A 24 ore dalla RIVOLUZIONE

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A 24 ore dalla RIVOLUZIONE
di Nome cognome
Titolo originale dell’opera:
A 24 ore dalla RIVOLUZIONE
MACCHINA DEI SOGNI
Associazione Culturale Cinema&Scrittura è un motore
alimentato dal propellente della creatività e messo
in moto dalla comunità solidale di tutti gli ingegni
impazienti. Genera conoscenza, connessioni, incontri,
alimenta passioni, traduce sogni in scintille e non
danneggia l’ozono.
www.macchinadeisogni.org [email protected]
COLLANA
LIBRI della MACCHINA DEI SOGNI Volume 19
© 2016 by MACCHINA DEI SOGNI Corso NARRATORI DI STORIE
Edizione 2016
Condotto da Chicca Profumo EDIZIONI AUTOPRODOTTE
Traduzioni previste in tutte le lingue richieste
Progetto MACCHINA DEI SOGNI
Artwork copertina: Alice Gaffo e Cristina Pierri
Illustrazioni: Cristina Laghezza
Coordinamento del progetto: Chicca Profumo
Impaginazione ebook: Alice Gaffo
Caporedattore: Manuela Montanari
Redattori: Angela Puchetti, Elena Ghielmi, Giovanni Sanicola
Reparto social: Agostino Bertolino e Debora Michelini
I
di Nome cognome
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Indice
Prologo
6
Guida alla lettura
9
1972
La rivoluzione: L’uscita del primo film porno
Debora Michelini
10
L’impronta di Colin Pitchfork
La rivoluzione: L’utilizzo del DNA come prova
Angela Puchetti
55
Voi non siete comunisti!
La rivoluzione: La caduta del Muro di Berlino
Manuela Montanari
69
Ma il nonno dov’è?
La rivoluzione: Il Frigorifero
Elena Ghielmi
105
III
Non resta che fumo
La rivoluzione: La congiura delle polveri
Alice Gaffo
132
Dentro lo sguardo:
Cronaca di una (meta)rivoluzione cubista
La rivoluzione: Il cubismo
Giovanni Sanicola
167
Exchange
La rivoluzione: Il primo essere vivente nello
spazio
Cristina Perri
191
Primo sangue
La rivoluzione: Le cinque giornate di Milano
Agostino Bertolino
215
La Spilla
La rivoluzione: La carta della pari retribuzione
(Equal Pay Act)
Cristina Laghezza
235
Note storiche
291
IV
Prologo
Com’è cominciata...
Ce ne stavano tranquilli in attesa dell’inizio di una nuova
lezione del nostro corso di Narratori di Storie della
Macchina dei sogni. Fu allora che la nostra docente,
Chicca Profumo, dal suo sgabello al centro della sala
ci comunicò raggiante di aver individuato il tema per
l’e-book con i nostri racconti.
Echeggiarono, allora, per la prima volta le parole che poi
ci hanno praticamente ossessionato per circa quattro
mesi: “A ventiquattro ore dalla Rivoluzione”. Per alcuni,
lunghi secondi, calò uno stupore muto, un silenzio
insolito. Un panico in germoglio.
Avevamo già affrontato richieste particolari, come
l’obbligo di inserire in una nostra storia la comparsa dei
dinosauri – come fosse una cosa del tutto normale - ma
non eravamo ancora vaccinati.
Piombati in un territorio nuovo, ci arrampicammo sulle
6
domande. A poco a poco la nuvola dei nostri dubbi si
diradò, lasciando emergere la vera essenza di quell’idea
dalle infinite possibilità.
Dovevamo parlare di rivoluzioni, anzi delle ventiquattro
ore precedenti una rivoluzione. Potevamo scegliere tra
rivoluzioni storiche, rivoluzioni filosofiche, rivoluzioni
entrate nel nostro quotidiano. Doveva trattarsi, però,
di una rivoluzione vera e propria. Cominciò così il toto
rivoluzione.
Furono prese in esame decine di rivoluzioni, vere o
presunte. Ognuno arrivò con delle liste. Qualcuno,
forse per pudore, scartò la rivoluzione della pillola
anticoncezionale. Un altro rifiutò quella della minigonna
di Mary Quant. Serpeggiò il sospetto, poi fondato, che
non la trovasse abbastanza intellettuale.
Ci fu anche chi sembrava non aspettare altro: la
rivoluzione ce l’aveva già pronta in testa. La maggior
parte di noi, però, ne depennò diverse, autentiche o
presunte tali, per arrivare finalmente alla buona causa
che troverete in questo e-book.
Detto questo, sappiamo tutti che ci sono state delle
rivoluzioni. Ma cosa successe ventiquattro ore prima
dell’uscita del film “Gola profonda”, pioniere del cinema
porno? Cosa accadde nelle ore precedenti l’arresto del
primo omicida incastrato grazie al test del DNA?
7
Cosa capitò nella giornata antecedente il crollo del
muro di Berlino? Come sono state le ultime ore di quel
cane, primo essere vivente sparato nello spazio, fuori
dall’orbita terrestre?
E ancora cosa guidò la lama che versò il primo sangue
che diede il via alle Cinque Giornate di Milano? Quali
furono, invece, i preparativi di una famiglia italiana per
accogliere il suo primo frigorifero?
O cosa portò una donna a reclamare un salario equo
negli Usa? Come andarono veramente le cose che
intralciarono la Rivoluzione delle Polveri in Inghilterra?
E quella del Cubismo?
Per vivere tutta l’emozione di un evento straordinario, a
volte anche mancato o addirittura raccontare rivoluzioni
che non sono riuscite a rivoluzionare un bel niente,
ricordate che siamo partiti, come dicevamo, dal giorno
prima.
8
Guida alla lettura
Ogni lettore è diverso e, probabilmente, alcuni
troveranno più stuzzicanti le rivoluzioni un po’
controverse, che hanno fatto scandalo. Altri preferiranno
le storie in cui si resta con il fiato sospeso fino alla fine.
Qualcun altro, invece, amerà calarsi in rivoluzioni
più note, ma osservate da un punto di vista del tutto
inaspettato.
Alla fine del libro troverete brevi note storiche sui fatti
veramente accaduti legati a ciascuna rivoluzione. Potete
leggerle prima di lasciarvi coinvolgere dai racconti o
anche dopo, per approfondire il quadro.
Alla termine di ogni racconto, non mancherà una breve
autobiografia pseudo-reale dell’Autore, con tanto di mail
per i contatti. Scriveteci – se volete - ci farebbe piacere
sapere cosa ne pensate.
Non resta che ringraziarvi per averci seguito fin qui e
buona lettura!
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1972
La rivoluzione: Il primo film porno
di Debora Michelini
Grida telefoni che squillavano odore di caffè
tasti pigiati fumo di sigarette eccitazione
sedie spostate con violenza imprecazioni fogli
accartocciati rabbia
Nel caos della redazione il direttore fissava in
fondo alla sala una ragazza. Sembrava uscita
da una copertina di Rolling Stone, perfetta
groupie dalle alte zeppe colorate di qualche
cantante rock. Un ciclone, alto un metro e
settanta di camicette svolazzanti e pantaloni a
zampa. Creava più guai lei, che la maggior parte
dei suoi giornalisti e il suo lavoro consisteva
nel rispondere alla rubrica ‘La posta del cuore
di Maude’; per quale perverso motivo poi un
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| 1972 |
quotidiano dovesse avere una posta del cuore
era un mistero.
Tutti pensavano fossero amanti, ma lui quella
ragazzina la conosceva fin da piccola. Si
ricordava ancora il loro primo incontro. Aveva
sentito bussare e davanti la porta si era trovato
un soldo di cacio dagli occhioni lucidi, una coda
di cavallo, una borsetta rosa e un cane. Non vi
furono bisogno di parole, le grida provenienti
dalla finestra dall’altra parte dello steccato
erano sufficienti.
Li aveva scelti. In una marea di facce bianche,
Constance, aveva scelto l’unica coppia di
colore del quartiere. Era sempre andata
controcorrente, con quella naturalezza che
solo i veri ribelli hanno.
L’imprecazione di un fattorino lo fece trasalire,
riportandolo al presente. La bionda figura china
sulla macchina da scrivere stava piangendo.
La scrivania, un campo di battaglia: fazzoletti di
carta bibite zuccherate barrette di cioccolata.
Scriveva e piangeva. Piangeva e scriveva.
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| 1972 |
Il motivo di quel pianto poteva avere un
centinaio di possibilità, da un gattino che si
era perso al contenuto della lettera a cui stava
rispondendo, passando per l’ennesimo uomo
senza spina dorsale che aveva fatto entrare
nella sua vita. Non li cercava con il lanternino
ma con il fiammifero. Attirava sempre quello
sbagliato, o più probabilmente erano loro ad
essere attirati dall’innocenza che era riuscita
a salvare, nonostante la vita si fosse accanita
su di lei, come un machete su un cocomero.
L’ultimo ‘fidanzato’ inginocchiandosi le aveva
messo un anello al dito. Qualche settimana
dopo, le aveva confessato una convivenza ben
avviata dall’altra parte della città. Dulcis in
fundo rivoleva indietro l’anello, perché stava
per diventare padre e gli servivano soldi.
Si accese l’ennesima sigaretta. Ormai aveva
smesso di contarle. Doveva prendere una
decisione. Le aveva già affidato altri incarichi,
ma non sempre erano andati a buon fine, come
quella volta del funerale. L’aveva mandata
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| 1972 |
alla veglia di un divo del muto, era ritornata
senza articolo e in lacrime. Aveva sbagliato
cerimonia. Accorgendosene troppo tardi
per andarsene. Rimasta fino alla fine, aveva
riaccompagnato i genitori del ragazzo a casa,
raccontando durante il tragitto, falsi aneddoti
per tirargli su il morale.
I giornalisti migliori erano tutti occupati. La
città era in fermento: la rielezione di Nixon, la
guerra in Vietnam, il divorzio, l’aborto, omicidi
e ingiustizie. In ogni angolo di strada vi era
una storia da raccontare.
New York era
una polveriera sempre pronta ad esplodere
e loro dovevano mettere il
sedere su
quella polveriera, era questo il mestiere del
giornalista.
Una sirena di passaggio lo catapultò agli
attentati avvenuti una ventina d’anni prima,
quando le bombe scoppiavano e lui, incurante
del pericolo, correva verso il luogo da cui tutti
scappavano, correva verso la notizia.
La notizia in quel caldo giugno del 1972 era la
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| 1972 |
prima di un film al New Mature World Theatre
di Times Square. Poteva assegnare il lavoro ad
uno dei giornalisti rimasti, ma solo lei aveva le
giuste qualità per quell’articolo.
Ne era certo il professionista con anni di
esperienza alle spalle e il padre orgoglioso che
era diventato applaudendo ogni suo successo
mentre quello biologico era troppo occupato a
non morire soffocato dal proprio vomito.
Sospirò. Non aveva altro tempo da perdere.
Si alzò e si diresse verso il fondo della sala.
Constance alzando lo sguardo, vide Duke
dirigersi verso la sua scrivania. L’espressione
del viso non prometteva niente di buono. Tirò
su col naso, diede un morso alla cioccolata
e ripensò alla sera precedente con Scott, il
suo ennesimo ‘ex ragazzo’, che con lo stesso
tono monocorde che usava per ordinare un
Martini le diceva che fra loro non funzionava.
Incompatibilità di carattere. Preferiva tornare
dalla moglie e dalla figlia. “Quale moglie
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| 1972 |
e quale figlia?” Aveva chiesto. Tre mesi di
relazione e mai un accenno sull’essere un
uomo sposato con tanto di prole. Per tutta
risposta si era sentita dire, che avrebbe potuto
chiedere. Certo, uno può dimenticarsi di dire
alla sua ragazza di avere una famiglia.
“Constance, ti posso disturbare?” la voce del
direttore interruppe i suoi pensieri.
“Ho fatto qualcosa di male?” disse cominciando
a mordersi le unghie “Se ho fatto qualcosa di
male dimmelo, non era mia intenzione, lo sai.
È venuto di nuovo qualche marito arrabbiato?
Perché se è così cerchiamo di capire, alla fine
ho ragione io, si comportano male, non puoi
darmi torto………”.
Constance era un fiume di parole in piena. Le
capitava ogni volta che s’innervosiva. Duke la
conosceva da sempre. Lui, la moglie Ella e i
figli erano diventati la sua famiglia. Quando le
urla superavano la musica si rifugiava da loro.
Il padre, un poliziotto di origine italiana, era un
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| 1972 |
po’ troppo manesco con la madre: una donna
fragile e indifesa che non avrebbe fatto male a
una mosca, troppo giovane per crescere una
figlia, troppo debole per ribellarsi.
“Constance, calmati. Non hai fatto niente di
sbagliato. Ho bisogno di te, tutto qui”
“Sei nei guai?” chiese la ragazza visibilmente
preoccupata.
“Si, no. Ascoltami, è per un articolo. Sarò
sincero, ho avuto molti dubbi prima di
sceglierti”
“Quanti complimenti”
“Constance, smettila.
Ti faccio sempre
un sacco di complimenti per il tuo modo
di scrivere e non solo, ma sull’affidabilità…
diciamo che ti perdi un po’”
“Non lo faccio apposta”
“Lo so. Ora ascoltami però, non abbiamo molto
tempo” le rispose poggiandole una mano sul
braccio.
“Ti voglio dare un incarico. Ma prima smetti
di piangere. Lo sai che non posso vederti in
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| 1972 |
questo stato” e le passò un fazzoletto di carta.
“Finalmente. Fammi fare qualcosa, fammi
uscire da questo posto.
Ho bisogno di
distrarmi. Te lo assicuro, non ti deluderò.”
Duke sospirò.
“Vorrei che fossi tu a scrivere l’articolo su Gola
Profonda”
Constance alzò un sopracciglio e chiese: “Il film
porno?”
Dalla finestra del suo ufficio l’uomo la vide
prendere un taxi. Aveva accettato. Sapeva che
non avrebbe mai detto di no, la sua ‘ragazza’
amava le avventure e odiava i rimpianti.
Era raggiante. Sarebbe stato il suo primo
articolo firmato. Il Time e sicuramente il New
York Times sarebbero stati presenti; forse
Vogue… No, Vogue era troppo bon ton per
occuparsi di quel genere di pellicole ma Vanity
Fair…
Doveva calmarsi, prima di sognare ad occhi
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| 1972 |
aperti sul suo futuro come penna di punta di un
giornale a tiratura nazionale, avrebbe dovuto
risolvere l’annosa questione del vestiario: come
ci si vestiva o svestiva per andare al party in
onore di un film porno?
Penna e taccuino. Sandali e pochette. Tutina
verde e schiena nuda. Aveva fatto il suo
ingresso alla festa.
Inizialmente guardata con curiosità e sospetto,
era riuscita a guadagnarsi la fiducia di quelli
che aveva avvicinato, scoprendo che attori e
attrici, in quel mestiere, non vedevano solo il
guadagno ‘facile’; per loro girare film porno
era una forma di ribellione contro i canoni di
una società bigotta e repressiva. Moderni eroi
olimpionici nudi ed ansimanti.
Il mondo del porno, però era tutto tranne che
libero: dominato dalla mafia che pagava i conti
e si aspettava guadagni veloci; perseguitato
dalla polizia, stigmatizzato dai benpensanti. Lei
non capiva quell’accanimento. Non facevano
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| 1972 |
male a nessuno.
Alcuni membri della troupe di Gola Profonda le
avevano riferito interrogatori infiniti da parte
della FBI. Narrava leggenda metropolitana,
che negli uffici del vecchio J. Edgar Hoover,
ormai passato a miglior vita, vi fosse un dossier
di 5000 pagine d’indagini dedicato al film.
Il Bureau aveva fatto di tutto per fermarne
l’uscita facendo sequestrare più volte le copie
dei nastri. Tutto quel trambusto non aveva fatto
altro che aumentarne la popolarità.
Cercò invano la coprotagonista del film: Dolly
Sharp, splendida quarantenne proveniente dal
Texas. La donna, finite le riprese era scomparsa
e nessuno sapeva molto su di lei.
La sua nuova ‘amica’ Zoe, inguainata in un
luccicante abito rosso, il cui nome in origine
era Hugo, l’aveva conosciuta. Sfuggente, era
la parola che le era subito venuta in mente
per descrivergliela, come quelle persone
che non rimanevano mai in un posto troppo
a lungo. Di poche parole, elegante e forbita,
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| 1972 |
Dolly,
sembrava capitata lì per caso. In
molti credevano fosse la moglie annoiata di
un miliardario, che si era divertita a provare
un’esperienza nuova.
Ammesso e non concesso che fosse vero,
Constance si chiedeva se la motivazione
fosse da ricercarsi nella noia o nella fame di
esperienza. La teoria della benestante in cerca
di divertimento era solo una delle svariate
storie che giravano sulla misteriosa signora.
L’ambiente pornografico assomigliava a un
grande condominio dove nessuno si faceva gli
affari propri e ognuno pensava di sapere tutto
di tutti.
Un cameriere che distribuiva un frizzante
liquido dorato le passò accanto, Constance
chiuse il taccuino soddisfatta e si diresse
verso l’uomo. Senza sapere come, si ritrovò lo
champagne e lo sguardo divertito di un ragazzo
addosso.
“Scusa, non volevo, ovvio che non volevo non
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| 1972 |
ti conosco neppure, mi spiace” aveva esordito
mentre tentava con le mani di asciugare i
pantaloni del giovane.
“A posto, è tutto a posto. Grazie faccio da solo”
le aveva risposto lo sconosciuto tentando di
fermarla.
“Scusa, scusa ancora”
“Rilassati, nessun problema. Piuttosto, dato
che io non ho più da bere e da quello che
avevo notato prima che avessimo, come dire,
il nostro incontro, ti stavi dirigendo verso
lo champagne… direi che possiamo andare
assieme a recuperarne un po’. Posso darti del
tu o ti offendi? Io mi chiamo Wes Craven” le
disse porgendole la mano.
Chiacchierando con Wes aveva scoperto che
l’ambiente pornografico dava lavoro a molti
studenti di cinema: manovalanza a basso costo
per i produttori, possibilità di farsi le ossa per i
ragazzi.
Appena la stanza avesse smesso di girare
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| 1972 |
sarebbe scesa dal letto e avrebbe chiamato
Duke. Il trillo del telefono la fece sobbalzare.
“Pronto? Constance? Tutto bene? Sei andata
alla festa giusta? Constance, rispondi prima
che Ella mi uccida, si è arrabbiata tantissimo
quando ha saputo dove ti avevo mandato.
Constance?” la voce dall’altra parte del
telefono era preoccupata.
“Duke potresti non gridare per favore? Ho la
testa che mi esplode. Ho bevuto un po’ troppo.”
“Come sarebbe a dire che hai bevuto un po’
troppo?”
“Mi passi Ella, per favore? Ho conosciuto un
ragazzo. Pare un tipo a posto.”
“Constance” aveva detto, non prima di tirare
un lungo sospiro per calmarsi “Constance,
hai incontrato un uomo? Constance, incontri
sempre degli uomini… Non è molto difficile
per te. Il problema è che non sono delle brave
persone. Ne abbiamo già parlato, mi sembra
di farti gli stessi discorsi di quando eri piccola.
Il fatto che una persona sembri una brava
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| 1972 |
persona non è detto che lo sia. Poi, prima di
definire bravo ragazzo uno che partecipa ad un
party organizzato per l’uscita di un film porno
ne ha di acqua da passare sotto i ponti. Ti ho
mandato a fare interviste non a conoscere
ragazzi”.
In sottofondo la voce risoluta di Ella diceva di
lasciare in pace la ragazza, l’aveva mandata in
un posto pericoloso, pieno di mafiosi; poteva
accaderle di tutto e aveva pure il coraggio di
sgridarla e poi non si giudica un regalo dal
pacchetto, il ragazzo poteva essere una bella
persona.
Duke alzò gli occhi al cielo, quella donna
riusciva sempre a fregarlo.
“Constance, ti sei segnata tutto?” le chiese
prima di salutarla “Non per essere pedante,
ma non vorrei che finisse come quella volta
del funerale. Mi raccomando, devi essere
precisa, non lasciare dubbi, non essere
approssimativa.”
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| 1972 |
A volte si sentiva un allenatore di pugilato
piuttosto che il direttore di un giornale ma
doveva ammetterlo, la signorina aveva tempra,
nonostante le ore piccole e l’alcool, aveva
buttato giù delle ottime idee. Dell’ubriacatura
ne avrebbero riparlato ad articolo mandato in
rotatoria.
Letto pavimento latte biscotti succo d’arancia
doccia acqua fredda energia
Aveva spalancato l’armadio alla ricerca di un
vestiario appropriato per intervistare il regista
e gli attori principali: voleva essere presa sul
serio.
Vestito nero scarpe basse chignon eleganza
professionalità sospiro mano taccuino
campanello
La porta si aprì e un omino uscito da un
racconto di fate senza farla parlare la trascinò
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| 1972 |
attraverso un corridoio pieno di camere in
cui non sapeva dove guardare, anzi dove non
guardare, in ogni stanza corpi nudi e sudati.
Aveva tentato in ogni modo di spiegargli che
non era una debuttante del porno. L’uomo
non l’ascoltava, continuava a dirle di non
preoccuparsi, che non sarebbe successo
niente, che sarebbe andato tutto bene, che
la sua era una piccola parte, che non doveva
fare praticamente nulla. Gli aveva ribadito il
concetto: NON ERA UNA DEBUTTANTE DEL
PORNO. L’unica cosa che riuscì ad ottenere
fu: “Meglio, così sai già cosa fare. Spogliati e
mettiti questi”.
Non osava chiedersi come avessero potuto
scambiarla per un’attrice porno; non aveva
esattamente il cosiddetto physique du rôle,
ma ormai era lì, perché no? Poteva essere
un’esperienza interessante.
Entrò silenziosamente nella camera dove
Harry Streichner stava dando generosamente
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| 1972 |
“tutto sé stesso”, come suggerito dal regista, a
una donna dai capelli scuri.
Nell’attesa, Constance aveva imparato a
memoria ogni venatura del lampadario al
centro della stanza, per quel giorno aveva già
visto abbastanza.
La sera precedente una prosperosa bionda
dai capelli ossigenati le aveva descritto
minuziosamente le doti dei paesi bassi di
Harry. Da quello che si diceva, l’attore appena
sentiva il rumore della macchina da presa
aveva un’erezione, cosa che gli aveva permesso
di prendere parte a decine di pellicole a luci
rosse clandestine.
Un bell’uomo, dai profondi occhi scuri e dalle
mascelle ben disegnate, figlio di ebrei del
Bronx, aveva servito per un breve periodo il
paese facendo parte della Marina degli Stati
Uniti. Attore di film porno dopo aver tentato
la strada dei teatri off-Broadway con scarso
successo. Nel ruolo del dottore che scopre il
motivo del mancato orgasmo di Linda Lovelace
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| 1972 |
era approdato per caso, sembrava che nessuno
fosse adatto al ruolo, poi il regista lo vide e lui
da semplice figurante divenne protagonista. Le
riprese durarono sei giorni. Lui lavorò per uno
incassando duecentocinquanta dollari.
Mentre parlava Constance, si domandava cosa
provasse realmente per come si guadagnava
da vivere.
“Signor Streichner, lei è stato un attore di
teatro, come si sente a recitare in un film
porno?”
Vide una strana espressione sul suo viso,
Constance si chiese se avrebbe parlato l’uomo
o la maschera.
“So che non dovrei rispondere con una
domanda ad una domanda ma vorrei sapere
perché me lo chiede, lo ritiene un fallimento?”
“No” aveva risposto Constance “È un
fallimento solo se lei lo ritiene tale, io voglio
solo capire”
Prima di risponderle l’aveva fissata per un lasso
di tempo indefinito.
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| 1972 |
“Denaro. Senza soldi non mangi e se non mangi
muori. Per sopravvivere a questo mondo devi
in qualche modo perdere una parte di te stesso.
Puoi sentirti il miglior attore del mondo ma se
non riempi le casse al botteghino nessuno ti
prende sul serio, nessuno ti considera”
Rimasero per un po’ in silenzio persi nella
risposta che aleggiava nell’aria. Il tramestio
nella stanza a fianco ridestò entrambi. Un uomo
fece capolino dicendo che il set era pronto.
Harry le chiese se aveva altre domande.
“Una. Come descriverebbe in un aggettivo
Linda?”
“Dolce, una ragazza dolce” fu la risposta.
L’autobus sfrecciava veloce. Nella testa di
Constance la lunga lista con cui aveva spesso
sentito definire chi lavorava nell’industria
pornografica: pervertiti, spregiudicati, amorali
per citarne alcuni ma lei percepiva qualcosa
di simile al dolore; il mondo del porno come
approdo di anime alla deriva, il cui rifugio
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| 1972 |
non poteva essere nella caritatevole società
americana ma in un luogo parallelo in cui
trovare anime gemelle fatte delle stesse
cicatrici.
In metropolitana Constance decise che
avrebbe riferito con calma a Duke di aver preso
parte a un porno “vestita” da schiava dell’antico
Egitto, sventolando gli attori con un gigantesco
ventaglio fatto di piume rosa mentre loro………
sì, sarebbe stato meglio parlargliene il giorno
dopo alla presenza di Ella e dei ragazzi, era già
abbastanza irritabile.
Gerard Damiano, il regista. Uomo particolare.
Sorriso sincero, parlantina veloce, curiosa
capigliatura bicolore. Chissà se il giovane
Damiano, lustrascarpe a Times Square,
avrebbe mai immaginato che anni dopo in
quello stesso luogo le persone avrebbero fatto
la fila per vedere il parto della sua fantasia.
Gerard in arte Jerry Gerard gestiva un negozio
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| 1972 |
di parrucchiere con la moglie; ascoltando
le confidenze delle clienti aveva capito che
il
mondo femminile nascondeva grandi
insoddisfazioni sia dentro che fuori la vita
coniugale. Il caso volle che un suo dipendente
collaborasse al trucco e parrucco in un film per
adulti, ne rimase folgorato. Quello che aveva
sentito nel negozio lo aveva ispirato per la
sceneggiatura. La sua missione: sdoganare il
cinema a luci rosse elevandolo ad arte.
Gola Profonda era la sua creatura, ne aveva
curato regia, sceneggiatura e montaggio;
aveva cambiato i nomi degli attori: Harry
Streichner era diventato Harry Reems,
l’uomo non lo sapeva ancora ma lo avrebbe
scoperto di lì a poco e Linda Susan Boreman
era diventata Linda Lovelace, convinto che la
doppia consonante fosse un marchio da sex
simbol.
Linda era stata scelta dopo che Chuck Traynor,
il marito, si era presentato da lui e dai
produttori dicendo che la moglie sapeva fare
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una cosa con la bocca ed era davvero brava, il
tutto comprovato da un filmino. Ne rimasero
affascinati, come lo furono di Linda, che Gerard
definì una bella persona.
Non aveva molta fame, non vedeva l’ora di
intervistare la protagonista. Nonostante tutte
le informazioni raccolte non era ancora riuscita
a farsi un’opinione su di lei, iniziava a farsene
una sulle aspettative che si erano create
attorno al film. Ogni epoca era ossessionata da
qualcosa, la sua: dal sesso. Farlo, non farlo, farlo
poco o troppo, farlo solo per piacere, farlo a
pagamento, farlo per riprodursi. Tutto ruotava
attorno al sesso e come se non bastasse il
film era incentrato sull’orgasmo femminile, ai
più sconosciuto come aveva avuto modo di
apprendere grazie alla ‘posta del cuore’.
“Posso accendere il registratore? Le scoccia?”
aveva domandato Constance.
“No, no nessun problema, sono abituata
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a farmi registrare” aveva risposto Linda
accompagnando il tutto con una risata.
“So che questo non è il suo primo film porno.
Vorrei sapere però come è stata scelta per
Gola profonda”
“Diretta alla meta. Brava. Chuck è conosciuto
nell’ambiente e mi ha proposto ai produttori e
al regista del film”
“Chuck è suo marito, giusto?”
“Si”
“Non è geloso?”
“Si tantissimo, ma quando recito è diverso.
Poi in questo modo aiuto il budget familiare.
Siamo una giovane coppia e solo con il lavoro
di Chuck…”
Chuck Traynor come per magia fece il
suo ingresso. Non riusciva a catalogare
quell’uomo. Voci insistenti lo definivano un
tipo manesco. Una ragazza, la sera precedente,
le aveva riferito di aver partecipato a una
delle feste di fine giornata che si svolgevano a
Miami durante la lavorazione di Gola Profonda
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e dalla stanza dei Traynor provenivano rumori
che tutto facevano presupporre tranne che
al suo interno stesse avvenendo qualcosa di
piacevole.
“Linda suo padre è poliziotto, sua madre
casalinga, come hanno preso la sua
partecipazione al film?”
La donna si oscurò in volto e sospirò.
“Mia madre è sempre stata molto severa.
Secondo lei le donne sono fatte per stare in
casa e assecondare i mariti. È una fervente
cattolica. Non ha preso proprio per niente
bene il film. Ma purtroppo non è la prima volta
che la deludo”
“In che senso? Se posso permettermi di
chiedere”
“A vent’anni feci uno sbaglio, un madornale
sbaglio. Tipico di quando sei una ragazzina
ingenua. Rimasi incinta e diedi in adozione il
bambino. I mesi seguenti furono tremendi, mi
controllava sempre, cosa che non mi impedì di
avere un bruttissimo incidente stradale per il
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quale dovetti far ricorso a delle trasfusioni”
“Fu in quel periodo, se non sbaglio che
incontrò suo marito”
“Si, e mi cambiò la vita, pensi che mi fece
smettere di fumare con l’ipnosi”
“L’ipnosi, sì sì”
Constance sperava che dalla sua faccia non
trapelasse quello che pensava. Sentiva che
qualcosa non andava in quello che l’attrice
diceva. Non vi era falsità, ma qualcosa non
quadrava. Quella donna sembrava essere
sempre sotto controllo. Prima dalla famiglia
poi dal marito. Avrebbe voluto chiederle se era
vero che l’aveva sposata in modo da impedirle
di testimoniare in merito ai suoi traffici che
nell’ambiente si mormorasse fossero poco
leciti. Avrebbe voluto chiederle se era vero che
avevano dovuto allontanare il marito dal set
per permetterle di essere più sciolta.
“Di cosa si occupa suo marito esattamente?”
“Di me fondamentalmente, è il mio manager.
Ma ha ottime conoscenze pure nel settore
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dell’intrattenimento”
Constance era un po’ dubbiosa sulla
definizione di intrattenimento riguardo a
quello che aveva sentito dire di Chuck ma non
aveva tempo per indagare ulteriormente…
Spento il registratore, ringraziato tutti, si era
avviata verso la porta. Linda l’aveva seguita
sulla soglia e le aveva chiesto se il mestiere di
giornalista era affascinante come pareva e che
lei le era sembrata una ragazza in gamba.
Tristezza. Quella donna sempre attorniata di
persone emanava un inconsapevole senso
di tristezza, di solitudine, d’incompiutezza.
Maltrattata, non solo nel corpo, ma anche
nella mente.
Si sarebbe aspettata una
spumeggiante ragazza e si era ritrovata davanti
una timida donna che invece di cavalcarla
la vita la subiva. Sembrava che ogni scelta
che aveva fatto fosse stata in qualche modo
veicolata dagli altri. Come se lei non riuscisse a
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prendersi le sue responsabilità. Sembrava non
sentirsi mai all’altezza, quando le aveva risposto
che per ora era poco più di uno scribacchino
e che avrebbe potuto fare pure lei lo stesso
mestiere. La donna aveva risposto che non ne
sarebbe stata all’altezza. Prima che Constance
potesse dirle che se voleva poteva essere tutto
quello che desiderava, il marito aveva chiamato
Linda troncando la conversazione.
Porta chiavi vestiti barrette di cioccolata
aranciata gelato doccia succo di frutta divano
Sdraiata
con
i
capelli
gocciolanti,
sbocconcellando un biscotto tentava di
liberare la mente per prepararsi alla proiezione
del film.
Prima di conoscerlo immaginava il mondo del
porno come una colorata carovana circense.
Ora, la sua percezione era cambiata. Lo vedeva
come un battaglione di soldati mandati in
guerra per far soldi e come in tutte le guerre
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venivano già messe in conto le possibili perdite
sul campo. Gli attori come soldati: unità,
numeri. Facilmente sostituibili.
Mentre era tutt’uno con l’armadio alla ricerca
di qualcosa da mettersi, il telefono cominciò a
trillare, era Duke.
Doveva sbrigarsi, la fila aveva raggiunto
un isolato e lei rischiava di non entrare.
Cominciava a essere eccitata. La stampa
sarebbe stata presente e improvvisamene
penso: Oh mio Dio, io sono la stampa.
Pantaloni a zampa zeppe canotta borsa penne
taccuini barrette di cioccolata caramelle
gomma da masticare succhi di frutta porta
chiavi metropolitana
Un guasto al convoglio. Doveva percorrere a
piedi l’ultimo tratto. Conosceva New York,
temeva ogni tipo di sorpresa.
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Uscita dalla metro una suora che sembrava
sotto l’effetto di qualche acido l’aveva afferrata
e sbattuta a terra al grido di: “Dio salvaci da
nostri peccati”. Attorno uomini e donne di ogni
età pregavano inginocchiati e rispondevano
ad ogni sproloquio della donna con grida di
giubilo. Aveva tentato di rialzarsi ma era stata
sbattuta nuovamente sulla banchina. Alzando
gli occhi al cielo, aveva fatto un respiro profondo
e finto di pregare. Ebbe la sua occasione di
fuga quando la religiosa accompagnata da
una chitarra, si era messa a cantare seguita
dal gruppo alzatosi in un cerchio ballerino.
Allontanatasi abbastanza aveva afferrato la
Polaroid che all’ultimo momento aveva deciso
di portare con sé e scattato qualche foto.
Forse pregare l’aveva salvata dalla polizia a
cavallo che stava caricando dei manifestanti
favorevoli alla legge sull’aborto. New York,
non riposava mai, nemmeno d’estate aveva
pensato. A conferma di ciò, un camioncino
dei pompieri a sirene spiegate l’aveva quasi
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travolta facendola finire addosso ad una donna
che distribuiva volantini per la rielezione di
Nixon; dietro di loro aveva luogo un piccolo
comizio.
Mancava poco, sarebbe arrivata al Mature, si
sarebbe messa in fila e avrebbe ottenuto il suo
biglietto. Non voleva pensare al riflesso della
sua immagine nello specchio di una vetrina,
persino i manichini sembravano scioccati dal
suo aspetto.
Capelli scarmigliati, vestiti sporchi, per non
parlare del fatto che si sentiva appiccicosa
come un lecca lecca e girato l’angolo: una fila
infinita di persone fra lei e il botteghino.
Aveva scattato istintivamente qualche foto
alla lunghissima coda fatta di persone di ogni
età, ceto e razza. Se aspettava il proprio turno
non sarebbe riuscita a ottenere il biglietto. Poi
vide una giovane donna e le venne un’idea.
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Aveva dovuto lottare con una femminista che
manifestava davanti alla biglietteria contro la
mercificazione del corpo della donna e non
era del tutto orgogliosa di quello che aveva
fatto, ma in fondo in amore e in guerra tutto è
permesso e lei amava il suo lavoro. Si diresse
verso una tavola calda per chiamare Duke.
Foto borsa chiavi cioccolata polaroid penne
foto rossetto gomma da masticare taccuini
centesimi foto
Constance e il contenuto della sua borsa erano
a terra, un uomo le stava porgendo la mano e le
chiedeva se si era fatta male. Doveva smetterla
di sbattere addosso alla gente, soprattutto
agli uomini. Ma lei quell’uomo lo conosceva.
Era un fotografo dell’Associated Press, una
delle più importanti agenzie di stampa che lei
conoscesse.
“Stai bene?”
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“Sì, sì grazie”
“Sei qui per la prima del film? Sei giornalista?”
“Ehm…” era un po’ imbarazzata, si sentiva
in soggezione, lui era un fotografo di fama
internazionale e lei nessuno “Sì sono qui per
Gola profonda, come lo ha capito?”
L’uomo rise indicando la borsa.
”Lavoro anch’io per la stampa. Puoi darmi
del tu. Eddie Adams” concluse porgendole la
mano.
