sussUrlo Downloads - Diwali Rivista Contaminata
Transcript
sussUrlo Downloads - Diwali Rivista Contaminata
Sussurlo Numero VIII Inverno 2015 L'Editorial Sommario L’Editorial 3 InSistenze 4 Quando Boetti e la Arbus si fecero in quattro di Simone Scaloni 5 Fiori vivi senza catene: per una critica artistica e materialistica del 7 MARZO 2015 - n.8- anno 3 gennaio di Maria Carla Trapani 9 L’arte in protesta: l’esperienza sud-africana di Geremia Doria 12 Il freak, la mappa e la bandiera di Simone Scaloni 16 InVerso 20 Davide Cortese 21 Vera Bonaccini 22 Antonella Lucchini 23 Luca Ispani 24 Flavio Scaloni 25 Marino Santalucia 26 Andrea Borrelli 27 Shar Danus 29 Focus: Gli Haiku di Konishi Raizan di Dona Amati 30 InStante 32 Francesca Petrangeli 33 Veronica Adriani 36 Andrès Leon Baldelli 39 Miloje Savic 42 Diwali - Rivista Contaminata Liza Boschin 45 Trimestrale di Arte & Letteratura InMobile 48 Individuo, Coscienza, Rivoluzione di Rajanish Pandili 49 InContro 51 Anna Laura Longo 52 InDicazioni 53 La resistenza dei fatti di Titos Patrikios 54 Sono bella, ma non è colpa mia di Aa. Vv. 57 InChina 59 www.rivistadiwali.it Direttore Editoriale Maria Carla Trapani Direttore Responsabile Flavio Scaloni Redazione Dona Amati, Pietro Bomba, Alessandra Carnovale, Laura Di Marco, Mario Lucio Falcone, Giulio Gonella, Letizia Leone, Michela Pistidda, Simone Scaloni Ufficio Stampa Les Mots Contaminés Technical Consulting Arianna Degni, Pierluigi Stifanelli Contatti facebook.it/diwalirivistacontaminata [email protected] Edizioni Les Mots Contaminés Associazione culturale no-profit 20, Rue Condorcet, 38000, Grenoble - Francia La tentazione è forte per chi crede di scalare le vette più alte, di accomodarsi sulla cima. E di limitarsi a guardare, magari con sdegno compiaciuto, le lacrime a valle. Nell’illusione che la distanza guadagnata con l’altezza metta al riparo da ogni responsabilità terrena. Ma il XX secolo l’ha mostrato in tutta la sua drammaticità. L’arte non può cancellare la propria costituzione nello spazio sociale, così come non può ignorare gli effetti che produce in questo stesso spazio. Ignorando le proprie radici mondane e il proprio potere reale, l’arte non fa altro che rendersi complice di ciò che accade. Dopo l’immane tragedia delle due guerre mondiali, l’artista sa bene che limitandosi a guardare, appone la sua firma ai decreti del potere. E la sua responsabilità non si riduce alla generica implicazione nel- le faccende umane che riguarda tutti noi dal momento in cui veniamo al mondo. Se una volta nati non possiamo più nasconderci, per l’artista questo va inteso in un senso specifico. L’arte lavora sull’immaginario, contribuisce a forgiare quel sistema di rappresentazioni attraverso il quale agiamo nel mondo. È anzi questo sistema a fare da fondamento alla prassi politica. Le immagini sono dunque molto più di un piacere estetico. Ogni singolo tratto che l’artista vi aggiunge, è nella sua essenza un’azione politica in potenza. In questo numero di Diwali abbiamo raccolto contributi di artisti che non si illudono che l’aria rarefatta della creazione metta al riparo dalle raffiche del vento delle lotte, e che prendono per questo sul serio il potere di ogni singolo tratto che disegnano. Diwali - Rivista Contaminata Mario Lucio Falcone ISSN 2275-0606 2 3 Insistenze>>> Quale può essere il legame tra una fotografa di moda del Greenvich Village ed un conte piemontese imprenditore alberghiero? E che cosa unisce i funesti eventi di Parigi, 7 gennaio 2015, alla lotta contro la segregazione razziale Sudafricana? QUANDO BOETTI E LA ARBUS SI FECERO IN QUATTRO Simone scaloni Doppelgänger: il tema del doppio, così popolare nell’arte (si pensi, ad esempio, a Lo strano caso del Dottor Jekyll e Mr. Hyde di R. L. Stevenson o a Il sosia di Dostoevskij, solo per citarne un paio) vieDiwali, attraverso i ripetuti sdoppiamenti a cui sono andati incontro, nella loro esperienza artistica ed esistenziale, due figure parallele, la newyorchese Diane Arbus, fotografa di moda e ritrattista di soggetti disagiati, e Alighiero (e) Boetti, conte piemontese, imprenditore e artista concettuale, che nelle sue opere più famose riproduce se stesso sdoppiato e addirittura triplicato (in Mappa). Due figure centrali dell’arte della seconda metà del Novecento, che si sono spinte al limite dal punto di vista della sperimentazione e della vita, fino al burn out o al suicidio. Doppia è anche la funzione della religione nell’analisi marxiana che Maria Carla Trapani amplia e ripropone come radice per comprendere i recenti eventi parigini ed il fenomeno conseguente Je suis Charlie: espressione della miseria reale e protesta contro questa stessa, quasi una forma di arte contestatrice e coscienza capovolta del mondo. Attraverso tale via la critica all’Islam può diventare critica delle condizioni materiali alla base della sua nascita e diffusione, ma non delle sue rappresentazioni, che costituiscono un’espressione delle esigenze spirituali dell’uomo, da liberare dalla mistificazione e non da annullare. Di protesta contro determinate condizioni materiali, più specificatamente l’apartheid in Sud Africa, ci parla anche Geremia Doria con la sua rassegna sugli esponenti di quella che è stata definita Resistance Art nelle sue molteplici sfaccettature. L’arte deve confortare il disturbato e disturbare il comodo. (Banksy) 4 Alessandra Carnovale Se negli anni Sessanta aveste fatto un viaggio in America, più esattamente a New York, e vi foste attardati a passeggiare lungo le avenues di Manhattan o sotto gli aceri e gli olmi di Central Park, non è escluso che avreste potuto imbattervi in una fotografa armata di una Mamiya o di una Rolleiflex con un grosso flash che, con sensibilità e savoir faire, se aveste destato la sua curiosità, probabilmente vi avrebbe convinto a posare per lei. Questa quarantenne inquieta e solitaria, questa donna sottile con la minigonna e i capelli a spazzola, autentica beatnik sempre in bilico tra lo scintillante mondo della moda in cui lavorava e la cultura beat del Greenwich Village in cui abitava, era Diane Arbus. Soltanto qualche anno prima, ad esempio verso la metà degli anni Cinquanta, un incontro del genere sarebbe stato assai più difficile. In quel periodo, infatti, la Arbus trascorreva la maggior parte del tempo a scattare fotografie al chiuso di atelier di moda, teatri di posa e set cinematografici. Il suo pane quotidiano erano dunque attori e modelle che però, sta di fatto, non furono mai particolarmente contenti del modo in cui Arbus li rendeva immortali. Tuttavia, a un certo punto della sua ormai avviata carriera, uno scatto forse di troppo, come un clic e un tuono, dovette esserle fatale dal momento che qualcos’altro scattò irreversibilmente dentro di lei. Per qualche ragione la Arbus si tolse l’abito che indossava e infilò una pelliccia (fur in inglese), tornando ad essere un anatroccolo dal cigno che era (o che avrebbe potuto essere), o già farfalla rifacendosi crisalide. Si tagliò i capelli da maschio, appunto come un anatroccolo, e si sdoppiò. Già intorno al 1960 Diane Arbus si era trasformata in un’altra persona. Iniziò allora, e non smise più per undici anni consecutivi, a ritrarre persone apparentemente normali ma il più delle volte segnate da un inquietante disagio esistenziale, e soggetti ai margini della società (borderline e dropout, diremmo oggi) come freaks, nani, spogliarelliste, acrobati, giocolieri, fenomeni da baraccone ambulante, alienati mentali, dementi e handicappati. Non fu certo la prima a cimentarsi nel ritratto fotografico di soggetti così fuori dell’ordinario. Prima di lei ci avevano già pensato, fra gli altri, Weegee e Brassai. Ma anche Lewis Hine, Bill Brandt, Dorothea Lange e Ben Shahn si erano pionieristicamente misurati con quella che venne poi definita la fotografia-documento. Gli stessi Walker Evans (collega e ammiratore che stimava la Arbus e la incoraggiava a proseguire nella sua ricerca estetica) e Lisette Model (amica e insegnante che tra il 1956 e il 1957, oltre ad introdurla all’opera di August Sander, fece per lei da figura-cerniera nel momento del passaggio da una personalità artistica a Insistenze>>> ne riproposto da Simone Scaloni, in questo numero SussUrlato di 5 Insistenze>>> un’altra) con il loro lavoro si occupavano di documentare tematiche sociali affini, più o meno attinenti alle stesse categorie umane. Qualche tempo dopo si sarebbe dedicato a soggetti analoghi anche Stanley Kubrick, un altro amico della Arbus che negli stessi anni muoveva i primi passi nel mondo della fotografia e che in seguito, divenuto un regista acclamato, tanto l’avrebbe omaggiata in più d’uno dei suoi celebri capolavori cinematografici. Come ad esempio in The Shining del 1980 (e non solo nelle sequenze in cui le due gemelle, simbolo archetipico della personalità dissociata, appaiono nei corridoi dell’allucinante Overlook Hotel, quanto più probabilmente nell’intera pellicola), e forse anche in Eyes Wide Shut del 1999, l’ultima fatica dell’autore, nel tema portante della festa in maschera e quindi ancora del doppio o della scissione identitaria. Ma, a differenza degli illustri colleghi, nel suo procedere la Arbus sembrava tormentata da un fuoco di altra natura e finì con l’accanirsi sull’acceleratore della propria arte fino al punto di non ritorno. Cosa le era successo? Cos’era stato a determinare una deviazione di rotta così radicale che con tanta evidenza si sarebbe poi impressa nella produzione fotografica suc- <<<Insistenze cessiva fino al 1971, l’anno della sua tragica scomparsa? Di sicuro il clima politico e sociale dell’epoca e la generale atmosfera hippie di quel periodo (in cui scendere in piazza e vivere on the road con gli altri e per gli altri erano diventati una consuetudine diffusa non soltanto negli Stati Uniti) giocarono un ruolo decisivo e contribuirono all’attivazione di questo processo di apertura ed espansione dei propri orizzonti individuali. Ma nel caso della Arbus, con ogni evidenza, le cause reali che innescarono la trasformazione furono altre. Si erano risvegliate forze oscure molto più profonde. Diane Nemerov nasce a New York all’inizio degli anni Venti in una ricca famiglia ebrea di origini polacche, proprietaria della catena di negozi di pellicce Russek’s. Il padre David, dopo aver lasciato la presidenza dell’azienda di famiglia nel 1957, si mette a fare il pittore conseguendo un discreto successo commerciale. Diane è la seconda di tre figli. Il fratello maggiore Howard, più grande di tre anni, diventerà famoso come uno dei maggiori poeti americani del Novecento, mentre la sorella minore Renée farà la scultrice. A 12 anni il padre manda Diane a scuola di disegno da Dorothy Thompson, una dipendente di Russek’s, che le insegnerà ad apprezzare gli acquerelli di George Grosz del quale era stata allieva. A 14 conosce e si innamora di un altro commesso di Russek’s, Allan Arbus, che sposerà quattro anni dopo, nel 1941. Diane ha soltanto 18 anni. Trascorrono altri quattro anni e nel 1945 Diane dà alla luce la sua prima figlia, Doon. Sempre nel 1945 ha