sussUrlo Downloads - Diwali Rivista Contaminata

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sussUrlo Downloads - Diwali Rivista Contaminata
Sussurlo
Numero VIII Inverno 2015
L'Editorial
Sommario
L’Editorial
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InSistenze
4
Quando Boetti e la Arbus si fecero in quattro di Simone Scaloni
5
Fiori vivi senza catene: per una critica artistica e materialistica del 7
MARZO 2015 - n.8- anno 3
gennaio di Maria Carla Trapani
9
L’arte in protesta: l’esperienza sud-africana di Geremia Doria
12
Il freak, la mappa e la bandiera di Simone Scaloni
16
InVerso
20
Davide Cortese
21
Vera Bonaccini
22
Antonella Lucchini
23
Luca Ispani
24
Flavio Scaloni
25
Marino Santalucia
26
Andrea Borrelli
27
Shar Danus
29
Focus: Gli Haiku di Konishi Raizan di Dona Amati
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InStante
32
Francesca Petrangeli
33
Veronica Adriani
36
Andrès Leon Baldelli
39
Miloje Savic
42
Diwali - Rivista Contaminata
Liza Boschin
45
Trimestrale di Arte & Letteratura
InMobile
48
Individuo, Coscienza, Rivoluzione di Rajanish Pandili
49
InContro 51
Anna Laura Longo 52
InDicazioni
53
La resistenza dei fatti di Titos Patrikios
54
Sono bella, ma non è colpa mia di Aa. Vv.
57
InChina 59
www.rivistadiwali.it
Direttore Editoriale
Maria Carla Trapani
Direttore Responsabile
Flavio Scaloni
Redazione
Dona Amati, Pietro Bomba, Alessandra Carnovale,
Laura Di Marco, Mario Lucio Falcone, Giulio Gonella,
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Ufficio Stampa
Les Mots Contaminés
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Edizioni Les Mots Contaminés
Associazione culturale no-profit
20, Rue Condorcet, 38000, Grenoble - Francia
La tentazione è forte per chi crede di scalare le vette più
alte, di accomodarsi sulla cima. E di limitarsi a guardare,
magari con sdegno compiaciuto, le lacrime a valle. Nell’illusione che la distanza guadagnata con l’altezza metta al
riparo da ogni responsabilità terrena. Ma il XX secolo l’ha
mostrato in tutta la sua drammaticità. L’arte non può cancellare la propria costituzione nello spazio sociale, così
come non può ignorare gli effetti che produce in questo
stesso spazio. Ignorando le proprie radici mondane e il
proprio potere reale, l’arte non fa altro che rendersi complice di ciò che accade. Dopo l’immane tragedia delle due
guerre mondiali, l’artista sa bene che limitandosi a guardare, appone la sua firma ai decreti del potere. E la sua
responsabilità non si riduce alla generica implicazione nel-
le faccende umane che riguarda tutti noi dal momento in
cui veniamo al mondo. Se una volta nati non possiamo
più nasconderci, per l’artista questo va inteso in un senso specifico. L’arte lavora sull’immaginario, contribuisce
a forgiare quel sistema di rappresentazioni attraverso il
quale agiamo nel mondo. È anzi questo sistema a fare da
fondamento alla prassi politica. Le immagini sono dunque
molto più di un piacere estetico. Ogni singolo tratto che
l’artista vi aggiunge, è nella sua essenza un’azione politica
in potenza. In questo numero di Diwali abbiamo raccolto
contributi di artisti che non si illudono che l’aria rarefatta
della creazione metta al riparo dalle raffiche del vento delle
lotte, e che prendono per questo sul serio il potere di ogni
singolo tratto che disegnano.
Diwali - Rivista Contaminata
Mario Lucio Falcone
ISSN 2275-0606
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Insistenze>>>
Quale può essere il legame tra una fotografa di moda del Greenvich
Village ed un conte piemontese imprenditore alberghiero? E che
cosa unisce i funesti eventi di Parigi, 7 gennaio 2015, alla lotta contro la segregazione razziale Sudafricana?
QUANDO BOETTI E LA ARBUS SI FECERO IN
QUATTRO
Simone scaloni
Doppelgänger: il tema del doppio, così popolare nell’arte (si pensi,
ad esempio, a Lo strano caso del Dottor Jekyll e Mr. Hyde di R. L.
Stevenson o a Il sosia di Dostoevskij, solo per citarne un paio) vieDiwali, attraverso i ripetuti sdoppiamenti a cui sono andati incontro,
nella loro esperienza artistica ed esistenziale, due figure parallele, la
newyorchese Diane Arbus, fotografa di moda e ritrattista di soggetti disagiati, e Alighiero (e) Boetti, conte piemontese, imprenditore
e artista concettuale, che nelle sue opere più famose riproduce se
stesso sdoppiato e addirittura triplicato (in Mappa). Due figure centrali dell’arte della seconda metà del Novecento, che si sono spinte
al limite dal punto di vista della sperimentazione e della vita, fino al
burn out o al suicidio.
Doppia è anche la funzione della religione nell’analisi marxiana che
Maria Carla Trapani amplia e ripropone come radice per comprendere i recenti eventi parigini ed il fenomeno conseguente Je
suis Charlie: espressione della miseria reale e protesta contro questa
stessa, quasi una forma di arte contestatrice e coscienza capovolta
del mondo. Attraverso tale via la critica all’Islam può diventare critica
delle condizioni materiali alla base della sua nascita e diffusione, ma
non delle sue rappresentazioni, che costituiscono un’espressione
delle esigenze spirituali dell’uomo, da liberare dalla mistificazione e
non da annullare.
Di protesta contro determinate condizioni materiali, più specificatamente l’apartheid in Sud Africa, ci parla anche Geremia Doria con
la sua rassegna sugli esponenti di quella che è stata definita Resistance Art nelle sue molteplici sfaccettature.
L’arte deve confortare il disturbato e disturbare il comodo. (Banksy)
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Alessandra Carnovale
Se negli anni Sessanta aveste fatto un viaggio in America,
più esattamente a New York, e vi foste attardati a passeggiare lungo le avenues di Manhattan o sotto gli aceri e
gli olmi di Central Park, non è escluso che avreste potuto
imbattervi in una fotografa armata di una Mamiya o di una
Rolleiflex con un grosso flash che, con sensibilità e savoir
faire, se aveste destato la sua curiosità, probabilmente vi
avrebbe convinto a posare per lei. Questa quarantenne
inquieta e solitaria, questa donna sottile con la minigonna
e i capelli a spazzola, autentica beatnik sempre in bilico
tra lo scintillante mondo della moda in cui lavorava e la
cultura beat del Greenwich Village in cui abitava, era Diane Arbus.
Soltanto qualche anno prima, ad esempio verso la metà
degli anni Cinquanta, un incontro del genere sarebbe stato assai più difficile. In quel periodo, infatti, la Arbus trascorreva la maggior parte del tempo a scattare fotografie
al chiuso di atelier di moda, teatri di posa e set cinematografici. Il suo pane quotidiano erano dunque attori e modelle che però, sta di fatto, non furono mai particolarmente contenti del modo in cui Arbus li rendeva immortali.
Tuttavia, a un certo punto della sua ormai avviata carriera,
uno scatto forse di troppo, come un clic e un tuono, dovette esserle fatale dal momento che qualcos’altro scattò
irreversibilmente dentro di lei. Per qualche ragione la Arbus si tolse l’abito che indossava e infilò una pelliccia (fur
in inglese), tornando ad essere un anatroccolo dal cigno
che era (o che avrebbe potuto essere), o già farfalla rifacendosi crisalide. Si tagliò i capelli da maschio, appunto
come un anatroccolo, e si sdoppiò. Già intorno al 1960
Diane Arbus si era trasformata in un’altra persona. Iniziò
allora, e non smise più per undici anni consecutivi, a ritrarre persone apparentemente normali ma il più delle volte
segnate da un inquietante disagio esistenziale, e soggetti
ai margini della società (borderline e dropout, diremmo
oggi) come freaks, nani, spogliarelliste, acrobati, giocolieri, fenomeni da baraccone ambulante, alienati mentali,
dementi e handicappati.
Non fu certo la prima a cimentarsi nel ritratto fotografico di
soggetti così fuori dell’ordinario. Prima di lei ci avevano già
pensato, fra gli altri, Weegee e Brassai. Ma anche Lewis
Hine, Bill Brandt, Dorothea Lange e Ben Shahn si erano
pionieristicamente misurati con quella che venne poi definita la fotografia-documento. Gli stessi Walker Evans (collega e ammiratore che stimava la Arbus e la incoraggiava a
proseguire nella sua ricerca estetica) e Lisette Model (amica e insegnante che tra il 1956 e il 1957, oltre ad introdurla
all’opera di August Sander, fece per lei da figura-cerniera
nel momento del passaggio da una personalità artistica a
Insistenze>>>
ne riproposto da Simone Scaloni, in questo numero SussUrlato di
5
Insistenze>>>
un’altra) con il loro lavoro si occupavano di documentare
tematiche sociali affini, più o meno attinenti alle stesse categorie umane. Qualche tempo dopo si sarebbe dedicato
a soggetti analoghi anche Stanley Kubrick, un altro amico
della Arbus che negli stessi anni muoveva i primi passi nel
mondo della fotografia e che in seguito, divenuto un regista acclamato, tanto l’avrebbe omaggiata in più d’uno dei
suoi celebri capolavori cinematografici. Come ad esempio in The Shining del 1980 (e non solo nelle sequenze in
cui le due gemelle, simbolo archetipico della personalità
dissociata, appaiono nei corridoi dell’allucinante Overlook Hotel, quanto più probabilmente nell’intera pellicola),
e forse anche in Eyes Wide Shut del 1999, l’ultima fatica
dell’autore, nel tema portante della festa in maschera e
quindi ancora del doppio o della scissione identitaria. Ma,
a differenza degli illustri colleghi, nel suo procedere la Arbus sembrava tormentata da un fuoco di altra natura e finì
con l’accanirsi sull’acceleratore della propria arte fino al
punto di non ritorno.
Cosa le era successo? Cos’era stato a determinare una
deviazione di rotta così radicale che con tanta evidenza
si sarebbe poi impressa nella produzione fotografica suc-
<<<Insistenze
cessiva fino al 1971, l’anno della sua tragica scomparsa?
Di sicuro il clima politico e sociale dell’epoca e la generale
atmosfera hippie di quel periodo (in cui scendere in piazza
e vivere on the road con gli altri e per gli altri erano diventati una consuetudine diffusa non soltanto negli Stati Uniti)
giocarono un ruolo decisivo e contribuirono all’attivazione
di questo processo di apertura ed espansione dei propri
orizzonti individuali. Ma nel caso della Arbus, con ogni evidenza, le cause reali che innescarono la trasformazione
furono altre. Si erano risvegliate forze oscure molto più
profonde.
Diane Nemerov nasce a New York all’inizio degli anni Venti
in una ricca famiglia ebrea di origini polacche, proprietaria
della catena di negozi di pellicce Russek’s. Il padre David,
dopo aver lasciato la presidenza dell’azienda di famiglia
nel 1957, si mette a fare il pittore conseguendo un discreto successo commerciale. Diane è la seconda di tre figli.
Il fratello maggiore Howard, più grande di tre anni, diventerà famoso come uno dei maggiori poeti americani del
Novecento, mentre la sorella minore Renée farà la scultrice. A 12 anni il padre manda Diane a scuola di disegno
da Dorothy Thompson, una dipendente di Russek’s, che
le insegnerà ad apprezzare gli acquerelli di George Grosz
del quale era stata allieva. A 14 conosce e si innamora di
un altro commesso di Russek’s, Allan Arbus, che sposerà
quattro anni dopo, nel 1941. Diane ha soltanto 18 anni.