“So chi sei. Io mi chiamo Constance…” la sirena
di un’ambulanza coprì le sue parole.
“Ho visto le tue foto, sembrano interessanti,
se vuoi possiamo fare quattro chiacchiere
davanti un caffè, intanto ti lascio il mio biglietto
da visita”
Constance balbettando un ringraziamento,
afferra il prezioso pezzetto di carta.
“Duke, avevo un problema… Ho detto avevo,
non ho… Sì lo so che è interminabile. Ma io ho
il biglietto… Come ho fatto? Mmmh… un uomo
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all’inizio della fila mi ha retto il gioco… eeeh…
beh, diciamo che ho fatto finta di essere sua
moglie e di essere incinta… Pronto, pronto…
Sei ancora lì?”
Continuava a scattare, la macchina fotografica
a nascondere il suo imbarazzo. Non conosceva
nessuno, ma sapeva chi erano molti dei
presenti. Non aveva il coraggio di avvicinarli. Se
le avessero chiesto di cosa si occupava avrebbe
dovuto parlare de ‘La posta di Maude’, che
però ripensandoci era pur sempre un lavoro e
soprattutto attraverso la rubrica aveva aiutato
molte donne a liberarsi di mariti maneschi,
traditori o semplicemente dei buoni a nulla
per i quali tutto era dovuto per il loro status di
maschi. Sì la sua rubrica in fondo era un lavoro
dignitoso.
Le vie del Signore operano in maniera curiosa,
aveva tentato di scansare i colleghi perché non
era pronta a presentarsi come una di loro ed
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era finita col sedersi a fianco dei reporter del
Time e del New York Times.
Sessantun minuti di film.
Orgasmi e carne esposta senza alcuno spazio
per l’immaginazione una sala piena di gente,
due giornalisti maschi ai lati, lei conciata come
uno scarabocchio su un block notes.
Nell’attesa che il film cominciasse tutto quello
che si muoveva in sala veniva impresso sulla
pellicola.
“Ahi” aveva dato una gomitata al giornalista
del New York Times mentre fotografava una
distinta coppia di coniugi pochi metri dietro di
lei.
“Mi scusi, sono costernata, non l’ho fatto
apposta”
“Vorrei ben vedere” le disse sorridendo
l’uomo “Ti siedi un attimo e ti calmi, mi sembri
un po’ troppo nervosa”
“Mi scusi, mi scusi. Io sono Constance…”
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“La “figlioccia” di Duke, lo so, siamo amici di
vecchia data. Avevamo scommesso se riuscivi
a portare a termine questo incarico… sai dopo
quella volta del funerale…”
Constance alzò gli occhi al cielo “Ma siete tutti
fissati con quella storia, è successo una volta
sola”
“Beh, diciamo che ti è successo una volta sola
di finire al funerale sbagliato ma sei entrata
pure nella casa sbagliata per un reportage”
“Siete molto amici vedo. Per curiosità chi ha
puntato su di me?”
“E me lo chiedi. Duke. Ripone molta fiducia in
te”
“Cooonstance…” una vocina appartenente a
un volto dalle lunghe ciglia finte interruppe la
conversazione.
“Hugo, che ci fai qui?”
“Tesoro, chiamami Zoe” rispose dandole un
buffetto e guardando con occhi ammalianti i
giornalisti seduti “se mi chiami Hugo la gente
pensa male. Non potevo perdere la prima. Se
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manco io, manca tutto e poi il mio ‘paparino’
ha tanto insisto per venire” disse accennando
un saluto a un distinto signore dai capelli
bianchi.
Le luci cominciarono ad abbassarsi. Zoe corse
al suo posto.
“Beh, direi che sei molto addentro
all’ambiente” le disse il giornalista del New York
Times sghignazzando prima che si spegnessero
del tutto.
Fissare lo schermo, non guardare da nessuna
parte, scrivere. Aveva già visto roba porno,
non pensava vi fosse niente di strano, ma
non aveva due colleghi che ammirava seduti
di fianco a lei e il numero di persone presenti
erano due lei compresa e non un’intera sala
cinematografica.
Scrivere, ma cosa? Le scene, avrebbe potuto
scrivere le scene salienti, gli snodi… ma quali
snodi?
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Il film cominciava con Dolly a gambe aperte
davanti ad uno sconosciuto che le dava
piacere con la lingua e Linda che sistemava
tranquillamente la spesa come se i due
stessero giocando a ramino.
Mentre la pellicola scorreva sullo schermo,
l’uomo del Times ogni tanto la fissava.
Damiano si era lanciato in una metafora… un
attore beveva dalle beltà di Linda della Coca
Cola invece di vino pregiato: il piacere come
oggetto di largo consumo.
Un’altra metafora: fuochi d’artificio = orgasmo.
Quell’uomo faceva sul serio, le veniva da
ridere ma si trattenne, non voleva attirare
l’attenzione.
Corse alla toilette, non aveva il coraggio
durante l’intervallo di parlare con qualcuno.
Lo stesso problema non sembravano averlo le
persone in fila con lei e quelle presenti in sala.
Un cicaleccio continuo e risatine un po’ troppo
eccitate riempivano l’aria.
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Il film era quasi finito, aveva visto le “doti
artistiche” di Harry Reems, la particolare
bravura di Linda, i colpi di genio di Damiano
e aveva riempito cinque taccuini. Ora doveva
rientrare e scrivere l’articolo.
Mentre usciva dal cinema la raggiunse il
reporter del Time.
“Scusa ti posso fare una domanda? Non mi
guardare male, sono un reporter del Time, ero
seduto vicino a te alla proiezione”
“Ti conosco, ho letto i tuoi articoli. Dimmi”
“Che cosa hai scritto per tutto il tempo?
Perché io non riesco proprio a capire cosa tu
abbia potuto scrivere per sessantun minuti di
quel genere di film!”
Nella redazione il ticchettio delle macchine
da scrivere riempiva l’aria. Ogni scrivania un
piccolo pianeta a sé. Constance attendeva che
Duke arrivasse alla fine dell’articolo. Lo vide
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posare l’ultimo foglio, ma prima che potesse
decifrare le sue emozioni, il telefono squillò.
“Constance mi dispiace per l’articolo” le disse
Steven il figlio maggiore di Ella e Duke.
L’articolo sarebbe andato in stampa l’indomani,
un aereo della American Airlines aveva tenuto
tutti con il fiato sospeso rischiando di cadere
ma i piloti erano riusciti a portare i passeggeri
e l’equipaggio sani e salvi a Detroit. Parte del
carico era caduto, compresa una bara finita
nell’orto di un italo-canadese. Chissà se era
stato subito creduto dai poliziotti quando li
aveva chiamati per denunciare che gli era
piovuta una salma fra le patate.
“A proposito, scricciolo, grazie per essere
la pecora nera in famiglia. Abbiamo saputo
del cameo come si dice al cinema” disse
sghignazzando Andy il secondo dei Freeman
“Puoi raccontare di nuovo come sei finita in un
film porno? Hai, mamma mi hai fatto male”
“Smettetela di darle fastidio” disse Ella
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guardando verso la porta.
“Vostro padre si è appena calmato, è tutta
sera che borbotta”
Mentre si asciugava le mani Duke non ci poteva
pensare. Un film porno. Egitto. Piume. Gente
nuda. Constance.
Quella benedetta ragazza finiva sempre in
qualche strana situazione. Stava scrivendo un
articolo su un film porno, non era necessario
prenderne parte. D’accordo essere sul pezzo
ma questo era troppo.
La capocchia di un fiammifero, una fiammella
improvvisa, una sigaretta, una scia di fumo.
Duke osservava la strada dal porticato. La
notte in quella parte della città non faceva
paura. Schiere ordinate di casette bianche con
giardino. Aveva deciso di far crescere lì i suoi figli,
sembrava il luogo perfetto ma non esiste rosa
senza spine. Constance ne era la riprova, nata
nella parte giusta della città, bianca, bionda
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| 1972 |
e bella ma dietro quella splendida facciata vi
era il vuoto di una famiglia disgregata, la morte
improvvisa, la ricostruzione di una vita.
La porta cigolò.
“Ciao, posso mettermi vicino a te?”
Duke sorrise.
“Vuoi qualcosa o hai bisogno di qualcosa?”
Lei sorrise di rimando.
“Devo dirti una cosa”
“Prima voglio chiederti una cosa io. La firma,
sull’articolo. Sei sicura?”
“Non vuoi?”
“Certo, che voglio. Ma voglio che tu sia sicura
della tua scelta”
Rimasero per un po’ in silenzio, in sottofondo
lo stridio dei freni di una macchina, la
musica classica degli Horobowitz, il cane dei
Sullivan che abbaiava contro qualche nemico
immaginario.
“Sì, sono sicura. Voi vi occupavate di me
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ancora prima che morissero. Tu, Ella e i
ragazzi siete la mia capanna sull’albero, la mia
scialuppa di salvataggio. Io mi sono sempre
sentita incompresa, diversa. Per non parlare
di quando papà picchiava mamma o insultava
me per poi scusarsi in continuazione. Ogni
giorno non sapevamo come sarebbe tornato
o se sarebbe tornato. Quando siete arrivati
io e Bo vi osservavamo mentre traslocavate.
Bo scodinzolava. Mi sono sempre fidata delle
sue opinioni. Emanavate felicità, calore. Se so
che la felicità esiste e posso averla anch’io è
perché voi me lo avete insegnato.”
Duke taceva, aveva gli occhi lucidi. Avrebbe
conservato quel momento per tutta la vita.
“Non rinnego la mia famiglia. Mamma e papà
erano due disperazioni che non avrebbero
mai dovuto incontrarsi. Ho smesso di essere
arrabbiata con loro, ma gli articoli li voglio
firmare con il tuo cognome”
“Riesci sempre a sorprendermi. Dimmi quello
che mi dovevi dire”
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“Ieri ho incontrato Eddie Adams”
“Il fotografo?”
“Si. Ha visto delle foto che avevo fatto. Oggi
ne ha volute vedere altre. Gli ho portato pure
degli articoli e alcune risposte per la ‘Posta di
Maude’
“È rimasto colpito vero?”
Lei non riuscì a trattenere un sorriso
orgoglioso “Sì e mi ha proposto di andare in
Vietnam con lui. Io scrivo, lui fotografa e mi
insegna a migliorare i miei scatti”
Duke non riusciva a parlare. Non sapeva quello
che provava, non sapeva quello che doveva
dire. Sapeva solo che quella ragazza era più
simile a lui dei suoi figli. Si sentiva spaventato,
arrabbiato, orgoglioso, felice; un frullato di
emozioni. Lei era il frutto di quello che lui le
aveva insegnato.
“Perché vuoi andare in Vietnam?”
“Per capire, per raccontare, per dare un punto
di vista diverso, perché sono una donna e fino
a ieri mi si diceva che dovevo stare a casa come
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| 1972 |
mia madre a dire sì e fare la calzetta quando
posso fare tutto quello che voglio. Perché
non so dire no ad un’avventura.
Perché
amo questo mestiere, ma sono pure tanto
spaventata”
Duke si voltò verso di lei e l’abbraccio.
La tenne stretta per un tempo indefinito, poi
le disse:
“Non avere paura, andrà tutto bene. Sarai una
magnifica reporter di guerra. D’altronde hai
preso tutto da tuo padre”.
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| Autore |
Debora Michelini
Se fosse un animale sarebbe una fenice in perenne
rinascita. Si nutre di storie da raccontare e di emozioni
da vivere. Viaggiatrice alla continua ricerca del Sacro
Graal della felicità. Lei è rivoluzione fatta carne.
Se volete saperne di più, scrivete a
[email protected]
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L'impronta
di Colin Pitchfork
La rivoluzione:
L’uso del DNA come prova
di Angela Puchetti
Dovessero cercarmi con un elicottero
noterebbero solo una macchia rossa tra gli
alberi. Se usassero un binocolo vedrebbero
il mio vestito preferito, color ciliegia a
pois bianchi. Scoprirebbero che ho tutti gli
indumenti in disordine. Guarda i miei capelli
sporchi di terra sparsi sull’erba. Li avevo
appena lavati prima di uscire di casa. Ho le
labbra macchiate di sangue scuro, sembra
inchiostro. Non c’è più nessuna traccia del
lucidalabbra alla fragola che avevo comprato
sabato pomeriggio. La mia pelle sta cambiando
colore.
56
| L’impronta di Colin Pitchfork |
Sono io, ma sembro un’altra. Un’aliena grigia
a sangue freddo. Non che mi cambi a questo
punto, ma chissà quando qualcuno mi ritroverà
qui, fuori mano, lontana dalla strada, in mezzo
al bosco vicino a Ten Pound Lane. Notti e giorni
di attesa sembreranno settimane a mamma e
papà. Ero in ritardo e ho preso la scorciatoia,
invece della strada sicura.
“Dawn, mi raccomando, non parlare con gli
sconosciuti.” L’avevo già visto vicino alla scuola,
non era proprio sconosciuto. E l’ho detto a Tracy
e Amanda che c’era un uomo che mi guardava
quando uscivo alla fine delle lezioni, ma non
sono stata abbastanza attenta ai dettagli, ho
detto che portava gli occhiali e non è vero. Se
lo raccontano a casa e un poliziotto le interroga
diranno qualcosa che non aiuterà a prendere
chi mi ha ridotto così.
Guarda dove sono finite le mie mutandine
con le stelline rosa, a pochi centimetri dalla
57
| L’impronta di Colin Pitchfork |
mia testa. Ora il mio cuore, che quando lui
mi stava addosso sembrava impazzito, non lo
sento più. Ho provato a sfilargli il portafoglio
dalla tasca, volevo lanciarlo a qualche metro di
distanza mentre si affannava come un animale
selvaggio. Volevo lasciare qualche traccia che
lo facesse arrestare, ma se n’è accorto e mi ha
dato un pugno. Alla mamma stavo per dire che
questa persona mi compariva davanti quasi
ogni giorno, quando ero in giro prima di fare i
compiti, ma poi non l’ho fatto. Non mi avrebbero
più fatto uscire da sola. E adesso sarei viva.
Come lui. Nessuno, a pensarci bene, ci ha visti
insieme. Non abbiamo incontrato neanche
un’auto mentre mi portava qui. Nessuno a
piedi. Altrimenti avrei urlato aiuto. Anche sul
mio diario non c’è niente, sono giorni che non
scrivo. Adesso non posso più raccontare a
nessuno che faccia ha quel bastardo. Io sono
qua. E lui la farà franca.
58
| L’impronta di Colin Pitchfork |
18 settembre 1987
Devo trovare qualcuno. Non ho più tempo.
Vediamo chi c’è. Poca gente stasera al pub.
Meglio così, tutto sommato. Mi prendo da
bere. Devo risolverla in qualche modo. Guarda
c’è Tom che potrebbe fare al caso mio, è già
mezzo sbronzo. “Ciao Tom, che mi racconti?
Ti andrebbe di guadagnare qualche sterlina
facile? Ti offro anche da bere”. Ha sempre
sete di soldi, ci starà. “Cosa devo fare? Vuoi
che ti accompagni al bagno Colin?” Continua a
farlo bere ed è fatta. Sorridi. Adesso spiegagli
che al bagno deve andarci lui e te ne torni a
casa presto stasera. Bene, ha capito, dagli le
provette, aspetta, lo paghi dopo, quando torna
dai servizi. “Grazie Tom, sei un vero amico,
mi hai risolto questa rottura di scatole. Eccoti
duecento sterline, ma non te le bere tutte, mi
raccomando, falle arrivare a domani!”
19 settembre 1987
I giornali non parlano d’altro. E anche la
59
| L’impronta di Colin Pitchfork |
gente, dentro e fuori casa. Quel Jeffreys ci
va giù pesante. Respira, tu sei a posto. Ecco
l’infermiera, sorridi, falle un complimento, si
ha proprio dei bei capelli. Bene ora continua
a strofinarti con calma, per bene, questi
bastoncini in bocca, aspetta il momento buono.
E adesso fai cadere quel barattolo di vetro con
quel liquido dentro, inavvertitamente. “Oh,
accidenti, mi dispiace davvero, mi muovo come
un orso, lo dice anche mia moglie”. Ora, è girata
di spalle, piegata a raccogliere il casino che hai
fatto, sei davvero l’ultimo dei suoi problemi.
Ora: scambia i campioni. Fatto. Bravo. Sorridi
ma non troppo, guarda che metta l’etichetta
con il tuo nome e vai fuori di qua. Scusati ancora,
dille che sei mortificato... Meglio del previsto.
Lei era una biondina niente male, anche se io
le preferisco con i capelli scuri.
Adesso, però, ho altro a cui pensare. Anche il
notiziario alla tv non fa che ripetere le stesse
cose. Certo non si era mai vista una cosa del
60
| L’impronta di Colin Pitchfork |
genere. Com’è possibile che da una goccia di
saliva, un frammento di pelle, una traccia di
sangue o del tuo seme salti fuori il colpevole? E
poi fare un test a cinquemila uomini. Una cosa
da non credere. Quel Jeffreys fa davvero le cose
in grande stile. E doveva farlo proprio qui, nello
Leicestershire, in questo buco di Inghilterra.
E dire che la seconda volta è stata anche meglio
della prima. L’avevo immaginata e immaginata
ancora e ancora. Sì, mi è piaciuta molto di più.
Non ho improvvisato, era tutto studiato, ed
è stato molto più eccitante. Sapevo già cosa
dire alla ragazza, come spaventarla, come farla
stare buona, cosa l’avrebbe calmata. Vero,
quella Lynda era un bocconcino più dolce,
sapeva di marzapane, aveva quindici anni ma
ne dimostrava di più. Con Dawn però, è stato
tutto perfetto. L’avevo osservata, quando usciva
da scuola, quando tornava a casa, quando
camminava da sola. Avevo pensato nei dettagli
cosa le avrei fatto, come l’avrei fatto, come
61
| L’impronta di Colin Pitchfork |
avrebbe reagito, come farla stare zitta. Filava
tutto liscio, ma poi quel Jeffreys si è messo in
mezzo.
Con tutto questo casino sui giornali, alla radio
e alla tv, sarà meglio che torni da Tom e lo
convinca a tenere la bocca ben chiusa. Ne è
comunque valsa la pena darsi da fare con
quelle due bamboline, ma non doveva andare
così. Quella pelle candida, quelle labbra allo
sciroppo di frutta che aveva la seconda e quel
profumo di mandorle che aveva la prima. Quei
corpi immacolati, morbidi e bianchi come
l’impasto del pane prima di metterlo in forno.
Non ci devo pensare. Adesso devo cercare
quell’ubriacone.
A quest’ora Tom dovrebbe essere alla segheria
ma non c’è. Avrà bevuto come una spugna
ieri sera dopo che me ne sono andato. Che
dire dei genitori di entrambe, bisogna anche
capirli, hanno fatto di tutto per ritrovarle, ma
62
| L’impronta di Colin Pitchfork |
sarebbe stato meglio per loro non doverle più
rivedere. Dopo che erano passate tra le mie
mani. Dopo che le ho assaggiate per bene. E
sono stato costretto a farle stare zitte, altrimenti
avrebbero raccontato tutto a mamma e papà.
Con la prima ho avuto più tempo, ma ero più
inesperto. Come quando provi una ricetta
nuova e difficile. Anche se non sei un novellino,
non hai mai la certezza di come verrà la torta.
Quello che è successo con Dawn, invece, ormai
lo so a memoria. Come l’impasto dei biscotti.
Proviamo a vedere se Tom è andato a fare
una puntata in sala corse. Scommetto che ha
pensato di giocarsi le ultime sterline in tasca.
Non l’hanno visto, strano. Lo devo trovare. Tutte
e due le volte, i dintorni delle case delle ragazze
sono stati perlustrati neanche fosse una caccia
alla volpe. La seconda sono stati ancora più
meticolosi ma ci hanno pure messo due giorni
a ritrovarla, tutta sola in mezzo al bosco. Poi è
addirittura saltato fuori quel Richard Buckland
63
| L’impronta di Colin Pitchfork |
che aveva confessato di esserci andato lui con
Dawn. Non è vero amico e tu lo sai. Poi quel
Jeffreys ha incasinato tutto con i suoi test. Non
era stato Buckland. Non era suo il DNA. Ora lo
sanno tutti. Bella figura amico che ti vanti delle
imprese degli altri, ma grazie lo stesso.
Dove può essersi nascosto quel fottuto
Tom? Vediamo se si è infilato al cinema.
Altro che Buckland. Sono io che ci so fare
con le ragazzine,
so come attirarle, come
confonderle, convincerle che non sanno
niente del mondo e poi farle sentire grandi con
qualche complimento che si fa alle vere donne,
detto da un vero uomo. Sono così prevedibili
ma è bello osservare le loro facce quando
capiscono. Quando comprendono che non
stanno andando dove gli avevo detto, che non
sono poi così tanto gentile, che non dovevano
salire, che dovevano dar retta a mamma e papà.
Poi hanno paura e magari provano a scappare
e ti pregano di riportarle indietro. Certo, che ti
64
| L’impronta di Colin Pitchfork |
riporto indietro dolcezza.
Niente cinema Tom, peccato doveva essere
un bel film. Tanto lo sai che ti trovo, non puoi
essere andato lontano. Dicevo, sì, le ragazze
poi piangono, ma è tutto inutile. Il piano è il
piano e io mi attengo al piano. Anche se lottano
arriva sempre quel momento. In fondo piace
anche a loro, ma continuano a singhiozzare e
lagnarsi. E a casa non le puoi rimandare.
Tanto andrai allo stesso pub, dove altro
potresti andare caro Tom? Va bene, ti aspetto
e ne parliamo. Mica posso rischiare. Voglio
continuare a passare le mie giornate a far belle
le torte e la sera tornare a casa da mia moglie
e dai miei figli. Tom stasera ti fai desiderare,
magari ti stai sbattendo anche tu qualcuna.
Se non dovessi occuparmi di te Tom, ne
cercherei subito una che assomigli a Lynda,
con i suoi stessi capelli, ma con anche il sapore
65
| L’impronta di Colin Pitchfork |
di Dawn. Sì, e adesso saprei dove portala. Fuori
zona, fuori dalle palle. Che stupido a rimanere
nei paraggi. Ma non potevo andare molto
lontano o avrei dovuto legarle.
“Come dice Pitchfork? E dove l’ha sentito? In
un pub fuori dalla contea? Si spieghi meglio.”
chiede il poliziotto alla scrivania.
- “Ripeto. Qualcuno al pub stasera ha detto
che ha preso duecento sterline per dare un
campione di saliva al posto di un certo Colin
Pitchfork, che lavora in una panetteria. Ne è
sicura?” scandisce bene il poliziotto.
Dovevo dare meno soldi a Tom, ha preso il
largo. Erano tenere come agnelline, invitanti
come la glassa, profumate come l’Alchermes,
irresistibili come il caramello, avrebbero solo
dovuto fare le brave e stare zitte. Avevo pensato
a tutto. Dopo non potevo proprio rimandarle a
casa. Cosa ci fanno qui quei tre uomini in divisa?
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| L’impronta di Colin Pitchfork |
Devo sparire prima che quel professor Alec
Jeffreys del cazzo che ha imparato a scoprire
chi-si-scopa-chi - basta uno sputo - fotta anche
me. Sì, sono Colin Pitchfork. No, certo che
non rilascio dichiarazioni, non so di cosa state
parlando. Mia moglie mi sta aspettando, che
dite? Andate a farvi fottere. E vai a farti fottere
anche tu Tom. Lo sai vero, che prima o poi ti
trovo?
67
| Autore |
Angela Puchetti
Guardando il film “Kramer contro Kramer”di Robert
Benton, decise in tenera età che voleva lavorare in
pubblicità. Solo più tardi comprese che preferiva
raccontare storie e notizie, scrivendo articoli.
Ama allo stesso modo: vintage e novità, film in bianco
e nero e serie tv, design d’altri tempi ed esperimenti
innovativi.
Altri segni distintivi: sostanzialmente possiede lo stesso
atteggiamento del personaggio interpretato da Robert
Redford nella pellicola “I tre giorni del Condor” di
Sydney Pollack rispetto a pellicole e libri, news, fiction
e citazioni. Tutto può tornare utile. Ogni dettaglio può
essere prezioso. Non solo per scrivere ma anche per
vivere in un mondo denso di crime.
Se volete saperne di più scrivete a
[email protected]
68
Voi non siete comunisti!
La rivoluzione:
La caduta del Muro di Berlino
di Manuela Montanari
Così contento non ero mai stato. Mai: neanche
quando avevo sposato Anna, e neanche quando
era nata Luisina. Ma quella sera là, con la nebbia
fredda di novembre che mi entrava nelle ossa
e un bel quartino di rosso che mi scaldava il
cuore, ero pronto.
“Vittorio, ce l’hai il tesserino vero? E te? Napoli,
te ce l’hai il tesserino? E i documenti? E i visti?
Avete tutto, vero?”
Puntuali alle ventuno e trenta fuori dalla
cooperativa, eravamo io, Vittorio e Gennaro,
detto Napoli, tutti sulla mia Ritmo rossa. Rossa
come la bandiera del PCI.
70
| Voi non siete comunisti |
Non stavo più nella pelle: “Se va bene a tutti,
guido io per primo, che c’ho il cuore in gola
e non riesco a stare fermo, almeno così mi
distraggo, e poi la mia Anna mi ha fatto un chilo
di spaghetti… che chissà cosa ci fanno mangiare
per una settimana…” Il Pressa e Brusco, c’erano
andati l’anno scorso e mi avevano detto che,
con un bel passo, in dieci ore si arrivava: “Se
io mi faccio le prime quattro ore, poi a voi
ve ne restano tre a testa! E domani mattina
timbriamo il cartellino coi crucchi.”
“Ma guida pure Vittò?”, si era subito preoccupato
Napoli.
“E certo che guido! Non sono mica la tua morosa
che si fa portare in giro!” Vittorio rideva ma
Napoli era preoccupato e non aveva torto: “C’a
maronn c’accumpagn!”
“Giusto, bravo Napoli, non possiamo partire
senza dire la preghiera!”, lo facevo sempre, era
tradizione, anche con Anna e Luisina. Prima
di partire per i viaggi lunghi, si attaccava allo
specchietto la foto del compagno Togliatti e si
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| Voi non siete comunisti |
cantava “Avanti o popolo, alla riscossa, bandiera
rossa, bandiera rossa…”
Vittorio, con i suoi baffoni biondi e gli occhi
vispi non smetteva di muoversi sul sedile e
faceva saltare tutta la macchina: la settimana
prima di partire era stato una piattola, parlava
solo del viaggio, lo diceva a tutti in cooperativa,
in fabbrica e anche al prete. Don Giuseppe
gli aveva dato perfino l’assoluzione con tre
Avemarie ma lui, a dirla giusta, non voleva mica
confessarsi, gliel’aveva raccontato come agli
amici del paese. Io e Vittorio ci conoscevamo
fin da bambini, da quando, il primo giorno di
scuola, lui aveva lanciato giù dalla collina del
cimitero la cartella con il quaderno e il libro: era
sempre stato un bravo figlio, ma non aveva mai
mandato giù volentieri le regole. Comunque,
al momento di partire, non se l’era presa per
quello che aveva detto Napoli, anzi, si era
buttato subito sul sedile dietro e già prima di
passare Milano ronfava della grossa.
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| Voi non siete comunisti |
Davanti con me, perciò, si era messo Napoli.
A parte il fatto di chiamarsi Gennaro, non
sembrava napoletano in niente: bianco come
il latte, alto come una pertica e non parlava
mai, praticamente un solitario. Era arrivato
al Nord, come diceva lui, da un po’ più di un
anno e, in fabbrica, riuscivi a fargli dire due
parole solo nei dieci minuti che ci metteva a
finire la sua schiscètta di pasta e patate: di lui
sapevamo solo che la sua morosa faceva la
maestra giù al paese, che aveva un fratello in
America e che non gli piaceva andare al mare.
Era un brav’uomo, era un compagno, ma nelle
assemblee sindacali non diceva mai niente.
Eppure, lo vedevi che stava attento: era l’unico
che si portava un quaderno e una penna e ci
scriveva chissà cosa.
“Uè Napoli, non vorrai mica stare zitto tutto
il viaggio, vero?” Volevo fare due parole, che
fino in Germania era lunga. “Questo qua dietro
di solito non smette un minuto di parlare,
ma adesso che dorme non lo svegliamo più
73
| Voi non siete comunisti |
neanche con le cannonate. Se anche te non
dici niente, qua finisce che mi addormento
e andiamo contro un palo! Parla un po’, fallo
almeno per sopravvivenza! E poi, scusa, te non
sei emozionato?”
Il napoletano, così alto che stava tutto curvo
incastrato nella mia Fiat Ritmo, si era voltato
e mi guardava con il sopracciglio alzato senza
dire niente: magari, anche lui quelli del Nord
se li aspettava un po’ diversi da me e Vittorio.
Comunque, quando lo stavo già mandando
all’inferno, aveva sputato fuori quattro parole:
“No Aldo. E perché mai dovrei essere
emozionato? Emozionato di che, scusa?”
“Ah, ma allora sei capace anche te di parlare?
Io sono contento Napoli, mancano meno di
ventiquattro ore e finalmente saremo nella
nostra… come cantava il tizio di San Remo? Ah
sì, nella nostra terra promessa!”
Napoli mi guardava con una faccia che sembrava
quella di un pesce lesso: “Scusa la che? La terra
promessa? Ua, non stai un poco esagerando
74
| Voi non siete comunisti |
Aldo? Per come la vedo io, stiamo andando a
vedere come si vive là, come vivono gli operai,
per farci un’idea e per vedere una società che
non si sa per quanti anni potrà ancora stare in
piedi.”
Anche io non mi aspettavo una risposta come
la sua e, a dirla tutta, mi aveva fatto anche
un po’ incazzare: “Ma come scusa? Mi pari
un democristiano! Guarda che a fare questo
viaggio ci volevano venire in tanti! E te che sei
stato scelto, anche perché sei del Sud, adesso
fai il bastian contrario? Ma da che parte stai,
scusa?”
“Io sto dalla parte dei poveri cristi come noi.
Però che c’entra? Mo, solo perché non vedo
tutta sta terra promessa, mi dici che sono un
democristiano? Lo so che voi qui non ci siete
abituati, ma noi al Sud, di terre promesse ne
abbiamo conosciute tante e sappiamo che
quando si arriva a destinazione, ste promesse
non sono mai quelle che aspettavamo.”
“Ma ce l’hai con Milano? Qui hai trovato lavoro,
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| Voi non siete comunisti |
o no?”, gli ho risposto.
“Si l’ho trovato un lavoro. Ma lo sai quanto c’è
voluto a convincere una ‘sciura‘ ad affittarmi
casa? Per i primi cinque mesi ho dormito
praticamente per strada. Vabbuò, comunque,
io sono sicuro delle cose solo quando le vedo
coi miei occhi, prima non mi fido di nessuno,
neppure del partito.”
Ecco, per me non fidarsi del partito era una
cosa inconcepibile: “Ma cosa dici? Che motivo
hai per non fidarti del partito? Del nostro, poi!
Il partito e il sindacato ci hanno dato tanto: ti
sei dimenticato dello statuto dei lavoratori? E
le case popolari? E il referendum? E, in paese,
da quando c’è il PCI, i bambini vanno in colonia,
al mare, per un mese in estate: Luisina a sei
anni ha già visto il mare! Io, la prima volta, ci
sono andato che avevo diciotto anni. Degli altri
partiti non lo so, ma dei comunisti ci si fida.
Perché i comunisti sono brave persone.”
Alla fine, Napoli l’avevo convinto, o almeno
credo, perché aveva chiuso il discorso dicendo:
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| Voi non siete comunisti |
“Vabbuò, tieni raggione, però io sono come San
Tommaso, non ci credo fino a che non ci metto
il naso.” Il napoletano era uno sveglio, troppo
fissato con santi e madonne, ma sveglio, ecco
perché la nostra discussione era finita a ridere
quando l’avevo preso per il culo: “Eh, te ti fidi
solo del tuo ‘San Gennà‘ vero?” e lui ”Brav!
Quello il miracolo lo fa, il sangue lo scioglie,
l’agg vist io.”
Vittorio intanto dormiva e, di comune accordo,
io e Napoli avevamo deciso di guidare cinque
ore a testa, ma di non lasciargli in mano la
macchina: non è che guidasse male, ma era
convinto di essere un pilota di Formula Uno
mancato e noi non avevamo voglia di arrivare
a destinazione con lo stomaco ribaltato.
Il mio turno comunque era volato, anche
contando la sosta alla frontiera Svizzera che,
anche con i visti, i documenti in regola e la lettera
in italiano e tedesco firmata dal sindacato,
ci aveva fatto perdere un sacco di tempo, tra
perquisizioni, controlli e il risveglio di Vittorio:
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| Voi non siete comunisti |
passato al metal detector, praticamente, da
sonnambulo.
Comunque, prima di rimetterci in marcia, io
e Napoli avevamo deciso di fare una sosta
per bere un caffè e, al primo sorso, Napoli
aveva quasi sputato tutto in faccia al barista
gridando: “Marò che è ‘sta schifezz?” Io non
riuscivo a smettere di ridere ma, mentre il
barista ci fulminava con gli occhi, cercavo di
giustificare il mio compagno: “Ci scusi, lui è di
Napoli, lì credono solo a San Gennaro e al caffè
espresso!”
L’alba era vicina e la nebbia sembrava proprio
un lenzuolo che cominciava, piano piano, ad
alzarsi sopra le nostre teste. Il panorama era
quasi famigliare: campi gelati e spogli, tosati
dopo i raccolti, dietro c’erano le colline, quelle
vicine erano più chiare e quelle lontane più scure
e poi, come in un presepe fatto di fabbriche,
si vedevano le ciminiere in lontananza e, più
vicino, un po’ qua e un po’ là, gruppetti di
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| Voi non siete comunisti |
quattro o cinque case che sembravano cadute
dal cielo.
Anche Vittorio, finalmente, si era svegliato.
Sembrava dispiaciuto di non averci aiutati alla
guida ma, anche senza saperlo, in un certo qual
modo, aveva dato il suo contributo alla buona
riuscita del viaggio: da una parte evitando di
farci vomitare l’anima, dall’altra tirando fuori
dalla sacca una bella ciambella fatta da sua
moglie, quello che ci voleva per arrivare in
forma al confine con la DDR.
“Aldo Livraghi
Pier Vittorio Fraconti
Gennaro Bifulco
Vi stavamo aspettando.
Ora venite con me per controllo documenti:
poi viene il compagno Van der Korput che vi
accompagna in vostro viaggio nella Repubblica
Democratica Tedesca.”
Il poliziotto che ci aveva accolti alla frontiera era
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| Voi non siete comunisti |
il classico marcantonio tedesco: alto, biondo,
con le guance rosse e gli occhi piccoli. Una di
quelle persone che ispirano fiducia, ma non
troppa, che ti fanno paura, ma non troppa, e
che sembrano capaci di abbracciarti o spararti
senza fare una piega.
Mentre verificava i nostri visti e i documenti,
il tizio non ci guardava mai in faccia. Questo
fatto a me e Vittorio, cresciuti con i racconti dei
padri partigiani: “I crucchi non ti guardano mai
in faccia prima di spararti”, metteva abbastanza
ansia.
Sarà stato, forse, per quello, o solo per uno
slancio di entusiasmo, ma a un certo punto
Vittorio aveva pensato di rompere il silenzio
dicendo: “Vuole vedere anche la nostra tessera
del Partito Comunista Italiano, immagino!
Giusto?” Aveva scandito bene tutte le parole
urlandole, come se stesse parlando con il nonno
sordo: Par-ti-to-Co-mu-ni-sta-I-ta-lia-no. Il
poliziotto aveva sollevato la testa e, incredibile
ma vero, era scoppiato a ridere facendo vedere
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| Voi non siete comunisti |
i denti, tutti storti; ora riuscivamo a capire
che era davvero un ragazzotto, avrà avuto
vent’anni massimo: “Le vostre cosa? Ahahah
italiani simpatici, sempre scherzare, non serve
tessera, noi siamo felici che venite a conoscere
il comunismo, a noi la vostra tessera non serve,
perché voi non siete comunisti.”
Sull’ultima frase, noi tre, ci eravamo guardati in
faccia, ma nessuno si era sentito di contestare il
poliziotto o chiedere spiegazioni, forse perché
avevamo fretta di cominciare il nostro viaggio,
o forse solo perché mani così grandi non le
avevamo mai viste.
