La rieducazione alla scrittura come conquista espressiva

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La rieducazione alla scrittura come conquista espressiva
La rieducazione alla scrittura come conquista espressiva
Sarah Sajetti
Corso di Rieducazione del Gesto Grafico – AED Milano 2015/2016
Introduzione
“Scrivere è una realizzazione individuale, materializzazione unica della personalità che lascia
trasparire senza dubbio gli aspetti più intimi dello psichismo umano, quello che gli psicologi
cercano nelle parole o nei sogni e che i grafologi dicono di trovare nell’analisi del grafismo”. 1
Lo scrittore e docente universitario Giorgio Celli, in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera,
diceva: “Mi rivedo, saranno più di vent' anni, in un ristorante di Bologna, con Italo Calvino, a
parlare dell'alfabeto, questo arcolaio incantato dei sogni. Calvino mi confessava, e credo sia
successo un po' a tutti quelli che fan vita di penna, di essere stato sorpreso, certe volte, quando
scriveva, dalla meraviglia dello scrivere, dalla magia delle lettere e delle parole, che sedimentano e
si ordinano dentro il perimetro chiuso della pagina.”
Del resto già Voltaire sosteneva che “La Scrittura è la pittura della voce”, suggerendo l'idea che
questo strumento sia, oltre che un mezzo di comunicazione e relazione, soprattutto un mezzo di
espressione di sé.
Certo Celli, Calvino e Voltaire hanno avuto un ben diverso approccio alla parola scritta, anche solo
in considerazione del fatto che Celli, morto nel 2011, ha di certo scritto con il computer, Calvino
con la macchina da scrivere e Voltaire con la penna d'oca. Il mezzo utilizzato non è dunque, a
quanto pare, fondamentale per definire il valore di un'opera letteraria. Eppure i grafologi sanno che,
nell'ambito dell'espressione del sé, la scrittura manuale aggiunge altri significati oltre a quelli
trasmessi dalle parole, un sottotesto emotivo del quale spesso lo stesso scrivente è ignaro. Questo
sarebbe già da solo un ottimo motivo per incentivare l'uso della penna, ma non è l'unico. Numerosi
studi recenti hanno infatti messo in evidenza come i processi cognitivi siano influenzati
dall'aumento della digitalizzazione e dalla progressiva sparizione dai programmi scolastici di molti
Paesi dell'insegnamento del corsivo.
La scrittura a mano, dunque, travalica il semplice significato di “comunicazione”: per ottenere solo
questo scopo è sufficiente, al giorno d'oggi, la tastiera di un computer e un programma per
trasmettere e-mail, oppure al più una stampante che dia alle parole un supporto cartaceo. La
rieducazione delle disgrafie, dunque, non avrebbe un gran senso se non fosse per quelle altre
ricadute cui ho accennato, che travalicano la trasmissione delle informazioni.
Formazione e sensibilità personale mi hanno portata a concentrarmi sul tema, più scivoloso perché
scarsamente documentato, ma estremamente suggestivo, dell'importanza della scrittura manuale
come forma di espressione personale, più intima, più autentica, più poetica.
1- G. Serratrice, M. Habib, L'écriture et le cerveaux – Mécanismes neuro-physiologiques, Masson,
Paris 1993
La scrittura è stata una grande conquista dell'umanità. Non solo perché, come cercherò di
riassumere brevemente nelle prossime pagine, ci sono voluti migliaia d'anni perché gli esseri umani
passassero da forme prescritturali, come i pittogrammi e i petroglifi, a un linguaggio simbolico
codificato in grado di esprimere il pensiero nella sua complessità, ma perché per gran parte della
storia della scrittura, trasversalmente a popoli, culture, alfabeti, essa è stata appannaggio di una
minoranza di persone. Solo nel corso del Novecento l'istruzione universalistica, peraltro ancora oggi
diffusa solamente in alcuni Paesi, ha consentito a una vasta fetta della popolazione di esprimersi
attraverso la parola scritta. Lettere d'amore, messaggi di congratulazioni, condoglianze, auguri,
corrispondenze amicali, il cui significato esplicito, il testo, si è arricchito di altre sfumature
espressive.
Se è vero che solo un grafologo è in grado di decodificare queste sfumature nella loro complessità, è
anche vero però che a tutti noi è capitato di essere colpiti da sensazioni di piacere, fastidio, fiducia,
calore, freddezza e molte altre ancora semplicemente guardando lo scritto di qualcuno, a
prescindere dal contenuto. Alcune grafie, insomma, ci mettono a disagio o ci attraggono senza che
neppure sappiamo perché.
