A 24 ore dalla RIVOLUZIONE
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A 24 ore dalla RIVOLUZIONE
di Nome cognome Titolo originale dell’opera: A 24 ore dalla RIVOLUZIONE MACCHINA DEI SOGNI Associazione Culturale Cinema&Scrittura è un motore alimentato dal propellente della creatività e messo in moto dalla comunità solidale di tutti gli ingegni impazienti. Genera conoscenza, connessioni, incontri, alimenta passioni, traduce sogni in scintille e non danneggia l’ozono. www.macchinadeisogni.org [email protected] COLLANA LIBRI della MACCHINA DEI SOGNI Volume 19 © 2016 by MACCHINA DEI SOGNI Corso NARRATORI DI STORIE Edizione 2016 Condotto da Chicca Profumo EDIZIONI AUTOPRODOTTE Traduzioni previste in tutte le lingue richieste Progetto MACCHINA DEI SOGNI Artwork copertina: Alice Gaffo e Cristina Pierri Illustrazioni: Cristina Laghezza Coordinamento del progetto: Chicca Profumo Impaginazione ebook: Alice Gaffo Caporedattore: Manuela Montanari Redattori: Angela Puchetti, Elena Ghielmi, Giovanni Sanicola Reparto social: Agostino Bertolino e Debora Michelini I di Nome cognome 00 Indice Prologo 6 Guida alla lettura 9 1972 La rivoluzione: L’uscita del primo film porno Debora Michelini 10 L’impronta di Colin Pitchfork La rivoluzione: L’utilizzo del DNA come prova Angela Puchetti 55 Voi non siete comunisti! La rivoluzione: La caduta del Muro di Berlino Manuela Montanari 69 Ma il nonno dov’è? La rivoluzione: Il Frigorifero Elena Ghielmi 105 III Non resta che fumo La rivoluzione: La congiura delle polveri Alice Gaffo 132 Dentro lo sguardo: Cronaca di una (meta)rivoluzione cubista La rivoluzione: Il cubismo Giovanni Sanicola 167 Exchange La rivoluzione: Il primo essere vivente nello spazio Cristina Perri 191 Primo sangue La rivoluzione: Le cinque giornate di Milano Agostino Bertolino 215 La Spilla La rivoluzione: La carta della pari retribuzione (Equal Pay Act) Cristina Laghezza 235 Note storiche 291 IV Prologo Com’è cominciata... Ce ne stavano tranquilli in attesa dell’inizio di una nuova lezione del nostro corso di Narratori di Storie della Macchina dei sogni. Fu allora che la nostra docente, Chicca Profumo, dal suo sgabello al centro della sala ci comunicò raggiante di aver individuato il tema per l’e-book con i nostri racconti. Echeggiarono, allora, per la prima volta le parole che poi ci hanno praticamente ossessionato per circa quattro mesi: “A ventiquattro ore dalla Rivoluzione”. Per alcuni, lunghi secondi, calò uno stupore muto, un silenzio insolito. Un panico in germoglio. Avevamo già affrontato richieste particolari, come l’obbligo di inserire in una nostra storia la comparsa dei dinosauri – come fosse una cosa del tutto normale - ma non eravamo ancora vaccinati. Piombati in un territorio nuovo, ci arrampicammo sulle 6 domande. A poco a poco la nuvola dei nostri dubbi si diradò, lasciando emergere la vera essenza di quell’idea dalle infinite possibilità. Dovevamo parlare di rivoluzioni, anzi delle ventiquattro ore precedenti una rivoluzione. Potevamo scegliere tra rivoluzioni storiche, rivoluzioni filosofiche, rivoluzioni entrate nel nostro quotidiano. Doveva trattarsi, però, di una rivoluzione vera e propria. Cominciò così il toto rivoluzione. Furono prese in esame decine di rivoluzioni, vere o presunte. Ognuno arrivò con delle liste. Qualcuno, forse per pudore, scartò la rivoluzione della pillola anticoncezionale. Un altro rifiutò quella della minigonna di Mary Quant. Serpeggiò il sospetto, poi fondato, che non la trovasse abbastanza intellettuale. Ci fu anche chi sembrava non aspettare altro: la rivoluzione ce l’aveva già pronta in testa. La maggior parte di noi, però, ne depennò diverse, autentiche o presunte tali, per arrivare finalmente alla buona causa che troverete in questo e-book. Detto questo, sappiamo tutti che ci sono state delle rivoluzioni. Ma cosa successe ventiquattro ore prima dell’uscita del film “Gola profonda”, pioniere del cinema porno? Cosa accadde nelle ore precedenti l’arresto del primo omicida incastrato grazie al test del DNA? 7 Cosa capitò nella giornata antecedente il crollo del muro di Berlino? Come sono state le ultime ore di quel cane, primo essere vivente sparato nello spazio, fuori dall’orbita terrestre? E ancora cosa guidò la lama che versò il primo sangue che diede il via alle Cinque Giornate di Milano? Quali furono, invece, i preparativi di una famiglia italiana per accogliere il suo primo frigorifero? O cosa portò una donna a reclamare un salario equo negli Usa? Come andarono veramente le cose che intralciarono la Rivoluzione delle Polveri in Inghilterra? E quella del Cubismo? Per vivere tutta l’emozione di un evento straordinario, a volte anche mancato o addirittura raccontare rivoluzioni che non sono riuscite a rivoluzionare un bel niente, ricordate che siamo partiti, come dicevamo, dal giorno prima. 8 Guida alla lettura Ogni lettore è diverso e, probabilmente, alcuni troveranno più stuzzicanti le rivoluzioni un po’ controverse, che hanno fatto scandalo. Altri preferiranno le storie in cui si resta con il fiato sospeso fino alla fine. Qualcun altro, invece, amerà calarsi in rivoluzioni più note, ma osservate da un punto di vista del tutto inaspettato. Alla fine del libro troverete brevi note storiche sui fatti veramente accaduti legati a ciascuna rivoluzione. Potete leggerle prima di lasciarvi coinvolgere dai racconti o anche dopo, per approfondire il quadro. Alla termine di ogni racconto, non mancherà una breve autobiografia pseudo-reale dell’Autore, con tanto di mail per i contatti. Scriveteci – se volete - ci farebbe piacere sapere cosa ne pensate. Non resta che ringraziarvi per averci seguito fin qui e buona lettura! 9 1972 La rivoluzione: Il primo film porno di Debora Michelini Grida telefoni che squillavano odore di caffè tasti pigiati fumo di sigarette eccitazione sedie spostate con violenza imprecazioni fogli accartocciati rabbia Nel caos della redazione il direttore fissava in fondo alla sala una ragazza. Sembrava uscita da una copertina di Rolling Stone, perfetta groupie dalle alte zeppe colorate di qualche cantante rock. Un ciclone, alto un metro e settanta di camicette svolazzanti e pantaloni a zampa. Creava più guai lei, che la maggior parte dei suoi giornalisti e il suo lavoro consisteva nel rispondere alla rubrica ‘La posta del cuore di Maude’; per quale perverso motivo poi un 11 | 1972 | quotidiano dovesse avere una posta del cuore era un mistero. Tutti pensavano fossero amanti, ma lui quella ragazzina la conosceva fin da piccola. Si ricordava ancora il loro primo incontro. Aveva sentito bussare e davanti la porta si era trovato un soldo di cacio dagli occhioni lucidi, una coda di cavallo, una borsetta rosa e un cane. Non vi furono bisogno di parole, le grida provenienti dalla finestra dall’altra parte dello steccato erano sufficienti. Li aveva scelti. In una marea di facce bianche, Constance, aveva scelto l’unica coppia di colore del quartiere. Era sempre andata controcorrente, con quella naturalezza che solo i veri ribelli hanno. L’imprecazione di un fattorino lo fece trasalire, riportandolo al presente. La bionda figura china sulla macchina da scrivere stava piangendo. La scrivania, un campo di battaglia: fazzoletti di carta bibite zuccherate barrette di cioccolata. Scriveva e piangeva. Piangeva e scriveva. 12 | 1972 | Il motivo di quel pianto poteva avere un centinaio di possibilità, da un gattino che si era perso al contenuto della lettera a cui stava rispondendo, passando per l’ennesimo uomo senza spina dorsale che aveva fatto entrare nella sua vita. Non li cercava con il lanternino ma con il fiammifero. Attirava sempre quello sbagliato, o più probabilmente erano loro ad essere attirati dall’innocenza che era riuscita a salvare, nonostante la vita si fosse accanita su di lei, come un machete su un cocomero. L’ultimo ‘fidanzato’ inginocchiandosi le aveva messo un anello al dito. Qualche settimana dopo, le aveva confessato una convivenza ben avviata dall’altra parte della città. Dulcis in fundo rivoleva indietro l’anello, perché stava per diventare padre e gli servivano soldi. Si accese l’ennesima sigaretta. Ormai aveva smesso di contarle. Doveva prendere una decisione. Le aveva già affidato altri incarichi, ma non sempre erano andati a buon fine, come quella volta del funerale. L’aveva mandata 13 | 1972 | alla veglia di un divo del muto, era ritornata senza articolo e in lacrime. Aveva sbagliato cerimonia. Accorgendosene troppo tardi per andarsene. Rimasta fino alla fine, aveva riaccompagnato i genitori del ragazzo a casa, raccontando durante il tragitto, falsi aneddoti per tirargli su il morale. I giornalisti migliori erano tutti occupati. La città era in fermento: la rielezione di Nixon, la guerra in Vietnam, il divorzio, l’aborto, omicidi e ingiustizie. In ogni angolo di strada vi era una storia da raccontare. New York era una polveriera sempre pronta ad esplodere e loro dovevano mettere il sedere su quella polveriera, era questo il mestiere del giornalista. Una sirena di passaggio lo catapultò agli attentati avvenuti una ventina d’anni prima, quando le bombe scoppiavano e lui, incurante del pericolo, correva verso il luogo da cui tutti scappavano, correva verso la notizia. La notizia in quel caldo giugno del 1972 era la 14 | 1972 | prima di un film al New Mature World Theatre di Times Square. Poteva assegnare il lavoro ad uno dei giornalisti rimasti, ma solo lei aveva le giuste qualità per quell’articolo. Ne era certo il professionista con anni di esperienza alle spalle e il padre orgoglioso che era diventato applaudendo ogni suo successo mentre quello biologico era troppo occupato a non morire soffocato dal proprio vomito. Sospirò. Non aveva altro tempo da perdere. Si alzò e si diresse verso il fondo della sala. Constance alzando lo sguardo, vide Duke dirigersi verso la sua scrivania. L’espressione del viso non prometteva niente di buono. Tirò su col naso, diede un morso alla cioccolata e ripensò alla sera precedente con Scott, il suo ennesimo ‘ex ragazzo’, che con lo stesso tono monocorde che usava per ordinare un Martini le diceva che fra loro non funzionava. Incompatibilità di carattere. Preferiva tornare dalla moglie e dalla figlia. “Quale moglie 15 | 1972 | e quale figlia?” Aveva chiesto. Tre mesi di relazione e mai un accenno sull’essere un uomo sposato con tanto di prole. Per tutta risposta si era sentita dire, che avrebbe potuto chiedere. Certo, uno può dimenticarsi di dire alla sua ragazza di avere una famiglia. “Constance, ti posso disturbare?” la voce del direttore interruppe i suoi pensieri. “Ho fatto qualcosa di male?” disse cominciando a mordersi le unghie “Se ho fatto qualcosa di male dimmelo, non era mia intenzione, lo sai. È venuto di nuovo qualche marito arrabbiato? Perché se è così cerchiamo di capire, alla fine ho ragione io, si comportano male, non puoi darmi torto………”. Constance era un fiume di parole in piena. Le capitava ogni volta che s’innervosiva. Duke la conosceva da sempre. Lui, la moglie Ella e i figli erano diventati la sua famiglia. Quando le urla superavano la musica si rifugiava da loro. Il padre, un poliziotto di origine italiana, era un 16 | 1972 | po’ troppo manesco con la madre: una donna fragile e indifesa che non avrebbe fatto male a una mosca, troppo giovane per crescere una figlia, troppo debole per ribellarsi. “Constance, calmati. Non hai fatto niente di sbagliato. Ho bisogno di te, tutto qui” “Sei nei guai?” chiese la ragazza visibilmente preoccupata. “Si, no. Ascoltami, è per un articolo. Sarò sincero, ho avuto molti dubbi prima di sceglierti” “Quanti complimenti” “Constance, smettila. Ti faccio sempre un sacco di complimenti per il tuo modo di scrivere e non solo, ma sull’affidabilità… diciamo che ti perdi un po’” “Non lo faccio apposta” “Lo so. Ora ascoltami però, non abbiamo molto tempo” le rispose poggiandole una mano sul braccio. “Ti voglio dare un incarico. Ma prima smetti di piangere. Lo sai che non posso vederti in 17 | 1972 | questo stato” e le passò un fazzoletto di carta. “Finalmente. Fammi fare qualcosa, fammi uscire da questo posto. Ho bisogno di distrarmi. Te lo assicuro, non ti deluderò.” Duke sospirò. “Vorrei che fossi tu a scrivere l’articolo su Gola Profonda” Constance alzò un sopracciglio e chiese: “Il film porno?” Dalla finestra del suo ufficio l’uomo la vide prendere un taxi. Aveva accettato. Sapeva che non avrebbe mai detto di no, la sua ‘ragazza’ amava le avventure e odiava i rimpianti. Era raggiante. Sarebbe stato il suo primo articolo firmato. Il Time e sicuramente il New York Times sarebbero stati presenti; forse Vogue… No, Vogue era troppo bon ton per occuparsi di quel genere di pellicole ma Vanity Fair… Doveva calmarsi, prima di sognare ad occhi 18 | 1972 | aperti sul suo futuro come penna di punta di un giornale a tiratura nazionale, avrebbe dovuto risolvere l’annosa questione del vestiario: come ci si vestiva o svestiva per andare al party in onore di un film porno? Penna e taccuino. Sandali e pochette. Tutina verde e schiena nuda. Aveva fatto il suo ingresso alla festa. Inizialmente guardata con curiosità e sospetto, era riuscita a guadagnarsi la fiducia di quelli che aveva avvicinato, scoprendo che attori e attrici, in quel mestiere, non vedevano solo il guadagno ‘facile’; per loro girare film porno era una forma di ribellione contro i canoni di una società bigotta e repressiva. Moderni eroi olimpionici nudi ed ansimanti. Il mondo del porno, però era tutto tranne che libero: dominato dalla mafia che pagava i conti e si aspettava guadagni veloci; perseguitato dalla polizia, stigmatizzato dai benpensanti. Lei non capiva quell’accanimento. Non facevano 19 | 1972 | male a nessuno. Alcuni membri della troupe di Gola Profonda le avevano riferito interrogatori infiniti da parte della FBI. Narrava leggenda metropolitana, che negli uffici del vecchio J. Edgar Hoover, ormai passato a miglior vita, vi fosse un dossier di 5000 pagine d’indagini dedicato al film. Il Bureau aveva fatto di tutto per fermarne l’uscita facendo sequestrare più volte le copie dei nastri. Tutto quel trambusto non aveva fatto altro che aumentarne la popolarità. Cercò invano la coprotagonista del film: Dolly Sharp, splendida quarantenne proveniente dal Texas. La donna, finite le riprese era scomparsa e nessuno sapeva molto su di lei. La sua nuova ‘amica’ Zoe, inguainata in un luccicante abito rosso, il cui nome in origine era Hugo, l’aveva conosciuta. Sfuggente, era la parola che le era subito venuta in mente per descrivergliela, come quelle persone che non rimanevano mai in un posto troppo a lungo. Di poche parole, elegante e forbita, 20 | 1972 | Dolly, sembrava capitata lì per caso. In molti credevano fosse la moglie annoiata di un miliardario, che si era divertita a provare un’esperienza nuova. Ammesso e non concesso che fosse vero, Constance si chiedeva se la motivazione fosse da ricercarsi nella noia o nella fame di esperienza. La teoria della benestante in cerca di divertimento era solo una delle svariate storie che giravano sulla misteriosa signora. L’ambiente pornografico assomigliava a un grande condominio dove nessuno si faceva gli affari propri e ognuno pensava di sapere tutto di tutti. Un cameriere che distribuiva un frizzante liquido dorato le passò accanto, Constance chiuse il taccuino soddisfatta e si diresse verso l’uomo. Senza sapere come, si ritrovò lo champagne e lo sguardo divertito di un ragazzo addosso. “Scusa, non volevo, ovvio che non volevo non 21 | 1972 | ti conosco neppure, mi spiace” aveva esordito mentre tentava con le mani di asciugare i pantaloni del giovane. “A posto, è tutto a posto. Grazie faccio da solo” le aveva risposto lo sconosciuto tentando di fermarla. “Scusa, scusa ancora” “Rilassati, nessun problema. Piuttosto, dato che io non ho più da bere e da quello che avevo notato prima che avessimo, come dire, il nostro incontro, ti stavi dirigendo verso lo champagne… direi che possiamo andare assieme a recuperarne un po’. Posso darti del tu o ti offendi? Io mi chiamo Wes Craven” le disse porgendole la mano. Chiacchierando con Wes aveva scoperto che l’ambiente pornografico dava lavoro a molti studenti di cinema: manovalanza a basso costo per i produttori, possibilità di farsi le ossa per i ragazzi. Appena la stanza avesse smesso di girare 22 | 1972 | sarebbe scesa dal letto e avrebbe chiamato Duke. Il trillo del telefono la fece sobbalzare. “Pronto? Constance? Tutto bene? Sei andata alla festa giusta? Constance, rispondi prima che Ella mi uccida, si è arrabbiata tantissimo quando ha saputo dove ti avevo mandato. Constance?” la voce dall’altra parte del telefono era preoccupata. “Duke potresti non gridare per favore? Ho la testa che mi esplode. Ho bevuto un po’ troppo.” “Come sarebbe a dire che hai bevuto un po’ troppo?” “Mi passi Ella, per favore? Ho conosciuto un ragazzo. Pare un tipo a posto.” “Constance” aveva detto, non prima di tirare un lungo sospiro per calmarsi “Constance, hai incontrato un uomo? Constance, incontri sempre degli uomini… Non è molto difficile per te. Il problema è che non sono delle brave persone. Ne abbiamo già parlato, mi sembra di farti gli stessi discorsi di quando eri piccola. Il fatto che una persona sembri una brava 23 | 1972 | persona non è detto che lo sia. Poi, prima di definire bravo ragazzo uno che partecipa ad un party organizzato per l’uscita di un film porno ne ha di acqua da passare sotto i ponti. Ti ho mandato a fare interviste non a conoscere ragazzi”. In sottofondo la voce risoluta di Ella diceva di lasciare in pace la ragazza, l’aveva mandata in un posto pericoloso, pieno di mafiosi; poteva accaderle di tutto e aveva pure il coraggio di sgridarla e poi non si giudica un regalo dal pacchetto, il ragazzo poteva essere una bella persona. Duke alzò gli occhi al cielo, quella donna riusciva sempre a fregarlo. “Constance, ti sei segnata tutto?” le chiese prima di salutarla “Non per essere pedante, ma non vorrei che finisse come quella volta del funerale. Mi raccomando, devi essere precisa, non lasciare dubbi, non essere approssimativa.” 24 | 1972 | A volte si sentiva un allenatore di pugilato piuttosto che il direttore di un giornale ma doveva ammetterlo, la signorina aveva tempra, nonostante le ore piccole e l’alcool, aveva buttato giù delle ottime idee. Dell’ubriacatura ne avrebbero riparlato ad articolo mandato in rotatoria. Letto pavimento latte biscotti succo d’arancia doccia acqua fredda energia Aveva spalancato l’armadio alla ricerca di un vestiario appropriato per intervistare il regista e gli attori principali: voleva essere presa sul serio. Vestito nero scarpe basse chignon eleganza professionalità sospiro mano taccuino campanello La porta si aprì e un omino uscito da un racconto di fate senza farla parlare la trascinò 25 | 1972 | attraverso un corridoio pieno di camere in cui non sapeva dove guardare, anzi dove non guardare, in ogni stanza corpi nudi e sudati. Aveva tentato in ogni modo di spiegargli che non era una debuttante del porno. L’uomo non l’ascoltava, continuava a dirle di non preoccuparsi, che non sarebbe successo niente, che sarebbe andato tutto bene, che la sua era una piccola parte, che non doveva fare praticamente nulla. Gli aveva ribadito il concetto: NON ERA UNA DEBUTTANTE DEL PORNO. L’unica cosa che riuscì ad ottenere fu: “Meglio, così sai già cosa fare. Spogliati e mettiti questi”. Non osava chiedersi come avessero potuto scambiarla per un’attrice porno; non aveva esattamente il cosiddetto physique du rôle, ma ormai era lì, perché no? Poteva essere un’esperienza interessante. Entrò silenziosamente nella camera dove Harry Streichner stava dando generosamente 26 | 1972 | “tutto sé stesso”, come suggerito dal regista, a una donna dai capelli scuri. Nell’attesa, Constance aveva imparato a memoria ogni venatura del lampadario al centro della stanza, per quel giorno aveva già visto abbastanza. La sera precedente una prosperosa bionda dai capelli ossigenati le aveva descritto minuziosamente le doti dei paesi bassi di Harry. Da quello che si diceva, l’attore appena sentiva il rumore della macchina da presa aveva un’erezione, cosa che gli aveva permesso di prendere parte a decine di pellicole a luci rosse clandestine. Un bell’uomo, dai profondi occhi scuri e dalle mascelle ben disegnate, figlio di ebrei del Bronx, aveva servito per un breve periodo il paese facendo parte della Marina degli Stati Uniti. Attore di film porno dopo aver tentato la strada dei teatri off-Broadway con scarso successo. Nel ruolo del dottore che scopre il motivo del mancato orgasmo di Linda Lovelace 27 | 1972 | era approdato per caso, sembrava che nessuno fosse adatto al ruolo, poi il regista lo vide e lui da semplice figurante divenne protagonista. Le riprese durarono sei giorni. Lui lavorò per uno incassando duecentocinquanta dollari. Mentre parlava Constance, si domandava cosa provasse realmente per come si guadagnava da vivere. “Signor Streichner, lei è stato un attore di teatro, come si sente a recitare in un film porno?” Vide una strana espressione sul suo viso, Constance si chiese se avrebbe parlato l’uomo o la maschera. “So che non dovrei rispondere con una domanda ad una domanda ma vorrei sapere perché me lo chiede, lo ritiene un fallimento?” “No” aveva risposto Constance “È un fallimento solo se lei lo ritiene tale, io voglio solo capire” Prima di risponderle l’aveva fissata per un lasso di tempo indefinito. 28 | 1972 | “Denaro. Senza soldi non mangi e se non mangi muori. Per sopravvivere a questo mondo devi in qualche modo perdere una parte di te stesso. Puoi sentirti il miglior attore del mondo ma se non riempi le casse al botteghino nessuno ti prende sul serio, nessuno ti considera” Rimasero per un po’ in silenzio persi nella risposta che aleggiava nell’aria. Il tramestio nella stanza a fianco ridestò entrambi. Un uomo fece capolino dicendo che il set era pronto. Harry le chiese se aveva altre domande. “Una. Come descriverebbe in un aggettivo Linda?” “Dolce, una ragazza dolce” fu la risposta. L’autobus sfrecciava veloce. Nella testa di Constance la lunga lista con cui aveva spesso sentito definire chi lavorava nell’industria pornografica: pervertiti, spregiudicati, amorali per citarne alcuni ma lei percepiva qualcosa di simile al dolore; il mondo del porno come approdo di anime alla deriva, il cui rifugio 29 | 1972 | non poteva essere nella caritatevole società americana ma in un luogo parallelo in cui trovare anime gemelle fatte delle stesse cicatrici. In metropolitana Constance decise che avrebbe riferito con calma a Duke di aver preso parte a un porno “vestita” da schiava dell’antico Egitto, sventolando gli attori con un gigantesco ventaglio fatto di piume rosa mentre loro……… sì, sarebbe stato meglio parlargliene il giorno dopo alla presenza di Ella e dei ragazzi, era già abbastanza irritabile. Gerard Damiano, il regista. Uomo particolare. Sorriso sincero, parlantina veloce, curiosa capigliatura bicolore. Chissà se il giovane Damiano, lustrascarpe a Times Square, avrebbe mai immaginato che anni dopo in quello stesso luogo le persone avrebbero fatto la fila per vedere il parto della sua fantasia. Gerard in arte Jerry Gerard gestiva un negozio 30 | 1972 | di parrucchiere con la moglie; ascoltando le confidenze delle clienti aveva capito che il mondo femminile nascondeva grandi insoddisfazioni sia dentro che fuori la vita coniugale. Il caso volle che un suo dipendente collaborasse al trucco e parrucco in un film per adulti, ne rimase folgorato. Quello che aveva sentito nel negozio lo aveva ispirato per la sceneggiatura. La sua missione: sdoganare il cinema a luci rosse elevandolo ad arte. Gola Profonda era la sua creatura, ne aveva curato regia, sceneggiatura e montaggio; aveva cambiato i nomi degli attori: Harry Streichner era diventato Harry Reems, l’uomo non lo sapeva ancora ma lo avrebbe scoperto di lì a poco e Linda Susan Boreman era diventata Linda Lovelace, convinto che la doppia consonante fosse un marchio da sex simbol. Linda era stata scelta dopo che Chuck Traynor, il marito, si era presentato da lui e dai produttori dicendo che la moglie sapeva fare 31 | 1972 | una cosa con la bocca ed era davvero brava, il tutto comprovato da un filmino. Ne rimasero affascinati, come lo furono di Linda, che Gerard definì una bella persona. Non aveva molta fame, non vedeva l’ora di intervistare la protagonista. Nonostante tutte le informazioni raccolte non era ancora riuscita a farsi un’opinione su di lei, iniziava a farsene una sulle aspettative che si erano create attorno al film. Ogni epoca era ossessionata da qualcosa, la sua: dal sesso. Farlo, non farlo, farlo poco o troppo, farlo solo per piacere, farlo a pagamento, farlo per riprodursi. Tutto ruotava attorno al sesso e come se non bastasse il film era incentrato sull’orgasmo femminile, ai più sconosciuto come aveva avuto modo di apprendere grazie alla ‘posta del cuore’. “Posso accendere il registratore? Le scoccia?” aveva domandato Constance. “No, no nessun problema, sono abituata 32 | 1972 | a farmi registrare” aveva risposto Linda accompagnando il tutto con una risata. “So che questo non è il suo primo film porno. Vorrei sapere però come è stata scelta per Gola profonda” “Diretta alla meta. Brava. Chuck è conosciuto nell’ambiente e mi ha proposto ai produttori e al regista del film” “Chuck è suo marito, giusto?” “Si” “Non è geloso?” “Si tantissimo, ma quando recito è diverso. Poi in questo modo aiuto il budget familiare. Siamo una giovane coppia e solo con il lavoro di Chuck…” Chuck Traynor come per magia fece il suo ingresso. Non riusciva a catalogare quell’uomo. Voci insistenti lo definivano un tipo manesco. Una ragazza, la sera precedente, le aveva riferito di aver partecipato a una delle feste di fine giornata che si svolgevano a Miami durante la lavorazione di Gola Profonda 33 | 1972 | e dalla stanza dei Traynor provenivano rumori che tutto facevano presupporre tranne che al suo interno stesse avvenendo qualcosa di piacevole. “Linda suo padre è poliziotto, sua madre casalinga, come hanno preso la sua partecipazione al film?” La donna si oscurò in volto e sospirò. “Mia madre è sempre stata molto severa. Secondo lei le donne sono fatte per stare in casa e assecondare i mariti. È una fervente cattolica. Non ha preso proprio per niente bene il film. Ma purtroppo non è la prima volta che la deludo” “In che senso? Se posso permettermi di chiedere” “A vent’anni feci uno sbaglio, un madornale sbaglio. Tipico di quando sei una ragazzina ingenua. Rimasi incinta e diedi in adozione il bambino. I mesi seguenti furono tremendi, mi controllava sempre, cosa che non mi impedì di avere un bruttissimo incidente stradale per il 34 | 1972 | quale dovetti far ricorso a delle trasfusioni” “Fu in quel periodo, se non sbaglio che incontrò suo marito” “Si, e mi cambiò la vita, pensi che mi fece smettere di fumare con l’ipnosi” “L’ipnosi, sì sì” Constance sperava che dalla sua faccia non trapelasse quello che pensava. Sentiva che qualcosa non andava in quello che l’attrice diceva. Non vi era falsità, ma qualcosa non quadrava. Quella donna sembrava essere sempre sotto controllo. Prima dalla famiglia poi dal marito. Avrebbe voluto chiederle se era vero che l’aveva sposata in modo da impedirle di testimoniare in merito ai suoi traffici che nell’ambiente si mormorasse fossero poco leciti. Avrebbe voluto chiederle se era vero che avevano dovuto allontanare il marito dal set per permetterle di essere più sciolta. “Di cosa si occupa suo marito esattamente?” “Di me fondamentalmente, è il mio manager. Ma ha ottime conoscenze pure nel settore 35 | 1972 | dell’intrattenimento” Constance era un po’ dubbiosa sulla definizione di intrattenimento riguardo a quello che aveva sentito dire di Chuck ma non aveva tempo per indagare ulteriormente… Spento il registratore, ringraziato tutti, si era avviata verso la porta. Linda l’aveva seguita sulla soglia e le aveva chiesto se il mestiere di giornalista era affascinante come pareva e che lei le era sembrata una ragazza in gamba. Tristezza. Quella donna sempre attorniata di persone emanava un inconsapevole senso di tristezza, di solitudine, d’incompiutezza. Maltrattata, non solo nel corpo, ma anche nella mente. Si sarebbe aspettata una spumeggiante ragazza e si era ritrovata davanti una timida donna che invece di cavalcarla la vita la subiva. Sembrava che ogni scelta che aveva fatto fosse stata in qualche modo veicolata dagli altri. Come se lei non riuscisse a 36 | 1972 | prendersi le sue responsabilità. Sembrava non sentirsi mai all’altezza, quando le aveva risposto che per ora era poco più di uno scribacchino e che avrebbe potuto fare pure lei lo stesso mestiere. La donna aveva risposto che non ne sarebbe stata all’altezza. Prima che Constance potesse dirle che se voleva poteva essere tutto quello che desiderava, il marito aveva chiamato Linda troncando la conversazione. Porta chiavi vestiti barrette di cioccolata aranciata gelato doccia succo di frutta divano Sdraiata con i capelli gocciolanti, sbocconcellando un biscotto tentava di liberare la mente per prepararsi alla proiezione del film. Prima di conoscerlo immaginava il mondo del porno come una colorata carovana circense. Ora, la sua percezione era cambiata. Lo vedeva come un battaglione di soldati mandati in guerra per far soldi e come in tutte le guerre 37 | 1972 | venivano già messe in conto le possibili perdite sul campo. Gli attori come soldati: unità, numeri. Facilmente sostituibili. Mentre era tutt’uno con l’armadio alla ricerca di qualcosa da mettersi, il telefono cominciò a trillare, era Duke. Doveva sbrigarsi, la fila aveva raggiunto un isolato e lei rischiava di non entrare. Cominciava a essere eccitata. La stampa sarebbe stata presente e improvvisamene penso: Oh mio Dio, io sono la stampa. Pantaloni a zampa zeppe canotta borsa penne taccuini barrette di cioccolata caramelle gomma da masticare succhi di frutta porta chiavi metropolitana Un guasto al convoglio. Doveva percorrere a piedi l’ultimo tratto. Conosceva New York, temeva ogni tipo di sorpresa. 