A quel punto era arrivata la nostra guida, il
compagno Van der Korput, un uomo sulla
cinquantina, quasi completamente pelato
e dalla faccia gentile, con guance rotonde,
occhiali rotondi e una pancia, anche quella,
bella rotonda. Ci aveva salutato con un
abbraccio e con un italiano abbastanza sciolto,
presentandoci Jurgen, suo figlio, che aveva
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| Voi non siete comunisti |
da poco iniziato a lavorare come operaio
nella stessa fabbrica in cui lui lavorava da
ventidue anni. Jurgen era l’opposto del padre:
magrissimo, un po’ bassino, con il colorito di
una rapa e la faccia da funerale.
Vittorio era scattato sull’attenti tutto felice
e aveva mandato avanti le parole lasciando
indietro il cervello: “Grazie, siamo davvero
felici di conoscerla compagno Vaidicorpo!” Io e
Napoli eravamo sbiancati di colpo. Per fortuna il
sindacalista non conosceva così bene l’italiano
da incazzarsi per la storpiatura, non proprio
così ingenua, del suo nome e, ridendo, gli
aveva dato una bella pacca sulla spalla. Da quel
momento, per noi sarebbe stato il compagno
Vaidicorpo.
Vaidicorpo ci aveva fatto lasciare al confine la
nostra macchina perché, da quel momento, ci
avrebbero accompagnati lui insieme a Jurgen
nella nostra visita della Repubblica Democratica
Tedesca. Ed eccoci lì: schiacciati sul sedile
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| Voi non siete comunisti |
posteriore di una Trabant verde pisello, con
Napoli che, poverino, quasi bucava il tettuccio
con la testa.
In più la strada era tutta rotta e piena di buche:
ogni buca un salto, ogni salto una testata di
Napoli, ogni testata di Napoli un “Vafammoc”
… così per un chilometro, più o meno. Poi,
all’improvviso, più niente, la strada liscia come
un tappeto e Jurgen, in un italiano anche questo
pieno di buche, aveva parlato per la prima
volta da quando l’avevamo conosciuto: “Non
preoccupare, strada bella ora. Buche servono,
così auto che entrano in DDR vanno piano. Così
die polizei controlla meglio, vede chi entra e chi
esce. Adesso noi andiamo in Berlin e…” io lo
interruppi: “Come a Berlino? Il nostro sindacato
ha previsto una visita al distretto industriale di
Lipsia.”
Il padre del ragazzo, come se si fosse dimenticato
il gas acceso prima di partire per le ferie, si
era tirato uno schiaffo e, chiedendo scusa
per la mancata comunicazione, aveva detto:
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| Voi non siete comunisti |
“Giusto! C’è stato un piccolo cambiamento di
programma… una sorpresa per voi. Visiterete
la più grande fabbrica di tubi della Germania
Democratica, quella dove lavoriamo io e Jurgen,
che si trova appena fuori Berlino.”
“Ma come mai?” aveva chiesto Vittorio.
“Perché per voi è più interessante e perché è
meglio per la vostra sicurezza”, aveva risposto il
nostro accompagnatore. Era chiaramente una
risposta automatica, sembrava un bambino che
recitava a memoria la poesia di Natale e, mentre
parlava, le sue guance erano diventate rosse
come il Barbera. Jurgen, quasi alzando la voce,
aveva subito ripreso il discorso mentre il padre
lo guardava con la faccia tra il preoccupato e
l’incazzato: “Il quattro novembre, pochi giorni
indietro oggi, la gente in Lipsia ha protestato.
Vuole libertà e grida «wir sind das Volk» che noi
siamo il popolo e governo DDR deve ascoltare.”
Da quel momento in avanti avremmo sentito
Jurgen parlare solo un’altra volta.
Napoli continuava a guardarmi fisso con la
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| Voi non siete comunisti |
faccia del “Te l’avevo detto”: tra le tante cose
di cui avevamo parlato la notte prima, durante
il viaggio, c’erano state anche le proteste che,
dall’estate scorsa, erano diventate sempre
di più nella DDR. A me, comunque, vedere
Berlino non dispiaceva per niente. Tutti gli anni
il sindacato organizzava uno scambio culturale
a Lipsia, ma noi saremmo stati gli unici a poter
raccontare di aver passato una settimana a
Berlino.
Anche Vittorio, dopo aver visto le nostre facce
e averci inutilmente riempito di gomitate nelle
costole per farsi dire perché ci guardavamo in
quel modo, si era detto entusiasta di vedere
Berlino e, durante il viaggio verso la città,
continuava a parlare, o per dirla come avrebbe
poi riassunto Napoli “Non sputava un attimo
a terra”. Guardava tutto e commentava tutto:
”Vedo che da voi ha già nevicato quest’anno, i
campi fin qui erano congelati…”
“Sono davvero impressionato da questi palazzi,
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| Voi non siete comunisti |
sono enormi, sembrano una versione più
grande delle nostre case popolari, quelle che
hanno costruito a Bollate, per esempio…”
“Ah, ma l’architettura sovietica è una buona
soluzione, non si perde in decori ma va al sodo,
punta a far avere una casa dignitosa a tutti,
senza sprechi inutili. E poi nelle case come
queste si vive bene, mio fratello abita in una
casa popolare e sta benissimo…”
“Ma voi mettete le cinture di sicurezza? Anche
il passeggero? Che cosa strana, non vi sentite
legati? State attenti, se fate un incidente non
riuscite neppure a venir fuori dalla macchina,
è pericoloso…”
Il buon Vaidicorpo annuiva e ridacchiava, ma le
facce di Jurgen facevano pensare che il ragazzo
di lì a poco lo avrebbe sbattuto fuori dall’auto.
A mezzogiorno, finalmente, eravamo arrivati
alla fabbrica di tubi più importante della
Germania Democratica, proprio alle porte di
Berlino. Non ci sentivamo più nell’ottantanove,
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| Voi non siete comunisti |
sembrava di stare nel futuro. Era un enorme fila
di capannoni altissimi, con cancellate altissime
e ciminiere altissime. Intorno non c’era niente
e in lontananza si intravvedevano i soliti palazzi
giganteschi: la Germania era così, sembrava
disegnata da un bambino con il righello su un
foglio a quadretti.
Appena messo piede nel cortile davanti
all’ingresso della fabbrica, mentre Vaidicorpo
ci stava raccontando la storia della produzione
di tubi in Germania, quasi come una sveglia,
era suonata la sirena di fine turno: gli operai del
turno di notte potevano tornare nelle loro case,
dagli affitti bassissimi, o andare a prendere i figli
che uscivano da una delle scuole gratuite dello
stato, o andare a farsi fare una visita di controllo
dal medico della fabbrica. Ovviamente, tutte
le industrie erano dello stato e il lavoro era
garantito per tutti.
Proprio mentre il nostro accompagnatore ci
descriveva la vita degli operai tedeschi, quasi
da privilegiati se paragonati a noi italiani, uno
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| Voi non siete comunisti |
di loro mi era venuto vicino e mi parlava in
tedesco a bassa voce, quasi facendo finta di
niente. Quando si era accorto, però, che non
capivo nulla di ciò che diceva, aveva tirato
fuori dalle tasche il portafoglio provando a
darmi i suoi soldi. Io, che nel frattempo ero
rimasto indietro di qualche passo rispetto ai
miei compagni, avevo pensato di dirgli l’unica
cosa che sapevo in tedesco grazie ai racconti
di guerra di mio padre: “Achtung! Achtung!”
Mi ricordavo che voleva dire qualcosa come
“Attenzione!” e, anche se non avevo idea
di cosa volesse da me quell’uomo, pensavo
che fosse comunque un buon suggerimento.
L’operaio aveva provato a rispondere anche
lui con quella che, probabilmente, era la sola
parola italiana che conosceva: “Lire! Lire!”, e
a fare un gesto con la mano, facendo scorrere
avanti e indietro il pollice contro l’indice.
Avevo capito finalmente: voleva scambiare i
Marchi con le Lire ma, prima ancora di riuscire
a improvvisare qualche risposta, Vaidicorpo mi
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| Voi non siete comunisti |
aveva richiamato all’ordine, chiedendomi con
un tono serio e deciso di seguire il gruppo senza
restare indietro e, nello stesso momento, un
uomo con una divisa verde era spuntato alle
mie spalle, aveva preso sotto braccio il mio
collega tedesco, come un vecchio conoscente
di quelli che uno cerca di non incrociare mai
per strada, e lo aveva portato via.
La fabbrica era davvero enorme e, dopo la visita
alla mensa, era la volta della catena di montaggio:
tutto ordinato, pulito, veloce e senza intoppi.
Nessun operaio parlava con il vicino, nessuno
guardava oltre il suo naso e quando passavamo di
fianco a loro, non parevano neppure accorgersi
di noi. L’ambiente era molto caldo e io non ne
potevo più di tenere addosso il montone che
mi aveva rifilato il padre di Anna. Dopo quasi
un’ora in piedi ad ascoltare l’orgogliosissimo
Vaidicorpo, tra la stanchezza del viaggio e
l’atmosfera asfissiante di quello stanzone, dove
non si distinguevano gli uomini dalle macchine,
mi era girata la testa. Non era stato un vero e
89
| Voi non siete comunisti |
proprio svenimento, diciamo che avevo solo
bisogno di sedermi e bere un bicchiere d’acqua
fresca, quindi mi ero lasciato un attimo cadere
mentre la nostra guida raccontava le glorie
industriali tedesche, ma la cosa, che Vittorio e
Napoli avevano affrontato prendendomi per il
culo e chiamandomi “Aldina”, aveva allarmato
il nostro bravo sindacalista. Infatti, a un suo
segnale, era spuntato dal nulla un altro uomo
con la divisa verde per accompagnarmi dal
medico della fabbrica mentre lui, Vittorio e
Napoli avrebbero finito la visita.
Appena entrato nello studio del Dott. Traum,
ero rimasto di sasso vedendo che si trattava
di una donna. Non so perché, anche da noi
le donne lavoravano, ma in una fabbrica di
tubi, e di quelle dimensioni, e come medico…
insomma, non me l’aspettavo. La donna, un
donnone a dir la verità, sembrava che mi stesse
aspettando da tutta la mattina. L’uomo verde
oliva l’aveva salutata con un movimento della
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| Voi non siete comunisti |
testa, in modo quasi militare e, senza sprecare
neppure una parola, era uscito. Io non sapevo
cosa dire, come fare a spiegare perché mi
trovavo lì ma, per fortuna, immediatamente la
dottoressa aveva cominciato a parlarmi in un
italiano quasi perfetto:
“Buongiorno signor Livraghi, come sta? Si è un
po’ ripreso?”
Non potevo crederci: come sapeva il mio
nome? La Dott.ssa Traum sorrideva della mia
faccia stupita e, senza che io chiedessi niente,
aveva cominciato a dirmi che il nostro arrivo
era stato annunciato quel mattino a tutti i
capi reparto, quindi agli operai in turno, al
personale amministrativo, alla sicurezza e
persino al gradino più basso della fabbrica,
ovvero a lei. Io, non sapendo cosa dire, me
n’ero uscito con una frase tipo: “Certo, non
dev’essere facile lavorare qui per una donna…”
e lei, subito: “Mi scusi?” Allora avevo cercato
di spiegarmi meglio: “Sì, insomma, una donna
in una fabbrica di tubi… non saranno molte le
91
| Voi non siete comunisti |
donne qui e magari gli uomini possono essere
un po’ grezzi nei modi, ma non si deve buttar
giù e dire per questo che è l’ultima ruota del
carro.”
Lei stava sorridendo e scuoteva la testa: “Ma
cosa dice? Non sono l’ultima ruota del carro
perché sono una donna! Ma perché sono
un medico e qui, al primo posto, ci sono gli
operai.” Non so perché, ma mi era successo
come a Vittorio, le parole avevano sorpassato
i ragionamenti: “Sì certo, adesso il dottore è al
gradino più basso della fabbrica! E l’arrivo di tre
poveri diavoli italiani viene annunciato come
se arrivasse in visita Lenin dall’oltretomba!” Mi
ero reso conto del mio tono subito dopo aver
finito la frase e credo di essere arrossito fino
alla punta delle orecchie.
Per fortuna la Dott.ssa Traum non era un tipo
permaloso: “Ma come? Non venite qui proprio
per imparare com’è la società ideale? Quella
dove uomo e donna sono alla pari, ma dove
l’operaio è al gradino più alto?” Il suo tono era
92
| Voi non siete comunisti |
serio ma la sua faccia era ironica, aveva quel
mezzo sorriso di chi ti prende per il culo. Avevo
persino creduto che di lì a poco mi avrebbe
fatto l’occhiolino. Intanto mi aveva guardato la
gola, mi aveva provato i riflessi del ginocchio
e mi stava auscultando il respiro. Io avrei
voluto chiederle il motivo di una visita così
approfondita, dato che avevo solo avuto un
giramento di testa, ma mi interessava molto di
più l’incastro mancato tra le sue facce e quello
che diceva: “Voi dell’Ovest giocate a fare i
comunisti, ma non lo siete, non sapete cosa
vuol dire e non siete pronti a sacrificarvi per il
bene comune. Prendete, ad esempio, la mia
professione: se oggi la Germania ha bisogno
di un medico, non deve importarmi se avrei
voluto insegnare storia, io devo fare il medico.
Io conto solo nella misura in cui servo al bene
comune. Voi, invece, venite qui a imparare
come si fa a fare i comunisti ma poi pensate
che sia lo stato a dover garantire per tutti la
possibilità di realizzare le proprie aspirazioni,
93
| Voi non siete comunisti |
e poi, dopo essere stati qui, cambiate idea o
vi piace solo guardarci come si guardano le
scimmie allo zoo?”
“Come? Cosa? Mi scusi dottoressa ma io non
capisco”, non sapevo cosa dire…
La Dott.ssa Traum mi sorrideva e adesso, come
previsto, mi strizzava anche l’occhio facendomi
segno, con un minuscolo movimento della
testa, verso la presa d’aria sulla parete sopra
alla porta e indicandomi con il dito il suo
orecchio, come per farmi capire che qualcuno
ci stava ascoltando. Poi, prima che io potessi
dire qualsiasi cosa, aveva aggiunto: “Quando
tornerà in Italia, lo dica agli altri operai, dica
che cos’è il vero comunismo, dove tutti possono
trovare un paradiso in terra, racconti loro la
verità e gli dica che dall’Ovest tanti tedeschi
tentano ogni giorno di superare il muro per
venire qui e migliorare la loro vita. E adesso si
alzi, lei sta benissimo, si vede che è abituato
a mangiare carne tutte le settimane, tra poco
arriverà anche il signor Van der Korput con i suoi
94
| Voi non siete comunisti |
amici, anzi, scusi: compagni.” In quel momento
mi stava guardando quasi con aria materna
mentre, improvvisamente, Vaidicorpo aveva
aperto la porta.
Durante il tragitto verso il centro di Berlino, il
lenzuolo di nebbia che ci aveva accolto alzandosi
al mattino, si stava abbassando di nuovo e io
continuavo a pensare alla dottoressa, a quello
che mi aveva detto, alla sua faccia che sembrava
volesse gridarmi qualcosa che la sua bocca non
poteva dire a voce alta.
Mentre ero perso nei miei pensieri, Vittorio
tutto felice aveva gridato: “Ecco Berlino, e
guardate là in fondo…
… davanti a noi c’è il muro!”
Sì, eravamo entrati a Berlino. Sì, eravamo vicini
al muro. Le strade erano spaventosamente
grandi e vuote in modo irreale: pochissime
macchine, tutte uguali alla nostra, ma di
colori diversi. I palazzi, visti da vicino, erano
giganteschi e pieni di finestre piccolissime,
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| Voi non siete comunisti |
erano color fango, come le strade e come il
cielo.
A un certo punto Vaidicorpo aveva tirato
fuori dalla sua borsa una radiolina e l’aveva
accesa, regolando le due rotelline fino a
quando il ritmo scattoso della parlata tedesca
era riuscito a venir fuori dal fruscio. Mentre
Vittorio continuava a parlare e descrivere tutto
ad alta voce, all’improvviso Jurgen lo aveva
zittito con uno “Sssh” e il padre aveva alzato il
volume al massimo, mentre il ragazzetto magro
continuava a rallentare fino quasi a fermarsi,
come se rallentando riuscisse a sentire meglio
quello che la radio stava trasmettendo.
Dopo qualche minuto di assoluto silenzio, la
Trabant si era proprio fermata e la radio era
stata spenta e messa nuovamente in borsa. I
due si guardavano e non parlavano.
Così per cinque minuti. Lunghissimi.
Poi, come se qualcuno li avesse svegliati di
colpo, padre e figlio avevano cominciato a
parlare in tedesco ad alta voce, velocemente,
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| Voi non siete comunisti |
entrambi molto agitati e, in un certo senso, a
ruoli invertiti: tanto Jurgen sembrava grande,
contento e impaziente, tanto suo padre
sembrava piccolo, impaurito e disorientato.
Noi non capivamo cosa stesse succedendo:
eravamo fermi e i due erano usciti dalla macchina
come se parlare davanti a noi cambiasse
qualcosa per loro… La nebbia era sempre più
bassa e le loro teste erano quasi scomparse,
mentre vedevamo i loro corpi discutere, o forse
litigare, attraverso il parabrezza. Sembrava di
guardare un film muto, con il padre che stava
quasi immobile, mentre il figlio, che pareva
morso dalla tarantola, gli camminava intorno
buttando le braccia in aria.
Alla fine, Vaidicorpo era tornato verso la
macchina e aveva aperto la portiera. Non era
entrato, aveva buttato dentro solo la sua testa
rotonda e ci aveva detto una cosa semplice
e, allo stesso tempo, incomprensibile: “Cari
compagni italiani, il vostro viaggio nella
Germania Democratica finisce adesso.”
97
| Voi non siete comunisti |
Non potevamo crederci, ci aveva detto che lui
doveva tornare subito a casa e che Jurgen ci
avrebbe riaccompagnati alla frontiera, dove
stava la nostra auto e poi, per quel che lo
riguardava, una volta fuori dal confine tedesco,
avremmo potuto fare quello che ci pareva.
Ovviamente noi chiedevamo, cercavamo di
avere qualche spiegazione, non capivamo
nulla, non avevamo idea del perché il nostro
viaggio di una settimana a Lipsia, si fosse
trasformato in una gita in giornata a Berlino.
Le nostre proteste, però, cadevano totalmente
nel vuoto e il compagno Vaidicorpo aveva
chiuso la portiera ed era tornato a parlare con
il figlio. Questa volta erano calmi e tutti e due
fermi, vicini.
Intanto noi tre, pressati nel sedile posteriore
della Trabant, non sapevamo cosa fare ma, una
volta salutato il padre con un abbraccio che
sembrava un arrivederci, Jurgen, era rientrato
e aveva messo in moto riprendendo la strada
di prima, ma in senso inverso. Vittorio, quindi,
98
| Voi non siete comunisti |
aveva cominciato a parlare ad alta voce, con
tono serio e arrabbiato: “Il sindacato italiano
e il PCI non lo manderanno giù un trattamento
del genere per i loro iscritti…”, “Che modi sono
questi? Dov’è la famosa accoglienza tedesca
di cui avevano raccontato i compagni che
erano stati qui prima di noi?” Dopo qualche
minuto di velate minacce, ma neanche troppo
velate, Jurgen aveva parlato per la seconda e
ultima volta. Sorridendo, ci aveva detto: “Voi
mi piacete, siete brava gente. Non abbiamo
niente contro voi, ma adesso dovete andare
via. Adesso noi dobbiamo pensare a noi. Voi
tornate a casa vostra. Anche noi troviamo la
via per ritornare a casa nostra.”
Aveva fermato ancora la macchina e ci aveva
chiesto di scendere, dicendo che non poteva
più aspettare neppure un minuto…per fare
cosa non lo sapevamo.
Stavamo sul marciapiede di un vialone enorme,
Napoli era molto agitato e aveva paura, si
99
| Voi non siete comunisti |
vedeva. Aveva le mani sulla testa e girando
su sé stesso diceva: “Aldo qui sta succedendo
qualcosa… e prima Lipsia e le proteste in tutto il
blocco sovietico, e mo la nostra visita che viene
sospesa, dopo neppure un giorno, e noi qui,
senza sapere cosa fare e dove andare! Guagliò
ca nun se capisc niente chiù!” Anche Vittorio
era perplesso, ma cercava di tranquillizzarci, o
di tranquillizzarsi: “Non esageriamo, può darsi
che il sindacato non ci abbia avvisati di qualche
evento o ricorrenza prevista oggi, chi vi dice che
il nove novembre non sia festa? Magari oggi è
la festa delle donne e gli uomini devono correre
a casa per preparare la cena! Qui nella DDR
le donne sono emancipate, lavorano, hanno
le loro feste e non fanno neppure tante storie
quando si tratta di scegliersi un compagno
per la serata, non come le nostre che devono
essere sposate e che…” poi, improvvisamente,
aveva smesso di parlare e, come noi, aveva
cominciato a guardare cosa succedeva intorno.
100
| Voi non siete comunisti |
Calma piatta. Nella nebbia il color fango del
giorno tedesco si stava macchiando di rosso
mattone e le ombre sfumate diventavano più
scure e più lunghe. Il sole, o la sua versione
tedesca, stava per tramontare e noi tre, in un
lago di freddo e di umidità, non sapevamo se
quello che avevamo davanti agli occhi era vero
o era frutto della nostra immaginazione: ad
ogni modo stavamo muti, inermi, guardavamo
e basta.
Dai portoni dei palazzi le persone uscivano alla
spicciolata. Prima erano pochi, non si notavano,
poi sempre più gente, sempre più in fretta, fino
a formare un rivolo stretto ma deciso, come un
torrente di montagna durante un temporale,
che scende a valle per trasformarsi in un fiume
in piena.
Sembravano formiche, le persone, gli abitanti
di Berlino Est, che uscivano e prendevano
possesso delle strade.
Erano tutti diversi ma anche tutti uguali. C’erano
i vecchi, in pigiama e ciabatte con il cappotto
101
| Voi non siete comunisti |
buttato sulle spalle. C’erano le mamme, che
tenevano per mano i bambini e li invitavano
a camminare più svelti, mentre gli infilavano
in bocca un pezzo di pane. C’erano gli uomini
con le valigie. Avevano tutti la stessa faccia, gli
stessi occhi, come ipnotizzati da qualcosa.
Andavano tutti nella stessa direzione.
Guardavano tutti nella stessa direzione:
camminavano con lo sguardo lucido e senza
voltarsi indietro.
Ci passavano di fianco e proseguivano alle
nostre spalle.
Noi tre eravamo contro corrente, in mezzo al
mare, come uno scoglio. Non sapevamo cosa
vedevano, perché a loro sembrava chiara una
direzione che per noi non lo era ma, alla fine,
ci eravamo girati per guardare il loro orizzonte:
là infondo, dietro di noi, c’era il muro.
C’erano anche tre uomini, tre uomini come
noi, della nostra età: colpivano il muro con i
102
| Voi non siete comunisti |
picconi, ad ogni colpo, i pezzi cadevano.
Prima erano state le briciole a staccarsi da un
blocco che sembrava infrangibile, poi erano
caduti i pezzi piccoli, mentre la forza dei loro
colpi aumentava, mentre arrivava altra gente
che colpiva, gridava, e frantumava anche i pezzi
più grandi.
Erano gli uomini e le donne di Berlino, che si
arrampicavano sulle rovine e passavano oltre.
103
| Autore |
Manuela Montanari
Manuela nasce negli anni delle spalline e dei rossetti
fucsia. Fin da bambina manifesta il suo amore per i pastelli,
i pennarelli, i timbrini di Pochie e le caramelle gommose.
Nella sua vita la creatività non è mai mancata, infatti ha
sognato di fare la pittrice, poi di fare il geometra, poi di
sposarsi a vent’anni. Tutte attività per cui, anche se forse
le sarebbe piaciuto, non si è rivelata molto portata. Da
sempre si è appassionata alle grandi battaglie, ai diritti
civili e agli atti di eroismo: alle elementari difendendo con
le unghie (nel vero senso della parola) la sua amichetta
S. dal bullismo della piccola e stronzissima L.; alle medie
odiando Beverly Hills 90210 (che avrebbe apprezzato in
età più avanzata) e i Take That perché piacevano a tutti,
al liceo protestando contro chi protestava ma, invece
di andare in manifestazione, andava a fare colazione al
bar; poi scegliendo l’università in base all’amore per la
materia studiata e non alla probabilità di trovare lavoro.
Anche oggi che un lavoro l’ha trovato (inventarsi come far
divertire la gente) continua a lottare per far sopravvivere
l’infanzia nonostante l’invasione degli adulti, per
difendere l’amore di chi si ama (a prescindere che si
tratti di una chiave e una serratura, oppure di due chiavi
o di due serrature) e, infine, per continuare a credere di
più alle illusioni che alla realtà.
Se volete saperne di più, scrivete a manuela.
[email protected]
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Ma il nonno dov'e?
La rivoluzione: Il frigorifero
di Elena Ghielmi
Erano le due del pomeriggio di una
fredda giornata di gennaio. Adalgisa stava
rammendando l’orlo del vestito che la signora
Agnese avrebbe indossato per le foto con la
stampa, quando il piccolo Meneghin irruppe
correndo nella stanza.
“Il nonno vuole un grappino! Dice che non ha
digerito bene,” proferì tutto d’un fiato.
Adalgisa si alzò: “Dì al signor Isacco che
non dovrebbe bere, gli fa male alla salute,”
rispose, porgendogli un bicchiere del distillato
alcolico. Meneghin uscì dal tinello, sparendo
nel corridoio a destra, che porta allo studio.
Il signor Isacco dormiva sulla sua poltrona di
pelle, di fianco allo scrittoio, dove è solito fare
106
| Ma il nonno dov’è? |
il riposino pomeridiano.
Il bambino gli mise davanti agli occhi chiusi
il bicchiere: “Nonnooo, alla tua saluteee,”
cantilenò, senza tuttavia turbare il sonno del
progenitore. Trangugiò il liquido trasparente
e, quando l’alcol raggiunse la gola, fece una
smorfia di disgusto.
Corse di nuovo dall’Adalgisa: “Il nonno vuole
un pezzetto di panettone.”
“Ma, Meneghin, mi hai appena detto che non
ha digerito. Ora vuole anche il panetun? È un
nuovo digestivo?” indagò l’Adalgisa.
“Dice che la grappa gli ha aperto un buco nello
stomaco,” mentì con occhi angelici il bambino.
“D’accordo! Una fettina piccola, però,”
acconsentì l’Adalgisa.
Meneghin prese il panettone e si diresse di
nuovo verso lo studio. Il signor Isacco giaceva
sempre nella medesima posizione. Il bambino
si sedette a terra, di fronte a lui, a mangiare il
panettone, scartando accuratamente i canditi,
che ammonticchiava sul piatto posato accanto
107
| Ma il nonno dov’è? |
a sé. Di tanto in tanto, ne prendeva uno e lo
lanciava al signor Isacco, tentando di colpirgli il
naso aquilino. Ad un certo punto, rendendosi
conto che il battagliero nonno non si muoveva
per assestargli uno scappellotto, neppure
quando i canditi lo colpivano in volto, Meneghin
iniziò ad avere un sospetto.
“Il nonno è morto!” gridò, entrando in tinello
con gli occhi sbarrati.
“Ma come morto, Meneghin? Si è soffocato
con il panettone?” chiese allarmata Adalgisa.
“Gli lanciavo i canditi mentre dormiva, ma non
mi ha tirato neanche uno schiaffone!”
Il signor Isacco aveva raggiunto la veneranda
età di ottantotto anni in perfetta salute, fisica e
mentale, e con una buona dose di combattività.
Era possibile che, proprio quel giorno frenetico
e senza un attimo di sosta, avesse deciso di
passare a miglior vita?
“Calmati, Meneghin. Andiamo a vedere. Magari
sta solo dormendo un sonno profondo,” cercò
108
| Ma il nonno dov’è? |
di consolarlo.
Si avviarono verso lo studio, Adalgisa si avvicinò
alla poltrona e lo chiamò, prima sottovoce, poi
sempre più forte: nessuna risposta. Accostò
l’orecchio per sentire il battito del cuore: nulla.
L’ultima cosa che fece, fu prendergli il polso:
anche qui, nessun segno di vita.
Era morto.
Questa proprio non ci voleva! Il furgoncino
della Ignis, con il pesante involucro, si sarebbe
fermato davanti al numero civico due di via
dei Cappuccini di lì a poco. La stampa sarebbe
arrivata alle cinque: giornalisti, fotografi,
parenti e tutto il vicinato si sarebbero riversati in
casa Frigerio, per festeggiare il grande evento.
E, ora, si trovavano con un cadavere fresco
fresco da smaltire. Ironia della sorte.
Non si sa quale sia stata la molla che abbia
fatto scattare in Adalgisa la decisione: forse
il rumore delle pentole che proveniva dalla
109
| Ma il nonno dov’è? |
cucina, oppure gli spilli, appuntati al grembiule,
a ricordarle lo splendido abito che la signora
Agnese avrebbe sfoggiato. O, ancora, gli occhi
di Meneghin che, fino a poco prima, brillavano
di emozione per la giornata che lo attendeva.
Ma forse, semplicemente, fu il rumore di ruote
sulla ghiaia del vialetto d’ingresso, che fecero
venire alla domestica di casa Frigerio, quasi
una di famiglia, l’idea.
“Meneghin, non preoccuparti. Ora la tua
Adalgisa sistema tutto. Resta qui e leggi
qualcosa al nonno. Ecco, questo libro che gli
piace tanto.”
Poi, senza aggiungere altro, uscì dallo studio
con in mente un piano.
Il furgone si presentò alle tre in punto. Il
signor Adalberto e la signora Agnese si erano
precipitati fuori dalla villa, con mal celata
compostezza, dispensando sorrisi ai curiosi,
che cercavano di sbirciare tra le sbarre del
cancello socchiuso. Mentre i facchini seguivano
110
| Ma il nonno dov’è? |
le indicazioni dei domestici, per trasportare in
casa l’ingombrante contenitore, i parenti della
famiglia Frigerio cominciarono ad arrivare.
Gli zii Antenore e Leonida sono i primi a
varcare il cancello, con la loro Topolino nuova
di zecca. Scendono dall’auto e iniziano,
simultaneamente, a lucidare la carrozzeria,
come se ne andasse della loro stessa vita. Forse
pensano che, nel tragitto da Varese a Milano, la
loro fiammante automobile possa essere stata
contaminata da non si sa quale sporcizia.
La zia Leonida indossa la pelliccia, sotto la quale
si intravede un vestito rosso da sera, forse
reduce dal Capodanno da poco trascorso. Lo
zio Antenore, dopo aver terminato di lucidare
l’auto, passa a lustrarsi le scarpe, anch’esse
probabilmente deturpate dalla stessa sporcizia
che ha colpito la vettura.
A pochi minuti dal loro arrivo, si presentano
zia Lucia e zio Mansueto, una coppia la cui
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| Ma il nonno dov’è? |
timidezza è imbarazzante. Il parere dei più è che
si siano sposati per dare un senso ai rispettivi
silenzi e solitudini.
Lo zio Mansueto si rifugia immediatamente
in un angolo, per non salutare nessuno; la zia
Lucia tossicchia, sorridendo imbarazzata.
I vicini di casa Frigerio arrivano alla spicciolata;
la maggior parte delle signore sono vestite
come per una prima alla Scala. I parrucchieri
di Milano avranno avuto il loro bel da fare per
tutta la mattinata.
Adalgisa restò per un po’ nell’ombra ad
aspettare. Avrebbe voluto partecipare anche
lei alla gioia del momento, ma aveva altro a cui
pensare.
Si radunarono tutti in cucina: nell’eccitazione
generale, fortunatamente, nessuno notò
l’assenza del piccolo Meneghin e del signor
Isacco. Con una lentezza quasi esasperante,
i coniugi Frigerio scartarono l’involucro che
112
| Ma il nonno dov’è? |
proteggeva l’enorme pacco. Pian piano venne
alla luce un frigorifero alto un metro e mezzo
che, il giorno seguente, sarebbe stato messo
in funzione alla presenza del sindaco, Antonio
Greppi. Qualcuno spostò la confezione,
usata per il trasporto, in un angolo e riportò
immediatamente l’attenzione al nuovo arrivo.
Fu in quel momento che Adalgisa ebbe l’idea
di come trasportare il nonno in cantina.
Una bara di cartone! Ecco dove avrebbero
riposto il corpo senza vita del signor Isacco.
Adalgisa era l’unica persona di casa Frigerio
in grado di mantenere il sangue freddo, nelle
difficoltà. Coinvolgere la signora Agnese o il
signor Adalberto non avrebbe avuto senso.
La prima avrebbe piagnucolato che il signor
Isacco le stava rovinando la festa, rubandole
la scena; il secondo avrebbe cominciato a
domandarsi come risolvere la situazione. E
non avrebbe comunque trovato una soluzione!
Con noncuranza, Adalgisa prese il contenitore
113
| Ma il nonno dov’è? |
abbandonato, servito per il trasporto del
frigorifero, e lo trascinò fino allo studio, facendo
attenzione che nessuno la seguisse.
“…di fare un ingrandimento a olio della
fotografia della sua mamma morta: che è, per
un carabiniere, il massimo punto d’arrivo della
pittura,” stava leggendo Meneghin, quando
Adalgisa entrò nella stanza.
“Bravo, Meneghin. Hai letto proprio una bella
storia al nonno. Adesso, però, posa il libro che
devi aiutarmi.”
Fece del suo meglio per inventare una storia
credibile per il bambino ma, alla fine, decise di
optare per la verità: “Meneghin, il nonno non
vorrebbe essere di peso proprio oggi, in questa
giornata di festa. Lo lasciamo riposare ancora
un pochino e poi, non appena i festeggiamenti
saranno finiti, lo riportiamo in casa e lo
salutiamo come si conviene ad una persona
come lui. Mi aiuti a portarlo giù, in cantina,
dove nessuno lo disturberà?”
114
| Ma il nonno dov’è? |
Mentre si apprestavano a spostare il signor
Isacco dalla poltrona, entrò nello studio il signor
Adalberto.
“Che succede qui?” chiese, vedendo Adalgisa
e Meneghin chinati sul nonno.
“Signor Adalberto, ho già pensato a tutto io.
Non deve preoccuparsi di nulla. Suo padre avrà
le esequie degne del suo rango, non appena
queste due frenetiche giornate saranno
terminate,” disse senza sosta l’Adalgisa.
“Cosa? È morto? Papà, papà, ma stavi bene
fino a poco fa! Il mio povero papà. Ma, poi,
proprio oggi dovevi morire? Non hai neanche
visto il frigorifero nuovo! È appena arrivato,
sai: non potevi aspettare di vederlo prima di
dipartire? E come facciamo adesso? Oddio, se
lo sa Agnese questa non te la perdona. E, non
potendo far passare un guaio a te, mannaggia,
lo farà passare a me. Adalgisa, che facciamo?”
Non appena riuscì ad arginare lo sproloquio del
signor Adalberto, Adalgisa gli illustrò il piano.
Dopo altri cinque minuti di piagnisteo, il signor
115
| Ma il nonno dov’è? |
Adalberto era divenuto loro complice.
Più importante della morte di una persona cara,
c’è solo una foto in prima pagina sul Corriere
della Sera!
Uscirono tutti e tre dallo studio, trascinando la
pesante scatola lungo il corridoio. Per fortuna,
il signor Isacco era alto poco più di un metro
e sessanta e non pesava molto: erano riusciti
ad adagiarlo nel cartone, avendo l’accortezza
di posizionare dei cuscini intorno al corpo.
Sarebbero dovuti passare per la scala esterna,
per raggiungere la cantina che fungeva da
ghiacciaia. Sapevano che sarebbe stato
pericoloso, ma non c’erano alternative.
Avevano appena varcato la porta d’ingresso,
quando comparve la Perpetua. Di tutte le
persone al mondo che avrebbero potuto
incontrare in quel tragico momento, lei era
senz’altro la peggiore: piacevole come un
rinoceronte che ti pesta i calli.