inizio il vero e proprio sodalizio artistico tra Allan e Diane cha da questo momento in poi lavoreranno sempre insieme come fotografi di moda per le più importanti riviste del settore come Glamour, Vogue, Harper’s Bazaar. Tra i colleghi vi è anche Richard Avedon. Nel 1947 Diane studia per un breve periodo con Berenice Abbott. Sette anni dopo, nel 1954, nasce la seconda figlia, Amy. È in questo periodo che Diane conosce Stanley Kubrick, giovane fotografo alle prime armi, e approfondisce ulteriormente lo studio della fotografia con Alexey Brodovitch. Nel biennio 1956-1957 Diane studia con Lisette Model che rappresenterà per lei il vero trampolino di lancio nella sua ricerca artistica personale. Nel 1958 Allan e Diane conoscono Robert Frank e sua moglie Mary nel pieno delle riprese del film Pull My Daisy, di cui Frank è il Pagina 5: Diane Arbus, Rhode Island School of Design, 1970 (fotografia di Stephen Frank) Di lato: Diane Arbus, Identical Twins, Roselle, N.J., 1967 Pagina 8: Alighiero Boetti, Gemelli, 1968 6 regista, che presto diventerà il film-manifesto della cultura beat e di tutta la beat generation. Ma in questi anni il matrimonio va in crisi e nel 1959 Allan e Diane si separano ufficialmente (divorzieranno dieci anni dopo, nel 1969). Nello stesso arco di tempo, cioè tra il 1957 e il 1960, Diane scopre l’Hubert’s Museum, una sorta di strano baraccone delle meraviglie (in pratica un teatro di freakshow), situato all’angolo fra la 42ma strada e Broadway, dove si esibiscono figure eccentriche e fuori dal comune che la Arbus fotograferà spesso nel corso degli anni a venire. Un altro luogo in cui la Arbus si reca frequentemente è il Club 82 situato nella lower Manhattan e popolato, anche questo, da una serie di personaggi molto particolari. Per giungere, negli ultimi tempi, a ritrarre nudisti, prostitute e frequentatori di bordelli. Il 26 luglio del 1971, nel giorno del 43° compleanno dell’amico Stanley Kubrick allora impegnato nella realizzazione del suo A Clockwork Orange (Arancia Meccanica), Diane Arbus si suicida ingerendo una dose massiccia di barbiturici e tagliandosi le vene dei polsi nella vasca da bagno del suo appartamento del Greenwich Village a New York. La troveranno un paio di giorni più tardi, già in avanzato stato di decomposizione. Aveva sempre sofferto di crisi depressive nel corso di tutta la vita e, in una sorta di sdoppiamento ormai avvenuto e vissuto come irreversibile, non aveva più voluto abbandonare il cognome del marito Allan anche dopo il divorzio. Tornando indietro di due o tre anni, precisamente alla primavera del 1968, in Italia un giovane artista di Torino spediva a una cinquantina di amici una cartolina postale da lui intitolata Gemelli che, attraverso un accurato fotomontaggio, mostrava l’autore dell’opera per mano a un altro se stesso, in uno sdoppiamento perfettamente speculare. Duplicazione dell’identità confermata dall’enigmatica ma eloquente intuizione dell’artista di interporre la lettera E tra il suo nome e il suo cognome e, sempre in quello stesso 1968, di intitolare Shaman Showman una sua personale alla Galleria de Nieubourg di Milano. A fare tutto questo era l’allora ventottenne Alighiero Boetti, un conte piemontese tenebroso e scapigliato, già membro della corrente artistica italiana detta Arte Povera poi confluita in quella Concettuale, che dal 1972 in poi prese definitivamente a firmarsi Alighiero e Boetti. Di lì a qualche anno, nel corso del processo creativo di una delle sue opere più famose (la Mappa), sarebbe infine arrivato non solo a sdoppiarsi ma addirittura a triplicarsi, rispettivamente, in un bambino che ricalca le figure dai giornali (nello specifico, le sagome delle nazioni prese dal quoti- diano torinese La Stampa), in un imprenditore alberghiero all’estero e in una ricamatrice afghana. Il 15 marzo del 1971 Alighiero Boetti, un po’ per caso, parte per la prima volta per l’Afghanistan. Vi rimarrà per più di un mese e presto inizierà a considerare questo Paese la sua seconda patria. Circa quattro mesi dopo, il 26 luglio, Diane Arbus si toglie la vita nel suo appartamento del Greenwich Village a New York. A settembre Boetti è nuovamente in Afghanistan, in questo secondo viaggio accompagnato dalla moglie. Qui, in un ulteriore sdoppiamento, scinde il suo nome di battesimo in Alì Ghiero, contestualizzandolo al luogo in cui si trova. Ha con sé il progetto dell’opera Mappa, cioè il planisfero del globo terrestre sul quale ogni nazione verrà poi tessuta con i colori della propria bandiera. A Kabul Boetti inizia subito a intrecciare relazioni con la popolazione locale e, improvvisandosi imprenditore alberghiero, nel quartiere residenziale di Sharanaw apre il One Hotel che diventerà la sua residenza afghana. Nell’aprile dell’anno seguente, il 1972, Boetti partecipa alla mostra collettiva intitolata De Europa che si tiene presso la Galleria John Weber di New York. In autunno Boetti lascia la sua Torino e si trasferisce a Roma. Andrà ad abitare in un bell’appartamento con lo studio le cui finestre danno sul campanile di Santa Maria in Trastevere. È in questo periodo che l’artista ratifica ufficialmente la decisione presa quattro anni prima di firmarsi Alighiero e Boetti, formalizzando in maniera definitiva lo sdoppiamento simbolico tra la sfera privata rappresentata dal nome e la sfera pubblica rappresentata dal cognome. In estate, in occasione della XXXVI edizione della Biennale di Venezia, Gino De Dominicis, un artista marchigiano anch’egli attivo in quegli anni e ancora oggi molto discusso, si era presentato in mostra con il suo atemporale e arbusianamente aristocratico ragazzo down seduto in un angolo, ovvero la 2° Soluzione di Immortalità. A quella stessa Biennale del 1972 il pubblico ammirò anche i ritratti fotografici di Diane Arbus che, a un anno esatto dalla scomparsa, fu la prima fotografa americana ad essere ospitata ed esposta in laguna. *[Simone Scaloni vive a Roma tra le pieghe di una decennale passione per l’arte. Diplomato in restauro pittorico, si laurea in seguito in Storia dell’Arte. Si interessa particolarmente alle incisioni del 900 ma non si preclude incursioni nelle manifestazioni dell’arte contemporanea.] 7 Insistenze>>> Fiori vivi senza catene: per una critica artistica e materialista del 7 gennaio maria carla trapani Quanto avvenuto a Parigi il 7 gennaio 2015 ha aperto lo spazio per una riflessione collettiva, che è auspicabile non si esaurisca nel tempo breve dell’emozione, servito finora solo da appoggio per la pronta adozione di nuove misure repressive, dall’alto, e per il ritorno in auge di identitarismi di varia natura, religiosi ed etnici, dal basso. Per contribuire ad approfondire il lavoro di critica di quello che sembra essere un evento dall’alto contenuto simbolico, ho ritenuto opportuno indagare il rapporto tra espressione artistica e prassi politica, ponendomi dal punto di vista del nesso che lega immaginario religioso e azione nel mondo, collocando quindi la mia analisi nella zona di intersezione tra la sfera ultra-mondana e quella infra-mondana. Non è tanto in virtù dell’innegabile valore artistico dei testi sacri che fondano le istituzioni religiose contemporanee – e in particolare, quelle oggi più gravide di conseguenze politiche a livello mondiale: il Corano, l’Antico e Nuovo Testamento, possono essere letti come opere d’arte a pieno titolo – che questa operazione mi è parsa legittima. C’è una ragione più profonda, meno estrinseca alla problematica politica che ha mosso queste riflessioni: la religione forgia ancora oggi l’immaginario di enormi masse di individui, dando vita a un modo specifico di pensare e di sentire, di riflettere e di esperire. Il teatro religioso popolato da figure spirituali incarnate, non rimane confinato a una scena interiore onirica individuale, ma creando rappresentazioni del reale acquista un’esistenza mondana tanto estetica quanto etica. Le figure religiose rappresentano, benché in forma trasfigurata, i rapporti reali, il mondo vissuto così come viene immaginato, o più precisamente i rapporti immaginari tra l’individuo e le sue condizioni di esistenza; allo stesso tempo, tali figure retroagiscono nel mondo: è dentro e attraverso le rappresentazioni immaginarie dei rapporti reali che gli uomini vivono, riproducendo con le 8 loro azioni nella realtà quelle condizioni sociali proiettate nella sfera del sacro in forma capovolta. È altresì legittimo trovarsi in disaccordo con questo genere di interpretazione, che si pone deliberatamente fuori dal pensiero religioso. È tuttavia di una siffatta critica, che adotti cioè un punto di vista esterno al proprio oggetto, che mi pare si sia sentita l’esigenza nel dibattito attorno a Je suis Charlie. Al di là delle posizioni individuali, talvolta anche valide e interessanti, ritengo particolarmente significativa la polarizzazione del dibattito complessivo attorno a due affermazioni allo stesso modo parziali e fuorvianti riguardo all’origine dell’azione terroristica: da un lato, conseguenza del fanatismo religioso; dall’altro, espressione di istanze politiche. Occorre precisare che si tratta di una polarizzazione tendenziale: tra le due posizioni, troviamo un’infinità di sfumature; e l’una e l’altra sono state diversamente declinate così da dare vita a una considerevole varietà di interpretazioni. Ci si è divisi sul potere delle convinzioni religiose, su quanta parte di responsabilità fosse da attribuire alla religione in generale e quanta all’Islam in Insistenze>>> La moltiplicazione di sé nella cultura beat e nell’estetica concettuale 9 Insistenze>>> particolare; altri hanno insistito sul ruolo di copertura svolto dalla religione per interessi meramente politici; altri ancora hanno sostenuto che né la religione né la politica erano realmente in causa, ma solo l’accecamento individuale di chi ha commesso l’azione. C’è del vero in ognuna di queste affermazioni e infatti il loro limite consiste nel non aver colto il nesso tra i diversi termini, cioè il rapporto complesso tra esistenza reale degli individui, all’interno di condizioni storicamente determinate, e forme di espressione religiosa, che sono essenzialmente forme della coscienza, in vario grado immaginaria, di tali condizioni. Chiedersi quanto sia stato determinante ora l’Islam o il fanatismo, ora la politica o la follia criminale, non ci fa avanzare di un passo. Ma in che rapporto porre questi termini? Qual è il nesso che lega religione e politica, conoscenza e immaginazione, prassi nel mondo reale e sua proiezione in un mondo immaginario? Ritengo che su questo tema possa ancora oggi venirci in soccorso la critica marxiana. Se oggi la posizione di Marx sulla religione ci appare del tutto irrecuperabile, è infatti solo per la sua riduzione, nel senso comune, a una sola celebre proposizione, che è generalmente interpretata in modo semplicistico e quindi erroneo: “la religione è l’oppio dei popoli”. Estrapolata dal contesto nel quale è formulata, questa affermazione è in effetti inutilizzabile per l’analisi di un evento tanto complesso come un atto terroristico