Rassegna stampa a cura di G. Fioravanti

Transcript

Rassegna stampa a cura di G. Fioravanti
Rassegna stampa del centro di Doc. Rigoberta
Menchù – speciale Palestina
Sentenza Arrigoni: ergastolo agli assassini di Vik
Dopo tanti rinvii e tentennamenti la corte militare di Gaza ha deciso. L'omicidio
di Vittorio è finalmente arrivato a sentenza.
lunedì 17 settembre 2012 12:01
di Luca Salerno
Gaza, 17 settembre 2012, Nena News. Dopo tanti rinvii e tentennamenti la corte militare di Gaza ha
deciso. L'omicidio di Vittorio è finalmente arrivato a sentenza.
Mahmoud Salfiti e Tamer Hasasnah, accusati di rapimento e omicidio - uno, Salfiti, venne preso nel corso
del blitz in cui furono uccisi i «capi» della cellula salafita Abdel Rahman Breizat e Bilal al Omari - sono
stati condannati all'ergastolo (che per la legge di Gaza equivale a 25 anni di prigione) più 10 anni e lavori
forzati a vita. Khader Jram, colui che ha suggerito con insistenza ai compagni di sequestrare Vittorio, è
stato accusato di rapimento e condannato a 10 anni di prigione . Amer Abu-Ghoula, colui che aveva
affittato la casa dove Vittorio è stato ucciso e sul cui ruolo sembrano esserci ancora molte ombre, è stato
condannato in contumacia ad un anno di prigione.
I quattro sono i superstiti della (presunta) cellula salafita (altri due membri, tra cui il giordano Abdel
Rahman Breizat, sono morti in uno scontro a fuoco con le forze speciali di Hamas) che credeva,
prendendo in ostaggio l'attivista italiano, di poter liberare lo sceicco jihadista al Maqdisi, arrestato dalla
polizia di Gaza a inizio anno.
Intanto si respira tensione all'esterno del tribunale. I parenti degli assassini di Vik non sembrano
accettare la sentenza e iniziano ad insultare e minacciare gli italiani e gli amici di Vik presenti,
accusandoli di essere delle spie. É intervenuta la polizia che ha cercato di calmare gli animi ed ha
allontanato i presenti, ma la paura è che adesso ci possano essere ritorsioni contro chi ha sempre chiesto
a gran voce giustizia per Vik.
Anche se c'è soddisfazione per la sentenza, nulla potrà mai colmare il vuoto immenso lasciato da Vik.
Restiamo Umani, Stay Human.
Ergastolo agli assassini di Vik e 10 anni di carcere al suo amico
MICHELE GIORGIO
18.09.2012 Il Manifesto
Giustizia è fatta ma troppi interrogativi in sospeso sulla regia del sequestro. La Corte militare
chiude con pesanti condanne il processo per l'omicidio di Vittorio Arrigoni
MICHELE GIORGIO - 18.09.2012
Giustizia è fatta, commenterà qualcuno. Che amarezza però. Ci sarebbe più di un motivo per
essere soddisfatti. Gli imputati sono stati condannati per il delitto che avevano confessato
eppure la tristezza è tanta in queste ore. Nessuna condanna potrà ridarci Vik. Neppure quella
severa inflitta ieri dalla corte militare di Gaza city ai quattro giovani palestinesi accusati del
sequestro e dell'omicidio del giovane attivista e giornalista che, come nessuno nella sinistra
italiana di questi ultimi anni, aveva saputo attirare tanta attenzione verso la causa dei
palestinesi di Gaza. Il pensiero corre in queste ore alla madre e alla sorella di Vittorio. Come
hanno accolto la sentenza, ci chiediamo. Due donne che con fermezza e dignità, nel rispetto
degli ideali di Vik, si erano subito espresse contro la condanna a morte degli assassini.
«Vogliamo giustizia» non vendetta scrissero in una lettera inviata ai famigliari degli imputati
che imploravano clemenza.
I giudici ieri hanno inflitto il carcere a vita e un periodo di lavori forzati a Mahmud Salfiti e
Tamer Hasasna, due esecutori materiali del sequestro ideato assieme al giordano Abdel
Rahman Breizat e al palestinese Bilal Omari, entrambi rimasti uccisi in un conflitto a fuoco con
la polizia di Hamas. Ad un anno di carcere è stato condannato Amr al Ghoula, il fiancheggiatore
che aiutò tre membri del gruppo a nascondersi dopo l'assassinio. Al Ghoula è già a piede libero
da mesi.