38 | 1972 | Uscita dalla metro una suora che sembrava sotto l’effetto di qualche acido l’aveva afferrata e sbattuta a terra al grido di: “Dio salvaci da nostri peccati”. Attorno uomini e donne di ogni età pregavano inginocchiati e rispondevano ad ogni sproloquio della donna con grida di giubilo. Aveva tentato di rialzarsi ma era stata sbattuta nuovamente sulla banchina. Alzando gli occhi al cielo, aveva fatto un respiro profondo e finto di pregare. Ebbe la sua occasione di fuga quando la religiosa accompagnata da una chitarra, si era messa a cantare seguita dal gruppo alzatosi in un cerchio ballerino. Allontanatasi abbastanza aveva afferrato la Polaroid che all’ultimo momento aveva deciso di portare con sé e scattato qualche foto. Forse pregare l’aveva salvata dalla polizia a cavallo che stava caricando dei manifestanti favorevoli alla legge sull’aborto. New York, non riposava mai, nemmeno d’estate aveva pensato. A conferma di ciò, un camioncino dei pompieri a sirene spiegate l’aveva quasi 39 | 1972 | travolta facendola finire addosso ad una donna che distribuiva volantini per la rielezione di Nixon; dietro di loro aveva luogo un piccolo comizio. Mancava poco, sarebbe arrivata al Mature, si sarebbe messa in fila e avrebbe ottenuto il suo biglietto. Non voleva pensare al riflesso della sua immagine nello specchio di una vetrina, persino i manichini sembravano scioccati dal suo aspetto. Capelli scarmigliati, vestiti sporchi, per non parlare del fatto che si sentiva appiccicosa come un lecca lecca e girato l’angolo: una fila infinita di persone fra lei e il botteghino. Aveva scattato istintivamente qualche foto alla lunghissima coda fatta di persone di ogni età, ceto e razza. Se aspettava il proprio turno non sarebbe riuscita a ottenere il biglietto. Poi vide una giovane donna e le venne un’idea. 40 | 1972 | Aveva dovuto lottare con una femminista che manifestava davanti alla biglietteria contro la mercificazione del corpo della donna e non era del tutto orgogliosa di quello che aveva fatto, ma in fondo in amore e in guerra tutto è permesso e lei amava il suo lavoro. Si diresse verso una tavola calda per chiamare Duke. Foto borsa chiavi cioccolata polaroid penne foto rossetto gomma da masticare taccuini centesimi foto Constance e il contenuto della sua borsa erano a terra, un uomo le stava porgendo la mano e le chiedeva se si era fatta male. Doveva smetterla di sbattere addosso alla gente, soprattutto agli uomini. Ma lei quell’uomo lo conosceva. Era un fotografo dell’Associated Press, una delle più importanti agenzie di stampa che lei conoscesse. “Stai bene?” 41 | 1972 | “Sì, sì grazie” “Sei qui per la prima del film? Sei giornalista?” “Ehm…” era un po’ imbarazzata, si sentiva in soggezione, lui era un fotografo di fama internazionale e lei nessuno “Sì sono qui per Gola profonda, come lo ha capito?” L’uomo rise indicando la borsa. ”Lavoro anch’io per la stampa. Puoi darmi del tu. Eddie Adams” concluse porgendole la mano. “So chi sei. Io mi chiamo Constance…” la sirena di un’ambulanza coprì le sue parole. “Ho visto le tue foto, sembrano interessanti, se vuoi possiamo fare quattro chiacchiere davanti un caffè, intanto ti lascio il mio biglietto da visita” Constance balbettando un ringraziamento, afferra il prezioso pezzetto di carta. “Duke, avevo un problema… Ho detto avevo, non ho… Sì lo so che è interminabile. Ma io ho il biglietto… Come ho fatto? Mmmh… un uomo 42 | 1972 | all’inizio della fila mi ha retto il gioco… eeeh… beh, diciamo che ho fatto finta di essere sua moglie e di essere incinta… Pronto, pronto… Sei ancora lì?” Continuava a scattare, la macchina fotografica a nascondere il suo imbarazzo. Non conosceva nessuno, ma sapeva chi erano molti dei presenti. Non aveva il coraggio di avvicinarli. Se le avessero chiesto di cosa si occupava avrebbe dovuto parlare de ‘La posta di Maude’, che però ripensandoci era pur sempre un lavoro e soprattutto attraverso la rubrica aveva aiutato molte donne a liberarsi di mariti maneschi, traditori o semplicemente dei buoni a nulla per i quali tutto era dovuto per il loro status di maschi. Sì la sua rubrica in fondo era un lavoro dignitoso. Le vie del Signore operano in maniera curiosa, aveva tentato di scansare i colleghi perché non era pronta a presentarsi come una di loro ed 43 | 1972 | era finita col sedersi a fianco dei reporter del Time e del New York Times. Sessantun minuti di film. Orgasmi e carne esposta senza alcuno spazio per l’immaginazione una sala piena di gente, due giornalisti maschi ai lati, lei conciata come uno scarabocchio su un block notes. Nell’attesa che il film cominciasse tutto quello che si muoveva in sala veniva impresso sulla pellicola. “Ahi” aveva dato una gomitata al giornalista del New York Times mentre fotografava una distinta coppia di coniugi pochi metri dietro di lei. “Mi scusi, sono costernata, non l’ho fatto apposta” “Vorrei ben vedere” le disse sorridendo l’uomo “Ti siedi un attimo e ti calmi, mi sembri un po’ troppo nervosa” “Mi scusi, mi scusi. Io sono Constance…” 44 | 1972 | “La “figlioccia” di Duke, lo so, siamo amici di vecchia data. Avevamo scommesso se riuscivi a portare a termine questo incarico… sai dopo quella volta del funerale…” Constance alzò gli occhi al cielo “Ma siete tutti fissati con quella storia, è successo una volta sola” “Beh, diciamo che ti è successo una volta sola di finire al funerale sbagliato ma sei entrata pure nella casa sbagliata per un reportage” “Siete molto amici vedo. Per curiosità chi ha puntato su di me?” “E me lo chiedi. Duke. Ripone molta fiducia in te” “Cooonstance…” una vocina appartenente a un volto dalle lunghe ciglia finte interruppe la conversazione. “Hugo, che ci fai qui?” “Tesoro, chiamami Zoe” rispose dandole un buffetto e guardando con occhi ammalianti i giornalisti seduti “se mi chiami Hugo la gente pensa male. Non potevo perdere la prima. Se 45 | 1972 | manco io, manca tutto e poi il mio ‘paparino’ ha tanto insisto per venire” disse accennando un saluto a un distinto signore dai capelli bianchi. Le luci cominciarono ad abbassarsi. Zoe corse al suo posto. “Beh, direi che sei molto addentro all’ambiente” le disse il giornalista del New York Times sghignazzando prima che si spegnessero del tutto. Fissare lo schermo, non guardare da nessuna parte, scrivere. Aveva già visto roba porno, non pensava vi fosse niente di strano, ma non aveva due colleghi che ammirava seduti di fianco a lei e il numero di persone presenti erano due lei compresa e non un’intera sala cinematografica. Scrivere, ma cosa? Le scene, avrebbe potuto scrivere le scene salienti, gli snodi… ma quali snodi? 46 | 1972 | Il film cominciava con Dolly a gambe aperte davanti ad uno sconosciuto che le dava piacere con la lingua e Linda che sistemava tranquillamente la spesa come se i due stessero giocando a ramino. Mentre la pellicola scorreva sullo schermo, l’uomo del Times ogni tanto la fissava. Damiano si era lanciato in una metafora… un attore beveva dalle beltà di Linda della Coca Cola invece di vino pregiato: il piacere come oggetto di largo consumo. Un’altra metafora: fuochi d’artificio = orgasmo. Quell’uomo faceva sul serio, le veniva da ridere ma si trattenne, non voleva attirare l’attenzione. Corse alla toilette, non aveva il coraggio durante l’intervallo di parlare con qualcuno. Lo stesso problema non sembravano averlo le persone in fila con lei e quelle presenti in sala. Un cicaleccio continuo e risatine un po’ troppo eccitate riempivano l’aria. 47 | 1972 | Il film era quasi finito, aveva visto le “doti artistiche” di Harry Reems, la particolare bravura di Linda, i colpi di genio di Damiano e aveva riempito cinque taccuini. Ora doveva rientrare e scrivere l’articolo. Mentre usciva dal cinema la raggiunse il reporter del Time. “Scusa ti posso fare una domanda? Non mi guardare male, sono un reporter del Time, ero seduto vicino a te alla proiezione” “Ti conosco, ho letto i tuoi articoli. Dimmi” “Che cosa hai scritto per tutto il tempo? Perché io non riesco proprio a capire cosa tu abbia potuto scrivere per sessantun minuti di quel genere di film!” Nella redazione il ticchettio delle macchine da scrivere riempiva l’aria. Ogni scrivania un piccolo pianeta a sé. Constance attendeva che Duke arrivasse alla fine dell’articolo. Lo vide 48 | 1972 | posare l’ultimo foglio, ma prima che potesse decifrare le sue emozioni, il telefono squillò. “Constance mi dispiace per l’articolo” le disse Steven il figlio maggiore di Ella e Duke. L’articolo sarebbe andato in stampa l’indomani, un aereo della American Airlines aveva tenuto tutti con il fiato sospeso rischiando di cadere ma i piloti erano riusciti a portare i passeggeri e l’equipaggio sani e salvi a Detroit. Parte del carico era caduto, compresa una bara finita nell’orto di un italo-canadese. Chissà se era stato subito creduto dai poliziotti quando li aveva chiamati per denunciare che gli era piovuta una salma fra le patate. “A proposito, scricciolo, grazie per essere la pecora nera in famiglia. Abbiamo saputo del cameo come si dice al cinema” disse sghignazzando Andy il secondo dei Freeman “Puoi raccontare di nuovo come sei finita in un film porno? Hai, mamma mi hai fatto male” “Smettetela di darle fastidio” disse Ella 49 | 1972 | guardando verso la porta. “Vostro padre si è appena calmato, è tutta sera che borbotta” Mentre si asciugava le mani Duke non ci poteva pensare. Un film porno. Egitto. Piume. Gente nuda. Constance. Quella benedetta ragazza finiva sempre in qualche strana situazione. Stava scrivendo un articolo su un film porno, non era necessario prenderne parte. D’accordo essere sul pezzo ma questo era troppo. La capocchia di un fiammifero, una fiammella improvvisa, una sigaretta, una scia di fumo. Duke osservava la strada dal porticato. La notte in quella parte della città non faceva paura. Schiere ordinate di casette bianche con giardino. Aveva deciso di far crescere lì i suoi figli, sembrava il luogo perfetto ma non esiste rosa senza spine. Constance ne era la riprova, nata nella parte giusta della città, bianca, bionda 50 | 1972 | e bella ma dietro quella splendida facciata vi era il vuoto di una famiglia disgregata, la morte improvvisa, la ricostruzione di una vita. La porta cigolò. “Ciao, posso mettermi vicino a te?” Duke sorrise. “Vuoi qualcosa o hai bisogno di qualcosa?” Lei sorrise di rimando. “Devo dirti una cosa” “Prima voglio chiederti una cosa io. La firma, sull’articolo. Sei sicura?” “Non vuoi?” “Certo, che voglio. Ma voglio che tu sia sicura della tua scelta” Rimasero per un po’ in silenzio, in sottofondo lo stridio dei freni di una macchina, la musica classica degli Horobowitz, il cane dei Sullivan che abbaiava contro qualche nemico immaginario. “Sì, sono sicura. Voi vi occupavate di me 51 | 1972 | ancora prima che morissero. Tu, Ella e i ragazzi siete la mia capanna sull’albero, la mia scialuppa di salvataggio. Io mi sono sempre sentita incompresa, diversa. Per non parlare di quando papà picchiava mamma o insultava me per poi scusarsi in continuazione. Ogni giorno non sapevamo come sarebbe tornato o se sarebbe tornato. Quando siete arrivati io e Bo vi osservavamo mentre traslocavate. Bo scodinzolava. Mi sono sempre fidata delle sue opinioni. Emanavate felicità, calore. Se so che la felicità esiste e posso averla anch’io è perché voi me lo avete insegnato.” Duke taceva, aveva gli occhi lucidi. Avrebbe conservato quel momento per tutta la vita. “Non rinnego la mia famiglia. Mamma e papà erano due disperazioni che non avrebbero mai dovuto incontrarsi. Ho smesso di essere arrabbiata con loro, ma gli articoli li voglio firmare con il tuo cognome” “Riesci sempre a sorprendermi. Dimmi quello che mi dovevi dire” 52 | 1972 | “Ieri ho incontrato Eddie Adams” “Il fotografo?” “Si. Ha visto delle foto che avevo fatto. Oggi ne ha volute vedere altre. Gli ho portato pure degli articoli e alcune risposte per la ‘Posta di Maude’ “È rimasto colpito vero?” Lei non riuscì a trattenere un sorriso orgoglioso “Sì e mi ha proposto di andare in Vietnam con lui. Io scrivo, lui fotografa e mi insegna a migliorare i miei scatti” Duke non riusciva a parlare. Non sapeva quello che provava, non sapeva quello che doveva dire. Sapeva solo che quella ragazza era più simile a lui dei suoi figli. Si sentiva spaventato, arrabbiato, orgoglioso, felice; un frullato di emozioni. Lei era il frutto di quello che lui le aveva insegnato. “Perché vuoi andare in Vietnam?” “Per capire, per raccontare, per dare un punto di vista diverso, perché sono una donna e fino a ieri mi si diceva che dovevo stare a casa come 53 | 1972 | mia madre a dire sì e fare la calzetta quando posso fare tutto quello che voglio. Perché non so dire no ad un’avventura. Perché amo questo mestiere, ma sono pure tanto spaventata” Duke si voltò verso di lei e l’abbraccio. La tenne stretta per un tempo indefinito, poi le disse: “Non avere paura, andrà tutto bene. Sarai una magnifica reporter di guerra. D’altronde hai preso tutto da tuo padre”. 54 | Autore | Debora Michelini Se fosse un animale sarebbe una fenice in perenne rinascita. Si nutre di storie da raccontare e di emozioni da vivere. Viaggiatrice alla continua ricerca del Sacro Graal della felicità. Lei è rivoluzione fatta carne. Se volete saperne di più, scrivete a [email protected] 55 L'impronta di Colin Pitchfork La rivoluzione: L’uso del DNA come prova di Angela Puchetti Dovessero cercarmi con un elicottero noterebbero solo una macchia rossa tra gli alberi. Se usassero un binocolo vedrebbero il mio vestito preferito, color ciliegia a pois bianchi. Scoprirebbero che ho tutti gli indumenti in disordine. Guarda i miei capelli sporchi di terra sparsi sull’erba. Li avevo appena lavati prima di uscire di casa. Ho le labbra macchiate di sangue scuro, sembra inchiostro. Non c’è più nessuna traccia del lucidalabbra alla fragola che avevo comprato sabato pomeriggio. La mia pelle sta cambiando colore. 56 | L’impronta di Colin Pitchfork | Sono io, ma sembro un’altra. Un’aliena grigia a sangue freddo. Non che mi cambi a questo punto, ma chissà quando qualcuno mi ritroverà qui, fuori mano, lontana dalla strada, in mezzo al bosco vicino a Ten Pound Lane. Notti e giorni di attesa sembreranno settimane a mamma e papà. Ero in ritardo e ho preso la scorciatoia, invece della strada sicura. “Dawn, mi raccomando, non parlare con gli sconosciuti.” L’avevo già visto vicino alla scuola, non era proprio sconosciuto. E l’ho detto a Tracy e Amanda che c’era un uomo che mi guardava quando uscivo alla fine delle lezioni, ma non sono stata abbastanza attenta ai dettagli, ho detto che portava gli occhiali e non è vero. Se lo raccontano a casa e un poliziotto le interroga diranno qualcosa che non aiuterà a prendere chi mi ha ridotto così. Guarda dove sono finite le mie mutandine con le stelline rosa, a pochi centimetri dalla 57 | L’impronta di Colin Pitchfork | mia testa. Ora il mio cuore, che quando lui mi stava addosso sembrava impazzito, non lo sento più. Ho provato a sfilargli il portafoglio dalla tasca, volevo lanciarlo a qualche metro di distanza mentre si affannava come un animale selvaggio. Volevo lasciare qualche traccia che lo facesse arrestare, ma se n’è accorto e mi ha dato un pugno. Alla mamma stavo per dire che questa persona mi compariva davanti quasi ogni giorno, quando ero in giro prima di fare i compiti, ma poi non l’ho fatto. Non mi avrebbero più fatto uscire da sola. E adesso sarei viva. Come lui. Nessuno, a pensarci bene, ci ha visti insieme. Non abbiamo incontrato neanche un’auto mentre mi portava qui. Nessuno a piedi. Altrimenti avrei urlato aiuto. Anche sul mio diario non c’è niente, sono giorni che non scrivo. Adesso non posso più raccontare a nessuno che faccia ha quel bastardo. Io sono qua. E lui la farà franca. 58 | L’impronta di Colin Pitchfork | 18 settembre 1987 Devo trovare qualcuno. Non ho più tempo. Vediamo chi c’è. Poca gente stasera al pub. Meglio così, tutto sommato. Mi prendo da bere. Devo risolverla in qualche modo. Guarda c’è Tom che potrebbe fare al caso mio, è già mezzo sbronzo. “Ciao Tom, che mi racconti? Ti andrebbe di guadagnare qualche sterlina facile? Ti offro anche da bere”. Ha sempre sete di soldi, ci starà. “Cosa devo fare? Vuoi che ti accompagni al bagno Colin?” Continua a farlo bere ed è fatta. Sorridi. Adesso spiegagli che al bagno deve andarci lui e te ne torni a casa presto stasera. Bene, ha capito, dagli le provette, aspetta, lo paghi dopo, quando torna dai servizi. “Grazie Tom, sei un vero amico, mi hai risolto questa rottura di scatole. Eccoti duecento sterline, ma non te le bere tutte, mi raccomando, falle arrivare a domani!” 19 settembre 1987 I giornali non parlano d’altro. E anche la 59 | L’impronta di Colin Pitchfork | gente, dentro e fuori casa. Quel Jeffreys ci va giù pesante. Respira, tu sei a posto. Ecco l’infermiera, sorridi, falle un complimento, si ha proprio dei bei capelli. Bene ora continua a strofinarti con calma, per bene, questi bastoncini in bocca, aspetta il momento buono. E adesso fai cadere quel barattolo di vetro con quel liquido dentro, inavvertitamente. “Oh, accidenti, mi dispiace davvero, mi muovo come un orso, lo dice anche mia moglie”. Ora, è girata di spalle, piegata a raccogliere il casino che hai fatto, sei davvero l’ultimo dei suoi problemi. Ora: scambia i campioni. Fatto. Bravo. Sorridi ma non troppo, guarda che metta l’etichetta con il tuo nome e vai fuori di qua. Scusati ancora, dille che sei mortificato... Meglio del previsto. Lei era una biondina niente male, anche se io le preferisco con i capelli scuri. Adesso, però, ho altro a cui pensare. Anche il notiziario alla tv non fa che ripetere le stesse cose. Certo non si era mai vista una cosa del 60 | L’impronta di Colin Pitchfork | genere. Com’è possibile che da una goccia di saliva, un frammento di pelle, una traccia di sangue o del tuo seme salti fuori il colpevole? E poi fare un test a cinquemila uomini. Una cosa da non credere. Quel Jeffreys fa davvero le cose in grande stile. E doveva farlo proprio qui, nello Leicestershire, in questo buco di Inghilterra. E dire che la seconda volta è stata anche meglio della prima. L’avevo immaginata e immaginata ancora e ancora. Sì, mi è piaciuta molto di più. Non ho improvvisato, era tutto studiato, ed è stato molto più eccitante. Sapevo già cosa dire alla ragazza, come spaventarla, come farla stare buona, cosa l’avrebbe calmata. Vero, quella Lynda era un bocconcino più dolce, sapeva di marzapane, aveva quindici anni ma ne dimostrava di più. Con Dawn però, è stato tutto perfetto. L’avevo osservata, quando usciva da scuola, quando tornava a casa, quando camminava da sola. Avevo pensato nei dettagli cosa le avrei fatto, come l’avrei fatto, come 61 | L’impronta di Colin Pitchfork | avrebbe reagito, come farla stare zitta. Filava tutto liscio, ma poi quel Jeffreys si è messo in mezzo. Con tutto questo casino sui giornali, alla radio e alla tv, sarà meglio che torni da Tom e lo convinca a tenere la bocca ben chiusa. Ne è comunque valsa la pena darsi da fare con quelle due bamboline, ma non doveva andare così. Quella pelle candida, quelle labbra allo sciroppo di frutta che aveva la seconda e quel profumo di mandorle che aveva la prima. Quei corpi immacolati, morbidi e bianchi come l’impasto del pane prima di metterlo in forno. Non ci devo pensare. Adesso devo cercare quell’ubriacone. A quest’ora Tom dovrebbe essere alla segheria ma non c’è. Avrà bevuto come una spugna ieri sera dopo che me ne sono andato. Che dire dei genitori di entrambe, bisogna anche capirli, hanno fatto di tutto per ritrovarle, ma 62 | L’impronta di Colin Pitchfork | sarebbe stato meglio per loro non doverle più rivedere. Dopo che erano passate tra le mie mani. Dopo che le ho assaggiate per bene. E sono stato costretto a farle stare zitte, altrimenti avrebbero raccontato tutto a mamma e papà. Con la prima ho avuto più tempo, ma ero più inesperto. Come quando provi una ricetta nuova e difficile. Anche se non sei un novellino, non hai mai la certezza di come verrà la torta. Quello che è successo con Dawn, invece, ormai lo so a memoria. Come l’impasto dei biscotti. Proviamo a vedere se Tom è andato a fare una puntata in sala corse. Scommetto che ha pensato di giocarsi le ultime sterline in tasca. Non l’hanno visto, strano. Lo devo trovare. Tutte e due le volte, i dintorni delle case delle ragazze sono stati perlustrati neanche fosse una caccia alla volpe. La seconda sono stati ancora più meticolosi ma ci hanno pure messo due giorni a ritrovarla, tutta sola in mezzo al bosco. Poi è addirittura saltato fuori quel Richard Buckland 63 | L’impronta di Colin Pitchfork | che aveva confessato di esserci andato lui con Dawn. Non è vero amico e tu lo sai. Poi quel Jeffreys ha incasinato tutto con i suoi test. Non era stato Buckland. Non era suo il DNA. Ora lo sanno tutti. Bella figura amico che ti vanti delle imprese degli altri, ma grazie lo stesso. Dove può essersi nascosto quel fottuto Tom? Vediamo se si è infilato al cinema. Altro che Buckland. Sono io che ci so fare con le ragazzine, so come attirarle, come confonderle, convincerle che non sanno niente del mondo e poi farle sentire grandi con qualche complimento che si fa alle vere donne, detto da un vero uomo. Sono così prevedibili ma è bello osservare le loro facce quando capiscono. Quando comprendono che non stanno andando dove gli avevo detto, che non sono poi così tanto gentile, che non dovevano salire, che dovevano dar retta a mamma e papà. Poi hanno paura e magari provano a scappare e ti pregano di riportarle indietro. Certo, che ti 64 | L’impronta di Colin Pitchfork | riporto indietro dolcezza. Niente cinema Tom, peccato doveva essere un bel film. Tanto lo sai che ti trovo, non puoi essere andato lontano. Dicevo, sì, le ragazze poi piangono, ma è tutto inutile. Il piano è il piano e io mi attengo al piano. Anche se lottano arriva sempre quel momento. In fondo piace anche a loro, ma continuano a singhiozzare e lagnarsi. E a casa non le puoi rimandare. Tanto andrai allo stesso pub, dove altro potresti andare caro Tom? Va bene, ti aspetto e ne parliamo. Mica posso rischiare. Voglio continuare a passare le mie giornate a far belle le torte e la sera tornare a casa da mia moglie e dai miei figli. Tom stasera ti fai desiderare, magari ti stai sbattendo anche tu qualcuna. Se non dovessi occuparmi di te Tom, ne cercherei subito una che assomigli a Lynda, con i suoi stessi capelli, ma con anche il sapore 65 | L’impronta di Colin Pitchfork | di Dawn. Sì, e adesso saprei dove portala. Fuori zona, fuori dalle palle. Che stupido a rimanere nei paraggi. Ma non potevo andare molto lontano o avrei dovuto legarle. “Come dice Pitchfork? E dove l’ha sentito? In un pub fuori dalla contea? Si spieghi meglio.” chiede il poliziotto alla scrivania. - “Ripeto. Qualcuno al pub stasera ha detto che ha preso duecento sterline per dare un campione di saliva al posto di un certo Colin Pitchfork, che lavora in una panetteria. Ne è sicura?” scandisce bene il poliziotto. Dovevo dare meno soldi a Tom, ha preso il largo. Erano tenere come agnelline, invitanti come la glassa, profumate come l’Alchermes, irresistibili come il caramello, avrebbero solo dovuto fare le brave e stare zitte. Avevo pensato a tutto. Dopo non potevo proprio rimandarle a casa. Cosa ci fanno qui quei tre uomini in divisa? 66 | L’impronta di Colin Pitchfork | Devo sparire prima che quel professor Alec Jeffreys del cazzo che ha imparato a scoprire chi-si-scopa-chi - basta uno sputo - fotta anche me. Sì, sono Colin Pitchfork. No, certo che non rilascio dichiarazioni, non so di cosa state parlando. Mia moglie mi sta aspettando, che dite? Andate a farvi fottere. E vai a farti fottere anche tu Tom. Lo sai vero, che prima o poi ti trovo? 67 | Autore | Angela Puchetti Guardando il film “Kramer contro Kramer”di Robert Benton, decise in tenera età che voleva lavorare in pubblicità. Solo più tardi comprese che preferiva raccontare storie e notizie, scrivendo articoli. Ama allo stesso modo: vintage e novità, film in bianco e nero e serie tv, design d’altri tempi ed esperimenti innovativi. Altri segni distintivi: sostanzialmente possiede lo stesso atteggiamento del personaggio interpretato da Robert Redford nella pellicola “I tre giorni del Condor” di Sydney Pollack rispetto a pellicole e libri, news, fiction e citazioni. Tutto può tornare utile. Ogni dettaglio può essere prezioso. Non solo per scrivere ma anche per vivere in un mondo denso di crime. Se volete saperne di più scrivete a [email protected] 68 Voi non siete comunisti! La rivoluzione: La caduta del Muro di Berlino di Manuela Montanari Così contento non ero mai stato. Mai: neanche quando avevo sposato Anna, e neanche quando era nata Luisina. Ma quella sera là, con la nebbia fredda di novembre che mi entrava nelle ossa e un bel quartino di rosso che mi scaldava il cuore, ero pronto. “Vittorio, ce l’hai il tesserino vero? E te? Napoli, te ce l’hai il tesserino? E i documenti? E i visti? Avete tutto, vero?” Puntuali alle ventuno e trenta fuori dalla cooperativa, eravamo io, Vittorio e Gennaro, detto Napoli, tutti sulla mia Ritmo rossa. Rossa come la bandiera del PCI. 70 | Voi non siete comunisti | Non stavo più nella pelle: “Se va bene a tutti, guido io per primo, che c’ho il cuore in gola e non riesco a stare fermo, almeno così mi distraggo, e poi la mia Anna mi ha fatto un chilo di spaghetti… che chissà cosa ci fanno mangiare per una settimana…” Il Pressa e Brusco, c’erano andati l’anno scorso e mi avevano detto che, con un bel passo, in dieci ore si arrivava: “Se io mi faccio le prime quattro ore, poi a voi ve ne restano tre a testa! E domani mattina timbriamo il cartellino coi crucchi.” “Ma guida pure Vittò?”, si era subito preoccupato Napoli. “E certo che guido! Non sono mica la tua morosa che si fa portare in giro!” Vittorio rideva ma Napoli era preoccupato e non aveva torto: “C’a maronn c’accumpagn!” “Giusto, bravo Napoli, non possiamo partire senza dire la preghiera!”, lo facevo sempre, era tradizione, anche con Anna e Luisina. Prima di partire per i viaggi lunghi, si attaccava allo specchietto la foto del compagno Togliatti e si 71 | Voi non siete comunisti | cantava “Avanti o popolo, alla riscossa, bandiera rossa, bandiera rossa…” Vittorio, con i suoi baffoni biondi e gli occhi vispi non smetteva di muoversi sul sedile e faceva saltare tutta la macchina: la settimana prima di partire era stato una piattola, parlava solo del viaggio, lo diceva a tutti in cooperativa, in fabbrica e anche al prete. Don Giuseppe gli aveva dato perfino l’assoluzione con tre Avemarie ma lui, a dirla giusta, non voleva mica confessarsi, gliel’aveva raccontato come agli amici del paese. Io e Vittorio ci conoscevamo fin da bambini, da quando, il primo giorno di scuola, lui aveva lanciato giù dalla collina del cimitero la cartella con il quaderno e il libro: era sempre stato un bravo figlio, ma non aveva mai mandato giù volentieri le regole. Comunque, al momento di partire, non se l’era presa per quello che aveva detto Napoli, anzi, si era buttato subito sul sedile dietro e già prima di passare Milano ronfava della grossa. 72 | Voi non siete comunisti | Davanti con me, perciò, si era messo Napoli. A parte il fatto di chiamarsi Gennaro, non sembrava napoletano in niente: bianco come il latte, alto come una pertica e non parlava mai, praticamente un solitario. Era arrivato al Nord, come diceva lui, da un po’ più di un anno e, in fabbrica, riuscivi a fargli dire due parole solo nei dieci minuti che ci metteva a finire la sua schiscètta di pasta e patate: di lui sapevamo solo che la sua morosa faceva la maestra giù al paese, che aveva un fratello in America e che non gli piaceva andare al mare. Era un brav’uomo, era un compagno, ma nelle assemblee sindacali non diceva mai niente. Eppure, lo vedevi che stava attento: era l’unico che si portava un quaderno e una penna e ci scriveva chissà cosa. “Uè Napoli, non vorrai mica stare zitto tutto il viaggio, vero?” Volevo fare due parole, che fino in Germania era lunga. “Questo qua dietro di solito non smette un minuto di parlare, ma adesso che dorme non lo svegliamo più 73 | Voi non siete comunisti | neanche con le cannonate. Se anche te non dici niente, qua finisce che mi addormento e andiamo contro un palo! Parla un po’, fallo almeno per sopravvivenza! E poi, scusa, te non sei emozionato?” Il napoletano, così alto che stava tutto curvo incastrato nella mia Fiat Ritmo, si era voltato e mi guardava con il sopracciglio alzato senza dire niente: magari, anche lui quelli del Nord se li aspettava un po’ diversi da me e Vittorio. Comunque, quando lo stavo già mandando all’inferno, aveva sputato fuori quattro parole: “No Aldo. E perché mai dovrei essere emozionato? Emozionato di che, scusa?” “Ah, ma allora sei capace anche te di parlare? Io sono contento Napoli, mancano meno di ventiquattro ore e finalmente saremo nella nostra… come cantava il tizio di San Remo? Ah sì, nella nostra terra promessa!” Napoli mi guardava con una faccia che sembrava quella di un pesce lesso: “Scusa la che? La terra promessa? Ua, non stai un poco esagerando 74 | Voi non siete comunisti | Aldo? Per come la vedo io, stiamo andando a vedere come si vive là, come vivono gli operai, per farci un’idea e per vedere una società che non si sa per quanti anni potrà ancora stare in piedi.” Anche io non mi aspettavo una risposta come la sua e, a dirla tutta, mi aveva fatto anche un po’ incazzare: “Ma come scusa? Mi pari un democristiano! Guarda che a fare questo viaggio ci volevano venire in tanti! E te che sei stato scelto, anche perché sei del Sud, adesso fai il bastian contrario? Ma da che parte stai, scusa?” “Io sto dalla parte dei poveri cristi come noi. Però che c’entra? Mo, solo perché non vedo tutta sta terra promessa, mi dici che sono un democristiano? Lo so che voi qui non ci siete abituati, ma noi al Sud, di terre promesse ne abbiamo conosciute tante e sappiamo che quando si arriva a destinazione, ste promesse non sono mai quelle che aspettavamo.” “Ma ce l’hai con Milano? Qui hai trovato lavoro, 75 | Voi non siete comunisti | o no?”, gli ho risposto. “Si l’ho trovato un lavoro. Ma lo sai quanto c’è voluto a convincere una ‘sciura‘ ad affittarmi casa? Per i primi cinque mesi ho dormito praticamente per strada. Vabbuò, comunque, io sono sicuro delle cose solo quando le vedo coi miei occhi, prima non mi fido di nessuno, neppure del partito.” Ecco, per me non fidarsi del partito era una cosa inconcepibile: “Ma cosa dici? Che motivo hai per non fidarti del partito? Del nostro, poi! Il partito e il sindacato ci hanno dato tanto: ti sei dimenticato dello statuto dei lavoratori? E le case popolari? E il referendum? E, in paese, da quando c’è il PCI, i bambini vanno in colonia, al mare, per un mese in estate: Luisina a sei anni ha già visto il mare! Io, la prima volta, ci sono andato che avevo diciotto anni. Degli altri partiti non lo so, ma dei comunisti ci si fida. Perché i comunisti sono brave persone.” Alla fine, Napoli l’avevo convinto, o almeno credo, perché aveva chiuso il discorso dicendo: 76 | Voi non siete comunisti | “Vabbuò, tieni raggione, però io sono come San Tommaso, non ci credo fino a che non ci metto il naso.” Il napoletano era uno sveglio, troppo fissato con santi e madonne, ma sveglio, ecco perché la nostra discussione era finita a ridere quando l’avevo preso per il culo: “Eh, te ti fidi solo del tuo ‘San Gennà‘ vero?” e lui ”Brav! Quello il miracolo lo fa, il sangue lo scioglie, l’agg vist io.” Vittorio intanto dormiva e, di comune accordo, io e Napoli avevamo deciso di guidare cinque ore a testa, ma di non lasciargli in mano la macchina: non è che guidasse male, ma era convinto di essere un pilota di Formula Uno mancato e noi non avevamo voglia di arrivare a destinazione con lo stomaco ribaltato. Il mio turno comunque era volato, anche contando la sosta alla frontiera Svizzera che, anche con i visti, i documenti in regola e la lettera in italiano e tedesco firmata dal sindacato, ci aveva fatto perdere un sacco di tempo, tra perquisizioni, controlli e il risveglio di Vittorio: 77 | Voi non siete comunisti | passato al metal detector, praticamente, da sonnambulo. Comunque, prima di rimetterci in marcia, io e Napoli avevamo deciso di fare una sosta per bere un caffè e, al primo sorso, Napoli aveva quasi sputato tutto in faccia al barista gridando: “Marò che è ‘sta schifezz?” Io non riuscivo a smettere di ridere ma, mentre il barista ci fulminava con gli occhi, cercavo di giustificare il mio compagno: “Ci scusi, lui è di Napoli, lì credono solo a San Gennaro e al caffè espresso!” L’alba era vicina e la nebbia sembrava proprio un lenzuolo che cominciava, piano piano, ad alzarsi sopra le nostre teste. Il panorama era quasi famigliare: campi gelati e spogli, tosati dopo i raccolti, dietro c’erano le colline, quelle vicine erano più chiare e quelle lontane più scure e poi, come in un presepe fatto di fabbriche, si vedevano le ciminiere in lontananza e, più vicino, un po’ qua e un po’ là, gruppetti di 78 | Voi non siete comunisti | quattro o cinque case che sembravano cadute dal cielo. Anche Vittorio, finalmente, si era svegliato. Sembrava dispiaciuto di non averci aiutati alla guida ma, anche senza saperlo, in un certo qual modo, aveva dato il suo contributo alla buona riuscita del viaggio: da una parte evitando di farci vomitare l’anima, dall’altra tirando fuori dalla sacca una bella ciambella fatta da sua moglie, quello che ci voleva per arrivare in forma al confine con la DDR. “Aldo Livraghi Pier Vittorio Fraconti Gennaro Bifulco Vi stavamo aspettando. Ora venite con me per controllo documenti: poi viene il compagno Van der Korput che vi accompagna in vostro viaggio nella Repubblica Democratica Tedesca.” Il poliziotto che ci aveva accolti alla frontiera era 79 | Voi non siete comunisti | il classico marcantonio tedesco: alto, biondo, con le guance rosse e gli occhi piccoli. Una di quelle persone che ispirano fiducia, ma non troppa, che ti fanno paura, ma non troppa, e che sembrano capaci di abbracciarti o spararti senza fare una piega. Mentre verificava i nostri visti e i documenti, il tizio non ci guardava mai in faccia. Questo fatto a me e Vittorio, cresciuti con i racconti dei padri partigiani: “I crucchi non ti guardano mai in faccia prima di spararti”, metteva abbastanza ansia. Sarà stato, forse, per quello, o solo per uno slancio di entusiasmo, ma a un certo punto Vittorio aveva pensato di rompere il silenzio dicendo: “Vuole vedere anche la nostra tessera del Partito Comunista Italiano, immagino! Giusto?” Aveva scandito bene tutte le parole urlandole, come se stesse parlando con il nonno sordo: Par-ti-to-Co-mu-ni-sta-I-ta-lia-no. Il poliziotto aveva sollevato la testa e, incredibile ma vero, era scoppiato a ridere facendo vedere 80 | Voi non siete comunisti | i denti, tutti storti; ora riuscivamo a capire che era davvero un ragazzotto, avrà avuto vent’anni massimo: “Le vostre cosa? Ahahah italiani simpatici, sempre scherzare, non serve tessera, noi siamo felici che venite a conoscere il comunismo, a noi la vostra tessera non serve, perché voi non siete comunisti.” Sull’ultima frase, noi tre, ci eravamo guardati in faccia, ma nessuno si era sentito di contestare il poliziotto o chiedere