Trascorrono altri quattro anni e nel 1945 Diane dà alla luce
la sua prima figlia, Doon. Sempre nel 1945 ha inizio il vero
e proprio sodalizio artistico tra Allan e Diane cha da questo momento in poi lavoreranno sempre insieme come
fotografi di moda per le più importanti riviste del settore
come Glamour, Vogue, Harper’s Bazaar. Tra i colleghi vi è
anche Richard Avedon.
Nel 1947 Diane studia per un breve periodo con Berenice
Abbott. Sette anni dopo, nel 1954, nasce la seconda figlia, Amy. È in questo periodo che Diane conosce Stanley
Kubrick, giovane fotografo alle prime armi, e approfondisce ulteriormente lo studio della fotografia con Alexey
Brodovitch. Nel biennio 1956-1957 Diane studia con Lisette Model che rappresenterà per lei il vero trampolino di
lancio nella sua ricerca artistica personale. Nel 1958 Allan
e Diane conoscono Robert Frank e sua moglie Mary nel
pieno delle riprese del film Pull My Daisy, di cui Frank è il
Pagina 5: Diane Arbus, Rhode Island School of Design, 1970 (fotografia
di Stephen Frank)
Di lato: Diane Arbus, Identical Twins, Roselle, N.J., 1967
Pagina 8: Alighiero Boetti, Gemelli, 1968
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regista, che presto diventerà il film-manifesto della cultura
beat e di tutta la beat generation. Ma in questi anni il matrimonio va in crisi e nel 1959 Allan e Diane si separano ufficialmente (divorzieranno dieci anni dopo, nel 1969). Nello stesso arco di tempo, cioè tra il 1957 e il 1960, Diane
scopre l’Hubert’s Museum, una sorta di strano baraccone
delle meraviglie (in pratica un teatro di freakshow), situato
all’angolo fra la 42ma strada e Broadway, dove si esibiscono figure eccentriche e fuori dal comune che la Arbus
fotograferà spesso nel corso degli anni a venire. Un altro
luogo in cui la Arbus si reca frequentemente è il Club 82
situato nella lower Manhattan e popolato, anche questo,
da una serie di personaggi molto particolari. Per giungere,
negli ultimi tempi, a ritrarre nudisti, prostitute e frequentatori di bordelli.
Il 26 luglio del 1971, nel giorno del 43° compleanno dell’amico Stanley Kubrick allora impegnato nella realizzazione
del suo A Clockwork Orange (Arancia Meccanica), Diane
Arbus si suicida ingerendo una dose massiccia di barbiturici e tagliandosi le vene dei polsi nella vasca da bagno
del suo appartamento del Greenwich Village a New York.
La troveranno un paio di giorni più tardi, già in avanzato
stato di decomposizione. Aveva sempre sofferto di crisi
depressive nel corso di tutta la vita e, in una sorta di sdoppiamento ormai avvenuto e vissuto come irreversibile, non
aveva più voluto abbandonare il cognome del marito Allan
anche dopo il divorzio.
Tornando indietro di due o tre anni, precisamente alla primavera del 1968, in Italia un giovane artista di Torino spediva a una cinquantina di amici una cartolina postale da
lui intitolata Gemelli che, attraverso un accurato fotomontaggio, mostrava l’autore dell’opera per mano a un altro
se stesso, in uno sdoppiamento perfettamente speculare.
Duplicazione dell’identità confermata dall’enigmatica ma
eloquente intuizione dell’artista di interporre la lettera E tra
il suo nome e il suo cognome e, sempre in quello stesso
1968, di intitolare Shaman Showman una sua personale
alla Galleria de Nieubourg di Milano.
A fare tutto questo era l’allora ventottenne Alighiero Boetti, un conte piemontese tenebroso e scapigliato, già
membro della corrente artistica italiana detta Arte Povera
poi confluita in quella Concettuale, che dal 1972 in poi
prese definitivamente a firmarsi Alighiero e Boetti. Di lì a
qualche anno, nel corso del processo creativo di una delle
sue opere più famose (la Mappa), sarebbe infine arrivato
non solo a sdoppiarsi ma addirittura a triplicarsi, rispettivamente, in un bambino che ricalca le figure dai giornali
(nello specifico, le sagome delle nazioni prese dal quoti-
diano torinese La Stampa), in un imprenditore alberghiero
all’estero e in una ricamatrice afghana.
Il 15 marzo del 1971 Alighiero Boetti, un po’ per caso, parte
per la prima volta per l’Afghanistan. Vi rimarrà per più di un
mese e presto inizierà a considerare questo Paese la sua
seconda patria. Circa quattro mesi dopo, il 26 luglio, Diane
Arbus si toglie la vita nel suo appartamento del Greenwich
Village a New York. A settembre Boetti è nuovamente in
Afghanistan, in questo secondo viaggio accompagnato
dalla moglie. Qui, in un ulteriore sdoppiamento, scinde il
suo nome di battesimo in Alì Ghiero, contestualizzandolo al luogo in cui si trova. Ha con sé il progetto dell’opera
Mappa, cioè il planisfero del globo terrestre sul quale ogni
nazione verrà poi tessuta con i colori della propria bandiera. A Kabul Boetti inizia subito a intrecciare relazioni con la
popolazione locale e, improvvisandosi imprenditore alberghiero, nel quartiere residenziale di Sharanaw apre il One
Hotel che diventerà la sua residenza afghana.
Nell’aprile dell’anno seguente, il 1972, Boetti partecipa alla
mostra collettiva intitolata De Europa che si tiene presso la
Galleria John Weber di New York. In autunno Boetti lascia
la sua Torino e si trasferisce a Roma. Andrà ad abitare in
un bell’appartamento con lo studio le cui finestre danno
sul campanile di Santa Maria in Trastevere. È in questo periodo che l’artista ratifica ufficialmente la decisione presa
quattro anni prima di firmarsi Alighiero e Boetti, formalizzando in maniera definitiva lo sdoppiamento simbolico tra
la sfera privata rappresentata dal nome e la sfera pubblica
rappresentata dal cognome.
In estate, in occasione della XXXVI edizione della Biennale di Venezia, Gino De Dominicis, un artista marchigiano anch’egli attivo in quegli anni e ancora oggi molto discusso, si era presentato in mostra con il suo atemporale
e arbusianamente aristocratico ragazzo down seduto in
un angolo, ovvero la 2° Soluzione di Immortalità. A quella
stessa Biennale del 1972 il pubblico ammirò anche i ritratti fotografici di Diane Arbus che, a un anno esatto dalla scomparsa, fu la prima fotografa americana ad essere
ospitata ed esposta in laguna.
*[Simone Scaloni vive a Roma tra le pieghe di una
decennale passione per l’arte. Diplomato in restauro
pittorico, si laurea in seguito in Storia dell’Arte. Si interessa particolarmente alle incisioni del 900 ma non
si preclude incursioni nelle manifestazioni dell’arte
contemporanea.]
7
Insistenze>>>
Fiori vivi senza catene: per una critica
artistica e materialista del 7 gennaio
maria carla trapani
Quanto avvenuto a Parigi il 7 gennaio 2015 ha aperto lo
spazio per una riflessione collettiva, che è auspicabile non
si esaurisca nel tempo breve dell’emozione, servito finora
solo da appoggio per la pronta adozione di nuove misure
repressive, dall’alto, e per il ritorno in auge di identitarismi
di varia natura, religiosi ed etnici, dal basso. Per contribuire ad approfondire il lavoro di critica di quello che sembra
essere un evento dall’alto contenuto simbolico, ho ritenuto opportuno indagare il rapporto tra espressione artistica
e prassi politica, ponendomi dal punto di vista del nesso
che lega immaginario religioso e azione nel mondo, collocando quindi la mia analisi nella zona di intersezione tra la
sfera ultra-mondana e quella infra-mondana. Non è tanto
in virtù dell’innegabile valore artistico dei testi sacri che
fondano le istituzioni religiose contemporanee – e in particolare, quelle oggi più gravide di conseguenze politiche
a livello mondiale: il Corano, l’Antico e Nuovo Testamento, possono essere letti come opere d’arte a pieno titolo – che questa operazione mi è parsa legittima. C’è una
ragione più profonda, meno estrinseca alla problematica
politica che ha mosso queste riflessioni: la religione forgia
ancora oggi l’immaginario di enormi masse di individui,
dando vita a un modo specifico di pensare e di sentire, di
riflettere e di esperire. Il teatro religioso popolato da figure spirituali incarnate, non rimane confinato a una scena
interiore onirica individuale, ma creando rappresentazioni
del reale acquista un’esistenza mondana tanto estetica
quanto etica. Le figure religiose rappresentano, benché
in forma trasfigurata, i rapporti reali, il mondo vissuto così
come viene immaginato, o più precisamente i rapporti immaginari tra l’individuo e le sue condizioni di esistenza;
allo stesso tempo, tali figure retroagiscono nel mondo: è
dentro e attraverso le rappresentazioni immaginarie dei
rapporti reali che gli uomini vivono, riproducendo con le
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loro azioni nella realtà quelle condizioni sociali proiettate
nella sfera del sacro in forma capovolta.
È altresì legittimo trovarsi in disaccordo con questo genere di interpretazione, che si pone deliberatamente fuori
dal pensiero religioso. È tuttavia di una siffatta critica, che
adotti cioè un punto di vista esterno al proprio oggetto,
che mi pare si sia sentita l’esigenza nel dibattito attorno a
Je suis Charlie. Al di là delle posizioni individuali, talvolta
anche valide e interessanti, ritengo particolarmente significativa la polarizzazione del dibattito complessivo attorno
a due affermazioni allo stesso modo parziali e fuorvianti
riguardo all’origine dell’azione terroristica: da un lato, conseguenza del fanatismo religioso; dall’altro, espressione
di istanze politiche. Occorre precisare che si tratta di una
polarizzazione tendenziale: tra le due posizioni, troviamo
un’infinità di sfumature; e l’una e l’altra sono state diversamente declinate così da dare vita a una considerevole
varietà di interpretazioni. Ci si è divisi sul potere delle convinzioni religiose, su quanta parte di responsabilità fosse
da attribuire alla religione in generale e quanta all’Islam in
Insistenze>>>
La moltiplicazione di sé nella cultura beat
e nell’estetica concettuale
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Insistenze>>>
particolare; altri hanno insistito sul ruolo di copertura svolto
dalla religione per interessi meramente politici; altri ancora
hanno sostenuto che né la religione né la politica erano
realmente in causa, ma solo l’accecamento individuale di
chi ha commesso l’azione. C’è del vero in ognuna di queste affermazioni e infatti il loro limite consiste nel non aver
colto il nesso tra i diversi termini, cioè il rapporto complesso tra esistenza reale degli individui, all’interno di condizioni storicamente determinate, e forme di espressione
religiosa, che sono essenzialmente forme della coscienza, in vario grado immaginaria, di tali condizioni. Chiedersi
quanto sia stato determinante ora l’Islam o il fanatismo,
ora la politica o la follia criminale, non ci fa avanzare di un
passo. Ma in che rapporto porre questi termini? Qual è il
nesso che lega religione e politica, conoscenza e immaginazione, prassi nel mondo reale e sua proiezione in un
mondo immaginario?
Ritengo che su questo tema possa ancora oggi venirci in
soccorso la critica marxiana. Se oggi la posizione di Marx
sulla religione ci appare del tutto irrecuperabile, è infatti
solo per la sua riduzione, nel senso comune, a una sola
celebre proposizione, che è generalmente interpretata in
modo semplicistico e quindi erroneo: “la religione è l’oppio dei popoli”. Estrapolata dal contesto nel quale è formulata, questa affermazione è in effetti inutilizzabile per
l’analisi di un evento tanto complesso come un atto terroristico compiuto in nome di un Dio. Quella che sembra
essere una riduzione, rozza e sbrigativa, del valore umano
e sociale della religione, rivela invece una posizione ben
più complessa e feconda se ricollocata all’interno della
Critica della filosofia del diritto di Hegel, che Marx redige
nel 1843 e pubblica l’anno successivo nella rivista “Annali
franco-tedeschi”.