compiuto in nome di un Dio. Quella che sembra essere una riduzione, rozza e sbrigativa, del valore umano e sociale della religione, rivela invece una posizione ben più complessa e feconda se ricollocata all’interno della Critica della filosofia del diritto di Hegel, che Marx redige nel 1843 e pubblica l’anno successivo nella rivista “Annali franco-tedeschi”. Innanzitutto, occorre leggere le affermazioni immediatamente precedenti: “La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo”. La religione è quindi definita come sentimento, spirito e sospiro. L’oppio ha evidentemente un valore metaforico, da riferire all’uso, alla funzione cui la religione viene destinata. Il processo di costituzione della religione è invece legato alla sofferenza degli uomini per le condizioni materiali nelle quali sono gettati, al modo in cui sentono questa sofferenza, e infine all’espressione di questo sentire in forma trasfigurata. Il sentimento religioso è quindi l’atmosfera che gli 10 <<<Insistenze Pagina 9 e 10: Immagini da Charlie Hebdo Pagina 11: Karl Marx uomini respirano nella loro sofferenza, della quale la proiezione nel sacro è anche manifestazione fantastica; ed è attraverso questa rappresentazione, a suo modo artistica, che gli uomini riproducono l’illusione di poter sfuggire alla realtà che è l’origine materiale delle fantasie spirituali. Ora, se la causa reale dell’immaginario religioso è da ricercare nelle condizioni materiali, va da sé che solo la trasformazione del reale può portare all’emancipazione dall’uso consolatorio (l’oppio) della religione. Eppure, almeno in questo scritto giovanile, la critica della religione non viene liquidata come inefficace; le deve al contrario essere riconosciuta una funzione rivoluzionaria. La religione non è infatti puramente consolatoria, ma possiede, in quanto rappresentazione trasfigurata della reale sofferenza, un intrinseco potere critico di questo stesso reale. La “miseria religiosa”, scrive Marx, “è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale”. Un’arte contestatrice, verrebbe da dire forzando e aggiornando il testo marxiano, che è però nondimeno destinata ad essere superata in quanto è al contempo espressione capovolta del mondo, quindi in ultima analisi mistificazione dell’origine della sofferenza dell’uomo. La sua critica è per questa ragione necessaria. “Il fondamento della critica irreligiosa è: l’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo. Infatti, la religione è la coscienza di sé e il sentimento di sé dell’uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l’uomo non è un essere astratto, posto fuori del mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo, Stato, società. Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point d’honneur spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne compimento, il suo universale fondamento di consolazione e di giustificazione. Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale”. Ma gli effetti di protesta che la critica della religione genera, lungi dal rimanere sospesi nell’alto dei cieli, si dipanano nel mondo reale: “eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione, dunque, è, in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola”. Questo significa forse che il mondo liberato dalle condizioni materiali che generano sofferenza sarà un mondo che non avrà più bisogno di esprimere la propria spiritualità? Questa è la posizione che il senso comune attribuisce a Marx, riducendo il suo pensiero a una variante dell’ateismo materialista. Ma le cose, come stiamo mostrando, stanno diversamente: abbiamo visto che infatti l’esigenza spirituale non si può ridurre a quella che è la sua funzione consolatoria. È in gioco, nella religione, un’esigenza che appartiene all’uomo in quanto ente generico, quella di esprimere il proprio sentire in forme che potremmo definire artistiche. Ciò che occorre eliminare è infatti per Marx la radice materiale del dolore e non la fonte della realizzazione spirituale: “la critica ha strappato dalla catena i fiori immaginari, non perché l’uomo porti la catena spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga i fiori vivi”. Se la “critica del cielo” deve trasformarsi in “critica della terra”, la critica della religione in “critica del diritto”, la critica della teologia in “critica della politica”, non è per mettere al bando ogni forma di spiritualità, ma al contrario per liberarla e darle quel carattere pienamente umano che le è negato in una società fondata sullo sfruttamento, quindi sulla sofferenza. Questo Marx, e non certo il semplice ateismo che gli si vuole spesso attribuire, può dirci qualcosa sulla strage del 7 gennaio. La critica dell’Islam deve essere solo critica delle condizioni materiali che sono alla base della sua nascita e della sua diffusione successiva, mai critica delle sue rappresentazioni in quanto espressione delle esigenze spirituali dell’uomo. La protesta che la religione veicola non cancella la sua funzione illusoria; di conseguenza la sua critica è certo un tassello della critica dell’attuale società. Non è tuttavia alla distruzione del sentimento religioso, né alle sue forme istituzionali e collettive, che occorre puntare; è al contrario alla sua liberazione che la critica deve lavorare. La critica dell’Islam non va da nessuna parte se non associata alla critica dell’esistente da cui trae origine, da un lato, e all’esaltazione del suo carattere di protesta e di espressione spirituale, dall’altro. Non è ai roghi di fiori che bisogna mirare, ma alla possibilità di cogliere finalmente i fiori vivi. *[Maria Carla Trapani è nata e vive a Roma. Di formazione filosofica, approda in seguito alle discipline orientali, nell’ambito delle quali esercita la sua professione. La sua prima monografia, Nascosta e lo specchio, esce nel giugno 2010 con la Giulio Perrone Editore, seguita, nel 2012, da Se le figure, e invece il dolore. Silenzi, Bel-Ami Edizioni. È una de Le Crudeltà Barocche, la cui altra è Laura Di Marco: insieme creano Violenza della ragione e molli intelletti, presente in Femminilizzazione del mondo – Arte nel Rumore, Volume #5.] 11 <<<Insistenze Insistenze>>> L’arte in protesta: l’esperienza sud-africana Geremia Doria Il massacro di Sharpeville del 1960 ha dato una svolta epocale alla storia del Sud Africa. Ha innescato una catena di eventi: dal divieto alle organizzazioni di liberazione allo scaturire della lotta armata, dall’internazionalizzazione delle politiche di apartheid alla crescente divisione tra bianchi e neri. La lotta di liberazione in Sud Africa, a partire dagli anni ‘60 e fino agli anni ‘90, ha stimolato il dibattito sul ruolo della cultura in una società razzialmente oppressiva e autoritaria. I risultati di questo fermento politico e creativo sono stati numerosi, tra questi la fondazione di comunità di artisti intese come i ‘mattoni’ di una nuova ‘casa’ per il popolo, libera da ogni pregiudizio, tra queste i Bill Ainslie Studios (poi confluiti nella Art Foundation di Johanne- 12 sburg), Mofolo a Soweto, Katlehong a Germiston, i Black Art Studios a Durban e le comunità Arts Project e Nyanga a Città del Capo. Da un lato, e per lunghi anni, i bianchi sembravano accettare lo status quo, sostenendo che l’arte dovesse avere un’esistenza indipendente, con propri valori intrinseci, che andassero al di là delle politiche dei partiti e affrontassero il tema delle verità universali. Dall’altro, molti artisti sostenevano di non poter negare la realtà contingente: la loro arte avrebbe dovuto riflettere l’iniquità della Storia. Questo gruppo sviluppò una critica sempre più radicale della società, sostenendo che gli artisti avessero l’obbligo morale di pianificare la creazione di un nuovo ‘popolo rivoluzionario’. Gran parte dell’arte prodotta durante l’apartheid è stata critica nei confronti delle politiche razziali e culturali dello Stato ed è stata definita come ‘Resistance Art’. Questo termine è stato ampiamente discusso da molti storici e critici, senza arrivare a una soluzione condivisa. Ciò riflette la profonda divisione tra accademici, più o meno progressisti, per lo più bianchi e la comunità artistica di prevalenza nera. Avvicinandosi alla Resistance Art ci accorgiamo che gli artisti che ne sono stati protagonisti hanno risposto allo svolgersi degli eventi in modo molto diverso e pur condividendo gli stessi ideali si sono scontrati sui modi di rappresentare la loro reazione al sistema. Alcuni autori, ad esempio, hanno scelto di non produrre un lavoro apertamente politico, ma ciò non ha impedito che la loro opera avesse un impatto significativo sul pubblico, tramitando chiaramente le loro preoccupazioni per la società. Ci sono stati artisti che non sono mai appartenuti a nessuna organizzazione di ‘lotta’, ma hanno prodotto opere che hanno reso potenti dichiarazioni circa le ingiustizie del governo della minoranza bianca. D’altra parte ci sono stati artisti che si sono apertamente schierati con l’opposizione e prodotto opere che hanno dato un grande impulso alla mobilitazione sociale. Molte opere non sono mai state esposte fino a tempi più recenti, perché avrebbero senza dubbio portato a processo –e in carcere– gli autori. In questo breve excursus presentiamo alcuni artisti che hanno lasciato un segno profondo nella storia dell’arte africana e mondiale. Helen Mmapula Mmakgoba Sibidi è un’artista straordinariamente caparbia la cui arte costituirà un lascito importante circa la condizione delle donne nere nell’epoca più turbolenta della storia del Sud Africa. Le sue opere sono composizioni affollate di personaggi –soprattutto donne– in protesta contro il sistema. Le figure sono rese col pastello tramite ampie passate frastagliate e colori vivaci che sembrano sottolineare la tensione e l’energia ‘arrabbiata’ dell’opera. Ma la qualità duratura della sua arte è data dal suo recupero rispettoso delle pratiche culturali tradizionali ‘tswana’ che trovano spazio nel suo lavoro in un linguaggio personale e modernista. Il lavoro di Paul Stopforth ha smascherato il volto di quanti perpetravano violenze sotto l’egida dell’apartheid. ‘Elegy’ è una serie di 20 opere in grafite e acrilico in omaggio a Steve Biko, martire della resistenza. Stopforth ha altresì rappresentato tre dei nove poliziotti coinvolti nell’inchiesta attorno alla morte di Biko nell’opera ‘The Interrogators’, insieme all’immagine spettrale di una sedia, oggetto inanimato che diventa simbolo del terrore latente. Stopforth ha scelto di lasciare il Sud Africa alla fine degli anni ‘80 e si è stabilito negli Stati Uniti dove tuttora insegna presso la Harvard Universi- 13 Insistenze>>> ty. Continua nella sua produzione artistica, anche se con gli anni questa si è progressivamente spogliata del suo carattere politico e provocatorio, pur restando impegnata rispetto alle problematiche del mondo contemporaneo. Il lavoro di Jane Alexander riguarda tanto l’opera quanto lo spettatore. Opere brutali e volutamente incendiarie che non lasciano scampo. Le sculture e i fotomontaggi del periodo dell’apartheid sono state concepiti