. È un
concetto che va sradicato a cominciare dalla scuole elementari».
Docente universitaria, membro
dell’Accademia Nazionale dei Lincei
e dei gruppi di lavoro dell’Esa e
della Nasa, si è dedicata prevalentemente alla ricerca, ma anche alla
divulgazione: Margherita Hack ha
pubblicato più di 200 lavori scientifici su riviste internazionali, oltre
a una serie chilometrica di libri
universitari e divulgativi. Ma ha
trovato anche il tempo per la politica: tutte le volte che si è presentata
candidata (alle elezioni regionali del
2005 in Lombardia e alle politiche
del 2006 nella lista del partito dei
comunisti italiani, alle regionali nel
Lazio nel 2010 tra le fila della federazione della sinistra) è stata eletta,
rinunciando poi al seggio. E tutte le
volte che glielo hanno domandato,
ha espresso il suo parere a proposito
dei candidati: in tempi recenti ha
sostenuto Nichi Vendola e Matteo
Renzi. Si è inoltre sempre battuta e
continua a battersi in favore della
Antonella Cappuccio, Ritratto di Margherita Hack da bambina, gouache 100 x 70
ricerca sul nucleare, dei diritti civili e in difesa degli animali.
In questi mesi ha cominciato a scrivere un nuovo libro, dimostrando come il
lavoro continui a svolgere un ruolo fondamentale nella sua vita. «Se non avessi
quello, che farei? Mi piace lavorare, mi piace scrivere, solo che mi costa tanta
fatica, mi prende continuamente l’abbiocco. Fo’ tutto al rallentatore, vado a riposare cinque minuti e dormo tre ore». Qual è il tema di questo suo ultimo scritto?
«L’Italia che vorrei». Com’è l’Italia che vorrebbe? Molto diversa da quella attuale?
Ti aspetti che risponda di sì, invece reagisce spiazzandoti: «L’Italia ha anche dei
fiori all’occhiello. L’università, la scuola non sono poi tanto male, tant’è che gli
studenti quando vanno all’estero si trovano bene. Quindi non è tutto da buttar
via».
Anche il libro intitolato L’Italia che vorrei, come ogni cosa che fa questa intrepida creatura, riscuoterà un largo successo. Largo successo lo riscuote presso i
giovani, al punto che a lei un gruppo di astronomi ha voluto dedicare un asteroide
battezzandolo “8558 Hack”; l’ha riscosso nello sport quando partecipava alle gare
di atletica, nella vita professionale e nella vita affettiva. Quando glielo fai notare,
scoppia in una allegra, contagiosa risata. E mormora con assoluta convinzione:
«Ho avuto culo».
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Attualità
Il prete che cantava ‘Bella ciao’
Ricordo di don Andrea Gallo, un antifascista col Vangelo in tasca, un partigiano che si è battuto fino all’ultimo per i diritti
umani e per dare voce agli emarginati: memorabile il suo intervento per denunicare le violenze al G8 di Genova
di Fabiana Tacente
Q
uando muore un personaggio più o meno noto, c’è
sempre un grosso trambusto mediatico che personalmente mi infastidisce, ma alcune volte mi stupisce e
mi aiuta a sperare nel futuro.
Lo scorso 22 maggio ci ha lasciati Don Andrea Gallo,
parroco della comunità di San Benedetto al Porto, un grande
piccolo uomo, vero amico degli ultimi, criticato da molti
politici e media della destra italiana e snobbato dalle istituzioni religiose perché troppo vicino a quella parte di mondo
che la Chiesa ed i conservatori condannano e disprezzano.
In tantissime persone lo hanno ricordato il giorno del suo
funerale, dimostrando che il suo messaggio e il suo impegno
continueranno a
vivere, grazie alle
sue parole.
Don Andrea Gallo,
classe 1929, fu per 5
anni, dal 1965 al 1970,
vice parroco nella
chiesa del Carmine
di Genova; venne
trasferito in seguito
ad un provvedimento disciplinare,
per le sue omelie
ritenute troppo rivoluzionarie. I suoi
parrocchiani
si
ribellarono fortemente a questa
scelta della Curia,
tanto da attirare
l’attenzione della stampa, sia italiana che estera. Alcuni giornali intitolarono la notizia Mi hanno rubato il prete, risposta
che diede un bimbo in lacrime a un poliziotto che gli chiedeva
perché piangesse.
Approdò nel 1970 alla comunità di San Benedetto al Porto,
ospitato dal parroco Federico Rebora, dove rimase per tutta
la vita. Dal 1992, grazie a un progetto di riabilitazione e
reinserimento sociale di soggetti in difficoltà, Don Gallo
aveva in gestione, insieme alle persone della comunità, la
trattoria La Lanterna. Tutta la sua esistenza era legata a
questo piccolo mondo, dove ha deciso di finire i suoi giorni,
circondato dai suoi amici e dalle persone che ha aiutato in
tutti questi anni.
Ho conosciuto don Gallo nel 2009, lo intervistai per
un lavoro sul G8 di Genova che stavo preparando in quel
periodo. La mattina che telefonai per chiedere un appuntamento, la signora Lilli, sua storica assistente, mi disse
di richiamare nel pomeriggio, perché don Gallo stava
dormendo. «Scusami», mi disse, «ma io dormo di giorno,
perché la notte resto sveglio nel mio archivio; molti miei
amici non hanno un posto dove andare, spesso passano a
salutarmi e resto sveglio fino all’alba!»
A Genova mi accolse offrendomi un grappino e un sigaro,
parlammo a lungo di tante cose e passammo dalle domande sul
G8 al mio scetticismo verso la religione: «Vedi, Fabiana», mi
disse, «io ho tanti amici giovani e confusi come te. Voi siete la
dimostrazione che i giovani non disdegnano la Chiesa, ma la
vorrebbero molto più vicina, più umile».
Sulle tristi violenze commesse a Genova nel 2001, fu
molto duro: «Di fronte alle ingiustizie, il silenzio diventa
una forma di complicità; è una tattica nazista alimentare
la paura per farsi seguire dal popolo, ripetere una menzogna cento volte fino a farla diventare realtà». Don Andrea
si è sempre schierato in difesa delle persone picchiate
dalle forze dell’ordine durante il G8 nella sua città; ma
anche accanto a gay, transessuali, prostitute e barboni.
Quando gli raccontai di essere stata a cena nella sua
trattoria, lui raccontò delle difficoltà che avevano avuto
per superare i pregiudizi della gente: «Per diversi anni»,
mi disse, «le persone diffidarono dell’iniziativa, temevano chissà cosa, di prendere l’Aids, di trovare qualcuno
in overdose da pesto alla genovese!»
Raccontava spesso le sue avventure da partigiano,
durante la Resistenza; aveva solo 16 anni quando sì unì a
suo fratello Dino e alla brigata SAP, detta Paolo Cozzo: «Il
mio nome in codice era Nan», racconta nel suo libro Così
in terra, come in cielo, «per via del nasone che mi distingueva; indossavamo il fazzoletto azzurro e ci definivamo
partigiani democristiani; io ero preposto a far la staffetta.
Dopo la Liberazione, il mio gruppo rimase armato; mai
ebbi dei ripensamenti sulle mie scelte, mai pensai di stare
dalla parte sbagliata. Ero antifascista e lo sarò sempre».
Anche sulla situazione politica attuale ha sempre sottolineato l’importanza della resistenza al fascismo: «Il
battesimo», diceva sempre, «è il primo sacramento che i
cristiani ricevono. In un’epoca in cui il virus del fascismo
è in libera uscita, il cristiano non può non essere antifascista. Perciò, oltre a mantenere il testo, i simboli come
l’acqua e l’olio, e le consuete formule rituali, ho aggiunto
una regola di comportamento alla quale dovrà attenersi
il buon cristiano. Io ti battezzo nel nome del Padre, del
Figlio, dello Spirito Santo. E dell’Antifascismo».
Fu amico per tutta la vita del presidente Pertini, che
nominava spesso come simbolo di coerenza politica.
«Sandro», scrive don Gallo nel libro Così in terra, come
in cielo, «era un fervido antifascista che rispettò i valori
della Resistenza anche quando ricoprì cariche politiche
che intimavano una certa prudenza formale. Sono sicuro
che oggi non stringerebbe la mano a molti politici». È
stato spesso accusato di fare propaganda politica in chiesa;
ci sono video su Internet che lo riprendono mentre celebra
la santa messa cantando Bella ciao insieme ai suoi fedeli. Ma
lui si è sempre definito uomo di Dio, servo degli ultimi in
nome della carità, prima che del comunismo.
Don Gallo mi mancherà tantissimo, aveva ancora tanto
da insegnare e da dire alle nuove generazioni. Voglio
ricordarlo per sempre con le sue stesse parole: «Ci incontreremo ancora, ci incontreremo sempre. In tutto il
mondo, in tutte le chiese, le case e le osterie. Ovunque ci
siano uomini che vogliono verità e giustizia».
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Attualità
Un convegno per ricordare la figura dello scrittore e poeta antifascista torturato dai nazisti nel carcere di via Tasso
La lezione di Guglielmo Petroni
di Vincenzo Perrone
R
icordare la figura di
Guglielmo Petroni, scrittore e antifascista, a 20 anni
dalla morte. È questo il tema al
centro della conferenza organizzata
dalla Fiap (Federazione Italiana
Associazioni Partigiane), presso la
Casa della Memoria di Roma.
Incontro coordinato da Vittorio
Cimiotta, vice presidente Fiap, alla
presenza del figlio di Petroni, Paolo,
ma anche del noto scrittore e politico Walter Veltroni, oltre che di
Giorgio Patrizi, docente dell’Università del Molise e di Antonio
Debenedetti, critico e scrittore.
«Mio padre», esordisce Paolo
Petroni, «è nato povero, ma questo
non gli ha impedito di scrivere
le sue prime poesie, che suscitarono l’interesse degli studenti della
Normale di Pisa. Furono gli universitari stessi che vollero incontrarlo».
Infatti, con pochi mezzi e da autodidatta, Guglielmo Petroni mosse
i suoi primi passi nel mondo della
pittura e, in seguito, della letteratura. Con la vittoria, nel 1934, del
premio La Cabala Petroni, allora
un giovane di appen 23 anni, ebbe
accesso al mondo della letteratura più qualificata. Iniziò, infatti,
a frequentare il caffè letterario
Giubbe Rosse a Firenze, la realtà
culturale più viva e vicina alla sua
Lucca.
Nel 1938 si trasferì a Roma per
dirigere la rivista Prospettive.
Durante l’occupazione nazista
della capitale era nel comitato di
redazione del giornale La Ruota,
diretto da Mario Alberto Meschini,
di chiara ispirazione antifascista.
Fu in quel periodo che Guglielmo
Petroni si avvicinò agli ambienti
della resistenza romana. Ma l’attività antifascista costò cara al
giovane scrittore: nel 1944 fu catturato dalle SS ed incarcerato a via
Tasso. Come molti antifascisti,
Petroni subì innumerevoli torture
che lo condizioneranno per tutta
la vita. Trasferito a Regina Coeli
fu condannato a morte e venne
salvato solo dall’arrivo degli Alleati. Lo scrittore racconterà quella
terribile esperienza nel libro Il mondo
è una prigione, pubblicato nel 1948,
uno dei testi più profondi e sinceri
sulla barbarie nazifascista. Andrea
Camilleri, in occasione della ristampa
del libro per i tipi di Sellerio nel 2011,
per commemorare il centenario della
nascita di Petroni, ha scritto: «Ci sono
due libri che mi hanno formato, non
come scrittore, ma come persona. Il
primo, ancora negli anni del fascismo, La condizione umana di Malraux,
il secondo, indubbiamente Il mondo è
una prigione di Petroni».
«Il mondo è una prigione», osserva
Walter Veltroni, «fu un libro di
notorietà, ma anche di profonda
amarezza. Con questo libro Petroni
ruppe lo stereotipo che la sinistra
aveva sulla Resistenza e sulla Liberazione. Lo schema della sinistra era,
infatti, persecuzione-tortura-felicità.
In Petroni manca la felicità. È come se
la tortura subita a via Tasso non fosse
mai finita».
I libri sono, comunque, lo specchio
della personalità del proprio autore, e
l’amarezza de Il mondo è una prigione
accompagnava anche Petroni, come
si evince dai racconti di chi ha conosciuto personalmente lo scrittore
toscano.
«Nel 1959», ricorda Antonio Debenedetti, «incontrai Petroni per un
premio letterario. Capii che era un
uomo con una ferita dentro. Fu allora
che mi resi conto dell’infamia della
tortura. Petroni aveva una sorta di
resistenza alla gioia, è come se gli fosse
stata tolta una parte della vita. Del
resto non poteva essere altrimenti; in Il
mondo è una prigione Petroni parla del
suo arresto, di quando fu incatenato e
picchiato e, mentre veniva malmenato,
la SS gli costringeva a tenere la tempia
contro uno spigolo».
Storie di torture e vessazioni che,
nonostante la dura repressione e
censura nazista, echeggiavano nella
Roma occupata del tempo. «A Roma
in quel periodo», sottolinea Vittorio Cimiotta, «si respirava un’aria di
terrore e tutti sapevano cosa succedeva in via Tasso».
Una vita segnata, quindi, dalle
torture che Guglielmo Petroni subì
Guglielmo Petroni a Roma negli anni ‘30
nel carcere di via Tasso per mano nazista. Tuttavia, sono molti gli spunti che
si possono trovare nelle opere dello
scrittore toscano e parlare soltanto di
malinconia sarebbe alquanto riduttivo.
«In Petroni», spiega il professor Giorgio Patrizi, «non troviamo
soltanto la testimonianza delle
torture subite. Lui era un intellettuale complesso e che va messo ancora
completamente a fuoco. Nelle sue
opere c’è la volontà di voler riscoprire
una società dei giusti e degli onesti che
vuole progredire».
Nei libri di Petroni, infatti, si parla
di una forma di socialità che probabilmente oggi si sta perdendo. In questi
tempi moderni è decisamente più
preponderante l’io rispetto al noi che
ritroviamo negli scritti di Petroni. «C’è
differenza», continua Patrizi - tra la
visione collettiva di allora e la visione
individualistica odierna.
Su questo andrebbe aperto un dibattito». Un pensiero condiviso anche da
chi, come Walter Veltroni, ha conosciuto Petroni attraverso le sue opere
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Attualità
e con le quali si è formato. «Sono molto legato», rivela il politico e scrittore, «al
libro La morte nel fiume che ho comprato quando avevo 19 anni. In questa opera
ci sono molti elementi caratterizzanti di Petroni. Sono preponderanti l’amicizia,
il voler stare insieme e la riscoperta dei luoghi».
La morte nel fiume è una tappa decisamente importante nel percorso di
Guglielmo Petroni. Il romanzo parla di due amici, Sante Martelli e Stefano Calzolari, che si conoscevano fin dai tempi del fascismo e si ritrovano invecchiati
nella loro città d’origine, ovvero Lucca. Oltre ai due protagonisti, al centro delle
vicenda c’è il fiume Serchio, che funge da filo conduttore della narrazione. Il
romanzo fu pubblicato nel 1974, anno in cui vinse il premio Strega.
Gugliemo Petroni non era soltanto uno scrittore, ma un vero e proprio
divulgatore di cultura. Alla sua opera letteraria unì il lavoro alla radio. Negli
anni ‘50, infatti, diede il suo contributo per la rinascita del terzo canale radiofonico della Rai. Sempre in Rai, dagli anni ‘60 fino alla pensione, fu caporedattore
spettacolo e cultura al giornale radio.
Il testamento letterario di Petroni è sicuramente il libro autobiografico Il nome
delle parole del 1984 che vinse il premio Selezione Campiello.
«Con Il nome delle parole», avverte Patrizi, «l’autore riflette proprio sul ruolo
delle parole. Qui c’è una vera e propria presa di coscienza dello stare insieme. E
a questo proposito rammento l’incontro generazionale tra Petroni, già maturo,
e me, giovane studioso. Petroni era una persona sensibile, molto disponibile
e simpatico. Sicuramente lo scrittore toscano ha segnato un’epoca di cui non si
deve perdere la memoria».
Walter Veltroni, invece, ricorda bene la moglie di Guglielmo Petroni, Carlaluisa De Vecchi detta Puci: «Ho conosciuto la moglie di Petroni quando ero sindaco
di Roma. Lei si commosse quando decidemmo di dedicare una strada della capitale al marito».
Questo la dice lunga sulla semplicità e l’umanità della compagna di vita di
Guglielmo Petroni. Del resto, accanto a un uomo di così profonda sensibilità non
poteva che esserci una donna alla sua altezza morale.
Guglielmo Petroni è uno scrittore e un militante antifascista di cui si sa
ancora troppo poco. Non è retorica, infatti, sostenere che andrebbe fatto conoscere alle giovani generazioni. La sua lezione dovrebbe essere tramandata a
partire dagli studenti delle scuole. Una lezione sicuramente storica, ma anche
profondamente e intensamente umana.
Lo studio di Guglielmo Petroni
Petroni a Nizza con la moglie Carlaluisa De
Vecchi negli anni ‘50
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Cultura
Dalla parte dei bambini
Incontro con Pier Vittorio Buffa che nel libro Io ho visto ha raccolto 30 storie di piccoli scampati alle stragi nazifasciste
di Antonella Amendola
S
ono trenta storie narrate in prima persona. Storie
che ci riguardano tutti. Il giornalista e scrittore
Pier Vittorio Buffa con il libro Io ho visto (Nutrimenti editore), davvero un piccolo caso editoriale, raccoglie le testimonianze di coloro che sono sopravvissuti
alle terribili stragi del biennio 1943-1945. Si calcola che i
nazifascisti abbiano sterminato 10.000, 15.000 civili
italiani con crudeli, raccapriccianti modalità: terrorismo
puro, barbarie ancora oggi impunita. Buffa ha raccontato
quegli episodi con le parole semplici, toccanti dei
bambini, dei giovani che ne sono stati protagonisti. Per
non dimenticare.