spiegazioni, forse perché avevamo fretta di cominciare il nostro viaggio, o forse solo perché mani così grandi non le avevamo mai viste. A quel punto era arrivata la nostra guida, il compagno Van der Korput, un uomo sulla cinquantina, quasi completamente pelato e dalla faccia gentile, con guance rotonde, occhiali rotondi e una pancia, anche quella, bella rotonda. Ci aveva salutato con un abbraccio e con un italiano abbastanza sciolto, presentandoci Jurgen, suo figlio, che aveva 81 | Voi non siete comunisti | da poco iniziato a lavorare come operaio nella stessa fabbrica in cui lui lavorava da ventidue anni. Jurgen era l’opposto del padre: magrissimo, un po’ bassino, con il colorito di una rapa e la faccia da funerale. Vittorio era scattato sull’attenti tutto felice e aveva mandato avanti le parole lasciando indietro il cervello: “Grazie, siamo davvero felici di conoscerla compagno Vaidicorpo!” Io e Napoli eravamo sbiancati di colpo. Per fortuna il sindacalista non conosceva così bene l’italiano da incazzarsi per la storpiatura, non proprio così ingenua, del suo nome e, ridendo, gli aveva dato una bella pacca sulla spalla. Da quel momento, per noi sarebbe stato il compagno Vaidicorpo. Vaidicorpo ci aveva fatto lasciare al confine la nostra macchina perché, da quel momento, ci avrebbero accompagnati lui insieme a Jurgen nella nostra visita della Repubblica Democratica Tedesca. Ed eccoci lì: schiacciati sul sedile 82 | Voi non siete comunisti | posteriore di una Trabant verde pisello, con Napoli che, poverino, quasi bucava il tettuccio con la testa. In più la strada era tutta rotta e piena di buche: ogni buca un salto, ogni salto una testata di Napoli, ogni testata di Napoli un “Vafammoc” … così per un chilometro, più o meno. Poi, all’improvviso, più niente, la strada liscia come un tappeto e Jurgen, in un italiano anche questo pieno di buche, aveva parlato per la prima volta da quando l’avevamo conosciuto: “Non preoccupare, strada bella ora. Buche servono, così auto che entrano in DDR vanno piano. Così die polizei controlla meglio, vede chi entra e chi esce. Adesso noi andiamo in Berlin e…” io lo interruppi: “Come a Berlino? Il nostro sindacato ha previsto una visita al distretto industriale di Lipsia.” Il padre del ragazzo, come se si fosse dimenticato il gas acceso prima di partire per le ferie, si era tirato uno schiaffo e, chiedendo scusa per la mancata comunicazione, aveva detto: 83 | Voi non siete comunisti | “Giusto! C’è stato un piccolo cambiamento di programma… una sorpresa per voi. Visiterete la più grande fabbrica di tubi della Germania Democratica, quella dove lavoriamo io e Jurgen, che si trova appena fuori Berlino.” “Ma come mai?” aveva chiesto Vittorio. “Perché per voi è più interessante e perché è meglio per la vostra sicurezza”, aveva risposto il nostro accompagnatore. Era chiaramente una risposta automatica, sembrava un bambino che recitava a memoria la poesia di Natale e, mentre parlava, le sue guance erano diventate rosse come il Barbera. Jurgen, quasi alzando la voce, aveva subito ripreso il discorso mentre il padre lo guardava con la faccia tra il preoccupato e l’incazzato: “Il quattro novembre, pochi giorni indietro oggi, la gente in Lipsia ha protestato. Vuole libertà e grida «wir sind das Volk» che noi siamo il popolo e governo DDR deve ascoltare.” Da quel momento in avanti avremmo sentito Jurgen parlare solo un’altra volta. Napoli continuava a guardarmi fisso con la 84 | Voi non siete comunisti | faccia del “Te l’avevo detto”: tra le tante cose di cui avevamo parlato la notte prima, durante il viaggio, c’erano state anche le proteste che, dall’estate scorsa, erano diventate sempre di più nella DDR. A me, comunque, vedere Berlino non dispiaceva per niente. Tutti gli anni il sindacato organizzava uno scambio culturale a Lipsia, ma noi saremmo stati gli unici a poter raccontare di aver passato una settimana a Berlino. Anche Vittorio, dopo aver visto le nostre facce e averci inutilmente riempito di gomitate nelle costole per farsi dire perché ci guardavamo in quel modo, si era detto entusiasta di vedere Berlino e, durante il viaggio verso la città, continuava a parlare, o per dirla come avrebbe poi riassunto Napoli “Non sputava un attimo a terra”. Guardava tutto e commentava tutto: ”Vedo che da voi ha già nevicato quest’anno, i campi fin qui erano congelati…” “Sono davvero impressionato da questi palazzi, 85 | Voi non siete comunisti | sono enormi, sembrano una versione più grande delle nostre case popolari, quelle che hanno costruito a Bollate, per esempio…” “Ah, ma l’architettura sovietica è una buona soluzione, non si perde in decori ma va al sodo, punta a far avere una casa dignitosa a tutti, senza sprechi inutili. E poi nelle case come queste si vive bene, mio fratello abita in una casa popolare e sta benissimo…” “Ma voi mettete le cinture di sicurezza? Anche il passeggero? Che cosa strana, non vi sentite legati? State attenti, se fate un incidente non riuscite neppure a venir fuori dalla macchina, è pericoloso…” Il buon Vaidicorpo annuiva e ridacchiava, ma le facce di Jurgen facevano pensare che il ragazzo di lì a poco lo avrebbe sbattuto fuori dall’auto. A mezzogiorno, finalmente, eravamo arrivati alla fabbrica di tubi più importante della Germania Democratica, proprio alle porte di Berlino. Non ci sentivamo più nell’ottantanove, 86 | Voi non siete comunisti | sembrava di stare nel futuro. Era un enorme fila di capannoni altissimi, con cancellate altissime e ciminiere altissime. Intorno non c’era niente e in lontananza si intravvedevano i soliti palazzi giganteschi: la Germania era così, sembrava disegnata da un bambino con il righello su un foglio a quadretti. Appena messo piede nel cortile davanti all’ingresso della fabbrica, mentre Vaidicorpo ci stava raccontando la storia della produzione di tubi in Germania, quasi come una sveglia, era suonata la sirena di fine turno: gli operai del turno di notte potevano tornare nelle loro case, dagli affitti bassissimi, o andare a prendere i figli che uscivano da una delle scuole gratuite dello stato, o andare a farsi fare una visita di controllo dal medico della fabbrica. Ovviamente, tutte le industrie erano dello stato e il lavoro era garantito per tutti. Proprio mentre il nostro accompagnatore ci descriveva la vita degli operai tedeschi, quasi da privilegiati se paragonati a noi italiani, uno 87 | Voi non siete comunisti | di loro mi era venuto vicino e mi parlava in tedesco a bassa voce, quasi facendo finta di niente. Quando si era accorto, però, che non capivo nulla di ciò che diceva, aveva tirato fuori dalle tasche il portafoglio provando a darmi i suoi soldi. Io, che nel frattempo ero rimasto indietro di qualche passo rispetto ai miei compagni, avevo pensato di dirgli l’unica cosa che sapevo in tedesco grazie ai racconti di guerra di mio padre: “Achtung! Achtung!” Mi ricordavo che voleva dire qualcosa come “Attenzione!” e, anche se non avevo idea di cosa volesse da me quell’uomo, pensavo che fosse comunque un buon suggerimento. L’operaio aveva provato a rispondere anche lui con quella che, probabilmente, era la sola parola italiana che conosceva: “Lire! Lire!”, e a fare un gesto con la mano, facendo scorrere avanti e indietro il pollice contro l’indice. Avevo capito finalmente: voleva scambiare i Marchi con le Lire ma, prima ancora di riuscire a improvvisare qualche risposta, Vaidicorpo mi 88 | Voi non siete comunisti | aveva richiamato all’ordine, chiedendomi con un tono serio e deciso di seguire il gruppo senza restare indietro e, nello stesso momento, un uomo con una divisa verde era spuntato alle mie spalle, aveva preso sotto braccio il mio collega tedesco, come un vecchio conoscente di quelli che uno cerca di non incrociare mai per strada, e lo aveva portato via. La fabbrica era davvero enorme e, dopo la visita alla mensa, era la volta della catena di montaggio: tutto ordinato, pulito, veloce e senza intoppi. Nessun operaio parlava con il vicino, nessuno guardava oltre il suo naso e quando passavamo di fianco a loro, non parevano neppure accorgersi di noi. L’ambiente era molto caldo e io non ne potevo più di tenere addosso il montone che mi aveva rifilato il padre di Anna. Dopo quasi un’ora in piedi ad ascoltare l’orgogliosissimo Vaidicorpo, tra la stanchezza del viaggio e l’atmosfera asfissiante di quello stanzone, dove non si distinguevano gli uomini dalle macchine, mi era girata la testa. Non era stato un vero e 89 | Voi non siete comunisti | proprio svenimento, diciamo che avevo solo bisogno di sedermi e bere un bicchiere d’acqua fresca, quindi mi ero lasciato un attimo cadere mentre la nostra guida raccontava le glorie industriali tedesche, ma la cosa, che Vittorio e Napoli avevano affrontato prendendomi per il culo e chiamandomi “Aldina”, aveva allarmato il nostro bravo sindacalista. Infatti, a un suo segnale, era spuntato dal nulla un altro uomo con la divisa verde per accompagnarmi dal medico della fabbrica mentre lui, Vittorio e Napoli avrebbero finito la visita. Appena entrato nello studio del Dott. Traum, ero rimasto di sasso vedendo che si trattava di una donna. Non so perché, anche da noi le donne lavoravano, ma in una fabbrica di tubi, e di quelle dimensioni, e come medico… insomma, non me l’aspettavo. La donna, un donnone a dir la verità, sembrava che mi stesse aspettando da tutta la mattina. L’uomo verde oliva l’aveva salutata con un movimento della 90 | Voi non siete comunisti | testa, in modo quasi militare e, senza sprecare neppure una parola, era uscito. Io non sapevo cosa dire, come fare a spiegare perché mi trovavo lì ma, per fortuna, immediatamente la dottoressa aveva cominciato a parlarmi in un italiano quasi perfetto: “Buongiorno signor Livraghi, come sta? Si è un po’ ripreso?” Non potevo crederci: come sapeva il mio nome? La Dott.ssa Traum sorrideva della mia faccia stupita e, senza che io chiedessi niente, aveva cominciato a dirmi che il nostro arrivo era stato annunciato quel mattino a tutti i capi reparto, quindi agli operai in turno, al personale amministrativo, alla sicurezza e persino al gradino più basso della fabbrica, ovvero a lei. Io, non sapendo cosa dire, me n’ero uscito con una frase tipo: “Certo, non dev’essere facile lavorare qui per una donna…” e lei, subito: “Mi scusi?” Allora avevo cercato di spiegarmi meglio: “Sì, insomma, una donna in una fabbrica di tubi… non saranno molte le 91 | Voi non siete comunisti | donne qui e magari gli uomini possono essere un po’ grezzi nei modi, ma non si deve buttar giù e dire per questo che è l’ultima ruota del carro.” Lei stava sorridendo e scuoteva la testa: “Ma cosa dice? Non sono l’ultima ruota del carro perché sono una donna! Ma perché sono un medico e qui, al primo posto, ci sono gli operai.” Non so perché, ma mi era successo come a Vittorio, le parole avevano sorpassato i ragionamenti: “Sì certo, adesso il dottore è al gradino più basso della fabbrica! E l’arrivo di tre poveri diavoli italiani viene annunciato come se arrivasse in visita Lenin dall’oltretomba!” Mi ero reso conto del mio tono subito dopo aver finito la frase e credo di essere arrossito fino alla punta delle orecchie. Per fortuna la Dott.ssa Traum non era un tipo permaloso: “Ma come? Non venite qui proprio per imparare com’è la società ideale? Quella dove uomo e donna sono alla pari, ma dove l’operaio è al gradino più alto?” Il suo tono era 92 | Voi non siete comunisti | serio ma la sua faccia era ironica, aveva quel mezzo sorriso di chi ti prende per il culo. Avevo persino creduto che di lì a poco mi avrebbe fatto l’occhiolino. Intanto mi aveva guardato la gola, mi aveva provato i riflessi del ginocchio e mi stava auscultando il respiro. Io avrei voluto chiederle il motivo di una visita così approfondita, dato che avevo solo avuto un giramento di testa, ma mi interessava molto di più l’incastro mancato tra le sue facce e quello che diceva: “Voi dell’Ovest giocate a fare i comunisti, ma non lo siete, non sapete cosa vuol dire e non siete pronti a sacrificarvi per il bene comune. Prendete, ad esempio, la mia professione: se oggi la Germania ha bisogno di un medico, non deve importarmi se avrei voluto insegnare storia, io devo fare il medico. Io conto solo nella misura in cui servo al bene comune. Voi, invece, venite qui a imparare come si fa a fare i comunisti ma poi pensate che sia lo stato a dover garantire per tutti la possibilità di realizzare le proprie aspirazioni, 93 | Voi non siete comunisti | e poi, dopo essere stati qui, cambiate idea o vi piace solo guardarci come si guardano le scimmie allo zoo?” “Come? Cosa? Mi scusi dottoressa ma io non capisco”, non sapevo cosa dire… La Dott.ssa Traum mi sorrideva e adesso, come previsto, mi strizzava anche l’occhio facendomi segno, con un minuscolo movimento della testa, verso la presa d’aria sulla parete sopra alla porta e indicandomi con il dito il suo orecchio, come per farmi capire che qualcuno ci stava ascoltando. Poi, prima che io potessi dire qualsiasi cosa, aveva aggiunto: “Quando tornerà in Italia, lo dica agli altri operai, dica che cos’è il vero comunismo, dove tutti possono trovare un paradiso in terra, racconti loro la verità e gli dica che dall’Ovest tanti tedeschi tentano ogni giorno di superare il muro per venire qui e migliorare la loro vita. E adesso si alzi, lei sta benissimo, si vede che è abituato a mangiare carne tutte le settimane, tra poco arriverà anche il signor Van der Korput con i suoi 94 | Voi non siete comunisti | amici, anzi, scusi: compagni.” In quel momento mi stava guardando quasi con aria materna mentre, improvvisamente, Vaidicorpo aveva aperto la porta. Durante il tragitto verso il centro di Berlino, il lenzuolo di nebbia che ci aveva accolto alzandosi al mattino, si stava abbassando di nuovo e io continuavo a pensare alla dottoressa, a quello che mi aveva detto, alla sua faccia che sembrava volesse gridarmi qualcosa che la sua bocca non poteva dire a voce alta. Mentre ero perso nei miei pensieri, Vittorio tutto felice aveva gridato: “Ecco Berlino, e guardate là in fondo… … davanti a noi c’è il muro!” Sì, eravamo entrati a Berlino. Sì, eravamo vicini al muro. Le strade erano spaventosamente grandi e vuote in modo irreale: pochissime macchine, tutte uguali alla nostra, ma di colori diversi. I palazzi, visti da vicino, erano giganteschi e pieni di finestre piccolissime, 95 | Voi non siete comunisti | erano color fango, come le strade e come il cielo. A un certo punto Vaidicorpo aveva tirato fuori dalla sua borsa una radiolina e l’aveva accesa, regolando le due rotelline fino a quando il ritmo scattoso della parlata tedesca era riuscito a venir fuori dal fruscio. Mentre Vittorio continuava a parlare e descrivere tutto ad alta voce, all’improvviso Jurgen lo aveva zittito con uno “Sssh” e il padre aveva alzato il volume al massimo, mentre il ragazzetto magro continuava a rallentare fino quasi a fermarsi, come se rallentando riuscisse a sentire meglio quello che la radio stava trasmettendo. Dopo qualche minuto di assoluto silenzio, la Trabant si era proprio fermata e la radio era stata spenta e messa nuovamente in borsa. I due si guardavano e non parlavano. Così per cinque minuti. Lunghissimi. Poi, come se qualcuno li avesse svegliati di colpo, padre e figlio avevano cominciato a parlare in tedesco ad alta voce, velocemente, 96 | Voi non siete comunisti | entrambi molto agitati e, in un certo senso, a ruoli invertiti: tanto Jurgen sembrava grande, contento e impaziente, tanto suo padre sembrava piccolo, impaurito e disorientato. Noi non capivamo cosa stesse succedendo: eravamo fermi e i due erano usciti dalla macchina come se parlare davanti a noi cambiasse qualcosa per loro… La nebbia era sempre più bassa e le loro teste erano quasi scomparse, mentre vedevamo i loro corpi discutere, o forse litigare, attraverso il parabrezza. Sembrava di guardare un film muto, con il padre che stava quasi immobile, mentre il figlio, che pareva morso dalla tarantola, gli camminava intorno buttando le braccia in aria. Alla fine, Vaidicorpo era tornato verso la macchina e aveva aperto la portiera. Non era entrato, aveva buttato dentro solo la sua testa rotonda e ci aveva detto una cosa semplice e, allo stesso tempo, incomprensibile: “Cari compagni italiani, il vostro viaggio nella Germania Democratica finisce adesso.” 97 | Voi non siete comunisti | Non potevamo crederci, ci aveva detto che lui doveva tornare subito a casa e che Jurgen ci avrebbe riaccompagnati alla frontiera, dove stava la nostra auto e poi, per quel che lo riguardava, una volta fuori dal confine tedesco, avremmo potuto fare quello che ci pareva. Ovviamente noi chiedevamo, cercavamo di avere qualche spiegazione, non capivamo nulla, non avevamo idea del perché il nostro viaggio di una settimana a Lipsia, si fosse trasformato in una gita in giornata a Berlino. Le nostre proteste, però, cadevano totalmente nel vuoto e il compagno Vaidicorpo aveva chiuso la portiera ed era tornato a parlare con il figlio. Questa volta erano calmi e tutti e due fermi, vicini. Intanto noi tre, pressati nel sedile posteriore della Trabant, non sapevamo cosa fare ma, una volta salutato il padre con un abbraccio che sembrava un arrivederci, Jurgen, era rientrato e aveva messo in moto riprendendo la strada di prima, ma in senso inverso. Vittorio, quindi, 98 | Voi non siete comunisti | aveva cominciato a parlare ad alta voce, con tono serio e arrabbiato: “Il sindacato italiano e il PCI non lo manderanno giù un trattamento del genere per i loro iscritti…”, “Che modi sono questi? Dov’è la famosa accoglienza tedesca di cui avevano raccontato i compagni che erano stati qui prima di noi?” Dopo qualche minuto di velate minacce, ma neanche troppo velate, Jurgen aveva parlato per la seconda e ultima volta. Sorridendo, ci aveva detto: “Voi mi piacete, siete brava gente. Non abbiamo niente contro voi, ma adesso dovete andare via. Adesso noi dobbiamo pensare a noi. Voi tornate a casa vostra. Anche noi troviamo la via per ritornare a casa nostra.” Aveva fermato ancora la macchina e ci aveva chiesto di scendere, dicendo che non poteva più aspettare neppure un minuto…per fare cosa non lo sapevamo. Stavamo sul marciapiede di un vialone enorme, Napoli era molto agitato e aveva paura, si 99 | Voi non siete comunisti | vedeva. Aveva le mani sulla testa e girando su sé stesso diceva: “Aldo qui sta succedendo qualcosa… e prima Lipsia e le proteste in tutto il blocco sovietico, e mo la nostra visita che viene sospesa, dopo neppure un giorno, e noi qui, senza sapere cosa fare e dove andare! Guagliò ca nun se capisc niente chiù!” Anche Vittorio era perplesso, ma cercava di tranquillizzarci, o di tranquillizzarsi: “Non esageriamo, può darsi che il sindacato non ci abbia avvisati di qualche evento o ricorrenza prevista oggi, chi vi dice che il nove novembre non sia festa? Magari oggi è la festa delle donne e gli uomini devono correre a casa per preparare la cena! Qui nella DDR le donne sono emancipate, lavorano, hanno le loro feste e non fanno neppure tante storie quando si tratta di scegliersi un compagno per la serata, non come le nostre che devono essere sposate e che…” poi, improvvisamente, aveva smesso di parlare e, come noi, aveva cominciato a guardare cosa succedeva intorno. 100 | Voi non siete comunisti | Calma piatta. Nella nebbia il color fango del giorno tedesco si stava macchiando di rosso mattone e le ombre sfumate diventavano più scure e più lunghe. Il sole, o la sua versione tedesca, stava per tramontare e noi tre, in un lago di freddo e di umidità, non sapevamo se quello che avevamo davanti agli occhi era vero o era frutto della nostra immaginazione: ad ogni modo stavamo muti, inermi, guardavamo e basta. Dai portoni dei palazzi le persone uscivano alla spicciolata. Prima erano pochi, non si notavano, poi sempre più gente, sempre più in fretta, fino a formare un rivolo stretto ma deciso, come un torrente di montagna durante un temporale, che scende a valle per trasformarsi in un fiume in piena. Sembravano formiche, le persone, gli abitanti di Berlino Est, che uscivano e prendevano possesso delle strade. Erano tutti diversi ma anche tutti uguali. C’erano i vecchi, in pigiama e ciabatte con il cappotto 101 | Voi non siete comunisti | buttato sulle spalle. C’erano le mamme, che tenevano per mano i bambini e li invitavano a camminare più svelti, mentre gli infilavano in bocca un pezzo di pane. C’erano gli uomini con le valigie. Avevano tutti la stessa faccia, gli stessi occhi, come ipnotizzati da qualcosa. Andavano tutti nella stessa direzione. Guardavano tutti nella stessa direzione: camminavano con lo sguardo lucido e senza voltarsi indietro. Ci passavano di fianco e proseguivano alle nostre spalle. Noi tre eravamo contro corrente, in mezzo al mare, come uno scoglio. Non sapevamo cosa vedevano, perché a loro sembrava chiara una direzione che per noi non lo era ma, alla fine, ci eravamo girati per guardare il loro orizzonte: là infondo, dietro di noi, c’era il muro. C’erano anche tre uomini, tre uomini come noi, della nostra età: colpivano il muro con i 102 | Voi non siete comunisti | picconi, ad ogni colpo, i pezzi cadevano. Prima erano state le briciole a staccarsi da un blocco che sembrava infrangibile, poi erano caduti i pezzi piccoli, mentre la forza dei loro colpi aumentava, mentre arrivava altra gente che colpiva, gridava, e frantumava anche i pezzi più grandi. Erano gli uomini e le donne di Berlino, che si arrampicavano sulle rovine e passavano oltre. 103 | Autore | Manuela Montanari Manuela nasce negli anni delle spalline e dei rossetti fucsia. Fin da bambina manifesta il suo amore per i pastelli, i pennarelli, i timbrini di Pochie e le caramelle gommose. Nella sua vita la creatività non è mai mancata, infatti ha sognato di fare la pittrice, poi di fare il geometra, poi di sposarsi a vent’anni. Tutte attività per cui, anche se forse le sarebbe piaciuto, non si è rivelata molto portata. Da sempre si è appassionata alle grandi battaglie, ai diritti civili e agli atti di eroismo: alle elementari difendendo con le unghie (nel vero senso della parola) la sua amichetta S. dal bullismo della piccola e stronzissima L.; alle medie odiando Beverly Hills 90210 (che avrebbe apprezzato in età più avanzata) e i Take That perché piacevano a tutti, al liceo protestando contro chi protestava ma, invece di andare in manifestazione, andava a fare colazione al bar; poi scegliendo l’università in base all’amore per la materia studiata e non alla probabilità di trovare lavoro. Anche oggi che un lavoro l’ha trovato (inventarsi come far divertire la gente) continua a lottare per far sopravvivere l’infanzia nonostante l’invasione degli adulti, per difendere l’amore di chi si ama (a prescindere che si tratti di una chiave e una serratura, oppure di due chiavi o di due serrature) e, infine, per continuare a credere di più alle illusioni che alla realtà. Se volete saperne di più, scrivete a manuela. [email protected] 104 Ma il nonno dov'e? La rivoluzione: Il frigorifero di Elena Ghielmi Erano le due del pomeriggio di una fredda giornata di gennaio. Adalgisa stava rammendando l’orlo del vestito che la signora Agnese avrebbe indossato per le foto con la stampa, quando il piccolo Meneghin irruppe correndo nella stanza. “Il nonno vuole un grappino! Dice che non ha digerito bene,” proferì tutto d’un fiato. Adalgisa si alzò: “Dì al signor Isacco che non dovrebbe bere, gli fa male alla salute,” rispose, porgendogli un bicchiere del distillato alcolico. Meneghin uscì dal tinello, sparendo nel corridoio a destra, che porta allo studio. Il signor Isacco dormiva sulla sua poltrona di pelle, di fianco allo scrittoio, dove è solito fare 106 | Ma il nonno dov’è? | il riposino pomeridiano. Il bambino gli mise davanti agli occhi chiusi il bicchiere: “Nonnooo, alla tua saluteee,” cantilenò, senza tuttavia turbare il sonno del progenitore. Trangugiò il liquido trasparente e, quando l’alcol raggiunse la gola, fece una smorfia di disgusto. Corse di nuovo dall’Adalgisa: “Il nonno vuole un pezzetto di panettone.” “Ma, Meneghin, mi hai appena detto che non ha digerito. Ora vuole anche il panetun? È un nuovo digestivo?” indagò l’Adalgisa. “Dice che la grappa gli ha aperto un buco nello stomaco,” mentì con occhi angelici il bambino. “D’accordo! Una fettina piccola, però,” acconsentì l’Adalgisa. Meneghin prese il panettone e si diresse di nuovo verso lo studio. Il signor Isacco giaceva sempre nella medesima posizione. Il bambino si sedette a terra, di fronte a lui, a mangiare il panettone, scartando accuratamente i canditi, che ammonticchiava sul piatto posato accanto 107 | Ma il nonno dov’è? | a sé. Di tanto in tanto, ne prendeva uno e lo lanciava al signor Isacco, tentando di colpirgli il naso aquilino. Ad un certo punto, rendendosi conto che il battagliero nonno non si muoveva per assestargli uno scappellotto, neppure quando i canditi lo colpivano in volto, Meneghin iniziò ad avere un sospetto. “Il nonno è morto!” gridò, entrando in tinello con gli occhi sbarrati. “Ma come morto, Meneghin? Si è soffocato con il panettone?” chiese allarmata Adalgisa. “Gli lanciavo i canditi mentre dormiva, ma non mi ha tirato neanche uno schiaffone!” Il signor Isacco aveva raggiunto la veneranda età di ottantotto anni in perfetta salute, fisica e mentale, e con una buona dose di combattività. Era possibile che, proprio quel giorno frenetico e senza un attimo di sosta, avesse deciso di passare a miglior vita? “Calmati, Meneghin. Andiamo a vedere. Magari sta solo dormendo un sonno profondo,” cercò 108 | Ma il nonno dov’è? | di consolarlo. Si avviarono verso lo studio, Adalgisa si avvicinò alla poltrona e lo chiamò, prima sottovoce, poi sempre più forte: nessuna risposta. Accostò l’orecchio per sentire il battito del cuore: nulla. L’ultima cosa che fece, fu prendergli il polso: anche qui, nessun segno di vita. Era morto. Questa proprio non ci voleva! Il furgoncino della Ignis, con il pesante involucro, si sarebbe fermato davanti al numero civico due di via dei Cappuccini di lì a poco. La stampa sarebbe arrivata alle cinque: giornalisti, fotografi, parenti e tutto il vicinato si sarebbero riversati in casa Frigerio, per festeggiare il grande evento. E, ora, si trovavano con un cadavere fresco fresco da smaltire. Ironia della sorte. Non si sa quale sia stata la molla che abbia fatto scattare in Adalgisa la decisione: forse il rumore delle pentole che proveniva dalla 109 | Ma il nonno dov’è? | cucina, oppure gli spilli, appuntati al grembiule, a ricordarle lo splendido abito che la signora Agnese avrebbe sfoggiato. O, ancora, gli occhi di Meneghin che, fino a poco prima, brillavano di emozione per la giornata che lo attendeva. Ma forse, semplicemente, fu il rumore di ruote sulla ghiaia del vialetto d’ingresso, che fecero venire alla domestica di casa Frigerio, quasi una di famiglia, l’idea. “Meneghin, non preoccuparti. Ora la tua Adalgisa sistema tutto. Resta qui e leggi qualcosa al nonno. Ecco, questo libro che gli piace tanto.” Poi, senza aggiungere altro, uscì dallo studio con in mente un piano. Il furgone si presentò alle tre in punto. Il signor Adalberto e la signora Agnese si erano precipitati fuori dalla villa, con mal celata compostezza, dispensando sorrisi ai curiosi, che cercavano di sbirciare tra le sbarre del cancello socchiuso. Mentre i facchini seguivano 110 | Ma il nonno dov’è? | le indicazioni dei domestici, per trasportare in casa l’ingombrante contenitore, i parenti della famiglia Frigerio cominciarono ad arrivare. Gli zii Antenore e Leonida sono i primi a varcare il cancello, con la loro Topolino nuova di zecca. Scendono dall’auto e iniziano, simultaneamente, a lucidare la carrozzeria, come se ne andasse della loro stessa vita. Forse pensano che, nel tragitto da Varese a Milano, la loro fiammante automobile possa essere stata contaminata da non si sa quale sporcizia. La zia Leonida indossa la pelliccia, sotto la quale si intravede un vestito rosso da sera, forse reduce dal Capodanno da poco trascorso. Lo zio Antenore, dopo aver terminato di lucidare l’auto, passa a lustrarsi le scarpe, anch’esse probabilmente deturpate dalla stessa sporcizia che ha colpito la vettura. A pochi minuti dal loro arrivo, si presentano zia Lucia e zio Mansueto, una coppia la cui 111 | Ma il nonno dov’è? | timidezza è imbarazzante. Il parere dei più è che si siano sposati per dare un senso ai rispettivi silenzi e solitudini. Lo zio Mansueto si rifugia immediatamente in un angolo, per non salutare nessuno; la zia Lucia tossicchia, sorridendo imbarazzata. I vicini di casa Frigerio arrivano alla spicciolata; la maggior parte delle signore sono vestite come per una prima alla Scala. I parrucchieri di Milano avranno avuto il loro bel da fare per tutta la mattinata. Adalgisa restò per un po’ nell’ombra ad aspettare. Avrebbe voluto partecipare anche lei alla gioia del momento, ma aveva altro a cui pensare. Si radunarono tutti in cucina: nell’eccitazione generale, fortunatamente, nessuno notò l’assenza del piccolo Meneghin e del signor Isacco. Con una lentezza quasi esasperante, i coniugi Frigerio scartarono l’involucro che 112 | Ma il nonno dov’è? | proteggeva l’enorme pacco. Pian piano venne alla luce un frigorifero alto un metro e mezzo che, il giorno seguente, sarebbe stato messo in funzione alla presenza del sindaco, Antonio Greppi. Qualcuno spostò la confezione, usata per il trasporto, in un angolo e riportò immediatamente l’attenzione al nuovo arrivo. Fu in quel momento che Adalgisa ebbe l’idea di come trasportare il nonno in cantina. Una bara di cartone! Ecco dove avrebbero riposto il corpo senza vita del signor Isacco. Adalgisa era l’unica persona di casa Frigerio in grado di mantenere il sangue freddo, nelle difficoltà. Coinvolgere la signora Agnese o il signor Adalberto non avrebbe avuto senso. La prima avrebbe piagnucolato che il signor Isacco le stava rovinando la festa, rubandole la scena; il secondo avrebbe cominciato a domandarsi come risolvere la situazione. E non avrebbe comunque trovato una soluzione! Con noncuranza, Adalgisa prese il contenitore 113 | Ma il nonno dov’è? | abbandonato, servito per il trasporto del frigorifero, e lo trascinò fino allo studio, facendo attenzione che nessuno la seguisse. “…di fare un ingrandimento a olio della fotografia della sua mamma morta: che è, per un carabiniere, il massimo punto d’arrivo della pittura,” stava leggendo Meneghin, quando Adalgisa entrò nella stanza. “Bravo, Meneghin. Hai letto proprio una bella storia al nonno. Adesso, però, posa il libro che devi aiutarmi.” Fece del suo meglio per inventare una storia credibile per il bambino ma, alla fine, decise di optare per la verità: “Meneghin, il nonno non vorrebbe essere di peso proprio oggi, in questa giornata di festa. Lo lasciamo riposare ancora un pochino e poi, non appena i festeggiamenti saranno finiti, lo riportiamo in casa e lo salutiamo come si conviene ad una persona come lui. Mi aiuti a portarlo giù, in cantina, dove nessuno lo disturberà?” 