“È arrivato? Dove lo state portando? A che
116
| Ma il nonno dov’è? |
ora arriva la stampa? E Agnese dov’è?” incalzò
subito, senza neanche prendere fiato.
La Perpetua era una di quelle persone che,
non vivendo mai nulla di eclatante, amava
ficcanasare nelle vite altrui. Un po’ come se,
facendo ciò, ne entrasse a far parte per osmosi.
Per liberarsene prima possibile, le risposero
che il frigorifero era in cucina e che stavano
portando in cantina la scatola, perché non
fosse di impiccio durante le fotografie: che
andasse pure in casa a cercare Agnese e a
vedere il nuovo elettrodomestico. Tuttavia,
non fu sufficiente a togliersela di torno.
Non potevano perdere tempo ulteriore: erano
già le quattro e, entro un’ora, sarebbero
arrivati giornalisti e fotografi. Cominciarono a
scendere le scale, sperando che la Perpetua
non li seguisse. Ma così non fu.
“Posso aiutarvi? È così pesante questa
confezione? Fatemi sentire.”
“No! Intendo dire che non è necessario che
veniate con noi. Dobbiamo solo posare il
117
| Ma il nonno dov’è? |
contenitore e saremo di ritorno di qui a poco,”
provò di nuovo a dissuaderla l’Adalgisa.
“Ma posso aiutarvi? Mi farebbe piacere
darvi una mano. Fatemi un pochino di posto.
Vi faciliterei il compito,” e, così dicendo, la
Perpetua cercava di incastrarsi fra il muro e la
scatola, per sollevare un poco di peso anche
lei.
“Rischiate di farci cadere, Perpetua. Vi prego,
risalite e andatevene… in cucina a cercare la
signora Agnese.”
Nulla da fare: la Perpetua tanto fece e tanto
insistette che se la ritrovarono in cantina con
loro.
La sfortuna guardò dalla loro parte sull’ultimo
gradino della scala. Se non fosse stato per quello
scalino, avrebbero potuto lasciare la scatola
nella ghiacciaia, risalire e tutto sarebbe filato
liscio. Ma, quando il destino è avverso, bisogna
solo correre ai ripari. Il signor Adalberto, che
camminava all’indietro, inciampò sull’ultimo
118
| Ma il nonno dov’è? |
scalino, perdendo l’equilibrio. Meneghin e
Adalgisa provarono a reggere da soli il peso,
ma si sbilanciarono anche loro e il cartone si
aprì. Ne uscì, rotolando a terra, una ciabatta.
“Ma cos’è?” chiese la Perpetua. Stava per
chinarsi a raccoglierla, quando una mano uscì
dalla scatola, colpendole il volto.
La Perpetua fece un urlo, inizialmente per
lo spavento poi, quando finalmente capì, di
terrore. Prontamente, il signor Adalberto
l’afferrò, tappandole la bocca, prima che
potesse voltarsi e risalire la scala.
Come avrebbero fatto ora ad evitare che la
pettegola del quartiere rivelasse a tutti cosa
nascondeva la famiglia Frigerio in ghiacciaia?
“Adalgisa,
che
facciamo?”
domandò
piagnucolando il signor Adalberto.
“Non facciamoci prendere dal panico.
Vediamo… Dovremmo farle dimenticare questo
momento.”
“Potremmo darle una bastonata in testa,”
suggerì il signor Adalberto.
119
| Ma il nonno dov’è? |
“Si, e poi potremmo seppellirla insieme
al signor Isacco, già che ci siamo,” rispose
sarcastica l’Adalgisa.
“Buona idea! Nessuno la cercherebbe!”
Adalgisa roteò gli occhi in segno di biasimo.
L’idea venne a Meneghin.
“Una volta la Perpetua ha bevuto un bicchiere
di vino con la mamma e, dopo poco, stava
ridendo e ballando a piedi nudi. L’indomani non
ricordava nulla. Ubriachiamola!” disse l’arguto
bambino.
“Bravo Meneghin! Tu sì che ragioni con la testa,”
disse l’Adalgisa dandogli un buffetto.
La cantina era il luogo in cui venivano
conservate le bottiglie di vino, buono e non. Per
l’uso che ne avrebbero fatto, poco importava
che fosse di scadente qualità.
Presero una patata nella zona che fungeva da
dispensa e ridussero al silenzio la Perpetua; poi,
la misero a sedere su una sedia e le legarono le
gambe, in modo che non potesse allontanarsi.
Presero un imbuto e, dopo averle liberato la
120
| Ma il nonno dov’è? |
bocca, iniziarono ad imbottirla di vino. Tra un
grido e l’altro, ne ingurgitò una bottiglia intera.
In quanto al signor Isacco, lo adagiarono nella
ghiacciaia, come se stesse godendo di uno
spettacolo immaginario.
Sistemati il nonno e la Perpetua, tornarono in
superficie ai loro ruoli abituali.
Era giunto il momento di mettere al corrente
la signora Agnese dell’accaduto.
Il signor Adalberto, con tatto, la prese da parte e
le disse: “Amore, il mio adorato padre è passato
a miglior vita, poco fa. Ma non preoccuparti, è
tutto sistemato.”
“Mi stai dicendo che è morto? Lo sapevo che
quel vecchio brontolone mi avrebbe messo i
bastoni fra le ruote. Non lo voleva neanche
il frigorifero, lui. Scommetto che lo ha fatto
apposta per rovinarmi la giornata. Deve averlo
premeditato.”
Solo l’intervento di Adalgisa riuscì a sedare il
suo spietato egocentrismo e a tranquillizzarla
121
| Ma il nonno dov’è? |
che la festa sarebbe andata secondo i suoi
piani.
Alle cinque il campanello di villa Frigerio
suonò: stampa e fotografi arrivarono per il
sopralluogo. Tutti erano pronti ai loro posti:
la scena di apertura di una rappresentazione
teatrale perfettamente orchestrata. Il padrone
di casa fece gli onori e guidò la stampa verso la
cucina, in cui capeggiava il nuovo frigorifero.
Un giovane fotografo iniziò a posizionare la
sua pesante attrezzatura per immortalare la
scena. Il signor Adalberto e la signora Agnese
si fecero fotografare accanto al frigorifero con
la famiglia al completo, tranne uno.
Nel frattempo, in cantina, qualcuno aveva
deciso di cominciare a cantare.
“Oh, quant’è bella l’uva fogarina
o quant’è bello andarla a vendemmiar
Sciur Isacco, fa frecc chi sota, no? La gh’ha la
narigia tutta giassada.” disse la Perpetua al
122
| Ma il nonno dov’è? |
cadavere del signor Isacco.
La scena, vista da fuori, appariva piuttosto
bizzarra. Il signor Isacco, nella ghiacciaia, rigido
come solo il rigor mortis può essere; di fronte
a lui, la Perpetua seduta su una sedia con le
gambe legate, una bottiglia di vino in mano e il
naso rosso per l’ubriacatura.
“La gh’ha minga una bela cera, eh, sciur Isacco.
L’è bianc me un mort.
Chi è che dis ch’el vin el fa mal
l’è tutta gente, l’è tutta gente
chi è che dis ch’el vin el fa mal
l’è tutta gente de l’ospedal.”
“Antenore caro, hai mica lasciato la radio accesa
in macchina?” chiese la zia Leonida.
“No, Leonida cara. Ho spento la radiolina
e l’ho posizionata sul sedile posteriore
dell’autovettura.”
“E allora, Antenore caro, da dove proviene
questa musica?” proseguì la zia.
Adalgisa e il signor Adalberto si scambiarono
123
| Ma il nonno dov’è? |
uno sguardo eloquente.
“Deve essere il nuovo giradischi della vicina.
Lo tiene sempre a volume un po’ troppo alto,”
rispose tossicchiando il signor Adalberto.
“Vado in cantina a prendere altra legna per
la stufa,” disse Adalgisa precipitandosi fuori
di casa e giù dalle scale. Mentre invitava la
Perpetua a bere un goccetto, venne raggiunta
dalla signora Agnese.
“Eccolo qui, il nonno brontolone. Ah, ciao
Perpetua. Vedo che sei in ottima compagnia.
Non poteva scegliere momento meno adatto
per andarsene, il vecchio. Ma, fin da quando
abbiamo deciso di prendere il frigorifero, mi
ha dato del filo da torcere. Ed eccola qui, la sua
uscita di scena trionfale, proprio oggi. Nulla è
casuale, ci scommetto.”
Poi, mentre si voltava per risalire le scale:
“Perpetua, lascia un po’ di vino anche al signor
Isacco, non fare la solita tirchia.”
Ma la Perpetua, come la radiolina dello zio
Antenore, giaceva spenta, abbandonata sulla
124
| Ma il nonno dov’è? |
sedia ad un sonno profondo.
Mentre la festa prendeva vita al piano di
sopra, in cantina c’era un gran trambusto.
La Perpetua, ripresa conoscenza, cercava di
avvicinarsi al signor Isacco, per condividere
con lui il vino, quando la sedia, alla quale
era legata, si sbilanciò, cadendo a terra, con
Perpetua al seguito. In cucina, nonostante le
chiacchiere e i festeggiamenti, avvertirono un
gran baccano. Qualcuno dei vicini chiese: “Da
dove proviene questo rumore? Sembra che
arrivi dal seminterrato.”
Tre figure si mossero all’unisono, senza tuttavia
dare nell’occhio. Mentre la signora Agnese
intratteneva e distraeva gli ospiti, Meneghin,
Adalgisa e il signor Adalberto accorsero di
sotto, dove la Perpetua, seppur a terra e
legata come un salame, continuava a stillare le
ultime gocce dalla bottiglia ormai vuota. Dopo
aver rimesso la sedia al suo posto ed essersi
raccomandati con la Perpetua di non cercare
125
| Ma il nonno dov’è? |
di dare da bere al nonno, le diedero una nuova
bottiglia e la lasciarono ai suoi monologhi,
i quali di certo il signor Isacco non avrebbe
potuto interrompere.
Tra fotografie, brindisi e curiosi che facevano
capolino da ogni dove, la festa in casa Frigerio
durò fino alle otto di sera.
Quando, finalmente, gli ospiti se ne furono
andati, i domestici si apprestarono a riordinare
le stanze, per l’arrivo, il giorno seguente, delle
autorità per l’inaugurazione e l’accensione
ufficiale del primo frigorifero di Milano.
La famiglia Frigerio si radunò nella sala da
pranzo. Quella sera, infatti, si apprestava a
concludersi la prima edizione del Festival
della Canzone italiana, svoltosi a Sanremo. La
famiglia si strinse intorno alla piccola radio per
ascoltare le canzoni finaliste.
La voce di Nilla Pizzi, appena nominata
vincitrice, uscì melodiosa dalla radio, a tratti
126
| Ma il nonno dov’è? |
gracchiante, sovrapponendosi ad un’altra
voce che saliva, molto meno armoniosa, dalla
cantina:
“La bella la va al fosso,
ravanei remulass barbabietole spinass
tré palanche al mass.”
Mentre tutti ascoltavano la radio, il piccolo
Meneghin scese, di nascosto, nel seminterrato.
Prese la bottiglia di vino e invitò la Perpetua a
fare un brindisi anche con lui.
“Meneghin, dàgh un cicinin de vin anca al sciur
Isacco, ca gh’ha frecc,” disse la Perpetua, ormai
prossima al coma etilico.
Quest’ultimo bicchiere pose fine alla giornata
alcolica della Perpetua.
Quando tutti, verso mezzanotte, si ritirarono
nelle proprie stanze, Adalgisa e il signor
Adalberto presero una torcia e scesero in
cantina. La Perpetua dormiva con la bocca
aperta e la testa riversa di lato, di un sonno
127
| Ma il nonno dov’è? |
profondo dal quale nulla avrebbe potuto
svegliarla: la slegarono e, con l’aiuto del cartone
usato per spostare il cadavere del signor Isacco,
la riportarono in casa. Fecero non poca fatica
a trasportarla; con tutti i litri di vino ingeriti
pesava di gran lunga di più del povero Isacco. La
adagiarono sulla poltrona, dove il nonno aveva
schiacciato il riposino fatale, e si ritirarono nelle
loro stanze. Con la quantità di alcol che aveva in
corpo, difficilmente si sarebbe svegliata prima
dell’alba.
Alle prime luci del mattino, Adalgisa si alzò per
controllare la Perpetua: dormiva ancora della
grossa, con la testa reclinata sul cuscino della
poltrona. Voleva accertarsi che non ricordasse
nulla del giorno precedente. Provò prima a
scuoterla con delicatezza, poi sempre più forte,
finché non aprì gli occhi.
“Che c’è? Che ore sono? Dove sono? Ussignur
che mal di testa,” disse con la solita parlantina,
anche appena sveglia.
128
| Ma il nonno dov’è? |
“Perpetua, come vi sentite? Ieri sera avete un
po’ esagerato con il vino, non trovate?”
“Il vino? Ah si, ricordo di aver bevuto svariati
bicchieri.”
“È stata una bella festa, però, concordate?”
“Si, che bella festa. Quanta gente. E che bello,
poi, il frigorifero.”
“Ricordate di aver parlato con qualcuno in
particolare?”
“Fatemi pensare… Ah, si! Ricordo di aver fatto
quattro chiacchiere con il signor Isacco, anche
se non mi sembrava stesse partecipando
vivamente alla serata. Ussignur, ma che ore
sono? È meglio che vada: devo cambiarmi
d’abito per l’arrivo del sindaco. A rivederla più
tardi, Adalgisa.”
E se ne andò barcollando.
Pochi giorni dopo, al termine di pompose
esequie, mentre la bara veniva collocata
nella cappella della famiglia Frigerio, presso il
Cimitero Monumentale, il piccolo Meneghin
129
| Ma il nonno dov’è? |
lesse ad alta voce la lapide:
“Qui giace Isacco Frigerio che, seppur colto da
morte improvvisa, seppe attendere la sua ora,
per una degna sepoltura. Riposa al fresco, in
eterno.”
130
| Autore |
Elena Ghielmi
Elena è arrivata sul pianeta Terra dopo varie
peregrinazioni in giro per l’Universo. L’ultimo pianeta
visitato, nonché il suo preferito, è stato Nettuno:
caratterizzato da fortissimi venti, le consentiva di vagare
all’interno della Galassia come una extraplanetaria
Mary Poppins. Approdata sulla Terra da qualche anno,
ha trovato persone molto diverse dagli abitanti degli
altri mondi. Alla continua ricerca di qualcosa che la
stupisca, ama riempire la sua valigia intergalattica di
oggetti da regalare agli abitanti dei successivi pianeti
che visiterà. Dalla Terra ha prelevato un libro, una
matita, degli orecchini e un paio di scarpe da donna,
tacco dodici. Il prossimo ed ultimo corpo celeste che
visiterà sarà Saturno, anche se teme di non essere ben
accolta. In fondo, Saturno è il pianeta che si ha sempre
contro. Ha deciso che, dopo quest’ultimo mondo, farà
ritorno alla sua Galassia, Andromeda, nella quale è
nata. Manca ormai da troppo tempo. E, in fondo, Elena,
oltre ad essere una inguaribile viaggiatrice, è anche una
nostalgica aliena.
Se volete saperne di più, scrivete a
[email protected]
131
Non resta che fumo
La rivoluzione:
La congiura delle polveri
di Alice Gaffo
“Cosa ne pensate?”
“Davvero non saprei” rispose l’ometto
segaligno e scuro in volto, che fino a quel
momento era rimasto in rigoroso silenzio ad
ascoltare. Inchiodato alla sedia si stropicciava
le mani sudaticce strette l’una all’altra in una
morsa. L’argomento lo metteva a disagio.
“Non posso credere che non abbiate un’
opinione in merito” continuò il suo elegante
interlocutore che, a passo lento, si era
avvicinato all’omino seduto e ora torreggiava
su di lui. “Si tratta di una questione sempre
attuale, dopotutto.”
L’altro deglutì e accennò un sorriso incerto.
133
| Non resta che fumo |
Quanta importanza poteva avere la sua
opinione di fronte ad una persona simile? Erano
entrambi uomini, certo, ma non allo stesso
modo. Chi gli stava dinnanzi era un gigante.
Uno che poteva sollevare un miserabile dal
fango e con la medesima indifferenza poteva
schiacciarlo.
Non ricevendo risposta, l’uomo proseguì:
“Mantenere l’ordine. Non è solo quello che ci
si aspetta da me, è quello che voglio.
Ogni pezzo della scacchiera ha un suo posto e,
per quanto si muovano, sono tutti guidati da
una sola mano”.
La sua, pensò l’uomo seduto, distogliendo lo
sguardo per un istante.
Il gigante fece una pausa e si lasciò sfuggire un
ghigno andando verso l’ampia finestra che si
affacciava sulla strada brulicante e chiassosa.
“È strano, vero? Come a volte per mantenere
l’ordine sia necessario creare un po’ di caos?”.
“Una guerra?” si lasciò sfuggire il piccolo uomo
che impallidì, vedendo il gigante che si girava a
134
| Non resta che fumo |
guardarlo con un’espressione sardonica.
“Perché essere così drastici?” rispose. “Quello
che intendo è molto più preciso e sottile: un
piccolo disordine controllato, da poter sedare.
Per mostrare alla gente quel che potrebbe
essere… Che cosa potrebbe succedere… Per
compiacere le piccole menti che bramano una
soluzione energica, dura, decisa, efficace. E dar
loro una scusa, che legittimi il loro odio”. Ogni
parola aveva il peso di un macigno, tuttavia il
gigante le sputava come fossero nocciolini di
ciliegia.
“Ma parliamo di domani. In fondo è per
questo che vi ho fatto chiamare.” proseguì
l’uomo prendendo dalla scrivania alcuni
fogli e porgendoli al suo interlocutore, che si
sporse dalla sedia allungando la mano sottile
e nodosa. Li prese e li tirò a sé, ma la sua
attenzione fu catturata da una lettera, scritta
con una grafia quasi illeggibile, che cadde dal
mucchio. La raccolse.
“È la lettera che ha ricevuto Mounteagle.” disse
135
| Non resta che fumo |
il gigante anticipando la domanda dell’uomo,
che annuì con la testa, fissando il pezzo di carta
e chiedendo timidamente, senza alzare gli
occhi: “Avete scoperto chi gliel’ha mandata?”
“No. L’ho letta diverse volte ma la prosa è rozza
e confusa, sembra opera di un analfabeta”
rispose l’altro con noncuranza, affondando
due dita nel suo folto pizzetto grigio.
L’uomo tornò a guardare la lettera. In alto a
sinistra figurava la data: 26 ottobre 1605.
L’uomo trasalì confuso e preoccupato. “Ma è di
una settimana fa! Perché vi è stata consegnata
solo ieri?”
“Sophie! Che stai facendo?!”
La ragazza, china sulle elaborate decorazioni
del pomello laccato in oro di quella grandiosa
porta, sobbalzò lasciando cadere lo straccio
sgualcito che aveva in mano.
“Miss Hound!” esclamò sgranando gli occhi
e raccogliendo in fretta lo strofinaccio. “Io
lucidavo…”.
136
| Non resta che fumo |
La donna le piombò accanto e la prese per il
polso, ringhiandole contro. “Stavi origliando,
stupida cagna! E cosa ci fai qui, comunque?
Le sguattere non possono venire al piano di
sopra!”. Gli occhioni della ragazza si riempirono
di lacrime. “Vattene! E resta al tuo posto!” Le
intimò la governante, il cui aspetto feroce si
intonava perfettamente al suo nome, Hound,
mastino.
Sophie abbassò lo sguardo e a passo svelto
scappò via, attraversando quel meraviglioso
corridoio, dai soffitti alti come non ne aveva
mai visti, interamente affrescati con colori
intensi. Le piaceva spiarli, il rosso le ricordava
i tramonti di quando era bambina. I suoi passi
riecheggiavano per le ampie stanze, così
riccamente decorate da sembrare abitate
anche quando non ospitavano anima viva.
Voleva solo vedere il Re, pensava, era a servizio
da settimane, voleva avere anche lei qualcosa
da raccontare.
Oltrepassò una porticina, mimetizzata nella
137
| Non resta che fumo |
parete sfarzosa. Ed eccola di nuovo in quella
familiare stanzina fredda e spoglia che la
separava dal lusso. Scese le scale di legno grezzo,
ascoltandone il noioso cigolio e
percorse
lentamente lo stretto corridoio umido. Non un
quadro alle pareti, solo ciarpame sparso qua e
là. Superò le cucine che, malgrado fosse ancora
mattina, già diffondevano nell’aria il ricco aroma
del pranzo regale. Le cuoche sbuffavano come
pentole, inveendo le une contro le altre.
Quando finalmente raggiunse la stanza
degli impicci, dove svolgeva le sue piccole
mansioni, era così abbattuta e arrabbiata dalla
sgridata che entrando urtò John, un giovane
decisamente troppo carino per essere uno
spazzacamino. Gli dedicò un sorriso e chiuse
la porta dietro di sé.
Che bella ragazza, pensò il giovanotto
ciondolando verso i sotterranei, con una corda
per la legna poggiata sulla spalla. Attraversò
un paio di piccoli locali spogli e freddi, pieni
138
| Non resta che fumo |
di donne che rammendavano e lucidavano. E
infine il freddo si insinuò nella larga maglia di
lana, mentre trottava giù dalle scale di pietra,
che portavano alle cantine.
I topi gli sfrecciavano attorno mentre si
apprestava a prendere quanti più tronchetti
poteva. Non era un suo compito, ma era quello
che gli era stato richiesto. Odiava quelle cantine
umide, e odiava dover mettere le mani in quel
buco per la legna. Era così concentrato, che
non si accorse di un’altra presenza, qualcuno
che si aggirava per i sotterranei con passi
sicuri, spavaldi, decisi. Passi che si arrestarono
dinnanzi a un’insignificante porta di legno
grezzo.
Dopo averla oltrepassata, la misteriosa figura
accompagnò la porta delicatamente fino a
chiuderla, “Sapevo che ti avrei trovato qui”
disse voltandosi e sorridendo all’uomo nella
penombra. Quest’ultimo seduto al centro
della stanza, con il viso nascosto da un ampio
cappello nero, rimase serio e alzò gli occhi.
139
| Non resta che fumo |
“Potevi essere visto Will.” Al ragazzo sembrò
di vedere le sopracciglia dell’uomo aggrottarsi
sopra i suoi occhi scuri. “E anche se fosse?”
ribatté sorridendo. “Nessuno ci cerca e io
conciato così sembro un pelapatate.”
Era vero, William era vestito come un garzone,
con una camicia larga di tessuto grezzo, ispido
che gli faceva prudere la pelle, abituato
com’era alle sete e ai velluti. Tuttavia, quello
era l’abito che indossava con più orgoglio.
Perché, dentro quei vestiti, sentiva di essere
l’uomo che avrebbe voluto diventare.
Il locale era ricolmo di barili, che però in
quell’accozzaglia di cianfrusaglie passavano
quasi inosservati. Nel frattempo gli occhi di Will
si erano abituati all’oscurità e mentre cercava
qualcosa su cui potersi sedere, notò che il suo
compagno stava di fronte ad una botte aperta
e borbottava parole silenziose, sfregandosi
tra le dita pizzichi della polvere nera in essa
contenuta e facendo guizzare lo sguardo da
un barile all’altro. C’è qualcosa che non va,
140
| Non resta che fumo |
realizzò Will.
“Cosa...?” Non fece in tempo a formulare
la frase che l’altro rispose “La polvere si è
deteriorata. Ho contato almeno 10 barili che
ora sono inutili.”
Il giovane trasalì. “Ma funzionerà vero?
Esploderà comunque, Guy?”.
L’uomo guardò l’espressione dipinta sul volto
del ragazzo, così preoccupata e al contempo
piena di fiducia e si lasciò sfuggire un sorriso,
che tentò di nascondere tornando a guardare
le polveri. “Catesby ha già contattato Wright.
Sostituiremo i barili.” disse, poi fece una pausa
quasi teatrale e aggiunse “Esploderà.”
Erano in silenzio da un po’, Guy non amava
conversare. Erano rimasti soli diverse volte
e soltanto in un’occasione era stato lui ad
intavolare l’argomento. Gli aveva chiesto
perché fosse lì, per quanto non fosse affatto
interessato alle mansioni che gli erano state
affidate. Quello che voleva sapere era il motivo
per cui aveva deciso di unirsi alla loro causa.
141
| Non resta che fumo |
Voglio essere come mio padre, aveva risposto
William di impulso. Ma poi con il tempo, si era
pentito di quelle parole. Le sentiva sempre
meno vere. Suo padre aveva combattuto un
tempo, ma ora era rintanato in una casa di
periferia e lì, a cambiare il mondo, c’era un
altro uomo. Will lo scrutò e ne scandagliò il
volto. Era un viso onesto: ogni ruga era una
cicatrice della sua vita, ed era strano pensare
come un uomo così giovane potesse essere
tanto segnato dalle esperienze.
William si rese conto di aver parlato, solo dopo
aver posto la domanda. “Perché sei qui?”
Guy che era poggiato sui gomiti a contemplare
il barile, si ritrasse e i suoi baffi si inarcarono,
nascondendo un sorriso. “Mi chiedevo quando
sarebbe arrivata questa domanda.”
William ridacchiò. E poi tornando serio disse
“Catesby, sostiene che è necessario estirpare
gli eretici dall’Inghilterra. Che sono come
un’erbaccia che infesta i prati inglesi.” Parlava
guardando il pavimento di pietra e grattandosi
142
| Non resta che fumo |
il collo, che gli prudeva a causa della maglia.
Guy scosse la testa divertito “Già, ma se fossero
come l’erba cattiva, allora potremmo essere
certi del fallimento, in partenza.”
“L’erba cattiva non muore mai?” suggerì Will.
“Esatto” rispose Guy passandosi una mano
sulla folta barba scura, carezzandola. Era il
sogno di William avere una barba così, da
uomo. “È strano, vero? Come la religione unisca
la gente…” proseguì l’uomo, alzando la mano
stringendo il pugno “e allo stesso tempo la
divida.” E aprì la mano, guardandola, come se
stesse pensando a vicende sbiadite dal tempo.
Guy fece un respiro e si voltò verso il ragazzo.
“William, non ti racconterò la mia storia. Ma…
non esistono eretici.”
Will strabuzzò gli occhi, confuso, spiazzato.
Ascoltava Guy chiedendosi cosa lo spingesse
a parlare così. Era risaputo che i protestanti
avevano incendiato le loro chiese e ora il Re
aveva perfino mandato i loro preti in esilio!
Guy
continuò,
parlando
lentamente,
143
| Non resta che fumo |
soppesando ogni parola. “Checché ne dica
Catesby, non esiste una religione giusta o
sbagliata. Però esiste un modo giusto di vivere,
di comportarsi, di governare. Quello che voglio
fare è cercare di migliorare questa società,
anche se per farlo…”
Guy venne interrotto dal cigolio della porta,
che si aprì per lasciar passare un individuo
alto e robusto, che con voce profonda disse:
“Abbiamo gli ingredienti, signor Fawkes li
potete assemblare qui?”
“Portatemeli.”
Guy Fawkes accompagnò con lo sguardo i due
giovani finché non li vide scomparire dietro la
porta. Era di nuovo solo e i pensieri tornarono
ad accalcarsi nella sua mente.
Avrebbe voluto spiegarsi meglio con William, era
così giovane. Gli pareva creta, che si modella ad
ogni tocco, qualunque sia la mano che la sfiora.
Pensò a Catesby, a come il ragazzo avesse fatto
proprie le sue parole e immerse la mano nella
144
| Non resta che fumo |
polvere umida e fredda, rabbrividendo. Gli
tornò in mente quella sera di maggio, quando
quell’arrogante l’aveva reclutato.
“Questo rimbomberà nei secoli.” aveva detto
Robert Catesby, e poi si era scolato ciò che
rimaneva nel boccale. “Fawkes, il 5 novembre
noi faremo esplodere il Parlamento, e tutta la
feccia che ora ci bastona brucerà.”
Catesby era un esaltato, un uomo privo di
rispetto, un immaturo, aveva pensato Guy.
Tuttavia quella che proponeva era La soluzione.
L’unica. Forse non la più giusta, ma sicuramente
la più efficace.
Non accettò subito, si prese la notte. Rimase
dodici ore in quel pub, bevve, vomitò, sputò la
sua bile e bevve ancora. L’alcol non gli serviva
per decidere, ma per convincere sé stesso, che
quello era ciò che andava fatto.
Si ripeteva: se un uomo ha il potere di cambiare
le cose, ha il dovere di farlo per rispetto nei
confronti di chi non può. Era ciò in cui credeva.
Quando uscì dall’Henry’s pub, il vento caldo di
145
| Non resta che fumo |
maggio gli portò via il cappello. Raccogliendolo,
gli sfiorò la mente un pensiero fugace: sarebbe
morto il 5 novembre.
William svuotò il boccale in una sola, lunga
sorsata, come gli avevano insegnato in quei
mesi i suoi compagni. La brodaglia densa gli
scivolò fin dentro le viscere, per arrivare subito
alla testa, come soltanto un buon rum sa fare.
Euforico, batté con foga il bicchiere sul tavolo,
scuotendo la testa, ma il rumore di fondo
coprì il tonfo del bicchiere sul legno umido.
L’Henry’s era ricolmo, traboccava di vita. Donne
prosperose servivano ai tavoli, ricacciando
le lusinghe inopportune in gola ai clienti. Gli
uomini erano divisi in grappoli esuberanti,
chicchi che si accavallavano, si scontravano
e infine rotolavano per terra. Tutti quei corpi
scaldavano l’aria, umida e densa di aromi.
Il tanfo di alcol si mescolava al profumo dei
fagioli fumanti, al puzzo di tabacco, al sudore
e all’odore di terra bagnata e di spezie.
146
| Non resta che fumo |
Erano le sette e stavano festeggiando da quasi
un’ora. William era arrivato da poco, ma era già
al secondo bicchiere. I barili erano al loro posto
e a quel punto non rimaneva che aspettare i
fuochi di artificio.
Catesby, ormai ubriaco, propose l’ennesimo
brindisi. “Al Domani! Un domani libero!”. Il
gruppo urlò in risposta e i loro bicchieri cozzarono
gli uni contro gli altri, rovesciando buona parte
del loro contenuto. “E a Guy Fawkes che lo
renderà possibile!” aggiunse William alzando il
boccale ancora più in alto. Improvvisamente le
risate si spensero, il giovane guardò i compagni
e per un istante credette di averli offesi, aveva
detto forse qualcosa di inappropriato? Catesby
gli piombò addosso, gli avvolse un braccio
attorno alle spalle e stringendolo disse: “Giusto,
Will, brindiamo a quel brav’uomo di Fawkes,
che rinuncia all’alcol e alle donne in nome delle
polveri!” E dicendo questo lasciò il giovane per
seguire una bella signora bionda che gli aveva
fatto l’occhiolino.
147
| Non resta che fumo |
William prese fiato, l’alito di Catesby, dopo
tutto quel rum, era soffocante. Recuperò il suo
boccale vuoto e barcollò allegramente verso il
bancone, chiedendosi se anche la sua bocca
puzzasse in quel modo.
Passando, superò un tavolo occupato da alcuni
soldati. All’inizio le loro parole gli scivolavano
addosso, ma poi colse qualcosa, e si ritrovò
immobile in mezzo a quel formicaio, con
l’orecchio teso.
“Ma che cosa centrano le ronde con la lettera?!”
“Miseria ladra, se sei lento. La lettera è il
motivo delle ronde nelle cantine!”
Sentendo questo, il dubbio di William si
concretizzò in puro panico, e il ragazzo si girò
istintivamente, per ascoltare meglio, per capire,
anche se temeva di aver già capito fin troppo
bene.
La voce che aveva parlato per prima
apparteneva ad un soldato con i capelli rossi,
slavato come un cencio. Il secondo era un
giovane prestante, i cui riccioli neri ballavano
148
| Non resta che fumo |
come fossero vivi, mentre lui continuava a
parlare e a ridere. In tutto, al tavolo erano in
cinque. Tutti membri della guardia reale.
“E come fai a saperlo?” Intervenne uno,
“Giusto! Chi te l’ha detto?” aggiunse un altro,
un po’ più sobrio degli altri.
“Cora” rispose il ragazzo riccio e stava per
continuare, quando il rosso lo interruppe.
“Cora chi? La governante isterica del secondo
piano?”. E tutto il tavolo iniziò ad abbaiare,
finché uno non intervenne chiedendo: “E lei
come l’ha saputo?”
Felice di avere nuovamente la parola, il
ragazzotto riprese: “Ha origliato” e poi scoppiò
in una risata sguaiata. “Praticamente ha
cacciato una sguattera e si è messa ad origliare
lei.” E rise ancora.
“Come un cane che deve pisciare dove ha
pisciato un altro” esclamò un biondino magro
come un giunco. E si scatenò un gran baccano
di battutacce.
William nel frattempo si era avvicinato e
149
| Non resta che fumo |
fissava corrucciato la scena. Per quanto fosse
rumoroso il locale, gli pareva di udire soltanto
le parole di quella manciata di soldati ubriachi.
“Ma che cosa diceva la lettera, Thom?” chiese
d’un tratto un soldato rivolgendosi al giovane
con i capelli neri.
Questi guardò il fondo del suo bicchiere vuoto e
poi si schiarì la voce, atteggiandosi a spia. “Cora
ha detto che l’hanno letta, ma non si capiva un
accidente, cioè c’era scritto delle cantine, ah, e
si parlava di domani!” E inarcò le sopracciglia.
“Lo sai, no, che c’è il primo Parlamento di re
Giacomo?”
William non aspettò di sentire altro e
si catapultò dai suoi compagni, agitato,
preoccupato, amareggiato. Nella sua mente
si aggrovigliava una matassa di emozioni e un
solo pensiero chiaro: qualcuno li aveva traditi!
“Non ti devi preoccupare Will” gli aveva detto
Catesby, che nel frattempo era tornato al
tavolo. La lettera era indecifrabile, non avrebbe
in alcun modo inciso sulla riuscita del piano o,
150
| Non resta che fumo |
almeno, questo era quanto gli aveva garantito
Wright, prima di mettersi alla ricerca della
polvere nera che Fawkes gli aveva chiesto, in
sos tituzione di quella danneggiata. Il giovane
era sempre più confuso e ora la sensazione
inebriante del rum gli annebbiava la testa in
maniera sgradevole. Come potevano restare
calmi? Fawkes stava rischiando tutto, non solo
la vita, rischiava di sacrificarsi per nulla, per un
cambiamento mancato, un fallimento. E poi
chi l’aveva mandata quella lettera? C’era un
traditore tra loro, possibile che non importasse
a nessuno?
Alle domande incalzanti del ragazzo Catesby
dava risposte vaghe. Ma Will pretendeva la
verità e insistette finché l’uomo non lanciò un
occhiata a Wright e borbottò a mezza voce:
“Senti ragazzo, chiunque l’abbia fatto voleva
solo avvertire i suoi amici cattolici di non
recarsi in Parlamento quel giorno. La lettera
non doveva arrivare al Re.”
Ora Will era serissimo. “Sai chi è stato?” Era una
151
| Non resta che fumo |
domanda, ma suonava quasi come un’accusa.
Catesby guardò il giovane senza dire una parola.
“L’ha ricevuta Mounteagle, uno dei membri
del Parlamento, che poi l’ha consegnata al Re.”
intervenne Wright, freddo come il ghiaccio.
Il volto di Will, contorto dalla rabbia si distese
in un’espressione di sorpresa che subito mutò
in un’amara consapevolezza.
Anche se aveva cercato di nascondersi dietro
una scrittura da analfabeta ignorante era
chiaro: Era stato suo padre. William, che fino
a quel momento era rimasto in piedi, con i
pugni sul tavolo, si lasciò cadere sulla panca di
legno. Aveva incontrato Mounteagle solo due
volte nella sua vita, era suo zio, ma per lui era
un uomo come un altro, una di quelle persone
tangenti alla tua vita che presto dimentichi.
Tuttavia per suo padre era diverso, avevano
superato insieme tanti momenti. Lui gli era
affezionato.
William era paralizzato, i due che erano ancora
al tavolo si alzarono lasciandolo solo. E lui
152
| Non resta che fumo |
ripensò alla domanda di Fawkes. Ora più che
mai capiva di aver dato la risposta sbagliata.