È possibile paragonare, per espressività, la scrittura a mano al linguaggio del corpo: di quante
sfumature arricchisce la comunicazione un'espressione del viso, il gesticolare delle mani, la
postura? Ognuna di queste azioni invia un segnale visivo in grado di comunicare gioia, paura,
insicurezza, spavalderia, piacere e una miriade di altre emozioni, allo stesso modo delle lettere
tracciate su un foglio.
Ma c'è dell'altro. Gli esseri umani, dagli albori della storia, hanno sentito l'esigenza di lasciare una
traccia visibile, espressione del loro mondo emotivo, magico e rituale. Qualcosa ci ha dunque
spinto, a partire da tempi antichissimi, a utilizzare il gesto grafico per parlare di noi e del mondo
attorno a noi, utilizzando strumenti sempre più astratti mano a mano che la nostra capacità di
astrazione si acuiva, fino ad arrivare al linguaggio simbolico che oggi utilizziamo.
L'evoluzione del gesto grafico nella storia dell'umanità, dal disegno di forme estremamente
semplificate all'alfabeto, sembra riprodursi all'interno del singolo essere umano, capace di passare
dallo scarabocchio alla scrittura con l'aumentare della capacità cognitiva e astrattiva.
Alcuni studiosi ritengono che la maggior parte dei bambini smetta di disegnare intorno ai
quattordici anni, soprattutto a causa della convinzione di “non essere capaci”, di non essere dunque
in grado di rappresentare il mondo esterno come lo vedono, in un'età in cui il mondo emotivo è in
subbuglio e perlopiù inesprimibile. La trasformazione vissuta negli anni dell'adolescenza, che non
trova più sfogo nel disegno, continua però a manifestarsi attraverso la scrittura, con forme che
esprimono in maniera chiara la fatica, la ribellione, la paura, l'intransigenza, l'idealismo, le pulsioni
proprie di quell'età.
A mio parere la ricerca di una grafia che si percepisca come propria, capace di esprimere
l'individualità, è quindi parte del processo di crescita, che si ancora al bisogno ancestrale di tracciare
segni in grado di assolvere al duplice processo comunicativo ed espressivo. Un bambino disgrafico
è quindi privato di uno strumento fondamentale per la sua crescita e il suo sviluppo.
In quest'ottica, la rieducazione del gesto grafico assolve dunque a una funzione importantissima:
restituire la possibilità di “lasciare una traccia”, spinta alla quale non credo si debba rinunciare in
nome della semplificazione, della tecnologia e del progresso.
Dal pittogramma all'alfabeto, dal disegno alla scrittura
“Da dove vengono le sue immagini? Certamente da una mano abile, capace di calibrare il tocco
delle dita, di tracciare una linea continua con un carbone di legna o di sfumare il colore con un
gessetto d’ocra su una parete rugosa. Non è cosa da poco. Per giungere a questo risultato è dovuto
trascorrere un tempo infinito – la temporalità quasi immobile della evoluzione naturale –
attraverso il quale una nuova specie nascente ha visto progressivamente un arto rigido, funzionale
per lo più agli spostamenti della vita arboricola, trasformarsi in uno straordinario strumento di
raccordo fra il mondo circostante e i progetti della mente.” 2
La storia della scrittura è ancora materia assai dibattuta e gli storici non sono concordi tra loro
pressoché su nulla, se non sul fatto che, presumibilmente, i primi sistemi di scrittura siano stati
evoluzioni di precedenti sistemi simbolici, non classificabili come vere e proprie scritture, pur
avendo alcune caratteristiche simili. Tali sistemi risalgono a tempi molto antichi, secondo alcuni ai
primi anni del Neolitico, cioè circa al 7000 a.C. Diecimila anni prima i nostri progenitori erano
intenti a pitturare le pareti delle grotte con scene di caccia, e 4000 anni dopo nascevano quelle che
sono considerate le più antiche scritture della storia, il cuneiforme assiro e il geroglifico egizio.
Secondo Hannes Obermeir, un illustre studioso d'arte delle origini, i primi segni intenzionalmente
lasciati dagli esseri umani sarebbero stati fitti intrecci di solchi prodotti con le unghie sulle pareti
argillose delle grotte nelle quali cercavano riparo. Forse i nostri progenitori cominciarono a
produrre questi segni imitando quelli lasciati sulle pareti delle caverne dagli orsi che vi si
arrotavano le unghie.