in modo che non ci fosse bisogno di chiedere spiegazioni in merito. È come mettere la società allo specchio, con i cittadini dello stesso Stato che sono al contempo aggressori e vittime. Le sculture sono realizzate con gesso, fibra di vetro, vernici, oggetti trovati, di tanto in tanto osso e ‘oggetti di scena’ come sedie, panchine, munizioni, recinzioni, machete e falci. <<<Insistenze Nel 1982 mentre procedeva la preparazione dell’opera ‘Senza titolo’ con due figure scheletriche appese a dei pali, carcasse di animali e corpi umani, l’artista si rese conto che la rappresentazione ‘cruda’ della violenza attirava gli spettatori. ‘Butcher Boys’ è l’opera d’arte più visitata alla Galleria Nazionale ‘Iziko’ di Città del Capo: tre figure mostruose e antropomorfe ci rivelano gli aspetti della violenza in maniera ‘passiva’. L’autrice ha reso le figure straordinariamente sinistre e l’opera suscita ripugnanza. È forse questo il motivo per cui l’opera sta assumendo una valenza a-temporale: si è spostata oltre l’era di riferimento ed ha assunto una portata universale. Ogni violenza, ogni forma di crudeltà è contenuta e trasposta in queste figure oscure. L’opera ‘Bom Boys’ è stata realizzata dall’artista nel 1998 ed ha riscontrato un successo planetario essendo espo- sta in varie gallerie e musei in Africa e quindi a Düsseldorf, Parigi, Londra, Tokyo, Stoccolma. Norman Catherine ha ottenuto la sua prima mostra personale già nel 1970 con la Goodman Gallery: nella mostra furono esposte alcune opere che illustravano tutti i tipi di materiali che l’artista utilizzava in maniera innovativa e che ne hanno fatto una leggenda vivente. Catherine è conosciuto soprattutto per le sue sculture, ma è tecnicamente molto abile anche nell’uso dell’aerografo nonché nelle incisioni a punta secca. Comune a tutte le tecniche impiegate è il suo sarcasmo graffiante, non estraneo a un certo cinismo alimentato dalle politiche governative. Le prime opere della sua carriera avevano titoli come ‘Suicidio’, ‘Arresti domiciliari’ e ‘Terapia Intensiva’ : espressioni crude della sua avversione allo Stato. Pagina 12: Fotografia simbolo dell’apartheid in Sud Africa Pagina 13: Paul Stopforth, Elegy Pagina 14: Jane Alexander, Butcher Boys Pagina 15: Jane Alexander, Bom Boys. Norman Catherine, Condemned 14 15 <<<Insistenze Insistenze>>> IL FREAK, LA MAPPA E LA BANDIERA simone scaloni Alighiero Boetti e Diane Arbus sono stati due artisti importanti nella misura in cui, attraverso le loro opere, ci hanno permesso di ampliare (orizzontalmente) e approfondire (verticalmente) la nostra conoscenza del mondo e della società in cui viviamo. Avevano 17 anni di differenza. La Arbus era nata a New York nel 1923 e Boetti a Torino nel 1940. L’una era una fotografa di moda, l’altro un artista concettuale caleidoscopico e multidisciplinare. La prima una beatnik del Greenwich Village discendente di una ricca famiglia ebrea di origini polacche, il secondo un conte piemontese figlio di un notaio e di una violinista ricamatrice. Eppure non sono pochi i tratti comuni che possiamo rilevare in questi artisti, primo fra tutti il ricorso a un materiale povero anche dal punto di vista sociale. Apparentemente così lontani, Arbus e Boetti sono ormai due figure referenziali e paradigmatiche per chiunque voglia comprendere meglio il panorama culturale, storico e artistico, della seconda metà del Novecento occidentale. Un primo, forte elemento che li accomuna è l’interesse che sempre manifestarono nei confronti dell’Altro e dell’Altrove. Una volta la Arbus dichiarò che la cosa che amava di più era andare dove non era mai stata. Fino a quando però, verso la fine della sua esistenza, dovette confessare all’amica insegnante Lisette Model di aver perso il controllo della situazione. A spingere Boetti era sostanzialmente la stessa impellenza, la stessa necessità di espandere se stesso e allargare i propri orizzonti. Entrambi scelsero di assecondare questo bisogno di conoscenza nel modo più efficace, ma anche più rischioso, al quale seppero fare ricorso: rinunciarono a una parte di sé. Infatti non si accontentarono mai di una rappresentazione semplicemente mimetica o documentaristica delle tematiche che avevano deciso di affrontare, ma si inerpicarono sulla via 16 più ardua e pericolosa dell’immedesimazione. Si calarono nei loro soggetti al punto tale da trasformarsi nei soggetti stessi, così facendo arricchendosi di una o molteplici nuove identità. I risultati di questa faticosa e trasgressiva operazione di moltiplicazione di sé non si fecero attendere e furono sorprendenti. Per attivare questo meccanismo di auto-frazionamento entrambi dovettero necessariamente inoltrarsi lungo un sentiero, leopardianamente vertiginoso e a picco sul vuoto, di desoggetivazione e depotenziamento del proprio io. Ciò significa che per qualche insondabile ragione dovettero ridursi, farsi piccoli piccoli e sottili sottili (come Gulliver sull’Isola di Lilliput e su quella di Brobdingnag al contempo, o come Alice durante il suo viaggio verticale nel Paese delle Meraviglie) in modo da poter entrare e passare ovunque come con un Passepartout. Fu così che riuscirono ad assorbire tutte le informazioni e le influenze di cui avevano evidentemente, e urgentemente, bisogno. Proprio Il Viaggio Verticale si intitolerà una personale della Arbus. Un’altra, sempre sullo stesso tema, attingerà invece al repertorio poetico di Shakespeare e si chiamerà The Full Circle (cioè la chiusura del cerchio, ma anche il giro completo, che inevitabilmente rimanda a Il Giro del Mondo in Ottanta Giorni di Jules Verne, e quindi alla Mappa del globo terrestre di Alighiero Boetti). Tale processo di frammentazione di sé, di auto-riduzione o auto-nebulizzazione (che però, specularmente, è anche un esercizio di grande accrescimento interiore nel senso di moltiplicazione e irraggiamento della propria soggettività), non mancò di dare i frutti sperati o, nel caso della Arbus, di far sbocciare i suoi fiori del male. In tempi rela- tivamente brevi entrambi arrivarono ad accumulare una tale quantità di dati, cifre, numeri, lettere, forme, colori, notizie, informazioni ma anche drammi, tragedie, baratri, handicap, abiezioni e vite vissute ai limiti della dignità umana, da costituire un vero e proprio bottino di guerra, una ricchezza inestimabile come il tesoro della grotta di Alì Babà, che i due artisti ci hanno lasciato in eredità e di cui oggi noi possiamo ammirare la portata e beneficiare in senso artistico e umano. Arbus e Boetti sono stati, nel vero senso della parola, due pionieri. Due figure-ponte che ci hanno aiutato ad avvicinarci e ad accorciare le distanze tra noi e l’Altro, l’Ignoto, il Diverso, lo Straniero, lo Scandaloso, l’Orribile, il Proibito, il Tabù. Per mezzo della loro produzione artistica hanno contribuito ad abbattere le frontiere geografiche, nazionali, politiche, religiose, sociali e sessuali che però, come un male inevitabile e anzi necessario, le società umane non fanno altro che ripristinare. Quanti avrebbero avuto lo stesso coraggio, lo stesso spirito d’avventura e lo stesso amore per il rischio? Quanti avrebbero dimostrato la stessa caparbia temerarietà nello spostare il limite della sperimentazione sempre un po’ più in là, o nell’alzare l’asticella del lecito sempre un po’ più su? Alighiero Boetti e Diane Arbus hanno voluto (o dovuto) camminare sui carboni ardenti, tra le macerie, i relitti e i derelitti, e attraver- Pagina 16: Diane Arbus, Patriotic Young Man with a Flag, N.Y.C., 1967 Qui sopra: Alighiero Boetti, Mappa, 1972 17 Insistenze>>> sare quei teatri di guerra (che non sono soltanto quelli in cui si combatte con le armi per la difesa dei propri territori o della propria identità nazionale, ma anche quelli che abbiamo sotto casa e che il più delle volte facciamo finta di non vedere) e quegli hot spots, quelle zone incandescenti, che da sempre costituiscono i punti nevralgici del pianeta e della società, per dimostrare con le loro opere in quali abissi o su quali vette l’Arte può condurre. Verso la fine della sua vita, consapevole dei traguardi raggiunti e forse un po’ stanco per la quantità di energia impiegata nel corso di un’intera esistenza dedicata all’arte, Boetti dichiarò di avere il cervello che gli fumava. Ironia laconica ma esaustiva efficacemente rappresentata dalla famosa statua-fontana in bronzo del 1993, ultima opera dell’artista e suo autoritratto replicato in sette esemplari, intitolata appunto Mi Fuma il Cervello. Boetti dunque avrebbe sfiorato il burnout, cioè l’incenerimento cerebrale, lo sfinimento da troppo lavoro. La Arbus, che nella sua discesa agli inferi finì col lasciarsi contagiare dai soggetti che ritraeva assorbendo troppo della negatività e delle miserie umane, inesorabilmente lo raggiunse. Una volta aveva dichiarato che per lei i freaks erano i veri aristocratici della società. È legittimo suppore che con ciò volesse dire che l’handicap e la diversità isolano e rendono estranei alla vita tanto quanto la ricchezza e l’alto lignaggio. In questo senso, probabilmente, li sentiva vicini a sé. Anzi, come la divina Gubel Gabel nella pellicola Freaks di Tod Browning che la Arbus doveva conoscere bene poiché già allora era un cult movie, era una di loro. Morirono giovani, tutti e due intorno alla cinquantina. Diane Arbus si spense tragicamente a New York nel luglio del 1971 a 48 anni. Alighiero Boetti, malato di tumore, morì a Roma a 54 anni nell’aprile del 1994. <<<Insistenze Nelle immagini che presentiamo in questo articolo vediamo innanzitutto un ragazzo ritratto dalla Arbus che mostra una bandiera degli Stati Uniti e un distintivo che attesta il suo orgoglio di cittadino americano. Ha un’aria troppo sognante e uno sguardo troppo fiducioso in un presunto ideale patriottico per non essere, anche lui, un freak sui generis. La seconda immagine rappresenta uno degli arazzi della Mappa di Boetti tessuti a mano dalle giovani ricamatrici della Scuola della Signora Kandi a Kabul, alle quali l’artista torinese, proprio come un imprenditore impegnato nell’avviamento di un’attività di Produzione di Bellezza e di Riordino Ideale dell’Assetto Politico Internazionale, affidò la realizzazione materiale delle sue opere. Il planisfero tessile è composto dalle bandiere di tutti i Paesi del mondo, inserite nel rispetto dei confini territoriali di ognuno di essi. Sono i simboli dell’alterità (umana, etnica e sociale), dell’orientamento possibile in un rinnovato ordine geo-politico esteticamente e cromaticamente perfetto, e della definizione delle diverse identità (nazionali per Boetti, individuali per Arbus), sempre minacciate e rimesse in discussione dalla Guerra in tutte le sue declinazioni. Con il suo inquietante repertorio iconografico Diane Arbus volle inquadrare il panorama della società nella sua massima estensione e magari anche a favore di un’utopistica integrazione di ogni elemento al suo interno. Nel concepire la sua Mappa, mosso da analoghe intenzioni, Boetti si cimentò in una magnifica e demiurgica rappresentazione del Tutto così come possiamo