Si alzò di scatto. E mentre correva fuori dal locale
pensava all’unico posto dove avrebbe voluto
trovarsi: al fianco di Fawkes e delle polveri.
Per quanto possano essere regali e sfarzose,
anche le migliori porte scricchiolano, pensava
Robert Cecil, primo conte di Salisbury e
segretario del re, mentre varcava la soglia
della camera del suo sovrano. “Mi avete fatto
chiamare?” chiese ossequiosamente.
Giacomo I era in veste da camera e teneva in
mano un grosso calice, che roteava lentamente,
per far respirare il vino. “Venite avanti, Salisbury,
ditemi: ha avuto qualche esito l’ultima ronda?”
Il segretario si asciugò le mani sudaticce sui
pantaloni. “A dire il vero, sire, ritengo che gli
uomini che finora hanno esaminato le cantine
non fossero qualificati”. E trattenendo un
principio di balbuzie proseguì “Forse potrei
affidare la ronda di mezzanotte a Thomas
153
| Non resta che fumo |
Knyvet…”
“Devo dedurre che la risposta sia no?” chiese
calmo il Re.
“Purtroppo è così” rispose Salisbury stringendo
le labbra.
“Ricordate le mie parole di questa mattina?”
domandò il Re, cogliendo il segretario di
sorpresa. Questi annuì lento e il re proseguì:
“ultimamente i cattolici sono diventati un
problema, sapete? Vogliono attaccare me,
l’Inghilterra.” E dopo qualche secondo di
silenzio Giacomo I ridacchiò. “Credo che il
loro scopo sia far esplodere il Parlamento”.
Salisbury lo guardò perplesso, cosa mai poteva
trovarci di buffo? “Un’ impresa notevole”
continuò il sovrano, poi sospirò. “Mi diverte
sempre l’ingenuità del popolo.” Il Re notò
l’espressione interdetta del suo segretario e
allora gli chiese: “Quali credete che sarebbero
le conseguenze, se avessero successo?” Ma
non gli diede il tempo di rispondere e scandì la
risposta lentamente: “Nessuna.”
154
| Non resta che fumo |
Il segretario era stupito, ma non chiese
spiegazioni perché quando il Re parlava, anche
se faceva una domanda, quello che voleva
sentire era solo l’eco della sua voce. Difatti
proseguì: “Certo, forse, se morissi io... ma io
non morirò, per cui il loro gesto non sarebbe
una rivoluzione, ma si trasformerebbe nella
scusa che cerco da mesi per schiacciarli.”
Salisbury lo capì solo in quel momento: il Re
avrebbe lasciato esplodere il Parlamento. Non
poteva crederci. Ma al sovrano poco importava
dei mezzi, ciò che voleva era estirpare
dall’Inghilterra i cattolici, quella massa di ingrati
che, con la maschera della religione, remava
contro ad ogni sua decisione.
“Potete andare.”
Salisbury si ridestò dai suoi pensieri. Il Re
aveva un’aria soddisfatta e felice. “C’è un’
ultima ronda. Fermatela. Poi fate venire una
carrozza, partirò verso le due del mattino.
Deve essere tutto pronto.” Elencava le cose
da fare guardando il vuoto, concentrato, con
155
| Non resta che fumo |
gli occhi stretti in una fessura. D’un tratto si
voltò verso il suo segretario, in piedi al centro
della stanza... capì che voleva dire qualcosa,
ma qualunque cosa fosse non aveva voglia di
ascoltarla. “Andate.”
Salisbury uscì aprendo il portone giusto il
necessario ed esitò qualche istante prima
di imboccare l’ampio corridoio. Se avessero
preso i cospiratori, potevano farne un esempio,
sarebbero state loro le uniche vittime. Non
capiva: perché abbandonare le ricerche?
Era arrivato davanti agli alloggi dei soldati
ed entrò senza bussare scatenando un gran
trambusto: gli uomini erano svegli, intenti
a giocare e a bere. Balzarono dai letti,
nascondendo cose che Salisbury neanche
avrebbe notato, e in un attimo erano tutti in
piedi, al suono delle parole del loro compagno:
“Il conte di Salisbury, segretario del Re.”
Salisbury rimase sulla porta cercando di
scostare la testa dalla puzza di sudore e polvere
156
| Non resta che fumo |
da sparo che quegli uomini emanavano.
“Signori sarò breve, la ronda prevista per
stasera è cancellata.” affermò deciso in un solo
fiato. Poi tacque qualche istante, i soldati lo
fissavano, finché lui alzò lo sguardo su uno di
loro. “Knyvet, seguitemi.”
Un uomo dagli occhi scuri e intelligenti si alzò
immediatamente e seguì il conte senza fare
domande.
“Voglio che facciate un giro nelle cantine,
stanotte. Prendete pochi uomini. Fermate
chiunque vedete.” Salisbury camminava
svelto, parlando a bassa voce, guardandosi
in giro e continuando a rigirarsi nella testa
un solo pensiero: come sarebbe riuscito a
giustificarsi con il re? Quando arrivò alle scale
che portavano al piano di sopra, si girò verso il
soldato. “Mi aspetto risultati.”
William arrivò all’entrata delle cantine senza
fiato. Non c’era nessuno, la notte era fredda,
calma, sembrava aver congelato il tempo.
157
| Non resta che fumo |
Si inoltrò per i cunicoli, nel buio. Conosceva
quel labirinto come se lo avesse costruito lui
stesso. Strisciava contro i muri umidi, sporchi.
Era disgustoso, ma accendere una torcia era
troppo rischioso.
Si sentiva osservato, anche nel buio. La corsa lo
aveva rinfrancato, ma la paura era il più potente
dei veleni. Ogni rumore lo faceva fermare,
tremare, sussultare. Gli pareva di udire passi,
voci, clangore di ferro e di spade. Ormai era
vicino.
Girò un angolo ancora. Un bagliore. Si ritrasse.
I soldati ridevano. Si lamentavano. William
riconobbe alcune delle voci che aveva sentito
al bar. Erano ancora ubriachi, ma non tutti.
Alcuni tiravano pugni sulle spalle degli altri
intimando loro il silenzio. Decise di correre.
“State zitti!” Sibilò Knyvet e per un istante i
soldati tacquero, si creò un breve intervallo di
silenzio irreale. Knyvet aggrottò le sopracciglia.
“Avete sentito?” I soldati avevano portato la
mano all’elsa della spada e da quel momento
158
| Non resta che fumo |
nessuno parlò più.
Quando entrò, William riconobbe la sagoma di
Guy in mezzo alla stanza, in piedi, con la spada
sguainata che rifletteva il lieve pallore della
luna.
“Cosa ci fai qui William?” sussurrò Fawkes
incredulo.
Il giovane chiuse la porta e gli andò incontro
ansimando per lo sforzo. «Guy ci sono le
guardie, il re sa tutto, è troppo pericoloso, è
troppo tardi!» Will avrebbe voluto spiegare
meglio il groviglio di pensieri che si contorceva
nella sua mente, ma le frasi si accavallavano.
“Lo so, Will, perché credi abbia voluto rimanere
tutta la notte? Tu però devi andartene.” Guy lo
aveva preso per le spalle e gli parlava in modo
misurato e calmo, stringendo le dita attorno ai
suoi muscoli tesi.
Will respirava forte “Ma io…”
“Se mi trovano, non mi prenderanno. Ma tu
devi andartene. Una volta accese le micce non
159
| Non resta che fumo |
ci sarà più tempo.”
Will lo guardò senza capire. “Ma Catesby aveva
detto che potevi…”
“Vattene!” Gli intimo Fawkes a denti stretti.
Lo spinse.
“Ma io non voglio…” E l’amico lo interruppe:
“Sì che lo vuoi. Sei solo troppo leale per
ammetterlo. Will, io ho preso la mia decisione,
e bastano due mani per accendere le polveri.”
E così dicendo si voltò a guardare una torcia,
incastrata nel foro di un barile vuoto, imbevuta
d’olio al punto che sembrava avrebbe arso per
giorni. “Vai.”
Will scosse la testa mente si girava, correndo
verso la porta, ma esitò un momento con la
mano sulla maniglia fredda.
Successe in un attimo.
La potrà si spalancò. William cadde svenuto
per il colpo e improvvisamente fu coperto da
una cascata di cianfrusaglie che lo nascosero
160
| Non resta che fumo |
mentre i soldati facevano irruzione.
Non era troppo tardi, pensò Fawkes, poteva
ancora cambiare le cose. C’era ancora una
speranza. La torcia era a pochi passi da lui. Si
mise in posizione facendo roteare la spada,
mentre le guardie avanzavano verso di lui. Le
armi cozzarono, Guy scartò le giovani lame,
con colpi vigorosi e decisi, tenendo gli occhi
sulla fiamma che bruciava sempre più vicina.
Un ultimo fendente gli diede l’occasione di
afferrare la torcia. Il tempo parve rallentare
poteva sentire distintamente il suono delle
scintille che scoppiettavano. Un soldato spuntò
all’improvviso alla sua destra Guy fece in
tempo a incrociare le spade e stringendo
saldamente la torcia lo respinse, spingendolo
contro i suoi compagni. Era il momento. Fawkes
corse verso un barile e si scoprì a sorridere
mentre stava per scagliare la fiamma sulla
polvere.
Poi lo vide, esitò un istante fissando il corpo
esanime del giovane che avrebbe portato con
161
| Non resta che fumo |
sé nella tomba e le guardie reali gli furono
addosso. Mentre lo trascinavano via, Fawkes
vide un grosso stivale nero, insignificante come
la guardia che lo indossava, soffocare la fiamma
e spegnere la loro speranza.
William si svegliò solo. Con fatica si tirò a sedere
e in quel momento si accorse che nella stanza
non era rimasto neanche un barile.
Il campanile faceva risuonare i suoi rintocchi
in lontananza. Sette, otto, nove. Will si lasciò
andare di nuovo sul pavimento umido. A
quell’ora il Re doveva essere alla camera dei
Lord, probabilmente stava iniziando il suo
discorso proprio in quel momento.
Quanto sarebbe potuto essere diverso quel
giorno e invece, si sorprese a pensare, la storia
lo avrebbe ignorato e loro sarebbero stati
dimenticati.
Salisbury entrò negli appartamenti del Re,
portando con sé il prigioniero, ammanettato,
162
| Non resta che fumo |
provato dalla veglia in prigione, ma ancora
fiero ed elegante. “Eccolo, sire.” lo annunciò
Salisbury.
“Vi dirò Mr Fawkes sono sorpreso di vedervi
qui.” disse il Re seduto su un ampio seggio,
decorato in oro e velluto rosso. Parlava con Guy,
ma fissava il conte. Non poteva credere che
quell’inetto di Salisbury avesse avuto l’ardire di
disobbedirgli. Mentre lo osservava rifletteva.
Sarebbe stato meglio mandarlo alla camera dei
Lord, dato che forse aveva un po’ di cervello,
o trasferirlo e levarselo definitivamente dai
piedi? Poi sospirò, ci avrebbe pensato in un
altro momento, alla fine una cosa valeva l’altra,
dato che la situazione volgeva comunque a suo
vantaggio.
Il Re ora guardava il congiurato, immobile
nell’espressione da quando era entrato. La
faccia del sovrano, molle e pallida, si contorse
deformandosi in una smorfia “Ditemi, pensavate
davvero di poter far esplodere il Parlamento?”
Fawkes non rispose. Il Re si sporse verso di
163
| Non resta che fumo |
lui, incassando la testa nelle spalle. Silenzio.
Il sovrano riprese a parlare “Avete ragione,
sapete? Non ha senso sprecare il fiato.” Il
Re sbadigliò sistemandosi i polsini del ricco
giacchetto in seta, e tiratosi in piedi voltò le
spalle all’uomo, dirigendosi alla porta. “In
fondo domani sarà uguale a ieri. Portatelo alla
torre.” Tagliò corto.
Fawkes a quel punto prese la parola. “Vi
sbagliate”.
Il Re parve meravigliato da tutta quell’audacia
e si voltò, per guardare in faccia l’uomo che
osava contraddirlo.
“Qualcosa è cambiato”. Fawkes si era girato
lentamente e fissava il sovrano dritto nei suoi
occhietti piccoli e crudeli. “Domani il mio
intento verrà ricordato. Quello che volevo fare
non verrà mai dimenticato.”
Non capì se il Re avesse davvero colto il senso
delle sue parole, lo sentì ridere a quella
provocazione. Rabbrividì sotto lo sguardo
freddo e indifferente del sovrano che,
164
| Non resta che fumo |
voltandogli di nuovo le spalle, sussurrò:
“Di questo puoi essere certo.”
« Ricorda, ricorda,
il cinque novembre,
polvere da sparo, tradimento e complotto.
Non vedo alcuna ragione
per cui la Congiura delle Polveri
dovrebbe mai essere dimenticata! »
Filastrocca popolare, recitata in Inghilterra
ogni anno per ricordare la Congiura delle
Polveri.
165
| Autore |
Alice Gaffo
Alice Gaffo, personaggio letterario, nato dalla penna
dell’omonima Alice, lascia la carta per avventurarsi nel
mondo reale nel 1993. Coraggiosa ed impavida questa
piccola parola di poche lettere, in pochi anni, impara
a darsi una forma e si assesta nel 2001 con una chiara
immagine a colori.
Così inizia la vita 2D di questo strano personaggio, che
impara ad esprimersi attraverso ballon, sempre più
prepotenti, invadenti, ingombranti finché il pensiero
non esplode nella grande pagina bianca.
Se volete saperne di più, scrivete a
[email protected]
166
Dentro lo sguardo
Cronaca di una (meta) rivoluzione cubista
La rivoluzione: Il cubismo
di Giovanni Sanicola
La rivoluzione la puoi riassumere nella tensione
tra quello che sei e l’immagine che vorresti
avere di te stesso. L’immagine, non la sostanza.
La punta del pennello si appoggia sul tratto
che delinea la coscia di una donna. Ridefinisce
quella linea, infrangendo quello che una volta
era un nudo femminile e che ora è una figura
astratta. Il realismo del ritratto in pittura viene
superato in quel preciso istante. Per sempre.
È notte fonda e Georges Braque lavora chino
sopra la tavolozza. È alla seconda bottiglia di
Borgogna e sta dando corpo a quello che la
storia ha ribattezzato come movimento cubista.
La sua mano è mossa dalla convinzione profonda
che le persone nel mondo possono vedere una
168
| Dentro lo sguardo |
stessa cosa in maniera diversa. E che la cosa
stessa in fondo non è mai la stessa cosa.
Rileggo.
Funziona.
E poi?
Sono le dodici e trenta di una domenica di
metà dicembre. Mi restano ventiquattro ore
per dare corpo al racconto sulla rivoluzione.
Sono giorni che ci rimugino sopra, che riscrivo,
che faccio ricerche, che riparto da capo, dopo
essermi impantanato dietro idee assurde e
rivoluzioni scritte male. Alla fine ho scelto di
raccontare la rivoluzione cubista, dal punto di
vista di Georges Braque, il pittore francese che
insieme a Picasso ha disegnato le prime opere
del movimento cubista.
Non ho più molto tempo. La scadenza
tassativa per la consegna del lavoro è fissata
per domani alle ore tredici. Ho già mancato
le prime due consegne preliminari: questo è
l’ultimo momento possibile per vedere figurare
169
| Dentro lo sguardo |
il mio racconto nella raccolta “A 24 ore dalla
Rivoluzione”.
Mi infilo il cappotto e fumo una sigaretta in piedi
sul balcone. Tanti racconti sono nati qui, altre
storie personali si sono spente sopra questo
metro quadrato da cui osservo il cortile.
Una ragazza trascina una valigia le cui ruote
producono un frastuono che si propaga in
tutto il cortile. Procede a passo spedito, forse
verso un treno in partenza, mentre un uomo
seguito da un bambino sta portando in braccio
uno scatolone, probabilmente un televisore,
magari uno schermo 3D. Chissà se l’uomo e il
bambino sanno che il concetto di immagine in
3D è nato con Picasso e Braque più di un secolo
fa. Ma, soprattutto, questa cosa gli interesserà?
Mi chiedo come si possa scrivere di rivoluzione
in un’epoca assuefatta al concetto, ancor prima
che alla parola, Rivoluzione. Mi domando
come si possa restituire sostanza a un’idea che
si è esaurita, come un fusto da cui esce solo
schiuma, perché la birra è già stata servita tutta
170
| Dentro lo sguardo |
da un bel pezzo.
In un mondo che spinge sempre più in là
le colonne d’Ercole della trasformazione,
senza rivoluzionarsi; o che si rivoluziona in
continuazione, senza trasformarsi; in un mondo
dove tutto cambia per non cambiare, ha ancora
senso parlare di rivoluzione?
L’amore.
Di tutte le caratteristiche più importanti per un
rivoluzionario, Ernesto Che Guevara indicava
nell’amore la qualità imprescindibile. È l’amore
a guidare il tratto di Georges Braque, un pittore
con un amore ostinato per un’idea.
Braque sta pulendo i suoi pennelli dalla vernice
e ripensa a tutte le volte che si è sentito
diverso, emarginato, perché vedeva il mondo
diversamente dagli altri bambini, poi dagli altri
ragazzi e infine dagli altri uomini. Ripensa a
quando da piccolo ammirava la perfetta calma
di un lago, con le anatre che lo attraversavano
lasciando una flebile scia sull’orizzonte
171
| Dentro lo sguardo |
dell’acqua. Un giorno si era lasciato sfuggire
una frase sulla sublime perfezione dell’acqua
cheta. Gli altri bambini lo avevano preso in
giro - come solo i bambini sanno stigmatizzare
la diversità - e avevano passato il resto del
pomeriggio a tirare sassi nello stagno e alle
anatre, per creare confusione e rendere
frastagliata la linea dell’acqua.
Il piccolo Braque aveva amato ancora di più il
lago in subbuglio e aveva iniziato a chiedersi
come si potesse rappresentarlo in entrambi
i suoi stati, quieto e irrequieto, all’interno di
un’unica immagine.
Nella sua mente le diverse percezioni del lago
si intervallano, si susseguono, si confondono,
si alternano, s’intrecciano e si fondono in un
visionario montaggio cinematografico.
Braque appoggia i pennelli puliti sulla sua
tavolozza e getta uno sguardo verso il quadro.
Pensa agli uomini del futuro che magari anche
grazie a questo dipinto riusciranno a percepire,
accettare e rispettare il concetto di diversità.
172
| Dentro lo sguardo |
La chiave gira quattro volte nella serratura.
È lei. È tornata con la spesa. Mi precipito ad
aiutarla, mosso dal senso di colpa per averla
fatta andare da sola, perché dovevo scrivere.
La scrittura, ormai, è come un’amante tollerata
nella nostra relazione. Ruba le mie migliori
energie creative, i miei rari momenti di
freschezza extra-lavorativa; quando non scrivo
mi rende assente, spesso m’innervosisce, quasi
sempre mi porta via da lei. Forse un’altra donna
sarebbe meno invasiva nella nostra relazione.
Inizio a sistemare la spesa nel frigorifero e nella
dispensa. Oggi c’è una luce intensa che rende
la cucina luminosa e piena. Mi viene voglia di
cucinare qualcosa per stasera. Mi viene voglia
di abbandonare per sempre il racconto, la
scrittura, e lasciarmi trascinare dalla vita e dai
semplici piaceri come un risotto alla mantovana
o un brasato, accompagnati da una bottiglia di
Barolo, o al limite un Refosco.
Impallidisco all’idea che ci sia stato qualcuno
173
| Dentro lo sguardo |
in grado di scrivere migliaia di pagine nel corso
di una sola esistenza e di resistere a tutta la
bellezza dei piaceri con cui il mondo ti solletica
ogni secondo. Chissà come diavolo ha fatto
Georges Simenon a scrivere tutti quei libri in
una sola vita?
Sono quasi le tredici. Tempo di andare a pranzo.
“Come procede il racconto?”
“Mah…”
Mi guarda. Si è rassegnata alla presenza
immateriale di quest’altra compagna nella mia
vita, ma non alle mie lamentele e al mio perenne
senso d’insoddisfazione verso qualsiasi cosa
che sto scrivendo. Vorrebbe almeno vedermi
contento e non come un condannato verso il
patibolo.
“Senti finisci tu qui, io vado un po’ di là.”
Sarà dura arginare il suo fastidio. Siamo solo
all’inizio della giornata e del racconto. Il peggio
deve ancora venire.
Il tavolo è affollato di prodotti di vario genere,
mischiati tra loro. Chissà come faceva la spesa
174
| Dentro lo sguardo |
Braque? Chissà come cucinava? Immagino
i pranzi con Picasso, in cui le teorie cubiste
s’intrecciavano alle pratiche culinarie. La realtà
alla fine s’insinua anche nella vita dell’artista
più geniale: c’è sempre una zuppa da preparare.
Quando vado in soggiorno la vedo immersa
nel suo pc, alla ricerca di uno svago prima del
pranzo domenicale che ci attende. Dai miei.
Mi serve un bicchiere di rosso prima di uscire.
Camminare ha sempre il potere di rasserenarmi,
insieme al bicchiere di rosso buttato giù a
stomaco vuoto, che ha risvegliato l’alcool di
ieri sera.
Mentre camminiamo, il mio sguardo indugia
su di lei. La sua dolce bellezza. La sua eleganza
discreta. Tra le cose che dovrò combattere al
rientro a casa, per cercare di andare fino in
fondo al racconto sulla rivoluzione di Braque,
al primo posto c’è senz’altro il resistere alla sua
bellezza, oltre che al sonno, il nemico supremo
di ogni scrittore. Non riuscirò mai a capirlo,
come la voglia mi assalga nelle situazioni meno
175
| Dentro lo sguardo |
indicate, quando non mi è possibile esaudirla.
Siamo arrivati. La tavola è apparecchiata a
festa, più come per la cena di Natale che per
i pranzi domenicali. Mi accerto subito della
presenza del vino. Trovo un rosso già scaraffato
che vado subito ad assaggiare. Vino toscano,
probabilmente un Bolgheri, vino molto amato
da mio padre e anche da me.
L’amore di un rivoluzionario, diceva Che
Guevara. Quanto dovevano amare questo
mondo Braque e Picasso per donargli la
tridimensionalità. La sfaccettatura delle cose e
delle idee. E dopo aver fatto questo, andare dal
macellaio a prendere della carne per la cena e
cucinarla per qualche amico o per una donna.
Siamo al secondo e praticamente non ho
parlato. Avverto degli sguardi furenti da parte
di lei che mi sta dicendo: non puoi pensare di
portarmi qui e andartene con la mente per i
fatti tuoi. Non provarci nemmeno.
“Papà vi deve dire una cosa.”
Mia madre ha la voce rotta e mi guarda con gli
176
| Dentro lo sguardo |
occhi coperti da un velo di lacrime. Mio padre
esita, si schiarisce la voce.
“Ecco, non so bene come introdurre il discorso.
Pare che non mi resti molto.”
“Molto cosa?” chiedo io, di getto.
“Molto tempo. Da vivere.”
Il gelo piomba sulla tavola.
L’alba. I primi raggi di luce si depositano
sulla tela, incidendo e illuminando quello che
una volta era un nudo femminile. La luce gli
regala una nuova astrazione, pensa Braque, le
possibilità di questo nuovo modo di dipingere
non si sono esaurite, siamo appena all’inizio.
Sta fissando la tela da più di un’ora, da quando
ha compiuto l’ultimo ritocco. Il suo corpo è
immobile, i suoi occhi sono schegge impazzite
che corrono e ripercorrono ogni millimetro
della tela.
Per la strada Braque può ammirare Parigi
al risveglio. Entra in un bar e ordina quattro
177
| Dentro lo sguardo |
croissant da portare via. Al bancone osserva un
uomo con un cappotto chiaro che beve il caffè
di fianco ad una giovane donna con indosso
un abito da sera scuro. All’alba s’incrociano
i lavoratori più mattutini e i nottambuli più
accaniti. Bevono gomito a gomito un caffè,
l’ultimo o il primo della loro giornata e restano
per un attimo nello stesso quadro, prima di
proseguire in direzioni opposte.
Braque rientra in casa e mangia un croissant.
È in attesa dell’unica persona al mondo che nel
1907 è in grado di comprendere quello che sta
facendo: Pablo Picasso.
Suona il campanello. I due si salutano con
affetto. Quando incrociano i loro sguardi è
come se ricevessero ristoro e comprensione.
Probabilmente sarebbero finiti per impazzire,
più di quanto non siano già stati ritenuti folli
all’epoca, se non avessero avuto l’uno il conforto
dell’altro.
“Lo hai finito? Finalmente posso vederlo.”
esordisce Pablo ancor prima di essersi tolto la
178
| Dentro lo sguardo |
giacchetta scura.
“Come tu oggi possa concentrarti sul racconto,
non riesco proprio a capirlo.”
“Nemmeno io.”
In realtà la scrittura è sempre stata la mia via di
fuga. Più forti sono i problemi che m’inseguono
e più profondamente mi ci abbandono.
Penso a mia madre che resterà sola. Penso alle
cose che devo trovare il coraggio di dire a mio
padre prima del tempo.
Non riesco neanche a dire: prima che muoia.
“Sei sicuro di stare bene?”
No, non lo sono.
“Sono confuso.”
“Vuoi parlare?”
Parlare proprio no.
“Magari più tardi.”
Ripenso allo sguardo che aveva mio papà, al
tono con cui ci raccontava della visita dal medico.
Non era spaventato, era più preoccupato di
non spaventare tutti noi.
179
| Dentro lo sguardo |
Forse si sente pronto.
“Quando fissi il vuoto in quel modo…”
Sorrido.
“E non dire che è per il racconto, per favore.”
Riprendo a batteri i tasti del computer, senza
pronunciare una parola e senza guardarla.
Pablo sta fissando con spirituale concentrazione
il quadro di Braque. I suoi occhi percorrono
il dipinto come fosse una lunga strada di
campagna, il cui paesaggio ti propone
all’orizzonte nuove sorprese da guardare.
Gli occhi di Braque sono umidi, non ospitano
delle vere e proprie lacrime da quando era
bambino. I due restano immersi in un silenzio
incantato, in uno di quei momenti di profonda
empatia che avvengono poche volte nell’arco di
un’intera vita. Si stanno scambiando qualcosa
di intimo ed estremo, qualcosa che le parole
non potrebbero mai catturare: sono due anime
in collisione, la più mistica e complicata delle
avventure umane.
180
| Dentro lo sguardo |
Braque osserva il suo quadro, poi guarda
Picasso che a sua volta lo sta studiando. Non
gli importa di cosa diranno le persone del suo
ritratto, non gli importa che la donna del suo
quadro apparirà a tutti mostruosa e atroce.
Disegnerà ancora così. Ha in mente di dipingere
un violino il cui ponte che sostiene le corde si
propaga in due figure distinte. Vuole disegnare
dei paesaggi come non li ha mai ritratti nessuno;
vuole raffigurare le persone come non sono
mai state disegnate.
In quel momento Braque è certo di una cosa:
continuerà a tentare di far vedere al mondo
la sua visione delle cose, anche a costo di
mostrarlo a un solo essere umano.
Si è fatto buio e nemmeno me ne sono accorto.
Accendo la luce e non sento nessun rumore
provenire dalle altre stanze. Sarà uscita e non
ho sentito che mi ha salutato?
Vado in cucina dove trovo un biglietto che mi
ricorda l’appuntamento a cena con Carla e
181
| Dentro lo sguardo |
Riccardo. L’orologio mi dice che sono le sette e
dieci.
Non mi rimane molto tempo.
La frase di papà.
Mi butto sotto la doccia e penso a quello che
devo fare. I pensieri lottano tra loro e non mi
permettono di concentrarmi. Il racconto deve
finire con la parola Cubismo. Devo chiamare
mio fratello. E mia madre, che avrà bisogno
di parlare. Mi aspetta una settimana di fuoco,
con tanto di trasferta a Roma. Quante cose
che non sono riuscito a far vedere di me a mio
padre. Quante cose non ho mai visto io di lui.
Nella pizzeria dove andiamo stasera hanno una
mozzarella di bufala deliziosa. Ci starebbe bene
un Ripasso. O anche un Merlot. Al rientro devo
finire di scrivere il racconto, così domattina
avrò il tempo di rileggerlo un’ultima volta.
Forse lo fai apposta. Incasini tutto per evitare di
focalizzarti sulle cose che ti toccano veramente.
Di nuovo le chiavi nella porta.
182
| Dentro lo sguardo |
La serata scorre come fosse un film muto.
Le persone mangiano ai tavoli della pizzeria,
nella serenità di una domenica sera come tante.
Volti con l’appetito, volti immersi nel piatto,
volti tesi dei camerieri al lavoro, volti appagati
dalla cena. I volti dei miei amici. Il volto di lei. La
sua bellezza, di nuovo irresistibile. I suoi occhi
così vivaci.
Il profumo della pizza che ci arriva addosso,
dopo che il cameriere ha portato quattro
piatti al tavolo alle nostre spalle. L’aroma del
Ripasso appena aperto che, no, non sa di tappo,
rispondo. La partita di calcio che scorre in uno
schermo a fondo sala. Le luci delle macchine
che passano sulla strada. Le ombre dei passanti
sul marciapiede. Mi sembra di essere dentro
un quadro impressionista, dove i contorni delle
persone e delle cose si fondono tra loro.
Due uomini sono fermi davanti ad un quadro.
Sono immobili da diversi minuti. I loro occhi
vagano perplessi lungo la superficie del dipinto,
183
| Dentro lo sguardo |
alla ricerca di un qualche appiglio, qualcosa che
possa rendere armonica la visione e il pensiero
che accompagna il loro sguardo.
L’autunno parigino accorcia rapidamente le
giornate e una fioca luce illumina il Salon
d’Automne.
Henri Matisse e Louis Vauxcelles stanno
allestendo il Salon per l’esposizione del 1908 e
non riescono a capire dove collocare l’opera di
Braque.
Hanno sentito parlare di quello che stanno
facendo Braque e Picasso e vogliono esporre
Braque per vedere la reazione delle persone.
Solo che non riescono a capirlo.
Lo studiano in silenzio ormai da una mezzora
abbondante e il nudo femminile disegnato da
Braque li disorienta come fosse un taglio su
una tela.
“Cosa sta cercando di fare, secondo te?”,
domanda Matisse a bassa voce.
Il critico resta in silenzio. Indugia sul volto della
donna e quindi risponde.
184
| Dentro lo sguardo |
“Credo stia disegnando dei corpi di latta. Dei
corpi di latta deformi. È come se riducesse tutto
a uno schema geometrico. A delle forme che
compongono i corpi. A dei cubi.”
Quella parola rimbomba nel vuoto del salone
andando a depositarsi su tutti gli altri quadri già
allestiti. Quando il suono della voce si disperde,
i due piombano in un silenzio che non riescono
ad affrontare.
Nel medesimo istante succedono due cose:
i due uomini hanno coniato il nome della più
grande corrente artistica del Novecento e sono
diventati due dinosauri superati dalla storia.
“Andiamo a prendere un caffè.”
“Va bene.”
Si voltano e si allontanano dal quadro di Braque,
ma restano turbati da quello che hanno visto e
scossi dalla parola che hanno appena generato.
Il Cubismo.
La rivoluzione la puoi riassumere nella tensione
185
| Dentro lo sguardo |
tra quello che sei e l’immagine che vorresti avere
di te stesso. Se non raggiungi quell’immagine,
la rivoluzione non si compie. Il mondo resta
immutato. Se invece riesci a percorrere la
strada che ti consente di diventare quello che
vorresti essere, fai la rivoluzione.
L’alba raggiunge anche me. Mi trova sveglio sul
divano del salotto. Non sto fissando un quadro,
ma il vuoto davanti a me.
Mi preparo per uscire mentre lei sta ancora
dormendo. Mi metto l’abito elegante e faccio
il nodo alla cravatta.
Il lunedì mattina milanese non può reggere
il confronto con le albe parigine di Braque e
Picasso. Sembra tutto spento. La città scorre
silente dai finestrini del primo tram in servizio.
Sono l’unico passeggero, fino all’arrivo di un
signore che sale e addirittura mi saluta, come se
la quiete mattutina avesse trasformato Milano
in un piccolo paese.
Scendo dal tram e noto che il numero di
186
| Dentro lo sguardo |
macchine in giro è già aumentato rispetto
a quando sono salito. Ovunque nella città
staranno per suonare migliaia di sveglie. Una
polifonia di risvegli che tra poco getterà nella
città le persone che andranno a lavorare.
Non c’è più molto tempo.
Decido di aprire il portone con le chiavi e di
non suonare. Apro la serratura della porta di
casa lentamente. Il soggiorno è illuminato e
vuoto. È pieno di libri di ogni genere. Volumi
antichi, nuove edizioni, opere illustrate. Ogni
immagine, ogni ricordo legato a questa casa
non può che avere dei libri come scenografia.
Spero che un giorno, tra quelli, ci sia anche un
libro scritto da me.
Sento il rumore della porta di casa che si apre.
Mi volto e vedo mia moglie che dorme. Chi può
essere?
Mi alzo e vado veloce verso l’ingresso.
In soggiorno c’è un uomo di spalle, vestito
elegante. Ho un attimo di esitazione e di
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| Dentro lo sguardo |
spavento prima di riconoscere mio figlio.
Poche volte mi è capitato di vederlo in casa
vestito così elegante. Lui si volta e mi saluta.
Si scusa per avermi spaventato. Restiamo in
silenzio per un istante, nella luce di un sole
spento di dicembre che ci illumina senza
scaldarci.
Lo osservo all’inizio di una giornata lavorativa,
come ce ne saranno a migliaia nella sua vita
e come ce ne sono state altrettante nella
mia. Fotocopie tutte uguali che al posto che
disseminare in molte pagine l’originale della
mia immagine, hanno finito per stingere e
indebolire l’inchiostro della mia matrice.
I suoi occhi sono giovani, pieni di luce e di
determinazione. Come lo erano i miei alla sua
età. Ora il mio sguardo è stanco, fiaccato dai
segni che hanno lasciato i laser di tutte quelle
fotocopie e segnato da alcune brutte immagini
che ho dovuto guardare.
Osservo mio figlio armeggiare con la sua borsa
da lavoro, con le cartelline, le penne e i fogli.
188
| Dentro lo sguardo |
Ho tirato su un uomo e forse posso andarmene
senza troppi rimpianti. Specchiandomi in lui
capisco che sono stato il tipo di uomo che ho
desiderato essere, forse non quello che ho
sognato di diventare, ma certamente mi sono
ritrovato nell’immagine che ho guardato allo
specchio tutte le mattine della mia vita.
Appoggia sul tavolo dei fogli e li fa scivolare
verso di me. Non dice niente, distoglie lo
sguardo; è emozionato. Conserva le movenze
del bambino che fu, trasformate dai gesti e dagli
atteggiamenti dell’uomo che è. Soffro all’idea
di non poter vedere il padre che sarà.
Leggo in testa al primo foglio: “Dentro lo
sguardo. Cronaca di una (meta) rivoluzione
cubista” di Giovanni Sanicola.
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| Autore |
Giovanni Sanicola
Giovanni, telegrafista, e nulla più. Quello dal cuore urgente anche senza nessuna promozione battente. Ellittico da buon telegrafista, tagliando fiori, preposizioni,
per accorciar parole, per essere più breve, nella necessità, nella necessità.
Per le sue mani passò mondo, mondo che lo rese urgente, crittografico, rapido, cifrato.
Giovanni, telegrafista, e nulla più…
Se volete saperne di più, scrivete a
[email protected]
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Exchange
La rivoluzione: Il primo essere vivente
nello spazio
di Cristina Pierri
Bajkonur, Kazakistan - ore 2.30 a.m.
Quella notte uno dei bar più anonimi del paese
ospitava cinque anime alcoliche.
Una di queste risiedeva nel corpo di un uomo
chiamato Varf. Le sue estremità stringevano un
bicchiere mezzo vuoto contenente il liquore
inventato dal barista, una sostanza di dubbia
provenienza dal sapore forte e aspro. Varf non
chiedeva di meglio. Mancavano esattamente
ventiquattro ore all’evento che avrebbe segnato
per sempre la sua carriera: lanciavano Laika
nello spazio. Laika, non Muschka il suo cane.
La sua grande occasione era andata, persa per
sempre. Addio ai sogni di gloria, conferenze,
192
| Exchange |
scuole, libri. Non era lui l’addestratore del
primo essere vivente nello spazio.