114 | Ma il nonno dov’è? | Mentre si apprestavano a spostare il signor Isacco dalla poltrona, entrò nello studio il signor Adalberto. “Che succede qui?” chiese, vedendo Adalgisa e Meneghin chinati sul nonno. “Signor Adalberto, ho già pensato a tutto io. Non deve preoccuparsi di nulla. Suo padre avrà le esequie degne del suo rango, non appena queste due frenetiche giornate saranno terminate,” disse senza sosta l’Adalgisa. “Cosa? È morto? Papà, papà, ma stavi bene fino a poco fa! Il mio povero papà. Ma, poi, proprio oggi dovevi morire? Non hai neanche visto il frigorifero nuovo! È appena arrivato, sai: non potevi aspettare di vederlo prima di dipartire? E come facciamo adesso? Oddio, se lo sa Agnese questa non te la perdona. E, non potendo far passare un guaio a te, mannaggia, lo farà passare a me. Adalgisa, che facciamo?” Non appena riuscì ad arginare lo sproloquio del signor Adalberto, Adalgisa gli illustrò il piano. Dopo altri cinque minuti di piagnisteo, il signor 115 | Ma il nonno dov’è? | Adalberto era divenuto loro complice. Più importante della morte di una persona cara, c’è solo una foto in prima pagina sul Corriere della Sera! Uscirono tutti e tre dallo studio, trascinando la pesante scatola lungo il corridoio. Per fortuna, il signor Isacco era alto poco più di un metro e sessanta e non pesava molto: erano riusciti ad adagiarlo nel cartone, avendo l’accortezza di posizionare dei cuscini intorno al corpo. Sarebbero dovuti passare per la scala esterna, per raggiungere la cantina che fungeva da ghiacciaia. Sapevano che sarebbe stato pericoloso, ma non c’erano alternative. Avevano appena varcato la porta d’ingresso, quando comparve la Perpetua. Di tutte le persone al mondo che avrebbero potuto incontrare in quel tragico momento, lei era senz’altro la peggiore: piacevole come un rinoceronte che ti pesta i calli. “È arrivato? Dove lo state portando? A che 116 | Ma il nonno dov’è? | ora arriva la stampa? E Agnese dov’è?” incalzò subito, senza neanche prendere fiato. La Perpetua era una di quelle persone che, non vivendo mai nulla di eclatante, amava ficcanasare nelle vite altrui. Un po’ come se, facendo ciò, ne entrasse a far parte per osmosi. Per liberarsene prima possibile, le risposero che il frigorifero era in cucina e che stavano portando in cantina la scatola, perché non fosse di impiccio durante le fotografie: che andasse pure in casa a cercare Agnese e a vedere il nuovo elettrodomestico. Tuttavia, non fu sufficiente a togliersela di torno. Non potevano perdere tempo ulteriore: erano già le quattro e, entro un’ora, sarebbero arrivati giornalisti e fotografi. Cominciarono a scendere le scale, sperando che la Perpetua non li seguisse. Ma così non fu. “Posso aiutarvi? È così pesante questa confezione? Fatemi sentire.” “No! Intendo dire che non è necessario che veniate con noi. Dobbiamo solo posare il 117 | Ma il nonno dov’è? | contenitore e saremo di ritorno di qui a poco,” provò di nuovo a dissuaderla l’Adalgisa. “Ma posso aiutarvi? Mi farebbe piacere darvi una mano. Fatemi un pochino di posto. Vi faciliterei il compito,” e, così dicendo, la Perpetua cercava di incastrarsi fra il muro e la scatola, per sollevare un poco di peso anche lei. “Rischiate di farci cadere, Perpetua. Vi prego, risalite e andatevene… in cucina a cercare la signora Agnese.” Nulla da fare: la Perpetua tanto fece e tanto insistette che se la ritrovarono in cantina con loro. La sfortuna guardò dalla loro parte sull’ultimo gradino della scala. Se non fosse stato per quello scalino, avrebbero potuto lasciare la scatola nella ghiacciaia, risalire e tutto sarebbe filato liscio. Ma, quando il destino è avverso, bisogna solo correre ai ripari. Il signor Adalberto, che camminava all’indietro, inciampò sull’ultimo 118 | Ma il nonno dov’è? | scalino, perdendo l’equilibrio. Meneghin e Adalgisa provarono a reggere da soli il peso, ma si sbilanciarono anche loro e il cartone si aprì. Ne uscì, rotolando a terra, una ciabatta. “Ma cos’è?” chiese la Perpetua. Stava per chinarsi a raccoglierla, quando una mano uscì dalla scatola, colpendole il volto. La Perpetua fece un urlo, inizialmente per lo spavento poi, quando finalmente capì, di terrore. Prontamente, il signor Adalberto l’afferrò, tappandole la bocca, prima che potesse voltarsi e risalire la scala. Come avrebbero fatto ora ad evitare che la pettegola del quartiere rivelasse a tutti cosa nascondeva la famiglia Frigerio in ghiacciaia? “Adalgisa, che facciamo?” domandò piagnucolando il signor Adalberto. “Non facciamoci prendere dal panico. Vediamo… Dovremmo farle dimenticare questo momento.” “Potremmo darle una bastonata in testa,” suggerì il signor Adalberto. 119 | Ma il nonno dov’è? | “Si, e poi potremmo seppellirla insieme al signor Isacco, già che ci siamo,” rispose sarcastica l’Adalgisa. “Buona idea! Nessuno la cercherebbe!” Adalgisa roteò gli occhi in segno di biasimo. L’idea venne a Meneghin. “Una volta la Perpetua ha bevuto un bicchiere di vino con la mamma e, dopo poco, stava ridendo e ballando a piedi nudi. L’indomani non ricordava nulla. Ubriachiamola!” disse l’arguto bambino. “Bravo Meneghin! Tu sì che ragioni con la testa,” disse l’Adalgisa dandogli un buffetto. La cantina era il luogo in cui venivano conservate le bottiglie di vino, buono e non. Per l’uso che ne avrebbero fatto, poco importava che fosse di scadente qualità. Presero una patata nella zona che fungeva da dispensa e ridussero al silenzio la Perpetua; poi, la misero a sedere su una sedia e le legarono le gambe, in modo che non potesse allontanarsi. Presero un imbuto e, dopo averle liberato la 120 | Ma il nonno dov’è? | bocca, iniziarono ad imbottirla di vino. Tra un grido e l’altro, ne ingurgitò una bottiglia intera. In quanto al signor Isacco, lo adagiarono nella ghiacciaia, come se stesse godendo di uno spettacolo immaginario. Sistemati il nonno e la Perpetua, tornarono in superficie ai loro ruoli abituali. Era giunto il momento di mettere al corrente la signora Agnese dell’accaduto. Il signor Adalberto, con tatto, la prese da parte e le disse: “Amore, il mio adorato padre è passato a miglior vita, poco fa. Ma non preoccuparti, è tutto sistemato.” “Mi stai dicendo che è morto? Lo sapevo che quel vecchio brontolone mi avrebbe messo i bastoni fra le ruote. Non lo voleva neanche il frigorifero, lui. Scommetto che lo ha fatto apposta per rovinarmi la giornata. Deve averlo premeditato.” Solo l’intervento di Adalgisa riuscì a sedare il suo spietato egocentrismo e a tranquillizzarla 121 | Ma il nonno dov’è? | che la festa sarebbe andata secondo i suoi piani. Alle cinque il campanello di villa Frigerio suonò: stampa e fotografi arrivarono per il sopralluogo. Tutti erano pronti ai loro posti: la scena di apertura di una rappresentazione teatrale perfettamente orchestrata. Il padrone di casa fece gli onori e guidò la stampa verso la cucina, in cui capeggiava il nuovo frigorifero. Un giovane fotografo iniziò a posizionare la sua pesante attrezzatura per immortalare la scena. Il signor Adalberto e la signora Agnese si fecero fotografare accanto al frigorifero con la famiglia al completo, tranne uno. Nel frattempo, in cantina, qualcuno aveva deciso di cominciare a cantare. “Oh, quant’è bella l’uva fogarina o quant’è bello andarla a vendemmiar Sciur Isacco, fa frecc chi sota, no? La gh’ha la narigia tutta giassada.” disse la Perpetua al 122 | Ma il nonno dov’è? | cadavere del signor Isacco. La scena, vista da fuori, appariva piuttosto bizzarra. Il signor Isacco, nella ghiacciaia, rigido come solo il rigor mortis può essere; di fronte a lui, la Perpetua seduta su una sedia con le gambe legate, una bottiglia di vino in mano e il naso rosso per l’ubriacatura. “La gh’ha minga una bela cera, eh, sciur Isacco. L’è bianc me un mort. Chi è che dis ch’el vin el fa mal l’è tutta gente, l’è tutta gente chi è che dis ch’el vin el fa mal l’è tutta gente de l’ospedal.” “Antenore caro, hai mica lasciato la radio accesa in macchina?” chiese la zia Leonida. “No, Leonida cara. Ho spento la radiolina e l’ho posizionata sul sedile posteriore dell’autovettura.” “E allora, Antenore caro, da dove proviene questa musica?” proseguì la zia. Adalgisa e il signor Adalberto si scambiarono 123 | Ma il nonno dov’è? | uno sguardo eloquente. “Deve essere il nuovo giradischi della vicina. Lo tiene sempre a volume un po’ troppo alto,” rispose tossicchiando il signor Adalberto. “Vado in cantina a prendere altra legna per la stufa,” disse Adalgisa precipitandosi fuori di casa e giù dalle scale. Mentre invitava la Perpetua a bere un goccetto, venne raggiunta dalla signora Agnese. “Eccolo qui, il nonno brontolone. Ah, ciao Perpetua. Vedo che sei in ottima compagnia. Non poteva scegliere momento meno adatto per andarsene, il vecchio. Ma, fin da quando abbiamo deciso di prendere il frigorifero, mi ha dato del filo da torcere. Ed eccola qui, la sua uscita di scena trionfale, proprio oggi. Nulla è casuale, ci scommetto.” Poi, mentre si voltava per risalire le scale: “Perpetua, lascia un po’ di vino anche al signor Isacco, non fare la solita tirchia.” Ma la Perpetua, come la radiolina dello zio Antenore, giaceva spenta, abbandonata sulla 124 | Ma il nonno dov’è? | sedia ad un sonno profondo. Mentre la festa prendeva vita al piano di sopra, in cantina c’era un gran trambusto. La Perpetua, ripresa conoscenza, cercava di avvicinarsi al signor Isacco, per condividere con lui il vino, quando la sedia, alla quale era legata, si sbilanciò, cadendo a terra, con Perpetua al seguito. In cucina, nonostante le chiacchiere e i festeggiamenti, avvertirono un gran baccano. Qualcuno dei vicini chiese: “Da dove proviene questo rumore? Sembra che arrivi dal seminterrato.” Tre figure si mossero all’unisono, senza tuttavia dare nell’occhio. Mentre la signora Agnese intratteneva e distraeva gli ospiti, Meneghin, Adalgisa e il signor Adalberto accorsero di sotto, dove la Perpetua, seppur a terra e legata come un salame, continuava a stillare le ultime gocce dalla bottiglia ormai vuota. Dopo aver rimesso la sedia al suo posto ed essersi raccomandati con la Perpetua di non cercare 125 | Ma il nonno dov’è? | di dare da bere al nonno, le diedero una nuova bottiglia e la lasciarono ai suoi monologhi, i quali di certo il signor Isacco non avrebbe potuto interrompere. Tra fotografie, brindisi e curiosi che facevano capolino da ogni dove, la festa in casa Frigerio durò fino alle otto di sera. Quando, finalmente, gli ospiti se ne furono andati, i domestici si apprestarono a riordinare le stanze, per l’arrivo, il giorno seguente, delle autorità per l’inaugurazione e l’accensione ufficiale del primo frigorifero di Milano. La famiglia Frigerio si radunò nella sala da pranzo. Quella sera, infatti, si apprestava a concludersi la prima edizione del Festival della Canzone italiana, svoltosi a Sanremo. La famiglia si strinse intorno alla piccola radio per ascoltare le canzoni finaliste. La voce di Nilla Pizzi, appena nominata vincitrice, uscì melodiosa dalla radio, a tratti 126 | Ma il nonno dov’è? | gracchiante, sovrapponendosi ad un’altra voce che saliva, molto meno armoniosa, dalla cantina: “La bella la va al fosso, ravanei remulass barbabietole spinass tré palanche al mass.” Mentre tutti ascoltavano la radio, il piccolo Meneghin scese, di nascosto, nel seminterrato. Prese la bottiglia di vino e invitò la Perpetua a fare un brindisi anche con lui. “Meneghin, dàgh un cicinin de vin anca al sciur Isacco, ca gh’ha frecc,” disse la Perpetua, ormai prossima al coma etilico. Quest’ultimo bicchiere pose fine alla giornata alcolica della Perpetua. Quando tutti, verso mezzanotte, si ritirarono nelle proprie stanze, Adalgisa e il signor Adalberto presero una torcia e scesero in cantina. La Perpetua dormiva con la bocca aperta e la testa riversa di lato, di un sonno 127 | Ma il nonno dov’è? | profondo dal quale nulla avrebbe potuto svegliarla: la slegarono e, con l’aiuto del cartone usato per spostare il cadavere del signor Isacco, la riportarono in casa. Fecero non poca fatica a trasportarla; con tutti i litri di vino ingeriti pesava di gran lunga di più del povero Isacco. La adagiarono sulla poltrona, dove il nonno aveva schiacciato il riposino fatale, e si ritirarono nelle loro stanze. Con la quantità di alcol che aveva in corpo, difficilmente si sarebbe svegliata prima dell’alba. Alle prime luci del mattino, Adalgisa si alzò per controllare la Perpetua: dormiva ancora della grossa, con la testa reclinata sul cuscino della poltrona. Voleva accertarsi che non ricordasse nulla del giorno precedente. Provò prima a scuoterla con delicatezza, poi sempre più forte, finché non aprì gli occhi. “Che c’è? Che ore sono? Dove sono? Ussignur che mal di testa,” disse con la solita parlantina, anche appena sveglia. 128 | Ma il nonno dov’è? | “Perpetua, come vi sentite? Ieri sera avete un po’ esagerato con il vino, non trovate?” “Il vino? Ah si, ricordo di aver bevuto svariati bicchieri.” “È stata una bella festa, però, concordate?” “Si, che bella festa. Quanta gente. E che bello, poi, il frigorifero.” “Ricordate di aver parlato con qualcuno in particolare?” “Fatemi pensare… Ah, si! Ricordo di aver fatto quattro chiacchiere con il signor Isacco, anche se non mi sembrava stesse partecipando vivamente alla serata. Ussignur, ma che ore sono? È meglio che vada: devo cambiarmi d’abito per l’arrivo del sindaco. A rivederla più tardi, Adalgisa.” E se ne andò barcollando. Pochi giorni dopo, al termine di pompose esequie, mentre la bara veniva collocata nella cappella della famiglia Frigerio, presso il Cimitero Monumentale, il piccolo Meneghin 129 | Ma il nonno dov’è? | lesse ad alta voce la lapide: “Qui giace Isacco Frigerio che, seppur colto da morte improvvisa, seppe attendere la sua ora, per una degna sepoltura. Riposa al fresco, in eterno.” 130 | Autore | Elena Ghielmi Elena è arrivata sul pianeta Terra dopo varie peregrinazioni in giro per l’Universo. L’ultimo pianeta visitato, nonché il suo preferito, è stato Nettuno: caratterizzato da fortissimi venti, le consentiva di vagare all’interno della Galassia come una extraplanetaria Mary Poppins. Approdata sulla Terra da qualche anno, ha trovato persone molto diverse dagli abitanti degli altri mondi. Alla continua ricerca di qualcosa che la stupisca, ama riempire la sua valigia intergalattica di oggetti da regalare agli abitanti dei successivi pianeti che visiterà. Dalla Terra ha prelevato un libro, una matita, degli orecchini e un paio di scarpe da donna, tacco dodici. Il prossimo ed ultimo corpo celeste che visiterà sarà Saturno, anche se teme di non essere ben accolta. In fondo, Saturno è il pianeta che si ha sempre contro. Ha deciso che, dopo quest’ultimo mondo, farà ritorno alla sua Galassia, Andromeda, nella quale è nata. Manca ormai da troppo tempo. E, in fondo, Elena, oltre ad essere una inguaribile viaggiatrice, è anche una nostalgica aliena. Se volete saperne di più, scrivete a [email protected] 131 Non resta che fumo La rivoluzione: La congiura delle polveri di Alice Gaffo “Cosa ne pensate?” “Davvero non saprei” rispose l’ometto segaligno e scuro in volto, che fino a quel momento era rimasto in rigoroso silenzio ad ascoltare. Inchiodato alla sedia si stropicciava le mani sudaticce strette l’una all’altra in una morsa. L’argomento lo metteva a disagio. “Non posso credere che non abbiate un’ opinione in merito” continuò il suo elegante interlocutore che, a passo lento, si era avvicinato all’omino seduto e ora torreggiava su di lui. “Si tratta di una questione sempre attuale, dopotutto.” L’altro deglutì e accennò un sorriso incerto. 133 | Non resta che fumo | Quanta importanza poteva avere la sua opinione di fronte ad una persona simile? Erano entrambi uomini, certo, ma non allo stesso modo. Chi gli stava dinnanzi era un gigante. Uno che poteva sollevare un miserabile dal fango e con la medesima indifferenza poteva schiacciarlo. Non ricevendo risposta, l’uomo proseguì: “Mantenere l’ordine. Non è solo quello che ci si aspetta da me, è quello che voglio. Ogni pezzo della scacchiera ha un suo posto e, per quanto si muovano, sono tutti guidati da una sola mano”. La sua, pensò l’uomo seduto, distogliendo lo sguardo per un istante. Il gigante fece una pausa e si lasciò sfuggire un ghigno andando verso l’ampia finestra che si affacciava sulla strada brulicante e chiassosa. “È strano, vero? Come a volte per mantenere l’ordine sia necessario creare un po’ di caos?”. “Una guerra?” si lasciò sfuggire il piccolo uomo che impallidì, vedendo il gigante che si girava a 134 | Non resta che fumo | guardarlo con un’espressione sardonica. “Perché essere così drastici?” rispose. “Quello che intendo è molto più preciso e sottile: un piccolo disordine controllato, da poter sedare. Per mostrare alla gente quel che potrebbe essere… Che cosa potrebbe succedere… Per compiacere le piccole menti che bramano una soluzione energica, dura, decisa, efficace. E dar loro una scusa, che legittimi il loro odio”. Ogni parola aveva il peso di un macigno, tuttavia il gigante le sputava come fossero nocciolini di ciliegia. “Ma parliamo di domani. In fondo è per questo che vi ho fatto chiamare.” proseguì l’uomo prendendo dalla scrivania alcuni fogli e porgendoli al suo interlocutore, che si sporse dalla sedia allungando la mano sottile e nodosa. Li prese e li tirò a sé, ma la sua attenzione fu catturata da una lettera, scritta con una grafia quasi illeggibile, che cadde dal mucchio. La raccolse. “È la lettera che ha ricevuto Mounteagle.” disse 135 | Non resta che fumo | il gigante anticipando la domanda dell’uomo, che annuì con la testa, fissando il pezzo di carta e chiedendo timidamente, senza alzare gli occhi: “Avete scoperto chi gliel’ha mandata?” “No. L’ho letta diverse volte ma la prosa è rozza e confusa, sembra opera di un analfabeta” rispose l’altro con noncuranza, affondando due dita nel suo folto pizzetto grigio. L’uomo tornò a guardare la lettera. In alto a sinistra figurava la data: 26 ottobre 1605. L’uomo trasalì confuso e preoccupato. “Ma è di una settimana fa! Perché vi è stata consegnata solo ieri?” “Sophie! Che stai facendo?!” La ragazza, china sulle elaborate decorazioni del pomello laccato in oro di quella grandiosa porta, sobbalzò lasciando cadere lo straccio sgualcito che aveva in mano. “Miss Hound!” esclamò sgranando gli occhi e raccogliendo in fretta lo strofinaccio. “Io lucidavo…”. 136 | Non resta che fumo | La donna le piombò accanto e la prese per il polso, ringhiandole contro. “Stavi origliando, stupida cagna! E cosa ci fai qui, comunque? Le sguattere non possono venire al piano di sopra!”. Gli occhioni della ragazza si riempirono di lacrime. “Vattene! E resta al tuo posto!” Le intimò la governante, il cui aspetto feroce si intonava perfettamente al suo nome, Hound, mastino. Sophie abbassò lo sguardo e a passo svelto scappò via, attraversando quel meraviglioso corridoio, dai soffitti alti come non ne aveva mai visti, interamente affrescati con colori intensi. Le piaceva spiarli, il rosso le ricordava i tramonti di quando era bambina. I suoi passi riecheggiavano per le ampie stanze, così riccamente decorate da sembrare abitate anche quando non ospitavano anima viva. Voleva solo vedere il Re, pensava, era a servizio da settimane, voleva avere anche lei qualcosa da raccontare. Oltrepassò una porticina, mimetizzata nella 137 | Non resta che fumo | parete sfarzosa. Ed eccola di nuovo in quella familiare stanzina fredda e spoglia che la separava dal lusso. Scese le scale di legno grezzo, ascoltandone il noioso cigolio e percorse lentamente lo stretto corridoio umido. Non un quadro alle pareti, solo ciarpame sparso qua e là. Superò le cucine che, malgrado fosse ancora mattina, già diffondevano nell’aria il ricco aroma del pranzo regale. Le cuoche sbuffavano come pentole, inveendo le une contro le altre. Quando finalmente raggiunse la stanza degli impicci, dove svolgeva le sue piccole mansioni, era così abbattuta e arrabbiata dalla sgridata che entrando urtò John, un giovane decisamente troppo carino per essere uno spazzacamino. Gli dedicò un sorriso e chiuse la porta dietro di sé. Che bella ragazza, pensò il giovanotto ciondolando verso i sotterranei, con una corda per la legna poggiata sulla spalla. Attraversò un paio di piccoli locali spogli e freddi, pieni 138 | Non resta che fumo | di donne che rammendavano e lucidavano. E infine il freddo si insinuò nella larga maglia di lana, mentre trottava giù dalle scale di pietra, che portavano alle cantine. I topi gli sfrecciavano attorno mentre si apprestava a prendere quanti più tronchetti poteva. Non era un suo compito, ma era quello che gli era stato richiesto. Odiava quelle cantine umide, e odiava dover mettere le mani in quel buco per la legna. Era così concentrato, che non si accorse di un’altra presenza, qualcuno che si aggirava per i sotterranei con passi sicuri, spavaldi, decisi. Passi che si arrestarono dinnanzi a un’insignificante porta di legno grezzo. Dopo averla oltrepassata, la misteriosa figura accompagnò la porta delicatamente fino a chiuderla, “Sapevo che ti avrei trovato qui” disse voltandosi e sorridendo all’uomo nella penombra. Quest’ultimo seduto al centro della stanza, con il viso nascosto da un ampio cappello nero, rimase serio e alzò gli occhi. 139 | Non resta che fumo | “Potevi essere visto Will.” Al ragazzo sembrò di vedere le sopracciglia dell’uomo aggrottarsi sopra i suoi occhi scuri. “E anche se fosse?” ribatté sorridendo. “Nessuno ci cerca e io conciato così sembro un pelapatate.” Era vero, William era vestito come un garzone, con una camicia larga di tessuto grezzo, ispido che gli faceva prudere la pelle, abituato com’era alle sete e ai velluti. Tuttavia, quello era l’abito che indossava con più orgoglio. Perché, dentro quei vestiti, sentiva di essere l’uomo che avrebbe voluto diventare. Il locale era ricolmo di barili, che però in quell’accozzaglia di cianfrusaglie passavano quasi inosservati. Nel frattempo gli occhi di Will si erano abituati all’oscurità e mentre cercava qualcosa su cui potersi sedere, notò che il suo compagno stava di fronte ad una botte aperta e borbottava parole silenziose, sfregandosi tra le dita pizzichi della polvere nera in essa contenuta e facendo guizzare lo sguardo da un barile all’altro. C’è qualcosa che non va, 140 | Non resta che fumo | realizzò Will. “Cosa...?” Non fece in tempo a formulare la frase che l’altro rispose “La polvere si è deteriorata. Ho contato almeno 10 barili che ora sono inutili.” Il giovane trasalì. “Ma funzionerà vero? Esploderà comunque, Guy?”. L’uomo guardò l’espressione dipinta sul volto del ragazzo, così preoccupata e al contempo piena di fiducia e si lasciò sfuggire un sorriso, che tentò di nascondere tornando a guardare le polveri. “Catesby ha già contattato Wright. Sostituiremo i barili.” disse, poi fece una pausa quasi teatrale e aggiunse “Esploderà.” Erano in silenzio da un po’, Guy non amava conversare. Erano rimasti soli diverse volte e soltanto in un’occasione era stato lui ad intavolare l’argomento. Gli aveva chiesto perché fosse lì, per quanto non fosse affatto interessato alle mansioni che gli erano state affidate. Quello che voleva sapere era il motivo per cui aveva deciso di unirsi alla loro causa. 141 | Non resta che fumo | Voglio essere come mio padre, aveva risposto William di impulso. Ma poi con il tempo, si era pentito di quelle parole. Le sentiva sempre meno vere. Suo padre aveva combattuto un tempo, ma ora era rintanato in una casa di periferia e lì, a cambiare il mondo, c’era un altro uomo. Will lo scrutò e ne scandagliò il volto. Era un viso onesto: ogni ruga era una cicatrice della sua vita, ed era strano pensare come un uomo così giovane potesse essere tanto segnato dalle esperienze. William si rese conto di aver parlato, solo dopo aver posto la domanda. “Perché sei qui?” Guy che era poggiato sui gomiti a contemplare il barile, si ritrasse e i suoi baffi si inarcarono, nascondendo un sorriso. “Mi chiedevo quando sarebbe arrivata questa domanda.” William ridacchiò. E poi tornando serio disse “Catesby, sostiene che è necessario estirpare gli eretici dall’Inghilterra. Che sono come un’erbaccia che infesta i prati inglesi.” Parlava guardando il pavimento di pietra e grattandosi 142 | Non resta che fumo | il collo, che gli prudeva a causa della maglia. Guy scosse la testa divertito “Già, ma se fossero come l’erba cattiva, allora potremmo essere certi del fallimento, in partenza.” “L’erba cattiva non muore mai?” suggerì Will. “Esatto” rispose Guy passandosi una mano sulla folta barba scura, carezzandola. Era il sogno di William avere una barba così, da uomo. “È strano, vero? Come la religione unisca la gente…” proseguì l’uomo, alzando la mano stringendo il pugno “e allo stesso tempo la divida.” E aprì la mano, guardandola, come se stesse pensando a vicende sbiadite dal tempo. Guy fece un respiro e si voltò verso il ragazzo. “William, non ti racconterò la mia storia. Ma… non esistono eretici.” Will strabuzzò gli occhi, confuso, spiazzato. Ascoltava Guy chiedendosi cosa lo spingesse a parlare così. Era risaputo che i protestanti avevano incendiato le loro chiese e ora il Re aveva perfino mandato i loro preti in esilio! Guy continuò, parlando lentamente, 143 | Non resta che fumo | soppesando ogni parola. “Checché ne dica Catesby, non esiste una religione giusta o sbagliata. Però esiste un modo giusto di vivere, di comportarsi, di governare. Quello che voglio fare è cercare di migliorare questa società, anche se per farlo…” Guy venne interrotto dal cigolio della porta, che si aprì per lasciar passare un individuo alto e robusto, che con voce profonda disse: “Abbiamo gli ingredienti, signor Fawkes li potete assemblare qui?” “Portatemeli.” Guy Fawkes accompagnò con lo sguardo i due giovani finché non li vide scomparire dietro la porta. Era di nuovo solo e i pensieri tornarono ad accalcarsi nella sua mente. Avrebbe voluto spiegarsi meglio con William, era così giovane. Gli pareva creta, che si modella ad ogni tocco, qualunque sia la mano che la sfiora. Pensò a Catesby, a come il ragazzo avesse fatto proprie le sue parole e immerse la mano nella 144 | Non resta che fumo | polvere umida e fredda, rabbrividendo. Gli tornò in mente quella sera di maggio, quando quell’arrogante l’aveva reclutato. “Questo rimbomberà nei secoli.” aveva detto Robert Catesby, e poi si era scolato ciò che rimaneva nel boccale. “Fawkes, il 5 novembre noi faremo esplodere il Parlamento, e tutta la feccia che ora ci bastona brucerà.” Catesby era un esaltato, un uomo privo di rispetto, un immaturo, aveva pensato Guy. Tuttavia quella che proponeva era La soluzione. L’unica. Forse non la più giusta, ma sicuramente la più efficace. Non accettò subito, si prese la notte. Rimase dodici ore in quel pub, bevve, vomitò, sputò la sua bile e bevve ancora. L’alcol non gli serviva per decidere, ma per convincere sé stesso, che quello era ciò che andava fatto. Si ripeteva: se un uomo ha il potere di cambiare le cose, ha il dovere di farlo per rispetto nei confronti di chi non può. Era ciò in cui credeva. Quando uscì dall’Henry’s pub, il vento caldo di 145 | Non resta che fumo | maggio gli portò via il cappello. Raccogliendolo, gli sfiorò la mente un pensiero fugace: sarebbe morto il 5 novembre. William svuotò il boccale in una sola, lunga sorsata, come gli avevano insegnato in quei mesi i suoi compagni. La brodaglia densa gli scivolò fin dentro le viscere, per arrivare subito alla testa, come soltanto un buon rum sa fare. Euforico, batté con foga il bicchiere sul tavolo, scuotendo la testa, ma il rumore di fondo coprì il tonfo del bicchiere sul legno umido. L’Henry’s era ricolmo, traboccava di vita. Donne prosperose servivano ai tavoli, ricacciando le lusinghe inopportune in gola ai clienti. Gli uomini erano divisi in grappoli esuberanti, chicchi che si accavallavano, si scontravano e infine rotolavano per terra. Tutti quei corpi scaldavano l’aria, umida e densa di aromi. Il tanfo di alcol si mescolava al profumo dei fagioli fumanti, al puzzo di tabacco, al sudore e all’odore di terra bagnata e di spezie. 146 | Non resta che fumo | Erano le sette e stavano festeggiando da quasi un’ora. William era arrivato da poco, ma era già al secondo bicchiere. I barili erano al loro posto e a quel punto non rimaneva che aspettare i fuochi di artificio. Catesby, ormai ubriaco, propose l’ennesimo brindisi. “Al Domani! Un domani libero!”. Il gruppo urlò in risposta e i loro bicchieri cozzarono gli uni contro gli altri, rovesciando buona parte del loro contenuto. “E a Guy Fawkes che lo renderà possibile!” aggiunse William alzando il boccale ancora più in alto. Improvvisamente le risate si spensero, il giovane guardò i compagni e per un istante credette di averli offesi, aveva detto forse qualcosa di inappropriato? Catesby gli piombò addosso, gli avvolse un braccio attorno alle spalle e stringendolo disse: “Giusto, Will, brindiamo a quel brav’uomo di Fawkes, che rinuncia all’alcol e alle donne in nome delle polveri!” E dicendo questo lasciò il giovane per seguire una bella signora bionda che gli aveva fatto l’occhiolino. 147 | Non resta che fumo | William prese fiato, l’alito di Catesby, dopo tutto quel rum, era soffocante. Recuperò il suo boccale vuoto e barcollò allegramente verso il bancone, chiedendosi se anche la sua bocca puzzasse in quel modo. Passando, superò un tavolo occupato da alcuni soldati. All’inizio le loro parole gli scivolavano addosso, ma poi colse qualcosa, e si ritrovò immobile in mezzo a quel formicaio, con l’orecchio teso. “Ma che cosa centrano le ronde con la lettera?!” “Miseria ladra, se sei lento. La lettera è il motivo delle ronde nelle cantine!” Sentendo questo, il dubbio di William si concretizzò in puro panico, e il ragazzo si girò istintivamente, per ascoltare meglio, per capire, anche se temeva di aver già capito fin troppo bene. La voce che aveva parlato per prima apparteneva ad un soldato con i capelli rossi, slavato come un cencio. Il secondo era un giovane prestante, i cui riccioli neri ballavano 148 | Non resta che fumo | come fossero vivi, mentre lui continuava a parlare e a ridere. In tutto, al tavolo erano in cinque. Tutti membri della guardia reale. “E come fai a saperlo?” Intervenne uno, “Giusto! Chi te l’ha detto?” aggiunse un altro, un po’ più sobrio degli altri. “Cora” rispose il ragazzo riccio e stava per continuare, quando il rosso lo interruppe. “Cora chi? La governante isterica del secondo piano?”. E tutto il tavolo iniziò ad abbaiare, finché uno non intervenne chiedendo: “E lei come l’ha saputo?” Felice di avere nuovamente la parola, il ragazzotto riprese: “Ha origliato” e poi scoppiò in una risata sguaiata. “Praticamente ha cacciato una sguattera e si è messa ad origliare lei.” E rise ancora. “Come un cane che deve pisciare dove ha pisciato un altro” esclamò un biondino magro come un giunco. E si scatenò un gran baccano di battutacce. William nel frattempo si era avvicinato e 149 | Non resta che fumo | fissava corrucciato la scena. Per quanto fosse rumoroso il locale, gli pareva di udire soltanto le parole di quella manciata di soldati ubriachi. “Ma che cosa diceva la lettera, Thom?” chiese d’un tratto un soldato rivolgendosi al giovane con i capelli neri. Questi guardò il fondo del suo bicchiere vuoto e poi si schiarì la voce, atteggiandosi a spia. “Cora ha detto che l’hanno letta, ma non si capiva un accidente, cioè c’era scritto delle cantine, ah, e si parlava di domani!” E inarcò le sopracciglia. “Lo sai, no, che c’è il primo Parlamento di re Giacomo?” William non aspettò di sentire altro e si catapultò dai suoi compagni, agitato, preoccupato, amareggiato. Nella sua mente si aggrovigliava una matassa di emozioni e un solo pensiero chiaro: qualcuno li aveva traditi! “Non ti devi preoccupare Will” gli aveva detto Catesby, che nel frattempo era tornato al tavolo. La lettera era indecifrabile, non avrebbe in alcun modo inciso sulla riuscita del piano o, 150 | Non resta che fumo | almeno, questo era quanto gli aveva garantito Wright, prima di mettersi alla ricerca della polvere nera che Fawkes gli aveva chiesto, in sos tituzione di quella danneggiata. Il giovane era sempre più confuso e ora la sensazione inebriante del rum gli annebbiava la testa in maniera sgradevole. Come potevano restare calmi? Fawkes stava rischiando tutto, non solo la vita, rischiava di sacrificarsi per nulla, per un cambiamento mancato, un fallimento. E poi chi l’aveva mandata quella lettera? C’era un traditore tra loro, possibile che non importasse a nessuno? Alle domande incalzanti del ragazzo Catesby dava risposte vaghe. Ma Will pretendeva la verità e insistette finché l’uomo non lanciò un occhiata a Wright e borbottò a mezza voce: “Senti ragazzo, chiunque l’abbia fatto voleva solo avvertire i suoi amici cattolici di non recarsi in Parlamento quel giorno. La lettera non doveva arrivare al Re.” Ora Will era serissimo. “Sai chi è stato?” Era una 151 | Non resta che fumo | domanda, ma suonava quasi come un’accusa. Catesby guardò il giovane senza dire una parola. “L’ha ricevuta Mounteagle, uno dei membri del Parlamento, che poi l’ha consegnata al Re.” intervenne Wright, freddo come il ghiaccio. Il volto di Will, contorto dalla rabbia si distese in un’espressione di sorpresa che subito mutò in un’amara consapevolezza. Anche se aveva cercato di nascondersi dietro una scrittura da analfabeta ignorante era chiaro: Era stato suo padre. William, che fino a quel momento era rimasto in piedi, con i pugni sul tavolo, si lasciò cadere sulla panca di legno. Aveva incontrato Mounteagle solo due volte nella sua vita, era suo zio, ma per lui era un uomo come un altro, una di quelle persone tangenti alla tua vita che presto dimentichi. Tuttavia per suo padre era diverso, avevano superato insieme tanti momenti. Lui gli era affezionato. William era paralizzato, i due che erano ancora al tavolo si alzarono lasciandolo solo. E lui 152 | Non resta che fumo | ripensò alla domanda di Fawkes. Ora più che mai capiva di aver dato la risposta sbagliata. Si alzò di scatto. E mentre correva fuori dal locale pensava all’unico posto dove avrebbe voluto trovarsi: al fianco di Fawkes e delle polveri. Per quanto possano essere regali e sfarzose, anche le migliori porte scricchiolano, pensava Robert Cecil, primo conte di Salisbury e segretario del re, mentre varcava la soglia della camera del suo sovrano. “Mi avete fatto chiamare?” chiese ossequiosamente. Giacomo I era in veste da camera e teneva in mano un grosso calice, che roteava lentamente, per far respirare il vino. “Venite avanti, Salisbury, ditemi: ha avuto qualche esito l’ultima ronda?” Il segretario si asciugò le mani sudaticce sui pantaloni. “A dire il vero, sire, ritengo che gli uomini che finora hanno esaminato le cantine non fossero qualificati”. E trattenendo un principio di balbuzie proseguì “Forse potrei affidare la ronda di mezzanotte a Thomas 153 | Non resta che fumo | Knyvet…” “Devo dedurre che la risposta sia no?” chiese calmo il Re. “Purtroppo è così” rispose Salisbury stringendo le labbra. “Ricordate le mie parole di questa mattina?” domandò il Re, cogliendo il segretario di sorpresa. Questi annuì lento e il re proseguì: “ultimamente i cattolici sono diventati un problema, sapete? Vogliono attaccare me, l’Inghilterra.” E dopo qualche secondo di silenzio Giacomo I ridacchiò. “Credo che il loro scopo sia far esplodere il Parlamento”. Salisbury lo guardò perplesso, cosa mai poteva trovarci di buffo? “Un’ impresa notevole” continuò il sovrano, poi sospirò. “Mi diverte sempre l’ingenuità del popolo.” Il Re notò l’espressione interdetta del suo segretario e allora gli chiese: “Quali credete che sarebbero le conseguenze, se avessero successo?” Ma non gli diede il tempo di rispondere e scandì la risposta lentamente: “Nessuna.” 