Da questi primi “graffiati”, gli esseri umani passarono ai graffiti e alle pitture rupestri: pare che
lasciare tracce grafiche del loro passaggio provocasse loro un certo piacere, a giudicare dalle
migliaia di esempi rinvenuti in tutto il mondo, tra cui ricordo le figure di bisonti e di tori di Altamira
2 - Gabriella Brusa-Zappellini, Morfologia dell’immaginario. L’arte delle origini fra linguistica e
neuroscienze, Arcipelago Edizioni
e di Lascaux.
Quale fosse il significato di queste opere è oscuro: erano semplici riproduzioni del mondo che
vedevano intorno a loro? Servivano a propiziare la caccia? Tracciavano una sorta di epica del
gruppo di appartenenza? Lo stesso significato misterioso hanno i disegni di strane creature, per lo
più antropo-zoomorfe, rinvenute in decine di siti in tutto il mondo.
Quale che fosse il loro scopo, è parere diffuso che la scrittura pittografica rappresentasse oggetti e
avvenimenti e non idee convenzionalizzate o concetti. Si dovette aspettare qualche millennio e
l'evoluzione di queste forme narrative nelle scritture ideografiche per arrivare alle rappresentazioni
complesse di oggetti e idee.
L’invenzione delle prime scritture ebbe luogo quasi contemporaneamente in Oriente: è a Sumeri,
Egizi e Accadi che si devono le prime testimonianze scritte, risalenti alla fine del IV millennio, una
forma mista di ideogrammi ed elementi fonetici che esprimono contenuti di tipo perlopiù
economico, ma anche politico, storico e religioso.
Con la scrittura cuneiforme, nata in Mesopotamia tra il 4000 e il 3500 a.C., per la prima volta si
perse ogni traccia dell’oggetto che i segni rappresentavano. La complessità di questa scrittura, che
contava 1500 segni distinti, la rese appannaggio di una piccola casta di scribi, che dipendevano da
istituzioni come templi e palazzi e svolgevano mansioni di contabili e archivisti.
Parallelamente, nell’Egitto del 3000 a.C., fu messa a punto una scrittura ideografica che, pur
utilizzando segni che si ispiravano a immagini comuni (uccelli, parti del corpo) potevano indicare
sia l’oggetto concreto sia il concetto a esso collegato.
Come riassume brillantemente Celli, “l'avvento della pastorizia e dell'agricoltura, la nascita della
città, ha rotto questo corto circuito e fatto nascere nuove esigenze di comunicazione. Se vuoi
alludere a un bue, a che serve dipingerlo con precisione? Tempo sprecato. Puoi cercare di
raffigurarlo con quei pochi tratti che lo rendono ancora riconoscibile, quindi non con un'icona ma
con un'iconema: quattro zampe, due corna e il gioco è fatto. Dopo la magia della caccia, inizia la
grande magia della scrittura.”
In effetti uno dei passaggi evolutivi più importanti per la scrittura fu l'introduzione di segni che
corrispondessero ai suoni: si tratta dell’invenzione dell’alfabeto, un sistema di simboli in cui i segni
cessano di fare riferimento all’oggetto che rappresentano e corrispondono esclusivamente al suono
utilizzato per definirlo. Bisogna comunque notare che sistemi non alfabetici sono tutt'oggi diffusi in
alcune parti del mondo, come per esempio in Cina e in Giappone, dove si utilizza ancora la scrittura
ideografica: saper leggere e scrivere in questi Paesi significa imparare a memoria più di duemila
segni.
L'alfabeto invece, con pochi semplici segni, permette di leggere e scrivere tutte le parole: anche se
non si sa con certezza quando e dove nacque, la teoria più accreditata sostiene che, tra il XVII e il
XV secolo a.C., alcuni lavoratori di lingua semitica impiegati dagli egiziani nelle miniere di rame e
turchese del Sinai escogitarono il sistema dell'acrofonia, che sostituiva all'originario significato
dell'ideogramma il suono iniziale della parola corrispondente nella loro lingua. Il segno geroglifico
della pianta di una casa, per esempio, fu utilizzato per indicare il suono iniziale della parola beth,
“casa” in semitico.
Questo alfabeto, come quello fenicio elaborato intorno al 1600 a.C., era privo di vocali, ritenute
estensioni sonore dei segni, che furono introdotte solo nel 750 a.C. con la nascita del primo alfabeto
greco. Nell'VIII secolo a.C. si sviluppò quindi l'alfabeto latino, probabilmente per derivazione
diretta da quello greco o, secondo alcuni studiosi, da quello etrusco.
