Saraceno-diseguaglianza genere

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Saraceno-diseguaglianza genere
Le disuguaglianze di genere: un problema di equità, ma anche di vincoli allo sviluppo
Chiara Saraceno
“Nel corso degli anni 1980 e 1990 la questione della uguaglianza tra i sessi è stata largamente
occultata, a causa dell’aumento delle disuguaglianze sociali e della disoccupazione ma anche delle
rapide trasformazioni nella collocazione delle donne nella società e della soppressione degli
arcaismi giuridici che in precedenza consacravano un trattamento disuguale degli uomini e delle
donne…. Tuttavia, malgrado miglioramenti incontestabili, l’uguaglianza di fatto tra donne e uomini
è ben lontano dall’essere acquisita, tanto più che i mutamenti non sono lineari … e che i
miglioramenti si accompagnano ad effetti perversi che rafforzano l’oppressione femminile. Il posto
delle donne nella società .. appare per questo del tutto contraddittorio e aperto a possibilità multiple,
perché gli contestabili progressi raggiunti nei decenni scorsi restano incompleti e fragili”. Queste
osservazioni riguardano la Francia.1 Ma si attagliano perfettamente anche alla situazione italiana,
dove la presenza delle donne nelle sedi di presa di decisione economica e politica è a livelli minimi
e stabili nel tempo, nonostante da almeno ventanni il gap nell’istruzione sia stato colmato e tra le
generazioni più giovani le donne riescano meglio degli uomini in tutti i campi di studio. A
differenza che in Francia, inoltre, la questione delle pari opportunità e della uguaglianza continua a
rimanere fuori dalla agenda politica e raccoglie poco più che una attenzione distratta. Ed anche nel
campo della organizzazione della vita quotidiana le donne italiane ricevono meno sostegni di quelle
francesi sotto forma di servizi (e in generale i genitori meno riconoscimento economico del costo
dei figli). Di conseguenza, hanno sia un tasso di occupazione che di fecondità più basso non solo di
quello francese, ma tra i più bassi al mondo.
Mentre, infatti, fino a tutti gli anni settanta nei paesi sviluppati c’era un nesso inverso tra tasso di
occupazione femminile e tasso di fecondità, perciò il tasso di fecondità era più basso nei paesi a più
alto tasso di occupazione femminile, questo non era già più vero alla fine degli anni Novanta. Oggi
sono i paesi a più alto tasso di occupazione femminile – in Europa i paesi scandinavi, ma anche la
Francia – a mostrare anche i più alti tassi di fecondità, benché sempre sotto il livello di sostituzione.
Viceversa i paesi a più basso tasso di occupazione femminile sono anche quelli a più bassa
fecondità. La spiegazione di questo apparente paradosso sta nel basso livello di eguaglianza in un
contesto sociale e culturale in cui le donne invece se la aspettano in misura crescente, ed anche nella
scarsità degli strumenti di conciliazione tra responsabilità familiari e impegni professionali e di altro
genere in società che ancora affidano largamente alla famiglia e alla sua divisione del lavoro in base
al genere il soddisfacimento di tutti i bisogni di cura degli individui, dalla prima infanzia alla
vecchiaia. In questo contesto, le scelte tra occupazione e riproduzione appaiono troppo spesso come
alternative secche; o meglio, si ritiene di non potersi permettere di avere più di un figlio.
Non voglio sostenere con questo che le scelte di fecondità dipendano esclusivamente dalla
situazione delle donne. Accanto al mancato sostegno al costo dei figli vi è anche la lunga
permanenza, e spesso dipendenza economica, dei figli, maschi e femmine, in famiglia e i mutamenti
nella modalità di ingresso nel mercato del lavoro, divenute più precarie anche per gli uomini
giovani. E neppure intendo sostenere che le scelte individuali in favore di una fecondità ridottissima
non siano legittime o siano meno eticamente valide di quelle di una fecondità più numerosa.
Piuttosto sostengo che le questioni connesse alla disuguaglianza di genere hanno un ruolo cruciale
in queste decisioni e comportamenti. E ciò che succede nel mercato del lavoro, se non esaurisce
certo l’insieme dei fenomeni cui si riferiscono i ricercatori francesi, rappresenta un buon
osservatorio.