Pier Vittorio com’è nato il libro?
«Quando, a un convegno storico, il sindaco di uno dei
paesi coinvolti in una strage annunciò che era morta l’ultima superstite capii che non c’era da perdere tempo,
bisognava raccogliere le parole di coloro che avevano
assistito ai massacri dove erano stati trucidati parenti,
amici, compaesani. D’altra parte sono amico di Franco
Giustolisi, l’autore dell’Armadio della vergogna, il libro
che per primo rivelò le stragi impunite, e quindi l’argomento lo conoscevo già».
Lei ha fatto un po’ come il regista Spielberg, che in
America ha filmato le testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah. Si è affidato alla cinepresa al ghetto
di Roma anche il nostro regista Mimmo Calopresti.
«Io ho usato lo strumento che conosco, la parola, e la
fotografia che è parte integrante del racconto. Non mi
limito a riportare registrazioni. Si va oltre. Alcuni degli intervistati si sono
costruiti negli anni racconti scarni, anche stereotipati, di quanto hanno visto.
Ma dietro il gelo di racconti così ci sono magari il velo di un occhio, il tremito
di una mano che tradiscono emozioni che non si possono soffocare e che io ho
cercato di rendere con la scrittura. Tutti hanno riletto e approvato i testi che
li riguardano. Volevo essere libero d’interpretare il loro animo senza tradirlo».
Lei ha dato una vera e propria dignità letteraria a quelle parole sofferte
che, immagino, gli intervistati, nolenti o volenti, abbiano ripetuto nel
corso delle loro vita, come un mantra. Quali resistenze ha dovuto superare per ottenere le interviste?
«Il libro l’ho fatto con la collaborazione di mia moglie, Paola Medri. Con
la sua presenza interviste che potevano scivolare nel tecnicismo sono
diventate dialogo tra persone. Molte
donne si rivolgevano di preferenza a
lei. In certi momenti Paola ha stemperato la tensione. Come mia moglie
ha raccontato nel capitolo finale del
libro, che ha firmato, gli intervistati
si aprono al discorso sul prima e sul
dopo, ma sorvolano sul racconto della
morte dei propri cari. Ecco, Paola mi
ha aiutatato a ricostruire quei momenti
terribili senza che fosse una rapina di
stati d’animo. Alcuni sopravvissuti non
hanno voluto parlare. A tutti quelli
che hanno parlato sono arrivato con
la mediazione di amici, usando certe
P. Vittorio Buffa e la moglie, Paola Medri,
curatori del libro
delicatezze. Non mi sono mai presentato al telefono, tranne che in un caso».
Si trovava di fronte persone che
sono riuscite a vivere solo rimuovendo il grande trauma della loro
infanzia?
«Il fenomeno ricorda quello dei
reduci dai campi di sterminio. Per anni
la maggioranza non ha parlato, poi,
piano, piano, in modi diversi è venuto
alla luce quello che hanno passato.
Ho letto la testimonianza sul rogo di
Berlino di una tedesca, che si chiama
Schneider, e aveva la mamma kapo.
Andò in televisione, da Fazio, e disse
che suo figlio ventiquattrenne aveva
appreso di avere una nonna kapo dal
suo libro di ricordi. E’ un po’ la stessa
psicologia: si chiude un passato doloroso in se stessi. Non è facile venirne
fuori. Alcuni parlano. Altri arrivano
a farne testimonianza nelle scuole.
Alcuni mi hanno detto che dopo la mia
intervista non parleranno più. C’è la
coppia abbruzzese, i Macerelli, scampati alla strage di Pietransieri, che sono
stati 20 anni in Inghilterra. Parlano
oggi poco e a fatica. Un iterlocutore,
Goffredo Cinelli, a San Pacrazio, che
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Cultura
ha disseppellito il padre ucciso dai
tedeschi, ha collaborato volentieri
perché tutta la vita è stato al servizio
della sua comunità».
E lei come stava dopo quei discorsi?
«Non ci si abitua. Ho fatto un lavoro
difficile, ma utile per chi verrà dopo di
noi».
Parliamo ora di un tema spinoso,
la memoria non condivisa intorno
a uno stesso episodio. Emerge
molto nel capitolo su Civitella val di
Chiana.
«Ho trovato cose che non conoscevo.
Mi ha fatto un po’ male riscontrare
che su alcune delle dolorose vicende
sulle quali non si è fatta chiarezza si
è steso un velo. A Civitella, per esempio, c’è stato da parte dei partigiani un
errore tecnico militare. Non è provato
che sia stato questo errore a scatenare
la strage. Forse è stato solo uno dei
fattori. Ciò nonostante oggi sarebbe
bene fare chiarezza. Non toglierebbe
nulla alla grandezza della Resistenza.
Questa capacità di guardarsi indietro a 70 anni da quegli avvenimenti
luttuosi oggi ci dovrebbe essere. Con
serenità, con pacatezza. Non è che se io
dico “il tal partigiano ha sbagliato” sto
accusando tutti i partigiani. La sinistra oggi dovrebbe essere matura per
affrontare l’argomento».
Come si può leggere il quadro
generale delle stragi?
«Raramente si tratta di rappresaglie
in senso tecnico. Come hanno rilevato
gli storici, è una guerra dei nazifascisti contro i civili, vero e proprio
terrorismo. Facevano terra bruciata
lì dove potevano esserci rapporti
con i partigiani. Ma io non affronto
questa prospettiva, il mio libro mette
in ordine alfabetico, l’ordine più
semplice, storie di persone, è a misura
di sguardo di bambino. Esperienze che
possono capitare ovunque, nel mondo,
c’è guerra».
Chi ha pagato per quegli orribili
crimini?
«Nell’introduzione faccio i nomi
di 41 ex militari tedeschi condannati
all’ergastolo dalla magistratura militare italiana per crimini commessi nel
nostro Paese. Giudicati e condannati
dopo la scoperta dell’Armadio della
vergogna. Non hanno mai scontato la
pena. Conoscere i loro nomi e le loro
responsabilità è purtroppo il massimo
della giustizia che ragionevolmente ci
si può aspettare».
La storia in prima persona
Alcuni stralci delle testimonianze raccolte da Pier Vittorio Buffa
Enio Mancini il 12 agosto 1944 aveva sei anni. Era a Sant’Anna di Stazzema,
Lucca. Cinquecentosessanta morti circa.
Io cercavo Wilma e Velio. Ne contai almeno dieci di bambini lì in mezzo, sullo stradello, sull’aia, nelle case. Noi si andava dietro le donne che urlavano e toccavano tutti
quei corpi, li muovevno per cercare i loro parenti, invocavano Dio. Ma quelli non erano
morti normali. Io, anche se avevo solo sei anni, di morti ne avevo visti parecchi, ma
nel letto, dritti, come se dormissero. Questi no. Questi erano come deformati. Molti,
dentro le case,
bruciati, senza
un braccio, senza
una gamba, non
li si riconosceva
anche
perché
in quei tempi a
Sant’Anna c’erano
tantissimi sfollati,
venuti su perché
il nostro era considerato un paese
sicuro.
Io, dopo un po’,
me ne sono andato
per conto mio.
Toccavo i bambini
perché volevo trovare i miei amici,
Wilma e Velio. O
meglio,
speravo
di non trovarli
lì. I corpi erano
pieni di mosche, di
Enio Mancini
insetti, li ricordo
bene. Come toccavo un bambino volavano tutti via con uno sfrigolio che non posso dimenticare. Poi la puzza, fortissima, anche quella non sono ancora riuscito a cacciarla da me.
Un odore che mischia il dolciastro con il putrido.
Sono entrato in una casa, un trave bruciava e sopra, come incastrata, c’era una rete
da letto. Su quella rete c’erano due corpi bruciati, piccoli, neri come il carbone. Era la
camera di Wilma e Velio, i miei due amici che non ho mai più trovato.
Cornelia Paselli il 29 settembre 1944 aveva diciannove anni. Era a Marzabotto,
Bologna. Ottocento morti circa. Tra loro, la mamma Angiolina Mazzanti e due
fratelli gemelli di dieci anni, Luigi e Maria.
Nella borsa, insieme alle fotografie, avevo un cappottino. Era ancora imbastito e lo
avevo portato con me perché avrei voluto finirlo e portarlo alla maestra sarta. Invece
lo uso per legare le gambe della mia mamma. È lì, appoggiata al muro del cimitero, e il
sangue continua a uscire. Prendo le maniche del cappottino, le tiro, il filo cede subito.
È stoffa robusta e ci lego le cosce della mia mamma, più strette che posso, per cercare
di fermare il sangue.
La mamma mi indica una donna vicino a noi. È uscita da casa di corsa, è senza mutande, morta accanto al suo bambino. «Coprila, Cornelia, coprile il sedere, per favore».
Obbedisco e poi decido di muovermi. «Adesso vado, mamma, vado a cercare aiuto».
«Fermati, Cornelia, non andare che ti ammazzano». «Io vado, mamma, ci provo, così
poi ti porto a Bologna e ti salvano, ce la farai».
E vado. Lascio la mia mamma con le gambe maciullate e senza più sangue. E con lei,
ancora vive, ci sono mia sorella Giuseppina e quattro persone delle quali ho sentito le
voci. Una forte, le altre deboli, a chiedere un aiuto che non può arrivare.
Cultura
Gli altri tutti morti, eravamo quasi cento dentro il piccolo
cimitero.
Armando Tincani il 18 marzo 1944 aveva sette anni.
Era a Monchio, allora comune di Montefiorino, Modena.
Centorentasei morti. Tra loro, il padre Ennio, il nonno
Raffaele Abbati, e uno zio, Remo Abbati.
Quando cade gli vado vicino. La testa è nel sangue, in una
pozza che si allarga. Ci sono frammenti bianchi, cervello.
Papà guarda il cielo. Gli tocco le mani. Sfioro il viso. Non si muove.
Mi ritraggo, lo guardo con più attenzione che posso. Il foro
è lì, grande, in mezzo alla fronte. Lo rivedrò tanti anni dopo,
quando lo riesumeremo, nel teschio. In mezzo alle ossa della
fronte, preciso come fosse il lavoro di un chirurgo.
La mamma arriva correndo. Sento le urla prima del suo
passo. Mi volto, la vedo, è come stesse spiccando il volo verso
me e papà. Ma la divisa di un tedesco oscura tutto. Si mette
tra noi e la mamma, le impedisce di raggiungere suo marito
che non c’è più, la allontana a forza, prendendola per le spalle.
La mamma cerca di resistere, ma è troppo forte e grande
l’uomo che comanda tutti e che l’ha bloccata. La mamma si
arrende, si affloscia per terra, piange con le mani sul viso,
quasi in silenzio.
Voglio portarlo alla mamma, perché sappia anche lei come è
stato ucciso papà. E per non dimenticare.
Ecco. Per me il 30 aprile di Pedescala è questo. Il corpo di
mio padre distrutto e nero. E l’odore di bruciato che mi ha
fatto scappare dal mio paese. Un odore che entra dalle narici.
Non tanto quello del legno delle case. Quanto quello dei corpi
che bruciano. Un odore che non si dissolve, resta nell’aria, si
deposita sulle cose, sulla pelle. Io sono scappata, sono andata a
Roma per non sentirlo più e sono tornata a Pedescala dopo sei
mesi, poco prima del 2 giugno 1946.
Norma Giacomelli il 30 aprile 1945 aveva diciotto anni.
Era a Pedescala, Valdastico, Vicenza. Ottantadue morti.
Tra loro, il padre Giuseppe, il nonno, la bisnonna, una
cugina, una zia.
Devo aprire solo sei, sette bare prima di trovare quella con
mio padre. Per fortuna: non sarei stata capace di arrivare fino
in fondo, controllare tutte le almeno sessanta bare allineate
al cimitero.
Papà è come gli altri che ho visto, tutto bruciato. La testa, le
gambe, le braccia. Lo riconosco dai vestiti, solo da quelli. Infilo le
mani dietro di lui, dove ho visto il portafoglio. Lo prendo.
Con le forbici che ho con me taglio un pezzo della giacca.
Armando Tincani
Cornelia Paselli
Norma Giacomelli
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Cultura
Aldo Carpi, l’artista che non sapeva odiare
Storia di un milanese eccellente, che patì il lager e fu poi direttore dell’Accademia di Brera, un cristiano colmo di spirito
di Domenico Tarizzo
A
ldo Carpi nel suo studio di pittore, a Milano. Ma anche Aldo Carpi nel
lager nazista di Gusen, tragico kommando di Mauthausen: solo il 2 per
cento ne uscì vivo. Vivo, per modo di dire. Carpi fu anche l’autore di un
diario, forse l’unico diario uscito da un campo di sterminio, dove tutto ciò che è
umano era vietato e consentito era tutto ciò che è bestiale, l’arraffare l’ultimo
boccone, la delazione, la violenza sul più debole.
Scrivere e conservare per mesi. Testimoniare, scrivendo lettere forzatamente
immaginarie alla moglie: «Ti sei sempre comportata da vera cristiana».
Ma Carpi non era un bigotto: era un pittore, un protagonista del Novecento, un patriota risorgimentale, si direbbe, perché era andato volontario in
guerra. Non un fanatico nazionalista con approdo fascistizzante. Ma il cristiano
e la guerra? Il massacro invece dell’amore fraterno? Certo, alla prima guerra
mondiale andarono non solo le teste calde della destra, ma Salvemini, Lussu,
Togliatti. Persone come Gramsci vedevano nella guerra uno scossone all’immobilismo borghese. Contro la guerra furono, oltre alla maggioranza dei socialisti
europei, gli studenti di medicina André Breton e Louis Aragon, che ne videro gli
orrori negli ospedali. Ma la contraddizione, la scissione irrazionale dell’io resta
comunque una costante del primo Novecento (il culto della non contraddizione
sembra venire dopo, con il definirsi degli schieramenti ideologici).
È stato notato che la guerra imposta dalla dittatura fascista (ma anche da quella
nazista) alle persone civili finì per condurre queste persone a una perplessa
contraddizione, quella di dover accettare, almeno provvisoriamente, per tempi
più o meno lunghi, qualcosa del nemico, di simile, cioè, alle armi fasciste: intransigenze, alcune forme di fanatismo. Ma, come ribadiva Thomas Mann durante la
seconda guerra mondiale, queste intransigenze in quel momento erano necessarie.
La figura di Aldo Carpi, scampato alla più tremenda delle esperienze di quella
guerra, il lager, ci offre un corollario vissuto al monito di Mann: eliminando dalla
propria parola il rancore personale (anche quello più legittimo) ci illustra la differenza tra l’odio e la memoria da conservare.
Raramente l’espressione di figura solare si rivela appropriata quanto nel
caso del pittore milanese Aldo Carpi. Ottimismo, forza, generosità stavano alla
base del suo carattere e della sua struttura fisica e non vennero meno neppure
durante la vita nel campo di concentramento nazista (è il caso di ricordare che
l’antifascista Carpi fu deportato per colpa della spiata di un fascista negli ultimi
anni della grande amicizia e alleanza tra Mussolini e Hitler).
Già può apparire fuorviante la definizione di pittore milanese, se l’aggettivo
ha acquisito negli anni recenti un valore o meglio disvalore di limitato, di localistico, di nuovo ricco colmo di denaro e ignoranza. L’abbondanza delle arti nella
Aldo Carpi, Gli ebrei al Revier, 1945
Una rara foto di Aldo Carpi nel suo studio
famiglia Carpi che ho frequentato a
lungo fa pensare, invece, al periodo
felice della storia milanese in cui
aristocrazia significava curiosità
per l’inconsueto, il periodo dell’avanguardia industriale.
Aldo era nato a Milano il 6 ottobre 1886. Dopo aver combattuto
nella prima guerra mondiale, nel
corso della quale trova il modo di
sposare Maria Arpesani, ha numerosi figli: il primogenito, Fiorenzo,
diverrà musicista, Giuseppe, detto
Pinin, scrittore e pittore, Giovanna,
Eugenio, detto Cioni, anch’egli pittore, Paolo, che morirà a 17
anni in un campo di sterminio
nazista, e Piero. Il figlio Pinin ha
dedicato all’opera e alla figura del
padre scritti affettuosi e partecipi:
quasi la riprova che la condivisa
propensione artistica è il migliore
antidoto alla nevrosi, a quell’odio
per il proprio passato che infetta
l’uomo comune, consumatore e
adoratore del presente. La stessa
lucida commozione filiale Jean
Renoir aveva provato nella rievocazione del mondo e della tecnica
del padre Auguste Renoir. E per
certi tratti la famiglia Carpi ricorda
molto la famiglia Renoir.
Nel 1945, scampato al lager di
Gusen, Aldo Carpi viene nominato
per acclamazione direttore dell’Accademia di Brera. Tra i suoi allievi
figurano Ennio Morlotti e Bruno
Cassinari, Crippa, Dova, Peverelli.
Cultura
Carpi favorisce lo sviluppo delle
personalità più varie. Riprende a
dipingere. Accanto alle maschere,
allegorie di una condizione umana
sospesa tra l’incanto e la minaccia, compare la figura del Cristo
portato via da massicci carabinieri:
un povero Cristo fragile e inerme,
bianco in mezzo al nero dell’autorità
senza volto. Perché lo arrestano?