ammirarla, infine, in un’opera del 1988 nella quale Paesi, Continenti e Bandiere sono stati letteralmente travolti da un ciclone cosmico e centrifugati fino a mettere al mondo il mondo, come disse una volta l’autore, e dare vita a un caleidoscopico mosaico di frammenti colorati. Tra i frammenti di Boetti e le macerie della Arbus Pagina 18: Alighiero Boetti, Tutto, 1988 Qui sopra: Diane Arbus, Child with a Toy Hand Grenade in Central Park, N.Y.C., 1962 18 19 Inverso>>> Davide Cortese È musicale lo scritto che ci propone Davide Cortese ma non per questo meno verbalmente incisivo. È Arthur Janov, psicologo statunitense, nel 1970 pubblica quasi onirico il suo testo, con rievocazioni apparentemente legate solo da assonanze verbali ma rivelatrici, un saggio dal titolo “The Primal Scream” secondo cui ad una più attenta lettura, di realtà spietate ed urli che attraverso mescolate citazioni riecheggiano nel tem- l’uso della voce attraverso l’urlo primordiale o primario, po: da Kubrick e a tutta la violenza del suo “Arancia Meccanica” fino alla Francia di Luigi XV. riconducendo alle origini, porta l’individuo che lo compie [Laura Di Marco] a ricongiungersi, in una sorta di rinascita, con la propria psiche liberandola dalle proprie paure e traumi attraverso l’esternazione di rabbia ed emozioni. E sono dunque grida quelle che provengono dalle voci dei nostri poeti; urla di sdegno, di denuncia, di dolore e di protesta. Ma anche grida di battaglia contro abusi e violenze, affinché si faccia di ogni singola voce un unico, OBAMA OSAMA KOROWA MILK BAR potente, ed anche terapeutico grido. Componimenti che posseggono la forma leggera di un sussurro e la forza di contenuto di un boato. Ed è qui che l’arte ed in questo caso la poesia sussurrata e gridata, diviene arma di difesa sia da se stessi, ovvero dai propri timori, sia da una società che impone spesso il silenzio/assenso all’uniformità, all’ipocrisia, all’indifferenza, e scaglia stilettate ovunque possa esprimersi, su fogli, su muri, sulla pelle, attraverso la forza unica e dirompente della parola. Laura Di Marco Obama. Osama. Korowa Milk Bar. Pistole e diamanti di Madamigella Cunegonda. Angeli impiccati agli alberi di Golconda. Diorama. Alabama. Nabucodonosor. L’incantatore che tace il nome del cobra. Il silenzio che rivela il suono abracadabra. Nebraska. Nevada. Korowa Milk Bar. Fiore segreto tra i rami della jacaranda. Bacio mai dato una notte a Samarcanda. Nebraska. Nevada. Nabucodonosor. Il libro che Gutenberg dimenticò a Magonza. La bocca che invoca ancora garmonponzia. Vanilla. Carmilla. Korowa Milk Bar. Le chiavi cercate per le porte aperte. Il mio anello al dito della Santa Muerte. Il fado. Eldorado. Nabucodonosor. Kermesse di ferite sul velluto del mio petto. Il gotha del dolore riunito al mio cospetto. Sator Arepo Tenet Opera Rotas. Gilgamesh. Ganesh. Après moi le déluge! *[Davide Cortese è nato nell’ isola di Lipari nel 1974 e vive a Roma. Si è laureato in Lettere moderne all’Università degli Studi di Messina con una tesi sulle “Figure meravigliose nelle credenze popolari eoliane”. Nel 1998 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, titolata “ES” (Edas, Messina), alla quale sono seguite le sillogi: “Babylon Guest House” (Libroitaliano, Ragusa, 2004), “Storie del bimbo ciliegia” (un’autoproduzione del 2008), “ANUDA” (Aletti EdiNorman Rockwell, Murder in Mississipi, 1965 20 tore, Roma, 2011), “OSSARIO” (Arduino Sacco Editore, Roma, 2012) e “MADREPERLA” (LietoColle, Como, 2013).] 21 vera Bonaccini antonella Lucchini La poesia di Vera Bonaccini è una denuncia, una cronaca dei fatti affissa come manifesto ed esposta ai Parole, quelle di Antonella Lucchini, di esortazione verso tutte le donne a non tacere le violenze subite, a lettori con indignata ironia. Non esistono giri di parole nei suoi scritti ma il quadro di una società succube non fingerne la non esistenza, invocazione ma al contempo supporto complice di donna e poeta, a non al- dell’apparire, dei riti modaioli, dello sfoggio di un involucro patinato dove non si “sussUrla” per non rovina- levare dentro di sé il terrore che cresce a dismisura nel grembo quale doloroso frutto di un perpetrato do- re i ritocchi del bisturi sulle labbra. Dove anche Dei ed eroi della mitologia scendono dall’Olimpo per genu- lore e si alimenta giorno dopo giorno del silenzio di ognuna di loro. Di ognuna di noi. flettersi al dio del consumismo, mischiandosi alla mondanità. [Laura Di Marco] e Maya si è dimenticata il velo sull’ultima corsa della 90 a Piazzale Lotto una Domenica notte ubriaca di fine Maggio senza le scarpe a combattere l’asfalto e Giano bifronte si fa i selfie bipolari sushi vegano con la camicia bianca [quella nera per gli amici neonazisti] all’ora dell’aperitivo è ancora Aprile e fioriscono le milf e il botulino Prometeo promette arrogante la Conoscenza dai cartelloni elettorali e il fuoco purificatore senza pietas per i nemici della Patria e della Mamma ed è già Giugno e si muore col sorriso Poseidone sfoggia raggiante la Bandiera Blu che si è appena tatuata e ammicca alle turiste provocanti allontanando i clandestini con la mano e viene Luglio sudando l’ansia in discoteca Anansi racconta puttanate alle famiglie che aspettano il traghetto 22 in fila come bestie sotto al sole rabbia compatta ripiegata ad infradito ed ecco Agosto ed è la vita che si ferma pigiata stretta attorno a un ombrellone Ma poi a Settembre ecco Kalì spendere miliardi in manicure la green economy – la beauty farm e gli oli per capelli alla sirena per sgomberare gli abusivi dall’altalena e Maya ritrova il velo al Parco Lambro un pomeriggio di un mese a caso steso su un corpo e si allontana lentamente pedalando fischiando un requiem per i mesi in cui fa caldo. *[Vera Bonaccini nasce a Milano nel ‘77 sotto il se- Inverso>>> UN REQUIEM PER I MESI IN CUI FA CALDO [Laura Di Marco] MIO FIGLIO CALVARIO L’unico figlio che ho potuto avere si chiama Calvario. È nato una sera di giugno mentre l’estate piombava sul balcone e sulle mie guance gonfie. È cresciuto smisuratamente quanto il mio terrore di sbagliare a parlare di sbagliare sguardo di respirare quando non devo. Si può odiare il proprio figlio? Si deve. Soprattutto si devono riunire le botte, le lacrime, la paura e buttarle nel cesso. Oppure quella mano non si fermerà, diventerà sempre più veloce sempre più crudele sempre meno punibile. Vi dovete rialzare sorelle, figlie anche l’angolo più acuto in cui vi nascondete favorisce la spinta anche la pelle sottile dagli ematomi ha la forza per sopportare la ribellione. Vi offro la mia voce libera e complice. Ditelo con me: l’amore che fa sanguinare le labbra ha il nome sbagliato. L’amore che fracassa i denti l’amore che ti fa quando non vuoi l’amore che ti manda in corto il cervello l’amore a cui piaci bambola rotta l’amore che ti scioglie il naso e ti incolla gli occhi ha il nome sbagliato. Ribattezzalo. gno dell’acquario. È tra i fondatori del collettivo letterario “Bibbia d’asfalto”, è responsabile della collana di narrativa “Vertigini” per Matisklo Edizioni. Suoi testi sono presenti in varie antologie (Nagasaki Lunapark, Guada- *[Antonella Lucchini nasce a Mantova, dove tuttora risiede, nell’aprile del 1964. Inizia a scrivere quat- gnare soldi dal caos, I ragazzi non vogliono smettere). tro anni fa, prima interessandosi alla poetica haiku, per dedicarsi poi completamente alla poesia tradiziona- Il suo ultimo libro è “Cartoline da un paese in dismis- le. Agli inizi del 2013 pubblica la sua prima raccolta, “Tra morsi e strida”, per la casa editrice REI. “Il mar- sione”, Edizioni La Gru. Da grande vuole fare il pirata.] gine bianco” (Ed. Divinafollia) è la sua seconda raccolta, con la quale focalizza lo sguardo su Amore ed Eros.] 23 luca ispani flavio scaloni Luca Ispani ci porta negli ambienti asfittici e dolorosi della realtà manicomiale. Sembra di tornare all’epoca Il testo di Flavio Scaloni è costruito semanticamente e obliquamente sulla parola ordigno. Una parola che tristemente nota ante-Legge Basaglia, nelle stanze anguste e dimenticate già raccontate da Merini e filma- concentra su di sè richiami e suggestioni dalla forte valenza politica e sovversiva, e che l’autore sa usare te nei documentari di Silvano Agosti. Questo componimento crudo e visivo ci esorta a ricordare l’esperien- bene per richiamare l’attenzione del lettore fin dall’inizio: “Chissà se qualcuno sospetta... che nella borsa za di emarginazione vissuta da pazienti trattati alla stregua di detenuti nelle peggiori carceri. porto un ordigno”. La poesia si snoda attraverso inversioni, straniamenti, ridondanze e come “discorso del rovesciamento” mai definito e forte di questa stessa ambiguità che porta il lettore ad interrogarsi sul tipo di [Flavio Scaloni] OSSA Arterie ristrette al fumo che gratta le pareti umide leggere le scritte e i requiem le dita rotte. L’asfissia del manicomio attende il sonno eterno delle costrizioni mi ci aggrappo crepando le labbra gonfie le gambe viola. Le sbarre incatenano pensieri hanno paura a nascondersi solo latrati, urla lacrime rigettare alle guardie lo sguardo sadico alla ricerca del punto debole. 24 Si vive in una pentola insieme alle ossa scuoiate La carne per un brodo insipido sa di vita l’abbandono Il continuo arrampicarsi ad alberi invisibili la melma rimane alta cercando di strappare aliti di esistenza. *[Luca Ispani nasce a Modena il 19 maggio 1979. Entra Ho scritto “io ci sono stato” in verità pago la dannazione di esser nato ora l’ora d’aria volge al termine progetto del collettivo “Poetineranti”che si propone di ben presto a contatto con la poesia e se ne innamora, cominciando a scriverla. Adora i temi legati al sociale, al disagio, ai ceti meno abbienti e a soli 8 anni vince il primo premio presso un concorso giovanile in Veneto. Inverso>>> ordigno che maneggia l’io del poeta. Che sia tautologicamente la Poesia? [Letizia Leone] Chissà se qualcuno sospetta stasera in Via Morgagni che nella borsa porto un ordigno. Chissà se qualcuno ha visto i signori del tavolo affianco farsi il segno della croce ad ogni portata e parlare sommessamente delle decisioni dello zio. Se me lo chiedessero il mio ordigno lo tirerei fuori lo farei vedere parlerei di chi lo ha confezionato e decripterei il codice. Al massimo resuscita qualche morto apparente. Per così poco non gli dedicano neanche un trafiletto in cronaca rosa. Gli ordigni dei signori del tavolo affianco ammazzano persino topi e gechi. Giustamente ne parlano tutti i quotidiani. I signori del tavolo affianco hanno ordinato il maialino arrosto. Avranno ammazzato loro pure quello. Devolve gran parte dei suoi proventi in beneficenza ed è sempre attivo in progetti benefici dove la poesia possa essere d’aiuto. Da qualche mese si identifica nel condividere poesia ovunque,dalle carceri ai bar, ai teatri. Nel 2015 pubblica “Urlare il nulla” la sua prima raccolta poetica pubblicata con una casa editrice nazionale.] I signori del tavolo affianco dei loro ordigni mica ne parlano e anche se interrogati negano. Il mio ordigno non ammazza nessuno. *[Flavio Scaloni è il direttore responsabile di DiwaliRivista Contaminata. La sua prima raccolta di poesia ‘Stella di Seta’ è edita da Genesi Editore. Nel 2015 pubblica la sua seconda raccolta ‘Mantra della Sera’.] 