Innanzitutto, occorre leggere le affermazioni immediatamente precedenti: “La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria
reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il
sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo”.
La religione è quindi definita come sentimento, spirito e sospiro. L’oppio ha evidentemente un valore metaforico, da
riferire all’uso, alla funzione cui la religione viene destinata.
Il processo di costituzione della religione è invece legato
alla sofferenza degli uomini per le condizioni materiali nelle
quali sono gettati, al modo in cui sentono questa sofferenza, e infine all’espressione di questo sentire in forma trasfigurata. Il sentimento religioso è quindi l’atmosfera che gli
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<<<Insistenze
Pagina 9 e 10: Immagini da Charlie Hebdo
Pagina 11: Karl Marx
uomini respirano nella loro sofferenza, della quale la proiezione nel sacro è anche manifestazione fantastica; ed è
attraverso questa rappresentazione, a suo modo artistica,
che gli uomini riproducono l’illusione di poter sfuggire alla
realtà che è l’origine materiale delle fantasie spirituali.
Ora, se la causa reale dell’immaginario religioso è da ricercare nelle condizioni materiali, va da sé che solo la trasformazione del reale può portare all’emancipazione dall’uso
consolatorio (l’oppio) della religione. Eppure, almeno in
questo scritto giovanile, la critica della religione non viene liquidata come inefficace; le deve al contrario essere
riconosciuta una funzione rivoluzionaria. La religione non
è infatti puramente consolatoria, ma possiede, in quanto
rappresentazione trasfigurata della reale sofferenza, un intrinseco potere critico di questo stesso reale. La “miseria
religiosa”, scrive Marx, “è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale”. Un’arte
contestatrice, verrebbe da dire forzando e aggiornando il
testo marxiano, che è però nondimeno destinata ad essere superata in quanto è al contempo espressione capovolta del mondo, quindi in ultima analisi mistificazione
dell’origine della sofferenza dell’uomo. La sua critica è per
questa ragione necessaria. “Il fondamento della critica irreligiosa è: l’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo.
Infatti, la religione è la coscienza di sé e il sentimento di sé
dell’uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l’uomo non è un essere astratto, posto fuori del mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo,
Stato, società. Questo Stato, questa società producono
la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché
essi sono un mondo capovolto. La religione è la teoria
generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point d’honneur
spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale,
il suo solenne compimento, il suo universale fondamento
di consolazione e di giustificazione. Essa è la realizzazione
fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana
non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione
è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del
quale la religione è l’aroma spirituale”.
Ma gli effetti di protesta che la critica della religione genera, lungi dal rimanere sospesi nell’alto dei cieli, si dipanano
nel mondo reale: “eliminare la religione in quanto illusoria
felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è
l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno
di illusioni. La critica della religione, dunque, è, in germe, la
critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola”.
Questo significa forse che il mondo liberato dalle condizioni materiali che generano sofferenza sarà un mondo che
non avrà più bisogno di esprimere la propria spiritualità?
Questa è la posizione che il senso comune attribuisce a
Marx, riducendo il suo pensiero a una variante dell’ateismo materialista. Ma le cose, come stiamo mostrando,
stanno diversamente: abbiamo visto che infatti l’esigenza
spirituale non si può ridurre a quella che è la sua funzione consolatoria. È in gioco, nella religione, un’esigenza
che appartiene all’uomo in quanto ente generico, quella di
esprimere il proprio sentire in forme che potremmo definire artistiche. Ciò che occorre eliminare è infatti per Marx
la radice materiale del dolore e non la fonte della realizzazione spirituale: “la critica ha strappato dalla catena i fiori
immaginari, non perché l’uomo porti la catena spoglia e
sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga i
fiori vivi”.
Se la “critica del cielo” deve trasformarsi in “critica della
terra”, la critica della religione in “critica del diritto”, la critica della teologia in “critica della politica”, non è per mettere al bando ogni forma di spiritualità, ma al contrario per
liberarla e darle quel carattere pienamente umano che le
è negato in una società fondata sullo sfruttamento, quindi
sulla sofferenza.
Questo Marx, e non certo il semplice ateismo che gli si
vuole spesso attribuire, può dirci qualcosa sulla strage del
7 gennaio. La critica dell’Islam deve essere solo critica delle condizioni materiali che sono alla base della sua nascita
e della sua diffusione successiva, mai critica delle sue rappresentazioni in quanto espressione delle esigenze spirituali dell’uomo. La protesta che la religione veicola non
cancella la sua funzione illusoria; di conseguenza la sua
critica è certo un tassello della critica dell’attuale società.
Non è tuttavia alla distruzione del sentimento religioso, né
alle sue forme istituzionali e collettive, che occorre puntare; è al contrario alla sua liberazione che la critica deve
lavorare. La critica dell’Islam non va da nessuna parte se
non associata alla critica dell’esistente da cui trae origine,
da un lato, e all’esaltazione del suo carattere di protesta
e di espressione spirituale, dall’altro. Non è ai roghi di fiori
che bisogna mirare, ma alla possibilità di cogliere finalmente i fiori vivi.
*[Maria Carla Trapani è nata e vive a Roma. Di formazione filosofica, approda in seguito alle discipline orientali, nell’ambito delle quali esercita la sua professione.
La sua prima monografia, Nascosta e lo specchio, esce
nel giugno 2010 con la Giulio Perrone Editore, seguita, nel 2012, da Se le figure, e invece il dolore. Silenzi, Bel-Ami Edizioni. È una de Le Crudeltà Barocche,
la cui altra è Laura Di Marco: insieme creano Violenza della ragione e molli intelletti, presente in Femminilizzazione del mondo – Arte nel Rumore, Volume #5.]
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<<<Insistenze
Insistenze>>>
L’arte in protesta:
l’esperienza sud-africana
Geremia Doria
Il massacro di Sharpeville del 1960 ha dato una svolta
epocale alla storia del Sud Africa. Ha innescato una catena di eventi: dal divieto alle organizzazioni di liberazione
allo scaturire della lotta armata, dall’internazionalizzazione delle politiche di apartheid alla crescente divisione tra
bianchi e neri.
La lotta di liberazione in Sud Africa, a partire dagli anni
‘60 e fino agli anni ‘90, ha stimolato il dibattito sul ruolo
della cultura in una società razzialmente oppressiva e autoritaria. I risultati di questo fermento politico e creativo
sono stati numerosi, tra questi la fondazione di comunità
di artisti intese come i ‘mattoni’ di una nuova ‘casa’ per
il popolo, libera da ogni pregiudizio, tra queste i Bill Ainslie Studios (poi confluiti nella Art Foundation di Johanne-
12
sburg), Mofolo a Soweto, Katlehong a Germiston, i Black
Art Studios a Durban e le comunità Arts Project e Nyanga
a Città del Capo.
Da un lato, e per lunghi anni, i bianchi sembravano accettare lo status quo, sostenendo che l’arte dovesse avere
un’esistenza indipendente, con propri valori intrinseci, che
andassero al di là delle politiche dei partiti e affrontassero
il tema delle verità universali.
Dall’altro, molti artisti sostenevano di non poter negare la
realtà contingente: la loro arte avrebbe dovuto riflettere
l’iniquità della Storia. Questo gruppo sviluppò una critica
sempre più radicale della società, sostenendo che gli artisti avessero l’obbligo morale di pianificare la creazione di
un nuovo ‘popolo rivoluzionario’.
Gran parte dell’arte prodotta durante l’apartheid è stata
critica nei confronti delle politiche razziali e culturali dello
Stato ed è stata definita come ‘Resistance Art’. Questo
termine è stato ampiamente discusso da molti storici e
critici, senza arrivare a una soluzione condivisa. Ciò riflette
la profonda divisione tra accademici, più o meno progressisti, per lo più bianchi e la comunità artistica di prevalenza nera.
Avvicinandosi alla Resistance Art ci accorgiamo che gli
artisti che ne sono stati protagonisti hanno risposto allo
svolgersi degli eventi in modo molto diverso e pur condividendo gli stessi ideali si sono scontrati sui modi di rappresentare la loro reazione al sistema.
Alcuni autori, ad esempio, hanno scelto di non produrre
un lavoro apertamente politico, ma ciò non ha impedito
che la loro opera avesse un impatto significativo sul pubblico, tramitando chiaramente le loro preoccupazioni per
la società. Ci sono stati artisti che non sono mai appartenuti a nessuna organizzazione di ‘lotta’, ma hanno prodotto opere che hanno reso potenti dichiarazioni circa le
ingiustizie del governo della minoranza bianca.
D’altra parte ci sono stati artisti che si sono apertamente
schierati con l’opposizione e prodotto opere che hanno
dato un grande impulso alla mobilitazione sociale.
Molte opere non sono mai state esposte fino a tempi più
recenti, perché avrebbero senza dubbio portato a processo –e in carcere– gli autori.
In questo breve excursus presentiamo alcuni artisti che
hanno lasciato un segno profondo nella storia dell’arte
africana e mondiale.
Helen Mmapula Mmakgoba Sibidi è un’artista straordinariamente caparbia la cui arte costituirà un lascito
importante circa la condizione delle donne nere nell’epoca più turbolenta della storia del Sud Africa.
Le sue opere sono composizioni affollate di personaggi –soprattutto donne– in protesta contro il sistema. Le
figure sono rese col pastello tramite ampie passate frastagliate e colori vivaci che sembrano sottolineare la
tensione e l’energia ‘arrabbiata’ dell’opera.
Ma la qualità duratura della sua arte è data dal suo
recupero rispettoso delle pratiche culturali tradizionali
‘tswana’ che trovano spazio nel suo lavoro in un linguaggio personale e modernista.
Il lavoro di Paul Stopforth ha smascherato il volto di
quanti perpetravano violenze sotto l’egida dell’apartheid. ‘Elegy’ è una serie di 20 opere in grafite e acrilico in omaggio a Steve Biko, martire della resistenza.
Stopforth ha altresì rappresentato tre dei nove poliziotti
coinvolti nell’inchiesta attorno alla morte di Biko nell’opera ‘The Interrogators’, insieme all’immagine spettrale
di una sedia, oggetto inanimato che diventa simbolo
del terrore latente. Stopforth ha scelto di lasciare il Sud
Africa alla fine degli anni ‘80 e si è stabilito negli Stati
Uniti dove tuttora insegna presso la Harvard Universi-
13
Insistenze>>>
ty. Continua nella sua produzione artistica, anche se con
gli anni questa si è progressivamente spogliata del suo
carattere politico e provocatorio, pur restando impegnata
rispetto alle problematiche del mondo contemporaneo.
Il lavoro di Jane Alexander riguarda tanto l’opera quanto
lo spettatore. Opere brutali e volutamente incendiarie che
non lasciano scampo. Le sculture e i fotomontaggi del
periodo dell’apartheid sono state concepiti in modo che
non ci fosse bisogno di chiedere spiegazioni in merito. È
come mettere la società allo specchio, con i cittadini dello
stesso Stato che sono al contempo aggressori e vittime.
Le sculture sono realizzate con gesso, fibra di vetro, vernici, oggetti trovati, di tanto in tanto osso e ‘oggetti di scena’ come sedie, panchine, munizioni, recinzioni, machete
e falci.
<<<Insistenze
Nel 1982 mentre procedeva la preparazione dell’opera
‘Senza titolo’ con due figure scheletriche appese a dei
pali, carcasse di animali e corpi umani, l’artista si rese
conto che la rappresentazione ‘cruda’ della violenza attirava gli spettatori. ‘Butcher Boys’ è l’opera d’arte più visitata alla Galleria Nazionale ‘Iziko’ di Città del Capo: tre figure mostruose e antropomorfe ci rivelano gli aspetti della
violenza in maniera ‘passiva’. L’autrice ha reso le figure
straordinariamente sinistre e l’opera suscita ripugnanza. È
forse questo il motivo per cui l’opera sta assumendo una
valenza a-temporale: si è spostata oltre l’era di riferimento
ed ha assunto una portata universale. Ogni violenza, ogni
forma di crudeltà è contenuta e trasposta in queste figure
oscure.