Risponde Carpi: «È chiaro, perché
non ha fatto niente di male e perché
non ha i soldi per pagarsi i grossi
avvocati dei ricchi».
Ma veniamo al mondo interiore di
Aldo Carpi, alla prova che ha attraversato da cristiano.
Asetticità delle formule. Ci
sono
formule
apparentemente
neutre. Quando si dice: «Continua
l’interrogatorio dei prigionieri».
L’immagine sapientemente organizzata non altera sullo schermo
l’asetticità delle parole. Salvo che
per le maggioranze indifferenti,
non è difficile immaginare ciò che
questo significa: continua la tortura
del prigioniero per farlo parlare, per
costringerlo al tradimento. Ancora
oggi avviene come ai tempi di Aldo
Carpi e del suo amico, il critico
Raffaello Giolli, morto a Mauthausen. Sempre, dall’altra parte del
Aldo Carpi, Famiglia dell’Artista, anni ‘30
tavolo, il sadico pensa: «Parlerà perché ho il bastone in pugno e sono dio e lui un
vigliacco». Ma se uno non parla, chi sono io? A questa consapevolezza del vuoto il
torturatore non giunge mai. È sempre pronto a ricominciare.
L’odio di sé. L’odio per il prossimo e per se stessi potrebbe originarsi dall’odio per il proprio passato? Sembrerebbero, infatti, inevitabilmente congiunti. Ma
forse ci vuole, perché l’odio sia completo, la presenza di un particolare contenitore di queste forme relazionali. Mediamente, la guerra civile, la più barbara, e la
persecuzione legalizzata dallo Stato. E il Sadico e il suo Prigioniero.
I vecchi fascisti riaffiorati a Salò odiavano il loro meschino passato di gerarchetti di provincia. Ripartire dal fascismo più brutale del ‘19 per loro voleva dire
violenza e arbitrio senza limiti, una rivincita. Contro l’arte, contro la cultura.
Contro la borghesia che li aveva sfruttati per vent’anni come cani da guardia nel
porcile anticomunista, antioperaio. Ora potevano arrestare i borghesi, svaligiare
le loro belle case, torturare, sfregiare le loro belle donne sprezzanti.
Ma chi erano (sono) i picchiatori, i torturatori? Mettiamoli in un momento
nella stessa categoria. Generalizzando, i sadici, certamente. Ma anche i rancorosi, i vendicativi. E soprattutto i vuoti nello spirito. Comune a quasi tutti i vecchi
fascisti di Salò è questo vuoto interiore che si placa solo quando possono fare del
male al prossimo. Il non-essere odia la presenza dell’essere. Dell’artista. E di chi
il fascista accomuna all’artista: l’intellettuale, il borghese (anche se quest’ultimo
è sovente vuoto come il muscolare fascista).
È stata questa assenza del vuoto che ha salvato molti deportati: cristiani, ebrei,
comunisti, laici fiduciosi nella natura migliorabile dell’uomo. Se osserviamo il
lager, o il carcere duro, come metafora dell’esistenza da condurre tra alieni onnipotenti, vediamo che chi viene preso per reati comuni, nonostante sia pronto a
opportunismi e viltà, crolla prima dell’idealista, di chi crede di sapere perché è
finito in quell’inferno e riesce a non cedere alla disperazione.
Aldo Carpi nel dopoguerra lavorò con passione. Sue opere sono ora a Palazzo
Pitti, a Firenze, nelle raccolte pubbliche di Milano, e in collezioni private. Nel
1958 collaborò con i suoi comizi in un milanese elegante a far eleggere Adriano
Olivetti alla Camera dei Deputati. Morì, gran patriarca dalla barba bianca, nel
1973, indipendente come sempre, e sempre senza odio per nessuno.
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Cultura
Siamo frammenti di storia
Con la capacità selettiva di ricordare costruiamo il nostro futuro
di Nilo Cardillo
C
’è un filo comune che lega
tutte le iniziative promosse
dalla Casa della memoria e
della Storia: la difesa della memoria
storica, civile e culturale del nostro
Paese. È scritto a chiare lettere nel suo
documento fondativo: La memoria e la
storia sono elementi costitutivi del
nostro stesso presente, sia perché vi si
radicano le origini e i valori della nostra
democrazia, sia perché l’esercizio della
memoria, rivolto non solo al passato ma
anche all’epoca in cui viviamo, è una
pratica essenziale per una cittadinanza
vigile e partecipe. Il complesso di significati, di richiami culturali, politici ed
etici, connessi a ogni giornata o evento
celebrativo, come quella di stasera
dedicata alla straordinaria figura di
Eleonora Fonseca Pimentel, inter-
religione, rifiuta qualsiasi contatto con
la modernità; i suoi membri rifiutano
l’elettricità, i processi di industrializzazione, parlano un dialetto tedesco del
1600, non consentono che i loro figli
frequentino le scuole pubbliche. In
questo modo la memoria e la sua gelosa
difesa finiscono per rendere questa
comunità prigioniera di un passato
statico e immobile, incapace di entrare
nel futuro. Noi invece siamo portatori
di una memoria greca. Per i greci la
memoria è uno strumento per rinnovare il presente, migliorarlo alla luce
degli errori del passato; è una memoria
che invade il futuro, non ha una
funzione di mera conservazione, ma di
stimolo dinamico all’evoluzione del
gruppo sociale e della umanità.
Trasmettere memoria non significa
Francobollo commemorativo per il bicentenario della morte di Eleonora de Fonseca Pimentel
roga tutti noi, adulti e giovani, sul
rapporto con la nostra storia e con la
Storia. Il passato, se vissuto come mitologia o come nostalgia, è un impedimento a esercitare il diritto al futuro: è
una barriera che si frappone al nostro
sguardo sul futuro. Ne è un esempio
evidente la memoria come viene vissuta
e trasmessa dal popolo Amish, una
comunità protestante che vive, assai
numerosa, nelle sterminate pianure
dell’Ohio (USA) e del Canada. Questo
popolo, nella difesa gelosa della propria
accumulare i ricordi in un contenitore
infinito. Noi non possiamo ricordare
tutto. Per poter ricordare dobbiamo
anche dimenticare, sapendo, però quali
sono le cose importanti, da conservare,
e quali quelle che sarebbero una inutile
zavorra e, perciò, si possono lasciare
cadere.
Tempo della storia e tempo
della cronaca. Un grande scrittore
contemporaneo, Antonio Scurati, per
descrivere la nostra attuale condizione, ha parlato di una distinzione
tra tempo della cronaca e tempo
della storia. A suo giudizio noi, oggi,
viviamo nel tempo della cronaca,
che è tutto schiacciato sul presente.
Ciò significa che la forma, il linguaggio, il modo in cui noi organizziamo il
nostro senso del tempo e il racconto
delle nostre esistenze è la cronaca.
Essa è il racconto, inerziale, di ciò
che accade giorno per giorno. Essa
non opera una selezione, una gerarchizzazione, non stabilisce ciò che
più importante e ciò che è meno
importante, che cosa va conservato
e che cosa va tolto. La storia no! Se
devo descrivere, per esempio, l’inizio del Risorgimento, lo racconto
in modo che abbia un senso. Tolgo
le cose meno importanti, quelle
che non hanno rilevanza, le futilità, il resto lo metto in un quadro
complessivo che dia un significato al
tutto. Questo essere confinati, quasi
conficcati nel presente, fa sì che noi
viviamo col fiato corto, con una’ottica limitata e questo ci fa sfuggire
l’essenziale, ciò che può dare sapore
alla nostra esistenza: la politica,
l’amore e i figli.
La politica (con la P maiuscola)
è intesa come opera collettiva di
comunità di uomini che usano beni
collettivi per risolvere problemi
comuni: una tale complessa attività
sul metro corto della cronaca non
si può sviluppare. La politica non
può nemmeno nascere sul metro del
giorno dopo giorno. La politica, per
essere fatta, richiede la fiducia che
la nostra azione si svolga in un arco
temporale lungo.
L’amore, l’ultimo assoluto a
misura d’uomo che l’Occidente
riesce a concepire è una specie di
divinità che orienta la nostra vita
senza riferimento ad una forza
trascendente.
L’amore
inteso
come vita insieme di un uomo e di
una donna, unità spirituale forte,
è proprio l’espressione di una
visione che supera l’istante e che
l’uomo ipotizza che possa durare
per sempre. Nel momento in cui
un uomo e una donna si sposano e
si promettono affetto e cura reciproca per sempre, se lo fanno in
modo sincero e autentico, in quel
momento sperimentano una dimensione temporale lunga e una forma
di assoluto.
I figli. Io come padre posso fare
un esempio: i figli, se pensati sul
15
Cultura
metro del giorno dopo giorno,
possono essere qualcosa di infernale. È capitato a molti di avere
bambini piccoli che per lunghi
periodi, anche più di un anno,
dormono molto poco la notte e
tengono svegli i genitori. Tredici
mesi senza dormire, vissuti nel
tempo della cronaca, ti portano
al suicidio. Forse anche questa è
la ragione per cui si fanno pochi
figli, perché li pensiamo dentro la
cronaca quotidiana. I figli vanno
concepiti nel tempo lungo della
storia, nel quale non sei il primo,
non sei l’ultimo, sei dentro una
serie lunghissima. Avere dei figli
dischiude un altro tempo. I figli
hanno un senso, anzi sono il senso
della vita, se tu li vivi dentro questo
tempo profondo, dentro un orizzonte che trascende la tua esistenza
e al cui interno non sei solo. A
questo punto sentiamo come di
essere porosi, di essere attraversati
dal tempo della storia.
Nel Seicento un grande pedagogista, Johannes Clauberg, nella Logica
vetus et nova, seppe sintetizzare il
compito della generazione adulta in
tre semplici domande: Quid tradere?
Cui tradere? Quomodo tradere? Però,
in quel tempo, sapevano rispondere
alla prima domanda: dove si trova
il sapere? Nella mente dei saggi, nei
rotoli e nelle pergamene, nei libri.
Oggi? Oggi il sapere si è diffuso e
oggettivato nella Rete, in Internet. E noi adulti ci siamo lasciati
sorprendere dalla novità, dall’arrivo di questa contemporaneità
mediatica globale. Alcuni dicono:
il sapere è diffuso nei media, ognuno
se lo prende per proprio conto. Non è
così, non funziona così. Il cambiamento c’è stato, è enorme, tutto
è da rifare, tutto va inventato di
nuovo, ma dobbiamo avere il coraggio e la forza di farlo! Se noi adulti
non trasmettiamo l’eredità le nuove
generazioni corrono il rischio di
invecchiare senza diventare adulte.
La metafora che ci può illuminare
è quella della staffetta, il passaggio
del testimone. Il testimone è l’eredità, quello che noi lasciamo alla
nuova generazione affinché possa
cominciare la sua corsa. La generazione che accoglie matura
un debito nei confronti di chi
consegna il testimone e lo manifesta con la responsabilità. Infatti
L’attrice Maria De Medeiros nei panni di Eleonora De Fonseca Pimentel nel film Il resto di niente per la regia di
Antonietta De Lillo, presentato alla mostra di Venezia
l’eredità ricevuta va rivitalizzata nella
corsa responsabile verso il futuro. Il
modo in cui avviene la consegna e la
ricezione della responsabilità è fondamentale: se la nuova generazione non
accetta il passaggio del testimone,
rimane appunto “diseredata”: rimane
orba del passato e, priva della base di
partenza, che è la memoria. Si ritrova
incapace di andare verso il futuro.
Quando si eredita qualcosa di grande
valore, non bisogna dissiparlo, né
difenderlo in modo geloso ed egoistico,
ma, al contrario, sentire la responsabilità sociale che ne deriva e compiere
ogni sforzo per custodirlo, arricchirlo
e metterlo a disposizione delle nuove
generazioni.
Anche per quanto concerne la figura
di Eleonora Fonseca Pimentel e la straordinaria stagione della Rivoluzione
Napoletana del 1799, bisogna fare “un
buon uso della memoria”, evitando di
trasformarla in un elemento museale
che non susciti più un autentico interesse nelle persone. La straordinaria
stagione del 1799 a Napoli deve essere
una “memoria vivente”, una vera e
propria lezione politica che ci consenta
di porci, oggi, la domanda fondamentale che ancora ci deve interrogare:
“Come è stato possibile che in una Città
moderna e sviluppata, quale era la
Napoli uscita dalla stagione di Carlo di
Spagna, si sia potuto procedere allo sterminio crudele di tutta la classe dirigente?
Alla luce di quell’esperienza e di altre
tragedie simili, occorre sapere che
trasmettere in modo vitale la memoria deve significare per tutti noi, in
particolare per coloro che operano nel
campo dell’educazione, essere persone
capaci di impegnarsi nel contesto
culturale, politico e civile per aiutare
le nuove generazioni a recuperare
la profondità dell’anima, reagendo
all’opaco presente, alla mitizzazione
del mercato, al trionfo delle merci al
posto dei significati.
La memoria è uno strabiliante strumento dell’anima, che ci mette in
comunicazione con ciò che è vicino e
con ciò che è lontano. Essa ci ripete che
quello che è stato non è perduto, sta
dentro di noi, possiamo vederlo, comunicare con esso. Dobbiamo ripetere
sempre le ultime parole di Eleonora:
“Forsan et haec olim meminisse juvabit”. Coloro che credono, trovano nei
ricordi un rinforzo alle loro convinzioni; ma per coloro che nascono in
un contesto laico la memoria è forse
l’unica via per sentire che la nostra
esistenza non è una esperienza frammentaria, destinata a svanire. Portiamo
tutti dentro di noi il nostro passato,
interi mondi passati, e transitiamo,
attraverso la memoria degli altri,
dentro altri universi e mondi: “Siamo
frammenti di storia, ma attraverso la
memoria possiamo contagiare il futuro.
È la nostra forma di immortalità!”
Le Date della storia
16
segue da pag. 1
Mafia e Alleati uniti in Sicilia
dimostrato. In realtà la mafia, insieme
alla massoneria, alla monarchia e a una
parte importante dell’establishment militare, soprattutto della Regia Marina, fu un
elemento importante, se non essenziale,
nei piani alleati per preparare la fine del
fascismo e della partecipazione dell’Italia
alla guerra a fianco della Germania nazista. La diffidenza da parte degli Alleati
nei confronti dell’antifascismo popolare
e democratico ha gravato la nostra democrazia di una pesante ipoteca che dura
ancora oggi.
Tutto ebbe inizio in una grigia giornata di febbraio del 1942, nel porto di
New York. Quel giorno, esattamente il
9 del mese, uno dei più grandi transatlantici destinati al trasporto truppe, il
Lafayette, si incendiò all’improvviso,
capovolgendosi e mandando così letteralmente in fumo mesi di lavoro e centinaia di migliaia di dollari, necessari per
trasformare il transatlantico di lusso
Normandie, nella nave da trasporto
Lafayette. Subito si materializzò lo
spettro del sabotaggio nemico; ad appena due mesi da Pearl Harbor gli Stati
Uniti non avevano ancora assorbito il
trauma del giorno dell’infamia; tanto
più che le potenze dell’Asse sembravano invincibili ovunque. Si scatenò
la caccia ai sabotatori, veri o presunti,
nazisti e giapponesi, annidati tra le
banchine dei porti statunitensi; del
resto ben 71 mercantili alleati erano
stati affondati tra la metà di dicembre
1941 e la fine di febbraio 1942 dagli
U-Boot tedeschi, appena fuori dalla
rada di New York. Ancora l’Oss (Office
of Strategie Service, predecessore della
Cia) non era pienamente operativo per
cui spettò al servizio di informazione
della Marina sbrogliare la matassa
degli agenti nemici. A questo punto gli
ambienti investigativi della Marina
decisero di ricorrere a quello che veniva
considerato il re del porto di New York,
il capo di Cosa Nostra, Lucky Luciano.
Vero è che quest’ultimo languiva da
circa sei anni nella prigione federale di
Dannemora, ma la sua presa sulla città
era ben salda attraverso l’azione dei suoi
luogotenenti. In particolare il porto era
gestito dai temibili fratelli Anastasia,
Albert, il capo riconosciuto, Anthony
e Joseph. L’iniziativa di avviare i contatti con Cosa Nostra per dare la caccia
agli agenti tedeschi nel territorio degli
Stati Uniti fu assunta dal capitano di
corvetta Charles Radcliffe Haffenden,
responsabile della sezione investigativa
dell’ufficio informativo, denominata B-3,
del terzo distretto del Naval Intelligence.
Haffenden, un uomo d’affari cinquantenne, era rientrato nel servizio in
Marina nell’estate del 1940; l’entrata
in guerra degli Stati Uniti fu la grande
occasione della sua vita per dimostrare
le sue qualità di agente segreto e la sua
passione per l’intrigo. In ciò, bisogna riconoscerlo, le aspettative non andarono
deluse. La svolta epocale si ebbe alle
11.00 del 7 Marzo 1942; quel giorno
due dirigenti del Naval Intelligence
misero piede nella procura di New
York, accolti dal nuovo procuratore,
Frank S. Hogan, eletto a gennaio.