L’Italia è uno dei paesi europei a più basso tasso di occupazione femminile, nonostante tutto
l’aumento nel numero di occupati degli ultimi anni sia dovuto all’incremento della occupazione
femminile.Gli ultimi dati disponibili segnalano infatti che nel periodo 1993-2001 il tasso di attività
femminile è cresciuto di più di 5 punti percentuali, passando dal 41,9 al 47,3% (mentre quella
1
Cr. A. Bihr e R.Pfeefferkorn, Homme, Femmes, quelle égalité?.Les Editions de l’Atelier, Paris, 2002
1
maschile è rimasta pressoché stabile e con qualche segnale di diminuzione, dal 73,8% al 73,6%).
Rimane tuttavia ampiamente al di sotto della media europea ed anche dell’obiettivo del 60% che
tutti i paesi membri dovrebbero raggiungere nel 2006.Ciò dovuto in larga misura alla bassissima
partecipazione al mercato del lavoro delle donne adulte in età matura (untracinquantenni) non già a
causa del fenomeno del pensionamento precoce, quanto al fatto che esse appartengono alle coorti
per le quali il modello di casalinga a pieno tempo e di dedizione univoca alle responsabilità
familiari ha fortemente segnato le strategie di vita adulta.2 E’ altamente irrealistico sia persuadere
queste donne a presentarsi in massa sul mercato del lavoro, che trovare datori di lavoro disponibili
ad assumerle, tanto più che spesso sommano alla mancanza di esperienza professionale anche una
bassa istruzione di partenza. E’ quindi assolutamente impossibile che l’Italia possa presentarsi
all’appuntamento del 2006 avendo realizzato l’impegno incautamente preso in sede europea di
portare il tasso di occupazione femminile appunto al 60%.
Ciò chiarito, non va sottovalutato il fatto che anche tra le coorti più giovani non solo esistono forti
differenze nei tassi di partecipazione e di occupazione a livello territoriale e per grado di istruzione,
ma che molte donne continuano ad abbandonare il lavoro alla nascita del primo figlio e talvolta
anche solo per matrimonio. Più che in altri paesi, infatti, la conciliazione tra responsabilità familiari
e partecipazione al mercato del lavoro continua ad essere considerata non solo un “affare di donne”,
ma un “affare privato”. I dati più recenti sulle Forze di Lavoro3 segnalano che la quota di donne
che abbandona temporaneamente o provvisoriamente il lavoro per motivi familiari è costante da una
coorte all’altra e se diminuisce, tra le coorti più giovani, la motivazione matrimonio, rimane forte
quella relativa alla nascita di figli. Ad esempio, nella coorte che ha attualmente 30-39 anni tra le
nubili il tasso di attività è di poco inferiore a quello dei loro coetanei: 89,7%. Esso diminuisce di
quasi 11 punti nel caso delle coniugate senza figli e di altri 23 tra le coniugate con figli, il cui tasso
di attività scende al 56%. Con tassi di attività più bassi, le donne coniugate con figli hanno
viceversa tassi di disoccupazione più alti non solo degli uomini, ma delle donne senza figli. Anche
la forte femminilizzazione dell’aumento della occupazione part time negli ultimi anni, non è priva
di problemi. Indica infatti che da parte non solo dei policy makers, ma anche dei datori di lavoro e
dei lavoratori la conciliazione continua ad essere un problema che riguarda esclusivamente le
donne. Benché il part time non sia in linea di principio riservato alle donne, sono queste ad
occupare in stragrande maggioranza le posizioni che lo prevedono e tutto l’aumento intervenuto in
questi cinque anni è dovuto solo a loro. Non può quindi sorprendere che il genere (l’essere donne),
lo status familiare (l’essere sposata, l’essere madre) riducano le chances occupazionali future delle
lavoratrici part time rispetto ai lavoratori e alle lavoratrici full time.4 Non è il part time per sé che
riduce queste chances, ma le specifiche ragioni per cui lo si fa: conciliare responsabilità lavorative e
familiari.
L’effetto negativo della presenza di responsabilità familiari è più alto per le donne a bassa
qualificazione e che vivono nel Mezzogiorno rispetto a quelle con titolo di studio medio-alto e che
vivono nel Centro-Nord. Come segnalato anche da altre ricerche, l’istruzione per le donne appare
ancora più importante che per gli uomini a fini occupazionali e come fattore di differenziazione
sociale: incide infatti non solo sul tipo di lavoro cui si può aspirare ma anche sulla possibilità stessa
di rimanere nel mercato del lavoro, a parità di ogni altra condizione. Le donne con istruzione più
alta che vivono nel Centro-Nord sono più in grado delle altre di rimanere nel mercato del lavoro
lungo il ciclo di vita familiare; anche se, come segnalano i dati sui differenziali salariali, “pagano”
questa maggiore capacità di durata con differenziali salariali rispetto agli uomini con pari qualifiche
più elevati di quelli che si riscontrano nelle qualifiche più basse.