L’opera ‘Bom Boys’ è stata realizzata dall’artista nel 1998
ed ha riscontrato un successo planetario essendo espo-
sta in varie gallerie e musei in Africa e quindi a Düsseldorf, Parigi, Londra, Tokyo, Stoccolma.
Norman Catherine ha ottenuto la sua prima mostra
personale già nel 1970 con la Goodman Gallery: nella mostra furono esposte alcune opere che illustravano
tutti i tipi di materiali che l’artista utilizzava in maniera
innovativa e che ne hanno fatto una leggenda vivente.
Catherine è conosciuto soprattutto per le sue sculture,
ma è tecnicamente molto abile anche nell’uso dell’aerografo nonché nelle incisioni a punta secca. Comune a
tutte le tecniche impiegate è il suo sarcasmo graffiante,
non estraneo a un certo cinismo alimentato dalle politiche governative.
Le prime opere della sua carriera avevano titoli come
‘Suicidio’, ‘Arresti domiciliari’ e ‘Terapia Intensiva’ :
espressioni crude della sua avversione allo Stato.
Pagina 12: Fotografia simbolo dell’apartheid in Sud Africa
Pagina 13: Paul Stopforth, Elegy
Pagina 14: Jane Alexander, Butcher Boys
Pagina 15: Jane Alexander, Bom Boys. Norman Catherine, Condemned
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<<<Insistenze
Insistenze>>>
IL FREAK, LA MAPPA E LA BANDIERA
simone scaloni
Alighiero Boetti e Diane Arbus sono stati due artisti importanti nella misura in cui, attraverso le loro opere, ci
hanno permesso di ampliare (orizzontalmente) e approfondire (verticalmente) la nostra conoscenza del mondo
e della società in cui viviamo. Avevano 17 anni di differenza. La Arbus era nata a New York nel 1923 e Boetti a
Torino nel 1940. L’una era una fotografa di moda, l’altro
un artista concettuale caleidoscopico e multidisciplinare.
La prima una beatnik del Greenwich Village discendente
di una ricca famiglia ebrea di origini polacche, il secondo
un conte piemontese figlio di un notaio e di una violinista
ricamatrice. Eppure non sono pochi i tratti comuni che
possiamo rilevare in questi artisti, primo fra tutti il ricorso
a un materiale povero anche dal punto di vista sociale.
Apparentemente così lontani, Arbus e Boetti sono ormai
due figure referenziali e paradigmatiche per chiunque voglia comprendere meglio il panorama culturale, storico e
artistico, della seconda metà del Novecento occidentale.
Un primo, forte elemento che li accomuna è l’interesse
che sempre manifestarono nei confronti dell’Altro e dell’Altrove. Una volta la Arbus dichiarò che la cosa che amava
di più era andare dove non era mai stata. Fino a quando
però, verso la fine della sua esistenza, dovette confessare
all’amica insegnante Lisette Model di aver perso il controllo della situazione. A spingere Boetti era sostanzialmente la stessa impellenza, la stessa necessità di espandere
se stesso e allargare i propri orizzonti. Entrambi scelsero
di assecondare questo bisogno di conoscenza nel modo
più efficace, ma anche più rischioso, al quale seppero
fare ricorso: rinunciarono a una parte di sé. Infatti non si
accontentarono mai di una rappresentazione semplicemente mimetica o documentaristica delle tematiche che
avevano deciso di affrontare, ma si inerpicarono sulla via
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più ardua e pericolosa dell’immedesimazione. Si calarono
nei loro soggetti al punto tale da trasformarsi nei soggetti stessi, così facendo arricchendosi di una o molteplici
nuove identità. I risultati di questa faticosa e trasgressiva
operazione di moltiplicazione di sé non si fecero attendere e furono sorprendenti.
Per attivare questo meccanismo di auto-frazionamento
entrambi dovettero necessariamente inoltrarsi lungo un
sentiero, leopardianamente vertiginoso e a picco sul vuoto, di desoggetivazione e depotenziamento del proprio io.
Ciò significa che per qualche insondabile ragione dovettero ridursi, farsi piccoli piccoli e sottili sottili (come Gulliver sull’Isola di Lilliput e su quella di Brobdingnag al contempo, o come Alice durante il suo viaggio verticale nel
Paese delle Meraviglie) in modo da poter entrare e passare ovunque come con un Passepartout. Fu così che
riuscirono ad assorbire tutte le informazioni e le influenze
di cui avevano evidentemente, e urgentemente, bisogno.
Proprio Il Viaggio Verticale si intitolerà una personale della
Arbus. Un’altra, sempre sullo stesso tema, attingerà invece al repertorio poetico di Shakespeare e si chiamerà The
Full Circle (cioè la chiusura del cerchio, ma anche il giro
completo, che inevitabilmente rimanda a Il Giro del Mondo in Ottanta Giorni di Jules Verne, e quindi alla Mappa
del globo terrestre di Alighiero Boetti).
Tale processo di frammentazione di sé, di auto-riduzione
o auto-nebulizzazione (che però, specularmente, è anche
un esercizio di grande accrescimento interiore nel senso
di moltiplicazione e irraggiamento della propria soggettività), non mancò di dare i frutti sperati o, nel caso della
Arbus, di far sbocciare i suoi fiori del male. In tempi rela-
tivamente brevi entrambi arrivarono ad accumulare una
tale quantità di dati, cifre, numeri, lettere, forme, colori,
notizie, informazioni ma anche drammi, tragedie, baratri, handicap, abiezioni e vite vissute ai limiti della dignità
umana, da costituire un vero e proprio bottino di guerra,
una ricchezza inestimabile come il tesoro della grotta di
Alì Babà, che i due artisti ci hanno lasciato in eredità e di
cui oggi noi possiamo ammirare la portata e beneficiare in
senso artistico e umano.
Arbus e Boetti sono stati, nel vero senso della parola, due
pionieri. Due figure-ponte che ci hanno aiutato ad avvicinarci e ad accorciare le distanze tra noi e l’Altro, l’Ignoto,
il Diverso, lo Straniero, lo Scandaloso, l’Orribile, il Proibito,
il Tabù. Per mezzo della loro produzione artistica hanno
contribuito ad abbattere le frontiere geografiche, nazionali, politiche, religiose, sociali e sessuali che però, come
un male inevitabile e anzi necessario, le società umane
non fanno altro che ripristinare. Quanti avrebbero avuto lo
stesso coraggio, lo stesso spirito d’avventura e lo stesso amore per il rischio? Quanti avrebbero dimostrato la
stessa caparbia temerarietà nello spostare il limite della
sperimentazione sempre un po’ più in là, o nell’alzare l’asticella del lecito sempre un po’ più su? Alighiero Boetti e
Diane Arbus hanno voluto (o dovuto) camminare sui carboni ardenti, tra le macerie, i relitti e i derelitti, e attraver-
Pagina 16: Diane Arbus, Patriotic Young Man with a Flag, N.Y.C., 1967
Qui sopra: Alighiero Boetti, Mappa, 1972
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Insistenze>>>
sare quei teatri di guerra (che non sono soltanto quelli in
cui si combatte con le armi per la difesa dei propri territori
o della propria identità nazionale, ma anche quelli che abbiamo sotto casa e che il più delle volte facciamo finta di
non vedere) e quegli hot spots, quelle zone incandescenti,
che da sempre costituiscono i punti nevralgici del pianeta
e della società, per dimostrare con le loro opere in quali
abissi o su quali vette l’Arte può condurre.
Verso la fine della sua vita, consapevole dei traguardi raggiunti e forse un po’ stanco per la quantità di energia impiegata nel corso di un’intera esistenza dedicata all’arte,
Boetti dichiarò di avere il cervello che gli fumava. Ironia
laconica ma esaustiva efficacemente rappresentata dalla
famosa statua-fontana in bronzo del 1993, ultima opera
dell’artista e suo autoritratto replicato in sette esemplari, intitolata appunto Mi Fuma il Cervello. Boetti dunque
avrebbe sfiorato il burnout, cioè l’incenerimento cerebrale, lo sfinimento da troppo lavoro. La Arbus, che nella sua
discesa agli inferi finì col lasciarsi contagiare dai soggetti che ritraeva assorbendo troppo della negatività e delle
miserie umane, inesorabilmente lo raggiunse. Una volta
aveva dichiarato che per lei i freaks erano i veri aristocratici della società. È legittimo suppore che con ciò volesse
dire che l’handicap e la diversità isolano e rendono estranei alla vita tanto quanto la ricchezza e l’alto lignaggio. In
questo senso, probabilmente, li sentiva vicini a sé. Anzi,
come la divina Gubel Gabel nella pellicola Freaks di Tod
Browning che la Arbus doveva conoscere bene poiché
già allora era un cult movie, era una di loro. Morirono giovani, tutti e due intorno alla cinquantina. Diane Arbus si
spense tragicamente a New York nel luglio del 1971 a 48
anni. Alighiero Boetti, malato di tumore, morì a Roma a 54
anni nell’aprile del 1994.
<<<Insistenze
Nelle immagini che presentiamo in questo articolo vediamo innanzitutto un ragazzo ritratto dalla Arbus che mostra
una bandiera degli Stati Uniti e un distintivo che attesta
il suo orgoglio di cittadino americano. Ha un’aria troppo
sognante e uno sguardo troppo fiducioso in un presunto ideale patriottico per non essere, anche lui, un freak
sui generis. La seconda immagine rappresenta uno degli
arazzi della Mappa di Boetti tessuti a mano dalle giovani ricamatrici della Scuola della Signora Kandi a Kabul,
alle quali l’artista torinese, proprio come un imprenditore
impegnato nell’avviamento di un’attività di Produzione di
Bellezza e di Riordino Ideale dell’Assetto Politico Internazionale, affidò la realizzazione materiale delle sue opere. Il
planisfero tessile è composto dalle bandiere di tutti i Paesi del mondo, inserite nel rispetto dei confini territoriali di
ognuno di essi. Sono i simboli dell’alterità (umana, etnica
e sociale), dell’orientamento possibile in un rinnovato ordine geo-politico esteticamente e cromaticamente perfetto, e della definizione delle diverse identità (nazionali per
Boetti, individuali per Arbus), sempre minacciate e rimesse in discussione dalla Guerra in tutte le sue declinazioni.
Con il suo inquietante repertorio iconografico Diane Arbus
volle inquadrare il panorama della società nella sua massima estensione e magari anche a favore di un’utopistica
integrazione di ogni elemento al suo interno. Nel concepire la sua Mappa, mosso da analoghe intenzioni, Boetti si
cimentò in una magnifica e demiurgica rappresentazione
del Tutto così come possiamo ammirarla, infine, in un’opera del 1988 nella quale Paesi, Continenti e Bandiere
sono stati letteralmente travolti da un ciclone cosmico e
centrifugati fino a mettere al mondo il mondo, come disse
una volta l’autore, e dare vita a un caleidoscopico mosaico di frammenti colorati.
Tra i frammenti di Boetti e le macerie della Arbus
Pagina 18: Alighiero Boetti, Tutto, 1988
Qui sopra: Diane Arbus, Child with a Toy Hand Grenade in Central Park, N.Y.C., 1962
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Inverso>>>
Davide Cortese
È musicale lo scritto che ci propone Davide Cortese ma non per questo meno verbalmente incisivo. È
Arthur Janov, psicologo statunitense, nel 1970 pubblica
quasi onirico il suo testo, con rievocazioni apparentemente legate solo da assonanze verbali ma rivelatrici,
un saggio dal titolo “The Primal Scream” secondo cui
ad una più attenta lettura, di realtà spietate ed urli che attraverso mescolate citazioni riecheggiano nel tem-
l’uso della voce attraverso l’urlo primordiale o primario,
po: da Kubrick e a tutta la violenza del suo “Arancia Meccanica” fino alla Francia di Luigi XV.
riconducendo alle origini, porta l’individuo che lo compie
[Laura Di Marco]
a ricongiungersi, in una sorta di rinascita, con la propria
psiche liberandola dalle proprie paure e traumi attraverso
l’esternazione di rabbia ed emozioni.