154 | Non resta che fumo | Il segretario era stupito, ma non chiese spiegazioni perché quando il Re parlava, anche se faceva una domanda, quello che voleva sentire era solo l’eco della sua voce. Difatti proseguì: “Certo, forse, se morissi io... ma io non morirò, per cui il loro gesto non sarebbe una rivoluzione, ma si trasformerebbe nella scusa che cerco da mesi per schiacciarli.” Salisbury lo capì solo in quel momento: il Re avrebbe lasciato esplodere il Parlamento. Non poteva crederci. Ma al sovrano poco importava dei mezzi, ciò che voleva era estirpare dall’Inghilterra i cattolici, quella massa di ingrati che, con la maschera della religione, remava contro ad ogni sua decisione. “Potete andare.” Salisbury si ridestò dai suoi pensieri. Il Re aveva un’aria soddisfatta e felice. “C’è un’ ultima ronda. Fermatela. Poi fate venire una carrozza, partirò verso le due del mattino. Deve essere tutto pronto.” Elencava le cose da fare guardando il vuoto, concentrato, con 155 | Non resta che fumo | gli occhi stretti in una fessura. D’un tratto si voltò verso il suo segretario, in piedi al centro della stanza... capì che voleva dire qualcosa, ma qualunque cosa fosse non aveva voglia di ascoltarla. “Andate.” Salisbury uscì aprendo il portone giusto il necessario ed esitò qualche istante prima di imboccare l’ampio corridoio. Se avessero preso i cospiratori, potevano farne un esempio, sarebbero state loro le uniche vittime. Non capiva: perché abbandonare le ricerche? Era arrivato davanti agli alloggi dei soldati ed entrò senza bussare scatenando un gran trambusto: gli uomini erano svegli, intenti a giocare e a bere. Balzarono dai letti, nascondendo cose che Salisbury neanche avrebbe notato, e in un attimo erano tutti in piedi, al suono delle parole del loro compagno: “Il conte di Salisbury, segretario del Re.” Salisbury rimase sulla porta cercando di scostare la testa dalla puzza di sudore e polvere 156 | Non resta che fumo | da sparo che quegli uomini emanavano. “Signori sarò breve, la ronda prevista per stasera è cancellata.” affermò deciso in un solo fiato. Poi tacque qualche istante, i soldati lo fissavano, finché lui alzò lo sguardo su uno di loro. “Knyvet, seguitemi.” Un uomo dagli occhi scuri e intelligenti si alzò immediatamente e seguì il conte senza fare domande. “Voglio che facciate un giro nelle cantine, stanotte. Prendete pochi uomini. Fermate chiunque vedete.” Salisbury camminava svelto, parlando a bassa voce, guardandosi in giro e continuando a rigirarsi nella testa un solo pensiero: come sarebbe riuscito a giustificarsi con il re? Quando arrivò alle scale che portavano al piano di sopra, si girò verso il soldato. “Mi aspetto risultati.” William arrivò all’entrata delle cantine senza fiato. Non c’era nessuno, la notte era fredda, calma, sembrava aver congelato il tempo. 157 | Non resta che fumo | Si inoltrò per i cunicoli, nel buio. Conosceva quel labirinto come se lo avesse costruito lui stesso. Strisciava contro i muri umidi, sporchi. Era disgustoso, ma accendere una torcia era troppo rischioso. Si sentiva osservato, anche nel buio. La corsa lo aveva rinfrancato, ma la paura era il più potente dei veleni. Ogni rumore lo faceva fermare, tremare, sussultare. Gli pareva di udire passi, voci, clangore di ferro e di spade. Ormai era vicino. Girò un angolo ancora. Un bagliore. Si ritrasse. I soldati ridevano. Si lamentavano. William riconobbe alcune delle voci che aveva sentito al bar. Erano ancora ubriachi, ma non tutti. Alcuni tiravano pugni sulle spalle degli altri intimando loro il silenzio. Decise di correre. “State zitti!” Sibilò Knyvet e per un istante i soldati tacquero, si creò un breve intervallo di silenzio irreale. Knyvet aggrottò le sopracciglia. “Avete sentito?” I soldati avevano portato la mano all’elsa della spada e da quel momento 158 | Non resta che fumo | nessuno parlò più. Quando entrò, William riconobbe la sagoma di Guy in mezzo alla stanza, in piedi, con la spada sguainata che rifletteva il lieve pallore della luna. “Cosa ci fai qui William?” sussurrò Fawkes incredulo. Il giovane chiuse la porta e gli andò incontro ansimando per lo sforzo. «Guy ci sono le guardie, il re sa tutto, è troppo pericoloso, è troppo tardi!» Will avrebbe voluto spiegare meglio il groviglio di pensieri che si contorceva nella sua mente, ma le frasi si accavallavano. “Lo so, Will, perché credi abbia voluto rimanere tutta la notte? Tu però devi andartene.” Guy lo aveva preso per le spalle e gli parlava in modo misurato e calmo, stringendo le dita attorno ai suoi muscoli tesi. Will respirava forte “Ma io…” “Se mi trovano, non mi prenderanno. Ma tu devi andartene. Una volta accese le micce non 159 | Non resta che fumo | ci sarà più tempo.” Will lo guardò senza capire. “Ma Catesby aveva detto che potevi…” “Vattene!” Gli intimo Fawkes a denti stretti. Lo spinse. “Ma io non voglio…” E l’amico lo interruppe: “Sì che lo vuoi. Sei solo troppo leale per ammetterlo. Will, io ho preso la mia decisione, e bastano due mani per accendere le polveri.” E così dicendo si voltò a guardare una torcia, incastrata nel foro di un barile vuoto, imbevuta d’olio al punto che sembrava avrebbe arso per giorni. “Vai.” Will scosse la testa mente si girava, correndo verso la porta, ma esitò un momento con la mano sulla maniglia fredda. Successe in un attimo. La potrà si spalancò. William cadde svenuto per il colpo e improvvisamente fu coperto da una cascata di cianfrusaglie che lo nascosero 160 | Non resta che fumo | mentre i soldati facevano irruzione. Non era troppo tardi, pensò Fawkes, poteva ancora cambiare le cose. C’era ancora una speranza. La torcia era a pochi passi da lui. Si mise in posizione facendo roteare la spada, mentre le guardie avanzavano verso di lui. Le armi cozzarono, Guy scartò le giovani lame, con colpi vigorosi e decisi, tenendo gli occhi sulla fiamma che bruciava sempre più vicina. Un ultimo fendente gli diede l’occasione di afferrare la torcia. Il tempo parve rallentare poteva sentire distintamente il suono delle scintille che scoppiettavano. Un soldato spuntò all’improvviso alla sua destra Guy fece in tempo a incrociare le spade e stringendo saldamente la torcia lo respinse, spingendolo contro i suoi compagni. Era il momento. Fawkes corse verso un barile e si scoprì a sorridere mentre stava per scagliare la fiamma sulla polvere. Poi lo vide, esitò un istante fissando il corpo esanime del giovane che avrebbe portato con 161 | Non resta che fumo | sé nella tomba e le guardie reali gli furono addosso. Mentre lo trascinavano via, Fawkes vide un grosso stivale nero, insignificante come la guardia che lo indossava, soffocare la fiamma e spegnere la loro speranza. William si svegliò solo. Con fatica si tirò a sedere e in quel momento si accorse che nella stanza non era rimasto neanche un barile. Il campanile faceva risuonare i suoi rintocchi in lontananza. Sette, otto, nove. Will si lasciò andare di nuovo sul pavimento umido. A quell’ora il Re doveva essere alla camera dei Lord, probabilmente stava iniziando il suo discorso proprio in quel momento. Quanto sarebbe potuto essere diverso quel giorno e invece, si sorprese a pensare, la storia lo avrebbe ignorato e loro sarebbero stati dimenticati. Salisbury entrò negli appartamenti del Re, portando con sé il prigioniero, ammanettato, 162 | Non resta che fumo | provato dalla veglia in prigione, ma ancora fiero ed elegante. “Eccolo, sire.” lo annunciò Salisbury. “Vi dirò Mr Fawkes sono sorpreso di vedervi qui.” disse il Re seduto su un ampio seggio, decorato in oro e velluto rosso. Parlava con Guy, ma fissava il conte. Non poteva credere che quell’inetto di Salisbury avesse avuto l’ardire di disobbedirgli. Mentre lo osservava rifletteva. Sarebbe stato meglio mandarlo alla camera dei Lord, dato che forse aveva un po’ di cervello, o trasferirlo e levarselo definitivamente dai piedi? Poi sospirò, ci avrebbe pensato in un altro momento, alla fine una cosa valeva l’altra, dato che la situazione volgeva comunque a suo vantaggio. Il Re ora guardava il congiurato, immobile nell’espressione da quando era entrato. La faccia del sovrano, molle e pallida, si contorse deformandosi in una smorfia “Ditemi, pensavate davvero di poter far esplodere il Parlamento?” Fawkes non rispose. Il Re si sporse verso di 163 | Non resta che fumo | lui, incassando la testa nelle spalle. Silenzio. Il sovrano riprese a parlare “Avete ragione, sapete? Non ha senso sprecare il fiato.” Il Re sbadigliò sistemandosi i polsini del ricco giacchetto in seta, e tiratosi in piedi voltò le spalle all’uomo, dirigendosi alla porta. “In fondo domani sarà uguale a ieri. Portatelo alla torre.” Tagliò corto. Fawkes a quel punto prese la parola. “Vi sbagliate”. Il Re parve meravigliato da tutta quell’audacia e si voltò, per guardare in faccia l’uomo che osava contraddirlo. “Qualcosa è cambiato”. Fawkes si era girato lentamente e fissava il sovrano dritto nei suoi occhietti piccoli e crudeli. “Domani il mio intento verrà ricordato. Quello che volevo fare non verrà mai dimenticato.” Non capì se il Re avesse davvero colto il senso delle sue parole, lo sentì ridere a quella provocazione. Rabbrividì sotto lo sguardo freddo e indifferente del sovrano che, 164 | Non resta che fumo | voltandogli di nuovo le spalle, sussurrò: “Di questo puoi essere certo.” « Ricorda, ricorda, il cinque novembre, polvere da sparo, tradimento e complotto. Non vedo alcuna ragione per cui la Congiura delle Polveri dovrebbe mai essere dimenticata! » Filastrocca popolare, recitata in Inghilterra ogni anno per ricordare la Congiura delle Polveri. 165 | Autore | Alice Gaffo Alice Gaffo, personaggio letterario, nato dalla penna dell’omonima Alice, lascia la carta per avventurarsi nel mondo reale nel 1993. Coraggiosa ed impavida questa piccola parola di poche lettere, in pochi anni, impara a darsi una forma e si assesta nel 2001 con una chiara immagine a colori. Così inizia la vita 2D di questo strano personaggio, che impara ad esprimersi attraverso ballon, sempre più prepotenti, invadenti, ingombranti finché il pensiero non esplode nella grande pagina bianca. Se volete saperne di più, scrivete a [email protected] 166 Dentro lo sguardo Cronaca di una (meta) rivoluzione cubista La rivoluzione: Il cubismo di Giovanni Sanicola La rivoluzione la puoi riassumere nella tensione tra quello che sei e l’immagine che vorresti avere di te stesso. L’immagine, non la sostanza. La punta del pennello si appoggia sul tratto che delinea la coscia di una donna. Ridefinisce quella linea, infrangendo quello che una volta era un nudo femminile e che ora è una figura astratta. Il realismo del ritratto in pittura viene superato in quel preciso istante. Per sempre. È notte fonda e Georges Braque lavora chino sopra la tavolozza. È alla seconda bottiglia di Borgogna e sta dando corpo a quello che la storia ha ribattezzato come movimento cubista. La sua mano è mossa dalla convinzione profonda che le persone nel mondo possono vedere una 168 | Dentro lo sguardo | stessa cosa in maniera diversa. E che la cosa stessa in fondo non è mai la stessa cosa. Rileggo. Funziona. E poi? Sono le dodici e trenta di una domenica di metà dicembre. Mi restano ventiquattro ore per dare corpo al racconto sulla rivoluzione. Sono giorni che ci rimugino sopra, che riscrivo, che faccio ricerche, che riparto da capo, dopo essermi impantanato dietro idee assurde e rivoluzioni scritte male. Alla fine ho scelto di raccontare la rivoluzione cubista, dal punto di vista di Georges Braque, il pittore francese che insieme a Picasso ha disegnato le prime opere del movimento cubista. Non ho più molto tempo. La scadenza tassativa per la consegna del lavoro è fissata per domani alle ore tredici. Ho già mancato le prime due consegne preliminari: questo è l’ultimo momento possibile per vedere figurare 169 | Dentro lo sguardo | il mio racconto nella raccolta “A 24 ore dalla Rivoluzione”. Mi infilo il cappotto e fumo una sigaretta in piedi sul balcone. Tanti racconti sono nati qui, altre storie personali si sono spente sopra questo metro quadrato da cui osservo il cortile. Una ragazza trascina una valigia le cui ruote producono un frastuono che si propaga in tutto il cortile. Procede a passo spedito, forse verso un treno in partenza, mentre un uomo seguito da un bambino sta portando in braccio uno scatolone, probabilmente un televisore, magari uno schermo 3D. Chissà se l’uomo e il bambino sanno che il concetto di immagine in 3D è nato con Picasso e Braque più di un secolo fa. Ma, soprattutto, questa cosa gli interesserà? Mi chiedo come si possa scrivere di rivoluzione in un’epoca assuefatta al concetto, ancor prima che alla parola, Rivoluzione. Mi domando come si possa restituire sostanza a un’idea che si è esaurita, come un fusto da cui esce solo schiuma, perché la birra è già stata servita tutta 170 | Dentro lo sguardo | da un bel pezzo. In un mondo che spinge sempre più in là le colonne d’Ercole della trasformazione, senza rivoluzionarsi; o che si rivoluziona in continuazione, senza trasformarsi; in un mondo dove tutto cambia per non cambiare, ha ancora senso parlare di rivoluzione? L’amore. Di tutte le caratteristiche più importanti per un rivoluzionario, Ernesto Che Guevara indicava nell’amore la qualità imprescindibile. È l’amore a guidare il tratto di Georges Braque, un pittore con un amore ostinato per un’idea. Braque sta pulendo i suoi pennelli dalla vernice e ripensa a tutte le volte che si è sentito diverso, emarginato, perché vedeva il mondo diversamente dagli altri bambini, poi dagli altri ragazzi e infine dagli altri uomini. Ripensa a quando da piccolo ammirava la perfetta calma di un lago, con le anatre che lo attraversavano lasciando una flebile scia sull’orizzonte 171 | Dentro lo sguardo | dell’acqua. Un giorno si era lasciato sfuggire una frase sulla sublime perfezione dell’acqua cheta. Gli altri bambini lo avevano preso in giro - come solo i bambini sanno stigmatizzare la diversità - e avevano passato il resto del pomeriggio a tirare sassi nello stagno e alle anatre, per creare confusione e rendere frastagliata la linea dell’acqua. Il piccolo Braque aveva amato ancora di più il lago in subbuglio e aveva iniziato a chiedersi come si potesse rappresentarlo in entrambi i suoi stati, quieto e irrequieto, all’interno di un’unica immagine. Nella sua mente le diverse percezioni del lago si intervallano, si susseguono, si confondono, si alternano, s’intrecciano e si fondono in un visionario montaggio cinematografico. Braque appoggia i pennelli puliti sulla sua tavolozza e getta uno sguardo verso il quadro. Pensa agli uomini del futuro che magari anche grazie a questo dipinto riusciranno a percepire, accettare e rispettare il concetto di diversità. 172 | Dentro lo sguardo | La chiave gira quattro volte nella serratura. È lei. È tornata con la spesa. Mi precipito ad aiutarla, mosso dal senso di colpa per averla fatta andare da sola, perché dovevo scrivere. La scrittura, ormai, è come un’amante tollerata nella nostra relazione. Ruba le mie migliori energie creative, i miei rari momenti di freschezza extra-lavorativa; quando non scrivo mi rende assente, spesso m’innervosisce, quasi sempre mi porta via da lei. Forse un’altra donna sarebbe meno invasiva nella nostra relazione. Inizio a sistemare la spesa nel frigorifero e nella dispensa. Oggi c’è una luce intensa che rende la cucina luminosa e piena. Mi viene voglia di cucinare qualcosa per stasera. Mi viene voglia di abbandonare per sempre il racconto, la scrittura, e lasciarmi trascinare dalla vita e dai semplici piaceri come un risotto alla mantovana o un brasato, accompagnati da una bottiglia di Barolo, o al limite un Refosco. Impallidisco all’idea che ci sia stato qualcuno 173 | Dentro lo sguardo | in grado di scrivere migliaia di pagine nel corso di una sola esistenza e di resistere a tutta la bellezza dei piaceri con cui il mondo ti solletica ogni secondo. Chissà come diavolo ha fatto Georges Simenon a scrivere tutti quei libri in una sola vita? Sono quasi le tredici. Tempo di andare a pranzo. “Come procede il racconto?” “Mah…” Mi guarda. Si è rassegnata alla presenza immateriale di quest’altra compagna nella mia vita, ma non alle mie lamentele e al mio perenne senso d’insoddisfazione verso qualsiasi cosa che sto scrivendo. Vorrebbe almeno vedermi contento e non come un condannato verso il patibolo. “Senti finisci tu qui, io vado un po’ di là.” Sarà dura arginare il suo fastidio. Siamo solo all’inizio della giornata e del racconto. Il peggio deve ancora venire. Il tavolo è affollato di prodotti di vario genere, mischiati tra loro. Chissà come faceva la spesa 174 | Dentro lo sguardo | Braque? Chissà come cucinava? Immagino i pranzi con Picasso, in cui le teorie cubiste s’intrecciavano alle pratiche culinarie. La realtà alla fine s’insinua anche nella vita dell’artista più geniale: c’è sempre una zuppa da preparare. Quando vado in soggiorno la vedo immersa nel suo pc, alla ricerca di uno svago prima del pranzo domenicale che ci attende. Dai miei. Mi serve un bicchiere di rosso prima di uscire. Camminare ha sempre il potere di rasserenarmi, insieme al bicchiere di rosso buttato giù a stomaco vuoto, che ha risvegliato l’alcool di ieri sera. Mentre camminiamo, il mio sguardo indugia su di lei. La sua dolce bellezza. La sua eleganza discreta. Tra le cose che dovrò combattere al rientro a casa, per cercare di andare fino in fondo al racconto sulla rivoluzione di Braque, al primo posto c’è senz’altro il resistere alla sua bellezza, oltre che al sonno, il nemico supremo di ogni scrittore. Non riuscirò mai a capirlo, come la voglia mi assalga nelle situazioni meno 175 | Dentro lo sguardo | indicate, quando non mi è possibile esaudirla. Siamo arrivati. La tavola è apparecchiata a festa, più come per la cena di Natale che per i pranzi domenicali. Mi accerto subito della presenza del vino. Trovo un rosso già scaraffato che vado subito ad assaggiare. Vino toscano, probabilmente un Bolgheri, vino molto amato da mio padre e anche da me. L’amore di un rivoluzionario, diceva Che Guevara. Quanto dovevano amare questo mondo Braque e Picasso per donargli la tridimensionalità. La sfaccettatura delle cose e delle idee. E dopo aver fatto questo, andare dal macellaio a prendere della carne per la cena e cucinarla per qualche amico o per una donna. Siamo al secondo e praticamente non ho parlato. Avverto degli sguardi furenti da parte di lei che mi sta dicendo: non puoi pensare di portarmi qui e andartene con la mente per i fatti tuoi. Non provarci nemmeno. “Papà vi deve dire una cosa.” Mia madre ha la voce rotta e mi guarda con gli 176 | Dentro lo sguardo | occhi coperti da un velo di lacrime. Mio padre esita, si schiarisce la voce. “Ecco, non so bene come introdurre il discorso. Pare che non mi resti molto.” “Molto cosa?” chiedo io, di getto. “Molto tempo. Da vivere.” Il gelo piomba sulla tavola. L’alba. I primi raggi di luce si depositano sulla tela, incidendo e illuminando quello che una volta era un nudo femminile. La luce gli regala una nuova astrazione, pensa Braque, le possibilità di questo nuovo modo di dipingere non si sono esaurite, siamo appena all’inizio. Sta fissando la tela da più di un’ora, da quando ha compiuto l’ultimo ritocco. Il suo corpo è immobile, i suoi occhi sono schegge impazzite che corrono e ripercorrono ogni millimetro della tela. Per la strada Braque può ammirare Parigi al risveglio. Entra in un bar e ordina quattro 177 | Dentro lo sguardo | croissant da portare via. Al bancone osserva un uomo con un cappotto chiaro che beve il caffè di fianco ad una giovane donna con indosso un abito da sera scuro. All’alba s’incrociano i lavoratori più mattutini e i nottambuli più accaniti. Bevono gomito a gomito un caffè, l’ultimo o il primo della loro giornata e restano per un attimo nello stesso quadro, prima di proseguire in direzioni opposte. Braque rientra in casa e mangia un croissant. È in attesa dell’unica persona al mondo che nel 1907 è in grado di comprendere quello che sta facendo: Pablo Picasso. Suona il campanello. I due si salutano con affetto. Quando incrociano i loro sguardi è come se ricevessero ristoro e comprensione. Probabilmente sarebbero finiti per impazzire, più di quanto non siano già stati ritenuti folli all’epoca, se non avessero avuto l’uno il conforto dell’altro. “Lo hai finito? Finalmente posso vederlo.” esordisce Pablo ancor prima di essersi tolto la 178 | Dentro lo sguardo | giacchetta scura. “Come tu oggi possa concentrarti sul racconto, non riesco proprio a capirlo.” “Nemmeno io.” In realtà la scrittura è sempre stata la mia via di fuga. Più forti sono i problemi che m’inseguono e più profondamente mi ci abbandono. Penso a mia madre che resterà sola. Penso alle cose che devo trovare il coraggio di dire a mio padre prima del tempo. Non riesco neanche a dire: prima che muoia. “Sei sicuro di stare bene?” No, non lo sono. “Sono confuso.” “Vuoi parlare?” Parlare proprio no. “Magari più tardi.” Ripenso allo sguardo che aveva mio papà, al tono con cui ci raccontava della visita dal medico. Non era spaventato, era più preoccupato di non spaventare tutti noi. 179 | Dentro lo sguardo | Forse si sente pronto. “Quando fissi il vuoto in quel modo…” Sorrido. “E non dire che è per il racconto, per favore.” Riprendo a batteri i tasti del computer, senza pronunciare una parola e senza guardarla. Pablo sta fissando con spirituale concentrazione il quadro di Braque. I suoi occhi percorrono il dipinto come fosse una lunga strada di campagna, il cui paesaggio ti propone all’orizzonte nuove sorprese da guardare. Gli occhi di Braque sono umidi, non ospitano delle vere e proprie lacrime da quando era bambino. I due restano immersi in un silenzio incantato, in uno di quei momenti di profonda empatia che avvengono poche volte nell’arco di un’intera vita. Si stanno scambiando qualcosa di intimo ed estremo, qualcosa che le parole non potrebbero mai catturare: sono due anime in collisione, la più mistica e complicata delle avventure umane. 180 | Dentro lo sguardo | Braque osserva il suo quadro, poi guarda Picasso che a sua volta lo sta studiando. Non gli importa di cosa diranno le persone del suo ritratto, non gli importa che la donna del suo quadro apparirà a tutti mostruosa e atroce. Disegnerà ancora così. Ha in mente di dipingere un violino il cui ponte che sostiene le corde si propaga in due figure distinte. Vuole disegnare dei paesaggi come non li ha mai ritratti nessuno; vuole raffigurare le persone come non sono mai state disegnate. In quel momento Braque è certo di una cosa: continuerà a tentare di far vedere al mondo la sua visione delle cose, anche a costo di mostrarlo a un solo essere umano. Si è fatto buio e nemmeno me ne sono accorto. Accendo la luce e non sento nessun rumore provenire dalle altre stanze. Sarà uscita e non ho sentito che mi ha salutato? Vado in cucina dove trovo un biglietto che mi ricorda l’appuntamento a cena con Carla e 181 | Dentro lo sguardo | Riccardo. L’orologio mi dice che sono le sette e dieci. Non mi rimane molto tempo. La frase di papà. Mi butto sotto la doccia e penso a quello che devo fare. I pensieri lottano tra loro e non mi permettono di concentrarmi. Il racconto deve finire con la parola Cubismo. Devo chiamare mio fratello. E mia madre, che avrà bisogno di parlare. Mi aspetta una settimana di fuoco, con tanto di trasferta a Roma. Quante cose che non sono riuscito a far vedere di me a mio padre. Quante cose non ho mai visto io di lui. Nella pizzeria dove andiamo stasera hanno una mozzarella di bufala deliziosa. Ci starebbe bene un Ripasso. O anche un Merlot. Al rientro devo finire di scrivere il racconto, così domattina avrò il tempo di rileggerlo un’ultima volta. Forse lo fai apposta. Incasini tutto per evitare di focalizzarti sulle cose che ti toccano veramente. Di nuovo le chiavi nella porta. 182 | Dentro lo sguardo | La serata scorre come fosse un film muto. Le persone mangiano ai tavoli della pizzeria, nella serenità di una domenica sera come tante. Volti con l’appetito, volti immersi nel piatto, volti tesi dei camerieri al lavoro, volti appagati dalla cena. I volti dei miei amici. Il volto di lei. La sua bellezza, di nuovo irresistibile. I suoi occhi così vivaci. Il profumo della pizza che ci arriva addosso, dopo che il cameriere ha portato quattro piatti al tavolo alle nostre spalle. L’aroma del Ripasso appena aperto che, no, non sa di tappo, rispondo. La partita di calcio che scorre in uno schermo a fondo sala. Le luci delle macchine che passano sulla strada. Le ombre dei passanti sul marciapiede. Mi sembra di essere dentro un quadro impressionista, dove i contorni delle persone e delle cose si fondono tra loro. Due uomini sono fermi davanti ad un quadro. Sono immobili da diversi minuti. I loro occhi vagano perplessi lungo la superficie del dipinto, 183 | Dentro lo sguardo | alla ricerca di un qualche appiglio, qualcosa che possa rendere armonica la visione e il pensiero che accompagna il loro sguardo. L’autunno parigino accorcia rapidamente le giornate e una fioca luce illumina il Salon d’Automne. Henri Matisse e Louis Vauxcelles stanno allestendo il Salon per l’esposizione del 1908 e non riescono a capire dove collocare l’opera di Braque. Hanno sentito parlare di quello che stanno facendo Braque e Picasso e vogliono esporre Braque per vedere la reazione delle persone. Solo che non riescono a capirlo. Lo studiano in silenzio ormai da una mezzora abbondante e il nudo femminile disegnato da Braque li disorienta come fosse un taglio su una tela. “Cosa sta cercando di fare, secondo te?”, domanda Matisse a bassa voce. Il critico resta in silenzio. Indugia sul volto della donna e quindi risponde. 184 | Dentro lo sguardo | “Credo stia disegnando dei corpi di latta. Dei corpi di latta deformi. È come se riducesse tutto a uno schema geometrico. A delle forme che compongono i corpi. A dei cubi.” Quella parola rimbomba nel vuoto del salone andando a depositarsi su tutti gli altri quadri già allestiti. Quando il suono della voce si disperde, i due piombano in un silenzio che non riescono ad affrontare. Nel medesimo istante succedono due cose: i due uomini hanno coniato il nome della più grande corrente artistica del Novecento e sono diventati due dinosauri superati dalla storia. “Andiamo a prendere un caffè.” “Va bene.” Si voltano e si allontanano dal quadro di Braque, ma restano turbati da quello che hanno visto e scossi dalla parola che hanno appena generato. Il Cubismo. La rivoluzione la puoi riassumere nella tensione 185 | Dentro lo sguardo | tra quello che sei e l’immagine che vorresti avere di te stesso. Se non raggiungi quell’immagine, la rivoluzione non si compie. Il mondo resta immutato. Se invece riesci a percorrere la strada che ti consente di diventare quello che vorresti essere, fai la rivoluzione. L’alba raggiunge anche me. Mi trova sveglio sul divano del salotto. Non sto fissando un quadro, ma il vuoto davanti a me. Mi preparo per uscire mentre lei sta ancora dormendo. Mi metto l’abito elegante e faccio il nodo alla cravatta. Il lunedì mattina milanese non può reggere il confronto con le albe parigine di Braque e Picasso. Sembra tutto spento. La città scorre silente dai finestrini del primo tram in servizio. Sono l’unico passeggero, fino all’arrivo di un signore che sale e addirittura mi saluta, come se la quiete mattutina avesse trasformato Milano in un piccolo paese. Scendo dal tram e noto che il numero di 186 | Dentro lo sguardo | macchine in giro è già aumentato rispetto a quando sono salito. Ovunque nella città staranno per suonare migliaia di sveglie. Una polifonia di risvegli che tra poco getterà nella città le persone che andranno a lavorare. Non c’è più molto tempo. Decido di aprire il portone con le chiavi e di non suonare. Apro la serratura della porta di casa lentamente. Il soggiorno è illuminato e vuoto. È pieno di libri di ogni genere. Volumi antichi, nuove edizioni, opere illustrate. Ogni immagine, ogni ricordo legato a questa casa non può che avere dei libri come scenografia. Spero che un giorno, tra quelli, ci sia anche un libro scritto da me. Sento il rumore della porta di casa che si apre. Mi volto e vedo mia moglie che dorme. Chi può essere? Mi alzo e vado veloce verso l’ingresso. In soggiorno c’è un uomo di spalle, vestito elegante. Ho un attimo di esitazione e di 187 | Dentro lo sguardo | spavento prima di riconoscere mio figlio. Poche volte mi è capitato di vederlo in casa vestito così elegante. Lui si volta e mi saluta. Si scusa per avermi spaventato. Restiamo in silenzio per un istante, nella luce di un sole spento di dicembre che ci illumina senza scaldarci. Lo osservo all’inizio di una giornata lavorativa, come ce ne saranno a migliaia nella sua vita e come ce ne sono state altrettante nella mia. Fotocopie tutte uguali che al posto che disseminare in molte pagine l’originale della mia immagine, hanno finito per stingere e indebolire l’inchiostro della mia matrice. I suoi occhi sono giovani, pieni di luce e di determinazione. Come lo erano i miei alla sua età. Ora il mio sguardo è stanco, fiaccato dai segni che hanno lasciato i laser di tutte quelle fotocopie e segnato da alcune brutte immagini che ho dovuto guardare. Osservo mio figlio armeggiare con la sua borsa da lavoro, con le cartelline, le penne e i fogli. 188 | Dentro lo sguardo | Ho tirato su un uomo e forse posso andarmene senza troppi rimpianti. Specchiandomi in lui capisco che sono stato il tipo di uomo che ho desiderato essere, forse non quello che ho sognato di diventare, ma certamente mi sono ritrovato nell’immagine che ho guardato allo specchio tutte le mattine della mia vita. Appoggia sul tavolo dei fogli e li fa scivolare verso di me. Non dice niente, distoglie lo sguardo; è emozionato. Conserva le movenze del bambino che fu, trasformate dai gesti e dagli atteggiamenti dell’uomo che è. Soffro all’idea di non poter vedere il padre che sarà. Leggo in testa al primo foglio: “Dentro lo sguardo. Cronaca di una (meta) rivoluzione cubista” di Giovanni Sanicola. 