La maggior parte di questi alfabeti contemplava una scrittura cosiddetta “monumentale” e una
versione semplificata, più semplice e rapida, detta perciò “corsiva”: la scrittura ieratica e demotica
rappresentavano l'evoluzione corsiva di quella geroglifica, la scrittura semitica fu corsivizzata da
scribi che utilizzavano pennelli su papiro o pergamena (da essa derivò l'alfabeto arabo) e lo stesso
accadde per il greco dei papiri. Diversi graffiti sui muri di Pompei sono scritti in forme di corsivo,
che però sono oggi praticamente illeggibili, mentre l'attuale scrittura corsiva per l'alfabeto latino fu
messa a punto da studiosi Umanisti nel tardo Medioevo.
Il lungo percorso compiuto dagli esseri umani per passare dai pittogrammi alla scrittura può essere,
forse un po' arditamente, paragonato a quello compiuto dal bambino per passare dallo scarabocchio
alla scrittura, un percorso che richiede una dozzina d'anni per arrivare a compimento.
Dal primo anno d'età a circa il secondo il gesto grafico è poco più di una scarica motoria, durante la
quale il bambino non guarda neppure quello che fa e il colore è indifferente, anche se spesso è
legata a sentimenti di aggressività o soddisfazione. Perché questa scarica si trasformi in un prodotto
grafico serve la coordinazione oculomotoria, che si sviluppa dai due ai tre anni, in due fasi: nella
prima l'occhio segue la mano, nella seconda l'occhio guida la mano, portando alla creazione di
scarabocchi intenzionali, che si esprimono inizialmente in fasce di linee curve.
Vorrei paragonare questa fase a quella dei graffi sulle pareti delle caverne, in cui la mano era
sicuramente guidata da un'intenzionalità, ma in cui era ancora assente un chiaro contenuto
comunicativo. Già a questo punto è comunque possibile evincere, dai segni che traccia, alcune
informazioni sul temperamento del bambino (grado di sicurezza, di facilità relazionale, di
sensibilità, di ostinazione, di tranquillità e di aggressività) attraverso l'osservazione di caratteristiche
come la velocità, la continuità, la pressione, la presenza di colori e la loro quantità.
Verso i tre anni comincia ad apparire il disegno, che trova il suo pieno sviluppo intorno ai
quattro/cinque anni. Dapprima compare l'“uomo-girino”, caratterizzato da una testa con linee
divaricate che rappresentano braccia e gambe, a volte occhi. In seguito compare il tronco, costituito
da un altro cerchio o da un parallelepipedo attaccato alla testa, al quale iniziano a collegarsi braccia
e gambe. Intorno ai cinque anni il volto si arricchisce di particolari (naso, bocca, orecchie, pupille) e
braccia e gambe sono collocati correttamente. Dai sei agli otto anni arrivano collo, mani e piedi,
oltre a elementi decorativi come capelli e abiti.
Siamo di fronte a ciò che furono, per i nostri progenitori, i pittogrammi: immagini stilizzate a
contenuto narrativo, attraverso le quali il bambino esprime il suo mondo e la sua personale epica,
oltre alla sua personalità, deducibile da parametri come il simbolismo spaziale, la velocità, la
pressione e la scelta dei colori. È qui che iniziano a entrare in gioco le questioni al centro di questa
tesi, ossia lo sviluppo del gesto grafico come conquista evolutiva e contenuto espressivo altamente
personalizzato, non solo dal punto di vista del messaggio ma anche della pulsione che lo genera. Ed
è qui che cominciano a entrare in gioco le competenze del rieducatore, laddove l'abilità
grafomotoria inizi a manifestare aree problematiche, intuibili dalla presenza di altri elementi, come
incertezze nel tratto, cancellature, tendenza a sporcare, rapporto curve/angoli, capacità di colorare
dentro i bordi.
Quando presenti, queste problematiche si acuiscono con l'ingresso a scuola e l'insegnamento della
scrittura: nel corso dei tre momenti individuati da Julian de Ajuriaguerra, neuropsichiatra
considerato il padre della rieducazione alla scrittura, il bambino completa la sua evoluzione “dai
pittogrammi all'alfabeto”, passando dalla fase precalligrafica, a quella calligrafica e finalmente a
quella postcalligrafica: la conquista della scrittura si completa a partire dai tredici anni, quando si è
raggiunto il massimo controllo formale e spaziale, con i primi abbozzi di semplificazioni e
personalizzazioni, divenendo sempre più lo specchio della personalità dello scrivente, allo stesso
modo in cui lo sviluppo dei vari stili calligrafici ha costituito, per l'umanità, lo specchio dei tempi.