Tramite Hogan fu stabilito un contatto con
Giuseppe Lanza, detto Joe Socks (calzini),
commerciante di pesce nel mercato
di Fulton e dirigente del sindacato
United Seafood Workers Union, controllato dal capo mafioso Anthony
Anastasia, a sua volta luogotenente
di Lucky Luciano. Le riunioni tra i
funzionari del Naval Intelligence,
Haffenden e il suo diretto superiore,
capitano di fregata Howe, e i mafiosi
Lanza, con il suo aiutante Benjamin
Espy, si svolsero nell’ufficio privato
che Haffenden teneva nell’ammezzato dell’Aston Hotel di Broadway
sulla Quarantaquattresima Ovest
e nella sede del Naval Intelligence
in Chunch Street. Militari e mafiosi
si accordarono nel permettere agli
agenti dell’intelligence della marina di
controllare, senza alcuna limitazione e
con la protezione di Cosa Nostra, tutti
i porti e i pescherecci, tutte le botteghe
per sapere se erano avvenuti acquisti
straordinari di viveri o carburante,
insomma tutto ciò che poteva risultare
sospetto o, comunque, interessante
per la sicurezza nazionale, sulla terraferma o nel mare aperto lungo l’intera
costa atlantica degli Stati Uniti. È a quel
periodo che risalgono i contatti di
Lucky Luciano, nel frattempo trasferito al comodo penitenziario di Great
Meadow a Cromstock, nei pressi di
Albany, con Haffenden, Hogan ed
il suo vice Murray I Gurfein. I contatti
erano tenuti dall’avvocato di Luciano,
Moses Polakoff, ebreo di ascendenze
russe, il quale coinvolse nelle trattative
con Luciano, un altro suo cliente di
riguardo, Meyer Lansky, a sua volta
in stretto contatto con un altro suo
legale di fiducia Allen Dulles, il
quale aveva abbandonato la professione legale per dedicarsi all’Oss.
Nelle trattative era coinvolto pure
Charles Poletti, avvocato di origini piemontesi, governatore dello
stato di New York, di cui è capitale
Albany, il quale avrebbe avuto un
ruolo fondamentale nel governo
alleato dell’Italia (Amgot) dopo lo
sbarco in Sicilia.
I rapporti tra Cosa Nostra e servizi
segreti alleati, in modo particolare
l’Oss, ormai pienamente efficiente e
operativo, si intensificarono con l’approssimarsi dello sbarco in Sicilia, deciso
alla conferenza di Casablanca nel gennaio 1943. Ancora una volta i primi
a muoversi furono gli spioni della
Marina, in particolare Haffenden
Le Date della storia
e il suo superiore capitano McFall.
Mettendo a frutto i precedenti contatti
stabiliti con gli ambienti dell’emigrazione siciliana, gli uomini di
Haffenden e quelli della Sezione B-7
del Naval Intelligence, incaricata
fino ad allora di catalogare e analizzare quanto pubblicato dai fascisti
e dai nazisti giudicato di rilevante
interesse strategico, riuscirono ad
avere una dettagliata descrizione
dei luoghi dove sarebbe avvenuto
lo sbarco. Inoltre, attraverso gli
ambienti mafiosi, furono stabiliti
contatti con quanti erano rientrati
nell’isola poco prima della guerra,
molti dei quali, avendo conti da
regolare con la giustizia americana
e avendo lasciato negli Stati Uniti
parenti e persone care, erano facilmente indotti a collaborare.
In breve fu messa in piedi una
rete informativa di prim’ordine,
con la decisiva collaborazione di due
dei più preziosi collaboratori di Lucky
Luciano, Meyer Larsky e, soprattutto,
Joe Adonis. Spettò a quest’ultimo
il compito di reclutare personaggi
influenti che avevano mantenuto
contatti ed amicizie importanti in
Sicilia. Al riguardo è interessante la
testimonianza dello stesso Larsky, resa
davanti alla commissione Herlands del
1954, incaricata d’indagare sui rapporti
tra la Marina e la mafia, riportata
nel bel libro di Alfio Caruso Arrivano
i nostri (Longanesi, Milano, 2004,
pag. 104). «Mi risultava», testimoniò
Larsky, «l’esistenza di certe persone
fuggite dall Italia a causa della loro
appartenenza alla massoneria e, tra
esse, di un tale che era stato sindaco
di una delle maggiori città siciliane. I
contatti con lui furono presi da quei
signori che si recavano a visitare
Charlie Luciano, i quali gli chiesero di prestare la propria opera.
L’ex sindaco si dichiarò ben lieto e
disposto a reclutare anche altri. Un
ruolo importante fu pure ricoperto
da Vincent Mangano, capobastone
originario di Bagheria, il quale,
nell’organizzazione di Cosa Nostra
aveva preso il posto di Joe Socks
Lanza, condannato, a fine Gennaio
’43, a 7 anni di galera. Mangano era
il boss dell’importazione e dell’esportazione, tra gli Stati Uniti e
l’Italia, dei più svariati prodotti
alimentari, ma controllava pure il traffico di droga ed informazioni.
Nell’inverno 1942-43, l’Oss e il Naval
Intelligence, ossia William Donovan,
capo del primo, e Charles Radcliffe
Haffenden, eminenza grigia del secondo, avevano tutto pronto per appoggiare lo sbarco in Sicilia; tre esponenti di
rilievo dell’Oss, Vincent Scamporino,
Victor Anfuso e Max Corvo si installarono al Club des Pins di Algeri. Il
responsabile della parte operativa,
Max Corvo con la sua squadra, prese
a fare avanti e indietro tra Algeri e la
Sicilia, dapprima a bordo di sottomarini, poi su pescherecci siciliani, confondendosi con gli equipaggi, grazie alla
complicità di Cosa Nostra. In breve
l’infiltrazione degli agenti dell’Oss e
del Naval Intelligence coprì l’intero
territorio siciliano. Come scrive Alfio
Caruso, alla ricerca d’informazioni sui
campi minati, sulle sedi dei comandi,
sulla combinazione delle casseforti
dov’erano custoditi i piani militari, sulla
dotazione di mezzi pesanti, sulla dislocazione di piste d’aviazione e dei reparti
corazzati, si accompagnava la diffusione
di notizie sulla potenza bellica degli
americani e contemporaneamente sulla
loro ricchezza. Nell’imminenza dello
sbarco si ha notizia di due viaggi,
compiuti da personaggi eccellenti in
Sicilia; uno è quello del colonnello
inglese Hancock, inviato in Sicilia per
definire gli obiettivi militari affidati
al gruppo di separatisti capeggiato
da Antonio Canepa. Hancock venne
depositato da un sottomarino il 16
Aprile su una spiaggia vicino Gela. Qui
venne preso in consegna da un gruppo
di mafiosi e accompagnato nella villa
17
dell’ex deputato Verderame, esponente
di spicco del movimento separatista.
Dalla villa di Verderame, sempre con la
protezione di Cosa Nostra, Hancock fu
accompagnato a Palermo, in un palazzo
di via Mariano Stabile, dove aveva lo studio l’avvocato Antonio Ramirez. L’altro
viaggio fu compiuto da futuro responsabile dell’Amgot, tenente colonnello
Charles Poletti. Sebbene smentito dal
diretto interessato, il viaggio è stato confermato, fra gli altri, dall’arcivescovo di
Monreale, Ernesto Filippi, secondo alcuni
affiliato alla mafia, ma ritenuto dall’Oss
un amico fidato. Il buon esito delle due
missioni, effettuate poche settimane
prima dello sbarco in Sicilia, convinse definitivamente i vertici alleati che i siciliani
avrebbero collaborato volentieri, senza
frapporre alcun ostacolo. La mafia ebbe
così un ruolo di primo piano nella
riuscita dell’operazione Husky, ma
resta il seguente interrogativo: non era
possibile cogliere lo stesso successo,
ricorrendo agli antifascisti esiliati negli Stati Uniti, con molti dei quali l’Oss
era in contatto, piuttosto che avvalersi
dell’aiuto di criminali? Tale scelta è da
attribuire a un errore di valutazione
da parte dei servizi d’informazione
alleati o è il frutto di un piano ben preciso per impedire che l’antifascismo
di sinistra, del quale gli Alleati non
si fidavano, potesse assumere il controllo della Sicilia liberata? Quello che
è certo, comunque, come le vicende
successive purtroppo dimostreranno,
è il rafforzamento del potere mafioso
in tutta l’isola, una gravosa ipoteca che
condizionerà la storia della Sicilia fino
ai nostri giorni.
18
Cultura
I boss protagonisti al botteghino
Da Rosi a Giordana, quando il cinema d’impegno civile racconta la mafia
di Claudio Longhitano
I
l rapporto cinema-mafia nei confronti
della Sicilia è sempre stato un rapporto
di odio-amore, quasi un conflitto nel
quale uno dei due contendenti (il cinema
metaforicamente parlando) ha inseguito
a lungo l’altro, ha cercato di agguantarlo
e fotografarlo, ispezionarlo nei suoi più
profondi anfratti socio-culturali, servendosi
di tutti i mezzi che la tecnica, le situazioni
storiche e – perché no? – anche l’impegno
civile degli autori gli hanno fornito. Ci è
riuscito? La risposta non può, per forza
di cose, essere categorica. Ci è riuscito sì,
a indagare il fenomeno mafioso, ma solo
parzialmente; ha messo in luce alcune zone,
ma ne ha anche lasciato parecchie in ombra.
In queste nostre riflessioni cercheremo di
capire perché.
Cronologicamente parlando, il punto di
partenza “nobile”, l’approccio del cinema
alla mafia è quell’irripetibile affresco
storico-politico intitolato Salvatore Giuliano
di Francesco Rosi. In questo film, uscito nel
1962 dopo una genesi travagliata, si affronta
la figura del celebre bandito, la sua vita e la
sua morte, entrambe così discusse. Ma l’opera, a un certo punto, cessa di essere un film
su Salvatore Giuliano, per divenire un film
con Salvatore Giuliano, ossia il personaggio
viene posto in secondo piano per far balzare
all’attenzione dello spettatore quella che era
la situazione nell’immediato dopoguerra,
una Sicilia agitata da moti separatisti, da
congiure politiche, da prepotenze mafiose e
dal suo eterno male: la miseria. Non segue
un filo cronologico tradizionale, ma presenta i caratteri dell’inchiesta di taglio giornalistico, senza mai prendere posizione,
ma lasciando libero lo spettatore di farsi
una sua idea. Il film, come abbiamo detto,
fu molto osteggiato. Dapprima dalla mafia,
tanto che per tutta la durata delle riprese in
Sicilia fu necessario celare la trama e il vero
titolo, assumendo quello fittizio e innocuo
di Sicilia 1945 (sarebbe stato inopportuno,
per esempio, andare a girare nel paese di
Montelepre un film che parlasse del bandito Giuliano, che del posto era originario,
e ove nel 1962 ancora dimoravano, temuti,
molti dei protagonisti di quelle vicende). Poi
dall’Arma dei Carabinieri. Nel film si vede il
capitano Antonio Perenze sparare sul cadavere di Giuliano, ucciso pochi minuti prima
dal cugino Gaspare Pisciotta e orchestrare
la famosa messinscena nel cortile di casa De
Maria. Infine dal potere politico per mezzo
degli organi di censura. Nonostante ciò, il
film segna l’inizio del cinema d’impegno
civile e apre il filone dei film di mafia.
Nel 1967 esce A ciascuno il suo di Elio
Petri, dal romanzo di Leonardo Sciascia,
primo tentativo di questo regista di affrontare il discorso sui rapporti intercorrenti
tra politica e mafia. Si tratta di una storia di
fantasia, nella quale, però, si gettano i germi
di quello che sarà in futuro il comportamento della maggior parte degli autori di
cinema nell’affrontare il tema della mafia:
partire da una trama fittizia, rispettosa dei
canoni del film giallo o d’azione (e perché
no, anche del botteghino) per denunciare
una certa mentalità, un certo costume. Ma è
l’anno seguente che vede l’uscita di uno dei
film di mafia più famosi e l’affermarsi di un
regista che, assieme a Rosi, rappresenterà
un punto di riferimento nel cinema cosiddetto d’impegno, è Il giorno della civetta di
Damiano Damiani, anch’esso con un romanzo di Sciascia alle spalle. Qui il discorso
iniziato da Petri viene ripreso e ampliato.
Descrivendo la lotta che il capitano dei
carabinieri Bellodi conduce per incriminare il boss don Mariano, il regista
affronta il problema della mafia in termini più decisi, categorici, puntando
il dito sui rapporti col potere politico.
Emblematica, infatti, è la scena in cui
don Mariano, accortosi di essere pedinato da Bellodi, entra ostentatamente
nella sezione della Dc del paese. Il boss
vuole lanciare un chiaro messaggio circa
le protezioni ad alto livello di cui gode,
protezioni che, puntualmente, porteranno lui a essere scagionato e Bellodi a
essere trasferito. Un altro aspetto forse
tralasciato dalla critica dell’epoca è
rappresentato dal fatto che nel romanzo
Bellodi è un ex partigiano e la vittima
del delitto di mafia attorno a cui ruota
la vicenda è un imprenditore edile, condannato durante il ventennio al confino
per antifascismo, che non aveva voluto
sottomettersi ai ricatti di don Mariano
e pagare il pizzo. Risulta stimolante, a
parere di chi scrive, il sottotesto della
trama: Sciascia vuole ingenerare nel
lettore la consapevolezza che i comportamenti “etici” di entrambi (Bellodi che
vuole giustizia senza guardare in faccia
nessuno e la vittima che è morta per
ribadire la propria dignità di cittadino
di fronte alla sopraffazione) sono il
frutto della particolare coscienza civile
e democratica maturata da entrambi durante la dittatura fascista, in contrasto
con l’ambiente siciliano che li circonda,
che non ha vissuto le stagioni dell’antifascismo e della Resistenza quali mo-
menti fondanti di un nuovo vivere civile.
Bellodi si muove in un ambiente ove
acquiescenza al potere dominante ed
atavica rassegnazione sembrano essere
i caratteri con cui gli individui vengono
forgiati dalla nascita.
Il decennio si chiude, così, in maniera egregia. Sono ancora scarsi quei
19
Cultura
condizionamenti da parte dei produttori, preoccupati più degli incassi che
delle tematiche, e da parte di un certo
potere politico infastidito, che si faranno
invece sentire dei decenni successivi. Gli
autori di cinema più sensibili vedono
ancora la mafia con lucidità e anche con
una certa serietà di intenti, immune da
pregiudizi iconograficamente razzisti,
nell’eterno dualismo nord-sud.
Nel 1973 esce un altro film inchiesta
di Rosi. Si tratta di Lucky Luciano, attenta ricostruzione del fenomeno del
commercio della droga tra Italia e Stati
Uniti, che però non raggiunge il livello
di Salvatore Giuliano. Anche qui Rosi subisce condizionamenti dalla produzione
ed è costretto a ricevere solo la metà del
compenso pattuito pur di completare
l’opera. Comunque con Lucky Luciano
si chiude l’epoca dei grandi film di denuncia sui fatti di cronaca più clamorosi.
Vuoi per il sopraggiungere della crisi
del cinema negli anni Ottanta, vuoi per
i continui attacchi che subiscono sia
lui che gli sceneggiatori (pochi) che
seguono il suo filone, fatto sta che la produzione del cinema d’impegno viene incanalata verso binari “innocui” e quindi
più facilmente controllabili. Si preferisce perciò ritornare alla vecchia formula
degli anni ‘60, molto più redditizia per
il botteghino e di certo meno compromettente per i produttori. Nel 1975 esce
il deludente tentativo di Luigi Zampa
di portare sullo schermo il romanzo di
Giuseppe Fava (giornalista catanese ucciso a Catania dalla mafia negli anni ’80)
dal titolo Gente di rispetto, un film per
niente incisivo dal punto di vista dell’
indagine sociologica.
È con Damiani che si hanno invece
le prove migliori, sia pure temperate da
una strizzata d’occhio al botteghino.
Questo regista dall’impronta neorealista
realizza dagli anni ’70 agli anni ‘80 tutta una
serie di opere che hanno come comune denominatore l’analisi del fenomeno mafioso
visto sotto varie angolature: Confessioni
di un commissario di polizia al procuratore
della Repubblica, Perché si uccide un magistrato, Un uomo in ginocchio, Pizza connection. Nel 1984 Giuseppe Ferrara realizza
l’ottimo Cento giorni a Palermo, accurata
ricostruzione della breve permanenza del
prefetto Dalla Chiesa nel capoluogo isolano.
Il film è prodotto in forma cooperativistica
e col contributo della Regione Siciliana
(bontà sua), ma non vuole andare al di là
della semplice ricostruzione cronachistica,
non prende posizione contro certe forze politiche, snatura il senso per cui lo si è voluto
fare.
È grosso modo a partire dalla fine degli
anni ‘90 che compare una generazione di
giovani cineasti e sceneggiatori che riesce
ad affrancarsi da certi condizionamenti
del potere politico (non a caso ci troviamo
nell’epoca post Dc) e che, grazie anche (o
soprattutto) ai proficui riscontri dei botteghini, realizza alcune opere sulla mafia
veramente pregevoli.
Placido Rizzotto è un film uscito nel 2000
con la regia di Pasquale Scimeca (che nel
1995 aveva diretto Paolo Borsellino), che
racconta, con accuratezza storica e passione civile, la vita e l’impegno politico del
sindacalista Placido Rizzotto, segretario
della Camera del Lavoro di Corleone ed ex
partigiano, rapito ed assassinato da sicari di
Luciano Liggio il 10 marzo 1948. Come ha
dichiarato il regista, la storia di Rizzotto,
che viene ucciso perché la sua lotta diventa
una minaccia per chi detiene il potere, si
svolge in Sicilia, ma parla un linguaggio
universale.