Dieci anni di prigione dovrà scontare Khader Jiram, vigile del fuoco e amico di
Vittorio Arrigoni, accusato di aver fornito informazioni decisive ai killer sui
movimenti dell'italiano a Gaza. Questa condanna se da un lato può apparire adeguata al
reato commesso da Jram - che non ha preso parte diretta al rapimento e all'assassinio dall'altro provoca tanta rabbia. Jram a ben guardare è il più colpevole di tutti perché conosceva
Vik che lo aveva anche citato in uno dei suoi racconti, dopo un attacco aereo alla stazione dei
vigili del fuoco sul lungomare di Gaza city. Jram avrebbe dovuto respingere la richiesta di
Hasasna di «tenere d'occhio» l'italiano per capirne i movimenti e le abitudini. Si prestò invece
all'organizzazione di un crimine contro un attivista impegnato a diffondere le ragioni dei
palestinesi sotto occupazione, che quotidianamente andava nei campi coltivati della «zona
cuscinetto» per proteggere, con la sua sola presenza, i contadini dagli spari israeliani. Un
giovane coraggioso che aveva passato mesi assieme ai pescatori di Gaza tenuti sotto tiro dalla
Marina militare israeliana. Durante l'interrogatorio Jram spiegò agli investigatori di aver
accettato di seguire i movimenti di Vittorio «perché non poteva respingere l'insistenza di
Hasasna». E per quella insistenza ha tradito e fatto uccidere un amico. Certo anche Bilal
Omari, che pure conosceva Vittorio, merita disprezzo ma lui ha pagato con la vita il crimine
che ha commesso.
Vittorio fu rapito da una cellula del gruppo qaedista Tawhid wal Jihad, rivale di Hamas, la sera
del 13 aprile 2011. Abdel Rahman Breizat, il capo della cellula, sperava di convincere il
governo di Hamas a rilasciare un leader salafita, Hisham al-Saidni, un teorico del salafismo
jihadista arrestato a Gaza qualche settimana prima. Vik fu mostrato il giorno successivo
bendato e gravemente ferito alla testa in un video postato in internet dai sequestratori. Nelle
ore successive la polizia fu in grado di inviduare la casa dove l'italiano veniva tenuto ostaggio
ma prima che le forze speciali di Hamas facessero irruzione nell'appartamento a nord di Gaza, i
rapitori uccisero Vittorio, peraltro ben prima dello scadere dell'ultimatum fissato per il rilascio
di Saidni. Hasasna e Jmar furono arrestati subito. Breizat, Omari e Salfiti provano a fuggire ma
furono individuati in un appartamento di Nusseirat dalla polizia. Dopo un lungo assedio Breizat
e Omari morirono in uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza dai contorni mai chiariti del
tutto. Salfiti, rimasto ferito ad una gamba, fu arrestato e incarcerato. Saidni è stato
recentemente liberato senza imputazioni dopo essersi impegnato a non disturbare l'ordine
pubblico, ha annunciato Hamas. Il gruppo Tawhid wal Jihad non ha ancora commentato la
sentenza.
La severa condanna per due dei quattro imputati ha parzialmente legittimato le
autorità giudiziare di Gaza, dopo un processo zoppicante, segnato da udienze
brevissime e da rinvii inattesi e dall'assenza di un vero dibattimento. Forse Hamas ha
voluto dare un segnale all'Italia e ai tanti amici e compagni di Vik che chiedevano giustizia.
Questa sentenza però chiude solo una parte della vicenda. Troppi interrogativi rimangono
senza una risposta. I rapitori hanno agito per conto di un regista esterno? Avevano deciso di
eliminare in ogni caso Vittorio? Sono gli unici colpevoli? A noi resta una sola certezza: la
scomparsa di un giovane che amava Gaza - non Hamas come ha affermato ieri un giornalista
italiano -, che credeva nella giustizia, nella legalità, dei diritti di tutti i popoli. Nel rispetto della
dignità dell'uomo. «Restiamo Umani» ci diceva sempre. Sì, Vik, resteremo umani, anche
grazie a te.
Restiamo Umani è un invito a ricordarsi della natura dell’uomo.
Io non credo nei confini nelle barriere, nelle bandiere.