E sono dunque grida quelle che provengono dalle voci
dei nostri poeti; urla di sdegno, di denuncia, di dolore e
di protesta. Ma anche grida di battaglia contro abusi e
violenze, affinché si faccia di ogni singola voce un unico,
OBAMA OSAMA KOROWA MILK BAR
potente, ed anche terapeutico grido. Componimenti che
posseggono la forma leggera di un sussurro e la forza di
contenuto di un boato.
Ed è qui che l’arte ed in questo caso la poesia sussurrata
e gridata, diviene arma di difesa sia da se stessi, ovvero
dai propri timori, sia da una società che impone spesso il
silenzio/assenso all’uniformità, all’ipocrisia, all’indifferenza,
e scaglia stilettate ovunque possa esprimersi, su fogli, su
muri, sulla pelle, attraverso la forza unica e dirompente della
parola.
Laura Di Marco
Obama. Osama.
Korowa Milk Bar.
Pistole e diamanti di Madamigella Cunegonda.
Angeli impiccati agli alberi di Golconda.
Diorama. Alabama.
Nabucodonosor.
L’incantatore che tace il nome del cobra.
Il silenzio che rivela il suono abracadabra.
Nebraska. Nevada.
Korowa Milk Bar.
Fiore segreto tra i rami della jacaranda.
Bacio mai dato una notte a Samarcanda.
Nebraska. Nevada.
Nabucodonosor.
Il libro che Gutenberg dimenticò a Magonza.
La bocca che invoca ancora garmonponzia.
Vanilla. Carmilla.
Korowa Milk Bar.
Le chiavi cercate per le porte aperte.
Il mio anello al dito della Santa Muerte.
Il fado. Eldorado.
Nabucodonosor.
Kermesse di ferite sul velluto del mio petto.
Il gotha del dolore riunito al mio cospetto.
Sator Arepo Tenet Opera Rotas.
Gilgamesh.
Ganesh.
Après moi le déluge!
*[Davide Cortese è nato nell’ isola di Lipari nel 1974 e vive a Roma. Si è laureato in Lettere moderne all’Università degli Studi di Messina con una tesi sulle “Figure meravigliose nelle credenze popolari eoliane”. Nel 1998 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, titolata “ES” (Edas, Messina), alla quale sono seguite le sillogi: “Babylon Guest
House” (Libroitaliano, Ragusa, 2004), “Storie del bimbo ciliegia” (un’autoproduzione del 2008), “ANUDA” (Aletti EdiNorman Rockwell, Murder in Mississipi, 1965
20
tore, Roma, 2011), “OSSARIO” (Arduino Sacco Editore, Roma, 2012) e “MADREPERLA” (LietoColle, Como, 2013).]
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vera Bonaccini
antonella Lucchini
La poesia di Vera Bonaccini è una denuncia, una cronaca dei fatti affissa come manifesto ed esposta ai
Parole, quelle di Antonella Lucchini, di esortazione verso tutte le donne a non tacere le violenze subite, a
lettori con indignata ironia. Non esistono giri di parole nei suoi scritti ma il quadro di una società succube
non fingerne la non esistenza, invocazione ma al contempo supporto complice di donna e poeta, a non al-
dell’apparire, dei riti modaioli, dello sfoggio di un involucro patinato dove non si “sussUrla” per non rovina-
levare dentro di sé il terrore che cresce a dismisura nel grembo quale doloroso frutto di un perpetrato do-
re i ritocchi del bisturi sulle labbra. Dove anche Dei ed eroi della mitologia scendono dall’Olimpo per genu-
lore e si alimenta giorno dopo giorno del silenzio di ognuna di loro. Di ognuna di noi.
flettersi al dio del consumismo, mischiandosi alla mondanità.
[Laura Di Marco]
e Maya si è dimenticata
il velo sull’ultima corsa della 90 a Piazzale Lotto una
Domenica notte ubriaca
di fine Maggio
senza le scarpe a combattere l’asfalto
e Giano bifronte si fa i selfie bipolari
sushi vegano con la camicia bianca
[quella nera per gli amici neonazisti]
all’ora dell’aperitivo è ancora Aprile
e fioriscono le milf e il botulino
Prometeo promette arrogante
la Conoscenza dai cartelloni elettorali
e il fuoco purificatore senza pietas
per i nemici della Patria e della Mamma
ed è già Giugno e si muore col sorriso
Poseidone sfoggia raggiante
la Bandiera Blu che si è appena tatuata
e ammicca alle turiste provocanti
allontanando i clandestini con la mano
e viene Luglio
sudando l’ansia in discoteca
Anansi racconta puttanate
alle famiglie che aspettano il traghetto
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in fila come bestie sotto al sole
rabbia compatta ripiegata ad infradito
ed ecco Agosto
ed è la vita che si ferma
pigiata stretta attorno a un ombrellone
Ma poi a Settembre ecco Kalì
spendere miliardi in manicure
la green economy – la beauty farm
e gli oli per capelli alla sirena
per sgomberare gli abusivi dall’altalena
e Maya ritrova il velo
al Parco Lambro
un pomeriggio di un mese a caso
steso su un corpo
e si allontana lentamente pedalando
fischiando un requiem
per i mesi in cui fa caldo.
*[Vera Bonaccini nasce a Milano nel ‘77 sotto il se-
Inverso>>>
UN REQUIEM PER I MESI IN CUI FA CALDO
[Laura Di Marco]
MIO FIGLIO CALVARIO
L’unico figlio che ho potuto avere
si chiama Calvario.
È nato una sera di giugno
mentre l’estate piombava
sul balcone e sulle mie guance gonfie.
È cresciuto smisuratamente
quanto il mio terrore
di sbagliare a parlare
di sbagliare sguardo
di respirare quando non devo.
Si può odiare il proprio figlio?
Si deve.
Soprattutto si devono riunire
le botte, le lacrime, la paura
e buttarle nel cesso.
Oppure quella mano non si fermerà,
diventerà sempre più veloce
sempre più crudele
sempre meno punibile.
Vi dovete rialzare
sorelle, figlie
anche l’angolo più acuto
in cui vi nascondete
favorisce la spinta
anche la pelle sottile
dagli ematomi
ha la forza per sopportare
la ribellione.
Vi offro la mia voce libera e complice.
Ditelo con me:
l’amore che fa sanguinare le labbra
ha il nome sbagliato.
L’amore che fracassa i denti
l’amore che ti fa quando non vuoi
l’amore che ti manda in corto il cervello
l’amore a cui piaci bambola rotta
l’amore che ti scioglie il naso e ti incolla gli occhi
ha il nome sbagliato.
Ribattezzalo.
gno dell’acquario. È tra i fondatori del collettivo letterario
“Bibbia d’asfalto”, è responsabile della collana di narrativa “Vertigini” per Matisklo Edizioni. Suoi testi sono
presenti in varie antologie (Nagasaki Lunapark, Guada-
*[Antonella Lucchini nasce a Mantova, dove tuttora risiede, nell’aprile del 1964. Inizia a scrivere quat-
gnare soldi dal caos, I ragazzi non vogliono smettere).
tro anni fa, prima interessandosi alla poetica haiku, per dedicarsi poi completamente alla poesia tradiziona-
Il suo ultimo libro è “Cartoline da un paese in dismis-
le. Agli inizi del 2013 pubblica la sua prima raccolta, “Tra morsi e strida”, per la casa editrice REI. “Il mar-
sione”, Edizioni La Gru. Da grande vuole fare il pirata.]
gine bianco” (Ed. Divinafollia) è la sua seconda raccolta, con la quale focalizza lo sguardo su Amore ed Eros.]
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luca ispani
flavio scaloni
Luca Ispani ci porta negli ambienti asfittici e dolorosi della realtà manicomiale. Sembra di tornare all’epoca
Il testo di Flavio Scaloni è costruito semanticamente e obliquamente sulla parola ordigno. Una parola che
tristemente nota ante-Legge Basaglia, nelle stanze anguste e dimenticate già raccontate da Merini e filma-
concentra su di sè richiami e suggestioni dalla forte valenza politica e sovversiva, e che l’autore sa usare
te nei documentari di Silvano Agosti. Questo componimento crudo e visivo ci esorta a ricordare l’esperien-
bene per richiamare l’attenzione del lettore fin dall’inizio: “Chissà se qualcuno sospetta... che nella borsa
za di emarginazione vissuta da pazienti trattati alla stregua di detenuti nelle peggiori carceri.
porto un ordigno”. La poesia si snoda attraverso inversioni, straniamenti, ridondanze e come “discorso del
rovesciamento” mai definito e forte di questa stessa ambiguità che porta il lettore ad interrogarsi sul tipo di
[Flavio Scaloni]
OSSA
Arterie ristrette
al fumo che gratta le pareti umide
leggere le scritte e i requiem
le dita rotte.
L’asfissia del manicomio attende
il sonno eterno delle costrizioni
mi ci aggrappo crepando
le labbra gonfie
le gambe viola.
Le sbarre incatenano pensieri
hanno paura a nascondersi
solo latrati, urla
lacrime rigettare alle guardie
lo sguardo sadico alla ricerca del punto debole.
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Si vive in una pentola insieme alle ossa scuoiate
La carne per un brodo insipido
sa di vita l’abbandono
Il continuo arrampicarsi
ad alberi invisibili
la melma rimane alta
cercando di strappare
aliti di esistenza.
*[Luca Ispani nasce a Modena il 19 maggio 1979. Entra
Ho scritto “io ci sono stato”
in verità pago
la dannazione di esser nato
ora l’ora d’aria volge al termine
progetto del collettivo “Poetineranti”che si propone di
ben presto a contatto con la poesia e se ne innamora,
cominciando a scriverla. Adora i temi legati al sociale,
al disagio, ai ceti meno abbienti e a soli 8 anni vince il
primo premio presso un concorso giovanile in Veneto.
Inverso>>>
ordigno che maneggia l’io del poeta. Che sia tautologicamente la Poesia?
[Letizia Leone]
Chissà se qualcuno sospetta
stasera in Via Morgagni
che nella borsa
porto un ordigno.
Chissà se qualcuno ha visto
i signori del tavolo affianco
farsi il segno della croce
ad ogni portata
e parlare sommessamente
delle decisioni dello zio.
Se me lo chiedessero
il mio ordigno
lo tirerei fuori
lo farei vedere
parlerei di chi lo ha confezionato
e decripterei il codice.
Al massimo resuscita
qualche morto apparente.
Per così poco
non gli dedicano neanche un trafiletto
in cronaca rosa.
Gli ordigni
dei signori del tavolo affianco
ammazzano persino topi e gechi.
Giustamente ne parlano
tutti i quotidiani.
I signori del tavolo affianco
hanno ordinato
il maialino arrosto.
Avranno ammazzato loro
pure quello.
Devolve gran parte dei suoi proventi in beneficenza
ed è sempre attivo in progetti benefici dove la poesia
possa essere d’aiuto. Da qualche mese si identifica nel
condividere poesia ovunque,dalle carceri ai bar, ai teatri.
Nel 2015 pubblica “Urlare il nulla” la sua prima raccolta
poetica pubblicata con una casa editrice nazionale.]
I signori del tavolo affianco
dei loro ordigni
mica ne parlano
e anche se interrogati
negano.
Il mio ordigno
non ammazza nessuno.
*[Flavio Scaloni è il direttore responsabile di DiwaliRivista Contaminata. La sua prima raccolta di poesia
‘Stella di Seta’ è edita da Genesi Editore. Nel 2015 pubblica la sua seconda raccolta ‘Mantra della Sera’.]