La disgrafia come interruzione del processo espressivo
“Specchio specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?”. Regina di Biancaneve
Ma cosa accade quando la scrittura fatica a superare la prima fase e il bambino, giunto a quella che
è considerata “l'età dell'oro della scrittura”, che va dagli 8/9 anni ai 12 circa, fatica ancora a
controllare il gesto, a gestire spazi, curve e collegamenti, ad affrontare foglio e penna con
disinvoltura?
È comunemente accettato che, poiché l'apprendimento della scrittura è uno dei primi compiti
affrontati nella scuola elementare, i risultati positivi infondono soddisfazione e sicurezza nei
confronti del nuovo contesto. Al contrario, risultati negativi causano un vissuto di disagio, poiché la
brutta scrittura pone il bambino di fronte a una incapacità, della quale non comprende le
motivazioni. Sensazione d’inadeguatezza aumentata dalle esortazioni degli insegnanti, dal
confronto con i compagni e dalla delusione dei genitori, che rafforzano il sentimento d’inferiorità e
d'impotenza e possono condurre a un atteggiamento rinunciatario non solo nei confronti della
scrittura, ma del percorso scolastico in generale. In base al temperamento e al disagio provato i
ragazzi possono anche arrivare a manifestare forme d’ipersensibilità, inibizione e chiusura, oppure
stati d’ansia o ancora comportamenti disturbanti e provocatori.
Non è solo il fatto di non riuscire a produrre una scrittura soddisfacente per gli altri a creare disagio,
ma anche quello di non riuscire a produrre una scrittura soddisfacente per sé: come riconoscersi in
quei quaderni pieni di cancellature, in quelle parole esitanti o così marcate da far quasi accartocciare
la pagina, in quelle lettere incomprensibili, del tutto inadeguate a dar forma alle parole, e cioè ai
pensieri? Parlando della sua grafia, T. dice: “L'assurdo è che riesco tranquillamente a fare a mano
uno studio prospettico comprensivo di ombre di solidi geometrici anche non regolari, ma scrivere
no... il mio corsivo sembrano le coltellate di un maniaco omicida sulla sua vittima del momento”.
Secondo la letteratura, sarebbe il 20% dei bambini a presentare difficoltà grafomotorie, percentuale
altissima che dipende, tra le altre cose, dal mancato sviluppo della motricità fine. Secondo la
pedagogista Stephanie Müller il 70% dei bambini escono dalla scuola materna senza aver raggiunto
un adeguato sviluppo di manualità e fisicità: “Oggi non si gioca più in strada, non ci si arrampica
sugli alberi, non ci si allaccia le scarpe, non si corre e salta, non si infila un ago. Si premono tasti, o
si tocca uno schermo, tutte cose che richiedono l’uso di altri muscoli rispetto a quelli necessari per
tenere in mano una penna, e che non consolidano la coordinazione necessaria a scrivere in corsivo”.
L'ingresso alla scuola primaria rischia quindi di tradursi, per molti bambini, in un'esperienza
traumatica, non solo perché cambiano completamente il tipo di impegno richiesto e la tipologia di
attività svolte, non solo perché per la prima volta nella sua vita il bambino si trova a dover
rispondere a richieste di performance, ma anche perché il mancato sviluppo della motricità fine
rischia di tradursi nell'impossibilità di gestire in maniera funzionale lo strumento grafico. “Il mio
cervello non percepisce quello che fa la mia mano. Posso sentire la matita, ma il messaggio non
passa nel modo giusto. Devo stringere forte la matita, così il mio cervello capisce che ce l'ho in
mano. È molto più facile per me spiegare le cose a voce che scrivere”.
In qualche caso questa difficoltà si risolve da sola, con molto impegno, come accaduto per L., che
ricorda: “Da bambina, fino a 9 anni, avevo una calligrafia molto brutta, le maestre mi
rimproveravano sempre. Allora feci una fotocopia del quaderno della mia compagna di classe che
aveva la calligrafia più bella e mi esercitai per mesi a scrivere come lei, finché ci riuscii”.
Altre volte è necessario un intervento di rieducazione, spesso lungo e faticoso, che può però
restituire al bambino il piacere della scrittura.