“Ora bevo e non ci penso più,” ripeteva come
un mantra che falsamente cercava di essere
sincero.
Due vecchi kazaki litigavano per un conto in
sospeso e un terzo uomo dormiva riverso su un
tavolino in un angolo del locale. Quest’ultimo
era stato sempre un mistero per Varf; a
dispetto degli altri avventori, era l’unico di cui
non aveva mai visto il volto. Quando la sera
arrivava per richiedere la sua dose di effimera
felicità, quell’uomo era già in quella posizione.
Lo aveva soprannominato ‘il Dormiente’. Quella
sera avrebbe voluto raggiungere il suo stesso
stato, ma i pensieri lo costringevano a rimanere
lucido.
“Gentili signori è ora di chiudere,” proferì
il barista con la voce di chi ha di meglio da
fare. I due kazaki, ancora in fibrillazione per la
discussione, insultarono lievemente il gestore
ed uscirono. Varf tardò l’alzata dallo sgabello
193
| Exchange |
per colpa degli spiccioli ancora poco noti per
essere contati velocemente. Alle sue spalle
sentì il rumore delle chiavi nella serratura. Il
barista stava chiudendo la malconcia porta del
locale. Era diventato invisibile? Sarebbe stato
un sollievo, per un uomo che non sapeva come
avrebbe affrontato i giorni successivi. Ma forse
non era così, era rimasto anche il Dormiente.
Magari il barista riteneva fosse meglio non
lasciare a piede libero due anime troppo fragili
per vagare da sole nel mondo.
“Signor Varfolomey, dobbiamo parlare,” disse
il barista avvicinandosi a lui. Varf cercò di
mettere a fuoco la sua espressione. Non era
più quella bonaria che gli aveva sempre visto
stampata sul viso; ora i suoi occhi dicevano
qualcosa che non riusciva a interpretare. In un
istante gli fu talmente vicino da poter sentire
l’odore di vecchio misto alcool, in ordine
interscambiabile. Percepì aria di sfida e, quel
poco di orgoglio che gli vagava nel corpo, lo
fece alzare dalla seduta. Con la coda dell’occhio
194
| Exchange |
vide il Dormiente staccare il viso dal ripiano del
tavolo.
“Cosa mi vuole dire?” chiese Varf, lasciando
che la voce tradisse la sua posizione eretta.
Invece di rispondere, il barista si allontanò,
andando dietro al bancone e versando liquore
in tre sporchi bicchierini. Lo stomaco di Varf
cominciò a protestare, sia perché non avrebbe
retto ancora una bevuta, sia per l’insolita
situazione.
Il Dormiente si avvicinò lentamente al bancone.
Finalmente ne vedeva i lineamenti. Aveva
un viso largo e molle, occhi scuri e un grosso
naso rossastro nel mezzo. Nonostante avesse
tutti i tratti di un uomo di mezza età dalla vita
dedita ai bagordi, possedeva un’aria distinta
che lo rendeva, agli occhi di Varf, decisamente
stravagante.
“Ragazzo, tu sei un vero addestratore. Io so
tutto sul tuo conto,” disse il Dormiente non
appena i bicchierini furono distribuiti.
“Interessante!” si limitò a rispondere Varf. “Lei
195
| Exchange |
invece è...”
“Chiamami Sam,” lo interruppe il Dormiente.
“Cosa ne pensi, è abbastanza sveglio il signore
qui?” proseguì rivolgendosi al barista chino sul
bancone.
“Non ho mai visto un russo più scaltro,” rispose
l’altro strizzando l’occhio a Varf.
“Brindiamo!” disse il Dormiente come fosse
un’imposizione. Varf confuso si limitò ad
eseguire l’ordine. Bevve lentamente, prendendo
tempo per dominare i mille pensieri che si
agitavano nella sua mente.
“Peccato che non hanno scelto Muschka.
Eppure è molto meglio di Laika, come tu sei
molto più competente di Oleg.”
Le parole pronunciate da Sam riaprirono la
ferita che Varf aveva momentaneamente
dimenticato. I cani e quel maledetto Oleg, il
selezionatore della missione. Il suo eterno
rivale, colui che ora lo avrebbe deriso per
sempre.
“È andata così,” rispose Varf guardando altrove
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| Exchange |
per non far leggere la delusione nei suoi occhi.
“No, Varf!” urlò Sam, sbattendo il pugno contro
il bancone e facendo vibrare tutto ciò che vi era
sopra, compreso il braccio dell’addestratore.
“Io ti voglio dare l’occasione per cambiare le
cose. Se per la Russia tu non sei un eroe, lo
sarai per gli Stati Uniti d’America!”
Varf restò immobile, non riusciva a
comprendere.
Il barista gli versò altro liquore.
“Si spieghi,” chiese ancora allibito.
“Semplice, entra a far parte della missione
e non dovrai camminare a testa bassa. Sarai
ricco e fiero di te stesso. Un’intera nazione ti
riterrà un esempio di coraggio e astuzia. Fallo
per te e per la tua famiglia. Vuoi davvero che
tua madre pensi di aver generato un fallito?”
Il Dormiente aveva colto nel segno. Varf aveva
una paura atavica del giudizio di sua madre e
il ritorno a casa sarebbe stato davvero difficile
da sopportare. Quella donna aveva su di lui
un’influenza, i cui sintomi erano l’impossibilità
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| Exchange |
di sentirsi adulto. Era amore e odio, una
dipendenza di cui non riusciva a fare a meno.
Dopo essersi sbrogliato da questi pensieri,
realizzò che ciò che gli stavano proponendo
era un affare che andava oltre le vendette
personali. Chi erano realmente queste persone
mascherate da docili ubriaconi?
La risposta non tardò ad arrivare.
“Siamo della CIA,” affermò il barista. Calò un
silenzio denso di attesa, disturbato solo dallo
scricchiolio dello sgabello di Varf. La sua gamba
si agitava freneticamente.
“Signor Varfolomey, mancano meno di
ventiquattro ore al lancio. Se vuole cambiare
la sua vita deve decidere in fretta. Vada a casa
e ci pensi. Ha tempo fino alle 13:00 di oggi
per tornare qui e fare parte dei nostri,” disse il
barista giocherellando con le dita sul bancone.
Il suo sguardo severo lo ipnotizzò.
Varf uscì dal locale. Mente confusa e passi svelti
lo accompagnarono all’albergo.
198
| Exchange |
Cosmodromo di Bajkonur, Kazakistan – ore
9.30 a.m.
Voci, grida e ululati. Nella stazione di lancio
non pareva presente alcun essere vivente
che riuscisse a mantenere le distanze dal
gran fermento generale. Anche Varf fu subito
colto dall’adrenalina ma, non avendo in quel
momento un compito preciso, iniziò a vagare
senza meta.
La notte non aveva portato consiglio, anzi, lo
aveva solo caricato di una dose extra di ansia.
Fango, salite e mostri avevano dominato i suoi
sogni. Il suo inconscio voleva comunicargli
qualcosa, ma lui non era abbastanza
introspettivo per capire quel linguaggio. Le
sue riflessioni lo avevano portato solo ad avere
un chiaro quadro della situazione: rifiutare
avrebbe significato sentirsi un fiero cittadino
russo, povero ma onesto; accettare, invece,
199
| Exchange |
voleva dire diventare un ricco traditore. Scartò
l’idea di chiamare la madre per un consiglio,
questa volta sarebbe stato lui a prendere le
redini della sua vita. Forse lanciare una moneta
sarebbe stata un’ottima soluzione, in fondo si
trattava di destino anche quello. Così andò a
caccia del soldo decisivo.
“Varf, togliti da lì sotto, vuoi una monetina?”
lo soprese alle spalle Oleg. Era in divisa, aveva
l’aspetto smagliante che quel giorno centinaia
di giornalisti avrebbero immortalato per
sempre. Varf ritirò velocemente il braccio da
sotto il distributore delle bibite. Non aveva
alcuna voglia di parlare con lui, aveva ben
altro a cui pensare. Oleg però no, aveva l’aria
di chi quel giorno era un Re e voleva che tutti
riconoscessero in lui il suo carisma, soprattutto
Varf, che lo aveva sfidato tante volte per poi
perdere miseramente.
“Che giornata! Oggi mi aspettano interviste a
non finire. Guarda, quasi ti chiederei di farle tu
al posto mio!” disse ridendo falsamente Oleg.
200
| Exchange |
“Immagino,” rispose Varf cercando di far calare
su di sé un velo di indifferenza.
“Stasera fai tu l’ultima toilettalura a Laika? Mi
raccomando puntuale. Non che non mi fidi, ma
voglio fare alcuni ritocchi al pelo anche io. Sai
è il mio tesoro,” ammiccò Oleg.
“Si, certo!” assicurò Varf ancora sotto lo scudo
di prima.
“Sai, penso che sia stata una bella sfida tra i
nostri due cani. Muschka non è male, certo che
fare il morto durante l’ultimo test non è stata
proprio una bella trovata. Ma è andata così.”
‘Strat!’, il velo di Varf iniziò a strapparsi. Per
prima cosa si videro gli occhi. Oleg se ne accorse
subito.
“Sai Varf, la vita è strana. Ma non ti devi
arrendere. Prendi me, siamo stati quasi sempre
allo stesso livello e poi… non c’entra la fortuna,
ma quel briciolo in più che ti serve e ti salva
per sempre. Penso sia il coraggio, quello che
ti ordina di andare avanti per la tua strada e
vincere per te stesso, per tutti gli sforzi che hai
201
| Exchange |
sempre fatto. È qualcosa di incredibile quando
ci riesci e tutto và pe... Varf, dove stai andando?
A dopo, caro!”
Varf si allontanò da Oleg a passi lunghi e veloci.
Il suo rivale non poteva immaginare di essere
stato la sua moneta. Quello che gli serviva per
prendere una decisione.
Per la prima volta era d’accordo con lui: per
vincere ci vuole coraggio.
Bajkonur, Kazakistan - ore 01.00 p.m.
“Puntualissimo, Signor Varfolomey,” disse in
tono smagliante il barista. Varf aveva appena
varcato la soglia del locale. Gruppi di gente qua
e là mangiavano cibo dal pessimo aspetto in
pendant con il locale. Si guardò intorno, erano
tanti i particolari che ora sembravano rompere
palesemente la facciata di copertura. Oggetti
non del posto, stampe troppo nuove per essere
202
| Exchange |
autentiche, foto che sembrano essere ritoccate
ed un cameriere decisamente incompetente.
Per sfizio chiese al barista se anche quest’ultimo
fosse della CIA, ma gli rispose di no. Tranne
quest’ultimo dettaglio, aveva azzeccato tutto.
Il barista stesso gli raccontò che il locale era
stato acquistato solo quando era stata resa
nota la base del lancio.
“Ha fatto la scelta giusta. Mi segua.”
I due andarono nel retro e poi nel retro del
retro.
La stanza che li accolse era grande e, nonostante
l’assenza di finestre, illuminata a giorno. Davanti
ad una scrivania, sormontata da computer e
apparecchiature simili a quelle che vedeva
ogni giorno alla base, c’era Sam in tutto il suo
splendore. Era davvero così, la notte prima il viso
era ancora sconvolto dall’essere stato reclinato
per ore su di un tavolo, ora sembrava fresco
come un fiore. Nonostante fosse convinto della
sua scelta, Varf era ancora molto agitato. Non
sapeva ancora quale fosse lo scopo di tutto
203
| Exchange |
questo, ma sapeva per certo che qualsiasi cosa
fosse non si sarebbe più potuto tirare indietro.
“Questa è la missione Exchange: devi sostituire
Laika con un nostro cane.”
Le parole di Sam risuonarono come un boato
nella mente di Varf. Le sue gambe cominciarono
a tremare.
“È semplice. In questo momento un nostro
collega sta introducendo la sosia di Laika,
Marilyn, nel tuo furgoncino. La terrai lì fino a
quando stasera, entrando nel garage della base,
la prenderai e la porterai alla sala toilettatura.
Nessuno ti noterà, è normale che tu possa
essere con Laika. Ci saranno un paio di nostri
agenti a controllare che tutto passi inosservato.
Quando sarai nella stanza, nasconderai
Marilyn fino all’arrivo di Laika. Quando le avrai
scambiate, aspetterai di dare il nostro cane agli
inservienti. Poi furgone e via, il gioco è fatto.”
“Chiaro, certo,” disse Varf mentre pensava “È
da pazzi! Questi sono pazzi!”
“Se dovessi andare in confusione con i due cani,
204
| Exchange |
ricorda che sotto l’orecchio destro di Marilyn
c’è tatuata una piccola bandiera americana.
E poi, il suo pelo è decisamente più lucido.
Pensa, addirittura si complimenteranno per il
tuo lavoro.”
“E se qualcuno mi dovesse scoprire? E il
tatuaggio…”
“Ragazzo, fidati di me. Non siamo così sciocchi
da aver lasciato tutto al caso, ci sono molti dei
nostri lì dentro,” disse Sam aprendo lentamente
una valigetta. Era piena di dollari, tanti da far
impallidire. Varf sbiancò completamente. Sam
prese un paio di mazzette e gliele conficcò nelle
tasche.
“Il resto lo avrai a missione conclusa.”
“È fantastico… Ma poi cosa succederà? Io finirò
nei guai con l’intera nazione?”
“Assolutamente no. Noi non abbiamo alcun
motivo di fregarti. Anzi, dimostra il tuo valore
e ti cercheremo ancora… E per tutto il resto
non ti devi preoccupare, non sono cose che ti
riguardano.”
205
| Exchange |
Le ultime parole lo rasserenarono. Il piano
era semplice e preciso. Non aveva motivo di
dubitare delle sue capacità. Osservò la valigia
e sorrise.
“Ora le ultime raccomandazioni,” si intromise
il barista. “Signor Varfolomey, credo non ci
sia bisogno di dire cosa le potrebbe accadere
qualora ci tradisse. Quindi presti attenzione e
non commetta errori,” concluse estraendo una
pistola da sotto il grembiule.
Varf ingoiò quel poco di saliva rimasta e strinse
ad entrambi la mano.
Cosmodromo di Bajkonur, Kazakistan – ore
09.30 p.m.
Ferma, stai ferma. Forse spunta. E se abbaia?
No, è addestrata. Cosa direbbe mia madre?
Che ore sono? È presto. Ho fame.
206
| Exchange |
Pensieri veloci e frenetici tormentavano Varf.
Aveva già nascosto Marylin in un armadio. Tutto
era andato liscio. Nessuno lo aveva fermato.
Dovevano essere davvero furbi quelli della CIA,
pensò. Ora non restava che aspettare.
Varf girava nervosamente per la stanza. Toccava
tutto e spostava ogni cosa, cercando il modo
di tener occupato il fisico per controllare la
mente. Inutile.
“Non posso tornare indietro. Ma da questa
notte non me ne importerà nulla, sarò
ricco,” si disse guardandosi ad uno specchio.
Effettivamente la missione Exchange era una
curva del destino totalmente inaspettata. Non
sarebbe tornato a casa a testa bassa. Al diavolo
lo Sputnik, da ora poteva pensare ad una nuova
vita. Basta con la vecchia casa di sua madre,
lo aspettava una villa con piscina mai vista in
paese. Sarebbe andato in giro su di una fuori
serie e avrebbe conquistato tutte le più belle
donne della città. Già vedeva Virma, la donna
207
| Exchange |
che lo aveva rifiutato, mangiarsi le mani. Una
vendetta fantastica. Forse, però, poi l’avrebbe
perdonata, chissà. Forse sarebbe riuscito
finalmente a farla sua per sempre.
La porta della sala si spalancò ed entrò un
inserviente con il cane tanto atteso. “Laika è
tutta sua, torno tra un’ora e poi va dritta a fare
le foto.”
Varf e Laika rimasero soli. Un’ora di tempo,
tantissimo, contando il fatto che non doveva
fare alcuna toilettatura.
Pensò di passare subito allo scambio, sapeva
benissimo che Laika era addestrata per stare
in luoghi stretti per parecchio tempo, per cui
l’armadio non sarebbe stato un problema.
“Dovresti ringraziarmi cara, ti sto salvando la
vita,” le disse in un orecchio Varf. Sollevando
quel lembo di pelle, notò qualcosa di molto
strano. Era un tatuaggio con un simbolo
particolare che non aveva mai notato prima.
Ebbe una strana sensazione, ma decise di
fingere indifferenza per non aumentare il suo
208
| Exchange |
carico di stress.
I due cani si guardano per qualche istante. A
Varf sembrò che Laika chiedesse perdono a
Marylin prima di entrare nell’armadio.
Era fatta. Mancava solo l’uscita con il cane ed
era ricco. Cominciò a girare in tondo, pensando
a tutte le cose che avrebbe comprato, a qualche
debito che avrebbe potuto saldare e tante cose
splendidamente superficiali. Aveva promesso
a sé stesso che non avrebbe ceduto a nessun
rimpianto patriottico. Era la sua vita, non quella
della Russia.
‘Grit, grit’. Un suono arrestò il suo cammino
ciclico. ‘Grit, grit’. Ancora. ‘Grit, grit’. Corse
a verificare che non fosse Laika a grattare la
lamiera dell’armadio. No, non era lei. ‘Grit,
grit’. Proveniva da un cassone metallico. Quello
delle coperte. Probabilmente un topo, ma era
meglio fosse lui a cercalo piuttosto che un
inserviente troppo curioso.
La serratura era chiusa ma in passato aveva
frequentato alcuni tipi loschi che qualcosa gli
209
| Exchange |
avevano insegnato, cioè come tirarsi fuori da
una stanza quando lo chiudevano dentro.
Un cane. Un altro cane uguale a Laika. Richiuse
istintivamente il cassone. Non aveva alcun
senso, cosa ci faceva un altro sosia? Forse non
avrebbe dovuto preoccuparsene. Magari era
un’allucinazione, si sa che lo stress fa brutti
scherzi. Riaprì il cassone.
Il cane era ancora lì. Varf gli prese l’orecchio
destro e osservò: un altro tatuaggio indecifrabile.
Richiuse il cassone e si allontanò deciso che non
fossero fatti suoi, come avevano detto Sam e il
barista. Poi svenne.
“Svegliati Varf,” e un getto d’acqua lo fece
rinsavire. Aprì gli occhi e vide Olag chino su
di lui. Doveva aver perso i sensi per parecchi
minuti, sentì il braccio formicolare.
“Non avrei mai sospettato di te,” gli disse Oleg
guardandolo fisso negli occhi. Varf era ancora
troppo stordito per capire il senso di ciò che gli
stava dicendo.
“So tutto, caro vecchio mio,” proseguì Oleg.
210
| Exchange |
“Pensi che io non abbia controllato il tatuaggio
di Laika?”
Varf raggelò e sentì la secchezza delle fauci per
la seconda volta nella stessa giornata.
“Cosa stai dicendo?” cercò di difendersi
inutilmente. Tutto in lui sembrava urlare “Hai
perfettamente ragione, sono un traditore e mi
arrendo.”
“Credi di essere l’unico a fare il gioco delle tre
carte con i cani?”
“Cosa intendi dire?”
“Siamo in tanti qui a farlo.” Per la prima volta
le parole di Oleg sembravano sincere.
“Ma c’è il tatuaggio...” disse Varf, ormai
miseramente smascherato.
“Cosa cambia? Anche io ora ho sostituito il
tuo cane con il mio. Pensi davvero che nelle
prossime ore nessuno farà lo stesso? Non
essere sciocco…”
Questa era la verità. Non c’era persona in grado
di controllare quel flusso caotico di eventi.
I due rivali erano finalmente sullo stesso
211
| Exchange |
piano. Non si sarebbero traditi a vicenda, non
avrebbe avuto senso. Ora avevano altri guai a
cui pensare. Stettero lì in silenzio, ad aspettare
l’arrivo dell’inserviente. Ognuno assorto nei
propri pensieri.
Solo quando una delle tante Laika fu portata
fuori dalla sala, Varf tirò fuori la voce.
“Dove pensi sia la vera Laika?”
“Non lo so, potrebbe essere ovunque.”
Distretto di Qarmaqšy, Kazakistan - ore 2.00
a.m.
Dharma era una bambina solitaria, troppo
diceva sua madre e troppo poco sosteneva il
padre. Aveva passato una pessima giornata.
“Chi ha rotto il vetro?”, “Dharma, dì la verità,
sei stata tu?”, “Dharma mente”, “Stasera niente
televisione”.
Così si era trovata in castigo nella sua cameretta,
212
| Exchange |
mentre tutta la famiglia se ne andava a vedere
il lancio dello Sputnik 2 dagli zii. Ma Dharma
non voleva stare in casa a piangere, sarebbe
stato troppo deprimente. Preferì versare le sue
lacrime su di un prato e, magari, guardando il
cielo, avrebbe potuto vedere anche lei il razzo
abbandonare la terra. Stretta nel cappottino in
mezzo a quel prato, si sentiva più sola che mai.
Buttò la testa tra le ginocchia e pianse. Poi,
qualcosa di caldo e umido le sfiorò l’orecchio.
Era un cane scodinzolante. I due si guardarono,
entrambi capirono che era un segno del destino.
Trovarono immediatamente il loro modo di
comunicare e giocarono come se fossero amici
da tanto tempo. “Non sei un cane bellissimo,”
disse Dharma riprendendo il fiato. “E non
sembri neanche intelligente, ma ti terrò con
me.”
La bambina abbracciò il cane.
Lo Sputnik 2 partì.
Dharma dedicò quel momento al suo nuovo
amico, lo avrebbe chiamato Laika.
213
| Autore |
Cristina Pierri
Cristina Pierri nasce nel 1986 e cresce fino all’età di
sedici anni in un piccolo paese canadese di nome
Branch, dal quale scappa con un musicista folk per arrivare fino in Italia. Dopo il diploma al liceo scientifico
Galilei di Catania si trasferisce a Venezia dove intraprende per un semestre l’Università di Chimica e Tecnologie sostenibili. Nel 2006 arriva a Milano dove comincia l’Università di Lettere e Filosofia.
Nel frattempo scrive il suo primo vero libro:
“La formica e il salice piangente: viaggio all’interno di
una corteccia”. Dichiara di averlo scritto in venti giorni
e nel luglio del 2008 viene pubblicato dalla famosissima casa editrice Zanichello. In soli due anni scrive venti libri, di cui dieci hanno venduto più di 10.000 copie
ciascuno. Tra i più famosi possiamo citare “Il cantico
di chi non canta”; “L’eremita dalla sabbia che scotta inverte la rotta”; “Quando non sai che fare non fare nulla” e il best seller “Durante la lotta è bene bere”.
Citazioni “Se fai quello che ti pare non sbagli un colpo!”
Se volete saperne di più, scrivete a
[email protected]
214
Primo sangue
La rivoluzione:
Le cinque giornate di Milano
di Agostino Bertolino
Prologo
La lama viene forgiata dal fuoco per lasciare il
segno. Recidere, perforare, mutilare. Non ha
volontà la lama, non è buona né malvagia, è solo
affilata. Quando la punta del coltello penetra
la carne, innesca un processo irreversibile. La
lama, dove penetra, squarcia. La lama lascia il
segno. Il colpo di taglio incide lunghe lacerazioni
superficiali, che verranno sigillate da cicatrici
destinate a servire da monito. L’affondo, invece,
è preciso, secco, implacabile. La punta affilata
vibra nell’aria, finché non incontra lo strato
elastico dell’epidermide. Penetra la pelle, i
tessuti e le arterie, lacerandoli. Il sangue scorre
immediatamente. Caldo, scuro e copioso,
216
| Primo sangue |
sulla lama ghiacciata. Schizza rosso acceso
a metri di distanza, spinto dalla pressione
del battito cardiaco, destinato a rallentare.
La punta del pugnale si ferma sull’osso del
terzo disco cervicale. Dunque la lama gira su
sé stessa, torcendo indistintamente tutto ciò
che incontra. Quando viene estratta, con uno
strappo secco, il corpo violato dal fendente
improvviso si contrae in una morsa repentina.
Un grido soffocato precede il crollo delle gambe.
La vista annebbiata, la respirazione ostruita
dalla lacerazione della trachea. I polmoni si
riempiono di sangue. Morte da soffocamento.
Il processo irreversibile è innescato. Ora non si
può più tornare indietro.
I fatti
Non fu una scintilla a far scoppiare l’incendio
della rivolta delle cinque giornate di Milano,
bensì fu una goccia. La goccia che fece
traboccare un vaso già colmo di sangue.
Corso Monforte, Palazzo del Governo. Ore
217
| Primo sangue |
15.30 del 18 marzo dell’Anno del Signore 1848.
La folla in strada era agitata. Il corteo giunse a
destinazione dopo aver raccolto un plebiscito
di adesioni per le vie della città. Un’ora prima
qualche centinaio di manifestanti aveva lasciato
il Broletto di Piazza Mercanti diretto verso
la Prefettura. Inaspettatamente, dai palazzi
patrizi, dai cortili delle case di ringhiera, dalle
locande e dalle botteghe, i cittadini si erano
riversati nelle strade di Milano per unirsi alla
manifestazione. A coloro che osservavano dal
balcone, il corteo doveva apparire come una
rumorosa anaconda che andava alimentandosi
di ogni genere umano. Avanzava lentamente
il rettile, e avanzando si nutriva di folla e
si allungava di curva in curva in una coda
interminabile. Il giovane abatino si era aggiunto
al corteo all’altezza di Piazza della Scala, avvolto
nella sua mantella nera e col suo libro stretto
sottobraccio. Non si sentiva a suo agio. Il
variegato corteo era animato da una pletora di
sconosciuti provenienti da ogni classe sociale.
218
| Primo sangue |
I più ignoravano l’oggetto della contestazione,
e così anche lui. Alla testa del serpente i circoli
degli aristocratici indipendentisti. Finalmente
avevano abbandonato il tepore dei nobili
salotti dove erano soliti confrontarsi sui temi
della cittadinanza e sembravano in procinto di
sferrare un morso letale al collo del potere. In
mezzo a loro, questa volta, non solo i giovani
studenti delle famiglie facoltose, ma anche i
lavoratori: dagli operai agli artigiani, dai bottegai
alle lavandaie. Non mancavano neanche gli
sfaccendati e i briganti, che avevano lasciato i
tavolacci in legno fradicio di vino delle locande
perché le loro lamentele potessero cedere per
una volta il passo all’azione. Vi erano dei preti,
seguiti dai propri parrocchiani, famiglie con
vecchi, uomini, donne e bambini. E vi erano
anche alcune prostitute delle più sordide
bettole:
“Dì un po’ prete, noi due ci conosciamo?” gli si
rivolse una.
219
| Primo sangue |
“Non sono un prete… studio in seminario.”
borbottò lui senza voltarsi.
“Lui studia in seminario!” lei lo canzonò “E
dunque vuoi fare il prete…”
“Sì, voglio fare il prete. Ora se permette…”
accelerò il passo.
“Che fretta! Forse puzzo anch’io come le bettole
che frequento? Oppure non ti piace farti vedere
dalla gente con una baldracca stagionata? Non
devi temere il giudizio degli uomini, sai? Io qui
ne conosco tanti…” lo prese a braccetto.
“Non ci conosciamo, trovo più conveniente
darsi del Lei signora. E comunque non mi
interessano questi discorsi.”
“Ah, certo… cosa avrebbe un prete da spartire
con una donna di strada come me? Bravo lui!
Ma dì un po’… non era forse venuto il tuo Gesù
per curare i malati e salvare le povere anime
smarrite? Lui sì che frequentava i posti più
divertenti.” sorrise maliziosa.
“Non dovrebbe parlare così!”
“E perché? Che c’è di male?”
220
| Primo sangue |
Intervenne un giovanotto fra di loro. Poteva
avere su per giù l’età del pretino, ma con
tutto un altro portamento. Era sgargiante
nell’abbigliamento ed elegante nei modi. Si
muoveva con sicurezza tra la folla, stringendo
le mani dei presenti ed elargendo generose
pacche sulle spalle. Era come se conoscesse
tutti.
“Dice bene la signora, prete! Cosa c’è di male
a camminare tutti insieme? Non siamo forse
tutti figli di Milano? Non siamo vittime del
medesimo oppressore? E allora dobbiamo
essere uniti come le dita di un pugno, diverse
tra di loro, ma tutte necessarie per sferrare il
colpo che annienterà l’occupante tedesco!” e
se ne andò, il giovanotto zelante, continuando a
scalare il corteo verso la testa, come chi sentiva
di aver fatto la sua parte di dovere, ma non per
questo voleva essere ringraziato.
Era certo confuso il pretino, in mezzo a quella
folla variopinta, ma allo stesso tempo sentiva la
forza che scaturiva dalla piazza. E di quella forza
221
| Primo sangue |
si sentiva parte e quell’energia lo pervadeva.
I milanesi non erano tutti come lui, ma per
quanto diversi, erano pur sempre milanesi,
come lui. Con questi concittadini l’abatino
scoprì di condividere il profondo sentimento
di ribellione e riscatto che si prova quando da
tempo un oppressore abusa della pazienza
di un popolo privandolo della sua dignità.
Questo avevano in comune lui e tutti gli altri:
non sopportavano più le prevaricazioni degli
occupanti austriaci nella loro città. Un drappello
di dimostranti più coraggiosi gridavano le
loro rivendicazioni contro la finestra del
vice governatore O’Donnel. La tensione era
palpabile, ma nessuno affacciava. Il palazzo
del governo era difeso da giganteschi e robusti
corazzieri croati. La loro stazza imponente, la
fisionomia severa e l’espressione impassibile,
volevano significare che l’esercito austriaco, il
più grande e potente del mondo, non temeva
gli schiamazzi di una popolazione inerme,
imbelle e mal organizzata. D’altro canto, il
222
| Primo sangue |
Maresciallo Radetzky aveva trascorso gli ultimi
sessant’anni sedando spietatamente le rivolte
di mezza Europa. Non più tardi di tre mesi
prima aveva dato una lezione d’obbedienza
ai milanesi, col massacro di decine di civili.
Alcuni patrioti, infatti, avevano osato levare
una protesta contro la tassa sul tabacco,
proclamandone il boicottaggio. Radetzky,
dunque, diede libero sfogo ai più insubordinati
fra i suoi mercenari sguinzagliandoli per la città
e ordinando loro di provocare la popolazione.
Gli scagnozzi diedero spettacolo in Galleria
Vittorio Emanuele, fumando sigari, inseguendo
i passanti e provocandoli con i modi di chi
certo non aveva mai conosciuto la cavalleria.
Alcuni cittadini reagirono a tale sfoggio di
arroganza e così il maresciallo invitto ebbe il
pretesto per scatenare la sua furia repressiva.
Cosa successe quando gli zoccoli dei possenti
cavalli di una feroce armata di Ulani batterono il
marmo della Galleria, con l’ordine di infliggere
una lezione memorabile ai riottosi disarmati,
223
| Primo sangue |
è uno scempio di sciabole che non starò qui a
descrivere. Basti sapere che quel 6 di gennaio
del 1848 non bastarono due carri colmi per
trasportare i cadaveri fuori dalla Galleria.
Eppure, soli tre mesi dopo, il 18 marzo del 1848,
a Milano, quel coro variegato e confuso di Corso
Monforte non sarebbe rimasto inascoltato.
Improvvisamente la folla si accalcò all’ingresso
del Palazzo della Prefettura: era successo
qualcosa. Grida, disordini. Perché la folla si era
infervorata? I corazzieri chiamavano i rinforzi.
Uno di loro rantolava a terra, agonizzante in una
pozza di sangue scuro che andava espandendosi
a macchia d’olio. Il sangue fluiva a fiotti da un
vistoso squarcio sulla gola che doveva aver
reciso l’arteria giugulare. Del coltello non c’era
traccia, dell’aggressore men che meno. Il primo
sangue era stato versato. Il vaso era traboccato.
Mentre i manifestanti si accalcavano
all’ingresso del Palazzo del Governo, un
gruppo di ardimentosi prese l’iniziativa,
sfondò il pesante portone e si diresse alla
224
| Primo sangue |
ricerca del vice-governatore al grido di “viva i
morti!”, invadendo il palazzo della prefettura.
Nel frattempo il gracile pretino di campagna
si dirigeva con passo svelto nella direzione
opposta alla folla.
“Torna indietro codardo! Combatti!”
Ma il pretino non ascoltava la folla e procedeva
per la sua strada con incedere rapido. Erano
tesi i lineamenti dell’abatino e gli occhi persi.
Appariva visibilmente scosso. Non era dato
sapere cosa avesse visto, o dove si dirigesse,
ma di certo nascondeva qualcosa. Un altro
seminarista lo riconobbe tra la folla:
“Dove vai Battista!?”
“Le guardie stanno caricando i manifestanti
davanti alla Prefettura, scappa via!” fu la
risposta del pretino, che non si fermò.
Continuava diretto per la sua meta. Dove
andasse, così deciso e tutto trafelato, era
un mistero, ma teneva un libro, stretto a sé
sotto la mantella, come se fosse qualcosa di
prezioso. Entrò in chiesa. Era la chiesa di Santa
225
| Primo sangue |
Maria delle Grazie, dove poche ore prima
Padre Gasparoni aveva dato l’estrema unzione
ai giovani patrioti aristocratici pronti a dare
la vita per liberare Milano dall’occupazione
austriaca. Non era, infatti, un giorno qualunque
quel 18 marzo 1848. Molti sapevano che quel
raggruppamento per la rivendicazione dei diritti
dei cittadini milanesi non si sarebbe esaurito
in una manifestazione pacifica. Ci trovavamo,
infatti, all’indomani dell’insurrezione di
Vienna. L’Impero Asburgico mostrava segni di
cedimento e le notizie volavano veloci a cavallo
giù per le alpi e attraverso la Pianura Padana. I
gruppi di indipendentisti – per lo più studenti,
giovani aristocratici e operai – per quanto
disarmati e mal organizzati, erano al corrente
di quanto stava accadendo in Europa ed erano
pervasi dal fuoco della rivolta. Il momento era
propizio. Non serviva che la famosa goccia
affinché il vaso traboccasse. E una goccia di
sangue cadde sulla panca di legno della chiesa
di San Pietro Celestino, dove il gracile pretino
226
| Primo sangue |
si era ritirato a pregare in ginocchio. Cadeva
dal libro che il seminarista stringeva fra le
mani. Un libro le cui pagine sporche di sangue
nascondevano un coltello. Un coltello la cui
lama era ancora bagnata di sangue non ancora
rappreso. Ebbene sì, non fu un ardimentoso
patriota, né un brigante a sferrare la pugnalata
improvvisa che scatenò la rivolta della
popolazione. Bensì, sorprendentemente, un
gracile abatino di campagna. Un seminarista,
timido e impacciato, che era solito imbracciare
tutt’al più un libro, ma non di certo uno stiletto.
Eppure, quell’abatino, proprio sui libri avrebbe
fatto scrivere il suo nome. Si chiamava Giovan
Battista Zaffaroni. Un giovane orfano di padre
di nemmeno vent’anni che il seminario aveva
strappato alla fame e alle braccia della povera
madre. Fu un parroco misericordioso a prendersi
cura del giovane. Lo fece offrendogli un tetto,
un letto e una formazione. Ne avrebbe fatto un
uomo di Dio. Il ragazzo fu sempre riconoscente
per la possibilità di riscatto che aveva ricevuto.
227
| Primo sangue |
Trovò in Dio sicurezza e protezione, fino a
quando non venne l’età in cui un giovane uomo
si interroga su chi sia e sulla sua vocazione.
La strada dell’abatino sembrava segnata,
eppure non era stato lui a intraprenderla,
ma semmai lei a sceglierlo. S’interrogava,
dunque, il giovane seminarista e per quanto
fosse profondamente riconoscente a Dio per
il destino a cui era scampato, in cuor suo non
sapeva se era convinto della missione che lo
attendeva. Pregava per implorare perdono
per il crimine orribile del quale si era appena
macchiato, ma anche per trovare le risposte
alle sue domande. Era un uomo di Fede e di
pensiero l’abatino, anche se quel giorno fu
uomo d’azione.