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andrea borrelli
In Marino Santalucia il “SussUrlo”, grido di rivolta e malessere intimo, si fa esistenziale quasi sottofondo di
Nelle strofe lunghe e dal ritmo serrato di Andrea Borrelli riecheggiano i dati di una realtà in disfacimento.
accompagnamento a chi non crede “all’equilibrio dell’anima”.
Il contraccolpo delle crisi e degli orrori mondiali giunge “per le strade delle nostre capitali” filtrato dal cini-
E in questo testo il verso pare si sia scarnificato e abbreviato alla ricerca di una parola vera. Una parola non
smo dei nostri piccoli emblemi quotidiani. Così Borrelli nei suoi versi rimescola sapientemente i miti di “ple-
sporcata dalla retorica e dalle manomissioni della chiacchiera, fino alla strofa di chiusura che pare definitiva
xiglas” di questa società del profitto ormai fallito (“dai tacchi a spillo rotti” alla “faccia in chirurgia estetica
nel ribadire un allontanamento risolutivo con “un biglietto di sola andata”.
anestetizzata”) in una lunga parabola di scrittura critica e metaforica. Scrittura densamente espressiva che
Un rifiuto delle apparenze, dei “visi corretti” e delle “parole di circostanza” di chi contrasta per mezzo della
denuncia una impossibilità attraverso l’uso di immagini suggestive.
poesia il sempre più diffuso conformismo del “politically correct”.
[Letizia Leone]
NATO DA UN URLO
Credo nell’eternità della parola
nelle vecchie istantanee
nell’erbacce che non muoiono
nei traditori, che traditori
non lo sono affatto.
Comprerò un biglietto di sola andata.
Questa notte
comprerò un biglietto di sola andata
e avrò ingannato
i colori del buio.
Non credo nell’alloro
e gli applausi
nei visi corretti
nelle parole di circostanza
nell’equilibrio dell’anima.
Nasco da un urlo
dal fondo di una lacrima
da un battito
appena accennato
da un alone di fiamma.
Inverso>>>
Marino santalucia
[Letizia Leone]
CEP
Rimando a voi
La scelta nei cortili bui delle case popolari
Sotto i portici i lampioni con le lampade rotte
La pioggia di sassi sugli uomini in tuta blu te la ricordi?
Nei pozzi luce dei condomini si gettava l’immondizia
Quel giorno per le strade di Fort Apache
Gironzolava un cavallo bianco con le macchie marroni
Gli zoccoli duri sbattevano sull’asfalto rotto
Sotto il ponte dell’autostrada aveva fatto il cacatoio
Hai presente quando si staccava i pezzi di fumo con i denti?
Vennero a prenderlo
Cercarono ma non ci riuscirono perché erano in trenta
A difenderlo
Il cavallo però riuscirono a portarselo via
Lui dovette aspettare qualche anno ancora
Prima di trovarsi un buco in testa
Lo sparo della disperazione di chi aveva di fronte
Dalla parte di quale me da odiare o santificare resteremo questa volta?
*[Marino Santalucia fa parte dell’ONG “Emergency” dal 2004. Nel 2010 ha pubblicato la silloge poetica Versi Riversi,
Giulio Perrone Editore. Suoi testi sono inseriti in diverse antologie (Edizioni Progetto Cultura, Edizioni Ursini, Opposto.
net, Fusibilia Libri, e Lietocolle Editore). Nel 2011 partecipa a “Teatri di Vetro Festival Ammaro Amore”, alla “Settimana
della Poesia di Eboli” ed alla “Prima Edizione Mare in Vista Cultura”. Nel febbraio 2014 pubblica “Gli angoli del corpo”
edito da Edizioni MontaG nella collana “Le Chimere”.]
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Shar Danus
LAMI
Muto il silenzio muta
In rumore dei corpi
E colpi
Di tacchi a spillo rotti
Sai di ancora scarpe basse
Nelle mie immagini
E hai frantumati sogni
Di te visti indossati
In alto colli affusolati
Mi trovi a guardare
Come muoiono, ripeto
Duemila morti
Dirai destinati
Non proprio carne da macello
Oltre il sudovest sahariano
Mi fa sempre più paura il palanchino
Appoggiato sul muretto del vicino
Il terrore di manciate d’uomini
Trafitti da sacri kalashnikov
Ti fa cullare in fondo
C’è solo panico ora
Per le strade di qualsiasi capitale
Poi tranquillo l’ansia è sempre lì
Che saprà desiderare
Di ritorno al giro mentre mi scaldo
Butto pellet in un finto camino
Lontano spengo scuse
Con un pulsante
Gongolo nel vuoto
Alternando con il respiro
Sensi di fortuna
E vacuità formale
Tutto nel normale
Essenziale modo di vita pronunciata
Da una parte della faccia in chirurgia estetica anestetizzata.
Shar Danus attraverso i suoi versi racchiusi nel fraseggio di terzine limpide ci ricolloca nel cuore di un
dramma, quello del conflitto israelo-palestinese, una delle guerre più lunghe e sanguinose. Il testo aderente alla cruda cronaca dei fatti è di forte impatto visivo essendo il dato simbolico concentrato sul colore delle magliette dei bambini che giocano sulla spiaggia di Gaza: “Corrono tre magliette colorate”...
Qui si riesce ad evocare l’emozione e il dolore attraverso la descrizione del gioco spensierato dei bambini
palestinesi che verrano uccisi da un missile sulla spiaggia: “come si può giocare / al gioco del nascondino
/ s’una sparuta spiaggia?”
[Letizia Leone]
UNA TANA A GAZA
Corrono quattro
magliette colorate
sulla lingua di sabbia
a Gaza.
Muhammad amava gli argini
e i confini e gli orizzonti:
scelse la scogliera.
Una era verde fertile
l’altra di pace bianca
la terza era rossa martire.
Ahed, quattrocchi pallidi,
gli indicò il mare e urlò:
“fai come si fa quando
Chiese Ismail, più piccolo
la magliettina nera
di Palestina affranta:
vai con i tuoi a pesca,
infilati nel mare infido
tra l’ombra e la sua onda..”.
“Come si può giocare
al gioco del nascondino
s’una sparuta spiaggia?”
Dal largo finì la conta
- l’artiglieria israeliana e, con fragore, fu
per tutti e quattro
“tana”.
Zakhari fiondò s’un tronco
marcio, tra le barche:
correva al suo rifugio.
*[Andrea Borrelli nasce in un piccolo paesino della Puglia, affascinato dal mondo della poesia ha collaborato con il col-
*[Shar Danus è un Ammiraglio di Lungo Corso che, a modo suo, naviga in mari poco conosciuti.
lettivo Nucleo Negazioni alla creazione di varie raccolte, pubblicate sia in forma di ebook, sia in forma cartacea. Ha par-
L’autore preferisce rimanere nell’anonimato per poter motivi personali e professionali.]
tecipato con poesie e racconti a varie antologie e riviste (Carrascosa Project, Pastiche, Bibbia D’Asfalto, Six Rules - Universi Narrativi Plastici).]
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il focus di
Gli Haiku
Konishi Raizan
Il talento precoce
Dona Amati
Inverso>>>
Percorrendo il viaggio tra i ‘meridiani e paralleli’ della poesia, in questo numero della rubrica dedicata agli haiku ci
soffermiamo sulla loro terra di origine con la lettura di un
haijin giapponese.
Konishi Raizan (1654-1716) è stato un importante poeta haiku del periodo Genroku, a cavallo tra il XVII e XVIII
secolo. Nacque a Osaka in Giappone, figlio di un mercante di erbe officinali alla cui morte Konishi aveva appena
nove anni. Di talento precoce, iniziò a scrivere haiku già
all’età di sette anni rivelando una notevole dote poetica,
il cui stile si maturò verso contenuti espressi con grande
immediatezza. A venticinque anni incontrò il suo mentore
Saikaku e fu inoltre discepolo di Nishiyama Soin. La sua
prima moglie scomparve dopo tre anni di matrimonio che
Konishi affrontò in età matura a cinquantuno anni. Si risposò nuovamente a cinquantasette anni ed ebbe due
figli, il più grande dei quali morì infante ad un anno di età.
Alcune sue opere furono pubblicate postume nel 1734,
nell’antologia Imamiyagusa.
Dona Amati
Guardando indietro,
freddi in questo tramonto
i ciliegi di montagna.
Alzo il capo e vedo
me sdraiato
nel freddo.
Nei campi di neve
intensissimo il verde
delle erbe nuove.
Bianchetti:
un movimento
nel colore dell’acqua.
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Pioggia di primavera:
riflessa negli occhi bovini
che non la vedono.
Piantatrici di riso:
non è infangato
solo il loro canto.
Dalla porta nel retro
nel brodo raffreddato il riflesso
della macchia di bambù.
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Francesca Petrangeli
La cordigliera si stende
silenziosa a proteggere
la sua valle di sassi
e di pattume
Che faccio? La scatto o non la scatto?
il suo ventre di arsura
L’immagine che vedo nel mirino già non
più antico e più povero di un dio
è più la stessa che videro i miei occhi, già
che risuona di canti
sento distinta l’eco dell’otturatore che in
a lui dedicati in lingue remote
un solo colpo ha immortalato e ucciso
suggestione di un popolo
quell’istante, quel dolore e quella gioia o,
assetato e devoto.
al meglio, li ha inquinati, trasformando quel
sorriso in un lamento, quel lamento in un
urlo, quell’urlo in uno sguardo che parla
mille lingue ma non quella di chi non vuol
sentire. E intanto il sussulto di un pulsante
ha rubato per sempre quel candore e,
Scrissi queste parole di getto attraversando una delle valli dell’interno della Siria nel maggio del 2000;
sono molti anni fa, prima dell’11 settembre, prima
dell’Isis, prima che il Medioriente diventasse sinonimo di integralismo e guerra, inaccessibile ai turisti
occidentali; ho avuto la fortuna di visitare un paese
vario e bellissimo e purtroppo molte delle cose che
ho visto oggi non esistono più.
Della Siria ricordo la varietà geografica e umana: cristiani ortodossi e musulmani, montagne e deserti,
tutto si alternava in armonia, tutto conviveva.
La bambina vestita di bianco festeggiava la pasqua,
fuori dalla chiesa vendevano pulcini tinti di colori pastello, i bambini erano in gita scolastica in un sito archeologico e correvano fra le rovine, si volevano far
fotografare, la coppia passeggiava all’interno di una
grande moschea dove per entrare mi fecero indossare una tunica con un cappuccio, mi ricordo che la
sensazione di non essere guardata era piacevole al
contrario di quanto pensiamo dei veli che coprono
il capo, a me dava una sensazione di pace…tutte
queste sono solo le suggestioni di una ragazza che
traversava incosciente un paese che di lì a poco sarebbe stato rivoluzionato e chiuso al mondo esterno
e non vogliono essere un giudizio politico o umano.
Mi sembrava doveroso condividere queste suggestioni ora che non abbiamo facilmente la possibilità
di visitare quei posti.
Instante>>>
Instante>>>
come un doppiatore, presta una voce e
un’interpretazione sussurrando speranzoso il
suo messaggio.
Pietro Bomba
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Instante>>>
<<<InstantE
*[Francesca Petrangeli, nata a roma nel 1979, si è avvicinata alla fotografia nei tempi del liceo e a quanto pare
ancora non se ne è distaccata. Oggi lavora come truccatrice per la moda, pubblicità e video su set nazionali e internazionali ma quando può torna alla sua prima passione: la fotografia.]