Se un bambino su cinque mostra difficoltà grafomotorie, una percentuale minore, attestata intorno
al 4%, presenta invece un DSA, disturbo specifico dell'apprendimento, che solo in rarissimi casi è
puramente disgrafico, mentre normalmente coinvolge una serie di altri disturbi, primo tra tutti la
dislessia. È il caso di G., che dice: “Quando scrivo ho bisogno di scandire dentro la testa tutte le
parole, e spesso anche le lettere, se non lo faccio è come se non sapessi scrivere. Non riesco
neanche a firmare se non mi dico nella testa quello che sto scrivendo”. Anche T. riporta un'analoga
difficoltà: “Se mi sforzo, ma si tratta di dedicare la massima concentrazione allo scrivere, un po'
incespicando riesco a scrivere in una lingua comprensibile e per nulla dissimile dalla grafia appresa
alle elementari. È uno sforzo che posso protrarre per 10-15 minuti al massimo, poi mollo,
mentalmente sfinito, e non è nemmeno detto che sia riuscito a scrivere una pagina intera delle cose
che ho in testa”. E così si esprime, al proposito, J.: “Ho due scritture: una leggibile, e un'altra che
chiamerei 'ommioddio, quanto parla veloce sto prof, non riesco a stargli dietro'. Nella seconda
modalità la scrittura diventa frenetica, perdo quasi il controllo della penna e mi ritrovo a fare fusioni
di parole, confondo le lettere delle parole adiacenti, scrivo un po' in stampatello un po' in corsivo.
Se non trascrivo in bella lo stesso giorno gli appunti presi così, è molto probabile che non capisca
più niente neanch'io”.
In questo caso la rieducazione è ancora più lunga e complessa e non è affatto scontato il suo
successo, che spesso è puramente formale e non conduce alla fase postcalligrafica, quella in cui la
grafia è espressione genuina della personalità: “Quando andavo a scuola avevo una calligrafia
orrenda che nessuno capiva, così mi sono impuntata e passavo i pomeriggi e a volte le notti a
scrivere, plasmando la mia grafia con uno studio maniacale di ogni dettaglio. Risultato: quando gli
altri leggono qualcosa che scrivo solitamente commentano 'che bella calligrafia, sembra un libro
stampato'. Ma io vorrei rispondergli che non è la mia”.
Secondo lo psicologo, pedagogista e grafologo Robert Olivaux, autore, tra gli altri, del libro
Pedagogia della scrittura e grafoterapia, se la scrittura subisce un arresto nella sua evoluzione, non
è mai senza una ragione complessa e grave, nella quale spesso si sommano a problemi di ordine
motorio altre problematiche, quali paura, rifiuto e opposizione.
“Le condizioni principalmente motorie d'esecuzione della scrittura, quella che chiameremo
'funzione strumentale', costituiscono la base indispensabile alle altre funzioni; la comunicazione che
la scrittura comporta, 'funzione relazionale', si basa sulla funzione strumentale. Una terza funzione,
quella di 'rappresentazione' della personalità, si elabora dall'edificazione e dell'interazione delle
prime due, ne è l'esito, la conseguenza.” 3
Secondo Olivaux è quindi possibile distinguere tre tipi di disgrafie, spesso intrecciate tra di loro:
quella “strumentale”, che riguarda la competenza motoria; quella “relazionale”, legata alla funzione
di comunicazione; quella “sintomatica”, legata alla rappresentazione della personalità.
È quest'ultima la più subdola: “Il grafologo e il grafoterapeuta devono conoscere le astuzie di una
3
Olivaux Robert, Pédagogie de l'écriture et graphotérapie, l'Harmattan, 2005
funzione sintomatica che manipola in qualche modo le altre; i meccanismi qualche volta perversi
che ella favorisce non semplificano né il compito dell'educatore né quello del grafologo: un disturbo
strumentale può 'relazionalizzarsi', una difficoltà relazionale può 'strumentalizzarsi'”. 4
La rappresentazione di sé che si attua attraverso la scrittura può dunque essere l'obiettivo, ma anche
l'ostacolo.
Lo sviluppo del gesto grafico nell'ambito della strutturazione della personalità
“L'esercito segreto dell'inconscio è nell'ombra, organizza la resistenza, intrappolando la scrittura”
R. Oliveaux
Dai suoi primi approcci con lo strumento grafico il bambino sperimenta una vasta gamma di
sensazioni nuove, che vanno via via consolidandosi, ampliandosi, complicandosi. Prima tra tutte il
piacere di creare qualcosa dal nulla, di investire energie in un atto che lascia una traccia
permanente, che può essere donata o tenuta per sé e che provoca reazioni nell'ambiente circostante.
Ovviamente, tanto più positiva sarà la reazione dell'ambiente, tanto maggiore sarà la sicurezza che
sosterrà l'azione.
Mano a mano che il bambino cresce e il suo mondo emotivo evolve, e insieme a lui il gesto grafico,
prende il sopravvento “tutto un bisogno di giocare il ruolo che si crede di dover giocare” 5, oppure di
rifiutare quel ruolo.