25 andrea borrelli In Marino Santalucia il “SussUrlo”, grido di rivolta e malessere intimo, si fa esistenziale quasi sottofondo di Nelle strofe lunghe e dal ritmo serrato di Andrea Borrelli riecheggiano i dati di una realtà in disfacimento. accompagnamento a chi non crede “all’equilibrio dell’anima”. Il contraccolpo delle crisi e degli orrori mondiali giunge “per le strade delle nostre capitali” filtrato dal cini- E in questo testo il verso pare si sia scarnificato e abbreviato alla ricerca di una parola vera. Una parola non smo dei nostri piccoli emblemi quotidiani. Così Borrelli nei suoi versi rimescola sapientemente i miti di “ple- sporcata dalla retorica e dalle manomissioni della chiacchiera, fino alla strofa di chiusura che pare definitiva xiglas” di questa società del profitto ormai fallito (“dai tacchi a spillo rotti” alla “faccia in chirurgia estetica nel ribadire un allontanamento risolutivo con “un biglietto di sola andata”. anestetizzata”) in una lunga parabola di scrittura critica e metaforica. Scrittura densamente espressiva che Un rifiuto delle apparenze, dei “visi corretti” e delle “parole di circostanza” di chi contrasta per mezzo della denuncia una impossibilità attraverso l’uso di immagini suggestive. poesia il sempre più diffuso conformismo del “politically correct”. [Letizia Leone] NATO DA UN URLO Credo nell’eternità della parola nelle vecchie istantanee nell’erbacce che non muoiono nei traditori, che traditori non lo sono affatto. Comprerò un biglietto di sola andata. Questa notte comprerò un biglietto di sola andata e avrò ingannato i colori del buio. Non credo nell’alloro e gli applausi nei visi corretti nelle parole di circostanza nell’equilibrio dell’anima. Nasco da un urlo dal fondo di una lacrima da un battito appena accennato da un alone di fiamma. Inverso>>> Marino santalucia [Letizia Leone] CEP Rimando a voi La scelta nei cortili bui delle case popolari Sotto i portici i lampioni con le lampade rotte La pioggia di sassi sugli uomini in tuta blu te la ricordi? Nei pozzi luce dei condomini si gettava l’immondizia Quel giorno per le strade di Fort Apache Gironzolava un cavallo bianco con le macchie marroni Gli zoccoli duri sbattevano sull’asfalto rotto Sotto il ponte dell’autostrada aveva fatto il cacatoio Hai presente quando si staccava i pezzi di fumo con i denti? Vennero a prenderlo Cercarono ma non ci riuscirono perché erano in trenta A difenderlo Il cavallo però riuscirono a portarselo via Lui dovette aspettare qualche anno ancora Prima di trovarsi un buco in testa Lo sparo della disperazione di chi aveva di fronte Dalla parte di quale me da odiare o santificare resteremo questa volta? *[Marino Santalucia fa parte dell’ONG “Emergency” dal 2004. Nel 2010 ha pubblicato la silloge poetica Versi Riversi, Giulio Perrone Editore. Suoi testi sono inseriti in diverse antologie (Edizioni Progetto Cultura, Edizioni Ursini, Opposto. net, Fusibilia Libri, e Lietocolle Editore). Nel 2011 partecipa a “Teatri di Vetro Festival Ammaro Amore”, alla “Settimana della Poesia di Eboli” ed alla “Prima Edizione Mare in Vista Cultura”. Nel febbraio 2014 pubblica “Gli angoli del corpo” edito da Edizioni MontaG nella collana “Le Chimere”.] 26 27 Shar Danus LAMI Muto il silenzio muta In rumore dei corpi E colpi Di tacchi a spillo rotti Sai di ancora scarpe basse Nelle mie immagini E hai frantumati sogni Di te visti indossati In alto colli affusolati Mi trovi a guardare Come muoiono, ripeto Duemila morti Dirai destinati Non proprio carne da macello Oltre il sudovest sahariano Mi fa sempre più paura il palanchino Appoggiato sul muretto del vicino Il terrore di manciate d’uomini Trafitti da sacri kalashnikov Ti fa cullare in fondo C’è solo panico ora Per le strade di qualsiasi capitale Poi tranquillo l’ansia è sempre lì Che saprà desiderare Di ritorno al giro mentre mi scaldo Butto pellet in un finto camino Lontano spengo scuse Con un pulsante Gongolo nel vuoto Alternando con il respiro Sensi di fortuna E vacuità formale Tutto nel normale Essenziale modo di vita pronunciata Da una parte della faccia in chirurgia estetica anestetizzata. Shar Danus attraverso i suoi versi racchiusi nel fraseggio di terzine limpide ci ricolloca nel cuore di un dramma, quello del conflitto israelo-palestinese, una delle guerre più lunghe e sanguinose. Il testo aderente alla cruda cronaca dei fatti è di forte impatto visivo essendo il dato simbolico concentrato sul colore delle magliette dei bambini che giocano sulla spiaggia di Gaza: “Corrono tre magliette colorate”... Qui si riesce ad evocare l’emozione e il dolore attraverso la descrizione del gioco spensierato dei bambini palestinesi che verrano uccisi da un missile sulla spiaggia: “come si può giocare / al gioco del nascondino / s’una sparuta spiaggia?” [Letizia Leone] UNA TANA A GAZA Corrono quattro magliette colorate sulla lingua di sabbia a Gaza. Muhammad amava gli argini e i confini e gli orizzonti: scelse la scogliera. Una era verde fertile l’altra di pace bianca la terza era rossa martire. Ahed, quattrocchi pallidi, gli indicò il mare e urlò: “fai come si fa quando Chiese Ismail, più piccolo la magliettina nera di Palestina affranta: vai con i tuoi a pesca, infilati nel mare infido tra l’ombra e la sua onda..”. “Come si può giocare al gioco del nascondino s’una sparuta spiaggia?” Dal largo finì la conta - l’artiglieria israeliana e, con fragore, fu per tutti e quattro “tana”. Zakhari fiondò s’un tronco marcio, tra le barche: correva al suo rifugio. *[Andrea Borrelli nasce in un piccolo paesino della Puglia, affascinato dal mondo della poesia ha collaborato con il col- *[Shar Danus è un Ammiraglio di Lungo Corso che, a modo suo, naviga in mari poco conosciuti. lettivo Nucleo Negazioni alla creazione di varie raccolte, pubblicate sia in forma di ebook, sia in forma cartacea. Ha par- L’autore preferisce rimanere nell’anonimato per poter motivi personali e professionali.] tecipato con poesie e racconti a varie antologie e riviste (Carrascosa Project, Pastiche, Bibbia D’Asfalto, Six Rules - Universi Narrativi Plastici).] 28 29 il focus di Gli Haiku Konishi Raizan Il talento precoce Dona Amati Inverso>>> Percorrendo il viaggio tra i ‘meridiani e paralleli’ della poesia, in questo numero della rubrica dedicata agli haiku ci soffermiamo sulla loro terra di origine con la lettura di un haijin giapponese. Konishi Raizan (1654-1716) è stato un importante poeta haiku del periodo Genroku, a cavallo tra il XVII e XVIII secolo. Nacque a Osaka in Giappone, figlio di un mercante di erbe officinali alla cui morte Konishi aveva appena nove anni. Di talento precoce, iniziò a scrivere haiku già all’età di sette anni rivelando una notevole dote poetica, il cui stile si maturò verso contenuti espressi con grande immediatezza. A venticinque anni incontrò il suo mentore Saikaku e fu inoltre discepolo di Nishiyama Soin. La sua prima moglie scomparve dopo tre anni di matrimonio che Konishi affrontò in età matura a cinquantuno anni. Si risposò nuovamente a cinquantasette anni ed ebbe due figli, il più grande dei quali morì infante ad un anno di età. Alcune sue opere furono pubblicate postume nel 1734, nell’antologia Imamiyagusa. Dona Amati Guardando indietro, freddi in questo tramonto i ciliegi di montagna. Alzo il capo e vedo me sdraiato nel freddo. Nei campi di neve intensissimo il verde delle erbe nuove. Bianchetti: un movimento nel colore dell’acqua. 30 Pioggia di primavera: riflessa negli occhi bovini che non la vedono. Piantatrici di riso: non è infangato solo il loro canto. Dalla porta nel retro nel brodo raffreddato il riflesso della macchia di bambù. 31 Francesca Petrangeli La cordigliera si stende silenziosa a proteggere la sua valle di sassi e di pattume Che faccio? La scatto o non la scatto? il suo ventre di arsura L’immagine che vedo nel mirino già non più antico e più povero di un dio è più la stessa che videro i miei occhi, già che risuona di canti sento distinta l’eco dell’otturatore che in a lui dedicati in lingue remote un solo colpo ha immortalato e ucciso suggestione di un popolo quell’istante, quel dolore e quella gioia o, assetato e devoto. al meglio, li ha inquinati, trasformando quel sorriso in un lamento, quel lamento in un urlo, quell’urlo in uno sguardo che parla mille lingue ma non quella di chi non vuol sentire. E intanto il sussulto di un pulsante ha rubato per sempre quel candore e, Scrissi queste parole di getto attraversando una delle valli dell’interno della Siria nel maggio del 2000; sono molti anni fa, prima dell’11 settembre, prima dell’Isis, prima che il Medioriente diventasse sinonimo di integralismo e guerra, inaccessibile ai turisti occidentali; ho avuto la fortuna di visitare un paese vario e bellissimo e purtroppo molte delle cose che ho visto oggi non esistono più. Della Siria ricordo la varietà geografica e umana: cristiani ortodossi e musulmani, montagne e deserti, tutto si alternava in armonia, tutto conviveva. La bambina vestita di bianco festeggiava la pasqua, fuori dalla chiesa vendevano pulcini tinti di colori pastello, i bambini erano in gita scolastica in un sito archeologico e correvano fra le rovine, si volevano far fotografare, la coppia passeggiava all’interno di una grande moschea dove per entrare mi fecero indossare una tunica con un cappuccio, mi ricordo che la sensazione di non essere guardata era piacevole al contrario di quanto pensiamo dei veli che coprono il capo, a me dava una sensazione di pace…tutte queste sono solo le suggestioni di una ragazza che traversava incosciente un paese che di lì a poco sarebbe stato rivoluzionato e chiuso al mondo esterno e non vogliono essere un giudizio politico o umano. Mi sembrava doveroso condividere queste suggestioni ora che non abbiamo facilmente la possibilità di visitare quei posti. Instante>>> Instante>>> come un doppiatore, presta una voce e un’interpretazione sussurrando speranzoso il suo messaggio. Pietro Bomba 32 33 Instante>>> <<<InstantE *[Francesca Petrangeli, nata a roma nel 1979, si è avvicinata alla fotografia nei tempi del liceo e a quanto pare ancora non se ne è distaccata. Oggi lavora come truccatrice per la moda, pubblicità e video su set nazionali e internazionali ma quando può torna alla sua prima passione: la fotografia.] 