2
Cfr. anche E. Reyneri, Pensioni, fasce di età, genere e livello di istruzione, in La voce.info, 9.1.2003
(www.lavoce.info)
3
Cfr. ISTAT, Rapporto annuale 2001, Istat, Roma, 2002
4
Ministero del lavoro e della previdenza sociale, Rapporto di monitoraggio sulle politiche occupazionali e del lavoro,
2, Roma, 2000, pp. 51-54
2
Conciliare responsabilità familiari e lavorative per le donne è reso difficile non solo da orari di
lavoro poco amichevoli e dalla mancanza di servizi adeguati, ma anche, se non soprattutto, dalle
aspettative e dai comportamenti dei familiari, innanzitutto dei mariti/padri dei loro figli. Tutte le
ricerche sull’uso del tempo segnalano che se si somma il tempo dedicato al lavoro familiare a quello
dedicato al lavoro remunerato le donne occupate e con responsabilità familiari lavorano dalle 9 alle
15 ore alla settimana in più rispetto ai loro compagni. E ciò è rimasto costante negli ultimi 10 anni.
Il maggior carico di lavoro familiare per le donne da un lato riduce il tempo che esse possono
dedicare al lavoro remunerato, ed anche il raggio di occupazioni che possono prendere in
considerazione – in termini di distanza, orari di lavoro, ecc. Dall’altro lato le espone al rischio di
essere viste dai datori di lavoro come lavoratrici inaffidabili e/o più costose.
Modificare questa situazione, aumentando i gradi di libertà per le donne e favorendo modelli di
genere, maschile e femminile, meno rigidi, richiede interventi a più livelli, altrettanto “sistemici”
dei meccanismi che continuano a riprodurre, aggiornandola, la disuguaglianza di genere: nelle
forme di regolazione del mercato del lavoro, nella offerta di servizi, nei modelli culturali e di
socializzazione. In particolare vi è uno spazio per le politiche sociali per quanto riguarda sia il
riconoscimento del valore del lavoro di cura svolto gratuitamente nella famiglia, sia una diversa
distribuzione di questo lavoro tra famiglia e collettività che rispetti non solo la domanda di tempo,
ma anche quelle di qualità e sicurezza, oltre che di accessibilità economica, che spesso frenano
l’utilizzo di questi servizi. Due sono i settori cruciali di domanda di cura rilevanti da questo punto di
vista: la prima infanzia e la fragilità e non autosufficienza in età anziana.
Per quanto riguarda i servizi per la primissima infanzia i dati più recenti indicano un tasso di
copertura (includendo sia i nidi pubblici che quelli privati) del 7,4% nel 2000.5 Si tratta di una
percentuale molto inferiore a quella relativa al tasso di partecipazione al mercato del lavoro delle
madri con figli di questa fascia di età: circa il 48% a livello nazionale nella seconda metà degli anni
novanta secondo i dati della Indagine Multiscopo ISTAT del 1998 .
E’ vero che molti genitori, molte madri, possono preferire soluzioni alternative al nido per i bambini
molto piccoli, e in particolare possano preferire il ricorso alla rete parentale, alle nonne, che nel
nostro paese continuano a rimanere ampiamente disponibili, anche a motivo della già ricordata alta
incidenza di casalinghe anche tra le nonne più giovani. Tuttavia nel futuro prossimo le coorti di
nonne più giovani saranno sempre meno disponibili per la cura a pieno tempo dei loro nipoti, dato
che esse stesse rimarranno sul mercato del lavoro in percentuali crescenti e per un tempo più lungo.
In questa prospettiva si può accogliere positivamente l’incentivo dato alle aziende nella Finanziaria
per il 2003 perché organizzino nidi o micro-nidi aziendali. Tuttavia non va trascurato il fatto che le
giovani generazioni, quelle che in linea di principio sono nell’età di essere genitori di bambini
piccoli, sono presenti in modo sproporzionato nei contratti di lavoro atipico, e che le donne tendono
a rimanervi più a lungo degli uomini. Perciò è l’offerta pubblica o di mercato sociale che va
innanzitutto sostenuta.