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<<<InstantE
veronica adriani
Instante>>>
Coltivare e vendere il cacao in tutto il mondo: è la rivincita del popolo indigeno dei Kuna sui trafficanti di cocaina. Perseguitati e uccisi dai narcos che battevano la rotta dell’America centrale attraversando il loro territorio
nativo, la riserva del Resguardo Arquìa al confine tra Colombia e Panama, costretti alla diaspora nella foresta
amazzonica e all’isolamento per sfuggire alle rappresaglie che nel 2003 culminavano con l’assassinio del leader della comunità. Incentivati da un programma Onu i Kuna hanno cercato riscatto nel cacao, elemento che
è da sempre alla base dell’alimentazione, della cultura e dei rituali della popolazione. Gli alberi da frutto che
crescevano spontanei determinando una produzione da sussistenza hanno iniziato ad essere coltivati in maniera intensiva, in pochi mesi è nata una cooperativa che punta a incrementare i volumi mantenendo altissimi
i livelli della qualità. La rotta commerciale ha permesso ai Kuna di scavarsi un nuovo sentiero per uscire dalla
foresta, oltre le rotte dei narcotrafficanti e oltre il confine tra Panama e la Colombia, per giungere fino nel cuore
dell’Europa al mercato dolciario dell’Austria.
*[Terminati gli studi universitari in cinematografia, l’interesse verso le differenze culturali e le abitudini quotidiane, ha
spinto Veronica Adriani a cercare paesi diversi dove vivere, Canada, Spagna, Venezuela e USA con esperienze di
lavoro diverse. Studia fotografia a Roma, approda a New York con un internship nell’agenzia Magnum, collabora con
il laboratorio di stampa e sviluppo fotografico b/n, MV Photo Lab, di Jim Megargee & Cornelia Van der Linde a seguito
di queste esperienze inizia a portare avanti progetti fotografici a lungo termine. www.veronicadriani.com]
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Instante>>>
andrès leon baldelli
“So there’s a story about the lady in Louisiana
She’s a flood survivor and the rescue teams
They come through, and they, I guess tryna recover people
And they see this women she’s wadin through the streets
I guess it’d been some time after the storm
And I guess they were shocked that you know she was alive
And rescue worker said, “So, oh my God h-how did you survive
How did you do it? Where’ve you been?”
And she said, “Where I been? Where you been?”
Hah, Where you been? You understand?
That’s about the size of it”
“Dollar Day”, Mos Def
*[Andrès Leon Baldelli nasce a Roma e cresce cittadino del mondo. I suoi studi di dottorato e la sua carriera
da ricercatore in meccanica teorica lo portano a Parigi prima, negli U.S.A. poi, a Cambridge (UK) attualmente.
Instante>>>
The Ninth Ward a New Orleans.
La macchina fotografica e il suo occhio critico lo seguono in tutti gli angoli del globo.]
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Instante>>>
Instante>>>
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Miloje SAvic
The Lungs of Addis
Instante>>>
The mountain Entoto is north of Addis Ababa (Ethiopia): it is the local hill where folks go to escape hot days in
the city and visit local churches and monasteries. On the way to St. Raguel (Raphael) monastery, unexpectedly
a mint scent becomes stronger and stronger. The entire mountain is actually covered with eucalyptus trees the so called ‘Lungs of Addis’ (and one needs strong lungs to survive the air pollution in the nearby city). All
the way long you will come across hard working women packing huge piles of branches and carrying them on
their back. Blazing sun does not help. Their irresistible and apparently inexplicable smile –to which the camera
surrenders– makes the heavy load, probably worth less than a US dollar, look as the most precious good of
the area.
*[Miloje Savic nasce in Serbia, studia in UK, diventa cittadino del mondo. Si muove tra Stati Uniti ed Europa, la macchina
fotografica sempre al seguito. L’Italia è uno dei suoi paesi d’elezione ed è spesso a Roma. Ha all’attivo mostre fotografiche a NYC, Belgrado, Manchester. È membro dell’Associazione Americana Haiku.]
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Instante>>>
Liza Boschin
Ricetta per gamberi da offerta speciale:
- prendere un Paese lontano, povero. Consigliamo il Bangladesh.
- inondare per metà di acqua salata, distruggendo le dighe che contengono la costa
- obbligare i contadini a diventare allevatori di gamberi
- ricollocare con la forza chi si oppone
Instante>>>
- aggiustare di valuta straniera (ma solo per pochi)
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Instante>>>
<<<InstantE
*[Liza Boschin collabora con la RAI per il programma ‘Presa Diretta’ di Riccardo Iacona su Rai Tre. Liza ha scattato queste fotografie nel dicembre 2014, quando si è recata in Bangladesh per un servizio sulla provenienza dei gamberi tropicali.]
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Inmobile>>>
Individuo, coscienza, rivoluzione
RAJANISH PANDILI
Ogni espressione artistica, che ne sia o
meno consapevole, ha radici nel mondo
meno, ha effetti “civili”. Trovano spazio in
questa rubrica anche performances che
rifiutano un impegno politico immediato,
ma che nondimeno sono portatrici di un
valore di contestazione dell’esistente. Anzi,
spesso proprio gli artisti che non intendono
veicolare alcun messaggio politico
immediato riescono ad essere politicamente
incisivi, arrivando una prospettiva nuova sul
nostro vivere in società. È questo approccio
trasversale, non direttamente politico, che
abbiamo privilegiato nella nostra selezione,
scegliendo come filo conduttore il rapporto
tra l’individuo e l’Altro da sé, che sia l’amato
Human Rights?
Performance di Christos Alaveras, Christina Foitou & Thodoris Papadimitriou
In questione i diritti umani, tema abusato sino all’indifferenza, tanta l’abitudine della domanda. Eppure, Christos Alaveras,
Christina Foitou & Thodoris Papadimitriou adottano una prospettiva straniante rispetto alla retorica che si accompagna
sempre alle astrazioni della politica, quali diritto e essere umano. Il punto di vista è infatti dato dal punto di intersezione
tra coscienza e gesto, da un lato, e immagine (ciò che è rappresentato) e vuoto (l’irrappresentabile che si nasconde),
dall’altro.
Inmobile>>>
reale; e quindi, che ne abbia l’intenzione o
Dicono gli artisti a proposito dell’opera:
“In this experiential performance, which occurred among close friends, we searched for the inner bond of the individual
with the human rights. Christina is facing various sketches depicting aspects of human rights violations. Like the character in Antonioni’s “Blow Up”, she is trying to find what’s behind all this. In all the drama revealed while taking down the
sketches on by one, her painted reflection appears in a chaotically drawn synthesis, which later she takes down as well
in order to exorcise it with intense gestures, while in the indigo of the cello bewilderment. Christos freezes her repeatedly
and with flash-like charcoal lines he imprints her stages of expression on a large surface. Eventually, Christina sweeps on
this gestural registration of the penetration to the inner consciousness and stops in a silent position, under the traces of
the whole act.”
nella coppia, il concittadino nella comunità,
lo spettatore in una rappresentazione.
Maria Carla Trapani
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h t t p s : / / w w w. y o u t u b e . c o m /
watch?v=ChBOLT3STYE
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Incontro>>>
Inmobile>>>
Il soldatino di piombo
di Franco Losvizzero & Juan Diego Puerta Lopez
con Valentina Versino e la compagnia Progetto JDPL
Acquario Romano 17/04/2013
“Ma la smetti?”
“Il corpo è mio, decido io che cazzo fare, ok?”.
In questo scambio è la chiave di lettura che vi proponiamo per questa performance. Che non è certo di lotta civile, ma
essenzialmente politica, nella misura in cui mette in questione il rapporto tra il singolo – specie se donna – e il suo corpo
di fronte al radicalmente altro (il pubblico), da un lato, e al radicalmente intimo (ventre materno), dall’altro.
Non presenteremo la nuova rubrica. Si
h t t p s : / / w w w. y o u t u b e . c o m /
watch?v=-wmgilk5X5A
non è un’inchiesta. Piuttosto si direbbe
presenterà da sé, nello svolgersi stesso
dell’inchiesta sulla nostra artista. Ma una
precisazione preliminare ci sembra necessaria:
un’intervista. Deliberatamente abbiamo messo in
atto un détournement semantico, che disarticola
e riconfigura il rapporto tra significante e
significato. La nuova forma dell’inchiesta,
all’apparenza intervista, emergerà in superficie;
gli incerti intenti costituiranno la trama del testo,
mentre le ragioni andranno guadagnate nelle
profondità dell’interrogazione. Tenteremo di non
intervistare Anna Laura Longo: nostro intento è
fare un’inchiesta sulla sua arte attraverso la sua
parola, sulla sua vita attraverso i suoi lapsus…
Al bando le domande ordinarie, la costruzione
Turning the Earth - A Legacy of Cain
Julian Beck, Judith Malina & the Living Theatre, 1975, Pittsburgh’s Northside
giornalistico-pubblicitaria: compiremo i primi
passi per un’inchiesta inquieta e inquietante.
Vogliamo riproporre il video rimasterizzato di una performance storica. Perché, per quanto celebre, quella “Revolution”
gridata, ossessivamente ripetuta, di Julian Beck, conserva intatta la sua forza evocativa. Sperando che evochi ancora
scenari di cambiamento radicale, come espresso utopicamente dalle avanguardie artistiche della metà degli anni ‘70.
Con tutte le inevitabili ricadute nella trita banalità.
Maria Carla Trapani
https://www.youtube.com/watch
?v=BXKBuTyTY9g&list=PL92B88
75F330052EF
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Anna laura LONGO
Incontro>>>
Questa ad Anna Laura Longo è la nostra prima inchiesta contaminata.
Multisensoriale e riflessiva, teoretica e sensuale, classica e sperimentale, rigorosa ed eccentrica, contemplativa e concreta, complessa e immediata. Varcata la soglia dell’antro dell’artista, questi binomi pulsano in ogni dove: dalle pareti ai
divani, dal tavolo ai fornelli, dal letto al pianoforte. Dalle mani agli occhi di Anna Laura. Ho cercato di catturarne i battiti e
riprodurli, per i lettori di Diwali. Alla ricerca dell’artista in ogni luogo e in ogni parola, in ogni deviazione della voce.
Maria Carla Trapani
Performances:
Questo è il mese dei radiosi incarnati del suolo (inedita per Diwali – Rivista contaminata; testi di A. L. Longo)
Bianche porzioni per dimezzare il molteplice (testi in prosa di W. Kandinsky - testi poetici di A. L. Longo)
Foto: Matteo Barale
InDICAZIONI>>>
Per questo sussUrlo presentiamo due volumi
molto diversi tra loro. Il primo è una raccolta
di poesie che ripercorre l’intera esperienza
poetica di Titos Patrikios: Alessandra
Carnovale ci guida in quest’opera pubblicata
recentemente da Crocetti e che presenta
ai lettori un autore di ampio respiro poco
conosciuto in Italia. Il secondo volume è una
raccolta di racconti di autori vari, curata da
Musiche: J. Cage “three songs” per voce e pianoforte
Voce: C. van Wetter
Pianoforte: A. L. Longo
Riprese e montaggio: Maria Carla Trapani
Roma, 10 febbraio 2015
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Maria Carla Trapani e che ci viene proposta
qui dall’editora Dona Amati.
Flavio Scaloni
53
<<<InDICAZIONI
La resistenza dei fatti di Titos Patrikios
“Cerco di chiamare le cose
Vorrei inoltre affermare apertamente
col loro nome
che sono arrivato al punto di detestare
e ogni tanto incontro
ogni sorta di violenza, di chiunque sia.”
nuove difficoltà.
Per esempio chiamare la violenza violenza
e non intervento di pacificazione
(da La violenza, 2000)
la violenza dei potenti e dei ricchi,
e neppure eccessi inevitabili
la violenza dei poveri e degli oppressi.
InDICAZIONI>>>
(…)
Classe 1928, figlio di artisti, Titos Patrikios fa parte di quella generazione che ha vissuto sulla propria pelle l’occupazione nazifascista, la guerra civile e la detenzione nei
campi di Makronissos* e Aghios Efstratos (dove incontrò il
suo amico e mentore, Iannis Ritsos). Ha poi trascorso oltre 20 anni in esilio a Parigi e Roma, non tornando a stare
permanentemente in Grecia fino agli anni ‘80.