I cento passi del 2000, di Marco Tullio
Giordana, è forse uno dei film più significativi di questo decennio sulla mafia. Racconta
la vita di Peppino Impastato, militante di
Democrazia Proletaria di Cinisi, ucciso dal
boss Tano Badalamenti il 9 maggio 1978, lo
stesso giorno della scoperta del cadavere di
Aldo Moro. Nel 2003 esce Segreti di Stato
di Paolo Benvenuti, sulla strage di Portella
della Ginestra del 1947, ove, anche qui con
accuratezza storica, si analizza questo episodio quale frutto della “strategia della tensione” volta a intimidire le sinistre. Con il
documentario La mafia è bianca del 2005 di
Stefano Maria Bianchi e Alberto Nerazzini
(film poco distribuito e poco conosciuto) si
analizza l’ambito della sanità in Sicilia e i
rapporti tra mafia e politica. Nel XXI secolo
si fa strada, sia pure con le dovute eccezioni
sopra menzionate, un nuovo modo di intendere il cinema di mafia, in cui una tenue denuncia di fondo diviene sovente il pretesto
per imbastire storie in cui si preferisce dare
spazio agli aspetti umani, sentimentali ed
emotivi, piuttosto che all’impegno sociale
che caratterizza, ad esempio, i film di Rosi,
stante anche l’influenza deleteria esercitata
sul cinema da una miriade inarrestabile di
trasmissioni televisive che fanno presa su
un pubblico di poche pretese ma fanno vendere il prodotto (non dimentichiamo che è
questa l’epoca in cui la fanno da padrone le
soap operas).
Siamo, quindi, al nocciolo conclusivo della
questione: il cinema è un grande mezzo di
denuncia e di impegno civile e nella lotta
contro la mafia ha sì dato il suo contributo,
ma non ha avuto la forza, alla lunga, di
sottrarsi a quei condizionamenti di ordine
politico e (soprattutto) commerciale che
sono alla base della sua stessa esistenza, soprattutto quando si sofferma su quella che
è una delle realtà più complesse e torbide
della nostra società, ossia la realtà siciliana.
20
Memorie
Così devoti, così fascisti
Tre cappellani militari sardi ferventi adepti della RSI
di Lorenzo Di Biase
L
’argomento è poco noto e però ci restituisce una
fotografia più completa di quella che fu la Repubblica
Sociale Italiana. A Salò finirono per convinzione,
convenienza o magari per coartazione anche sacerdoti, con
il ruolo di cappellani militari. Per la precisione furono 483,
dei quali 57 di prima nomina, i restanti provenienti dal
Regio esercito. I sacerdoti vennero chiamati a scegliere se
aderire o non alla chiamata proveniente da Sua Eccellenza
Reverendissima Monsignor Angelo Bartolomasi per costituire le fila dei cappellani militari operanti nel settentrione
d’Italia. In tanti evitarono l’arruolamento nelle formazioni
fasciste, ma altrettanti ripresero servizio per rispetto delle
direttive impartite dall’Ordinariato militare, volte ad assicurare la continuità del servizio di assistenza spirituale alle
Forze armate, con la speranza che la presenza dei sacerdoti
apportasse benefici influssi morali e influenze moderatrici,
oppure perché convinti della bontà della Repubblica Sociale
o perché intimamente fascisti; dunque operarono, con una
convivenza problematica, i cappellani militari fascisti, quelli
apolitici e gli antifascisti. Tra i tanti ve ne erano tre sardi,
profondamente filo mussoliniani.
Padre Luciano Usai missionario Saveriano, cappellano
militare pluridecorato
Nacque a San Gavino Monreale, in provincia di Cagliari, il
18 dicembre 1912 e morì a Jundiaì do Sul l’11 settembre 1981,
mentre celebrava messa. Diventò sacerdote nel maggio del
1939 e partì subito dopo alla volta della Libia, come cappellano dei lavoratori. Con lo scoppio della guerra diventò
cappellano militare, operando prima nel 31° Battaglione
Guastatori d’Africa e poi nel Genio Alpino, dal 1942 al 1945.
Dall’esercito italiano venne insignito con una medaglia d’argento, due di bronzo e una Croce al valore militare. Inoltre
dall’esercito tedesco fu decorato con una Croce di ferro e
con una medaglia all’Ordine dei Panzer. Dopo l’8 settembre 1943 egli si trovava a Civitavecchia, ove si adoperava per
dare un tetto ai militari sardi che lì arrivavano con l’intento
di imbarcarsi per la Sardegna. Aderì da subito alla Repubblica Sociale di Salò, grazie al diretto interessamento
del sottosegretario Francesco Maria Barracu, suo conterraneo ed estimatore, che gli affidò mansioni di estrema
delicatezza, come la creazione di una rete clandestina fascista alle spalle dell’anglo americano. Nel giugno del 1944 si
fece paracadutare, assieme ad altri sardi, da un aereo nazista in Sardegna, in località Is Arutas, nei pressi del comune
di Cabras. L’operazione fallì e tutti gli agenti vennero arrestati. Per nove mesi Padre Usai fu rinchiuso nelle carceri di
Oristano, in attesa del processo che iniziò il 3 febbraio 1945
presso il Tribunale Militare Territoriale della Sardegna.
Tutti gli imputati furono chiamati a rispondere di diversi
reati, quali alto tradimento, spionaggio militare, arruolamento illecito di guerra, istigazione alla corruzione. Il 16
marzo del 1945 arrivò la sentenza: tutti assolti, tranne Padre
Luciano Usai (per il quale il Pubblico Ministero aveva chiesto la condanna a morte) condannato a 30 anni di carcere da
scontare nel penitenziario di Alghero. Fu poi trasferito nel
carcere romano di Forte Boccea e in seguito all’amnistia di
Togliatti tornò libero nel 1946. Rientrò nella natia San
Gavino, ove inizialmente non fu ben accolto neanche
dall’anziano decano che reggeva la parrocchia di Santa
Chiara, per poi spostarsi a Tortolì. Lì si impegnò per la
fondazione delle Missioni Saveriane, ma nelle elezioni
politiche generali del 1948 celebrò una messa in suffragio
di tutti i caduti per la quale cadde in disgrazia e così nel
1950 partì missionario verso il Brasile. Lì, nella parrocchia di Cerro Azul, costruì un istituto capace di ospitare un
centinaio di ragazzi bisognosi di assistenza, ma finì i suoi
giorni a Jundiaì do Sul, poverissimo e sperduto villaggio a
70 chilometri da Jacarezinho .
Don Antonio Maria Ledda cappellano della Legione M
Nacque a Sindia, in provincia di Nuoro, l’8 gennaio
1908; dal 1937 fu inserito nei quadri della milizia fascista come Capo Manipolo della 195° Legione d’Assalto.
Durante la guerra partecipò alla campagna di Russia e
dopo l’8 settembre aderì spontaneamente alla neonata
Repubblica Sociale Italiana di Salò con l’incarico di
cappellano della Legione M, addetto alla Guardia del
duce, nonché responsabile dell’assistenza spirituale
alla GNR, Guardia Nazionale Repubblicana di Brescia.
Invano il cappellano militare responsabile per la zona
di Brescia, Monsignor Angelo Barcellandi, cercò di farlo
rimuovere dal suo incarico, scrivendo in un rapporto:
«Nel reparto delle camicie nere che c’è a Salò opera don
Antonio Maria Ledda che nella predicazione ai soldati
non parla di Vangelo e di dottrina, ma di politica. Inoltre tiene una condotta immorale; anche gli stessi fascisti
non lo stimano perché è sacerdote sfasato». In seguito,
nell’estate del 1944, diventò Ispettore generale dei
cappellani militari della GNR. Nel suo primo intervento nella nuova veste enunciò i punti programmatici
del suo ministero: «Confratelli sacerdoti in grigio verde,
ciascuno di voi deve essere un monumento vivente. Avete
un’arma, il Crocefisso. Avete un mezzo, la parola. Parlate. La
Memorie
propaganda nemica ha sgretolato il nostro fronte interno:
la propaganda deve rinsaldarlo. Voi dovete essere i vessilliferi. Predicate il verbo di Dio, predicate il verbo della
patria. Dio è patria è il vostro programma. Chi non ama
la patria non ama Dio. Oggi si combatte una guerra santa
contro i nemici della religione e della Civiltà. La guerra
è santa e Dio è con noi. È una crociata la nostra. Dio lo
vuole, la patria lo esige». Don Ledda scriveva nei giornali,
era un convinto assertore dei valori positivi della guerra:
«Il sangue ci lava, ci riscatta, ci incita, ci inebria». I suoi
discorsi spesso venivano riportati da Crociata italica,
mentre alla radio si alternava con Francesco Maria
Barracu, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei
Ministri della RSI, nelle trasmissioni dirette ai sardi. Alla
fine del conflitto venne epurato dalla Commissione per
l’epurazione contro il fascismo, poi emigrò in Venezuela.
Don Giovanni Antonio Ciceri cappellano militare della
Legione delle Camicie Nere
Nacque a Tempio Pausania, in provincia di Sassari, il 27
dicembre 1912. Don Giovanni Antonio Ciceri, già cappellano militare della MVSN, fu assegnato su sua domanda
alla 177esima Legione Camicie Nere nel gennaio 1941, per
poi essere trasferito alla 152esima
Legione. Al momento dell’Armistizio
egli si trovava a Roma presso il Battaglione Complementi della MVSN
di Centocelle. Fortemente deluso
dall’arresto di Benito Mussolini,
chiese ai suoi superiori di dedicarsi all’insegnamento di italiano
e storia presso un seminario pontificio. Ma dopo la liberazione del
duce e la nascita della Repubblica Sociale Italiana abbandonò
l’insegnamento per tornare immediatamente ed entusiasticamente
sotto le bandiere fasciste a esercitare come cappellano militare
in divisa grigio verde. Egli aderì al
gruppo di Crociata Italica assieme
a diversi altri religiosi e si distinse
da subito per la qualità dei suoi
interventi di chiara matrice fascista e per l’elevato numero dei suoi
articoli a favore del regime che
poco o nulla trattavano di tematiche care alla Chiesa. Proprio per
questo suo essere fortemente politicizzato egli è inviso alle gerarchie
ecclesiastiche, tanto che il cappellano provinciale della zona di
Brescia, Mons. Angelo Barcellandi,
propose alla 2° Sezione la sua rimozione in quanto «non riconosce il
cappellano capo; veste impenitentemente la divisa grigio verde, non
rispetta le vigenti disposizioni
per la divisa talare, tiene condotta
immorale, non recita l’ufficio».
Nonostante il giudizio negativo, don
Ciceri rimase al suo posto. Nella sua
attività di pubblicista a favore della testata Crociata Italica
così commentava l’esecuzione di Padre Giuseppe Morosini,
un cappellano militare che ebbe un ruolo attivo nella lotta
antifascista nella zona della Sabina: «Se i tedeschi hanno
agito così col fratello sacerdote, il fratello sacerdote non
deve aver sempre agito con l’insegnamento di Cristo. Infatti
quando il sacerdote ha fatto il sacerdote e non il partigiano,
quando si è servito della Chiesa e della parola nella Chiesa
non per alimentare odio, non per smarrire gli animi, non per
creare sbandamenti morali, non per impedire ai giovani di
presentarsi al servizio militare, ma per insegnare l’ordine, la
quiete, l’armonia e la disciplina, allora non solo non è stato
mai disturbato nel compimento del suo ministero, ma è stato
rispettato, onorato e favorito». Nell’estate del 1944 Don
Antonio Maria Ledda venne chiamato a ricoprire il ruolo
di Ispettore Generale dei cappellani della G.N.R., aprì un
ufficio a Salò, avvalendosi dell’assistenza di don Ciceri, sia
perché conterraneo sia perché cappellano militare di accesa
fede fascista.
Per questa sua attività più politica che religiosa don Giovanni
Antonio Ciceri al termine del secondo conflitto mondiale
venne epurato dagli organici dell’Ordinariato Militare. Invano
egli chiese il reintegro. Morì a Calangianus il 28 aprile 1995.
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Memorie
Quel maestro così svagato e così concreto
Ricordo di Aldo Garosci, scrittore, storico e direttore de l’Italia Socialista
di Giovanni Russo
A
vevo poco più di vent’anni
quando, negli ultimi mesi del
1947, ho conosciuto Aldo
Garosci. Appena laureato, ero arrivato
a Roma da Potenza, dove avevo partecipato con Carlo Levi, che era nella
lista di Alleanza Repubblicana del
Partito d’Azione, alla campagna elettorale per il Referendum sulla Repubblica e la Costituente del 1946. In
Largo Goldoni incontrai Levi in
compagnia di un signore alto, miope,
che indossava un cappotto di cui
ancora ricordo il colore, un blu elettrico. Uscivano dalla tipografia
Guadagno in vicolo del Grottino, dove
si stampava L’Italia socialista di cui
Garosci era il direttore, e che era
succeduta a L’Italia libera, il quotidiano
del Partito d’Azione che era stato
diretto da Carlo Levi. Garosci m’invitò
a scrivere un articolo sui contadini
lucani, che venne subito pubblicato.
Quando andai, il giorno dopo, a ritirare
alcune copie del giornale Garosci mi
propose con un sorriso di entrare nella
redazione.
Per quasi un anno, fino a quando
fu pubblicata L’Italia socialista, sono
stato oltre che un suo redattore un
suo allievo, che ne aveva condiviso
le idee e le battaglie politiche ancor
prima di conoscerlo e che era quindi
un po’ intimidito da una persona che
aveva ai suoi occhi il fascino del mito.
Quest’uomo dolce e molto benevolo
con i giovani era circondato dall’aureola di un passato glorioso. Avevo
visto una foto di lui che seguiva a
Parigi per primo il feretro dei fratelli
Rosselli, uccisi dai cagoulards assoldati dall’Ovra ad Alençon, reggendo
su un cuscino il cappello che Rosselli
portava nella guerra di Spagna. Noi
giovani che avevamo aderito al Partito
d’Azione poco dopo la fine del regime,
il 25 luglio del ’43, sapevamo che Garosci era stato uno dei protagonisti
della lotta antifascista fin da giovane,
quando aveva cominciato a fianco
di Carlo Levi, a Torino, a conoscere
le idee di Carlo Rosselli, il fondatore
di Giustizia e Libertà, e a diffondere
all’università il foglio clandestino Voci
di officina, ispirato al pensiero di Piero
Gobetti. Dopo la denuncia al Tribunale Speciale, fuggì in Francia, dove
rafforzò il suo
sodalizio
con
Carlo
Rosselli.
Con la sua aria di
intellettuale con
la testa, in apparenza, sempre un
po’ tra le nuvole,
egli era invece un
attivo militante
col nome di battaglia di Magrini,
capace di insospettati atti di
coraggio e di
eroismo. È stato
tra i primi volontari,
nell’estate
del 1936, della
Aldo Garosci (col bastone) tra Nicola Terracciano e Vittorio Cimiotta
colonna antifascista di Carlo Rosselli che prese parte recensione di Benedetto Croce,
alla guerra di Spagna con lo slogan che aveva conosciuto da ragazzo
“Oggi in Spagna domani in Italia”, e al suo paese natale, Meana di Susa
nella battaglia di Huesca venne ferito. in Piemonte, dove il filosofo si
Ha dedicato a quell’epoca uno dei recava in villeggiatura. Al pensiero
suoi libri più belli, Gli intellettuali e la del filosofo si è ispirata la sua vita
guerra di Spagna, dove si può capire il morale, come ricorda Leo Valiani,
ruolo degli intellettuali democratici che con lui è stato il testimone di un
e antifascisti nel dramma spagnolo. antifascismo democratico, che non
Dopo la sconfitta in Spagna e l’occupa- è venuto mai a patti non solo con il
zione tedesca della Francia si rifugiò fascismo ma anche col comunismo.
negli Stati Uniti, a New York, dove fu Anche i suoi saggi La storia della
uno degli animatori con Tarchiani, Francia moderna, e La storia dei
Cianca, Sforza, Salvemini, Max Ascoli fuoriusciti, pubblicati da Laterza,
della Mazzini Society. Al suo ritorno in sono stati influenzati dal pensiero
Italia, nel 1943, sbarcato con gli Alleati di Croce. Quanto alla sua carriera
in Sicilia, si fa lanciare col paracadute accademica, è stato professore di
da un aereo inglese sul Monte Gennaro Storia del Risorgimento prima a
per partecipare attivamente alla Resi- Torino e poi a Roma.
Mi ha sempre legato a lui l’afstenza.
Sono rimasto sempre profonda- fetto filiale, per i suoi tratti di
mente colpito dalla fusione che c’era grande umanità e gentilezza, di
in lui di passione politica e impe- generosità e di bontà e per gli insegno civile con i grandi interessi gnamenti che mi ha dato. Nella
culturali, da quelli di storico ( aveva redazione di Italia socialista
discusso la sua tesi di laurea su Jean esisteva un rapporto di amicizia al
Bodin e lo Stato moderno a Torino con quale partecipava la moglie di Aldo,
l’hegeliano Gioele Solari) a quelli per la Irene Numberg, anch’ella antifascistoria dell’arte nati nella sua frequen- sta militante. Ricordo, in un periodo
tazione con il grande storico dell’arte in cui egli fu gravemente ammalato
Lionello Venturi. Carlo Levi mi confi- al Policlinico, come amorevolmente
dava di prediligere, fra tutti, il saggio lo ha assistito .
che proprio Aldo Garosci aveva dediL’Italia socialista ospitò le caricato alla sua pittura.
cature politiche disegnate da Carlo
A New York aveva cominciato a scri- Levi, e gli articoli contro i “padroni
vere La vita di Carlo Rosselli, un libro del vapore” e gli “erpivori” (chi si
che nella critica ebbe un’entusiastica ingrassava sui fondi Erp, European
Memorie
recovery program, n.d.r.) di Ernesto Rossi, i primi racconti di Carlo
Cassola, le raffinate critiche di
Muzio Mazzocchi Alemanni, i
primi scritti di Riccardo Musatti,
che ne fu redattore capo, di Enzo
Forcella, Pier Luigi Sagona, Ugo
Martegani, Carlo Caracciolo, Lidia
Crocini, Stelio Martini, Domenico
Di Palma.