34 35 <<<InstantE veronica adriani Instante>>> Coltivare e vendere il cacao in tutto il mondo: è la rivincita del popolo indigeno dei Kuna sui trafficanti di cocaina. Perseguitati e uccisi dai narcos che battevano la rotta dell’America centrale attraversando il loro territorio nativo, la riserva del Resguardo Arquìa al confine tra Colombia e Panama, costretti alla diaspora nella foresta amazzonica e all’isolamento per sfuggire alle rappresaglie che nel 2003 culminavano con l’assassinio del leader della comunità. Incentivati da un programma Onu i Kuna hanno cercato riscatto nel cacao, elemento che è da sempre alla base dell’alimentazione, della cultura e dei rituali della popolazione. Gli alberi da frutto che crescevano spontanei determinando una produzione da sussistenza hanno iniziato ad essere coltivati in maniera intensiva, in pochi mesi è nata una cooperativa che punta a incrementare i volumi mantenendo altissimi i livelli della qualità. La rotta commerciale ha permesso ai Kuna di scavarsi un nuovo sentiero per uscire dalla foresta, oltre le rotte dei narcotrafficanti e oltre il confine tra Panama e la Colombia, per giungere fino nel cuore dell’Europa al mercato dolciario dell’Austria. *[Terminati gli studi universitari in cinematografia, l’interesse verso le differenze culturali e le abitudini quotidiane, ha spinto Veronica Adriani a cercare paesi diversi dove vivere, Canada, Spagna, Venezuela e USA con esperienze di lavoro diverse. Studia fotografia a Roma, approda a New York con un internship nell’agenzia Magnum, collabora con il laboratorio di stampa e sviluppo fotografico b/n, MV Photo Lab, di Jim Megargee & Cornelia Van der Linde a seguito di queste esperienze inizia a portare avanti progetti fotografici a lungo termine. www.veronicadriani.com] 36 37 Instante>>> andrès leon baldelli “So there’s a story about the lady in Louisiana She’s a flood survivor and the rescue teams They come through, and they, I guess tryna recover people And they see this women she’s wadin through the streets I guess it’d been some time after the storm And I guess they were shocked that you know she was alive And rescue worker said, “So, oh my God h-how did you survive How did you do it? Where’ve you been?” And she said, “Where I been? Where you been?” Hah, Where you been? You understand? That’s about the size of it” “Dollar Day”, Mos Def *[Andrès Leon Baldelli nasce a Roma e cresce cittadino del mondo. I suoi studi di dottorato e la sua carriera da ricercatore in meccanica teorica lo portano a Parigi prima, negli U.S.A. poi, a Cambridge (UK) attualmente. Instante>>> The Ninth Ward a New Orleans. La macchina fotografica e il suo occhio critico lo seguono in tutti gli angoli del globo.] 38 39 <<<InstantE Instante>>> Instante>>> 40 41 <<<InstantE Miloje SAvic The Lungs of Addis Instante>>> The mountain Entoto is north of Addis Ababa (Ethiopia): it is the local hill where folks go to escape hot days in the city and visit local churches and monasteries. On the way to St. Raguel (Raphael) monastery, unexpectedly a mint scent becomes stronger and stronger. The entire mountain is actually covered with eucalyptus trees the so called ‘Lungs of Addis’ (and one needs strong lungs to survive the air pollution in the nearby city). All the way long you will come across hard working women packing huge piles of branches and carrying them on their back. Blazing sun does not help. Their irresistible and apparently inexplicable smile –to which the camera surrenders– makes the heavy load, probably worth less than a US dollar, look as the most precious good of the area. *[Miloje Savic nasce in Serbia, studia in UK, diventa cittadino del mondo. Si muove tra Stati Uniti ed Europa, la macchina fotografica sempre al seguito. L’Italia è uno dei suoi paesi d’elezione ed è spesso a Roma. Ha all’attivo mostre fotografiche a NYC, Belgrado, Manchester. È membro dell’Associazione Americana Haiku.] 42 43 Instante>>> Liza Boschin Ricetta per gamberi da offerta speciale: - prendere un Paese lontano, povero. Consigliamo il Bangladesh. - inondare per metà di acqua salata, distruggendo le dighe che contengono la costa - obbligare i contadini a diventare allevatori di gamberi - ricollocare con la forza chi si oppone Instante>>> - aggiustare di valuta straniera (ma solo per pochi) 44 45 Instante>>> <<<InstantE *[Liza Boschin collabora con la RAI per il programma ‘Presa Diretta’ di Riccardo Iacona su Rai Tre. Liza ha scattato queste fotografie nel dicembre 2014, quando si è recata in Bangladesh per un servizio sulla provenienza dei gamberi tropicali.] 46 47 Inmobile>>> Individuo, coscienza, rivoluzione RAJANISH PANDILI Ogni espressione artistica, che ne sia o meno consapevole, ha radici nel mondo meno, ha effetti “civili”. Trovano spazio in questa rubrica anche performances che rifiutano un impegno politico immediato, ma che nondimeno sono portatrici di un valore di contestazione dell’esistente. Anzi, spesso proprio gli artisti che non intendono veicolare alcun messaggio politico immediato riescono ad essere politicamente incisivi, arrivando una prospettiva nuova sul nostro vivere in società. È questo approccio trasversale, non direttamente politico, che abbiamo privilegiato nella nostra selezione, scegliendo come filo conduttore il rapporto tra l’individuo e l’Altro da sé, che sia l’amato Human Rights? Performance di Christos Alaveras, Christina Foitou & Thodoris Papadimitriou In questione i diritti umani, tema abusato sino all’indifferenza, tanta l’abitudine della domanda. Eppure, Christos Alaveras, Christina Foitou & Thodoris Papadimitriou adottano una prospettiva straniante rispetto alla retorica che si accompagna sempre alle astrazioni della politica, quali diritto e essere umano. Il punto di vista è infatti dato dal punto di intersezione tra coscienza e gesto, da un lato, e immagine (ciò che è rappresentato) e vuoto (l’irrappresentabile che si nasconde), dall’altro. Inmobile>>> reale; e quindi, che ne abbia l’intenzione o Dicono gli artisti a proposito dell’opera: “In this experiential performance, which occurred among close friends, we searched for the inner bond of the individual with the human rights. Christina is facing various sketches depicting aspects of human rights violations. Like the character in Antonioni’s “Blow Up”, she is trying to find what’s behind all this. In all the drama revealed while taking down the sketches on by one, her painted reflection appears in a chaotically drawn synthesis, which later she takes down as well in order to exorcise it with intense gestures, while in the indigo of the cello bewilderment. Christos freezes her repeatedly and with flash-like charcoal lines he imprints her stages of expression on a large surface. Eventually, Christina sweeps on this gestural registration of the penetration to the inner consciousness and stops in a silent position, under the traces of the whole act.” nella coppia, il concittadino nella comunità, lo spettatore in una rappresentazione. Maria Carla Trapani 48 h t t p s : / / w w w. y o u t u b e . c o m / watch?v=ChBOLT3STYE 49 Incontro>>> Inmobile>>> Il soldatino di piombo di Franco Losvizzero & Juan Diego Puerta Lopez con Valentina Versino e la compagnia Progetto JDPL Acquario Romano 17/04/2013 “Ma la smetti?” “Il corpo è mio, decido io che cazzo fare, ok?”. In questo scambio è la chiave di lettura che vi proponiamo per questa performance. Che non è certo di lotta civile, ma essenzialmente politica, nella misura in cui mette in questione il rapporto tra il singolo – specie se donna – e il suo corpo di fronte al radicalmente altro (il pubblico), da un lato, e al radicalmente intimo (ventre materno), dall’altro. Non presenteremo la nuova rubrica. Si h t t p s : / / w w w. y o u t u b e . c o m / watch?v=-wmgilk5X5A non è un’inchiesta. Piuttosto si direbbe presenterà da sé, nello svolgersi stesso dell’inchiesta sulla nostra artista. Ma una precisazione preliminare ci sembra necessaria: un’intervista. Deliberatamente abbiamo messo in atto un détournement semantico, che disarticola e riconfigura il rapporto tra significante e significato. La nuova forma dell’inchiesta, all’apparenza intervista, emergerà in superficie; gli incerti intenti costituiranno la trama del testo, mentre le ragioni andranno guadagnate nelle profondità dell’interrogazione. Tenteremo di non intervistare Anna Laura Longo: nostro intento è fare un’inchiesta sulla sua arte attraverso la sua parola, sulla sua vita attraverso i suoi lapsus… Al bando le domande ordinarie, la costruzione Turning the Earth - A Legacy of Cain Julian Beck, Judith Malina & the Living Theatre, 1975, Pittsburgh’s Northside giornalistico-pubblicitaria: compiremo i primi passi per un’inchiesta inquieta e inquietante. Vogliamo riproporre il video rimasterizzato di una performance storica. Perché, per quanto celebre, quella “Revolution” gridata, ossessivamente ripetuta, di Julian Beck, conserva intatta la sua forza evocativa. Sperando che evochi ancora scenari di cambiamento radicale, come espresso utopicamente dalle avanguardie artistiche della metà degli anni ‘70. Con tutte le inevitabili ricadute nella trita banalità. Maria Carla Trapani https://www.youtube.com/watch ?v=BXKBuTyTY9g&list=PL92B88 75F330052EF 50 51 Anna laura LONGO Incontro>>> Questa ad Anna Laura Longo è la nostra prima inchiesta contaminata. Multisensoriale e riflessiva, teoretica e sensuale, classica e sperimentale, rigorosa ed eccentrica, contemplativa e concreta, complessa e immediata. Varcata la soglia dell’antro dell’artista, questi binomi pulsano in ogni dove: dalle pareti ai divani, dal tavolo ai fornelli, dal letto al pianoforte. Dalle mani agli occhi di Anna Laura. Ho cercato di catturarne i battiti e riprodurli, per i lettori di Diwali. Alla ricerca dell’artista in ogni luogo e in ogni parola, in ogni deviazione della voce. Maria Carla Trapani Performances: Questo è il mese dei radiosi incarnati del suolo (inedita per Diwali – Rivista contaminata; testi di A. L. Longo) Bianche porzioni per dimezzare il molteplice (testi in prosa di W. Kandinsky - testi poetici di A. L. Longo) Foto: Matteo Barale InDICAZIONI>>> Per questo sussUrlo presentiamo due volumi molto diversi tra loro. Il primo è una raccolta di poesie che ripercorre l’intera esperienza poetica di Titos Patrikios: Alessandra Carnovale ci guida in quest’opera pubblicata recentemente da Crocetti e che presenta ai lettori un autore di ampio respiro poco conosciuto in Italia. Il secondo volume è una raccolta di racconti di autori vari, curata da Musiche: J. Cage “three songs” per voce e pianoforte Voce: C. van Wetter Pianoforte: A. L. Longo Riprese e montaggio: Maria Carla Trapani Roma, 10 febbraio 2015 52 Maria Carla Trapani e che ci viene proposta qui dall’editora Dona Amati. Flavio Scaloni 53 <<<InDICAZIONI La resistenza dei fatti di Titos Patrikios “Cerco di chiamare le cose Vorrei inoltre affermare apertamente col loro nome che sono arrivato al punto di detestare e ogni tanto incontro ogni sorta di violenza, di chiunque sia.” nuove difficoltà. Per esempio chiamare la violenza violenza e non intervento di pacificazione (da La violenza, 2000) la violenza dei potenti e dei ricchi, e neppure eccessi inevitabili la violenza dei poveri e degli oppressi. InDICAZIONI>>> (…) Classe 1928, figlio di artisti, Titos Patrikios fa parte di quella generazione che ha vissuto sulla propria pelle l’occupazione nazifascista, la guerra civile e la detenzione nei campi di Makronissos* e Aghios Efstratos (dove incontrò il suo amico e mentore, Iannis Ritsos). Ha poi trascorso oltre 20 anni in esilio a Parigi e Roma, non tornando a stare permanentemente in Grecia fino agli anni ‘80. Avvocato, poeta e traduttore ha speso lunghi periodi della sua vita in Francia e Italia. Nel 2009 è stato premiato nell’ambito della 5a edizione del Festival di poesia civile di Vercelli per il suo libro “La casa e altre poesie”, edito da Interlinea. Temi ricorrenti dell’opera poetica di Patrikios sono la memoria e l’impegno politico e civile. Accanto alla narrazione, che è già di per sé una scelta politica, volta a dar battaglia all’oblio, un atto di resistenza della vita contro la morte, il poeta si sofferma più volte sul sussUrlo dei compagni uccisi e nei confronti dei quali si sente in debito […la pallottola a cui scampai non andò a vuoto/ma colpì l’altro corpo che si trovò al mio posto./ Così, come un dono immeritato, mi fu data la vita, / e tutto il tempo che mi resta/è come se mi fosse stato regalato dai morti/per narrare la loro storia. da Debito, 1957], nel tentativo di dare voce a chi non può o non può più testimoniare. Etichettato come poeta “politico” e “sociale”, Patrikios è considerato il principale rappresentante della cosiddetta “poesia della sconfitta”. In effetti, soprattutto nella fase iniziale, la sua opera è segnata dai traumi collettivi e personali conseguenti all’occupazione nazifascista, alla guerra civile e alla successiva repressione politica: l’inevitabile delusione esistenziale convive con le istanze di cambiamento e con l’utopia di un mondo più giusto, dove la memoria è per il poeta l’unico antidoto all’orrore, un rifugio per l’uomo contemporaneo. 