189 | Autore | Giovanni Sanicola Giovanni, telegrafista, e nulla più. Quello dal cuore urgente anche senza nessuna promozione battente. Ellittico da buon telegrafista, tagliando fiori, preposizioni, per accorciar parole, per essere più breve, nella necessità, nella necessità. Per le sue mani passò mondo, mondo che lo rese urgente, crittografico, rapido, cifrato. Giovanni, telegrafista, e nulla più… Se volete saperne di più, scrivete a [email protected] 190 Exchange La rivoluzione: Il primo essere vivente nello spazio di Cristina Pierri Bajkonur, Kazakistan - ore 2.30 a.m. Quella notte uno dei bar più anonimi del paese ospitava cinque anime alcoliche. Una di queste risiedeva nel corpo di un uomo chiamato Varf. Le sue estremità stringevano un bicchiere mezzo vuoto contenente il liquore inventato dal barista, una sostanza di dubbia provenienza dal sapore forte e aspro. Varf non chiedeva di meglio. Mancavano esattamente ventiquattro ore all’evento che avrebbe segnato per sempre la sua carriera: lanciavano Laika nello spazio. Laika, non Muschka il suo cane. La sua grande occasione era andata, persa per sempre. Addio ai sogni di gloria, conferenze, 192 | Exchange | scuole, libri. Non era lui l’addestratore del primo essere vivente nello spazio. “Ora bevo e non ci penso più,” ripeteva come un mantra che falsamente cercava di essere sincero. Due vecchi kazaki litigavano per un conto in sospeso e un terzo uomo dormiva riverso su un tavolino in un angolo del locale. Quest’ultimo era stato sempre un mistero per Varf; a dispetto degli altri avventori, era l’unico di cui non aveva mai visto il volto. Quando la sera arrivava per richiedere la sua dose di effimera felicità, quell’uomo era già in quella posizione. Lo aveva soprannominato ‘il Dormiente’. Quella sera avrebbe voluto raggiungere il suo stesso stato, ma i pensieri lo costringevano a rimanere lucido. “Gentili signori è ora di chiudere,” proferì il barista con la voce di chi ha di meglio da fare. I due kazaki, ancora in fibrillazione per la discussione, insultarono lievemente il gestore ed uscirono. Varf tardò l’alzata dallo sgabello 193 | Exchange | per colpa degli spiccioli ancora poco noti per essere contati velocemente. Alle sue spalle sentì il rumore delle chiavi nella serratura. Il barista stava chiudendo la malconcia porta del locale. Era diventato invisibile? Sarebbe stato un sollievo, per un uomo che non sapeva come avrebbe affrontato i giorni successivi. Ma forse non era così, era rimasto anche il Dormiente. Magari il barista riteneva fosse meglio non lasciare a piede libero due anime troppo fragili per vagare da sole nel mondo. “Signor Varfolomey, dobbiamo parlare,” disse il barista avvicinandosi a lui. Varf cercò di mettere a fuoco la sua espressione. Non era più quella bonaria che gli aveva sempre visto stampata sul viso; ora i suoi occhi dicevano qualcosa che non riusciva a interpretare. In un istante gli fu talmente vicino da poter sentire l’odore di vecchio misto alcool, in ordine interscambiabile. Percepì aria di sfida e, quel poco di orgoglio che gli vagava nel corpo, lo fece alzare dalla seduta. Con la coda dell’occhio 194 | Exchange | vide il Dormiente staccare il viso dal ripiano del tavolo. “Cosa mi vuole dire?” chiese Varf, lasciando che la voce tradisse la sua posizione eretta. Invece di rispondere, il barista si allontanò, andando dietro al bancone e versando liquore in tre sporchi bicchierini. Lo stomaco di Varf cominciò a protestare, sia perché non avrebbe retto ancora una bevuta, sia per l’insolita situazione. Il Dormiente si avvicinò lentamente al bancone. Finalmente ne vedeva i lineamenti. Aveva un viso largo e molle, occhi scuri e un grosso naso rossastro nel mezzo. Nonostante avesse tutti i tratti di un uomo di mezza età dalla vita dedita ai bagordi, possedeva un’aria distinta che lo rendeva, agli occhi di Varf, decisamente stravagante. “Ragazzo, tu sei un vero addestratore. Io so tutto sul tuo conto,” disse il Dormiente non appena i bicchierini furono distribuiti. “Interessante!” si limitò a rispondere Varf. “Lei 195 | Exchange | invece è...” “Chiamami Sam,” lo interruppe il Dormiente. “Cosa ne pensi, è abbastanza sveglio il signore qui?” proseguì rivolgendosi al barista chino sul bancone. “Non ho mai visto un russo più scaltro,” rispose l’altro strizzando l’occhio a Varf. “Brindiamo!” disse il Dormiente come fosse un’imposizione. Varf confuso si limitò ad eseguire l’ordine. Bevve lentamente, prendendo tempo per dominare i mille pensieri che si agitavano nella sua mente. “Peccato che non hanno scelto Muschka. Eppure è molto meglio di Laika, come tu sei molto più competente di Oleg.” Le parole pronunciate da Sam riaprirono la ferita che Varf aveva momentaneamente dimenticato. I cani e quel maledetto Oleg, il selezionatore della missione. Il suo eterno rivale, colui che ora lo avrebbe deriso per sempre. “È andata così,” rispose Varf guardando altrove 196 | Exchange | per non far leggere la delusione nei suoi occhi. “No, Varf!” urlò Sam, sbattendo il pugno contro il bancone e facendo vibrare tutto ciò che vi era sopra, compreso il braccio dell’addestratore. “Io ti voglio dare l’occasione per cambiare le cose. Se per la Russia tu non sei un eroe, lo sarai per gli Stati Uniti d’America!” Varf restò immobile, non riusciva a comprendere. Il barista gli versò altro liquore. “Si spieghi,” chiese ancora allibito. “Semplice, entra a far parte della missione e non dovrai camminare a testa bassa. Sarai ricco e fiero di te stesso. Un’intera nazione ti riterrà un esempio di coraggio e astuzia. Fallo per te e per la tua famiglia. Vuoi davvero che tua madre pensi di aver generato un fallito?” Il Dormiente aveva colto nel segno. Varf aveva una paura atavica del giudizio di sua madre e il ritorno a casa sarebbe stato davvero difficile da sopportare. Quella donna aveva su di lui un’influenza, i cui sintomi erano l’impossibilità 197 | Exchange | di sentirsi adulto. Era amore e odio, una dipendenza di cui non riusciva a fare a meno. Dopo essersi sbrogliato da questi pensieri, realizzò che ciò che gli stavano proponendo era un affare che andava oltre le vendette personali. Chi erano realmente queste persone mascherate da docili ubriaconi? La risposta non tardò ad arrivare. “Siamo della CIA,” affermò il barista. Calò un silenzio denso di attesa, disturbato solo dallo scricchiolio dello sgabello di Varf. La sua gamba si agitava freneticamente. “Signor Varfolomey, mancano meno di ventiquattro ore al lancio. Se vuole cambiare la sua vita deve decidere in fretta. Vada a casa e ci pensi. Ha tempo fino alle 13:00 di oggi per tornare qui e fare parte dei nostri,” disse il barista giocherellando con le dita sul bancone. Il suo sguardo severo lo ipnotizzò. Varf uscì dal locale. Mente confusa e passi svelti lo accompagnarono all’albergo. 198 | Exchange | Cosmodromo di Bajkonur, Kazakistan – ore 9.30 a.m. Voci, grida e ululati. Nella stazione di lancio non pareva presente alcun essere vivente che riuscisse a mantenere le distanze dal gran fermento generale. Anche Varf fu subito colto dall’adrenalina ma, non avendo in quel momento un compito preciso, iniziò a vagare senza meta. La notte non aveva portato consiglio, anzi, lo aveva solo caricato di una dose extra di ansia. Fango, salite e mostri avevano dominato i suoi sogni. Il suo inconscio voleva comunicargli qualcosa, ma lui non era abbastanza introspettivo per capire quel linguaggio. Le sue riflessioni lo avevano portato solo ad avere un chiaro quadro della situazione: rifiutare avrebbe significato sentirsi un fiero cittadino russo, povero ma onesto; accettare, invece, 199 | Exchange | voleva dire diventare un ricco traditore. Scartò l’idea di chiamare la madre per un consiglio, questa volta sarebbe stato lui a prendere le redini della sua vita. Forse lanciare una moneta sarebbe stata un’ottima soluzione, in fondo si trattava di destino anche quello. Così andò a caccia del soldo decisivo. “Varf, togliti da lì sotto, vuoi una monetina?” lo soprese alle spalle Oleg. Era in divisa, aveva l’aspetto smagliante che quel giorno centinaia di giornalisti avrebbero immortalato per sempre. Varf ritirò velocemente il braccio da sotto il distributore delle bibite. Non aveva alcuna voglia di parlare con lui, aveva ben altro a cui pensare. Oleg però no, aveva l’aria di chi quel giorno era un Re e voleva che tutti riconoscessero in lui il suo carisma, soprattutto Varf, che lo aveva sfidato tante volte per poi perdere miseramente. “Che giornata! Oggi mi aspettano interviste a non finire. Guarda, quasi ti chiederei di farle tu al posto mio!” disse ridendo falsamente Oleg. 200 | Exchange | “Immagino,” rispose Varf cercando di far calare su di sé un velo di indifferenza. “Stasera fai tu l’ultima toilettalura a Laika? Mi raccomando puntuale. Non che non mi fidi, ma voglio fare alcuni ritocchi al pelo anche io. Sai è il mio tesoro,” ammiccò Oleg. “Si, certo!” assicurò Varf ancora sotto lo scudo di prima. “Sai, penso che sia stata una bella sfida tra i nostri due cani. Muschka non è male, certo che fare il morto durante l’ultimo test non è stata proprio una bella trovata. Ma è andata così.” ‘Strat!’, il velo di Varf iniziò a strapparsi. Per prima cosa si videro gli occhi. Oleg se ne accorse subito. “Sai Varf, la vita è strana. Ma non ti devi arrendere. Prendi me, siamo stati quasi sempre allo stesso livello e poi… non c’entra la fortuna, ma quel briciolo in più che ti serve e ti salva per sempre. Penso sia il coraggio, quello che ti ordina di andare avanti per la tua strada e vincere per te stesso, per tutti gli sforzi che hai 201 | Exchange | sempre fatto. È qualcosa di incredibile quando ci riesci e tutto và pe... Varf, dove stai andando? A dopo, caro!” Varf si allontanò da Oleg a passi lunghi e veloci. Il suo rivale non poteva immaginare di essere stato la sua moneta. Quello che gli serviva per prendere una decisione. Per la prima volta era d’accordo con lui: per vincere ci vuole coraggio. Bajkonur, Kazakistan - ore 01.00 p.m. “Puntualissimo, Signor Varfolomey,” disse in tono smagliante il barista. Varf aveva appena varcato la soglia del locale. Gruppi di gente qua e là mangiavano cibo dal pessimo aspetto in pendant con il locale. Si guardò intorno, erano tanti i particolari che ora sembravano rompere palesemente la facciata di copertura. Oggetti non del posto, stampe troppo nuove per essere 202 | Exchange | autentiche, foto che sembrano essere ritoccate ed un cameriere decisamente incompetente. Per sfizio chiese al barista se anche quest’ultimo fosse della CIA, ma gli rispose di no. Tranne quest’ultimo dettaglio, aveva azzeccato tutto. Il barista stesso gli raccontò che il locale era stato acquistato solo quando era stata resa nota la base del lancio. “Ha fatto la scelta giusta. Mi segua.” I due andarono nel retro e poi nel retro del retro. La stanza che li accolse era grande e, nonostante l’assenza di finestre, illuminata a giorno. Davanti ad una scrivania, sormontata da computer e apparecchiature simili a quelle che vedeva ogni giorno alla base, c’era Sam in tutto il suo splendore. Era davvero così, la notte prima il viso era ancora sconvolto dall’essere stato reclinato per ore su di un tavolo, ora sembrava fresco come un fiore. Nonostante fosse convinto della sua scelta, Varf era ancora molto agitato. Non sapeva ancora quale fosse lo scopo di tutto 203 | Exchange | questo, ma sapeva per certo che qualsiasi cosa fosse non si sarebbe più potuto tirare indietro. “Questa è la missione Exchange: devi sostituire Laika con un nostro cane.” Le parole di Sam risuonarono come un boato nella mente di Varf. Le sue gambe cominciarono a tremare. “È semplice. In questo momento un nostro collega sta introducendo la sosia di Laika, Marilyn, nel tuo furgoncino. La terrai lì fino a quando stasera, entrando nel garage della base, la prenderai e la porterai alla sala toilettatura. Nessuno ti noterà, è normale che tu possa essere con Laika. Ci saranno un paio di nostri agenti a controllare che tutto passi inosservato. Quando sarai nella stanza, nasconderai Marilyn fino all’arrivo di Laika. Quando le avrai scambiate, aspetterai di dare il nostro cane agli inservienti. Poi furgone e via, il gioco è fatto.” “Chiaro, certo,” disse Varf mentre pensava “È da pazzi! Questi sono pazzi!” “Se dovessi andare in confusione con i due cani, 204 | Exchange | ricorda che sotto l’orecchio destro di Marilyn c’è tatuata una piccola bandiera americana. E poi, il suo pelo è decisamente più lucido. Pensa, addirittura si complimenteranno per il tuo lavoro.” “E se qualcuno mi dovesse scoprire? E il tatuaggio…” “Ragazzo, fidati di me. Non siamo così sciocchi da aver lasciato tutto al caso, ci sono molti dei nostri lì dentro,” disse Sam aprendo lentamente una valigetta. Era piena di dollari, tanti da far impallidire. Varf sbiancò completamente. Sam prese un paio di mazzette e gliele conficcò nelle tasche. “Il resto lo avrai a missione conclusa.” “È fantastico… Ma poi cosa succederà? Io finirò nei guai con l’intera nazione?” “Assolutamente no. Noi non abbiamo alcun motivo di fregarti. Anzi, dimostra il tuo valore e ti cercheremo ancora… E per tutto il resto non ti devi preoccupare, non sono cose che ti riguardano.” 205 | Exchange | Le ultime parole lo rasserenarono. Il piano era semplice e preciso. Non aveva motivo di dubitare delle sue capacità. Osservò la valigia e sorrise. “Ora le ultime raccomandazioni,” si intromise il barista. “Signor Varfolomey, credo non ci sia bisogno di dire cosa le potrebbe accadere qualora ci tradisse. Quindi presti attenzione e non commetta errori,” concluse estraendo una pistola da sotto il grembiule. Varf ingoiò quel poco di saliva rimasta e strinse ad entrambi la mano. Cosmodromo di Bajkonur, Kazakistan – ore 09.30 p.m. Ferma, stai ferma. Forse spunta. E se abbaia? No, è addestrata. Cosa direbbe mia madre? Che ore sono? È presto. Ho fame. 206 | Exchange | Pensieri veloci e frenetici tormentavano Varf. Aveva già nascosto Marylin in un armadio. Tutto era andato liscio. Nessuno lo aveva fermato. Dovevano essere davvero furbi quelli della CIA, pensò. Ora non restava che aspettare. Varf girava nervosamente per la stanza. Toccava tutto e spostava ogni cosa, cercando il modo di tener occupato il fisico per controllare la mente. Inutile. “Non posso tornare indietro. Ma da questa notte non me ne importerà nulla, sarò ricco,” si disse guardandosi ad uno specchio. Effettivamente la missione Exchange era una curva del destino totalmente inaspettata. Non sarebbe tornato a casa a testa bassa. Al diavolo lo Sputnik, da ora poteva pensare ad una nuova vita. Basta con la vecchia casa di sua madre, lo aspettava una villa con piscina mai vista in paese. Sarebbe andato in giro su di una fuori serie e avrebbe conquistato tutte le più belle donne della città. Già vedeva Virma, la donna 207 | Exchange | che lo aveva rifiutato, mangiarsi le mani. Una vendetta fantastica. Forse, però, poi l’avrebbe perdonata, chissà. Forse sarebbe riuscito finalmente a farla sua per sempre. La porta della sala si spalancò ed entrò un inserviente con il cane tanto atteso. “Laika è tutta sua, torno tra un’ora e poi va dritta a fare le foto.” Varf e Laika rimasero soli. Un’ora di tempo, tantissimo, contando il fatto che non doveva fare alcuna toilettatura. Pensò di passare subito allo scambio, sapeva benissimo che Laika era addestrata per stare in luoghi stretti per parecchio tempo, per cui l’armadio non sarebbe stato un problema. “Dovresti ringraziarmi cara, ti sto salvando la vita,” le disse in un orecchio Varf. Sollevando quel lembo di pelle, notò qualcosa di molto strano. Era un tatuaggio con un simbolo particolare che non aveva mai notato prima. Ebbe una strana sensazione, ma decise di fingere indifferenza per non aumentare il suo 208 | Exchange | carico di stress. I due cani si guardano per qualche istante. A Varf sembrò che Laika chiedesse perdono a Marylin prima di entrare nell’armadio. Era fatta. Mancava solo l’uscita con il cane ed era ricco. Cominciò a girare in tondo, pensando a tutte le cose che avrebbe comprato, a qualche debito che avrebbe potuto saldare e tante cose splendidamente superficiali. Aveva promesso a sé stesso che non avrebbe ceduto a nessun rimpianto patriottico. Era la sua vita, non quella della Russia. ‘Grit, grit’. Un suono arrestò il suo cammino ciclico. ‘Grit, grit’. Ancora. ‘Grit, grit’. Corse a verificare che non fosse Laika a grattare la lamiera dell’armadio. No, non era lei. ‘Grit, grit’. Proveniva da un cassone metallico. Quello delle coperte. Probabilmente un topo, ma era meglio fosse lui a cercalo piuttosto che un inserviente troppo curioso. La serratura era chiusa ma in passato aveva frequentato alcuni tipi loschi che qualcosa gli 209 | Exchange | avevano insegnato, cioè come tirarsi fuori da una stanza quando lo chiudevano dentro. Un cane. Un altro cane uguale a Laika. Richiuse istintivamente il cassone. Non aveva alcun senso, cosa ci faceva un altro sosia? Forse non avrebbe dovuto preoccuparsene. Magari era un’allucinazione, si sa che lo stress fa brutti scherzi. Riaprì il cassone. Il cane era ancora lì. Varf gli prese l’orecchio destro e osservò: un altro tatuaggio indecifrabile. Richiuse il cassone e si allontanò deciso che non fossero fatti suoi, come avevano detto Sam e il barista. Poi svenne. “Svegliati Varf,” e un getto d’acqua lo fece rinsavire. Aprì gli occhi e vide Olag chino su di lui. Doveva aver perso i sensi per parecchi minuti, sentì il braccio formicolare. “Non avrei mai sospettato di te,” gli disse Oleg guardandolo fisso negli occhi. Varf era ancora troppo stordito per capire il senso di ciò che gli stava dicendo. “So tutto, caro vecchio mio,” proseguì Oleg. 210 | Exchange | “Pensi che io non abbia controllato il tatuaggio di Laika?” Varf raggelò e sentì la secchezza delle fauci per la seconda volta nella stessa giornata. “Cosa stai dicendo?” cercò di difendersi inutilmente. Tutto in lui sembrava urlare “Hai perfettamente ragione, sono un traditore e mi arrendo.” “Credi di essere l’unico a fare il gioco delle tre carte con i cani?” “Cosa intendi dire?” “Siamo in tanti qui a farlo.” Per la prima volta le parole di Oleg sembravano sincere. “Ma c’è il tatuaggio...” disse Varf, ormai miseramente smascherato. “Cosa cambia? Anche io ora ho sostituito il tuo cane con il mio. Pensi davvero che nelle prossime ore nessuno farà lo stesso? Non essere sciocco…” Questa era la verità. Non c’era persona in grado di controllare quel flusso caotico di eventi. I due rivali erano finalmente sullo stesso 211 | Exchange | piano. Non si sarebbero traditi a vicenda, non avrebbe avuto senso. Ora avevano altri guai a cui pensare. Stettero lì in silenzio, ad aspettare l’arrivo dell’inserviente. Ognuno assorto nei propri pensieri. Solo quando una delle tante Laika fu portata fuori dalla sala, Varf tirò fuori la voce. “Dove pensi sia la vera Laika?” “Non lo so, potrebbe essere ovunque.” Distretto di Qarmaqšy, Kazakistan - ore 2.00 a.m. Dharma era una bambina solitaria, troppo diceva sua madre e troppo poco sosteneva il padre. Aveva passato una pessima giornata. “Chi ha rotto il vetro?”, “Dharma, dì la verità, sei stata tu?”, “Dharma mente”, “Stasera niente televisione”. Così si era trovata in castigo nella sua cameretta, 212 | Exchange | mentre tutta la famiglia se ne andava a vedere il lancio dello Sputnik 2 dagli zii. Ma Dharma non voleva stare in casa a piangere, sarebbe stato troppo deprimente. Preferì versare le sue lacrime su di un prato e, magari, guardando il cielo, avrebbe potuto vedere anche lei il razzo abbandonare la terra. Stretta nel cappottino in mezzo a quel prato, si sentiva più sola che mai. Buttò la testa tra le ginocchia e pianse. Poi, qualcosa di caldo e umido le sfiorò l’orecchio. Era un cane scodinzolante. I due si guardarono, entrambi capirono che era un segno del destino. Trovarono immediatamente il loro modo di comunicare e giocarono come se fossero amici da tanto tempo. “Non sei un cane bellissimo,” disse Dharma riprendendo il fiato. “E non sembri neanche intelligente, ma ti terrò con me.” La bambina abbracciò il cane. Lo Sputnik 2 partì. Dharma dedicò quel momento al suo nuovo amico, lo avrebbe chiamato Laika. 213 | Autore | Cristina Pierri Cristina Pierri nasce nel 1986 e cresce fino all’età di sedici anni in un piccolo paese canadese di nome Branch, dal quale scappa con un musicista folk per arrivare fino in Italia. Dopo il diploma al liceo scientifico Galilei di Catania si trasferisce a Venezia dove intraprende per un semestre l’Università di Chimica e Tecnologie sostenibili. Nel 2006 arriva a Milano dove comincia l’Università di Lettere e Filosofia. Nel frattempo scrive il suo primo vero libro: “La formica e il salice piangente: viaggio all’interno di una corteccia”. Dichiara di averlo scritto in venti giorni e nel luglio del 2008 viene pubblicato dalla famosissima casa editrice Zanichello. In soli due anni scrive venti libri, di cui dieci hanno venduto più di 10.000 copie ciascuno. Tra i più famosi possiamo citare “Il cantico di chi non canta”; “L’eremita dalla sabbia che scotta inverte la rotta”; “Quando non sai che fare non fare nulla” e il best seller “Durante la lotta è bene bere”. Citazioni “Se fai quello che ti pare non sbagli un colpo!” Se volete saperne di più, scrivete a [email protected] 214 Primo sangue La rivoluzione: Le cinque giornate di Milano di Agostino Bertolino Prologo La lama viene forgiata dal fuoco per lasciare il segno. Recidere, perforare, mutilare. Non ha volontà la lama, non è buona né malvagia, è solo affilata. Quando la punta del coltello penetra la carne, innesca un processo irreversibile. La lama, dove penetra, squarcia. La lama lascia il segno. Il colpo di taglio incide lunghe lacerazioni superficiali, che verranno sigillate da cicatrici destinate a servire da monito. L’affondo, invece, è preciso, secco, implacabile. La punta affilata vibra nell’aria, finché non incontra lo strato elastico dell’epidermide. Penetra la pelle, i tessuti e le arterie, lacerandoli. Il sangue scorre immediatamente. Caldo, scuro e copioso, 216 | Primo sangue | sulla lama ghiacciata. Schizza rosso acceso a metri di distanza, spinto dalla pressione del battito cardiaco, destinato a rallentare. La punta del pugnale si ferma sull’osso del terzo disco cervicale. Dunque la lama gira su sé stessa, torcendo indistintamente tutto ciò che incontra. Quando viene estratta, con uno strappo secco, il corpo violato dal fendente improvviso si contrae in una morsa repentina. Un grido soffocato precede il crollo delle gambe. La vista annebbiata, la respirazione ostruita dalla lacerazione della trachea. I polmoni si riempiono di sangue. Morte da soffocamento. Il processo irreversibile è innescato. Ora non si può più tornare indietro. I fatti Non fu una scintilla a far scoppiare l’incendio della rivolta delle cinque giornate di Milano, bensì fu una goccia. La goccia che fece traboccare un vaso già colmo di sangue. Corso Monforte, Palazzo del Governo. Ore 217 | Primo sangue | 15.30 del 18 marzo dell’Anno del Signore 1848. La folla in strada era agitata. Il corteo giunse a destinazione dopo aver raccolto un plebiscito di adesioni per le vie della città. Un’ora prima qualche centinaio di manifestanti aveva lasciato il Broletto di Piazza Mercanti diretto verso la Prefettura. Inaspettatamente, dai palazzi patrizi, dai cortili delle case di ringhiera, dalle locande e dalle botteghe, i cittadini si erano riversati nelle strade di Milano per unirsi alla manifestazione. A coloro che osservavano dal balcone, il corteo doveva apparire come una rumorosa anaconda che andava alimentandosi di ogni genere umano. Avanzava lentamente il rettile, e avanzando si nutriva di folla e si allungava di curva in curva in una coda interminabile. Il giovane abatino si era aggiunto al corteo all’altezza di Piazza della Scala, avvolto nella sua mantella nera e col suo libro stretto sottobraccio. Non si sentiva a suo agio. Il variegato corteo era animato da una pletora di sconosciuti provenienti da ogni classe sociale. 218 | Primo sangue | I più ignoravano l’oggetto della contestazione, e così anche lui. Alla testa del serpente i circoli degli aristocratici indipendentisti. Finalmente avevano abbandonato il tepore dei nobili salotti dove erano soliti confrontarsi sui temi della cittadinanza e sembravano in procinto di sferrare un morso letale al collo del potere. In mezzo a loro, questa volta, non solo i giovani studenti delle famiglie facoltose, ma anche i lavoratori: dagli operai agli artigiani, dai bottegai alle lavandaie. Non mancavano neanche gli sfaccendati e i briganti, che avevano lasciato i tavolacci in legno fradicio di vino delle locande perché le loro lamentele potessero cedere per una volta il passo all’azione. Vi erano dei preti, seguiti dai propri parrocchiani, famiglie con vecchi, uomini, donne e bambini. E vi erano anche alcune prostitute delle più sordide bettole: “Dì un po’ prete, noi due ci conosciamo?” gli si rivolse una. 219 | Primo sangue | “Non sono un prete… studio in seminario.” borbottò lui senza voltarsi. “Lui studia in seminario!” lei lo canzonò “E dunque vuoi fare il prete…” “Sì, voglio fare il prete. Ora se permette…” accelerò il passo. “Che fretta! Forse puzzo anch’io come le bettole che frequento? Oppure non ti piace farti vedere dalla gente con una baldracca stagionata? Non devi temere il giudizio degli uomini, sai? Io qui ne conosco tanti…” lo prese a braccetto. “Non ci conosciamo, trovo più conveniente darsi del Lei signora. E comunque non mi interessano questi discorsi.” “Ah, certo… cosa avrebbe un prete da spartire con una donna di strada come me? Bravo lui! Ma dì un po’… non era forse venuto il tuo Gesù per curare i malati e salvare le povere anime smarrite? Lui sì che frequentava i posti più divertenti.” sorrise maliziosa. “Non dovrebbe parlare così!” “E perché? Che c’è di male?” 220 | Primo sangue | Intervenne un giovanotto fra di loro. Poteva avere su per giù l’età del pretino, ma con tutto un altro portamento. Era sgargiante nell’abbigliamento ed elegante nei modi. Si muoveva con sicurezza tra la folla, stringendo le mani dei presenti ed elargendo generose pacche sulle spalle. Era come se conoscesse tutti. “Dice bene la signora, prete! Cosa c’è di male a camminare tutti insieme? Non siamo forse tutti figli di Milano? Non siamo vittime del medesimo oppressore? E allora dobbiamo essere uniti come le dita di un pugno, diverse tra di loro, ma tutte necessarie per sferrare il colpo che annienterà l’occupante tedesco!” e se ne andò, il giovanotto zelante, continuando a scalare il corteo verso la testa, come chi sentiva di aver fatto la sua parte di dovere, ma non per questo voleva essere ringraziato. Era certo confuso il pretino, in mezzo a quella folla variopinta, ma allo stesso tempo sentiva la forza che scaturiva dalla piazza. E di quella forza 221 | Primo sangue | si sentiva parte e quell’energia lo pervadeva. I milanesi non erano tutti come lui, ma per quanto diversi, erano pur sempre milanesi, come lui. Con questi concittadini l’abatino scoprì di condividere il profondo sentimento di ribellione e riscatto che si prova quando da tempo un oppressore abusa della pazienza di un popolo privandolo della sua dignità. Questo avevano in comune lui e tutti gli altri: non sopportavano più le prevaricazioni degli occupanti austriaci nella loro città. Un drappello di dimostranti più coraggiosi gridavano le loro rivendicazioni contro la finestra del vice governatore O’Donnel. La tensione era palpabile, ma nessuno affacciava. Il palazzo del governo era difeso da giganteschi e robusti corazzieri croati. La loro stazza imponente, la fisionomia severa e l’espressione impassibile, volevano significare che l’esercito austriaco, il più grande e potente del mondo, non temeva gli schiamazzi di una popolazione inerme, imbelle e mal organizzata. D’altro canto, il 222 | Primo sangue | Maresciallo Radetzky aveva trascorso gli ultimi sessant’anni sedando spietatamente le rivolte di mezza Europa. Non più tardi di tre mesi prima aveva dato una lezione d’obbedienza ai milanesi, col massacro di decine di civili. Alcuni patrioti, infatti, avevano osato levare una protesta contro la tassa sul tabacco, proclamandone il boicottaggio. Radetzky, dunque, diede libero sfogo ai più insubordinati fra i suoi mercenari sguinzagliandoli per la città e ordinando loro di provocare la popolazione. Gli scagnozzi diedero spettacolo in Galleria Vittorio Emanuele, fumando sigari, inseguendo i passanti e provocandoli con i modi di chi certo non aveva mai conosciuto la cavalleria. Alcuni cittadini reagirono a tale sfoggio di arroganza e così il maresciallo invitto ebbe il pretesto per scatenare la sua furia repressiva. Cosa successe quando gli zoccoli dei possenti cavalli di una feroce armata di Ulani batterono il marmo della Galleria, con l’ordine di infliggere una lezione memorabile ai riottosi disarmati, 223 | Primo sangue | è uno scempio di sciabole che non starò qui a descrivere. Basti sapere che quel 6 di gennaio del 1848 non bastarono due carri colmi per trasportare i cadaveri fuori dalla Galleria. Eppure, soli tre mesi dopo, il 18 marzo del 1848, a Milano, quel coro variegato e confuso di Corso Monforte non sarebbe rimasto inascoltato. Improvvisamente la folla si accalcò all’ingresso del Palazzo della Prefettura: era successo qualcosa. Grida, disordini. Perché la folla si era infervorata? I corazzieri chiamavano i rinforzi. Uno di loro rantolava a terra, agonizzante in una pozza di sangue scuro che andava espandendosi a macchia d’olio. Il sangue fluiva a fiotti da un vistoso squarcio sulla gola che doveva aver reciso l’arteria giugulare. Del coltello non c’era traccia, dell’aggressore men che meno. Il primo sangue era stato versato. Il vaso era traboccato. Mentre i manifestanti si accalcavano all’ingresso del Palazzo del Governo, un gruppo di ardimentosi prese l’iniziativa, sfondò il pesante portone e si diresse alla 224 | Primo sangue | ricerca del vice-governatore al grido di “viva i morti!”, invadendo il palazzo della prefettura. Nel frattempo il gracile pretino di campagna si dirigeva con passo svelto nella direzione opposta alla folla. “Torna indietro codardo! Combatti!” Ma il pretino non ascoltava la folla e procedeva per la sua strada con incedere rapido. Erano tesi i lineamenti dell’abatino e gli occhi persi. Appariva visibilmente scosso. Non era dato sapere cosa avesse visto, o dove si dirigesse, ma di certo nascondeva qualcosa. Un altro seminarista lo riconobbe tra la folla: “Dove vai Battista!?” “Le guardie stanno caricando i manifestanti davanti alla Prefettura, scappa via!” fu la risposta del pretino, che non si fermò. Continuava diretto per la sua meta. Dove andasse, così deciso e tutto trafelato, era un mistero, ma teneva un libro, stretto a sé sotto la mantella, come se fosse qualcosa di prezioso. Entrò in chiesa. Era la chiesa di Santa 225 | Primo sangue | Maria delle Grazie, dove poche ore prima Padre Gasparoni aveva dato l’estrema unzione ai giovani patrioti aristocratici pronti a dare la vita per liberare Milano dall’occupazione austriaca. Non era, infatti, un giorno qualunque quel 18 marzo 1848. Molti sapevano che quel raggruppamento per la rivendicazione dei diritti dei cittadini milanesi non si sarebbe esaurito in una manifestazione pacifica. Ci trovavamo, infatti, all’indomani dell’insurrezione di Vienna. L’Impero Asburgico mostrava segni di cedimento e le notizie volavano veloci a cavallo giù per le alpi e attraverso la Pianura Padana. I gruppi di indipendentisti – per lo più studenti, giovani aristocratici e operai – per quanto disarmati e mal organizzati, erano al corrente di quanto stava accadendo in Europa ed erano pervasi dal fuoco della rivolta. Il momento era propizio. Non serviva che la famosa goccia affinché il vaso traboccasse. E una goccia di sangue cadde sulla panca di legno della chiesa di San Pietro Celestino, dove il gracile pretino 226 | Primo sangue | si era ritirato a pregare in ginocchio. Cadeva dal libro che il seminarista stringeva fra le mani. Un libro le cui pagine sporche di sangue nascondevano un coltello. Un coltello la cui lama era ancora bagnata di sangue non ancora rappreso. Ebbene sì, non fu un ardimentoso patriota, né un brigante a sferrare la pugnalata improvvisa che scatenò la rivolta della popolazione. Bensì, sorprendentemente, un gracile abatino di campagna. Un seminarista, timido e impacciato, che era solito imbracciare tutt’al più un libro, ma non di certo uno stiletto. Eppure, quell’abatino, proprio sui libri avrebbe fatto scrivere il suo nome. Si chiamava Giovan Battista Zaffaroni. Un giovane orfano di padre di nemmeno vent’anni che il seminario aveva strappato alla fame e alle braccia della povera madre. Fu un parroco misericordioso a prendersi cura del giovane. Lo fece offrendogli un tetto, un letto e una formazione. Ne avrebbe fatto un uomo di Dio. Il ragazzo fu sempre riconoscente per la possibilità di riscatto che aveva ricevuto. 