Nel frattempo fuori la rivolta montava a
dismisura. Sotto l’attacco feroce degli Ulani a
cavallo, armati di sciabola, i cittadini si erano
ritirati, ma non arresi. Molti rientrarono nelle
loro case, e dalle finestre lanciavano ai soldati
austriaci in strada tutto ciò che trovano per
228
| Primo sangue |
colpirli. Vasi, pentole, bicchieri. Ogni oggetto
contundente veniva trasformato in arma. I
cittadini riversavano nelle vie di Milano tutti i
loro averi, senza curarsi delle conseguenze. Gli
stretti viottoli medievali vennero presto invasi da
mobilio di ogni sorta: sedie, tavoli, comò, divani,
armadi, credenze. Milano stava erigendo alte
barricate che rendevano impossibile il passaggio
della cavalleria austriaca e imbottigliavano
cavalli e cavalieri in una trappola fatale. Quelli
che per anni erano stati cospiratori da salotto
o da osteria, ora si riunivano in piccoli gruppi
d’azione e si organizzavano rapidamente. Gruppi
indipendenti fra di loro, anche dell’ultima
ora, erano tutti legati dal medesimo intento:
attaccare l’esercito occupante, metterlo in fuga,
riprendersi Milano. La ferocia degli Ulani era
implacabile. Al loro passaggio distruggevano
tutto ciò che incontravano. La spada di Radetzky
si levava alta sulla testa dei civili in fuga e si
scagliava violentemente dritta sui loro crani, per
spaccarli. Sciabole pesanti dalle lame taglienti,
229
| Primo sangue |
abilmente brandite, che non fanno differenze
fra uomini, donne e bambini. Falcidiavano tutti
indistintamente.
Quando l’abatino abbandonò la chiesa si ritrovò
in questo marasma di strade bloccate, cadaveri,
sciabolate, grida e civili in fuga. Sì, perché
l’abatino non era diretto alla chiesa, quella
era solo una tappa di passaggio. Camminava
guardingo, guardandosi bene dal partecipare
agli scontri e si dirigeva impaziente verso il
suo vero obiettivo. Camminava lungo i muri,
sotto i balconi e col favore del crepuscolo che
sembrava giunto in suo soccorso. Sapeva bene
dove andava l’abatino, col suo libro stretto
sottobraccio e il suo segreto ancora intriso di
sangue.
Epilogo
L’abatino giunse di fronte a un palazzo patrizio,
si fermò e prese fiato. Cercava del coraggio
dentro di sé, ed era tanto carico di motivazione
che quando batté al portone di Palazzo Suardi
230
| Primo sangue |
pareva volesse abbattere il pesante legno
massello, anziché semplicemente richiamare
l’attenzione di qualcuno. Eppure, nessuno gli
rispose. Che non vi fosse nessuno in casa era
impossibile: le luci della sala erano accese.
L’abatino batté ancora alla porta, ripetutamente,
ma pareva proprio che lo volessero ignorare
di proposito. Dunque si portò al centro della
strada e, inspirata tutta l’aria che un uomo può
raccogliere nei polmoni chiamò a gran voce:
“Contessa, aprite! Sono Battista!”. Qualcuno
si affacciò al balcone. Era un maggiordomo.
L’inserviente intimò all’abatino di andarsene se
non avesse voluto guai. Ma il gracile seminarista
non pareva curarsi delle minacce del robusto
inserviente: “Contessa, venite! La città è in
subbuglio, ma sono tornato per Voi!” - gridò
ancora l’abatino.”
A quel punto il giovane scorse la Contessa che lo
osservava da dietro la tenda appena scostata,
senza fiatare, senza dar cenno, senza alcuna
intenzione. Poi la Contessa si voltò e si ritirò,
231
| Primo sangue |
e allora lui capì. Era stato usato. Alla Contessa
non interessava niente di lui. Neanche il giorno
prima quando lo aveva richiamato dal balcone
invitandolo ad entrare nella sua villa. Lo fece
salire al primo piano, accogliendolo in cima alle
maestose scale in marmo che costeggiano il
cortile alberato. Gli si avvicinò nella penombra,
coi modi persuasivi della nobiltà che sa sedurre.
Sprigionava un avvolgente profumo di ambra,
che il giovane non aveva mai sentito prima.
Gli sorrise, lo fece sentire importante. Poi lo
baciò sulla bocca. Come si bacia un salvatore,
un eroe, un guerriero. E così lui si sentiva fra
le sue braccia, sulle sue labbra. Le dita di lui si
aggrappavano al marmo del corrimano per non
perdere l’equilibrio, ma incontravano il muschio
viscido che risaliva le pareti del cortile umido
e ombreggiato. Intanto la sua lingua voleva
andare in cerca dell’anima della Contessa, ma
lei con severo contegno lo teneva a distanza.
Poi ancora gli si avvicinava, fissandogli la bocca
- suadente e maliziosa - come se lo volesse
232
| Primo sangue |
mordere. E lo baciava ancora. Poi si arrestò.
E guardandolo intensamente negli occhi, si
sfilò dai capelli uno stiletto affilato che usava
per tenere ferma l’acconciatura e lo consegnò
all’abatino. Lui stinse il dono e si fece carico
della nuova ardita missione: “Vai, e trafiggi
l’oppressore che mi oltraggia”.
Eppure, quei baci dolci nella penombra, in cima
alla scalinata di marmo, altro non erano se non
un trucco per manipolarlo. Si era infervorato,
l’abatino. Credeva di essersi innamorato e si
era dannato l’anima per un giorno intero o
per l’eternità. Aveva messo in discussione la
sua vocazione spirituale e si era macchiato
dell’omicidio di un uomo. Così accadde che,
mentre il sangue del corazziere si raggrumava
sulla polvere del selciato, anche il cuore del
povero abatino, per la prima volta, sanguinò.
233
| Autore |
Agostino Bertolino
È siciliano ma nasce a Bari. Inseguito dai rinoceronti
sin dalla tenera età di tre anni, si rifugia anche a LecceVarese-Vercelli-e-Nuoro prima di istituire il suo quartier
generale presso la Ueila! Productions™ di via dei
Fontanili, a Milano. Il suo percorso di addestramento
passa per la scuola di doppiaggio “Il Gatto & la Volpe”
dove scopre di avere sì una bella voce, ma anche le
doti interpretative di un plinto in calcestruzzo. Per
questo si dedica a un percorso di teatro, dove matura
un’inconfutabile consapevolezza: forse la recitazione è
meglio di no. Gravano sulla sua fedina penale centinaia
di post da blogger a livello amatoriale e oltre 17.500
ore di marketing a livello professionale. Ha lanciato un
assorbente interiore per le perdite di autostima. Negli
ultimi tre anni ha intrapreso il culto della materia presso
l’Università Iulm (è un culto legale). Si allena senza
tregua per sconfiggere il suo acerrimo nemico: la sveglia
mattutina. Nel frattempo rende omaggio alla sua città
adottiva scrivendo un racconto breve sulle sue Cinque
Giornate di sangue. I rinoceronti non lo hanno ancora
preso.
Se volete saperne di più scrivete a
[email protected]
234
La Spilla
La rivoluzione: La carta della
pari retribuzione (Equal Pay Act)
Cristina Laghezza
Chicago, 11 Ottobre 1962
C’è una donna, in quel corridoio semi deserto,
seduta nell’angolo più lontano di una delle
panche di legno, che attende, nella sua solita
posa composta. Il blu notte del suo abito
spicca come un’ombra, sul grigio delle pareti
in pietra, così come il luccichio dorato di quella
stella, sulla sua spilla, appuntata alla giacca, e
intrecciata nell’azzurrino di quel inconfondibile
tessuto moiré. La scritta “Valor”, salda al centro
del gioiello, sembra quasi essere stata messa lì
apposta, ad attirare l’attenzione.
È nervosa, quella donna. Lo si capisce dalle
volte che ha controllato il metallo nella fibbia
della cinta, o la tenuta dei fermagli nella sua
236
| La Spilla |
acconciatura, o stirato ogni minima grinza nella
gonna, come se, quel giorno, in discussione, ci
fosse la sua capacità di apparire in pubblico.
Quell’odore pungente di cera per pavimenti
e lucido per legno pervade l’edificio, come
una patina indelebile. I contorni del suo volto
non lasciano trapelare alcuna emozione,
ma, neanche il miglior fondotinta potrebbe
cancellare la stanchezza di quelle ultime
settimane dai suoi occhi, o i segni del tempo
sul suo volto.
“Vera, ” chiama una ferma voce maschile, dalla
porta aperta accanto a lei “vieni. È ora. Stanno
per rientrare.”
Vera guarda per l’ultima volta al pesante
orologio, sulla parete di fronte. Può distinguere
il ticchettio della lancetta dei secondi, mentre
si sposta da un centimetro all’altro. Sono le
dieci e venti minuti. Si, è ora.
237
| La Spilla |
Chicago, 10 Ottobre 1962.
Sono da poco passate le otto, quando Vera
oltrepassa l’uscio di casa sbattendo la porta.
C’è odore di chiuso, e di aria stantia, mentre
si muove, con la disinvoltura di chi conosce
l’ambiente meglio delle proprie tasche
attraverso l’oscurità, fino alla bottiglia del
Whisky nell’armadietto dei liquori. Un innocuo
clic, e il soggiorno si illumina. Il liquido ramato,
così simile al colore dei suoi capelli, riempie
uno dei bicchieri di vetro spesso. Si avvertono
dei colpi, bussare alla porta. Fuori c’è un uomo,
nel suo completo marrone a tre bottoni, una
chioma color sabbia, e il volto dai lineamenti
duri e affilati, come roccia. I contorni dorati del
manico a forma di aquila, del bastone a cui si
appoggia, scintillano alla fievole luce del lume
elettrico sul pianerottolo.
“Ti aspettavo prima” esordisce Vera, apertagli
la porta.
“Sono stato bloccato,” sbraita la sua voce cupa
e graffiante “da quei dannati avvoltoi fuori dal
238
| La Spilla |
tribunale!”
“Dovevi aspettartelo, uno stuolo di giornalisti,
dopo lo show di oggi in aula.” fa lei tranquilla.
“In tanti anni non avevo mai visto il giudice
Equal così rosso in faccia! Sembrava sul punto
di avere un infarto.”
“Io forse non sarò un’esperta, però mi
immaginavo i tribunali come luoghi più
tranquilli. Non credo che una rissa, nel bel
mezzo di un processo, sia cosa tanto normale,
persino per un giudice anziano come Equal.”
“Se non l’avesse chiamata lui quella sospensione,
l’avrebbero fatto i Marshalls del tribunale.”
“In ogni caso, potevi venire con me in macchina.”
L’uomo si blocca e risponde “Stavo cercando
di proteggere la tua rispettabilità” come se
fosse la cosa più ovvia del mondo. Poi torna a
arrancare verso la luce.
“La mia rispettabilità?” gli fa eco Vera, stupita.
“Sono il tuo avvocato, dopotutto.”
Vero, pensa la donna, ritrovandosi di nuovo
davanti alle lettere dipinte sulla porta del
239
| La Spilla |
suo ufficio. Avvocato Blake Cripp, dicevano
soltanto, quella mattina in cui si erano riparlati
dopo diciotto anni. Dopo quell’ultima volta
in cui tutto ciò che Vera avrebbe voluto dire,
a un Cripp convalescente nel letto di un
ospedale militare, era stato: “Avresti dovuto
riportarmelo”, sostituito invece dal dono di quel
bastone, dal manico particolare, che recava
avvolto in un involucro di carta. Se ne vergogna
ancora, ma in quel ufficio, vedendo sempre quel
bastone, una parte di lei aveva esultato. Era
perfetto, per la parte che Vera aveva bisogno
interpretasse. Un uomo normale non avrebbe
mai capito. Avrebbe visto la sua diversità, di
donna, e si sarebbe fermato lì. Cripp era come
lei, in difetto di qualcosa. “Ma tu sei pazza!”
aveva sbraitato, una volta spiegato il suo piano,
eppure pazzo, si era dimostrato tanto quanto
lei, visto che aveva accettato di rappresentarla
nella sua causa.
I contorni del rossetto sulle labbra di Vera si
sollevano in un ghigno.
240
| La Spilla |
“Se mi importasse di ciò che la gente pensa
di me,” aggiunge, interrompendo quelle
divagazioni “non sarei certo arrivata dove
sono.”
“Il mio lavoro sarebbe più facile, Green, se te
ne preoccupassi giusto un po’” risponde Cripp.
“Sono una donna. Il tuo lavoro sarebbe più
facile solo se appartenessi a un altro sesso.”
Cripp scuote il capo, ma non sembra voler
obbiettare.
“Allora? Come sta andando?” chiede Vera.
“Stanno ancora deliberando.” risponde lui con
un’alzata di spalle “Chiameranno non appena
ci saranno novità. Prevedo che sarà una lunga
notte.”
“Bene” risponde Vera, mentre la sua mente
vaga di nuovo indietro, a quando si era sentita
chiamare al banco dei testimoni, quella stessa
mattina. Si era alzata in piedi, a dispetto del
numero di occhi in aula, premuti sulla sua nuca.
Ogni insignificante bisbiglio era come un boato
nei suoi timpani.
241
| La Spilla |
“Vorrebbe, per cortesia, dire alla giuria il suo
nome completo?” aveva iniziato la voce sinuosa
ed elegante dell’avvocato Tricker, un uomo
alto e perfetto, con la chioma scura gelatinata,
intonata perfettamente al ghiaccio fra le sue
iridi.
“Vera Green Wall” aveva risposto.
Alla scrivania di Tricker c’era un uomo, in abito
scuro, placidamente seduto ad osservare la
scena. Vera lo aveva guardato a lungo prima
di rispondere, costretta su quella sedia rigida
e fredda, sforzandosi di reprimere qualsiasi
emozione, per i lineamenti familiari nel suo
volto.
“Green era il suo nome da nubile?” chiede
l’avvocato.
“Proprio così.”
“Suo marito era Robert Wall? proprietario della
Wally Radio System Corporation?”
“Esatto.”
“Signora Wall, suo marito è morto il ventisei
aprile 1945, in missione a Torgau?
242
| La Spilla |
Vera si schiarì la gola.
“Obiezione, vostro onore” interviene Cripp
dall’altra parte dell’aula “Le generalità della
mia assistita NON SONO soggetto di alcuna
accusa!”
“Concordo, avvocato Cripp” aveva sentenziato
un grinzoso giudice Equal, dall’alto del suo
muro. Tricker non si scompose. Annuì e riprese
con un’altra domanda.
“A chi erano intestate le quote della società
fino a quel momento?”
“A mio marito, Robert Thomas Wall” incredibile,
che dopo tutti quegli anni, pronunciare quel
nome a voce alta, le facesse ancora un simile
effetto.
“E la sua quota?”
“Come, scusi?” Vera balzò involontariamente
sulla sedia, come per una scossa elettrica.
“La sua quota, signora Wall, della società. Quale
era la quota che spettava a lei?”
Vera lanciò un’occhiata veloce tra le figure
sedute accanto a se. Il giurato numero due la
243
| La Spilla |
fissava, come se l’avesse sorpresa a scassinare
la porta di un’abitazione, nel cuore della notte.
“Non ne ho mai possedute, avvocato.” rispose
e il vociare aumentò in aula.
“Dunque, signora Green Wall, fino alla sua
morte, lei non possedeva nulla di fatto della
società di suo marito?”
“Presumo di no, avvocato. Non direttamente,
almeno.”
“Cosa vorrebbe dire con “Non direttamente”,
signora Wall?”
“Intendo dire che, non c’erano distinzioni così
nette, in fatto di proprietà tra di noi. Quello
che era mio era anche nostro, e viceversa,
avvocato.”
“Ma se non c’erano distinzioni, signora
Wall, come mai ci è voluta una procura, per
permetterle di gestire la società, una volta che
Robert Wall fu dispiegato al fronte, durante la
guerra?”
Vera avvertì lo scricchiolio della sedia di Cripp
muoversi di nuovo, prima ancora che venisse
244
| La Spilla |
formulata l’obiezione, bloccata tuttavia dalla
pronta mano alzata di Equal.
“Perché purtroppo, quando ha fondato la
Wally Radio, mio marito non aveva previsto
l’eventualità di una guerra, avvocato, e di dover
lasciare la gestione della società da un giorno
all’altro.”
Lo sguardo di Vera era fermo. Un’aggressività
celata dietro uno spesso strato di velluto. Lo
aveva appreso durante quegli anni alla Wally
Radio. Dura, ma mai troppo.
“E dopo la morte di suo marito, come furono
divise le quote?”
“Il quarantacinque percento fu intestato a
me, mentre le altre sessanta vennero divise
fra i fratelli di Robert, con rispettivamente il
quaranta e il quindici percento.”
“I miei assistiti?”
“Proprio loro.”
Vera si sforzò di non guardare nella direzione
puntata dall’avvocato Tricker, indicante Frank,
l’uomo seduto alla scrivania, e il povero Micheal,
245
| La Spilla |
accanto a lui, il più giovane, tirato in mezzo
suo malgrado in quella disputa familiare. Per
quanto lo avrebbe voluto, non sarebbe mai
riuscita a togliersi quella sgradevole sensazione
di dosso. Lei era l’accusa.
“Signora Green Wall, espresse mai la volontà,
di dirigere l’azienda di suo marito?”
“Obiezione, vostro onore, le domande
dell’avvocato non hanno alcuna attinenza con
le ragioni per cui siamo qui” ruggì Cripp.
“Se la signora Green Wall volesse o meno la
società per la quale adesso sta facendo tutto
questo? Altroché se ce l’ha” fece Tricker divertito.
Il giudice Equal scosse il capo, pensoso.
“Concordo. Respinta” sentenziò, e quindi
l’interrogatorio riprese.
“No, non l’ho mai fatto, ma...” provò a rispondere
Vera.
“E prima che la guerra la mettesse a capo della
Wally Radio” la interruppe Tricker “aveva mai
avuto esperienza nella gestione di un’impresa
di qualsiasi genere?”
246
| La Spilla |
Vera avrebbe preferito infilarsi uno spillo in
faccia, piuttosto che rispondere alla domanda.
“Ho una laurea in economia” disse, ma senza
accontentare l’avvocato Tricker.
“Ma ha mai lavorato in tale campo, signora
Wall?”
“No” fu costretta a concedere Vera.
“Non ha mai pensato, signora Green Wall, che
suo marito, le abbia lasciato quelle quote, solo
perché entrambi i fratelli Wall erano dispiegati
al fronte, e aveva bisogno di qualcuno a cui
lasciare la gestione della società?”
Tricker aveva formulato quella domanda,
talmente in fretta, che a Vera non era avanzato
il tempo per architettare una risposta, e le
parole che aveva in mente non l’avrebbero
avvantaggiata di certo.
“Avvocato Tricker, è ovvio che sia stato cosi...”
aveva infine risposto.
Il boato le si schiantò addosso come una
doccia fredda, seguito dal ghigno in bella vista
dell’avvocato della difesa.
247
| La Spilla |
“Perfetto, signora Wall. Non ho altre domande,
vostro onore” interruppe Tricker.
Vera si aggrappò al legno della gabbia, quasi
ad afferrare l’avvocato Tricker con lo sguardo.
Poi si voltò decisa verso Cripp, con un chiaro
ordine scolpito in volto.
“Signora Green Wall, mi parli di quella lettera”
obbedì l’avvocato Cripp, alzandosi in piedi.
Vera annuì, e le sue spalle si rilassarono.
“Robert, mi inviò una lettera dal fronte, prima di
morire.” rispose, mentre Cripp ne mostrava alla
giuria una copia “Mi avvertiva di aver effettuato
delle modifiche al suo testamento, lasciandomi
quelle quote e la carica di amministratore
delegato della Wally Radio.”
“Lei quindi? non suo cognato Frank? Né
Micheal.”
“No, io.”
“Pensava di morire?”
Vera scosse il capo per un attimo.
“Diciamo solo che aveva accettato l’eventualità
che potesse succedere.”
248
| La Spilla |
“Ha mai avuto intenzione di rifiutare?”
“No, avvocato, mai” fece decisa.
“Immagino che non sia stato facile per lei.”
Lei rispose con una mezza smorfia e un’alzata
di spalle.
“La guerra per fortuna ha cambiato alcune
regole, come l’impossibilità per una donna di
trovarsi al comando di un’azienda, però si, è
stato abbastanza difficile.”
“Ha mai avuto il desiderio di mollare tutto?”
“Perché avrei dovuto, avvocato? Non era, tra
l’altro, mio dovere rispettare le ultime volontà
di mio marito?”
“Quindi non ha mai pensato, come suggerito
dall’avvocato della difesa, che suo marito l’abbia
considerata come un diversivo temporaneo?
Un passacarte da utilizzare, nel frattempo che
i fratelli Wall fossero tornati dal fronte?”
“Obbiezione, vostro onore. L’avvocato travisa
le mie parole.”
“È la stessa domanda che ha formulato l’avvocato
della difesa poco fa. Sto semplicemente dando
249
| La Spilla |
alla mia cliente la possibilità di rispondere,
vostro onore.”
“Respinta. Proceda pure avvocato Cripp.”
A un suo cenno, Vera riprese, con un ghigno
divertito in volto.
“No, non l’ho mai pensato. Mio marito era un
ingegnere, e un uomo estremamente pignolo,
avvocato Cripp. Se avesse voluto che uno dei
suoi fratelli prendesse il suo posto, l’avrebbe
precisato nel suo testamento. Strano che si
sia dimenticato di aggiungere una clausola
tanto importante. In tutto il resto è stato così
scrupolosamente preciso. ”
Il giudice Equal rise, come molti altri in
quell’aula, a parte Blake Cripp, al quale il gesto
sembrava estraneo. Persino il giurato numero
tre si accodò allo scroscio di gaiezza.
“Quindi andava tutto bene alla Wally Radio,
con lei al comando?” chiese Cripp.
“Ci sono stati degli alti e bassi, specialmente al
termine della guerra, però tutto sommato si.”
“Poi cosa è successo?”
250
| La Spilla |
Vera trasse un profondo respiro prima di
rispondere.
“Tempo fa sono stata una conferenza sul ruolo
della donna nella società di oggi, dove ho
discusso con la signora St. George, a proposito
della lotta che lei porta avanti da anni, al
congresso, contro le disparità nel mondo
del lavoro femminile. All’epoca non ero a
conoscenza del fatto che, ciò di cui mi parlava,
avvenisse anche alla Wally Radio. Io non ho
mai fatto distinzioni tra i miei dipendenti.
Come potevo immaginare che una società che
aveva accettato una donna quale suo leader,
ne facesse? Così quando dalle mie analisi mi
sono accorta di questa discrepanza, ho cercato
di rimediare, riequilibrando gli stipendi, di tutti
gli impiegati per i quali risultava inferiore agli
altri a dispetto del loro profilo aziendale e il
livello di anzianità raggiunto.”
“Ergo delle impiegate di sesso femminile?”
“C’è stato qualche impiegato, ma, per la
maggioranza, si, questa disparità è stata
251
| La Spilla |
riscontrata prettamente tra le impiegate
donne.”
“Questo avrà fatto infuriare molte persone alla
Wally Radio”
“Obiezione, si suggerisce il teste.”
“Riformulo. Signora Green Wall, questa sua
manovra ha fatto arrabbiare qualche persona?”
“Ne ha fatto arrabbiare una, da quel che so,
avvocato, Frank Wall.”
Il vociare in aula aumentò di botto.
“Obiezione, vostro onore, sentito dire!” ruggì
l’avvocato Tricker.
“Accolta.”
Cripp zoppicò verso la propria scrivania, dalla
quale prese un foglio stampato con l’icona della
Wally Radio in bella vista. Il ticchettio sordo
del legno del suo bastone faceva uno strano
effetto sul pavimento liscio del tribunale.
“Signora Green Wall, riconosce questa?”
Vera rispose senza nemmeno leggerla.
“Si avvocato. È una lettera di reclamo. Riconosco
il logo della Wally Radio.”
252
| La Spilla |
“Cioè i suoi dipendenti possono lamentarsi con
lei, se qualcosa non va?”
“Beh ovvio, avvocato, non sono certo miei
schiavi” confermò divertita Vera.
“Può leggere il mittente su questo reclamo, per
favore?”
Vera guardò di nuovo il foglio che aveva in
mano, e sorrise.
“È firmata Frank Wall.”
“Obiezione vostro onore!”
“Ancora sentito dire, avvocato Tricker?” lo beffò
Cripp.
“Questa prova non può essere ammessa. Non
ci è mai stata presentata.”
“In realtà, vostro onore,” dissentì Cripp “fu
accettata come prova a carico dell’accusa,
nella fase preliminare, per poi essere
inspiegabilmente smarrita dagli addetti
dell’archivio della Wally Radio. L’ho ricevuta
solo stamattina, poco prima di entrare in aula.”
“Respinta, avvocato Tricker, ma cerchi di non
fare altre magie, avvocato Cripp.”
253
| La Spilla |
“Farò del mio meglio, vostro onore” mentì
Cripp, prima di tornare su Vera.
“A chi era diretta?” riprese.
“Al consiglio di amministrazione.”
“Di cosa si lamentava?
“Di aumenti ingiustificati di stipendio, a favore
di alcuni dipendenti.”
“Specifica quali?
“Non tutti. È allegato un elenco campione. Un
nome per ogni reparto.”
“Ne riconosce qualcuno?”
“Si, certo, avvocato, tutti.”
“Tipo?”
“Il primo della lista, per esempio. La signorina
Abigale Smart.”
“Sono tutte donne in quel elenco?”
“Ovviamente avvocato.”
“Obiezione, trae conclusioni!”
“Accolta.”
“Perché non l’ha mandata direttamente a lei?
“Non lo so, avvocato. Non ha mai avuto
particolari problemi a lamentarsi con me.”
254
| La Spilla |
“Obiezione!”
“Ritiro.”
La spilla pesava sulla giacca, il ricordo di cosa
fosse riuscita a combinare, la moglie di un
ingegnere, con un paio di forbici, una saldatrice,
una vecchia spilla e la medaglia al valore del
marito, nel bel mezzo di una notte insonne.
Brillava ancora di più, quella stella, sotto le luci
bianche dei lampadari del tribunale. Infine,
dopo una pausa, Cripp chiese: “Signora Green
Wall, lei perché è qui?”
Vera si aspettava quella domanda. Sapeva cosa
ci si chiedeva in quell’aula. Perché una donna
ricca, che avrebbe potuto vivere tranquilla per
il resto della vita, si era imbarcata in una pazzia
del genere? Una ridicola follia, come l’aveva
definita sua madre… e forse a ragione. Forse
fu proprio per i giurati che aveva a fianco che
rispose come fece. Erano sei, come i membri
del consiglio d’amministrazione, che in una
sera, ormai lontana, l’avevano convocata a una
riunione non prevista, all’ultimo piano della
255
| La Spilla |
Wally Radio, per parlare di cambiamenti, e
toglierle le redini della sua società, lei che aveva
lavorato giorno e notte per portarla avanti.
La motivazione ufficiale sui verbali, parlava di
“comportamento imprevedibile”, ma la verità
era un’altra. Vera era una donna, era sempre
stata una donna, e l’avevano estromessa
semplicemente perché aveva cominciato a
agire come tale.
“Si può sottrarre molto ad un essere umano:”
cominciò Vera “casa, affetti, piccole abitudini,
sicurezze. Io ho perso molto, nella mia vita. La
guerra mi ha costretta a ricostruire, la dove
pensavo ci fossero solo macerie, e nel farlo
ho trovato il mio scopo. Mi ci sono specchiata
ogni mattina negli ultimi diciotto anni. Quello
scopo era… È ” e così dicendo punto lo sguardo
dritto su Frank Wall “ la mia società, la Wally
Radio System, che mi è stata tolta senza una
giusta causa.” poi ritorno sui giurati e il resto
della sala “Avrei dovuto restare in silenzio?
Magari avrei anche potuto farlo, se mi avessero
256
| La Spilla |
lasciato abbastanza spazio...e se serpi come
Frank Wall non strisciassero indisturbate per
questa terra!”
Quella frase aveva creò un’enorme crepa nel
silenzio degli spettatori del processo. Vera
percepì il frastuono dei colpi del martelletto
del giudice Equal, vibrarle sotto il pavimento.
“Ordine!” aveva preteso.
“Dignità e rispetto sono un diritto inalienabile.”
continuò la donna con la stessa convinzione
“Chiunque voglia privarne un altro individuo
dovrebbe avere più di un valido motivo per
farlo! Quest’ultima guerra avrebbe dovuto
insegnarci almeno questo. Altrimenti, uomini
come Robert Wall, sono morti invano.”
“Non so se sono riuscita a convincerli” aggiunge
Vera, spezzando il filo dei ricordi, con in mano il
suo bicchiere di Whisky mezzo vuoto, di nuovo
nel proprio soggiorno.
“Si beh, ce la siamo cavata...almeno lì” risponde
Cripp, mentre si accende un’altra sigaretta.
Nel frattempo, in una stanza del tribunale,
257
| La Spilla |
quattro uomini e due donne sono seduti
attorno a un tavolo, cercando di raggiungere
una votazione unanime per il caso Green Wall.
Una fumata bianca per l’elezione di un nuovo
papa. É il terzo tentativo che fanno. Sono le
dieci di sera e...
“Non va bene per niente!” sbotta il giurato
numero cinque, il signor Cross, passandosi il
fazzoletto sulla fronte calva.
“Mi dispiace,” si giustifica il giovane giurato
numero due, il signor Young, con una scrollata
di spalle “ ma non sono per nulla convinto. Per
me quella donna ha ragione, e non ho sentito
nulla oggi, che mi abbia fatto cambiare idea su
Frank Wall.”
“Ha comunque le sue quote” azzarda la voce
leggera del signor Weakam.
“Si, e ha dovuto usare quelle del fratello Micheal
per scalzare la cognata” insiste Young.
“È davvero inaudito,” irrompe una voce di
donna, bassa e spigolosa, dall’altra parte del
tavolo “che una signora sia dovuta cadere
258
| La Spilla |
così in basso! Queste donne d’oggi che se ne
vanno in giro a lavorare come gli uomini, dico
io, quando ce ne sono di più capaci, in grado di
prendere il loro posto.”
“Mmm, non so, signora Oldster, tanto capace
non mi è parso.” riprende Young “Uno storico
d’arte contro un’economista. Direi che non c’è
gara. Che ne dice, signora Tail?”
“Oh? ...beh, ecco... forse si. Come dice lei” le
lenti a mezza luna della minuta signora tremano
giusto un po’, mentre, appoggiata al suo scorcio
di tavolo, osserva l’uno e l’altro contendente,
annuendo o meno, a seconda degli umori nella
stanza.
“Per quello che ne sappiamo, la Wally Radio era
in mani più sicure con la signora Green Wall,
che con suo cognato.”
“Adesso non esageriamo” approfitta Cross
“diciamo che è sopravvissuta”
“Per diciotto anni? È praticamente
maggiorenne! Ma poi perché stiamo qui a
parlare? Sono i fatti che dovremmo analizzare.”
259
| La Spilla |
“Young ha perfettamente ragione.” irrompe la
voce del primo giurato, il signor Smith, dalla
postazione centrale “faremo meglio a rivedere
le deposizioni del processo.”
“A me è piaciuto l’interrogatorio del tecnico
degli ascensori” cinguetta Weakam divertito.
Il signor Circuit si era presentato in camicia
bianca, quella mattina, invece che con la sua
solita tuta da lavoro, e il colore della sua pelle
sembrava ancora più scuro, mentre rispondeva
alle domande dell’avvocato Cripp.
“Signor Circuit, si è recato alla Wally Radio, la
mattina del sei settembre?”
“Si, avvocato. Per un guasto a uno degli
ascensori.”
“Signor Circuit, rispetto a dove si trovava lei,
l’ascensore funzionante, era distante?”
“Sono uno accanto all’altro.”
“Qualcuno ha parlato con lei, nel lasso di tempo
in cui riparava il guasto?”
Circuit fece spallucce a quella domanda.
“Di solito le persone non mi notano, o fanno
260
| La Spilla |
finta di non vedermi.”rispose Circuit con molta
calma, come se parlasse di una partita di
baseball.
“Ottimo. Immagino che le sarà capitato, quindi,
di ascoltare qualche conversazione, tra gli
impiegati della Wally Radio.”
“Oh si parecchie. Per lo più le solite cose: sport,
politica, lavoro. Però ne ho sentiti alcuni che si
lamentavano.”
“Di cosa?”
“Non mandavano giù che a molte loro
colleghe fosse stato dato un aumento. Diavolo,
sembravano infuriati come se fosse stato eletto
uno di noi alla casa bianca. Quella signora Green
Wall ha di certo stuzzicato un bel vespaio!”
“Obiezione, vostro onore. Tutto Questo
dimostra soltanto che ci fosse malcontento tra
i dipendenti della Wally Radio. Cosa ha a che
fare con il mio cliente?”
“Avvocato?” fece di rimando il giudice Equal,
in direzione di Cripp.
“Signor Circuit, tra gli impiegati scontenti, per
261
| La Spilla |
caso ha notato anche il signor Wall?” domandò
Cripp indicando Frank alla scrivania della difesa.
“Certamente. Lui sembrava il più adirato di
tutti. Discuteva di come, la signora Wall, avesse
fatto il passo più lungo della gamba, con la
trovata delle buste paga, e che avrebbe voluto
rispedirla tra i suoi dannati fornelli.”
La sala cominciò a brulicare di voci, come se
tante formichine si fossero messe in moto.
“Ha detto proprio cosi?”
“Si, si, parola per parola. Era molto sicuro del
fatto suo.”
“Quindi secondo lui una donna non doveva
essere a capo di un’azienda?”
“Obiezione! Sta imbeccando il teste.”
“Accolta. Avvocato Cripp, si limiti a fare
domande.”
“Cos’altro ha detto il signor Wall?” domandò
infatti Cripp.
“Che le avrebbe scavato la fossa lui stesso,
piuttosto vederla mandare all’aria l’azienda.”
“Ha fatto il nome di qualcun altro?”
262
| La Spilla |
“Mi pare abbia parlato di un tipo, che aveva
convinto a far qualcosa per lui.”
“Un certo Micheal, per caso?”
“Obiezione, si suggerisce il teste.”
“Accolta.”
“È riuscito a sentire di chi stesse parlando?”
“Non lo so, avvocato. È entrato nel ascensore
e non ho udito più nulla.”
“D’accordo, signor Circuit, la ringrazio. Non ho
altre domande.”
L’avvocato Tricker attese qualche secondo,
prima di cominciare il controinterrogatorio.
Sembrava fin troppo tranquillo.
“Signor Circuit, era la prima volta, quella
settimana, che si recava negli uffici della Wally
Radio per sistemare quel ascensore guasto?”
“No. Ci ero già stato.”
“E come mai non lo sistemò quella prima
volta?”
“Perché… mi mancavano dei pezzi.”
“Dei pezzi? Tipo la scatola dei fusibili?” chiese
Tricker, avvicinandosi a Circuit, lentamente,
263
| La Spilla |
come un ragno a una mosca intrappolata nella
propria rete.
“Già, proprio quella.”
“Una delle sue tante, ben note… dimenticanze.
Come le volte che è stato trovato a vagabondare,
ubriaco, per la città?”
Circuit era improvvisamente diventato teso
come uno stendino per i panni.
“Obiezione! Non pertinente! Il signor Circuit
era sobrio il giorno in questione!”
“E lei come farebbe a saperlo? Era nei paraggi
in attesa per un alcol test?” ribatté Tricker.
“Vostro onore, l’avvocato cerca solo di screditare
il testimone agli occhi della giuria!”
“Non c’è nulla da screditare. Il suo teste è un
ubriacone. Come si può prendere per buona la
sua testimonianza?”
“Ora basta, avvocati!” tuonò la voce del giudice
Equal, mentre il martelletto colpiva il legno del
suo tavolo un paio di volte.
“Si” riprende Weakam “è stato decisamente
divertente.”
264
| La Spilla |
Anche gli animi nella stanza dei giurati si stanno
scaldando.
“Solo perché il modo di fare della signora Green
Wall non ti piace,” dice Young “o non condividi
i suoi metodi, non significa automaticamente
che siano sbagliati!”
“Stava andando tutto bene alla Wally Radio
finché quella donna non ha cominciato a fare
di testa sua!” sbraita il signor Cross.
“Cioè finché non ha deciso di fare qualcosa per
correggere un’ingiustizia.”
“Non potremmo cercare di andare avanti?” si
lamenta la signora Oldster, dai bordi del ring.
“Ti ricordo solo un nome: Abigale Smart” sbotta
di nuovo Cross. Il signor Young risponde con
una smorfia e un’alzata d’occhi.