Ciò accade naturalmente in ogni ambito della vita del bambino, mano a mano che cresce e si
sperimenta, mano a mano che procede la strutturazione della sua personalità. Ma poiché la scrittura
è un tramite molto potente delle pulsioni individuali, ecco che il mondo simbolico rappresentato dal
foglio diventa lo specchio di ciò che accade nel mondo.
Sebbene i grafologi sappiano di non poter dare un'interpretazione psicologica della scrittura (a meno
di essere anche psicologi), e che assai azzardato è interpretare la scrittura dei bambini, è tuttavia
possibile cogliere quale rapporto il bambino sta instaurando con le richieste che gli vengono poste,
con il ruolo che ritiene di dover giocare, con le difficoltà che sperimenta.
La disgrafia, laddove il problema non sia unicamente strumentale, può dunque essere riflesso di
questa dinamica e divenire espressione non solo del rifiuto del ruolo assegnato, con tutto il bagaglio
di regole che ne fanno parte, o all'opposto dell'immedesimazione totale con quel ruolo, ma anche
rifiuto della comunicazione e mascheramento dei limiti percepiti e delle difficoltà vissute: così la
scrittura si destruttura, o si iperstruttura, si rende incomprensibile, grande, angolosa, leggerissima o
estremamente appoggiata e queste caratteristiche, che il bambino vede, diventano per lui un habitus
4 Olivaux Robert, Pédagogie de l'écriture et graphotérapie, l'Harmattan, 2005
5 Olivaux Robert, Pédagogie de l'écriture et graphotérapie, l'Harmattan, 2005
al quale spesso non vuole rinunciare.
Dice E., al primo anno di scuola media: “Io non voglio scrivere bene, non mi piacciono quelle
scritture tutte ordinate e curate. E poi io capisco quello che scrivo, quindi va bene così”. Se da un
lato si può leggere l'affermazione di E. come un tentativo di minimizzare il problema, dall'altro è
anche possibile che attraverso la sua scrittura il ragazzo abbia canalizzato una serie di difficoltà che
non ha la possibilità di esprimere in altro modo.
La difficoltà grafomotoria diventa in questo caso non la premessa ma la conseguenza della difficoltà
disgrafica, che si innesta in qualche caso su problematiche pregresse, di tipo grafomotorio, e in altri
non trova altra spiegazione se non nella risposta emotiva del bambino o del ragazzo di fronte a
eventi che non sa gestire.
Un circolo vizioso che il rieducatore del gesto grafico può affrontare solo dal punto di vista
dell'abilità grafica, e che tuttavia non manca di avere ricadute anche di tipo emotivo, grazie
all'aumento dell'autostima di fronte al miglioramento, alla riscoperta capacità comunicativa legata
alla parola scritta, al piacere quasi sensuale del tracciare curve, alla riconquista di un equilibrio
spaziale che infonde tranquillità, come si evince dalle parole di J., adulto disgrafico: “Mi piacerebbe
frequentare un corso di calligrafia, secondo me una calligrafia ordinata rappresenta una mente
ordinata”.
Il lavoro del rieducatore, da questo punto di vista, è un lavoro tutt'altro che semplice. Sostenere il
bambino o il ragazzo in questo percorso di riappropriazione di uno strumento così complesso sul
piano strumentale ed emotivo insieme, caratterizzato da avanzamenti ma anche da arresti e
regressioni, da resistenze ed entusiasmi, da scoraggiamento e stupore, non è facile. Un lavoro che
sembra limitarsi all'utilizzo di tecniche che aiutano a ritrovare la fluidità del gesto, la motricità fine,
l'equilibrio spaziale, la capacità di canalizzare l'energia, è in realtà un lavoro che risuona in
profondità e che rimette in gioco dinamiche relazionali che comprendono la famiglia, gli insegnanti,
i compagni e lo stesso rieducatore, che può essere vittima dello stesso scoraggiamento.
Vale dunque la pena ricordare, come scrive Olivaux, che: “Non c'è una scrittura ideale, il miglior
risultato sarà spesso il meno peggio e se la scrittura tende, per quanto è possibile, verso una
pianificazione ottimale – organizzazione e armonia secondo la terminologia grafica – sarà in grado
in molti casi di raggiungere un livello di efficienza sufficiente e soddisfacente ma sarà segnata da
un'imperfezione relativa. La scrittura è l'espressione dell'essere umano: non può essere 'completata'
su tutti i fronti contemporaneamente, vale a dire in tutte le sue funzioni”.