Avvocato, poeta e traduttore ha speso lunghi periodi della sua vita in Francia e Italia. Nel 2009 è stato premiato
nell’ambito della 5a edizione del Festival di poesia civile di
Vercelli per il suo libro “La casa e altre poesie”, edito da
Interlinea.
Temi ricorrenti dell’opera poetica di Patrikios sono la memoria e l’impegno politico e civile. Accanto alla narrazione,
che è già di per sé una scelta politica, volta a dar battaglia
all’oblio, un atto di resistenza della vita contro la morte, il
poeta si sofferma più volte sul sussUrlo dei compagni uccisi e nei confronti dei quali si sente in debito […la pallottola
a cui scampai non andò a vuoto/ma colpì l’altro corpo che
si trovò al mio posto./ Così, come un dono immeritato, mi
fu data la vita, / e tutto il tempo che mi resta/è come se mi
fosse stato regalato dai morti/per narrare la loro storia. da
Debito, 1957], nel tentativo di dare voce a chi non può o
non può più testimoniare.
Etichettato come poeta “politico” e “sociale”, Patrikios è
considerato il principale rappresentante della cosiddetta
“poesia della sconfitta”. In effetti, soprattutto nella fase iniziale, la sua opera è segnata dai traumi collettivi e personali
conseguenti all’occupazione nazifascista, alla guerra civile
e alla successiva repressione politica: l’inevitabile delusione esistenziale convive con le istanze di cambiamento e
con l’utopia di un mondo più giusto, dove la memoria è
per il poeta l’unico antidoto all’orrore, un rifugio per l’uomo contemporaneo.
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il legame con la terra.
Nonostante l’impegno politico, tuttavia Patrikios non crede che la poesia, anche quella militante, abbia potere sulla politica o la storia (“…nessun verso oggi può rovesciare regimi”, scrive nel 1957 in Versi, 2, per poi riprendere
lo stesso concetto, anni dopo – 1982- in Versi, 3), ma la
scrittura, e la scrittura poetica in particolare, è per lui una
ricerca di autenticità, un ridare il giusto valore alle parole
o come ne I simulacri e le cose (2000) “…Passando in
rassegna le cose già accadute/la poesia cerca risposte/a
domande non ancora fatte”.
Crocetti ci presenta in questa raccolta un poeta “concreto”, che racconta i “fatti” con una scrittura che nulla concede a futili divagazioni o artificiosi abbellimenti letterari,
anzi: “La poesia si fa/senza suoni melodiosi/senza colori/
solo con segni bianchi e neri (…) (La poesia si fa, 1992).
La resistenza dei fatti è una raccolta che copre, in un lungo excursus, testi dal 1948 (Ritorno alla poesia, 19481951) al 2007 (Il nuovo tracciato, 2000-2007) e attraverso
la quale si può seguire il susseguirsi di temi, dai più antichi,
Come ha scritto Filippo Maria Pontani nella sua Introduzione a questo volume, per Patrikios la poesia è soprattutto
«testimonianza, rimedio all’oblio, inesausta esortazione al
ricordo dei compagni uccisi, della barbarie vissuta e mai
del tutto debellata, del dolore che non solo lui […] ma tutta una generazione, un popolo, un mondo hanno patito,
seppure a vari gradi di coinvolgimento, di consapevolezza, di indignazione».
Accanto al ricordo di spie e compagni, la critica alla modernità che vuole cancellare i fatti, la condanna di falsi
poeti e raggiri, altri temi: la lingua, il viaggio, l’età, il mito,
l’eros.
A cui si aggiungono ulteriori aspetti dell’esistenza: le donne, l’amore, i paesaggi dei luoghi che ha visitato o dove è
vissuto (l’Italia, la Francia, la Grecia), il ricordo dei genitori,
55
Indicazioni>>>
legati alle esperienze politiche [così, ad esempio, in Anni
di pietra su Makrionissos : (…) Così imparai quanto pesa
la sabbia/com’è dura la pietra che non si spacca/come si
sradicano i lentischi e gli spinaporci./La sabbia m’è rimasta in bocca per sempre/la pietra per sempre sul cuore/
gli spini confitti per sempre nelle unghie] fino alle nuove
tirannie e i nuovi labirinti della modernità […Ma simulazioni di labirinti,/costruzioni oscure,/continuarono ad essere
fatte con nuovi materiali,/con nuovi mostri, vittime, /eroi,
sovrani./Si fanno soprattutto labirinti di parole,/ogni anno
vi entrano nuove infornate,/ragazzi e ragazzi, con timore
e noncuranza/per botole e tranelli, vicoli ciechi,/con l’ambizione di riformare e di rappresentare/l’antico dramma
riadattato ai nuovi eventi…, da Storia del labirinto], poesie
in cui, dopo aver preso le distanze dalla tradizione e dal
mito, l’autore, trovata la propria voce, può tornare a connettersi con l’antichità.
La resistenza dei fatti è una raccolta pervasa dalla consapevolezza del cambiamento, dello scorrere del tempo,
avendo come unica arma la parola per sottrarre persone e
fatti al destino dell’oblio, in uno stile sobrio e asciutto che
non indulge mai a forme di autocommiserazione.
Unica pecca di questa elegante raccolta: la mancanza del
testo originale greco a fronte.
Alessandra Carnovale
*Piccola isola delle Cicladi, che durante la guerra civile
greca e la dittatura dei colonnelli, è stata utilizzata come
luogo di esilio di oppositori politici, soprattutto i comunisti.
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TITOLO La resistenza dei fatti
AUTORE Titos Patrikios
EDITORE Crocetti
PREZZO DI COPERTINA 18,00 €
PAGINE 192
ISBN 88-8306-105-5
Notizie sull’autore:
Poesie di Patrikios sono state pubblicate in tutti i Paesi
europei e in Messico, Cile, Brasile e Egitto. Due sue raccolte sono state tradotte in Francia, una in Germania e
un’antologia dei suoi versi è uscita negli Stati Uniti. La resistenza dei fatti è la prima e la piú ampia antologia uscita
in Italia. Dei numerosi riconoscimenti ottenuti da Patrikios
si ricorda il Grande Premio di Letteratura dello Stato Greco (1994). Nel 2004 il presidente della Repubblica Italiana
Carlo Azeglio Ciampi gli ha conferito l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica per il suo contributo allo sviluppo
dei rapporti culturali tra l’Italia e la Grecia.
Certi libri nascono anche dalla felice intuizione di avere
complici adeguate nel trattare percorsi spinosi, come può
essere quello di ridiscutere i presunti privilegi di condizioni personali solitamente ambìte. È per questo che, come
direttora editoriale, ho pensato a Maria Carla Trapani per
la curatela di un progetto letterario che invitasse le donne
a raccontare non l’elogio della bellezza, valore celebrato, rincorso, evocato fin dai tempi antichi come uno stato
di grazia (basti ricordare Paride che delle tre ricompense offerte dalle dee in competizione proprio per la bellezza a fronte del suo ‘giudizio’, sceglie la donna più bella
del mondo), ma che al contrario, descrivessero piuttosto
i pur possibili svantaggi, le relazioni nevrotiche , implicate
nell’avvenenza, insomma, gli stati di disagio personale e
sociale che dalla bellezza possono derivare. Dall’assenso di Maria Carla, sempre pronta a indagare argomenti di
trincea e a rimettere in discussione modelli predefiniti, è
nato un concorso letterario cui hanno risposto con spirito
ed esperienze simili, ma anche opposte, un centinaio di
autrici, tutte accomunate dal voler spiegare la controversa relazione con uno dei feticci più celebrati della cultura
umana. Dalla selezione accurata dei materiali arrivati in
redazione, ventotto racconti tra tragico e ironico, abbiamo composto il volume Sono bella, ma non è colpa mia
– L’inconvenienza dell’avvenenza, dando ragione all’idea
che ci fosse molto da raccontare sulla bellezza vissuta in
modo problematico, stabilendo un contraddittorio con chi
definisce da sempre questo status un miraggio da inseguire, quando invece può anche rivelarsi come una ‘torre
d’avorio’ di isolamento. La bellezza può, anche, innescare
la competizione tra donne, si pensi alla cultura classica e
al mito di Psiche contrastata per la sua bellezza da Afrodite, o anche a storie di cinematografica memoria come
“Malena”, dove all’avvenenza di una corrisponde la fru-
strazione di altre. Ma questa inquietudine non è neanche
estranea al ruolo che il potere maschile gioca nel caricare
di negatività la sensualità femminile, fino a farne motivo di
discriminazione. Anche con questo le donne devono imparare a misurarsi, in quanto troppo spesso si innescano,
a partire dall’avvenenza, relazioni faticose e disfunzionali,
reazioni nevrotiche, fino a distorsioni della personalità e a
condizionamenti comportamentali. La bellezza, una condizione generalmente ambìta, diventa perciò un malessere
indotto, una disparità indesiderata. Eppure, non sarebbe
giusto assecondare questa dinamica perversa. La bellezza, tanto più se è ricercata e ostentata, quando è frutto
di una libera identificazione di genere, deve essere difesa
come un diritto, di cui possono e devono godere tutti, liberamente.
InDICAZIONI>>>
Sono bella, ma non è colpa mia –
L’inconvenienza dell’avvenenza
AA. VV., a cura di MARIA CARLA TRAPANI
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Voi siete straordinariamente bella, Aglaja Ivanovna. Siete tanto bella che si ha paura a guardarvi.
È difficile giudicare la bellezza; non vi sono ancora preparato. La bellezza è un enigma […]
tremenda e orribile cosa! Là gli opposti si toccano, là vivono insieme tutte le contraddizioni!
Fëdor Dostoevskij
Come scrive Maria Carla Trapani nella sua introduzione
al volume, “In una società in cui la rappresentazione della ‘carne’ domina l’immaginario, non desta certo stupore che attorno all’esibizione del corpo femminile possano
aggrovigliarsi i nodi irrisolti della questione di genere. A
volte capita anche che questo corpo, per natura o per
scelta, sembri corrispondere ai rigidi canoni di bellezza
vigenti. Ecco, considerare invece che questa corrispondenza, apparentemente fortunata, possa essere percepita come un ostacolo alla propria realizzazione, ci può
portare a un interessante spostamento del nostro punto
di vista abituale. […] Un altro tipo di dolore si sente nelle
voci qui raccolte, esso scaturisce dal rifiuto di confrontarsi
sul terreno della colpa e della bellezza come strumento: la
bellezza viene rivendicata, come un diritto, e la discriminazione non e più subita, ma contestata alla radice. […]
Reazione comprensibile e quella della difesa, della discolpa, della propria mancanza di responsabilità per la natura maligna dell’avvenenza. […] L’erotismo è una risorsa
che è presente dentro ciascuna di noi. “Sono bella e non
e colpa mia”, sembra di sentire, ma la mia mancanza di
colpa non è candida innocenza dietro la quale il diavolo si
nasconde. La mia mancanza di colpa e rivendicazione del
diritto di decidere del mio corpo senza che questo debba
comportare alcun giudizio di valore da utilizzare per mutilare la mia capacità di scegliere quanto, e soprattutto
come, essere donna. Disporre della propria bellezza, ricercarla, costruirla ed esporla, non è una colpa perché è
un diritto. E come tale va rivendicato, da ognuno, che sia
donna, uomo o transgender”.
Insomma, non è tanto la bellezza “nostro malgrado”, a
intimorire, ma la libera scelta, ed è questa libera scelta di
essere, che abbiamo chiesto alle donne di raccontare.
Dona Amati
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TITOLO Sono bella, ma non è colpa mia – L’inconvenienza
dell’avvenenza
AUTORE Aa. Vv.
A CURA DI Maria Carla Trapani
EDITORE Fusibilia Libri
PREZZO DI COPERTINA 15,00 €
PAGINE 112
ISBN 9788898649051
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