Per altro, i problemi di cura non cessano con l’entrata del bambino nella scuola dell’obbligo. Da
questo punto di vista, tra le cose discutibili del progetto di riforma della scuola proposto dal
governo, segnalo la complessiva riduzione del tempo scuola e lo spostamento di tutte le attività al di
sopra del tempo standard in attività che la scuola può offrire su base opzionale e a pagamento –
aggravando sia i costi finanziari che organizzativi delle famiglie, che ricadranno
sproporzionatamente, i secondi almeno, sulle spalle delle madri.
Se passiamo ai bisogni che riguardano l’estremo opposto del ciclo di vita, quelli degli anziani fragili
e non autosufficienti, le cose non vanno meglio. Anche se ad occuparsene al momento non sono
tanto le donne in età riproduttiva quanto le donne sessantenni: - le nonne, che sono ancora figlie – e
le più vecchie ancora, come mogli. La maggioranza degli anziani fragili è infatti accudita vuoi da un
coniuge, pure anziano e talvolta anch’essa fragile, o da un parente, di solito donna: una figlia, una
5
cfr. Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, I Nidi d’infanzia e gli altri servizi
educativi per i bambini e le famiglie, Istituto degli Innocenti di Firenze, Firenze, Quaderno n. 21, Aprile 2002.
3
nuora, a casa propria o a casa di questa.6 Date le trasformazioni demografiche e lo squilibrio
numerico nei rapporti tra le generazioni entro la parentela, questa “soluzione” sarà sempre meno
agevolmente disponibile e neppure si può pensare di sostituirla puramente e semplicemente
ricorrendo più o meno malvolentieri alle “badanti” immigrate, in una riedizione aggiornata della
tradizionale divisione del lavoro tra donne di classe diversa. Non perché la cosa sia in sé
disdicevole, ma perché non è una risposta adeguata all’entità del bisogno. Per evitare sia
l’esplosione dei bilanci pubblici e familiari, che l’esplosione delle reti familiari, occorre affrontare
la questione della domiciliarietà e dei servizi “in rete” in modo molto più sistematico e di massa di
quanto non avvenga ora. E la critica alla forte connotazione di genere di questo tipo di
responsabilità è un buon punto di partenza per scompigliare le carte e sviluppare approcci più
adeguati.
Il riequilibrio delle responsabilità del lavoro di cura non riguarda tuttavia solo l’offerta di servizi,
ma anche la divisione di genere del lavoro e delle responsabilità familiari. Questa non può,
ovviamente, essere oggetto di prescrizioni normative. Ma le norme, in particolare le forme di
regolazione della prestazione lavorativa e dei congedi, non sono neutrali. Esse possono cristallizzare
la divisione tradizionale del lavoro, o viceversa incentivarne la modifica, se le persone lo
desiderano. Alcune importanti innovazioni legislative della seconda metà degli anni novanta,
sollecitate da direttive europee, in particolare la legge 53/2000 sui congedi genitoriali, sono andate
appunto in questa seconda direzione. La legge 53, infatti, favorisce una visione della combinazione
tra responsabilità familiari e responsabilità lavorative come aspetto normale della vita di chi lavora,
e non come specificità negativa femminile. Naturalmente, perché questa legge dispieghi tutti i suoi
effetti occorrerà tempo e allo stesso tempo dovranno mutare stereotipi di genere maschile, che
possono indurre a valorizzare un lavoratore che prende decisioni (andare in congedo) ritenute “da
donne”. E’ questo un campo di azioni positive (di promozione di cambiamenti nei comportamenti e
scelte maschili) del tutto inesplorato e che viceversa andrebbe pensato e sviluppato.
Il campo di applicazione della legge 53/2000 è pressoché solo quello del lavoro dipendente. Benché
i mariti lavoratori dipendenti di lavoratrici autonome ecc. a differenza che in precedenza possano
ora prendere il congedo genitoriale, le questioni della conciliazione e della flessibilizzazione degli
orari di lavoro si pongono in modo diverso nel caso del lavoro autonomo e libero-professionale.