Credo che apparteniamo tutti, indipendentemente dalle latitudini e
dalle longitudini, alla stessa famiglia che è la famiglia umana.”
Vittorio Arrigoni
Intervista ai genitori di RACHEL CORRIE, IKA DANO
Beit Sahour, 15 Settembre 2012, Nena News - "La cosa più difficile in queste situazioni è mantenere un
senso di umanità - dichiara Craig Corrie a Nena News - ed è per questo che stiamo pensando di
presentare un appello. Tanti ci chiedono che cosa ci aspettassimo da questo processo. Non é che ci
aspettassimo giustizia, ma la pretendiamo. Penso che ognuno debba pretenderla, altrimenti la
Giustiza non ci sarà, e semplicemente morirà". Così il padre di Rachel Corrie, uccisa da un buldozer
israeliano il 16 marzo 2003 nel campo profughi di Rafah a Gaza, commenta il verdetto del tribunale
distrettuale di Haifa dello scorso 28 agosto. Il giudice di Haifa archivia il caso dichiarandolo "uno
spiacevole incidente". Secondo le autorità giudiziare israeliane, si è trattato di un'azione
militare, "un atto di guerra" per cui Israele non è tenuto a rispondere dell'accaduto.
"Uno dei capi d'accusa del pubblico ministero"- riporta Cindy Corrie, la mamma di Rachel - "E' stata
la presenza illegale di Rachel nella Striscia di Gaza". "Ci tengo a precisare" - "continua con tono
determinato - "che per entrare a Gaza, Rachel è passata dal checkpoint di Erez, controllata dall'esercito
israeliano, e la sua presenza davanti a quella casa (dove, é stata travolta dal buldozer, ndr) era dunque
legale".
"Rachel voleva essere qui perché gli Stati Uniti stavano iniziando la guerra in Iraq" - ricorda la
madre - "e la sensazione generale era che le cose si sarebbero messe ancora peggio, in Palestina".
Nel 2003, l'esecito israeliano era impegnato in una campagna di distruzione di case palestinesi nella
zona a sud di Gaza, verso la frontiera con l'Egitto. Nel giro di un solo anno, 16 000 abitanti di Gaza
erano sfollati. "Un giorno ci ha chiamato proprio dalla casa dove è stata uccisa" - continua Cindy Corrie "la casa di Samer Nasrallah, per farci sentire al telefono i bombardamenti...Da allora, io e Craig non ci
raccontiamo più nulla al telefono. Il giorno della sua morte, gli attivisti dell'International Solidarity
Movement (ISM) erano stati richiamati sul campo di pomeriggio dal loro coordinatore, dopo che a fine
mattinata i bulldozers se n'erano andati". Davanti alla casa dei due fratelli Nasrallah, un farmacista e un
contabile, che vi abitavano con il loro cinque piccoli figli, uno dei buldozer non si è fermato neppure dopo
che Rachel era salita sul mucchio di terra spinto dalla draga e secondo le testimonianze dei suoi colleghi
dell'ISM, aveva alzato le braccia.
"Sappiamo che il giorno dopo l'uccisione di Rachel" - ripercorre gli avvenimenti Craig Corrie - "l'allora
presidente Bush aevva ricevuto al telefono la promessa dal premier israeliano Sharon che l'inchiesta
sarebbe avvenuto in modo credibile e trasparente, con tanto di dossier che sarebbe stato consegnato al
governo statunitense. Ma sei settimane dopo siamo venuti a sapere che Israele aveva già
concluso e chiuso le investigazioni".
La famiglia ha avuto il diritto di visionare - ma mai di copiare interamente - il dossier legale consegnato
al consolato israeliano a San Francisco, e questo solo grazie all'intervento personlae del console
generale. "Dopo ua serie di lettere scambiate tra di noi e il Dipartimento di Stato" - riporta Craig a Nena
News -"l'11 giugno 2004 ci arrivò una dichiarazione a chiare lettere del responsabile del Dipartimento
che diceva: "Se mi chiedete se le investigazioni fatte da Israele siano credibili e trasparenti,
posso rispondervi senza ombra di dubbio, la risposta è no".
"Eravamo convinti che sarebbero state le vie diplomatiche ad intentare una causa per chiarire
le circostanze dell'uccisione di Rachel" - continua il padre dell'attivista pacifista -"ma dopo due anni
che non succedeva nulla, allo scadere del termine, abbiamo intentato noi, come famiglia, un causa
legale, a nostre spese". Capo d'accusa contro l'esercito israeliano: omicidio volontario, o atto di
negligenza.