L’Italia socialista ha legato molti
di noi per tutta la vita: fu per molti
giovani una palestra straordinaria
proprio per merito di Aldo Garosci e del suo vice direttore Paolo
Vittorelli, e anticipò anche novità
tecniche che dovevano essere poi
adottate da Il Giorno di Gaetano
Baldacci e dalla Repubblica di Eugenio Scalfari, nella scelta dei brevi
editoriali, nei pezzi di costume e
nella polemica politica. Fu il giornale più vivace tra il ‘47 e il ‘49
insieme a Risorgimento liberale di
Mario Pannunzio. Di Pannunzio
Garosci doveva diventare strettissimo collaboratore ne Il Mondo , sul
quale ha scritto centinaia di articoli
di politica estera nella rubrica XX
Secolo, succedendo a Augusto Guerriero e Antonio Calvi e portando nei
commenti la sua esperienza internazionale e la sua grande cultura
storica. Nel Mondo, tra l’altro, ha
scritto a puntate quella Storia dei
fuorusciti italiani che è il documento principale per conoscere le
vicende del loro esilio.
Successivamente è stato collaboratore de Il Giornale di Indro
Montanelli di cui era garante
con Rosario Romeo e Renzo De
Felice. Nella vita politica fu molto
legato a Ignazio Silone e appoggiò la scissione di Saragat, avendo
avuto sempre come fine un socialismo democratico libero dalla
egemonia di un partito comunista
filosovietico. Per mantenere questa
sua posizione di indipendenza non
ha mai aspirato a cariche parlamentari e si è dedicato, pur mantenendo
sempre viva la sua passione politica,
agli studi storici.
Da lui ho appreso la diffidenza
verso ogni forma di fanatismo, la
sensibilità per i problemi sociali, ma
anche l’amore per la libertà e per la
giustizia.
Le vicende familiari raccontano la storia di un secolo, il Novecento
Rossi a Manhattan
Luglio 2010. Un fascicolo dell’Fbi arriva su una scrivania nel cuore di Roma.
Seduto alla scrivania c’è Eric Salerno e quel plico beige contiene la storia della sua
vita: i documenti riservati riguardanti Michele Salerno, giornalista italiano comunista cacciato dall’America dopo ventotto anni trascorsi a combattere capitalismo e
imperialismo. Quell’uomo era suo padre.
Eric ricostruisce, ricorda, annota e rilegge il passato. È il 1923 quando Michele lascia Castiglione Cosentino per gli Stati Uniti. Non tollera il regime fascista nascente
in Italia. Lui, comunista di famiglia cattolica, desidera un vivere intenso, dove la diversità di idee tra i popoli, le nazioni, sia elemento di incontro e non di conflitto. Ha
voglia di guardare avanti e ora è nel paese giusto per farlo.
Elizabeth Esbinsky, detta Betty, è poco più che una bambina quando viene portata
in salvo in America. Alle sue spalle Chojniki, cittadina oggi incastonata tra Belarus
e Ucraina, e una lunga scia di morte: le guardie bianche dello zar che combattevano
contro i rossi, i pogrom, la guerra civile, le lotte antisemite. Betty porta con sé la
coscienza ebraica e l’amore per la libertà di espressione. Michele e Betty si incontrano
a New York, si amano. Fanno delle loro singole lotte una lotta comune e assieme assistono alle azioni degli antifascisti in Italia, all’ascesa della dittatura del generale Franco in
Spagna, alla persecuzione dei comunisti americani durante la Guerra fredda. Sui giornali e
in piazza, l’impegno nella difesa dei diritti umani e civili è la loro motivazione esistenziale.
Eric Salerno racconta la storia della migrazione da un paese del Sud Italia, la lotta per sopravvivere nel Bronx, l’amore per una donna incontrata nel nuovo mondo, ma anche la caccia alle
streghe anticomunista; e il 23 novembre 1950, il giorno della deportazione in Italia, quando i
Servizi, che avevano bollato la lotta al capitalismo di Michele come un’attività di spionaggio,
ebbero la meglio.
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Memorie
Quando Cesare Polacco lavorava a Cinecittà sotto falso nome
Da Strehler alla Brillantina Linetti, la vita del celebre ‘Ispettore Rock’
di Fabiana Tacente
È
uno splendido pomeriggio assolato e sembra che il tempo si sia fermato tra le
vie del ghetto ebraico di Roma. Sono seduta al tavolo di un bar, in compagnia di
Eugenio Perugia, figlio di Lello Perugia, che fu deportato nel campo di concentramento di Auschwitz (è scomparso recentemente), della sua mamma Arduina, figlia
del celebre attore Cesare Polacco, e del pittore Georges de Canino, gran cultore di
memorie antifasciste. L’incontro nasce dalla voglia di scoprire qualcosa in più su
Cesare Polacco. Sì, proprio lui, il famoso testimonial della Brillantina Linetti. Voglio
sapere tutto sulla sua carriera prima della fama televisiva, sulle sue tribolazioni
dovute alle leggi razziali, durante il nazifascismo.
«Mio padre», inizia la signora Arduina, due splendidi occhi chiari e una classe
innata, «nacque il 14 maggio del 1900; veneziano di origine, era di estrazione alto
borghese. Il padre era gioielliere di corte e avevano un negozio importantissimo
a piazza S. Marco. Lui era il primo di otto figli e fu mandato a studiare in collegio
in Svizzera, l’unico beneficiato di questo privilegio. Purtroppo perse suo padre
molto presto e il negozio fallì».
A quanti anni iniziò la carriera di Cesare Polacco?
«Papà cominciò per gioco in un teatrino amatoriale dove vide lo spettacolo di
alcuni amici. Uno in particolare gli chiese se avesse apprezzato la sua performance; mio padre, senza peli sulla lingua rispose in veneziano: “Sei stato un
cane”. Fecero, allora, una scommessa: mio padre doveva imparare la stessa parte
in una settimana. Così a 19 anni finì sulle scene».
E quale fu l’esordio?
«Papà ha fatto tanto teatro dialettale: Cesco Baseggio, Carlo Goldoni, Giacinto
Gallina. Iniziò nel 1920, con la compagnia teatrale di Emilio Zago e nel gruppo
veneziano di Gianfranco Giachetti».
In che epoca vi siete trasferiti a Roma?
«Intorno al 1928; fu allora che iniziò a lavorare in teatro con Alda Borelli,
Virgilio Talli e Tatiana Pavlova.
Con quest’ultima, celebre attrice
ebrea russa, papà ha anche fatto
teatro yiddish, sempre in italiano,
però. Anche io ho recitato piccole
parti in questi spettacoli con la
Pavlova».
Divenne subito famoso?
«Quando ci trasferimmo a Roma,
un po’ alla volta, iniziammo a vedere
qualche soldo. Fino al 1935 c’è stata
la fame; anche la mia mamma era
un’attrice, si chiamava Eugenia Zorn,
purtroppo è morta prestissimo, a soli
37 anni. Poi papà ha iniziato con il
doppiaggio; ha fondato nel 1935, con
altri personaggi come Giulio Panicali
ed Emilio Cigoli, la CDC, la cooperativa doppiatori cinematografici; la
società risulta ufficialmente fondata dopo
la seconda guerra mondiale, ma tutti i
film con doppiaggio italiano, prima e
durante la guerra, le sono accreditati».
E l’esperienza cinematografica
e teatrale?
«Tra il 1935 ed il 1936 fece il suo
primo film da coprotagonista, Lo
squadrone bianco di Augusto Genina,
accanto a Guido Celano e Fosco
Giachetti. Nel 1950 interpretò il ruolo
di Mohammed nel film Totò sceicco di
Mario Mattoli. Dopo vari film, lavorò
al teatro Valle, dove è stato fisso
per molto tempo e poi con Salvini,
grande regista, nella compagnia
del Teatro Nazionale. Nelle locandine del teatro Valle, negli anni ’50,
insieme al suo, c’erano nomi come
Vivi Gioi, Vittorio Sanipoli e poi,
dopo, scritti in piccolo, una sfilza
di nomi tra cui Giorgio Albertazzi,
Vittorio Gassman. All’epoca papà
era prima di questi grandissimi
nomi del teatro! Dopo l’avventura
del teatro Valle, ha fatto vari film, ma
tutti poco importanti. Papà è stato
regista teatrale e il primo spettacolo da lui diretto fu la storia di Anna
Frank. Avevano preso gli attori dalla
scuola Polacco, era una compagnia
giovanile creata da lui, tutti ragazzi
sotto i 20 anni. Poi entrò al Piccolo
Teatro Stabile di Strehler e ci è rimasto per vent’anni. Infine arrivò la
pubblicità».
A proposito di pubblicità, la
televisione lo ha consacrato.
Memorie
«Nel 1957 l a brillantina Linetti lo rese famosissimo,
per quasi venti anni. Anche Papa Paolo VI, quando lo
incontrò, gli disse: “Non abbiamo mai sbagliato noi!”,
riferendosi al fatto che il Papa fosse infallibile. E poi
arrivò la televisione, con i suoi sceneggiati: nel 1967 ha
fatto il conte zio nello sceneggiato di Sandro Bolchi I
promessi sposi e la critica fu meravigliosa; poi fece I
fratelli Karamazov».
Ora facciamo un passo indietro e parliamo del
problema delle leggi razziali che penalizzarono le
professioni, dal 1938 fino al 1945. Poco prima dell’estate
del 1938, il ministero dell’Interno aveva trasformato
l’Ufficio demografico centrale in Direzione generale per la demografia e razza, più nota come
Demorazza, col compito di dirigere e coordinare
la politica antisemita. La Demorazza realizzò un
censimento di tutti gli ebrei residenti in Italia e a
Roma, schedandoli in modo da renderli facilmente
individuabili.
Georges de Canino delinea il quadro storico. «Per chiunque fosse iscritto all’anagrafe della razza, la demorazza
appunto, quel periodo è stato davvero terrificante»,
dice. «Come per Cesare Polacco, per molti l’esclusione
era totale, il prorio nome non dovva apparire, anche se
potevano esserci collaborazioni clandestine. Non poteva
risultare nei cartelloni il nome di un ebreo; i negozianti
dovettero creare delle società anonime o addirittura
cedere la propria attività a terzi; tanti registi, tra cui De
Sica, fecero lavorare clandestinamente e senza contratti
gli ebrei. Questa esclusione ha penalizzato dal 1938 al
1945 tantissime persone. Per l’opinione pubblica chi è
sopravvissuto in quegli anni è già un miracolato. Ma
immaginiamo oggi, che stiamo vivendo una crisi economica spaventosa, un uomo che perde completamente il
suo lavoro per le disposizioni razziali, cosa può fare? Con
una famiglia a carico poi, anche se tu ti arrangi in qualche modo, ma tu non esisti più, scompari. Come persona,
come artista ti vedi negata l’ identità! Ecco come si
sentiva Cesare Polacco, e come lui tanti altri ebrei».
Cosa decise di fare allora Polacco?
Arduina riprende il racconto. «Papà», dice, «ha avuto
il coraggio, grazie all’aiuto di un suo amico, il generale Umberto Presti, di fuggire e raggiungere Bari. Dai
suoi racconti e dai suoi diari, vorrei ricordare un episodio. Durante il passaggio delle linee, un gruppo di tedeschi
prendono lui e altre tre persone. Fanno scavare loro una
fossa, mentre tengono i mitra ben puntati. Sembrava volessero ucciderli! Allora il mio papà ha fatto la cosa che gli
riusciva meglio, si è messo a recitare. Ha finto di essere
un contadino del posto, di non capire cosa volessero,
tanto loro non lo capivano. Ma non ha pensato subito
che aveva le mani troppo curate per essere un contadino,
quindi le avrà sporcate lì al momento per non insospettirli. Di tutto il gruppo l’unico che ha parlato è stato lui e
grazie alla sua recita e quindi alla sua arte si sono salvati
tutti. Così arrivò finalmente a Bari».
Parliamo dell’arrivo a Bari; nei giorni 28-29 gennaio
1944 si tenne il primo congresso dei comitati provinciali di liberazione, che volle definire le linee
direttive comuni e la futura azione politica nazionale
dei partiti antifascisti. La maggior parte di questi
avvenimenti fu commentata e trasmessa da Radio
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Bari, che dal settembre 1943 era diventata la prima
radio dell’Italia libera.
Interviene Georges de Canino: «Bari in quegli anni era
uno dei centri di maggiore attività politica nell’Italia occupata
dagli Alleati; lì risiedevano il re, il governo e Badoglio. C’erano gli alleati di tutti i comandi, inglese, americano, c’era anche la Brigata
ebraica all’interno dell’armata inglese. Ci tengo a specificare che tra i primi gruppi che parteciparono alla Liberazione
dal nazifascismo c’erano i soldati della brigata ebraica e per
Polacco fu un’emozione fortissima; era la prima volta nella
storia che dei soldati ebrei potevano indossare la stella di
Davide come segno di riconoscimento, non della persecuzione ma della propria identità!»
Eugenio Perugia sottolinea: «La campagna di liberazione ebraica
è una cosa che non viene mai citata, ma i soldati della Brigata
ebraica furono presenti in tutta la campagna di liberazione
d’Italia dal nazifascismo, fu la prima volta che venne esposta trionfalmente la bandiera ebrea».
Arduina riprende il racconto: «Mio papà collaborò con radio
Cesare Polacco con Sandro Pertini
Bari Libera, ma ovviamente, anche in questo caso, sotto falso
nome. Lui non poteva comparire come Cesare Polacco, perciò
aveva preso il nome del genero, del marito di mia sorella e si
presentava come Guido Ferri».
Eugenio mi mostra 4 quaderni molto vecchi, sono i diari di
suo nonno, scritti giorno per giorno nel periodo della permanenza a Bari fino al 1944. Dice: «A me preme sottolineare
proprio la difficoltà della scelta attuata da mio nonno, quella
della fuga a Bari. A livello psicologico non fu semplice prendere questa decisione; anche se gli era stato consigliato,
perché quello era l’unico modo per salvarsi e salvare la sua
famiglia, la scelta di lasciare le figlie in istituto è stata anche
molto criticata. Io posso dire solo che per mia madre è stato
un padre affettuoso».
Ma il problema è un altro. «A distanza di tutti questi
anni», spiega Eugenio Perugia, «vorrei soltanto maggiore
chiarezza per la questione delle restrizioni lavorative. Su
Internet, per esempio, nelle pagine dedicate a mio nonno,
c’è chiaramente scritto che lui non subì le leggi razziali:
un clamoroso falso. A me piacerebbe poter controllare
negli archivi storici di Cinecittà come veniva inserito il suo
nome nei contratti dell’epoca, se c’è ancora traccia, sempre
che non fossero contratti illegali, non registrati. Io voglio
soltanto restituire dignità alla figura di mio nonno, oltre che
alla carriera dell’attore Cesare Polacco».
Dalle colonne di questo giornale chiediamo alla direzione di
Cinecittà di aiutarci a ricostruire gli anni difficili di un attore
meraviglioso che con la sua arte ha dato lustro al Paese.
26
Memorie
Davanti al Tribunale Speciale
Il diario palpitante di una giovane ragazza che ha conosciuto la galera fascista senza perdere la speranza
di Anna Canitano
F
ui arrestata il 23 Aprile 1942 e condotta con la
Mamma alle carceri di San Vittore, a Milano,
dopo una lunga e minuziosa perquisizione in casa,
che fruttò ai signori incaricati, oltre a una notevole perdita di
tempo, tre fogli di carta.
Li conservo perché mi vennero restituiti in seguito. Primo:
un estratto del Corriere d’America del 4 luglio 1937 circa una
dichiarazione di Mussolini a proposito del problema degli
ebrei in Italia.
Secondo: un foglio azzurro sul quale in Francia, precisamente a Nimes, nel ’38 annotai alcune definizioni del
fascismo e del comunismo da scritte murali. Terzo: una
lettera di un mio amico, con alcune righe di carattere politico. Mi venne anche sequestrato il mio personale libretto
d’indirizzi.
Arrivai a San Vittore con la Mamma, entrambe scortate da
tre poliziotti, verso mezzogiorno. Ora di grande animazione
in carcere. Fummo immediatamente separate. Dopo una
sosta di circa un’ora in una stanzetta detta “Matricola” venni
portata da una suora in una cella al terzo piano. Il “terzo
piano”, come imparai dopo, era una specie di luogo infame
della Sezione Femminile del carcere.
Lì rimasi in assoluta segregazione per una quindicina di
giorni in compagnia delle prime cimici (era ormai primavera), delle canzonacce, che sentivo cantare da una cella
Anna Canitano (La memoria e le fotografie ci sono state fornite da Susanna Aragno)
all’altra, e di alcuni bruttissimi libri che mi ero fatta
subito dare per passare il tempo. I primi giorni, le prime
settimane in carcere non passano mai. Il tempo sembra
interminabile. Faceva ancora freddo, specialmente di
notte. Seppi qualche tempo dopo che in quella cella pochi
giorni prima del mio arrivo era morta una mendicante.
In quei primi quindici giorni piansi, piansi disperatamente. Leggevo molto, cantavo e pregavo.