“La signorina Smart è stata solo il pretesto, non
la causa di tutta questa farsa” risponde “Oh
insomma, parliamoci chiaro. È una questione
di orgoglio, non di affari!”
“A me è piaciuta quella signorina Smart” fa la
signora Tail dal suo angolo, imprevista “Era così
265
| La Spilla |
sicura di se.”
In effetti era stato chiaro fin dal suo ingresso in
aula, che la signorina Abigale Smart, non era
tipo da farsi mettere i piedi in testa da nessuno.
Una di quelle che la signora Oldster odiava
fin nel midollo, dalla frangia corta all’orlo del
vestito corto.
“Signorina” le aveva chiesto l’avvocato Cripp
“negli anni in cui ha lavorato presso la Wally
Radio, e prima che il signor Wall richiedesse il
suo licenziamento, ha mai ricevuto lamentele,
sulla qualità del suo lavoro?”
“No, mai.”
“Questo prima che il signor Wall le chiedesse
di uscire?”
“Obiezione, vostro onore. Non ci sono prove
che tale avvenimento abbia avuto luogo.”
“Vostro onore, questa” Cripp saltellò
zoppicando alla scrivania prendendone ciò che
sembrava uno scontrino “è la ricevuta, firmata
dal signor Wall, del pagamento del ristorante
dove i due hanno cenato. E quest’altra” continuò
266
| La Spilla |
Cripp “è la deposizione giurata del portiere del
palazzo della signorina Smart, che afferma di
aver visto il signor Wall passare a prendere la
signorina con la sua macchina, la stessa sera.
Potrei anche chiamare a deporre il cameriere
che si occupò del servizio.”
“No, avvocato” fece Equal “penso che sia
sufficiente così. Proceda.”
“Grazie, vostro onore, dunque, signorina, come
cambiò il suo rapporto con il signor Wall, dopo
quell’unica volta in cui lei accetto di uscire con
lui?”
“Cominciò ad attaccare il mio lavoro.”
“Obiezione, vostro onore, irrilevante.”
“Si da il caso, vostro onore,” si difese Crippp “che
la signorina Smart sia una di quelle impiegate,
il cui aumento, fu soggetto delle lamentele del
signor Wall con il consiglio d’amministrazione
della Wally Radio. Una coincidenza piuttosto
strana, se collegata al suo rifiuto verso le avance
del signor Wall. Sembra ribadire il fatto che una
donna non possa conservare il proprio posto
267
| La Spilla |
di lavoro per solo merito professionale.”
Il giudice Equal ci mise un po’, prima di
rispondere, come incerto anche lui sul da farsi.
“Mmmm, debole avvocato. Accolta.”
Cripp sentiva gli occhi di Vera, pungenti come
spilli sulle sue spalle. Era stata contraria fin dal
principio, a chiamare Abigale, la sua pupilla, a
deporre quel giorno, e temeva che il giudice Equal
le volesse dare ragione, lasciandola tra l’altro
inutilmente in balia del controinterrogatorio
dell’avvocato Tricker.
“Signorina Smart, mi dica, lei che mansioni
svolge alla Wally Radio?”
“Seguo l’acquisto di nuovi materiali, e la
gestione delle linee di produzione per la vendita
all’ingrosso” aveva risposto Abigale.
“In altre parole, lei è uno supervisore... come
anche il signor Frank Wall, sbaglio?”
“Si beh in un certo senso, avvocato, lo sono”
rispose cauta la signorina Smart.
“Ebbene, prima che la manovra di
adeguamento salariare voluta dalla signora
268
| La Spilla |
Green Wall entrasse in vigore, il signor Wall,
aveva mai espresso la sua volontà di sollevarla
permanentemente dal suo incarico alla Wally
Radio?”
“Assolutamente no, avvocato.”
“Obiezione, vostro onore, sono soltanto
supposizioni!”
“Vostro onore,” ribatté Cripp mentre saltellava
verso la propria scrivania per frugare tra le sue
carte “la prima busta paga in cui gli aumenti
sono stati resi effettivi è del ventisette di
agosto, mentre la lettera di reclamo, nella
quale venivano richieste le dimissioni della
teste, spedita dal signor Wall al consiglio di
amministrazione, è datata tre settembre. Un
lasso di tempo piuttosto ravvicinato, per essere
una mera coincidenza. Sembra piuttosto una
diretta conseguenza.”
La strategia del avvocato Tricker, in risposta, fu
piuttosto ovvia.
“Signorina smart, si ricorda di quest’ordine?”
chiese infatti porgendole un blocchetto di fogli
269
| La Spilla |
stampati e spillati. Lei lo raccolse, e deglutì,
mentre i suoi occhi facevano avanti e indietro
sulla carta come saette, seppur restando
impassibile.
“Si, ricordo.” ammise Abigale “Si tratta di una
partita di OC70 per la marina.”
“La marina militare degli stati uniti?”
“Ne conosce altre, avvocato?”
“Silenzio!” minacciò il giudice Equal, per
convincere l’ennesima onda di confusione.
“Signorina Smart, cosa successe ai pezzi di
quell’ordine?” continuò Tricker.
“Furono bloccati prima di lasciare i magazzini,
in quanto difettosi.”
“Si ricorda chi lo firmò?”
La signorina Smart scosse il capo, e con occhi
stretti come rasoi rispose “io”.
La sedia dell’avvocato Cripp pattinò sicura sul
pavimento, mentre si preparava ad annunciare
la sua obbiezione, così come l’avvocato Tricker
la prossima domanda, ma la signorina Smart
fu più veloce di entrambi.
270
| La Spilla |
“Ovviamente, avvocato, il mandante di
quell’ordine era il signor Frank Wall” disse
decisa.
“Secondo chi, signorina?” sbottò Tricker colto
di sopresa “Non c’è la firma del mio assistito
su quel foglio.”
“No infatti,” riprese lei con lo stesso tono
sbrigativo di sempre, mentre sfogliava
velocemente la carta spillata “ma c’è il suo
timbro ufficiale” concluse mostrando il timbro
incriminato a tutti i presenti “Il signor Wall lo
conserva, molto gelosamente, in un cassetto
della scrivania, e da quello che ne so io, solo lui
ne possiede la chiave. Perciò, a meno che non vi
siano dei fantasmi nella sede della Wally Radio,
l’unico ad aver potuto timbrare quest’ordine
era lui. Il che è oltremodo ovvio, dato che era
anche il supervisore del reparto spedizioni.”
L’avvocato Tricker lanciò un’occhiata verso
Cripp, il quale gli fece cenno di continuare… se
proprio ne aveva voglia.
“Sei sicura, Green” bisbigliò sottovoce a una
271
| La Spilla |
Vera divertita, al suo fianco “che la signorina
Smart non sia una qualche tua parente?”
“La cosa non mi farebbe che piacere, avvocato”
rispose Vera sogghignando.
Intanto, in quell’aula, qualcosa era cambiato.
Vera non seppe dire cosa accadde. Qualcuno
in mezzo alla folla aveva urlato qualcosa. Se
a favore o contro Vera Green Wall, o quella
deposizione, francamente non si capì, come
non fu chiaro a chi era destinata la sedia che volò
sopra le teste degli spettatori, schiantandosi in
mezzo alle scrivanie di difesa e accusa. L’aula
gremita si trasformò in un ring da strada,
mentre il giudice Equal ordinava alla folla di
disperdersi, alla giuria di ritirarsi e alle guardie
di sgombrare l’aula, picchiando il banco con
quel suo martelletto infrangibile.
“Certo,” esclama Smith, dalla sua sedia nella
stanza dei giurati “nessuna di quelle deposizioni
ha mai avuto alcuna speranza di vincere questo
processo, però è stata una giornata davvero
emozionante.”
272
| La Spilla |
“Come sarebbe a dire? E tutte le prove che
abbiamo presentato?” esclamò Vera, durante
la pausa imposta dal giudice Equal, dopo che
Cripp le aveva confidato la sua opinione sul
reale andamento del processo.
“Non sono sufficienti a dimostrare, oltre ogni
ragionevole dubbio, il pregiudizio di Frank
Wall. L’unica modo per convincere la giuria, è
farglielo confessare lui stesso.”
“Impossibile!” sbottò incredula Vera “E come
vorresti convincerlo?”
“Non ne ho la più pallida idea.” aveva ammesso
Cripp dopo una enigmatica pausa.
E’ notte fonda, fuori dell’abitazione di Vera.
Lungo la strada deserta, il rombo di un motore,
si avvicina. I fari accesi di un’automobile
fendono la nebbia come brecce in un muro.
L’oscurità troppo fitta impedisce di vedere chi
ci sia alla guida. Uno dei finestrini si abbassa.
L’auto sgomma sull’asfalto. E’ un rumore acido,
quello che si sente, seguito da una minuscola
ombra, che sbuca veloce dalla vettura ancora
273
| La Spilla |
in movimento. Solo per un secondo, dopodiché
la finestra nel soggiorno di Vera si infrange.
Un cane abbaia, mentre mille pezzi di vetro
cadono come brillanti sul tappeto, assieme a
un enorme mattone grigio, con attorcigliato
un pezzo di carta, imbrattato di inchiostro
rosso. Buffo come una città tranquilla avesse
deciso di animarsi di un tale nuovo spirito.
Aveva da sempre visto Vera come un modello
di virtù, o tutt’al più con un inerme sguardo di
indifferenza, almeno fino all’apertura di quel
processo, fino a che Vera non aveva deciso di
chiedere di più.
La donna si sveglia di soprassalto, sul divano.
Si volta e la finestra è lì, nuovamente intatta.
Sono da poco passate le tre e c’è silenzio, a
parte il fruscio nervoso di una penna che scrive,
e il rumore di pagine voltate. È Cripp, sotto il
lume acceso, che studia le deposizioni. Non
può smettere di pensare all’interrogatorio di
Frank Wall, che aveva condotto quello stesso
pomeriggio, da cui dipendeva l’esito dell’intero
274
| La Spilla |
processo.
“Signor Wall, quando fu informato della morte
di suo fratello Robert?” aveva chiesto Cripp a
un restio Frank Wall, chiaramente innervisito
dal fatto di trovarsi seduto a quel banco.
“Non ho saputo nulla fino al mio ritorno dal
fronte.”
“Eravate in buoni rapporti?”
“Con mio fratello? Ovviamente avvocato.”
“E la Wally Radio?”
“La Wally Radio cosa?”
“Il testamento, le quote. Lei era il fratello
maggiore. Quello che doveva ereditare le redini
della famiglia Wall. Cosa provò quando apprese
su chi altri era invece ricaduta la scelta?”
La mandibola di Frank si serrò per un attimo.
“Mentirei, avvocato, se dicessi che la cosa non
mi lasciò quantomeno perplesso.”
“Come mai? Non aveva mai pensato a sua
cognata per quel ruolo?”
“Certo che no, avvocato,” Frank sbuffò, come
se gli avessero chiesto se sarebbe stata la russia
275
| La Spilla |
la prima a mettere piede sulla luna, per poi
aggiungere in fretta che Vera “non aveva alcuna
esperienza nella gestione di una società.”
“Fu questa perplessità a spingerla a intentare
un’azione legale per invalidare il testamento di
suo fratello?”
“Obiezione, non pertinente” interruppe Tricker.
“Accolta.”
Cripp continuò come se nulla fosse successo,
zoppicando attorno al banco, come un animale
in attesa che fosse aperta la gabbia.
“Eppure la signora Green Wall gestiva la Wally
Radio dall’inizio della guerra.”
“Si beh, diciamo pure così” concesse Frank con
sufficienza.
Cripp si voltò di scatto come se afferrato da una
molla invisibile.
“Cosa intende dire, signor Wall?”
“Beh che con gran parte del fattore umano al
fronte, c’era davvero poco da gestire.”
“Dimentica che in quegli anni, a popolare le
fabbriche c’erano donne come la signora Green
276
| La Spilla |
Wall, o forse loro non sono da considerarsi
fattore umano?”
“Obiezione!” squittì l’avvocato Tricker.
“Accolta.”
“Signor wall, tornando ai giorni nostri,”
proseguì Cripp imperterrito “è al corrente
che la paga femminile alla Wally Radio, prima
dell’intervento della signora Green Wall, era di
cinquantasei centesimi per ogni dollaro della
controparte maschile?”
“Si, ne ero a conoscenza” risponde Frank con
noncuranza.
“È poco più della metà.”
“È illegale forse?” chiese Frank.
“Magari dovrebbe” azzardò Cripp.
“Obiezione vostro onore! Non capisco dove
voglia arrivare l’avvocato dell’accusa” fu
l’immancabile stoccata dell’avvocato della
difesa.
“Non voglio arrivare da nessuna parte” si oppose
Cripp “sto solo ribadendo un fatto ovvio, e cioè
che se ci fosse una legge a riguardo, nessuno
277
| La Spilla |
di noi sarebbe qui oggi.”
“L’avvocato del accusa vuole forse fare politica?”
“Da quel che mi risulta, le aule dei tribunali,
servono anche a creare precedenti.”
“Concordo con il suo desiderio di chiarezza,
avvocato,” interruppe il giudice Equal “ma
non siamo qui a dibattere sulla correttezza del
codice civile, spetta alla corte suprema farlo.
Per favore proceda.”
“Certo, vostro onore. Dunque, signor Wall, se
non era illegale che i suoi dipendenti fossero
pagati il doppio, non doveva essere proibito
per l’amministratore delegato modificarli per
appianare le differenze. Sbaglio forse?”
“No, avvocato, non sbaglia, ma..” rispose Frank
un po’ titubante.
“E perché allora la mia cliente è stata penalizzata
per averlo fatto?”
“C’erano altri fattori da considerare
ovviamente.”
“Quali altri fattori?”
Frank pareva sempre più contrariato.
278
| La Spilla |
“Questo genere di operazioni ha dei costi. Mia
cognata avrebbe dovuto riflettere sui rischi”
sbuffò.
“Pensa che la signora Green Wall non abbia
valutato le conseguenze di ciò che faceva?”
“Penso che abbia agito d’impulso, invece che
con i bilanci alla mano, come..”
“Come una donna?”
“Stavo per dire come una persona avventata. La
modifica che ha attuato è costata notevolmente
alla wally radio, contando che..”
“Contando che il trenta per cento dell’azienda
è composta da donne, signor Wall?”
“Era uno dei fattori ovviamente, perciò capirà
quanto si è rischiato con i fondi della Wally
Radio, il tutto senza il consenso del consiglio.”
“La signora Green Wall doveva chiedere
il permesso a qualcuno, signor Wall? con
la maggioranza delle azioni e la carica di
amministratore delegato?
“Beh no, ma…”
“Sembra quasi che lei stia parlando di uno dei
279
| La Spilla |
suoi dipendenti, magari della sua segretaria,
invece che del suo capo. Lei considerava la
signora Green Wall suo capo?”
“Obiezione!”
“Ritiro…Tornando
all’operazione
di
adeguamento, non si poteva modificare gli altri
stipendi quel tanto necessario a non pesare sui
bilanci?”
“Lo escludo cadegoricamente, avvocato” fu la
secca risposta di Frank.
“Perche?”
La reazione inorridita di Frank Wall fu più
eloquente della sua risposta.
“Avrebbe voluto dire abbassare le buste paga
della maggior parte dei dipendenti, solo perchè
una piccola percentuale potessere essere
pagata di più.”
“Ma se era cosi piccola, perchè questi
problemi? In fondo si trattava solo di trovare
un compromesso perchè tutti usufruissero
della stessa equa parte di guadagno” insistette
Cripp.
280
| La Spilla |
“Un cospiquo compromesso, avvocato” precisò
Frank.
“Ma non ha appena detto che si trattava di una
percentuale irrisoria?”
“Si l’ho detto, ma…”
“Se i costi erano così contenuti, allora qual’era
questo prezzo tanto cospiquo che non era
disposto a pagare? Non sembra essere una
questione di denaro.”
“Lei sta cercando di confondermi, avvocato.”
“Io sto solo cercando di far emergere la verità.
Se la cosa la confonde non è mio problema.”
“Non è cosi semplice, avvocato. Tanto per
cominciare, a lei piacerebbe se domani
decidessi di abbassare il suo onorario senza
una valida ragione?”
“Un’equa retribuzione non è una valida
ragione?”
“Dipende tutto da cosa intende per equo,
avvocato.”
“Vorrebbe dire che per lei il lavoro di una donna
non è equiparabile a quello di un uomo?”
281
| La Spilla |
Frank Wall sembrava in difficoltà. Se avesse
atteso, anche solo un secondo in più, sarebbe
stato salvato dall’obiezione già pronta
dell’avvocato Tricker. Invece il suo “Ma certo
che non lo è!” esplose per l’aula come un
petardo in una strada deserta.
“Una donna comporta dei costi in più, avvocato”
aggiunse fin troppo in fretta.
“Di quali costi in più sta parlando, signor Wall?”
tornò alla carica Cripp.
“Tanto per cominciare hanno bisogno di un
orario più flessibile. Tendono ad assentarsi
più spesso per motivi familiari. Gravidanze,
allattamento, pause pranzo più lunghe per
poter cucinare a marito e figli, e altre scuse di
questo genere.”
“Per lei queste sono scuse, signor Wall?”
“Sono ore sottratte all’orario di lavoro,
avvocato.”
“Mi sta dicendo che tutte le donne lavorano
meno ora di quelle che dichiarano?”
“Beh no, avvocato…”
282
| La Spilla |
“Perché immagino che sarebbero licenziate
se ciò accadesse. Non tutte le dipendenti
della Wally Radio sono sposate, o hanno figli.
Sono tutte giustificazioni non applicabili alla
maggioranza, signor Wall” obiettò ancora
Cripp.
“E poi” continuò quindi Frank “ avere donne in
ufficio significa munirlo di doppi servizi.”
“Si rende conto, signor Wall,” continuò a insistere
Cripp “che seguendo il suo ragionamento,
qualunque scuola di questo paese dovrebbe
richiedere una retta maggiore a tutte le
studentesse che la frequentano? Lo stesso
varrebbe per i luoghi publici. Dovremmo anche
separare gli ingressi come nel medioevo?”
“Obiezione, vostro onore” si lamentò Tricker.
“Accolta.”
L’aula non era piena, eppure lo sembrava con
tutte quelle voci sovrapposte le une sulle altre.
“Signor Wall, ipotizzando, per un momento,
che lei fosse sposato, permetterebbe a sua
moglie di avere un’occupazione?”
283
| La Spilla |
“Cosa? Ovviamente no, avvocato” fu la risposta
ancora più seccata di Frank.
“Per quale ragione?”
“Sono un uomo facoltoso, e mia moglie non
avrebbe bisogno di lavorare.”
“È solo questa la condizione che permetterebbe
a una donna di farlo?”
“Ce ne sono forse altre?”
“Quindi tutte quelle donne che lavorano per
scelta, vanno contro natura, secondo lei?”
“Obiezione.”
“Accolta.”
“Perciò anche la signora Green Wall, lavorando
alla Wally Radio, andava contro natura?”
“Obiezione, vostro onore.”
“Accolta. Avvocato Cripp, cerchi di non
approfittare della mia pazienza.”
“Signor Wall, se fosse stato suo fratello Robert
a proporre quegli aumenti, e gli impiegati
coinvolti fossero solo un elenco di nomi senza
volto e senza genere, Lei avrebbe fatto tutto
quello che era in suo potere per fermarlo?
284
| La Spilla |
Saremmo qui oggi a battagliare in quest’aula?”
“Non è questo il punto, avvocato.”
“È assolutamente questo il punto, signor Wall!”
tuonò Cripp, e il tacco del suo bastone colpì
il marmo del pavimento, come una pallottola
sparata da una pistola.
“Non so dirti cosa sia stato più memorabile”
riprende Vera, nella calma silenziosa del suo
appartamento “Frank Wall sotto torchio alla
sbarra, o quando ha cercato di alzarsi e andarsene
e tu hai usato il manico del tuo bastone come
un gancio per tenerlo inchiodato al banco,
ricordandogli i suoi doveri di testimone,”
aggiunse sorridendo “anche se per un attimo
ho pensato che il giudice Equal ti avrebbe fatto
arrestare.”
Cripp è ancora serio in volto, mentre si riempie
un altro bicchiere di Whisky.
“No” comincia l’avvocato “la parte davvero
memorabile è stata quando ha perso le staffe
e ha cominciato a inveire su tutto e tutti, su di
te, su di me, sulla società, sul consiglio. Non
285
| La Spilla |
pensavo che si sarebbe dato la zappa sui piedi
da solo. Spero che qualcuno l’abbia registrato.
Leggere le trascrizioni non fa lo stesso effetto.”
Un volto indecifrabile di donna si riflette sul
vetro di una finestra chiusa, mentre Vera
Green Wall osserva, appoggiata a uno dei
braccioli del divano, le prime luci del giorno,
fare capolino sulla città addormentata. Il rame
nei suoi capelli luccica come oro a quei timidi
raggi solari. È già perfetta, nel suo completo
blu. Aspetta solo che il trillare del telefono, dal
suo elegante comò, rimbalzi tra le pareti, per
tutta la casa, per infilarsi nei tacchi delle sue
scarpe, e rimettere a posto la spilla, in bella
mostra, appuntata al tessuto della giacca,
per affrontare, si spera per l’ultima volta, il
tragitto in macchina verso il tribunale. Poi di
nuovo su, per quella scalinata grigia, assieme
allo stuolo di giornalisti e fotografi, accampati
come sempre, ai piedi di quelle pietre. Le loro
domande squittiscono già nelle sue orecchie,
assieme ai mille obbiettivi in agguato, in cerca
286
| La Spilla |
del prossimo scoop, a due centimetri dalla sua
faccia. Domande alle quali, ovviamente, Vera
non potrà rispondere. Potrà solo tirare dritto,
con Cripp a farle da scudo, e da apri pista,
ignorando perfino Frank Wall, appoggiato a una
colonna tra i corridoi del tribunale, assieme al
suo viscido avvocato difensore. Fino all’angolo
più lontano di quella panca, dove le toccherà
attendere, un tempo infinito, in compagnia
solo del ticchettio delle lancette di quel pesante
orologio sulla parete di fronte, nell’attesa che
il giudice Equal si decida ad aprire le porte
della propria aula, dove convocare imputati e
giuria, perché questa, ad alta voce, comunichi
finalmente il proprio verdetto.
Alle dieci e trentadue, Vera è in prima fila in aula.
Il silenzio questa volta è palpabile, o forse sono
le sue orecchie a non far passare alcun suono.
Qualcosa le si è impigliato in gola. Sarà uno degli
ami dell’avvocato Tricker, rimasto lì dal giorno
prima. Ci sono tutti, stampa, avvocati, imputati,
semplici curiosi, e infine tutti e sei i giurati.
287
| La Spilla |
Vera li osserva sfilare, a uno, a uno, cercando
di scorgere nelle linee marcate dei loro volti,
l’esito dei loro dibattimenti. Sembrano stanchi.
Pare abbiano passato la notte a discutere su
quale sarebbe stato l’esito di quel processo, e
il verdetto da consegnare al giudice Equal, e a
Vera quella mattina.
“Membri della giuria. Avete raggiunto un
verdetto?” chiede il giudice.
Per un attimo, Vera, vorrebbe che quella
risposta fosse un bel “no”, sonoro e sonante.
L’eco restituito dalle pareti, tuttavia, è di un
altro parere.
“Gli imputati si alzino” ordina un’ultima volta,
il giudice Equal, dal suo solito muro “Per il
capo d’accusa, pregiudizio di genere, come
dichiarate gli imputati?”
Col cuore in gola, e le ossa molli, Vera avverte
Frank e Micheal alzarsi in piedi. Poi osserva, con
finta attenzione, e vera ansia, il primo giurato,
il signor Smith, dispiegare il foglio di carta che
ha in mano.
288
| La Spilla |
“Per il capo d’accusa, pregiudizio di genere,”
risponde quella voce grave e ferma “dichiariamo
gli imputati, Frank Wall e Micheal Wall…”
Ancora una volta, Vera, trattiene il fiato, mentre
istintivamente stringe il polso dell’avvocato
Cripp accanto a se, come se temesse di
sciogliersi da un momento all’altro.
Per qualche secondo, dopo la parola “colpevoli”,
pronunciata dal capo della giuria, Vera è
convinta di aver sentito male. E’ solo il clamore
da stadio, all’interno dell’aula, a destarla dal
suo torpore, riportando in vita anche il resto
dei suoni nelle sue orecchie. Vera si volta
verso il proprietario del polso che sta ancora
stringendo, e vede Cripp che la sta fissando con
uno strano ghigno stampato in volto. Sembra
quasi un sorriso, così poco da lui, seguito da
un “E’ fatta, Green!”, una delle sue solite frasi
d’effetto, breve e concisa. In mezzo a quella
folla confusa, qualcosa in fondo alla sala attira
la sua attenzione. Il giurato numero due le sta
finalmente sorridendo.
289
| Autore |
Cristina Laghezza
Pecora nera per nascita, in eterna contraddizione.
Adora il mare, ma preferisce il freddo. Si trova bene
tra i boschi, ma detesta i fiori. Teme il buio, eppure
vive meglio di notte. La sua lettera di ammissione alla
scuola di magia di Hogwarts si deve essere persa per
le strade della Puglia. C’era troppa luce per quei gufi
viaggiatori. Sarebbe stato interessante sapere in quale
delle quattro case, il cappello parlante, l’avrebbe messa,
o se sarebbe perito anch’esso nelle contraddizioni. Una
volta Super Mario le ha detto: “non chiederti ciò che il
mondo può fare per te. Raccogli tutte le monete che
trovi, e ricordati di tenere sempre un fungo in tasca.”
Sfuggita più volte dalle grinfie di Darth Fener, grazie al
pronto intervento di quella santa donna del Capitano
Janeway, per qualche tempo è finita a bordo della USS
Voyager, sbarcando il lunario come tecnico informatico,
per poi farsi mollare nel primo porto spaziale, in quel di
Milano. Luogo preferito, ovunque ci sia ancora odore
di miti e leggende. Le storie sono un viaggio, privo di
quelle scomode limitazioni di tempo e spazio. Digerisce
piano le critiche, pessima nell’accettare i complimenti.
Forse solo uno le è andato bene, fin ora: “sei infinita
come i numeri”.
Se volete saperne di più, scrivete a
[email protected]
290
Note storiche
1972
Gola Profonda – Deep Throat – Gerard Damiano, 1972
Film pornografico che ha stravolto completamente la
concezione del porno. Per la prima volta un film a luci
rosse, che fino ad allora era considerato un genere di
nicchia in quanto da “depravati”, è stato visto da milioni
di persone. Venticinquemila dollari di spesa, un incasso
pari a cento milioni. Cosa mai vista nella storia del
cinema. Il film aveva una trama e trattava di uno dei più
importanti tabù sessuali dell’epoca: l’orgasmo femminile
e la sua manifestazione a livello visivo. La pornografia
può essere suddivisa in un prima e dopo Gola Profonda.
(tratto da www.torquemada.eu)
292
L'impronta di Colin Pitchfork
Nel 1984 il genetista britannico Sir Alec Jeffreys
dell’Università di Leicester (UK) mise a punto le tecniche,
oggi utilizzate in tutto il mondo dalla scienza forense,
per rilevare l’impronta genetica e il profilo del DNA.
Queste scoperte furono impiegate per la prima volta
nel 1988, in Inghilterra, per incriminare Colin Pitchfork,
responsabile dello stupro e dell’omicidio di due ragazze.
La prima a cadere nelle sue mani fu Lynda Mann, quindici
anni, il 21 novembre 1983, a Narborough, Leicestershire.
La seconda fu Dawn Ashworth, anche lei quindici anni, il
31 luglio 1986, a Enderby, Leicestershire.
Le indagini si ricordano anche come il primo caso di test
di DNA di massa: furono testati cinquemila uomini del
luogo, con esito negativo. Il test del DNA servì anche per
scagionare un sospettato, Richard Buckland, un ragazzo
di diciassette anni. La prima persona la cui innocenza fu
stabilità proprio grazie alla prova del DNA.
Colin Pichfork - nato a Newbold Verdon, Leicestershire,
sposato, due figli, lavorava in una panetteria, era abile
a decorare torte - fu arrestato il 19 settembre 1987 e
condannato all’ergastolo il 22 gennaio 1988. Fu il primo
in assoluto a essere incastrato in tribunale usando come
prova la sua impronta genetica.
293
Voi non siete comunisti!
La caduta del muro di Berlino provocò un effetto domino
che, tra rivoluzioni di velluto e guerriglia urbana, portò
alla fine dei regimi comunisti nei Paesi dell’Est.
Il 9 novembre 1989 fu la data simbolo del crollo del
blocco orientale: quel giorno (anzi, quella sera) si iniziò
ad abbattere il Muro di Berlino, che dal 1961 divideva
in due la città tedesca e che da 28 anni era il simbolo
della guerra fredda. Ma quell’evento fu anche il frutto
di un equivoco: il neopresidente della DDR Egon Krenz,
per arginare le crescenti proteste, decise di concedere
nuovi permessi per il transito dei cittadini verso la
Germania Ovest. I fatti lo superarono. Nel pomeriggio
del 9 novembre il ministro della Propaganda, Günter
Schabowski, disse in una conferenza stampa:
“È stata presa la decisione di aprire i posti di blocco.
Se sono stato informato correttamente, quest’ordine
diventa efficace immediatamente”
Ma Schabowski era appena tornato dalle ferie ed era
male informato: in realtà la decisione non era ancora
stata presa. La sua frase suonò però come un “liberi
tutti” per i cittadini berlinesi che accorsero al muro e,
trovando le guardie di confine senza ordini chiari in
merito, cominciarono ad abbatterlo.
294
Ma il nonno dov'e?
1951: Ignis fabbrica il primo frigorifero in Italia.
L’elettrodomestico, che rivoluzionerà la conservazione
degli alimenti, entra per la prima volta nelle case degli
italiani. Le ghiacciaie erano, all’epoca, ambienti in cui
veniva prodotto e immagazzinato il ghiaccio prima
dell’invenzione del frigorifero. Si trovavano perlopiù in
luoghi comuni ma, in alcune ville e palazzi erano state
costruite delle ghiacciaie ‘domestiche’ per conservare
alimenti deperibili. E, per amore dell’innovazione, per
utilizzi alquanto bizzarri…
295
Non resta che fumo
La Congiura delle polveri, fu un complotto fallito
organizzato da un gruppo di cattolici inglesi ai danni del
re Giacomo I di Inghilterra nel 1605.
Il piano dei congiurati era quello di far esplodere la
camera dei lord durante la cerimonia di apertura del
parlamento inglese (State Opening), che si sarebbe
tenuta il 5 novembre e in questo modo uccidere il re e
il suo governo; Così da poter introdurre quelle riforme
religiose che rappresentavano il principale obbiettivo
dell’impresa.
L’attentato avrebbe coinvolto anche alcuni cattolici,
presenti in parlamento, tuttavia era un sacrificio
accettabile. Lo stesso però non pensarono i compagni
reclutati al fine di instaurare un governo provvisorio,
ossia alcuni aristocratici cattolici. In particolare Francis
Tresham, era contrario e decise di salvare suo cognato,
lord Mounteagle, uno dei cattolici che sarebbe stato
presente in parlamento. Così il 26 Ottobre gli mandò una
lettera anonima esortandolo ad astenersi dall’andare in
parlamento il 5 novembre.
La lettera ricevuta da Mounteagle venne presentata al
re il 1 novembre e dopo due ronde senza risultati il re
decise di affidare il compito a Thomas Kneyvett, che il 5
Novembre perquisendo le cantine trovò Guy Fawkes.
196
I congiurati vennero messi a morte e i cattolici da quel
momento fino al 1797, persero il diritto di intraprendere
diverse carriere e di laurearsi, inoltre furono obbligati a
prendere parte a diversi riti anglicani.
Dopo la repressione della congiura, il 5 novembre 1605
i londinesi furono incitati a festeggiare il salvataggio
del re con fuochi d’artificio. Un Atto del Parlamento
emanato lo stesso giorno designò il 5 novembre come
un giorno di ringraziamento per la “gioia del soccorso”,
e così rimase fino al 1859. In tale occasione venivano
bruciati dei pupazzi con le fattezze di Guy Fawkes.
Sebbene per quasi cinque secoli la figura di Guy Fawkes
fu considerata ridicola e meritevole di scherno, in
seguito la sua reputazione fu riabilitata e alcuni hanno
anche affermato che Fawkes fu “l’unico uomo ad essere
entrato in Parlamento con buone intenzioni”.
297
Dentro lo sguardo
cronaca di una (meta) rivoluzione cubista
“Il cubismo ha obiettivi plastici. Noi lo consideriamo solo
uno strumento per esprimere ciò che percepiamo con
l’occhio e con la mente, sfruttando tutte le possibilità
che appartengono ai requisiti essenziali del disegno e
del colore” Pablo Picasso.
Il termine cubismo venne coniato nel settembre del
1908 dal pittore Henri Matisse e del critico d’arte Louis
Vauxcelles nel commentare un quadro di Georges Braque
in cui vi erano dei “piccoli cubi”. Si tratta della principale
corrente artistica del Novecento che vede proprio in
Picasso e in Braque gli iniziatori del movimento, attraverso
opere come Les demoiselles d’Avignon (Picasso, 1907)
e Grande nudo (Braque, 1908). Il cubismo scardina
per sempre la rappresentazione realistica in pittura,
proponendo l’astrattismo e la tridimensionalità come
strumenti per la raffigurazione di oggetti, paesaggi e
persone.
298
Exchange
Laika (1954 – 3 novembre 1957) è uno dei nomi con cui
è nota il cane femmina che fu imbarcata a bordo della
capsula spaziale sovietica Sputnik 2, la prima sonda
con a bordo un essere vivente. Per le missioni Sputnik
si selezionarono in tutto tre cani: Albina, Muschka e
Laika. Tutte e tre le cagnette furono sottoposte ad un
allenamento intensivo che venne diretto da Oleg Gazenko,
colui che aveva scelto Laika come la predestinata al
primo volo spaziale e responsabile del programma. Il
3 novembre 1957 alle 2:30 lo Sputnik 2 venne lanciato
dal Cosmodromo di Bajkonur in Kazakistan. Il satellite
rientrò in atmosfera cinque mesi più tardi il 14 aprile
1958 dopo aver compiuto 2570 giri intorno alla terra.
Lo Sputnik 2 andò completamente distrutto durante il
rientro.
299
Primo sangue
Il 22 marzo 1848, dopo cinque giorni di guerriglia
urbana, la popolazione milanese, imbelle, inerme e
mal organizzata, riuscì a mettere in fuga un’armata
di ventimila soldati di guarnigione perfettamente
addestrati. Era il migliore esercito del mondo, guidato
dal maresciallo Radetzky, un uomo invincibile che aveva
trascorso gli ultimi sessant’anni a sedare rivolte in tutta
Europa. Come quest’impresa fu possibile, è un’altra
storia. Questa, invece, è la storia di come fu innescata
la ribellione.
300
La Spilla
Il dieci giugno 1963, il presidente John F. Kennedy
firmò una legge federale volta a garantire la parità di
retribuzione di donne e uomini svolgenti lo stesso
lavoro per il medesimo datore di lavoro. L’Equal Pay
Act fù una delle prime leggi antidiscriminazione che
hanno affrontato le differenze salariali basate sul
genere. È stato il primo in una serie di importanti passi
che hanno avuto un profondo effetto sulle opportunità
di lavoro e di guadagno per le donne nel corso dell
ultimo mezzo secolo, e gettato le basi per il movimento
femminile come mai prima di allora. Dal passaggio del
Equal Pay Act, diverse generazioni di donne hanno
trasformato le nostre sedi di lavoro e, di conseguenza,
la nostra economia. Si sono integrate in molti settori,
in precedenza esclusivamente maschili, raggiungendo i
massimi livelli in molti campi, diventando un’importante
fonte generatrice di occupazione, imprenditorialità
e innovazione. Cinquant’anni fa, dopo vari tentativi,
e molto dibattere, il Congresso e il presidente hanno
riconosciuto l’Equal Pay Act come primo passo per
affrontare la discriminazione di genere che ostacolava
la capacità delle donne di raggiungere la parità sul posto
di lavoro, ma molto resta ancora da fare.
https://www.whitehouse.gov
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