Olivaux poi ci rassicura: “Nell'età matura della scrittura, i conflitti molto spesso si placano e tra le
forze in azione si stabilisce una pace basata su un accordo economico, le cui clausole saranno
spesso riviste”. Questa età matura della scrittura è quella in cui la grafia, pienamente automatizzata
e personalizzata, diviene sempre più strumento di espressione della personalità. Uno stadio a cui,
senza aiuto, il giovane disgrafico non accederà mai.
Conclusioni
“Non ho niente contro i computer. Il mio segretario li usa regolarmente e, anzi, sembra che siano di
grande utilità per immagazzinare dati e raccogliere speciali informazioni”. Günter Grass
La scrittura di ciascuno di noi, pur partendo da un modello comune, si differenzia in base a una
serie di caratteristiche individuali, prima di tutto fisiche, motorie e neurofisiologiche, e poi
psicologiche. È la somma di questi fattori a determinare le differenze individuali, a rendere ogni
grafia unica e a far sì che sia possibile “leggerla” al di là del suo contenuto esplicito.
Il processo di apprendimento e di sviluppo della scrittura può però subire delle interruzioni, dovute
a motivi diversi: la presenza di un DSA, disturbo specifico dell'apprendimento, che ostacola la
corretta produzione grafica; il mancato apprendimento del modello, che può essere causato da un
insegnamento scorretto o frettoloso o da una difficoltà di tipo grafomotoria, da un ritardo nello
sviluppo dello schema corporeo, da problemi di equilibrio e coordinazione motoria, da una scorretta
lateralizzazione, da lacune nella percezione visiva o della coordinazione occhio-mano, da una
difficoltosa organizzazione spazio-temporale, da iper o ipotonia, da deficit di memoria o attenzione;
il rifiuto del modello, legato a un rifiuto del ruolo richiesto o all'ansia rispetto alle aspettative, a
difficoltà comunicative e ad altre problematiche psicologiche delle quali il rieducatore non è
autorizzato a occuparsi.
Il bambino e il ragazzo che presentano disgrafie, siano esse imputabili a un DSA o a una difficoltà
di altro genere, sperimentano un forte disagio che rischia di trasformarsi in una disaffezione nei
confronti della formazione scolastica tout court, nei casi più gravi, o in forme d’ipersensibilità,
inibizione, chiusura, stati d’ansia e anche comportamenti disturbanti e provocatori. D'altro canto,
queste manifestazioni di disagio possono a loro volta essere la causa, oltre che la conseguenza, del
disturbo disgrafico.
La legge 170 prevede che in presenza di disgrafia certificata lo studente, a prescindere dal ciclo di
studi che sta frequentando, possa utilizzare il computer come strumento compensativo, esentandolo
così dall'apprendimento della scrittura a mano. Se da un lato questo può facilitare il percorso di
studi, non solo non salvaguarda il ragazzo dal senso di fallimento e dalla sfiducia nelle proprie
possibilità che si genera dal paragone con gli altri, ma costituisce anche una grave perdita:
innanzitutto perché il gesto grafico sembra scaturire da una spinta primordiale che ha caratterizzato
l'essere umano sin dagli albori della storia; poi perché sono stati necessari millenni di evoluzione
perché quel gesto grafico divenisse scrittura, e dunque patrimonio storico e culturale di
fondamentale importanza; perché molte recenti ricerche hanno messo in luce l'influenza positiva
che la scrittura a mano ha sui processi cognitivi; infine perché le forme e le caratteristiche della
scrittura costituiscono un'espressione individuale di altissimo contenuto espressivo.
Anche se il percorso di rieducazione è certamente faticoso e l'impegno richiesto allo studente può
sembrare sproporzionato al risultato, se si considera il puro aspetto di trasmissione del contenuto
per cui l'utilizzo del computer potrebbe essere sufficiente, esso consente invece ai bambini e ai
ragazzi disgrafici di ritrovare fiducia in se stessi, di confrontarsi con i loro pari in maniera
egualitaria, di canalizzare le loro emozioni in forme coerenti con il loro temperamento ed
autenticamente espressive del loro mondo emotivo.
Bibliografia
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neuroscienze, Arcipelago Edizioni, 2009
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Editore, 2015
Celli Giorgio, “Giocando con l' alfabeto”, La Repubblica, 25 gennaio 1986
Cardona G. R., Antropologia della scrittura, Loescher, 1981
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G. Serratrice, M. Habib, L'écriture et le cerveaux – Mécanismes neuro-physiologiques, Masson,
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