54 il legame con la terra. Nonostante l’impegno politico, tuttavia Patrikios non crede che la poesia, anche quella militante, abbia potere sulla politica o la storia (“…nessun verso oggi può rovesciare regimi”, scrive nel 1957 in Versi, 2, per poi riprendere lo stesso concetto, anni dopo – 1982- in Versi, 3), ma la scrittura, e la scrittura poetica in particolare, è per lui una ricerca di autenticità, un ridare il giusto valore alle parole o come ne I simulacri e le cose (2000) “…Passando in rassegna le cose già accadute/la poesia cerca risposte/a domande non ancora fatte”. Crocetti ci presenta in questa raccolta un poeta “concreto”, che racconta i “fatti” con una scrittura che nulla concede a futili divagazioni o artificiosi abbellimenti letterari, anzi: “La poesia si fa/senza suoni melodiosi/senza colori/ solo con segni bianchi e neri (…) (La poesia si fa, 1992). La resistenza dei fatti è una raccolta che copre, in un lungo excursus, testi dal 1948 (Ritorno alla poesia, 19481951) al 2007 (Il nuovo tracciato, 2000-2007) e attraverso la quale si può seguire il susseguirsi di temi, dai più antichi, Come ha scritto Filippo Maria Pontani nella sua Introduzione a questo volume, per Patrikios la poesia è soprattutto «testimonianza, rimedio all’oblio, inesausta esortazione al ricordo dei compagni uccisi, della barbarie vissuta e mai del tutto debellata, del dolore che non solo lui […] ma tutta una generazione, un popolo, un mondo hanno patito, seppure a vari gradi di coinvolgimento, di consapevolezza, di indignazione». Accanto al ricordo di spie e compagni, la critica alla modernità che vuole cancellare i fatti, la condanna di falsi poeti e raggiri, altri temi: la lingua, il viaggio, l’età, il mito, l’eros. A cui si aggiungono ulteriori aspetti dell’esistenza: le donne, l’amore, i paesaggi dei luoghi che ha visitato o dove è vissuto (l’Italia, la Francia, la Grecia), il ricordo dei genitori, 55 Indicazioni>>> legati alle esperienze politiche [così, ad esempio, in Anni di pietra su Makrionissos : (…) Così imparai quanto pesa la sabbia/com’è dura la pietra che non si spacca/come si sradicano i lentischi e gli spinaporci./La sabbia m’è rimasta in bocca per sempre/la pietra per sempre sul cuore/ gli spini confitti per sempre nelle unghie] fino alle nuove tirannie e i nuovi labirinti della modernità […Ma simulazioni di labirinti,/costruzioni oscure,/continuarono ad essere fatte con nuovi materiali,/con nuovi mostri, vittime, /eroi, sovrani./Si fanno soprattutto labirinti di parole,/ogni anno vi entrano nuove infornate,/ragazzi e ragazzi, con timore e noncuranza/per botole e tranelli, vicoli ciechi,/con l’ambizione di riformare e di rappresentare/l’antico dramma riadattato ai nuovi eventi…, da Storia del labirinto], poesie in cui, dopo aver preso le distanze dalla tradizione e dal mito, l’autore, trovata la propria voce, può tornare a connettersi con l’antichità. La resistenza dei fatti è una raccolta pervasa dalla consapevolezza del cambiamento, dello scorrere del tempo, avendo come unica arma la parola per sottrarre persone e fatti al destino dell’oblio, in uno stile sobrio e asciutto che non indulge mai a forme di autocommiserazione. Unica pecca di questa elegante raccolta: la mancanza del testo originale greco a fronte. Alessandra Carnovale *Piccola isola delle Cicladi, che durante la guerra civile greca e la dittatura dei colonnelli, è stata utilizzata come luogo di esilio di oppositori politici, soprattutto i comunisti. 56 TITOLO La resistenza dei fatti AUTORE Titos Patrikios EDITORE Crocetti PREZZO DI COPERTINA 18,00 € PAGINE 192 ISBN 88-8306-105-5 Notizie sull’autore: Poesie di Patrikios sono state pubblicate in tutti i Paesi europei e in Messico, Cile, Brasile e Egitto. Due sue raccolte sono state tradotte in Francia, una in Germania e un’antologia dei suoi versi è uscita negli Stati Uniti. La resistenza dei fatti è la prima e la piú ampia antologia uscita in Italia. Dei numerosi riconoscimenti ottenuti da Patrikios si ricorda il Grande Premio di Letteratura dello Stato Greco (1994). Nel 2004 il presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi gli ha conferito l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica per il suo contributo allo sviluppo dei rapporti culturali tra l’Italia e la Grecia. Certi libri nascono anche dalla felice intuizione di avere complici adeguate nel trattare percorsi spinosi, come può essere quello di ridiscutere i presunti privilegi di condizioni personali solitamente ambìte. È per questo che, come direttora editoriale, ho pensato a Maria Carla Trapani per la curatela di un progetto letterario che invitasse le donne a raccontare non l’elogio della bellezza, valore celebrato, rincorso, evocato fin dai tempi antichi come uno stato di grazia (basti ricordare Paride che delle tre ricompense offerte dalle dee in competizione proprio per la bellezza a fronte del suo ‘giudizio’, sceglie la donna più bella del mondo), ma che al contrario, descrivessero piuttosto i pur possibili svantaggi, le relazioni nevrotiche , implicate nell’avvenenza, insomma, gli stati di disagio personale e sociale che dalla bellezza possono derivare. Dall’assenso di Maria Carla, sempre pronta a indagare argomenti di trincea e a rimettere in discussione modelli predefiniti, è nato un concorso letterario cui hanno risposto con spirito ed esperienze simili, ma anche opposte, un centinaio di autrici, tutte accomunate dal voler spiegare la controversa relazione con uno dei feticci più celebrati della cultura umana. Dalla selezione accurata dei materiali arrivati in redazione, ventotto racconti tra tragico e ironico, abbiamo composto il volume Sono bella, ma non è colpa mia – L’inconvenienza dell’avvenenza, dando ragione all’idea che ci fosse molto da raccontare sulla bellezza vissuta in modo problematico, stabilendo un contraddittorio con chi definisce da sempre questo status un miraggio da inseguire, quando invece può anche rivelarsi come una ‘torre d’avorio’ di isolamento. La bellezza può, anche, innescare la competizione tra donne, si pensi alla cultura classica e al mito di Psiche contrastata per la sua bellezza da Afrodite, o anche a storie di cinematografica memoria come “Malena”, dove all’avvenenza di una corrisponde la fru- strazione di altre. Ma questa inquietudine non è neanche estranea al ruolo che il potere maschile gioca nel caricare di negatività la sensualità femminile, fino a farne motivo di discriminazione. Anche con questo le donne devono imparare a misurarsi, in quanto troppo spesso si innescano, a partire dall’avvenenza, relazioni faticose e disfunzionali, reazioni nevrotiche, fino a distorsioni della personalità e a condizionamenti comportamentali. La bellezza, una condizione generalmente ambìta, diventa perciò un malessere indotto, una disparità indesiderata. Eppure, non sarebbe giusto assecondare questa dinamica perversa. La bellezza, tanto più se è ricercata e ostentata, quando è frutto di una libera identificazione di genere, deve essere difesa come un diritto, di cui possono e devono godere tutti, liberamente. InDICAZIONI>>> Sono bella, ma non è colpa mia – L’inconvenienza dell’avvenenza AA. VV., a cura di MARIA CARLA TRAPANI 57 InCHINA>>> Indicazioni>>> Voi siete straordinariamente bella, Aglaja Ivanovna. Siete tanto bella che si ha paura a guardarvi. È difficile giudicare la bellezza; non vi sono ancora preparato. La bellezza è un enigma […] tremenda e orribile cosa! Là gli opposti si toccano, là vivono insieme tutte le contraddizioni! Fëdor Dostoevskij Come scrive Maria Carla Trapani nella sua introduzione al volume, “In una società in cui la rappresentazione della ‘carne’ domina l’immaginario, non desta certo stupore che attorno all’esibizione del corpo femminile possano aggrovigliarsi i nodi irrisolti della questione di genere. A volte capita anche che questo corpo, per natura o per scelta, sembri corrispondere ai rigidi canoni di bellezza vigenti. Ecco, considerare invece che questa corrispondenza, apparentemente fortunata, possa essere percepita come un ostacolo alla propria realizzazione, ci può portare a un interessante spostamento del nostro punto di vista abituale. […] Un altro tipo di dolore si sente nelle voci qui raccolte, esso scaturisce dal rifiuto di confrontarsi sul terreno della colpa e della bellezza come strumento: la bellezza viene rivendicata, come un diritto, e la discriminazione non e più subita, ma contestata alla radice. […] Reazione comprensibile e quella della difesa, della discolpa, della propria mancanza di responsabilità per la natura maligna dell’avvenenza. […] L’erotismo è una risorsa che è presente dentro ciascuna di noi. “Sono bella e non e colpa mia”, sembra di sentire, ma la mia mancanza di colpa non è candida innocenza dietro la quale il diavolo si nasconde. La mia mancanza di colpa e rivendicazione del diritto di decidere del mio corpo senza che questo debba comportare alcun giudizio di valore da utilizzare per mutilare la mia capacità di scegliere quanto, e soprattutto come, essere donna. Disporre della propria bellezza, ricercarla, costruirla ed esporla, non è una colpa perché è un diritto. E come tale va rivendicato, da ognuno, che sia donna, uomo o transgender”. Insomma, non è tanto la bellezza “nostro malgrado”, a intimorire, ma la libera scelta, ed è questa libera scelta di essere, che abbiamo chiesto alle donne di raccontare. Dona Amati 58 TITOLO Sono bella, ma non è colpa mia – L’inconvenienza dell’avvenenza AUTORE Aa. Vv. A CURA DI Maria Carla Trapani EDITORE Fusibilia Libri PREZZO DI COPERTINA 15,00 € PAGINE 112 ISBN 9788898649051 59 60