227 | Primo sangue | Trovò in Dio sicurezza e protezione, fino a quando non venne l’età in cui un giovane uomo si interroga su chi sia e sulla sua vocazione. La strada dell’abatino sembrava segnata, eppure non era stato lui a intraprenderla, ma semmai lei a sceglierlo. S’interrogava, dunque, il giovane seminarista e per quanto fosse profondamente riconoscente a Dio per il destino a cui era scampato, in cuor suo non sapeva se era convinto della missione che lo attendeva. Pregava per implorare perdono per il crimine orribile del quale si era appena macchiato, ma anche per trovare le risposte alle sue domande. Era un uomo di Fede e di pensiero l’abatino, anche se quel giorno fu uomo d’azione. Nel frattempo fuori la rivolta montava a dismisura. Sotto l’attacco feroce degli Ulani a cavallo, armati di sciabola, i cittadini si erano ritirati, ma non arresi. Molti rientrarono nelle loro case, e dalle finestre lanciavano ai soldati austriaci in strada tutto ciò che trovano per 228 | Primo sangue | colpirli. Vasi, pentole, bicchieri. Ogni oggetto contundente veniva trasformato in arma. I cittadini riversavano nelle vie di Milano tutti i loro averi, senza curarsi delle conseguenze. Gli stretti viottoli medievali vennero presto invasi da mobilio di ogni sorta: sedie, tavoli, comò, divani, armadi, credenze. Milano stava erigendo alte barricate che rendevano impossibile il passaggio della cavalleria austriaca e imbottigliavano cavalli e cavalieri in una trappola fatale. Quelli che per anni erano stati cospiratori da salotto o da osteria, ora si riunivano in piccoli gruppi d’azione e si organizzavano rapidamente. Gruppi indipendenti fra di loro, anche dell’ultima ora, erano tutti legati dal medesimo intento: attaccare l’esercito occupante, metterlo in fuga, riprendersi Milano. La ferocia degli Ulani era implacabile. Al loro passaggio distruggevano tutto ciò che incontravano. La spada di Radetzky si levava alta sulla testa dei civili in fuga e si scagliava violentemente dritta sui loro crani, per spaccarli. Sciabole pesanti dalle lame taglienti, 229 | Primo sangue | abilmente brandite, che non fanno differenze fra uomini, donne e bambini. Falcidiavano tutti indistintamente. Quando l’abatino abbandonò la chiesa si ritrovò in questo marasma di strade bloccate, cadaveri, sciabolate, grida e civili in fuga. Sì, perché l’abatino non era diretto alla chiesa, quella era solo una tappa di passaggio. Camminava guardingo, guardandosi bene dal partecipare agli scontri e si dirigeva impaziente verso il suo vero obiettivo. Camminava lungo i muri, sotto i balconi e col favore del crepuscolo che sembrava giunto in suo soccorso. Sapeva bene dove andava l’abatino, col suo libro stretto sottobraccio e il suo segreto ancora intriso di sangue. Epilogo L’abatino giunse di fronte a un palazzo patrizio, si fermò e prese fiato. Cercava del coraggio dentro di sé, ed era tanto carico di motivazione che quando batté al portone di Palazzo Suardi 230 | Primo sangue | pareva volesse abbattere il pesante legno massello, anziché semplicemente richiamare l’attenzione di qualcuno. Eppure, nessuno gli rispose. Che non vi fosse nessuno in casa era impossibile: le luci della sala erano accese. L’abatino batté ancora alla porta, ripetutamente, ma pareva proprio che lo volessero ignorare di proposito. Dunque si portò al centro della strada e, inspirata tutta l’aria che un uomo può raccogliere nei polmoni chiamò a gran voce: “Contessa, aprite! Sono Battista!”. Qualcuno si affacciò al balcone. Era un maggiordomo. L’inserviente intimò all’abatino di andarsene se non avesse voluto guai. Ma il gracile seminarista non pareva curarsi delle minacce del robusto inserviente: “Contessa, venite! La città è in subbuglio, ma sono tornato per Voi!” - gridò ancora l’abatino.” A quel punto il giovane scorse la Contessa che lo osservava da dietro la tenda appena scostata, senza fiatare, senza dar cenno, senza alcuna intenzione. Poi la Contessa si voltò e si ritirò, 231 | Primo sangue | e allora lui capì. Era stato usato. Alla Contessa non interessava niente di lui. Neanche il giorno prima quando lo aveva richiamato dal balcone invitandolo ad entrare nella sua villa. Lo fece salire al primo piano, accogliendolo in cima alle maestose scale in marmo che costeggiano il cortile alberato. Gli si avvicinò nella penombra, coi modi persuasivi della nobiltà che sa sedurre. Sprigionava un avvolgente profumo di ambra, che il giovane non aveva mai sentito prima. Gli sorrise, lo fece sentire importante. Poi lo baciò sulla bocca. Come si bacia un salvatore, un eroe, un guerriero. E così lui si sentiva fra le sue braccia, sulle sue labbra. Le dita di lui si aggrappavano al marmo del corrimano per non perdere l’equilibrio, ma incontravano il muschio viscido che risaliva le pareti del cortile umido e ombreggiato. Intanto la sua lingua voleva andare in cerca dell’anima della Contessa, ma lei con severo contegno lo teneva a distanza. Poi ancora gli si avvicinava, fissandogli la bocca - suadente e maliziosa - come se lo volesse 232 | Primo sangue | mordere. E lo baciava ancora. Poi si arrestò. E guardandolo intensamente negli occhi, si sfilò dai capelli uno stiletto affilato che usava per tenere ferma l’acconciatura e lo consegnò all’abatino. Lui stinse il dono e si fece carico della nuova ardita missione: “Vai, e trafiggi l’oppressore che mi oltraggia”. Eppure, quei baci dolci nella penombra, in cima alla scalinata di marmo, altro non erano se non un trucco per manipolarlo. Si era infervorato, l’abatino. Credeva di essersi innamorato e si era dannato l’anima per un giorno intero o per l’eternità. Aveva messo in discussione la sua vocazione spirituale e si era macchiato dell’omicidio di un uomo. Così accadde che, mentre il sangue del corazziere si raggrumava sulla polvere del selciato, anche il cuore del povero abatino, per la prima volta, sanguinò. 233 | Autore | Agostino Bertolino È siciliano ma nasce a Bari. Inseguito dai rinoceronti sin dalla tenera età di tre anni, si rifugia anche a LecceVarese-Vercelli-e-Nuoro prima di istituire il suo quartier generale presso la Ueila! Productions™ di via dei Fontanili, a Milano. Il suo percorso di addestramento passa per la scuola di doppiaggio “Il Gatto & la Volpe” dove scopre di avere sì una bella voce, ma anche le doti interpretative di un plinto in calcestruzzo. Per questo si dedica a un percorso di teatro, dove matura un’inconfutabile consapevolezza: forse la recitazione è meglio di no. Gravano sulla sua fedina penale centinaia di post da blogger a livello amatoriale e oltre 17.500 ore di marketing a livello professionale. Ha lanciato un assorbente interiore per le perdite di autostima. Negli ultimi tre anni ha intrapreso il culto della materia presso l’Università Iulm (è un culto legale). Si allena senza tregua per sconfiggere il suo acerrimo nemico: la sveglia mattutina. Nel frattempo rende omaggio alla sua città adottiva scrivendo un racconto breve sulle sue Cinque Giornate di sangue. I rinoceronti non lo hanno ancora preso. Se volete saperne di più scrivete a [email protected] 234 La Spilla La rivoluzione: La carta della pari retribuzione (Equal Pay Act) Cristina Laghezza Chicago, 11 Ottobre 1962 C’è una donna, in quel corridoio semi deserto, seduta nell’angolo più lontano di una delle panche di legno, che attende, nella sua solita posa composta. Il blu notte del suo abito spicca come un’ombra, sul grigio delle pareti in pietra, così come il luccichio dorato di quella stella, sulla sua spilla, appuntata alla giacca, e intrecciata nell’azzurrino di quel inconfondibile tessuto moiré. La scritta “Valor”, salda al centro del gioiello, sembra quasi essere stata messa lì apposta, ad attirare l’attenzione. È nervosa, quella donna. Lo si capisce dalle volte che ha controllato il metallo nella fibbia della cinta, o la tenuta dei fermagli nella sua 236 | La Spilla | acconciatura, o stirato ogni minima grinza nella gonna, come se, quel giorno, in discussione, ci fosse la sua capacità di apparire in pubblico. Quell’odore pungente di cera per pavimenti e lucido per legno pervade l’edificio, come una patina indelebile. I contorni del suo volto non lasciano trapelare alcuna emozione, ma, neanche il miglior fondotinta potrebbe cancellare la stanchezza di quelle ultime settimane dai suoi occhi, o i segni del tempo sul suo volto. “Vera, ” chiama una ferma voce maschile, dalla porta aperta accanto a lei “vieni. È ora. Stanno per rientrare.” Vera guarda per l’ultima volta al pesante orologio, sulla parete di fronte. Può distinguere il ticchettio della lancetta dei secondi, mentre si sposta da un centimetro all’altro. Sono le dieci e venti minuti. Si, è ora. 237 | La Spilla | Chicago, 10 Ottobre 1962. Sono da poco passate le otto, quando Vera oltrepassa l’uscio di casa sbattendo la porta. C’è odore di chiuso, e di aria stantia, mentre si muove, con la disinvoltura di chi conosce l’ambiente meglio delle proprie tasche attraverso l’oscurità, fino alla bottiglia del Whisky nell’armadietto dei liquori. Un innocuo clic, e il soggiorno si illumina. Il liquido ramato, così simile al colore dei suoi capelli, riempie uno dei bicchieri di vetro spesso. Si avvertono dei colpi, bussare alla porta. Fuori c’è un uomo, nel suo completo marrone a tre bottoni, una chioma color sabbia, e il volto dai lineamenti duri e affilati, come roccia. I contorni dorati del manico a forma di aquila, del bastone a cui si appoggia, scintillano alla fievole luce del lume elettrico sul pianerottolo. “Ti aspettavo prima” esordisce Vera, apertagli la porta. “Sono stato bloccato,” sbraita la sua voce cupa e graffiante “da quei dannati avvoltoi fuori dal 238 | La Spilla | tribunale!” “Dovevi aspettartelo, uno stuolo di giornalisti, dopo lo show di oggi in aula.” fa lei tranquilla. “In tanti anni non avevo mai visto il giudice Equal così rosso in faccia! Sembrava sul punto di avere un infarto.” “Io forse non sarò un’esperta, però mi immaginavo i tribunali come luoghi più tranquilli. Non credo che una rissa, nel bel mezzo di un processo, sia cosa tanto normale, persino per un giudice anziano come Equal.” “Se non l’avesse chiamata lui quella sospensione, l’avrebbero fatto i Marshalls del tribunale.” “In ogni caso, potevi venire con me in macchina.” L’uomo si blocca e risponde “Stavo cercando di proteggere la tua rispettabilità” come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Poi torna a arrancare verso la luce. “La mia rispettabilità?” gli fa eco Vera, stupita. “Sono il tuo avvocato, dopotutto.” Vero, pensa la donna, ritrovandosi di nuovo davanti alle lettere dipinte sulla porta del 239 | La Spilla | suo ufficio. Avvocato Blake Cripp, dicevano soltanto, quella mattina in cui si erano riparlati dopo diciotto anni. Dopo quell’ultima volta in cui tutto ciò che Vera avrebbe voluto dire, a un Cripp convalescente nel letto di un ospedale militare, era stato: “Avresti dovuto riportarmelo”, sostituito invece dal dono di quel bastone, dal manico particolare, che recava avvolto in un involucro di carta. Se ne vergogna ancora, ma in quel ufficio, vedendo sempre quel bastone, una parte di lei aveva esultato. Era perfetto, per la parte che Vera aveva bisogno interpretasse. Un uomo normale non avrebbe mai capito. Avrebbe visto la sua diversità, di donna, e si sarebbe fermato lì. Cripp era come lei, in difetto di qualcosa. “Ma tu sei pazza!” aveva sbraitato, una volta spiegato il suo piano, eppure pazzo, si era dimostrato tanto quanto lei, visto che aveva accettato di rappresentarla nella sua causa. I contorni del rossetto sulle labbra di Vera si sollevano in un ghigno. 240 | La Spilla | “Se mi importasse di ciò che la gente pensa di me,” aggiunge, interrompendo quelle divagazioni “non sarei certo arrivata dove sono.” “Il mio lavoro sarebbe più facile, Green, se te ne preoccupassi giusto un po’” risponde Cripp. “Sono una donna. Il tuo lavoro sarebbe più facile solo se appartenessi a un altro sesso.” Cripp scuote il capo, ma non sembra voler obbiettare. “Allora? Come sta andando?” chiede Vera. “Stanno ancora deliberando.” risponde lui con un’alzata di spalle “Chiameranno non appena ci saranno novità. Prevedo che sarà una lunga notte.” “Bene” risponde Vera, mentre la sua mente vaga di nuovo indietro, a quando si era sentita chiamare al banco dei testimoni, quella stessa mattina. Si era alzata in piedi, a dispetto del numero di occhi in aula, premuti sulla sua nuca. Ogni insignificante bisbiglio era come un boato nei suoi timpani. 241 | La Spilla | “Vorrebbe, per cortesia, dire alla giuria il suo nome completo?” aveva iniziato la voce sinuosa ed elegante dell’avvocato Tricker, un uomo alto e perfetto, con la chioma scura gelatinata, intonata perfettamente al ghiaccio fra le sue iridi. “Vera Green Wall” aveva risposto. Alla scrivania di Tricker c’era un uomo, in abito scuro, placidamente seduto ad osservare la scena. Vera lo aveva guardato a lungo prima di rispondere, costretta su quella sedia rigida e fredda, sforzandosi di reprimere qualsiasi emozione, per i lineamenti familiari nel suo volto. “Green era il suo nome da nubile?” chiede l’avvocato. “Proprio così.” “Suo marito era Robert Wall? proprietario della Wally Radio System Corporation?” “Esatto.” “Signora Wall, suo marito è morto il ventisei aprile 1945, in missione a Torgau? 242 | La Spilla | Vera si schiarì la gola. “Obiezione, vostro onore” interviene Cripp dall’altra parte dell’aula “Le generalità della mia assistita NON SONO soggetto di alcuna accusa!” “Concordo, avvocato Cripp” aveva sentenziato un grinzoso giudice Equal, dall’alto del suo muro. Tricker non si scompose. Annuì e riprese con un’altra domanda. “A chi erano intestate le quote della società fino a quel momento?” “A mio marito, Robert Thomas Wall” incredibile, che dopo tutti quegli anni, pronunciare quel nome a voce alta, le facesse ancora un simile effetto. “E la sua quota?” “Come, scusi?” Vera balzò involontariamente sulla sedia, come per una scossa elettrica. “La sua quota, signora Wall, della società. Quale era la quota che spettava a lei?” Vera lanciò un’occhiata veloce tra le figure sedute accanto a se. Il giurato numero due la 243 | La Spilla | fissava, come se l’avesse sorpresa a scassinare la porta di un’abitazione, nel cuore della notte. “Non ne ho mai possedute, avvocato.” rispose e il vociare aumentò in aula. “Dunque, signora Green Wall, fino alla sua morte, lei non possedeva nulla di fatto della società di suo marito?” “Presumo di no, avvocato. Non direttamente, almeno.” “Cosa vorrebbe dire con “Non direttamente”, signora Wall?” “Intendo dire che, non c’erano distinzioni così nette, in fatto di proprietà tra di noi. Quello che era mio era anche nostro, e viceversa, avvocato.” “Ma se non c’erano distinzioni, signora Wall, come mai ci è voluta una procura, per permetterle di gestire la società, una volta che Robert Wall fu dispiegato al fronte, durante la guerra?” Vera avvertì lo scricchiolio della sedia di Cripp muoversi di nuovo, prima ancora che venisse 244 | La Spilla | formulata l’obiezione, bloccata tuttavia dalla pronta mano alzata di Equal. “Perché purtroppo, quando ha fondato la Wally Radio, mio marito non aveva previsto l’eventualità di una guerra, avvocato, e di dover lasciare la gestione della società da un giorno all’altro.” Lo sguardo di Vera era fermo. Un’aggressività celata dietro uno spesso strato di velluto. Lo aveva appreso durante quegli anni alla Wally Radio. Dura, ma mai troppo. “E dopo la morte di suo marito, come furono divise le quote?” “Il quarantacinque percento fu intestato a me, mentre le altre sessanta vennero divise fra i fratelli di Robert, con rispettivamente il quaranta e il quindici percento.” “I miei assistiti?” “Proprio loro.” Vera si sforzò di non guardare nella direzione puntata dall’avvocato Tricker, indicante Frank, l’uomo seduto alla scrivania, e il povero Micheal, 245 | La Spilla | accanto a lui, il più giovane, tirato in mezzo suo malgrado in quella disputa familiare. Per quanto lo avrebbe voluto, non sarebbe mai riuscita a togliersi quella sgradevole sensazione di dosso. Lei era l’accusa. “Signora Green Wall, espresse mai la volontà, di dirigere l’azienda di suo marito?” “Obiezione, vostro onore, le domande dell’avvocato non hanno alcuna attinenza con le ragioni per cui siamo qui” ruggì Cripp. “Se la signora Green Wall volesse o meno la società per la quale adesso sta facendo tutto questo? Altroché se ce l’ha” fece Tricker divertito. Il giudice Equal scosse il capo, pensoso. “Concordo. Respinta” sentenziò, e quindi l’interrogatorio riprese. “No, non l’ho mai fatto, ma...” provò a rispondere Vera. “E prima che la guerra la mettesse a capo della Wally Radio” la interruppe Tricker “aveva mai avuto esperienza nella gestione di un’impresa di qualsiasi genere?” 246 | La Spilla | Vera avrebbe preferito infilarsi uno spillo in faccia, piuttosto che rispondere alla domanda. “Ho una laurea in economia” disse, ma senza accontentare l’avvocato Tricker. “Ma ha mai lavorato in tale campo, signora Wall?” “No” fu costretta a concedere Vera. “Non ha mai pensato, signora Green Wall, che suo marito, le abbia lasciato quelle quote, solo perché entrambi i fratelli Wall erano dispiegati al fronte, e aveva bisogno di qualcuno a cui lasciare la gestione della società?” Tricker aveva formulato quella domanda, talmente in fretta, che a Vera non era avanzato il tempo per architettare una risposta, e le parole che aveva in mente non l’avrebbero avvantaggiata di certo. “Avvocato Tricker, è ovvio che sia stato cosi...” aveva infine risposto. Il boato le si schiantò addosso come una doccia fredda, seguito dal ghigno in bella vista dell’avvocato della difesa. 247 | La Spilla | “Perfetto, signora Wall. Non ho altre domande, vostro onore” interruppe Tricker. Vera si aggrappò al legno della gabbia, quasi ad afferrare l’avvocato Tricker con lo sguardo. Poi si voltò decisa verso Cripp, con un chiaro ordine scolpito in volto. “Signora Green Wall, mi parli di quella lettera” obbedì l’avvocato Cripp, alzandosi in piedi. Vera annuì, e le sue spalle si rilassarono. “Robert, mi inviò una lettera dal fronte, prima di morire.” rispose, mentre Cripp ne mostrava alla giuria una copia “Mi avvertiva di aver effettuato delle modifiche al suo testamento, lasciandomi quelle quote e la carica di amministratore delegato della Wally Radio.” “Lei quindi? non suo cognato Frank? Né Micheal.” “No, io.” “Pensava di morire?” Vera scosse il capo per un attimo. “Diciamo solo che aveva accettato l’eventualità che potesse succedere.” 248 | La Spilla | “Ha mai avuto intenzione di rifiutare?” “No, avvocato, mai” fece decisa. “Immagino che non sia stato facile per lei.” Lei rispose con una mezza smorfia e un’alzata di spalle. “La guerra per fortuna ha cambiato alcune regole, come l’impossibilità per una donna di trovarsi al comando di un’azienda, però si, è stato abbastanza difficile.” “Ha mai avuto il desiderio di mollare tutto?” “Perché avrei dovuto, avvocato? Non era, tra l’altro, mio dovere rispettare le ultime volontà di mio marito?” “Quindi non ha mai pensato, come suggerito dall’avvocato della difesa, che suo marito l’abbia considerata come un diversivo temporaneo? Un passacarte da utilizzare, nel frattempo che i fratelli Wall fossero tornati dal fronte?” “Obbiezione, vostro onore. L’avvocato travisa le mie parole.” “È la stessa domanda che ha formulato l’avvocato della difesa poco fa. Sto semplicemente dando 249 | La Spilla | alla mia cliente la possibilità di rispondere, vostro onore.” “Respinta. Proceda pure avvocato Cripp.” A un suo cenno, Vera riprese, con un ghigno divertito in volto. “No, non l’ho mai pensato. Mio marito era un ingegnere, e un uomo estremamente pignolo, avvocato Cripp. Se avesse voluto che uno dei suoi fratelli prendesse il suo posto, l’avrebbe precisato nel suo testamento. Strano che si sia dimenticato di aggiungere una clausola tanto importante. In tutto il resto è stato così scrupolosamente preciso. ” Il giudice Equal rise, come molti altri in quell’aula, a parte Blake Cripp, al quale il gesto sembrava estraneo. Persino il giurato numero tre si accodò allo scroscio di gaiezza. “Quindi andava tutto bene alla Wally Radio, con lei al comando?” chiese Cripp. “Ci sono stati degli alti e bassi, specialmente al termine della guerra, però tutto sommato si.” “Poi cosa è successo?” 250 | La Spilla | Vera trasse un profondo respiro prima di rispondere. “Tempo fa sono stata una conferenza sul ruolo della donna nella società di oggi, dove ho discusso con la signora St. George, a proposito della lotta che lei porta avanti da anni, al congresso, contro le disparità nel mondo del lavoro femminile. All’epoca non ero a conoscenza del fatto che, ciò di cui mi parlava, avvenisse anche alla Wally Radio. Io non ho mai fatto distinzioni tra i miei dipendenti. Come potevo immaginare che una società che aveva accettato una donna quale suo leader, ne facesse? Così quando dalle mie analisi mi sono accorta di questa discrepanza, ho cercato di rimediare, riequilibrando gli stipendi, di tutti gli impiegati per i quali risultava inferiore agli altri a dispetto del loro profilo aziendale e il livello di anzianità raggiunto.” “Ergo delle impiegate di sesso femminile?” “C’è stato qualche impiegato, ma, per la maggioranza, si, questa disparità è stata 251 | La Spilla | riscontrata prettamente tra le impiegate donne.” “Questo avrà fatto infuriare molte persone alla Wally Radio” “Obiezione, si suggerisce il teste.” “Riformulo. Signora Green Wall, questa sua manovra ha fatto arrabbiare qualche persona?” “Ne ha fatto arrabbiare una, da quel che so, avvocato, Frank Wall.” Il vociare in aula aumentò di botto. “Obiezione, vostro onore, sentito dire!” ruggì l’avvocato Tricker. “Accolta.” Cripp zoppicò verso la propria scrivania, dalla quale prese un foglio stampato con l’icona della Wally Radio in bella vista. Il ticchettio sordo del legno del suo bastone faceva uno strano effetto sul pavimento liscio del tribunale. “Signora Green Wall, riconosce questa?” Vera rispose senza nemmeno leggerla. “Si avvocato. È una lettera di reclamo. Riconosco il logo della Wally Radio.” 252 | La Spilla | “Cioè i suoi dipendenti possono lamentarsi con lei, se qualcosa non va?” “Beh ovvio, avvocato, non sono certo miei schiavi” confermò divertita Vera. “Può leggere il mittente su questo reclamo, per favore?” Vera guardò di nuovo il foglio che aveva in mano, e sorrise. “È firmata Frank Wall.” “Obiezione vostro onore!” “Ancora sentito dire, avvocato Tricker?” lo beffò Cripp. “Questa prova non può essere ammessa. Non ci è mai stata presentata.” “In realtà, vostro onore,” dissentì Cripp “fu accettata come prova a carico dell’accusa, nella fase preliminare, per poi essere inspiegabilmente smarrita dagli addetti dell’archivio della Wally Radio. L’ho ricevuta solo stamattina, poco prima di entrare in aula.” “Respinta, avvocato Tricker, ma cerchi di non fare altre magie, avvocato Cripp.” 253 | La Spilla | “Farò del mio meglio, vostro onore” mentì Cripp, prima di tornare su Vera. “A chi era diretta?” riprese. “Al consiglio di amministrazione.” “Di cosa si lamentava? “Di aumenti ingiustificati di stipendio, a favore di alcuni dipendenti.” “Specifica quali? “Non tutti. È allegato un elenco campione. Un nome per ogni reparto.” “Ne riconosce qualcuno?” “Si, certo, avvocato, tutti.” “Tipo?” “Il primo della lista, per esempio. La signorina Abigale Smart.” “Sono tutte donne in quel elenco?” “Ovviamente avvocato.” “Obiezione, trae conclusioni!” “Accolta.” “Perché non l’ha mandata direttamente a lei? “Non lo so, avvocato. Non ha mai avuto particolari problemi a lamentarsi con me.” 254 | La Spilla | “Obiezione!” “Ritiro.” La spilla pesava sulla giacca, il ricordo di cosa fosse riuscita a combinare, la moglie di un ingegnere, con un paio di forbici, una saldatrice, una vecchia spilla e la medaglia al valore del marito, nel bel mezzo di una notte insonne. Brillava ancora di più, quella stella, sotto le luci bianche dei lampadari del tribunale. Infine, dopo una pausa, Cripp chiese: “Signora Green Wall, lei perché è qui?” Vera si aspettava quella domanda. Sapeva cosa ci si chiedeva in quell’aula. Perché una donna ricca, che avrebbe potuto vivere tranquilla per il resto della vita, si era imbarcata in una pazzia del genere? Una ridicola follia, come l’aveva definita sua madre… e forse a ragione. Forse fu proprio per i giurati che aveva a fianco che rispose come fece. Erano sei, come i membri del consiglio d’amministrazione, che in una sera, ormai lontana, l’avevano convocata a una riunione non prevista, all’ultimo piano della 255 | La Spilla | Wally Radio, per parlare di cambiamenti, e toglierle le redini della sua società, lei che aveva lavorato giorno e notte per portarla avanti. La motivazione ufficiale sui verbali, parlava di “comportamento imprevedibile”, ma la verità era un’altra. Vera era una donna, era sempre stata una donna, e l’avevano estromessa semplicemente perché aveva cominciato a agire come tale. “Si può sottrarre molto ad un essere umano:” cominciò Vera “casa, affetti, piccole abitudini, sicurezze. Io ho perso molto, nella mia vita. La guerra mi ha costretta a ricostruire, la dove pensavo ci fossero solo macerie, e nel farlo ho trovato il mio scopo. Mi ci sono specchiata ogni mattina negli ultimi diciotto anni. Quello scopo era… È ” e così dicendo punto lo sguardo dritto su Frank Wall “ la mia società, la Wally Radio System, che mi è stata tolta senza una giusta causa.” poi ritorno sui giurati e il resto della sala “Avrei dovuto restare in silenzio? Magari avrei anche potuto farlo, se mi avessero 256 | La Spilla | lasciato abbastanza spazio...e se serpi come Frank Wall non strisciassero indisturbate per questa terra!” Quella frase aveva creò un’enorme crepa nel silenzio degli spettatori del processo. Vera percepì il frastuono dei colpi del martelletto del giudice Equal, vibrarle sotto il pavimento. “Ordine!” aveva preteso. “Dignità e rispetto sono un diritto inalienabile.” continuò la donna con la stessa convinzione “Chiunque voglia privarne un altro individuo dovrebbe avere più di un valido motivo per farlo! Quest’ultima guerra avrebbe dovuto insegnarci almeno questo. Altrimenti, uomini come Robert Wall, sono morti invano.” “Non so se sono riuscita a convincerli” aggiunge Vera, spezzando il filo dei ricordi, con in mano il suo bicchiere di Whisky mezzo vuoto, di nuovo nel proprio soggiorno. “Si beh, ce la siamo cavata...almeno lì” risponde Cripp, mentre si accende un’altra sigaretta. Nel frattempo, in una stanza del tribunale, 257 | La Spilla | quattro uomini e due donne sono seduti attorno a un tavolo, cercando di raggiungere una votazione unanime per il caso Green Wall. Una fumata bianca per l’elezione di un nuovo papa. É il terzo tentativo che fanno. Sono le dieci di sera e... “Non va bene per niente!” sbotta il giurato numero cinque, il signor Cross, passandosi il fazzoletto sulla fronte calva. “Mi dispiace,” si giustifica il giovane giurato numero due, il signor Young, con una scrollata di spalle “ ma non sono per nulla convinto. Per me quella donna ha ragione, e non ho sentito nulla oggi, che mi abbia fatto cambiare idea su Frank Wall.” “Ha comunque le sue quote” azzarda la voce leggera del signor Weakam. “Si, e ha dovuto usare quelle del fratello Micheal per scalzare la cognata” insiste Young. “È davvero inaudito,” irrompe una voce di donna, bassa e spigolosa, dall’altra parte del tavolo “che una signora sia dovuta cadere 258 | La Spilla | così in basso! Queste donne d’oggi che se ne vanno in giro a lavorare come gli uomini, dico io, quando ce ne sono di più capaci, in grado di prendere il loro posto.” “Mmm, non so, signora Oldster, tanto capace non mi è parso.” riprende Young “Uno storico d’arte contro un’economista. Direi che non c’è gara. Che ne dice, signora Tail?” “Oh? ...beh, ecco... forse si. Come dice lei” le lenti a mezza luna della minuta signora tremano giusto un po’, mentre, appoggiata al suo scorcio di tavolo, osserva l’uno e l’altro contendente, annuendo o meno, a seconda degli umori nella stanza. “Per quello che ne sappiamo, la Wally Radio era in mani più sicure con la signora Green Wall, che con suo cognato.” “Adesso non esageriamo” approfitta Cross “diciamo che è sopravvissuta” “Per diciotto anni? È praticamente maggiorenne! Ma poi perché stiamo qui a parlare? Sono i fatti che dovremmo analizzare.” 259 | La Spilla | “Young ha perfettamente ragione.” irrompe la voce del primo giurato, il signor Smith, dalla postazione centrale “faremo meglio a rivedere le deposizioni del processo.” “A me è piaciuto l’interrogatorio del tecnico degli ascensori” cinguetta Weakam divertito. Il signor Circuit si era presentato in camicia bianca, quella mattina, invece che con la sua solita tuta da lavoro, e il colore della sua pelle sembrava ancora più scuro, mentre rispondeva alle domande dell’avvocato Cripp. “Signor Circuit, si è recato alla Wally Radio, la mattina del sei settembre?” “Si, avvocato. Per un guasto a uno degli ascensori.” “Signor Circuit, rispetto a dove si trovava lei, l’ascensore funzionante, era distante?” “Sono uno accanto all’altro.” “Qualcuno ha parlato con lei, nel lasso di tempo in cui riparava il guasto?” Circuit fece spallucce a quella domanda. “Di solito le persone non mi notano, o fanno 260 | La Spilla | finta di non vedermi.”rispose Circuit con molta calma, come se parlasse di una partita di baseball. “Ottimo. Immagino che le sarà capitato, quindi, di ascoltare qualche conversazione, tra gli impiegati della Wally Radio.” “Oh si parecchie. Per lo più le solite cose: sport, politica, lavoro. Però ne ho sentiti alcuni che si lamentavano.” “Di cosa?” “Non mandavano giù che a molte loro colleghe fosse stato dato un aumento. Diavolo, sembravano infuriati come se fosse stato eletto uno di noi alla casa bianca. Quella signora Green Wall ha di certo stuzzicato un bel vespaio!” “Obiezione, vostro onore. Tutto Questo dimostra soltanto che ci fosse malcontento tra i dipendenti della Wally Radio. Cosa ha a che fare con il mio cliente?” “Avvocato?” fece di rimando il giudice Equal, in direzione di Cripp. “Signor Circuit, tra gli impiegati scontenti, per 261 | La Spilla | caso ha notato anche il signor Wall?” domandò Cripp indicando Frank alla scrivania della difesa. “Certamente. Lui sembrava il più adirato di tutti. Discuteva di come, la signora Wall, avesse fatto il passo più lungo della gamba, con la trovata delle buste paga, e che avrebbe voluto rispedirla tra i suoi dannati fornelli.” La sala cominciò a brulicare di voci, come se tante formichine si fossero messe in moto. “Ha detto proprio cosi?” “Si, si, parola per parola. Era molto sicuro del fatto suo.” “Quindi secondo lui una donna non doveva essere a capo di un’azienda?” “Obiezione! Sta imbeccando il teste.” “Accolta. Avvocato Cripp, si limiti a fare domande.” “Cos’altro ha detto il signor Wall?” domandò infatti Cripp. “Che le avrebbe scavato la fossa lui stesso, piuttosto vederla mandare all’aria l’azienda.” “Ha fatto il nome di qualcun altro?” 262 | La Spilla | “Mi pare abbia parlato di un tipo, che aveva convinto a far qualcosa per lui.” “Un certo Micheal, per caso?” “Obiezione, si suggerisce il teste.” “Accolta.” “È riuscito a sentire di chi stesse parlando?” “Non lo so, avvocato. È entrato nel ascensore e non ho udito più nulla.” “D’accordo, signor Circuit, la ringrazio. Non ho altre domande.” L’avvocato Tricker attese qualche secondo, prima di cominciare il controinterrogatorio. Sembrava fin troppo tranquillo. “Signor Circuit, era la prima volta, quella settimana, che si recava negli uffici della Wally Radio per sistemare quel ascensore guasto?” “No. Ci ero già stato.” “E come mai non lo sistemò quella prima volta?” “Perché… mi mancavano dei pezzi.” “Dei pezzi? Tipo la scatola dei fusibili?” chiese Tricker, avvicinandosi a Circuit, lentamente, 263 | La Spilla | come un ragno a una mosca intrappolata nella propria rete. “Già, proprio quella.” “Una delle sue tante, ben note… dimenticanze. Come le volte che è stato trovato a vagabondare, ubriaco, per la città?” Circuit era improvvisamente diventato teso come uno stendino per i panni. “Obiezione! Non pertinente! Il signor Circuit era sobrio il giorno in questione!” “E lei come farebbe a saperlo? Era nei paraggi in attesa per un alcol test?” ribatté Tricker. “Vostro onore, l’avvocato cerca solo di screditare il testimone agli occhi della giuria!” “Non c’è nulla da screditare. Il suo teste è un ubriacone. Come si può prendere per buona la sua testimonianza?” “Ora basta, avvocati!” tuonò la voce del giudice Equal, mentre il martelletto colpiva il legno del suo tavolo un paio di volte. “Si” riprende Weakam “è stato decisamente divertente.” 