Il 28 aprile subii il primo interrogatorio. Durò più di
5 ore. Un interrogatorio di quel genere credo sia utile
come esercizio ginnastico della mente e delle possibilità selettive del cervello. Vince chi è più intelligente.
Fui interrogata sul verbale di un compagno comunista e lo vidi anche di persona. Il secondo interrogatorio,
a distanza di qualche giorno dal primo, fu più breve. Gli
altri, frequentissimi, in seguito, furono su un tono sempre
più blando. Negai sempre, recisamente, decisamente tutte
le accuse che mi venivano fatte e stesi un verbale, per
dirla con i termini tecnici, “negativo”.
Finalmente in cella con la mamma
Dopo cinquanta giorni dall’arresto venne l’autorizzazione perché la Mamma ed io fossimo messe in cella
insieme. Il 24 giugno, di mattina, ci venne comunicato
che eravamo state deferite al Tribunale Speciale per la
Difesa dello Stato. Passarono altri due mesi. Caldo, cimici,
ansie, attese, pensieri.
Il 24 agosto ci alzammo alle 6 del mattino. Due nostre
compagne di carcere subivano quel giorno il processo, a
Roma. Andavano a messa nella Cappella delle suore. Non
dimenticherò mai l’atmosfera triste, grigia, muta, disperata di quell’alba in carcere.
Dopo poche ore ci chiamarono: c’era a interrogarci il
giudice istruttore del Tribunale Speciale. L’interrogatorio
fu breve. Le contestazioni precise. Le imputazioni eccessive. Eravamo imputate di associazione e di propaganda
antinazionale. Articoli 271 e 272 del Codice penale. Associazione antinazionale per i rei comportava una pena da 6
mesi a 2 anni di carcere. Stessa pena per il reato di propaganda antinazionale.
Il giudice era un colonnello paterno e bonario. Mi
disse: “Sarebbe stato meglio che vi foste occupate di altre
cose anziché immischiarvi nella politica”. Non risposi.
Mi guardò. Lo guardai. Continuò l’interrogatorio. L’11
settembre partii per Roma. L’ordine di partenza venne
la sera prima. Partivo io sola, senza la Mamma. Sperai
ancora una volta che alla Mamma fosse risparmiato il
seguito dell’avventura. Non fu così. Poche ore dopo partì
anche lei.
Viaggiai tra due carabinieri in uno scompartimento
di terza classe “riservato”. Arrivai alla stazione di Roma
alle 7 di sera. Venni condotta al carcere delle Mantellate
con una Balilla. Dopo l’abituale cerimonia dell’immatricolazione e dopo aver attraversato vari cancelli arrivai
alla mia sezione. Fui ricevuta dalla Madre superiora in
maniera così burbera che non riuscii a evitare le lacrime.
Mi misero in cella con altre due ragazze. Una slava
Memorie
27
condannata a 10 anni di reclusione e una compagna di
Milano condannata a un anno. Il mattino dopo seppi
dall’infermiera che era arrivata anche la Mamma. La
slava e la mia compagna di Milano vennero mandate in
un’altra sezione e io rimasi sola.
Il cielo di Roma era azzurro
La cella era pulitissima. Feci una doccia calda. A mezzogiorno la minestra era buona. Si poteva persino avere il
giornale. Durante l’ora di “aria” che ci era concessa giornalmente vedevo il Gianicolo, vedevo il verde dei pini. Il
cielo di Roma era azzurro. L’aria tiepida. La suora della
Sezione Politica era buonissima. Passai due mesi e mezzo
meravigliosi. Pensavo, cantavo sognavo, passeggiavo in
su e in giù per delle ore, mi arrampicavo alle sbarre nelle
notti di luna, comunicavo con la Mamma (c’era ordine di
segregazione e separazione assoluta) per mezzo di stornelli e biglietti che qualche detenuta portava gentilmente.
Ricevevo ogni giorno della posta. Lunghe lettere che
mi parlavano di teatro, di cinema, di tutto quello che si
stava facendo, di tutti i progetti per il futuro, di lavoro, di
idee. Rispondevo sempre il più a lungo possibile e la corrispondenza di quel periodo mi è particolarmente cara. Il 6
novembre mi venne comunicata da un signore giovane e
simpatico la data in cui era fissato il processo. Mi consegnò un plico di 7 fogli dattiloscritti. Era la carta di rinvio
a giudizio. Il processo era stato fissato per il 24 novembre.
Nominai mio difensore l’avvocato Domenico D’Amico.
Tornai in cella allegrissima e quel giorno cantai più del
solito. Il 10 Novembre venne l’avvocato per la prima volta.
Il 19 Novembre compivo 22 anni. L’avvocato venne per la
seconda volta. Parlammo dell’andamento dell’istruttoria,
mi lesse alcuni verbali, mi raccontò delle barzellette antifasciste. Il 23 Novembre venne per la terza volta. Mi parlò
del Tribunale, del Pubblico Ministero, del Presidente, del
valore delle difese, delle disposizioni superiori impartite
per i vari processi, delle sentenze. Era allegro. Era riuscito
a salvare un ragazzo slavo dalla pena di morte.
Il 24 novembre mi alzai alle 6 del mattino. Mi vestii con
cura, mi pettinai. Presi un uovo sbattuto. Pregai di fronte
alla finestra spalancata. Vidi la Mamma. Era calmissima.
Mi disse: “Hai letto la preghiera che ti ho mandato?”.
Risposi: “Sì, ce l’ho con me”. Diceva la preghiera: “Signore
Iddio Santo, assisti, proteggi, benedici noi e tutti i nostri
compagni in queste ore difficili. Signore Iddio Benedetto
degnati di infondere nei nostri giudici la Tua luce la Tua
giustizia la Tua clemenza”.
Ci accompagnarono al Palazzo di Giustizia, in automobile.
Nel Palazzo di Giustizia l’aula della morte
C’era con noi una donna d’aspetto dolcissimo. Occhi
azzurrissimi e una grossa treccia di capelli scuri intorno
al capo. Andava alla Corte d’Assise. Era più di una settimana che vi andava tutte le mattine, sempre con quella
stessa macchina. Passando dal carcere maschile, dove
un gruppo di detenuti incatenati e ammanettati attendeva di salire su un carrozzone tutto chiuso, disse: “Il
Pubblico Ministero ha chiesto 30 anni per me e 30 anni
per quello lì” e mi indicò un figuro basso, brutto, sporco,
con la testa quasi deforme e con un fazzoletto bianco ai
polsi. Aggiunse: “L’ha ammazzata lui”.
L’automobile fece il Lungotevere, salì, scese, scivolò in
Con Giorgio Strelher, col quale lavorava in teatro
un cortile buio. Ci misero in camera di sicurezza nei sotterranei del Palazzo di Giustizia. La donna dall’aspetto dolcissimo
parlava e fumava. Io pensavo al momento che avrei rivisto
tutti i ragazzi. Erano passati 13 mesi dalle riunioni in casa
mia e del nostro incontro sul sagrato del Duomo. Mi pettinai,
mi diedi anche un po’ di cipria.
Ero serena, ero allegrissima. Si aprì la porta. Chiamarono per nome e cognome la Mamma e poi me. Vidi una fila
di uomini con le manette. Vidi una fila di uomini incatenati. Nella semioscurità non distinsi nessuno, non riconobbi
nessuno.
Mi sentii chiamare: Anna! Vidi Guido Bersellini, e
ancora Anna! Vidi Luciano Bolis e tutti gli altri. Molti non
li ricordavo, alcuni non li conoscevo. Su per una scaletta
strettissima ci guardammo più da vicino e ci scambiammo
qualche parola. Alle nove circa entravamo in aula. La
pensavo più grande, più austera, più cattiva “l’aula della
morte”. Dopo poco cominciarono ad arrivare gli avvocati.
Cassinelli arrivò per primo e mi chiese: “È lei la Canitano?”
Risposi: “Sì”. Sorridevo. Mi disse: “Non sorrida così. Per una
donna in questi casi è più opportuno piangere”. Impossibile,
pensai, e tornai a sorridere. Il processo durò circa 9 ore, con
tre interruzioni di 5 minuti.
Il Presidente interrogò brevemente gli imputati, vennero
28
Memorie
Cartolina spedita per Natale 1941 ad Anna da Luciano Bolis, allora sotto le armi
ascoltati alcuni testi a difesa. Qualche interruzione da parte
degli avvocati. Poi ecco il grande momento requisitorio del
Pubblico Ministero. Lo ascoltammo attentissimamente. Ci
aspettavamo di peggio. Ci guardammo l’un l’altro soddisfatti.
Il Tribunale uscì. Cinque minuti di intervallo. Mangiammo
cioccolato, caramelle, prugne secche. Eravamo allegrissimi.
Ci sentivamo bene, veramente bene.
Chiesi a un carabiniere se potevo uscire un momento. Mi
accompagnò e ci inoltrammo nei sotterranei drammaticamente contorti e male illuminati del Palazzo di Giustizia.
Tornai in aula.
Dopo poco: un braccio che si irrigidisce, un pennacchio che
si erge, un battere di tacchi e un carabiniere grida: “Il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato” (per la cronaca noi
lo chiamavamo il Tribulatorio Specializzato per la Distruzione della Società). Parlarono gli avvocati. Parlò per primo
Giuseppe Sotgiu. Poi parlò D’Amico, con la sua aria bonaria e
persuasiva. Poi Malcangi, umoristico e pungente. Poi parlarono altri senza importanza. Infine parlarono Angelucci e
Comandini.
di accendergli la sigaretta. Con le mani legate non poteva.
Un ragazzo slavo, Matjan Bronislav, mi pregò di andare
da un suo compagno e portargli notizie. Guido mi chiese
se andavo subito a Milano.
Il carrozzone si fermò davanti al carcere maschile. Ci
salutammo allegri e commossi. Ci stringemmo forte le
mani. Baciai Guido e Luciano. “Allegri ragazzi e arrivederci a presto”.
Il carrozzone proseguì fino alle Mantellate. Avevamo
una gran fame. Feci le scale di corsa e arrivai alla mia
sezione gridando: “Siamo state assolte per insufficienza
di prove. Domani usciamo”.
Mangiammo minestra, un uovo sodo, un pezzo di pollo
e del cioccolato. Ci addormentammo. Passarono altri 5
giorni. Il 30 novembre venne l’ordine di scarcerazione.
È una gioia che non si può capire, se non la si è provata.
Dopo sette mesi e mezzo tornavamo libere. Libere e non
vi dico altro. L’avventura era finita. In Questura ci diedero
il foglio di viaggio con il quale dovevamo rientrare a
Milano entro 3 giorni. All’Ufficio di Polizia della stazione
insieme ai biglietti ci diedero 10 lire. Cinque per ciascuna.
Le conservo ancora. Guardai la stazione di Roma e pensai
a tutte le volte che ero partita da quei binari, che ero arrivata a quei binari. Nient’altro. L’avventura era finita. Non
pensavo davvero che a distanza relativamente breve me
ne sarebbe toccata un’altra, forse più emozionante. Ma
questa la racconterò un’altra volta.
Parole coraggiose contro il fascismo
Due difese che non dimenticherò facilmente. Veementi,
coraggiose, piene di forza, di verità, di convinzione. Il Presidente e il Pubblico Ministero si guardavano ogni tanto,
agitati. La voce di Federico Comandini tuonava nell’aula e si
scagliava senza remissione contro il Tribunale Speciale, la
sua illegalità, l’assurdità dell’accusa, contro il fascismo, tutto
contro la gioventù vile, vuota che aveva allevato. Quandò
terminò eravamo entusiasti.
Il Tribunale si ritirò per decidere. L’attesa fu brevissima. Rientrò, preceduto dal solito grido annunciatore.
Ci alzammo in piedi. Presidente e giudici avevano tutti il
cappello in testa. Si irrigidirono tutti nel saluto fascista. In
quell’atteggiamento la divisa fascista si faceva più prepotente, più assurda, più detestabile. Il Presidente lesse la
sentenza, ci guardò e dichiarò chiusa l’udienza.
Quando uscimmo era buio.
Le condanne erano state lievi. Credevamo peggio. La
Mamma ed io eravamo state assolte per insufficienza di
prove. Montammo tutti nel carrozzone che ci doveva riportare in carcere. I ragazzi fumavano, parlavano forte. Erano
tutti sereni, allegri, sicuri.
Luciano mi chiese: “Hai una matita, per caso?” L’avevo in
tasca e gliela diedi. Era stato condannato a 2 anni, una matita
in carcere è un oggetto prezioso. Pier Luigi Tumiati mi pregò
Anna in una foto del 1946
Noi
DA L’AQUILA
Un 25 aprile da partigiani del
post-terremoto
Il 25 Aprile scorso, con la neo costituita Rete antifascista aquilana e l’Anppia
abbiamo deciso di scendere insieme in
strada per festeggiare la Liberazione. Per
noi era importante, oltre che sottolineare
il valore storico dell’antifascismo, esprimerlo in tutta la sua attualità e urgente
necessità.
In mattinata, dopo la commemorazione ai Nove giovani martiri aquilani,
la strage di Onna e di Filetto per mano
dei nazifascisti nel 1943-44, abbiamo
esposto la mostra di Alberto Aleandri,
dell’Anppia. Abbiamo anche aggiunto
altri pannelli curati dal collettivo postfemminista “fuori Genere” che riportava
la storia di alcune donne resistenti, come
l’aquilana Antonietta Centofanti anima
del comitato “parenti delle vittime
Casa dello Studente” che si è battuta
per chiedere Verità e Giustizia per i
ragazzi deceduti mentre erano sotto la
tutela dello Stato. Le altre donne che il
collettivo ha voluto raccontare erano:
Patrizia Moretti, Rachael Corrie,
Maria Soledad, Nicoletta Dosio, Haidi
Giuliani.
Una lunga striscia di tavole espositive
che ha occupato per tutto il giorno il
disastrato centro storico dell’Aquila
quel mattino pieno di passanti che - tra
transenne e militari - si sono fermati, interessati a guardare le foto e le didascalie
antifasciste.
Abbiamo deciso di dire la nostra, dopo
aver vissuto sulla pelle da quattro anni
a questa parte un disegno autoritario e
repressivo che ha militarizzato la città,
allontanato migliaia di cittadini dal
territorio, anestetizzato le persone in
tendopoli gestite dall’alto e con una serie
di divieti assurdi, esautorato le popolazioni del cratere da ogni decisione che
riguardasse sia il loro presente che il loro
futuro, denunciato decine di cittadini la
cui unica colpa è di essersi opposti alla
speculazione delle cricche e degli sciacalli (Balducci, Anemone e Piscicelli) ed
aver dato vita a nuovi spazi di socialità e
di autogestione.
Sono più di 40 infatti le persone denunciate ad oggi a L’Aquila per aver provato
a resistere alle politiche adottate nel postsisma dai Governi che si sono succeduti
e che hanno distrutto una volta di più
questo territorio.
Per questo insieme alla mostra abbiamo
29
affisso per tutto il
centro molti cartelli
che riportavano le
varie declinazioni
che ha preso oggi
per noi il fascismo,
molte delle quali
vissute
direttamente sulla nostra
pelle e contro cui si
basa la nostra lotta
politica e il nostro
essere antifascisti
oggi su questo territorio. Come riportavano questi cartelli
per noi il fascismo
oggi è, sopratutto:
commissariamento,
omofobia, femminicidio,
repressione,
speculazione, militarizzazione, divieto
di assemblea nelle
tendopoli, sequestro
delle carriole, denunciare chi protesta.
Sopra: un manifesto della Rete Antifascista aquilana. Sotto: numerosi i cittadini
Più tardi come
che hanno visitato la mostra curata dal nostro Alberto Aleandri
rete antifascista e
Anppia abbiamo partecipato all’incontro
libertà, ribellione. Questo vuol dire per
organizzato, sempre nel centro storico, da
noi essere partigiani in una città che vive
Rifondazione comunista dal titolo Partigiani
una drammatica crisi sociale, economica e
sempre: i valori della Resistenza tra passato,
culturale.
presente e futuro. Si è parlato anche qui soA notte tarda, infine, all’entrata dello
pratutto dei nuovi fascismi ma anche del
spazio riconquistato dell’asilo occupato,
libro Indagine su un massacro. La strage
dove la rete si riunisce abitualmente e in cui
nazista di Onna con cui l’autore Aldo Scimia
c’era un concerto, campeggiava la scritta:
(ha perso parte della sua famiglia nel sisma)
Antifascismo è autogestione!
ha documentato l’eccidio del piccolo paesino
Rete Antifascista L’Aquila, Anppia L’Aquila
di Onna da parte degli occupanti nazisti, nel
giugno ‘44.
DA TERNI
Nel pomeriggio poi, abbiamo girato per le
periferie che ormai compongono per grossa
Antifascismo e movimento operaio
parte L’Aquila. Uno dei punti più attraversati
di questa strana città trasformata dal terreIl 10 maggio l’Anppia di Terni ha orgamoto, sono le rotonde spuntate a decine dopo
nizzato, presso il Palazzo Primavera, il
il sisma. È qui che da tempo si usa esporre i
convegno L’antifascismo e il movimento
messaggi politici e gli appuntamenti che si
operaio, articolato sui seguenti temi:
vogliono comunicare ai cittadini-automoSignificato del 25 aprile, Il valore della
bilisti. Così abbiamo appeso degli striscioni
Costituzione italiana, Il movimento operaio
molto grandi coprendo le scritte fatte
e il ruolo avuto nella liberazione dal nazifadalle formazioni di estrema destra come
scismo, Il fascismo, un terribile periodo della
CasaPound e scrivendo, questa volta, cos’è
storia.
per noi l’antifascismo, ovvero: Resistenza,
Nell’occasione si è ricordato che la no-
SOTTOSCRIZIONI
Giovanna De Lorenzo (Calenzano),
in ricordo di Vincenzo Vanni: 100,00
stra libertà e democrazia sono frutto della
Resistenza di un popolo e del sacrificio di
tanti e che bisogna scongiurare il rischio di
rimozione di quell’esperienza sconvolgente
vissuta dal Paese per prevenire ogni possibile rigurgito di quei fenomeni che tanto
costarono agli italiani in termini di libertà
e democrazia.