Ciò vale, a maggior ragione verrebbe da dire, per i vari tipi di contratto di lavoro non standard che
vedono una forte presenza di giovani uomini e donne in età riproduttiva. Questi rapporti di lavoro,
infatti, o non includono alcuna misura di protezione della maternità e di sostegno alla conciliazione
(nel caso ad esempio di chi ha partita IVA). O ne hanno, ancorché in misura ridotta; ma operano in
un contesto in cui è difficile utilizzarli. Una giovane lavoratrice coordinata e continuativa, ad
esempio, difficilmente potrà permettersi di prendere anche solo il periodo di congedo obbligatorio
(e infatti non è obbligata), perché l’assegno di maternità è troppo basso. Ancora meno potrà
permettersi di stare fuori dal mercato del lavoro per un periodo più lungo, non solo per motivi
economici ma di propria collocazione professionale. Nelle discussioni sulla flessibilità nel mercato
del lavoro questi effetti sulle questioni della conciliazione, in particolare per le donne, sui gradi di
vulnerabilità aggiuntiva che potrebbero introdurre proprio nei loro confronti, meriterebbero di
essere meglio messi a fuoco da tutte le parti in causa.
Credo che si possa dire che in Italia, nonostante una crescente attenzione e qualche importante
innovazione legislativa, le questioni delle pari opportunità, della uguaglianza di genere e della
conciliazione tra lavoro familiare e lavoro remunerato sono ancora ben lontane dall’essere una
priorità nell’agenda del policy making italiano. Oggi come ieri, nel migliore dei casi si tratta di
6
Cfr. ISTAT, Anziani in Italia, Bologna, il Mulino, 1997, Castiglioni M., “Crisi dell’autosufficienza e forme familiari nella
popolazione anziana”, in Osservatorio nazionale sulle famiglie e le politiche locali di sostegno alle responsabilità familiari, Famiglie,
mutamenti e politiche sociali, il Mulino, Bologna, 2002 vol. II, pp. 231-256 Buratta V. e Crialesi R.,“Famiglie con problemi di
assistenza e sistema di sostegno”, ivi, pp. 285-305
4
dimensioni aggiuntive, che non informano realmente il nucleo centrale delle politiche. C’è ancora
molta ambivalenza, anche a sinistra, su questi temi – uguaglianza di genere e conciliazione – sia
per quanto riguarda le donne che, forse ancora di più, per quanto riguarda gli uomini: rispetto al
considerare anche gli uomini come lavoratori che hanno responsabilità di cura familiare.
A ciò si aggiunga che il ruolo sempre più importante affidato al ricorso alla prova dei mezzi
familiari per erogare benefici o definire i livelli di compartecipazione alla spesa a livello nazionale
e soprattutto locale – cara anche se non soprattutto alla sinistra - può essere in contraddizione con
l’obiettivo di aumentare il tasso di partecipazione femminile. L’assenza di una attenzione specifica
e continuativa – sostenuta da produzione di dati e statistiche adeguati - per l’impatto di genere di
queste ed analoghe misure potrebbe impedire la messa a punto di correzioni che portino ad un
migliore equilibrio tra l’obiettivo della equità e redistribuzione verticale e quello della equità di
genere.
Parte di questa ambivalenza è culturale, e deriva da modelli radicati relativi sia alla divisione di
genere del lavoro sia alle aspettative circa la solidarietà intergenerazionale. Ma quella ambivalenza
è rafforzata dai vincoli imposti dalla necessità di risanare il debito pubblico. Gli investimenti – in
servizi innanzitutto – non fatti quando non vi era questo tipo di preoccupazione, divengono più
difficili ora. Anche se oramai da molte parti è stato argomentato che un incremento della
occupazione femminile sosterrebbe un incremento della domanda di lavoro complessiva: nel settore
dei servizi alla persona, del tempo libero, dei servizi “tecnici” alle famiglie (tintorie/lavanderie,
imprese di pulizie ecc.)
Come scrivevo all’inizio, la questione delle pari opportunità nell’occupazione non esaurisce né le
questioni di pari opportunità, né quelle di uguaglianza. Tuttavia aiuta a metterne a fuoco nodi
cruciali. Anche “solo” limitandoci a guardare ciò che succede rispetto al mercato del lavoro, emerge
chiaro che per promuovere le pari opportunità occorre trasformare modelli e pratiche maschili, così
come si sono consolidate a partire dalla divisione del lavoro e dei poteri, tanto, se non più, ormai, di
quelle femminili: nella vita privata come nella organizzazione del lavoro, nei comportamenti come
nei sistemi di attribuzione di significato e di rilevanza. Finché continueremo a pensare che le pari
opportunità e l’uguaglianza di genere debbano dipendere esclusivamente da mutamenti nei
comportamenti femminili l’uguaglianza rimarrà lontana, se non impossibile. E la nostra continuerà
ad essere una società che comprime, anziché sviluppare, le proprie risorse.
5