264 | La Spilla | Anche gli animi nella stanza dei giurati si stanno scaldando. “Solo perché il modo di fare della signora Green Wall non ti piace,” dice Young “o non condividi i suoi metodi, non significa automaticamente che siano sbagliati!” “Stava andando tutto bene alla Wally Radio finché quella donna non ha cominciato a fare di testa sua!” sbraita il signor Cross. “Cioè finché non ha deciso di fare qualcosa per correggere un’ingiustizia.” “Non potremmo cercare di andare avanti?” si lamenta la signora Oldster, dai bordi del ring. “Ti ricordo solo un nome: Abigale Smart” sbotta di nuovo Cross. Il signor Young risponde con una smorfia e un’alzata d’occhi. “La signorina Smart è stata solo il pretesto, non la causa di tutta questa farsa” risponde “Oh insomma, parliamoci chiaro. È una questione di orgoglio, non di affari!” “A me è piaciuta quella signorina Smart” fa la signora Tail dal suo angolo, imprevista “Era così 265 | La Spilla | sicura di se.” In effetti era stato chiaro fin dal suo ingresso in aula, che la signorina Abigale Smart, non era tipo da farsi mettere i piedi in testa da nessuno. Una di quelle che la signora Oldster odiava fin nel midollo, dalla frangia corta all’orlo del vestito corto. “Signorina” le aveva chiesto l’avvocato Cripp “negli anni in cui ha lavorato presso la Wally Radio, e prima che il signor Wall richiedesse il suo licenziamento, ha mai ricevuto lamentele, sulla qualità del suo lavoro?” “No, mai.” “Questo prima che il signor Wall le chiedesse di uscire?” “Obiezione, vostro onore. Non ci sono prove che tale avvenimento abbia avuto luogo.” “Vostro onore, questa” Cripp saltellò zoppicando alla scrivania prendendone ciò che sembrava uno scontrino “è la ricevuta, firmata dal signor Wall, del pagamento del ristorante dove i due hanno cenato. E quest’altra” continuò 266 | La Spilla | Cripp “è la deposizione giurata del portiere del palazzo della signorina Smart, che afferma di aver visto il signor Wall passare a prendere la signorina con la sua macchina, la stessa sera. Potrei anche chiamare a deporre il cameriere che si occupò del servizio.” “No, avvocato” fece Equal “penso che sia sufficiente così. Proceda.” “Grazie, vostro onore, dunque, signorina, come cambiò il suo rapporto con il signor Wall, dopo quell’unica volta in cui lei accetto di uscire con lui?” “Cominciò ad attaccare il mio lavoro.” “Obiezione, vostro onore, irrilevante.” “Si da il caso, vostro onore,” si difese Crippp “che la signorina Smart sia una di quelle impiegate, il cui aumento, fu soggetto delle lamentele del signor Wall con il consiglio d’amministrazione della Wally Radio. Una coincidenza piuttosto strana, se collegata al suo rifiuto verso le avance del signor Wall. Sembra ribadire il fatto che una donna non possa conservare il proprio posto 267 | La Spilla | di lavoro per solo merito professionale.” Il giudice Equal ci mise un po’, prima di rispondere, come incerto anche lui sul da farsi. “Mmmm, debole avvocato. Accolta.” Cripp sentiva gli occhi di Vera, pungenti come spilli sulle sue spalle. Era stata contraria fin dal principio, a chiamare Abigale, la sua pupilla, a deporre quel giorno, e temeva che il giudice Equal le volesse dare ragione, lasciandola tra l’altro inutilmente in balia del controinterrogatorio dell’avvocato Tricker. “Signorina Smart, mi dica, lei che mansioni svolge alla Wally Radio?” “Seguo l’acquisto di nuovi materiali, e la gestione delle linee di produzione per la vendita all’ingrosso” aveva risposto Abigale. “In altre parole, lei è uno supervisore... come anche il signor Frank Wall, sbaglio?” “Si beh in un certo senso, avvocato, lo sono” rispose cauta la signorina Smart. “Ebbene, prima che la manovra di adeguamento salariare voluta dalla signora 268 | La Spilla | Green Wall entrasse in vigore, il signor Wall, aveva mai espresso la sua volontà di sollevarla permanentemente dal suo incarico alla Wally Radio?” “Assolutamente no, avvocato.” “Obiezione, vostro onore, sono soltanto supposizioni!” “Vostro onore,” ribatté Cripp mentre saltellava verso la propria scrivania per frugare tra le sue carte “la prima busta paga in cui gli aumenti sono stati resi effettivi è del ventisette di agosto, mentre la lettera di reclamo, nella quale venivano richieste le dimissioni della teste, spedita dal signor Wall al consiglio di amministrazione, è datata tre settembre. Un lasso di tempo piuttosto ravvicinato, per essere una mera coincidenza. Sembra piuttosto una diretta conseguenza.” La strategia del avvocato Tricker, in risposta, fu piuttosto ovvia. “Signorina smart, si ricorda di quest’ordine?” chiese infatti porgendole un blocchetto di fogli 269 | La Spilla | stampati e spillati. Lei lo raccolse, e deglutì, mentre i suoi occhi facevano avanti e indietro sulla carta come saette, seppur restando impassibile. “Si, ricordo.” ammise Abigale “Si tratta di una partita di OC70 per la marina.” “La marina militare degli stati uniti?” “Ne conosce altre, avvocato?” “Silenzio!” minacciò il giudice Equal, per convincere l’ennesima onda di confusione. “Signorina Smart, cosa successe ai pezzi di quell’ordine?” continuò Tricker. “Furono bloccati prima di lasciare i magazzini, in quanto difettosi.” “Si ricorda chi lo firmò?” La signorina Smart scosse il capo, e con occhi stretti come rasoi rispose “io”. La sedia dell’avvocato Cripp pattinò sicura sul pavimento, mentre si preparava ad annunciare la sua obbiezione, così come l’avvocato Tricker la prossima domanda, ma la signorina Smart fu più veloce di entrambi. 270 | La Spilla | “Ovviamente, avvocato, il mandante di quell’ordine era il signor Frank Wall” disse decisa. “Secondo chi, signorina?” sbottò Tricker colto di sopresa “Non c’è la firma del mio assistito su quel foglio.” “No infatti,” riprese lei con lo stesso tono sbrigativo di sempre, mentre sfogliava velocemente la carta spillata “ma c’è il suo timbro ufficiale” concluse mostrando il timbro incriminato a tutti i presenti “Il signor Wall lo conserva, molto gelosamente, in un cassetto della scrivania, e da quello che ne so io, solo lui ne possiede la chiave. Perciò, a meno che non vi siano dei fantasmi nella sede della Wally Radio, l’unico ad aver potuto timbrare quest’ordine era lui. Il che è oltremodo ovvio, dato che era anche il supervisore del reparto spedizioni.” L’avvocato Tricker lanciò un’occhiata verso Cripp, il quale gli fece cenno di continuare… se proprio ne aveva voglia. “Sei sicura, Green” bisbigliò sottovoce a una 271 | La Spilla | Vera divertita, al suo fianco “che la signorina Smart non sia una qualche tua parente?” “La cosa non mi farebbe che piacere, avvocato” rispose Vera sogghignando. Intanto, in quell’aula, qualcosa era cambiato. Vera non seppe dire cosa accadde. Qualcuno in mezzo alla folla aveva urlato qualcosa. Se a favore o contro Vera Green Wall, o quella deposizione, francamente non si capì, come non fu chiaro a chi era destinata la sedia che volò sopra le teste degli spettatori, schiantandosi in mezzo alle scrivanie di difesa e accusa. L’aula gremita si trasformò in un ring da strada, mentre il giudice Equal ordinava alla folla di disperdersi, alla giuria di ritirarsi e alle guardie di sgombrare l’aula, picchiando il banco con quel suo martelletto infrangibile. “Certo,” esclama Smith, dalla sua sedia nella stanza dei giurati “nessuna di quelle deposizioni ha mai avuto alcuna speranza di vincere questo processo, però è stata una giornata davvero emozionante.” 272 | La Spilla | “Come sarebbe a dire? E tutte le prove che abbiamo presentato?” esclamò Vera, durante la pausa imposta dal giudice Equal, dopo che Cripp le aveva confidato la sua opinione sul reale andamento del processo. “Non sono sufficienti a dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, il pregiudizio di Frank Wall. L’unica modo per convincere la giuria, è farglielo confessare lui stesso.” “Impossibile!” sbottò incredula Vera “E come vorresti convincerlo?” “Non ne ho la più pallida idea.” aveva ammesso Cripp dopo una enigmatica pausa. E’ notte fonda, fuori dell’abitazione di Vera. Lungo la strada deserta, il rombo di un motore, si avvicina. I fari accesi di un’automobile fendono la nebbia come brecce in un muro. L’oscurità troppo fitta impedisce di vedere chi ci sia alla guida. Uno dei finestrini si abbassa. L’auto sgomma sull’asfalto. E’ un rumore acido, quello che si sente, seguito da una minuscola ombra, che sbuca veloce dalla vettura ancora 273 | La Spilla | in movimento. Solo per un secondo, dopodiché la finestra nel soggiorno di Vera si infrange. Un cane abbaia, mentre mille pezzi di vetro cadono come brillanti sul tappeto, assieme a un enorme mattone grigio, con attorcigliato un pezzo di carta, imbrattato di inchiostro rosso. Buffo come una città tranquilla avesse deciso di animarsi di un tale nuovo spirito. Aveva da sempre visto Vera come un modello di virtù, o tutt’al più con un inerme sguardo di indifferenza, almeno fino all’apertura di quel processo, fino a che Vera non aveva deciso di chiedere di più. La donna si sveglia di soprassalto, sul divano. Si volta e la finestra è lì, nuovamente intatta. Sono da poco passate le tre e c’è silenzio, a parte il fruscio nervoso di una penna che scrive, e il rumore di pagine voltate. È Cripp, sotto il lume acceso, che studia le deposizioni. Non può smettere di pensare all’interrogatorio di Frank Wall, che aveva condotto quello stesso pomeriggio, da cui dipendeva l’esito dell’intero 274 | La Spilla | processo. “Signor Wall, quando fu informato della morte di suo fratello Robert?” aveva chiesto Cripp a un restio Frank Wall, chiaramente innervisito dal fatto di trovarsi seduto a quel banco. “Non ho saputo nulla fino al mio ritorno dal fronte.” “Eravate in buoni rapporti?” “Con mio fratello? Ovviamente avvocato.” “E la Wally Radio?” “La Wally Radio cosa?” “Il testamento, le quote. Lei era il fratello maggiore. Quello che doveva ereditare le redini della famiglia Wall. Cosa provò quando apprese su chi altri era invece ricaduta la scelta?” La mandibola di Frank si serrò per un attimo. “Mentirei, avvocato, se dicessi che la cosa non mi lasciò quantomeno perplesso.” “Come mai? Non aveva mai pensato a sua cognata per quel ruolo?” “Certo che no, avvocato,” Frank sbuffò, come se gli avessero chiesto se sarebbe stata la russia 275 | La Spilla | la prima a mettere piede sulla luna, per poi aggiungere in fretta che Vera “non aveva alcuna esperienza nella gestione di una società.” “Fu questa perplessità a spingerla a intentare un’azione legale per invalidare il testamento di suo fratello?” “Obiezione, non pertinente” interruppe Tricker. “Accolta.” Cripp continuò come se nulla fosse successo, zoppicando attorno al banco, come un animale in attesa che fosse aperta la gabbia. “Eppure la signora Green Wall gestiva la Wally Radio dall’inizio della guerra.” “Si beh, diciamo pure così” concesse Frank con sufficienza. Cripp si voltò di scatto come se afferrato da una molla invisibile. “Cosa intende dire, signor Wall?” “Beh che con gran parte del fattore umano al fronte, c’era davvero poco da gestire.” “Dimentica che in quegli anni, a popolare le fabbriche c’erano donne come la signora Green 276 | La Spilla | Wall, o forse loro non sono da considerarsi fattore umano?” “Obiezione!” squittì l’avvocato Tricker. “Accolta.” “Signor wall, tornando ai giorni nostri,” proseguì Cripp imperterrito “è al corrente che la paga femminile alla Wally Radio, prima dell’intervento della signora Green Wall, era di cinquantasei centesimi per ogni dollaro della controparte maschile?” “Si, ne ero a conoscenza” risponde Frank con noncuranza. “È poco più della metà.” “È illegale forse?” chiese Frank. “Magari dovrebbe” azzardò Cripp. “Obiezione vostro onore! Non capisco dove voglia arrivare l’avvocato dell’accusa” fu l’immancabile stoccata dell’avvocato della difesa. “Non voglio arrivare da nessuna parte” si oppose Cripp “sto solo ribadendo un fatto ovvio, e cioè che se ci fosse una legge a riguardo, nessuno 277 | La Spilla | di noi sarebbe qui oggi.” “L’avvocato del accusa vuole forse fare politica?” “Da quel che mi risulta, le aule dei tribunali, servono anche a creare precedenti.” “Concordo con il suo desiderio di chiarezza, avvocato,” interruppe il giudice Equal “ma non siamo qui a dibattere sulla correttezza del codice civile, spetta alla corte suprema farlo. Per favore proceda.” “Certo, vostro onore. Dunque, signor Wall, se non era illegale che i suoi dipendenti fossero pagati il doppio, non doveva essere proibito per l’amministratore delegato modificarli per appianare le differenze. Sbaglio forse?” “No, avvocato, non sbaglia, ma..” rispose Frank un po’ titubante. “E perché allora la mia cliente è stata penalizzata per averlo fatto?” “C’erano altri fattori da considerare ovviamente.” “Quali altri fattori?” Frank pareva sempre più contrariato. 278 | La Spilla | “Questo genere di operazioni ha dei costi. Mia cognata avrebbe dovuto riflettere sui rischi” sbuffò. “Pensa che la signora Green Wall non abbia valutato le conseguenze di ciò che faceva?” “Penso che abbia agito d’impulso, invece che con i bilanci alla mano, come..” “Come una donna?” “Stavo per dire come una persona avventata. La modifica che ha attuato è costata notevolmente alla wally radio, contando che..” “Contando che il trenta per cento dell’azienda è composta da donne, signor Wall?” “Era uno dei fattori ovviamente, perciò capirà quanto si è rischiato con i fondi della Wally Radio, il tutto senza il consenso del consiglio.” “La signora Green Wall doveva chiedere il permesso a qualcuno, signor Wall? con la maggioranza delle azioni e la carica di amministratore delegato? “Beh no, ma…” “Sembra quasi che lei stia parlando di uno dei 279 | La Spilla | suoi dipendenti, magari della sua segretaria, invece che del suo capo. Lei considerava la signora Green Wall suo capo?” “Obiezione!” “Ritiro…Tornando all’operazione di adeguamento, non si poteva modificare gli altri stipendi quel tanto necessario a non pesare sui bilanci?” “Lo escludo cadegoricamente, avvocato” fu la secca risposta di Frank. “Perche?” La reazione inorridita di Frank Wall fu più eloquente della sua risposta. “Avrebbe voluto dire abbassare le buste paga della maggior parte dei dipendenti, solo perchè una piccola percentuale potessere essere pagata di più.” “Ma se era cosi piccola, perchè questi problemi? In fondo si trattava solo di trovare un compromesso perchè tutti usufruissero della stessa equa parte di guadagno” insistette Cripp. 280 | La Spilla | “Un cospiquo compromesso, avvocato” precisò Frank. “Ma non ha appena detto che si trattava di una percentuale irrisoria?” “Si l’ho detto, ma…” “Se i costi erano così contenuti, allora qual’era questo prezzo tanto cospiquo che non era disposto a pagare? Non sembra essere una questione di denaro.” “Lei sta cercando di confondermi, avvocato.” “Io sto solo cercando di far emergere la verità. Se la cosa la confonde non è mio problema.” “Non è cosi semplice, avvocato. Tanto per cominciare, a lei piacerebbe se domani decidessi di abbassare il suo onorario senza una valida ragione?” “Un’equa retribuzione non è una valida ragione?” “Dipende tutto da cosa intende per equo, avvocato.” “Vorrebbe dire che per lei il lavoro di una donna non è equiparabile a quello di un uomo?” 281 | La Spilla | Frank Wall sembrava in difficoltà. Se avesse atteso, anche solo un secondo in più, sarebbe stato salvato dall’obiezione già pronta dell’avvocato Tricker. Invece il suo “Ma certo che non lo è!” esplose per l’aula come un petardo in una strada deserta. “Una donna comporta dei costi in più, avvocato” aggiunse fin troppo in fretta. “Di quali costi in più sta parlando, signor Wall?” tornò alla carica Cripp. “Tanto per cominciare hanno bisogno di un orario più flessibile. Tendono ad assentarsi più spesso per motivi familiari. Gravidanze, allattamento, pause pranzo più lunghe per poter cucinare a marito e figli, e altre scuse di questo genere.” “Per lei queste sono scuse, signor Wall?” “Sono ore sottratte all’orario di lavoro, avvocato.” “Mi sta dicendo che tutte le donne lavorano meno ora di quelle che dichiarano?” “Beh no, avvocato…” 282 | La Spilla | “Perché immagino che sarebbero licenziate se ciò accadesse. Non tutte le dipendenti della Wally Radio sono sposate, o hanno figli. Sono tutte giustificazioni non applicabili alla maggioranza, signor Wall” obiettò ancora Cripp. “E poi” continuò quindi Frank “ avere donne in ufficio significa munirlo di doppi servizi.” “Si rende conto, signor Wall,” continuò a insistere Cripp “che seguendo il suo ragionamento, qualunque scuola di questo paese dovrebbe richiedere una retta maggiore a tutte le studentesse che la frequentano? Lo stesso varrebbe per i luoghi publici. Dovremmo anche separare gli ingressi come nel medioevo?” “Obiezione, vostro onore” si lamentò Tricker. “Accolta.” L’aula non era piena, eppure lo sembrava con tutte quelle voci sovrapposte le une sulle altre. “Signor Wall, ipotizzando, per un momento, che lei fosse sposato, permetterebbe a sua moglie di avere un’occupazione?” 283 | La Spilla | “Cosa? Ovviamente no, avvocato” fu la risposta ancora più seccata di Frank. “Per quale ragione?” “Sono un uomo facoltoso, e mia moglie non avrebbe bisogno di lavorare.” “È solo questa la condizione che permetterebbe a una donna di farlo?” “Ce ne sono forse altre?” “Quindi tutte quelle donne che lavorano per scelta, vanno contro natura, secondo lei?” “Obiezione.” “Accolta.” “Perciò anche la signora Green Wall, lavorando alla Wally Radio, andava contro natura?” “Obiezione, vostro onore.” “Accolta. Avvocato Cripp, cerchi di non approfittare della mia pazienza.” “Signor Wall, se fosse stato suo fratello Robert a proporre quegli aumenti, e gli impiegati coinvolti fossero solo un elenco di nomi senza volto e senza genere, Lei avrebbe fatto tutto quello che era in suo potere per fermarlo? 284 | La Spilla | Saremmo qui oggi a battagliare in quest’aula?” “Non è questo il punto, avvocato.” “È assolutamente questo il punto, signor Wall!” tuonò Cripp, e il tacco del suo bastone colpì il marmo del pavimento, come una pallottola sparata da una pistola. “Non so dirti cosa sia stato più memorabile” riprende Vera, nella calma silenziosa del suo appartamento “Frank Wall sotto torchio alla sbarra, o quando ha cercato di alzarsi e andarsene e tu hai usato il manico del tuo bastone come un gancio per tenerlo inchiodato al banco, ricordandogli i suoi doveri di testimone,” aggiunse sorridendo “anche se per un attimo ho pensato che il giudice Equal ti avrebbe fatto arrestare.” Cripp è ancora serio in volto, mentre si riempie un altro bicchiere di Whisky. “No” comincia l’avvocato “la parte davvero memorabile è stata quando ha perso le staffe e ha cominciato a inveire su tutto e tutti, su di te, su di me, sulla società, sul consiglio. Non 285 | La Spilla | pensavo che si sarebbe dato la zappa sui piedi da solo. Spero che qualcuno l’abbia registrato. Leggere le trascrizioni non fa lo stesso effetto.” Un volto indecifrabile di donna si riflette sul vetro di una finestra chiusa, mentre Vera Green Wall osserva, appoggiata a uno dei braccioli del divano, le prime luci del giorno, fare capolino sulla città addormentata. Il rame nei suoi capelli luccica come oro a quei timidi raggi solari. È già perfetta, nel suo completo blu. Aspetta solo che il trillare del telefono, dal suo elegante comò, rimbalzi tra le pareti, per tutta la casa, per infilarsi nei tacchi delle sue scarpe, e rimettere a posto la spilla, in bella mostra, appuntata al tessuto della giacca, per affrontare, si spera per l’ultima volta, il tragitto in macchina verso il tribunale. Poi di nuovo su, per quella scalinata grigia, assieme allo stuolo di giornalisti e fotografi, accampati come sempre, ai piedi di quelle pietre. Le loro domande squittiscono già nelle sue orecchie, assieme ai mille obbiettivi in agguato, in cerca 286 | La Spilla | del prossimo scoop, a due centimetri dalla sua faccia. Domande alle quali, ovviamente, Vera non potrà rispondere. Potrà solo tirare dritto, con Cripp a farle da scudo, e da apri pista, ignorando perfino Frank Wall, appoggiato a una colonna tra i corridoi del tribunale, assieme al suo viscido avvocato difensore. Fino all’angolo più lontano di quella panca, dove le toccherà attendere, un tempo infinito, in compagnia solo del ticchettio delle lancette di quel pesante orologio sulla parete di fronte, nell’attesa che il giudice Equal si decida ad aprire le porte della propria aula, dove convocare imputati e giuria, perché questa, ad alta voce, comunichi finalmente il proprio verdetto. Alle dieci e trentadue, Vera è in prima fila in aula. Il silenzio questa volta è palpabile, o forse sono le sue orecchie a non far passare alcun suono. Qualcosa le si è impigliato in gola. Sarà uno degli ami dell’avvocato Tricker, rimasto lì dal giorno prima. Ci sono tutti, stampa, avvocati, imputati, semplici curiosi, e infine tutti e sei i giurati. 287 | La Spilla | Vera li osserva sfilare, a uno, a uno, cercando di scorgere nelle linee marcate dei loro volti, l’esito dei loro dibattimenti. Sembrano stanchi. Pare abbiano passato la notte a discutere su quale sarebbe stato l’esito di quel processo, e il verdetto da consegnare al giudice Equal, e a Vera quella mattina. “Membri della giuria. Avete raggiunto un verdetto?” chiede il giudice. Per un attimo, Vera, vorrebbe che quella risposta fosse un bel “no”, sonoro e sonante. L’eco restituito dalle pareti, tuttavia, è di un altro parere. “Gli imputati si alzino” ordina un’ultima volta, il giudice Equal, dal suo solito muro “Per il capo d’accusa, pregiudizio di genere, come dichiarate gli imputati?” Col cuore in gola, e le ossa molli, Vera avverte Frank e Micheal alzarsi in piedi. Poi osserva, con finta attenzione, e vera ansia, il primo giurato, il signor Smith, dispiegare il foglio di carta che ha in mano. 288 | La Spilla | “Per il capo d’accusa, pregiudizio di genere,” risponde quella voce grave e ferma “dichiariamo gli imputati, Frank Wall e Micheal Wall…” Ancora una volta, Vera, trattiene il fiato, mentre istintivamente stringe il polso dell’avvocato Cripp accanto a se, come se temesse di sciogliersi da un momento all’altro. Per qualche secondo, dopo la parola “colpevoli”, pronunciata dal capo della giuria, Vera è convinta di aver sentito male. E’ solo il clamore da stadio, all’interno dell’aula, a destarla dal suo torpore, riportando in vita anche il resto dei suoni nelle sue orecchie. Vera si volta verso il proprietario del polso che sta ancora stringendo, e vede Cripp che la sta fissando con uno strano ghigno stampato in volto. Sembra quasi un sorriso, così poco da lui, seguito da un “E’ fatta, Green!”, una delle sue solite frasi d’effetto, breve e concisa. In mezzo a quella folla confusa, qualcosa in fondo alla sala attira la sua attenzione. Il giurato numero due le sta finalmente sorridendo. 289 | Autore | Cristina Laghezza Pecora nera per nascita, in eterna contraddizione. Adora il mare, ma preferisce il freddo. Si trova bene tra i boschi, ma detesta i fiori. Teme il buio, eppure vive meglio di notte. La sua lettera di ammissione alla scuola di magia di Hogwarts si deve essere persa per le strade della Puglia. C’era troppa luce per quei gufi viaggiatori. Sarebbe stato interessante sapere in quale delle quattro case, il cappello parlante, l’avrebbe messa, o se sarebbe perito anch’esso nelle contraddizioni. Una volta Super Mario le ha detto: “non chiederti ciò che il mondo può fare per te. Raccogli tutte le monete che trovi, e ricordati di tenere sempre un fungo in tasca.” Sfuggita più volte dalle grinfie di Darth Fener, grazie al pronto intervento di quella santa donna del Capitano Janeway, per qualche tempo è finita a bordo della USS Voyager, sbarcando il lunario come tecnico informatico, per poi farsi mollare nel primo porto spaziale, in quel di Milano. Luogo preferito, ovunque ci sia ancora odore di miti e leggende. Le storie sono un viaggio, privo di quelle scomode limitazioni di tempo e spazio. Digerisce piano le critiche, pessima nell’accettare i complimenti. Forse solo uno le è andato bene, fin ora: “sei infinita come i numeri”. Se volete saperne di più, scrivete a [email protected] 290 Note storiche 1972 Gola Profonda – Deep Throat – Gerard Damiano, 1972 Film pornografico che ha stravolto completamente la concezione del porno. Per la prima volta un film a luci rosse, che fino ad allora era considerato un genere di nicchia in quanto da “depravati”, è stato visto da milioni di persone. Venticinquemila dollari di spesa, un incasso pari a cento milioni. Cosa mai vista nella storia del cinema. Il film aveva una trama e trattava di uno dei più importanti tabù sessuali dell’epoca: l’orgasmo femminile e la sua manifestazione a livello visivo. La pornografia può essere suddivisa in un prima e dopo Gola Profonda. (tratto da www.torquemada.eu) 292 L'impronta di Colin Pitchfork Nel 1984 il genetista britannico Sir Alec Jeffreys dell’Università di Leicester (UK) mise a punto le tecniche, oggi utilizzate in tutto il mondo dalla scienza forense, per rilevare l’impronta genetica e il profilo del DNA. Queste scoperte furono impiegate per la prima volta nel 1988, in Inghilterra, per incriminare Colin Pitchfork, responsabile dello stupro e dell’omicidio di due ragazze. La prima a cadere nelle sue mani fu Lynda Mann, quindici anni, il 21 novembre 1983, a Narborough, Leicestershire. La seconda fu Dawn Ashworth, anche lei quindici anni, il 31 luglio 1986, a Enderby, Leicestershire. Le indagini si ricordano anche come il primo caso di test di DNA di massa: furono testati cinquemila uomini del luogo, con esito negativo. Il test del DNA servì anche per scagionare un sospettato, Richard Buckland, un ragazzo di diciassette anni. La prima persona la cui innocenza fu stabilità proprio grazie alla prova del DNA. Colin Pichfork - nato a Newbold Verdon, Leicestershire, sposato, due figli, lavorava in una panetteria, era abile a decorare torte - fu arrestato il 19 settembre 1987 e condannato all’ergastolo il 22 gennaio 1988. Fu il primo in assoluto a essere incastrato in tribunale usando come prova la sua impronta genetica. 293 Voi non siete comunisti! La caduta del muro di Berlino provocò un effetto domino che, tra rivoluzioni di velluto e guerriglia urbana, portò alla fine dei regimi comunisti nei Paesi dell’Est. Il 9 novembre 1989 fu la data simbolo del crollo del blocco orientale: quel giorno (anzi, quella sera) si iniziò ad abbattere il Muro di Berlino, che dal 1961 divideva in due la città tedesca e che da 28 anni era il simbolo della guerra fredda. Ma quell’evento fu anche il frutto di un equivoco: il neopresidente della DDR Egon Krenz, per arginare le crescenti proteste, decise di concedere nuovi permessi per il transito dei cittadini verso la Germania Ovest. I fatti lo superarono. Nel pomeriggio del 9 novembre il ministro della Propaganda, Günter Schabowski, disse in una conferenza stampa: “È stata presa la decisione di aprire i posti di blocco. Se sono stato informato correttamente, quest’ordine diventa efficace immediatamente” Ma Schabowski era appena tornato dalle ferie ed era male informato: in realtà la decisione non era ancora stata presa. La sua frase suonò però come un “liberi tutti” per i cittadini berlinesi che accorsero al muro e, trovando le guardie di confine senza ordini chiari in merito, cominciarono ad abbatterlo. 294 Ma il nonno dov'e? 1951: Ignis fabbrica il primo frigorifero in Italia. L’elettrodomestico, che rivoluzionerà la conservazione degli alimenti, entra per la prima volta nelle case degli italiani. Le ghiacciaie erano, all’epoca, ambienti in cui veniva prodotto e immagazzinato il ghiaccio prima dell’invenzione del frigorifero. Si trovavano perlopiù in luoghi comuni ma, in alcune ville e palazzi erano state costruite delle ghiacciaie ‘domestiche’ per conservare alimenti deperibili. E, per amore dell’innovazione, per utilizzi alquanto bizzarri… 295 Non resta che fumo La Congiura delle polveri, fu un complotto fallito organizzato da un gruppo di cattolici inglesi ai danni del re Giacomo I di Inghilterra nel 1605. Il piano dei congiurati era quello di far esplodere la camera dei lord durante la cerimonia di apertura del parlamento inglese (State Opening), che si sarebbe tenuta il 5 novembre e in questo modo uccidere il re e il suo governo; Così da poter introdurre quelle riforme religiose che rappresentavano il principale obbiettivo dell’impresa. L’attentato avrebbe coinvolto anche alcuni cattolici, presenti in parlamento, tuttavia era un sacrificio accettabile. Lo stesso però non pensarono i compagni reclutati al fine di instaurare un governo provvisorio, ossia alcuni aristocratici cattolici. In particolare Francis Tresham, era contrario e decise di salvare suo cognato, lord Mounteagle, uno dei cattolici che sarebbe stato presente in parlamento. Così il 26 Ottobre gli mandò una lettera anonima esortandolo ad astenersi dall’andare in parlamento il 5 novembre. La lettera ricevuta da Mounteagle venne presentata al re il 1 novembre e dopo due ronde senza risultati il re decise di affidare il compito a Thomas Kneyvett, che il 5 Novembre perquisendo le cantine trovò Guy Fawkes. 196 I congiurati vennero messi a morte e i cattolici da quel momento fino al 1797, persero il diritto di intraprendere diverse carriere e di laurearsi, inoltre furono obbligati a prendere parte a diversi riti anglicani. Dopo la repressione della congiura, il 5 novembre 1605 i londinesi furono incitati a festeggiare il salvataggio del re con fuochi d’artificio. Un Atto del Parlamento emanato lo stesso giorno designò il 5 novembre come un giorno di ringraziamento per la “gioia del soccorso”, e così rimase fino al 1859. In tale occasione venivano bruciati dei pupazzi con le fattezze di Guy Fawkes. Sebbene per quasi cinque secoli la figura di Guy Fawkes fu considerata ridicola e meritevole di scherno, in seguito la sua reputazione fu riabilitata e alcuni hanno anche affermato che Fawkes fu “l’unico uomo ad essere entrato in Parlamento con buone intenzioni”. 297 Dentro lo sguardo cronaca di una (meta) rivoluzione cubista “Il cubismo ha obiettivi plastici. Noi lo consideriamo solo uno strumento per esprimere ciò che percepiamo con l’occhio e con la mente, sfruttando tutte le possibilità che appartengono ai requisiti essenziali del disegno e del colore” Pablo Picasso. Il termine cubismo venne coniato nel settembre del 1908 dal pittore Henri Matisse e del critico d’arte Louis Vauxcelles nel commentare un quadro di Georges Braque in cui vi erano dei “piccoli cubi”. Si tratta della principale corrente artistica del Novecento che vede proprio in Picasso e in Braque gli iniziatori del movimento, attraverso opere come Les demoiselles d’Avignon (Picasso, 1907) e Grande nudo (Braque, 1908). Il cubismo scardina per sempre la rappresentazione realistica in pittura, proponendo l’astrattismo e la tridimensionalità come strumenti per la raffigurazione di oggetti, paesaggi e persone. 298 Exchange Laika (1954 – 3 novembre 1957) è uno dei nomi con cui è nota il cane femmina che fu imbarcata a bordo della capsula spaziale sovietica Sputnik 2, la prima sonda con a bordo un essere vivente. Per le missioni Sputnik si selezionarono in tutto tre cani: Albina, Muschka e Laika. Tutte e tre le cagnette furono sottoposte ad un allenamento intensivo che venne diretto da Oleg Gazenko, colui che aveva scelto Laika come la predestinata al primo volo spaziale e responsabile del programma. Il 3 novembre 1957 alle 2:30 lo Sputnik 2 venne lanciato dal Cosmodromo di Bajkonur in Kazakistan. Il satellite rientrò in atmosfera cinque mesi più tardi il 14 aprile 1958 dopo aver compiuto 2570 giri intorno alla terra. Lo Sputnik 2 andò completamente distrutto durante il rientro. 299 Primo sangue Il 22 marzo 1848, dopo cinque giorni di guerriglia urbana, la popolazione milanese, imbelle, inerme e mal organizzata, riuscì a mettere in fuga un’armata di ventimila soldati di guarnigione perfettamente addestrati. Era il migliore esercito del mondo, guidato dal maresciallo Radetzky, un uomo invincibile che aveva trascorso gli ultimi sessant’anni a sedare rivolte in tutta Europa. Come quest’impresa fu possibile, è un’altra storia. Questa, invece, è la storia di come fu innescata la ribellione. 300 La Spilla Il dieci giugno 1963, il presidente John F. Kennedy firmò una legge federale volta a garantire la parità di retribuzione di donne e uomini svolgenti lo stesso lavoro per il medesimo datore di lavoro. L’Equal Pay Act fù una delle prime leggi antidiscriminazione che hanno affrontato le differenze salariali basate sul genere. È stato il primo in una serie di importanti passi che hanno avuto un profondo effetto sulle opportunità di lavoro e di guadagno per le donne nel corso dell ultimo mezzo secolo, e gettato le basi per il movimento femminile come mai prima di allora. Dal passaggio del Equal Pay Act, diverse generazioni di donne hanno trasformato le nostre sedi di lavoro e, di conseguenza, la nostra economia. Si sono integrate in molti settori, in precedenza esclusivamente maschili, raggiungendo i massimi livelli in molti campi, diventando un’importante fonte generatrice di occupazione, imprenditorialità e innovazione. Cinquant’anni fa, dopo vari tentativi, e molto dibattere, il Congresso e il presidente hanno riconosciuto l’Equal Pay Act come primo passo per affrontare la discriminazione di genere che ostacolava la capacità delle donne di raggiungere la parità sul posto di lavoro, ma molto resta ancora da fare. https://www.whitehouse.gov 301