30
Noi
Nell’incontro si sono susseguiti gli interventi dell’avvocato Nicola Molè, del professor Antonio Baldassarre, del segretario
della Cgil Attilio Romanelli e del professor
Angelo Bitti. L’iniziativa era patrocinata
da Regione, Provincia e Comune di Terni,
in collaborazione con l’Uncla-Ucsa e con
l’Anpi di Terni. Era presente il segretario
generale dell’Anppia, Mario Tempesta. I
lavori del convegno sono stati coordinati dal
professor Alberto Piccioni.
Erano presenti rappresentanze di studenti del Liceo Donatelli, dell’Istituto
d’Arte, dell’Itis, dell’Ipsia e della scuola
media inferiore Nucula. La presenza di
giovanissimi della scuola media è stata particolarmente gradita e voluta perché tra le
file del movimento operaio durante il ventennio fascista c’erano molti bambini che
lavoravano in fabbrica come apprendisti.
Si è ritenuto che tenere il convegno in un
luogo pubblico – il Palazzo Primavera – sia
stata una scelta felice perché lo spazio era
adatto a mettere in contatto tra loro studenti
di diverse discipline ed età favorendo, anche per il futuro, dibattiti e scambio fra loro
e con i propri docenti. Un ringraziamento
particolare va ai docenti e ai dirigenti scolastici che hanno preso parte all’incontro coi
loro studenti.
(Alberto Piccioni, Giocondo Talamonti)
DA GUSPINI
Festa della Liberazione 2013
La sezione dell’Anppia di Guspini ha
organizzato una mostra itinerante in occasione della Festa della Liberazione 2013. In
esposizione i pannelli su Torino: lo sciopero
del marzo 1943 e I giornali clandestini della
Resistenza 1943/45. Nel suo girovagare
la kermesse ha toccato i centri di Arbus,
Guspini e Pabillonis.
La rassegna, aperta all’interno della
Giovani studenti di Ternii assistono al convegno l’antifascismo e il movimento operaio
sezione di Guspini, è stata visitata da diverse classi degli istituti superiori cittadini
accompagnati dai loro docenti (il Tecnico
Commerciale ed Industriale “Buonarroti”
e il Professionale “Volta”) oltre che da numerosi cittadini. Hanno partecipato all’evento gli assessori comunali Enrica Olla e
Sandro Renato Garau, il segretario cittadino del PD Paolo Serra, di SEL Francesca
Tuveri e diversi rappresentanti del mondo
delle associazioni di Guspini.
Il 25 la mostra è stata spostata ad Arbus.
Qui l’Anppia ha esposto i pannelli nella centralissima piazza mercato in collaborazione
con l’associazione Enrico Berlinguer, che
allietava i visitatori con le canzoni della
Resistenza.
Sabato 4 maggio la mostra è stata esposta a
Pabillonis presso il Centro di Aggregazione
Sociale. È stata visitata da numerosi cittadini e dagli alunni della quinta elementare
accompagnati dalla loro maestra.
Il 26 aprile il Presidente della Sezione
zonale di Guspini, prof. Lorenzo Di Biase,
è stato invitato dall’Università della Terza
Età di La Maddalena – cittadina del Nord
Sardegna che ha organizzato 3 giorni di
riflessioni, dibattiti, manifestazioni varie
sulla Resistenza e sulla Liberazione a tenere una conferenza sul tema
L’antifascismo in Sardegna: i casi di
Don Francesco Maria Giua e Costantino
Nivola. (Lorenzo Di Biase)
DA BOLOGNA
Intitolato a Emilio Bassi un
giardino cittadino
Il 21 aprile 2013, anniversario della
Liberazione di Bologna nel 1945, è stato
intitolato un giardino all’antifascista
Emilio Bassi, ucciso da una squadraccia fascista in casa sua a Sasso Marconi
davanti alla moglie e ai suoi due figli il
19 Giugno del 1921. Era nato a Pianoro
il 7 maggio del 1872. Di idee socialiste,
faceva il vignaiolo e il macellaio. Il 31ottobre 2007 gli è stata conferita dal Presidente
della Repubblica Giorgio Napolitano la medaglia d’oro al merito civile alla memoria.
L’Anppia era presente con il suo presidente, Massimo Meliconi il presidente
onorario Ezio Antonioni e con Lidia
Biferale. Partecipava come rappresentante del Comune di Bologna l’assessore
Patrizia Gabellini.
DA CATANIA
‘Fascist Legacy’ sbarca a Catania
Bologna. Un momento dell’intitolazione del giardino Emilio Bassi
Il 23 Aprile scorso l’Anppia di Catania,
presso il salone “Sebastiano Russo”
della Camera del Lavoro, ha proiettato il
documentario della BBC Fascist Legacy
sui crimini fascisti commessi in Africa
Orientale ed in Iugoslavia. L’iniziativa
è stata organizzata in collaborazione
con l’Udi (Unione Donne in Italia) e
con la Comunità eritrea di Catania.
La collaborazione con la Comunità eritrea è scaturita dall’interesse che i suoi
31
Noi
dirigenti dimostrano da sempre per la
propria storia nazionale, travagliata e
complessa, che inizia con l’occupazione
coloniale italiana alla fine del XX secolo, passa per l’occupazione fascista,
poi, dopo la 2° Guerra Mondiale, il
protettorato britannico, quindi il lungo
periodo dell’annessione all’Etiopia e della
conseguente guerra di liberazione da
parte delle forze partigiane eritree raggruppate nel Fronte di Liberazione e nel
fronte di Liberazione Popolare, che sino
a pochi anni addietro ha causato innumerevoli stragi in entrambe le parti, anche
tra i civili eritrei, che tanto raccapriccio
hanno suscitato nell’opinione pubblica
mondiale ma scarso interesse da parte
dell’Onu, che nella vicenda ha tenuto un
atteggiamento prudente ed incerto, evidentemente subendo pressioni da parte
delle superpotenze. La presenza dell’Udi
è stata motivata dal fatto che questa associazione, dalla sua fondazione, si è sempre dimostrata sensibile alle tematiche
antifasciste e ha ritenuto meritevole di
interesse l’iniziativa anche per sostenere
il progetto delle donne della comunità
eritrea di Catania di costruire nel loro
Paese un centro polifunzionale, la cui
realizzazione è a buon punto.
Ha illustrato l’iniziativa Claudio
Longhitano dell’Anppia, presentatndo
l’associazione e le sue finalità per la
conservazione e la ricerca della memoria
storica dell’antifascismo. Longhitano ha
illustrato i contenuti del documentario,
dove si ricostruiscono, con dovizia di
documenti e testimonianze, le atrocità
commesse dal fascismo in Africa orientale, anche contro la popolazione civile e
contro ospedali, in particolar modo con
i bombardamenti di iprite (il cosiddetto
“gas mostarda”, il cui uso è proibito
dal diritto internazionale) ordinati da
Rodolfo Graziani, nonché le sanguinose
rappresaglie seguite agli atti di resistenza
della popolazione, come l’impiccagione
in massa del clero copto in seguito al
fallito attentato contro Graziani ad Addis
Abeba. Il documentario prosegue con la
ricostruzione delle atrocità commesse,
nella Iugoslavia occupata, non solo
dalle truppe fasciste, ma anche da parte
dell’esercito regolare, circostanza che
può senz’altro servire a demolire il mito,
costruito nel dopoguerra dalle forze conservatrici, degli italiani “brava gente”.
Sono intervenuti Giovanna Crivelli
dell’Udi ed Arefayne Barachi della
Comunità eritrea, che si è soffermato a
lungo sulla storia di liberazione del proprio paese. Numerose le domande sulla
Vercelli. Camminata sui sentieri dei partigiani
storia dell’Eritrea, di cui evidentemente
si conosce molto poco. Una cena eritrea, il
cui ricavato sarà destinato a finanziare il
progetto delle donne della comunità, ha concluso la serata.
Questa iniziativa dell’Anppia è stata la
prima uscita pubblica in una realtà difficile
come quella di Catania, con lo scopo di far
conoscere l’associazione ai cittadini e tutto
sommato è ben riuscita, a conferma che per
realizzare le nostre attività in realtà ostiche
(quali, appunto, Catania e la provincia) dobbiamo aprirci a collaborazioni con le forze
sociali e dell’associazionismo democratico,
trovando forme alternative ed originali.
(Claudio Longhitano)
DA VERCELLI
Una passeggiata sui sentieri
partigiani coi giovani in Valsesia
Nella giornata di domenica 28 Aprile si
è tenuta una manifestazione dell’Anppia
vercellese, in celebrazione del 25 Aprile.
Per quest’occasione il comitato locale ha
deciso di organizzare un’interessante
Camminata lungo i percorsi seguiti dai
partigiani durante la resistenza del 194345. La partenza da Quarona, in Valsesia e,
a seguire, un percorso organizzato tra le
vecchie mulattiere che si addentrano nelle
boscaglie e nelle zone paludose che circondando i centri abitati. Lungo il percorso,
nonostante fosse di soli pochi chilometri,
c’è stato tempo anche per delle pause, in
prossimità di luoghi che, durante la resistenza, sono stati protagonisti di episodi
violenti e drammatici. È stata sicuramente
l’occasione per riscoprire e ridare il pieno significato ai vari monumenti, targhe e cippi che
contraddistinguono il panorama valsesiano.
L’iniziativa è terminata nel tardo pomeriggio. Dopo un paio d’ore nelle quali è stato
possibile riscoprire la storia locale, conoscere personaggi passati e, soprattutto,
cercare di trasmettere alle generazioni
future i valori della resistenza, dell’antifascismo e della condanna di ogni forma di
rappresaglia politica. Il ricordo del sacrificio che pochi fecero in quegli anni a favore
di una pluralità e molteplicità di cui siamo,
senza dubbio, oggi debitori.
Ricordiamo che l’iniziativa è stata organizzata assieme alla Federazione vercellese dei Giovani Democratici: in loro
abbiamo trovato un interlocutore serio e
propositivo; ci siamo lasciati nell’intento di
organizzare altri interessanti appuntamenti,
portando avanti quei valori che sono comuni
a entrambi gli statuti.
Un ringraziamento infine va a Gustavo
Salsa, che sebbene non sia potuto essere
presente durante la giornata, è stato di
grande aiuto e disponibilità con tutti noi.
Grazie per i consigli, la dedizione e la sua
notevole esperienza. (Andrea Formaggio)
DA LIVORNO
I bambini nella guerra
L’Anppia di Livorno ha voluto far conoscere agli studenti degli istituti secondari
di primo e secondo grado esperienze reali
di ferite fisiche, morali e psicologiche derivate dalla guerra, con l’ascolto di storie di
vita relative al periodo del fascismo e della
seconda guerra mondiale, attraverso i protagonisti della Resistenza italiana, con chi
da bambino ha subito l’esperienza bellica
e insieme a rappresentanti di Emergency.
Con la visione di film, documentari e visite
in luoghi della memoria i ragazzi hanno imparato la storia a partire dalle storie vere.
Il progetto a cui le scuole hanno aderito
era I bambini nella guerra: dalla shoah
ai giorni nostri, nato per stimolare nei
giovani l’uso di nuovi percorsi di ricerca e
documentazione storica e per fare acquisire nuovi strumenti per la lettura dei conflitti passati e presenti e sulle conseguenze
Noi
che essi hanno sui bambini. Gli studenti si
sono, così, resi conto che esistono realtà a
loro sconosciute perché filtrate dai media
che spesso ne manipolano il significato.
I bambini sono le vittime ideali delle
guerre perché rappresentano il futuro e
da sempre e in tutte le situazioni hanno
pagato e pagano il prezzo più elevato della
follia degli uomini. Le immagini che i
mass-media oggi ci mostrano, rimandano
ad altre, tragiche, del passato: quelle
dei piccoli prigionieri di Auschwitz o di
Terezin, del Vietnam, della ex Jugoslavia
fino a quelle più attuali della Siria, dell’Afghanistan e del conflitto arabo-israeliano.
Sono sempre i bambini i più esposti alla
violenza: privati del diritto al gioco e allo
studio, mutilati da mine antiuomo, bombe,
torture, abusi sessuali, malattie e fame.
Tutto ciò segna la vita dei bambini di oggi,
dei futuri adulti che saranno. Profonde le
ripercussioni psicologiche per essere stati
testimoni o aver commesso atrocità, nel
caso dei bambini soldato: senso di panico,
incubi perseguitano questi ragazzi per
anni. Gravi le conseguenze di carattere
sociale, quali la difficoltà di inserirsi in
famiglia, di riprenderegli studi e il modus
vivendi precedente alla guerra.
«Non sono riuscito a trattenere le lacrime nel vedere le menomazioni subite da
quei bambini colpiti dalle mine antiuomo»
ha detto commosso Valerio dopo la visione
del documentario Uomini e mine del regista
Serafino Fasulo.
«Ho provato forti emozioni: angoscia,
orrore, tristezza per la sorte di quelle ragazze con il futuro compromesso», questo
il commento di Francesca (3° C liceo) dopo
il film Il segreto di Esma di Jasmila Zbanic.
«Mi sono reso conto ascoltando le storie
e vedendo i filmati, della piccolezza e superficialità dei nostri problemi quotidiani
che sono egoistici e limitati rispetto al
dolore provocato da questi eventi» sono
le parole di Matteo (3° C liceo) dopo aver
ascoltato Paolo di Emergency e aver visto le immagini scattate nell’ospedale di
Lashkargah in Afghanistan.
«Per noi è stato interessante sapere come
vivevano i ragazzi della nostra età e soprattutto ho riflettuto su tutte le difficoltà
che quei ragazzi hanno affrontato: paura
dei bombardamenti, fame, lutti…»ci rivela
Edoardo (3a media) dopo il film La notte di
S. Lorenzo dei fratelli Taviani
«Ascoltando le storie direttamente dalle
persone che hanno vissuto la guerra da
bambini, ho sentito la storia passata “viva”
perché ho capito che il conflitto ha davvero riguardato esseri umani: non si tratta
più di cifre, di denunce ma di persone con
Gli studenti livornesi in un momento del viaggio premio a Marzabotto
le loro sofferenze, le loro aspettative, le
loro gioie, i loro dolori. L’impressione è
stata forte». Così si esprime Irene (3° B
ITC) dopo l’incontro con i testimoni della
seconda guerra e della Resistenza.
«Alessandro mi ha fatto venire i brividi
con quelle letture!» dice Irina (3° media)
dopo aver ascoltato l’attore Alessandro
Vellutini che ha letto poesie e brani vari
sulla storia della repressione delle libertà
individuali.
ALT ALL’OPPRESSIONE. Il mondo
salvato dagli studenti. Occhi di bimbi sulla
guerra: così ha titolato il quotidiano Il
Tirreno di sabato 11 maggio, la cui giornalista Giulia Mancini ha assistito all’evento
finale del progetto, che si è tenuto alla
Multisala Grande di Livorno: durante la
matiné si sono alternati i testimoni, i ragazzi con lettura e illustrazione dei loro
prodotti finali, l’esibizione della band
Jolly Cinema (formata da alcuni studenti
del liceo partecipante al progetto) e il recital dell’attore Vellutini. Sono stati quindi
conferiti gli attestati di merito a tutti i
partecipanti e nominate le classi vincitrici
del concorso il cui premio consisteva nella
visita a Marzabotto.
«Bisogna avere il coraggio di ribellarsi,
di dire di no – è l’invito che Garibaldo
Benifei, rivolge alle giovani generazioni –
perché nel 1926 quando feci il mio primo
sciopero alla Rinaldi ero un ragazzo come
voi. Avevamo tutti fra i 12 e i 18 anni ma sapevamo che, se volevamo dei diritti, dovevamo lottare e prenderceli. La democrazia
si costruisce ogni giorno, come la pace»
E precisa la moglie Osman Benetti: «I
giovani non sanno ed invece occorre mantenere vivo il ricordo della Resistenza e
continuare a lottare contro ogni forma di
oppressione».
(Genny De Pas, Donatella Di Martino)
l’antifascista
Mensile dell’ANPPIA
Associazione Nazionale Perseguitati
Politici Italiani Antifascisti
Direttore Responsabile:
Antonella Amendola
In Redazione:
Luciana Martucci
SEDE LEGALE:
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HANNO COLLABORATO A
QUESTO NUMERO:
Guido Albertelli, Antonella Amendola,
Susanna Aragno, Paolo Bagnoli, Nilo
Cardillo, Lorenzo Di Biase, Claudio
Longhitano, Antonino Pastore, Vincenzo
Perrone, Giovanni Russo, Giulietta Rovera,
Fabiana Tacente, Domenico Tarizzo
TIPOGRAFIA
Cierre Grafica srl
Roma - Via del Mandrione 103A
PROGETTO GRAFICO
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Ccp n. 36323004 intestato a “l’antifascista”
Chiuso in redazione il: 18 giugno 2013
finito di stampare il: 25 giugno 2013
Registrazione al Tribunale di
Roma n. 3925 del 13.05.1954