L'odissea di udienze è finita lo scorso 28 agosto, con il verdetto che ha declassato il caso a semplice
"incidente", sollevando l'esercito delle sue responsabilità. Nel verdetto, che non è stato consegnato
integralmente alla famiglia se non due settimane dopo il giudizio, il giudice ha ripreso esattamente
parola per parola le dichiarazioni del pubblico ministero, supportandole per intero.
"Le testimonianze che ci sono pervenute sin dal primo giorno dagli amici e colleghi di Rachel non sono
cambiate di una virgola e sono coerenti l'una con l'altra" - ricorda Craig. Per la testimonianza depositata
dal soldato israeliana invece è andata un pó diversamente: all'inizio dell'inchiesta uno dei due soldati sul
bulldozzer ha dichiarato prima di aver visto Rachel, poi di averla notata solo quando ormai si trovava a
terra, tra la pala della draga e il mucchio di terra che prima spingeva. Il suo ufficiale, con lui sul
buldozer, avrebbe invece visto la ragazza solo una volta sdraiata - dai suoi compagni dell'ISM - dietro il
cumulo di terra alto due metri. Alla domanda sul come fosse possibile che non l'avesse vista
approciandosi mentre lei era in piedi sul cumulo ma solo dopo, a terra dietro il cumulo, l'ufficiale non ha
saputo dare risposta.
"Vogliamo andare in appello" - conclude il padre di Rachel - "Non chiediamo altro, se non che la
promessa fatta allora all'ex presidente Bush venga mantenuta". Nena News.
Criticare non è odiare
La scorsa settimana Judith Butler ha ricevuto il prestigioso Premio
Adorno, consegnatole dalla città di Francoforte. In passato il premio è stato
assegnato a studiosi e intellettuali come Habermas, Bauman, Goddard e
Derrida. A differenza degli altri premiati, Butler è stata pesantemente attaccata
e accusata di antisemitismo alla vigilia della consegna.
L’amico di BoccheScucite Nicola Perugini, in collaborazione con European
Graduate School, ci ha permesso di pubblicare questo approfondimento: una
appassionata risposta della Butler agli attacchi che le sono stati rivolti.
Sostengo un giudaismo non associato alla violenza di Stato
di Judith Butler
Il Jerusalem Post ha recentemente pubblicato un articolo in cui si riportava che alcune
organizzazioni sono contrarie al fatto che io riceva il Premio Adorno. Questo premio viene
assegnato ogni tre anni a chi lavora nella tradizione intellettuale della teoria critica, intesa in
senso ampio. Le accuse contro di me sono di appoggiare Hamas e Hezbollah (non vero), di
appoggiare il BDS [1] (parzialmente vero) e di essere un’anti-semita (platealmente falso).
Forse non dovrei essere così sorpresa che chi si oppone al mio ricevimento del Premio Adorno
ricorra ad accuse così scurrili e infondate per farsi notare. Sono una studiosa che ha acquisito
un’introduzione alla filosofia attraverso il pensiero ebraico e mi considero una persona che
difende e prosegue una tradizione etica ebraica che include figure come Martin Buber e Hannah
Arendt. Ho ricevuto un’educazione ebraica a Cleveland, sotto la guida del Rabbino Daniel
Silver, in una sinagoga dell’Ohio in cui ho sviluppato le mie forti visioni etiche sulla base del
pensiero filosofico ebraico. Nel mio percorso di formazione mi sono convinta che gli altri ci
chiedono di –e noi stessi ci interroghiamo su come– rispondere alle loro sofferenze e di cercare
di alleviarle. Tuttavia, per fare questo dobbiamo essere capaci di ascoltare e trovare i mezzi
con cui rispondere, e talvolta di pagare le conseguenze dei modi in cui decidiamo di opporci
alle ingiustizie. In ogni singola tappa della mia educazione ebraica mi è stato insegnato che
rimanere in silenzio di fronte all’ingiustizia non è accettabile. La difficoltà di un precetto di
questo genere sta nel fatto che esso non ci dice chiaramente quando e come pronunciarci, o
come opporci senza produrre una nuova ingiustizia, o come parlare in modo da essere ascoltati
ed essere capiti in maniera corretta. La mia posizione non è ascoltata da questi detrattori, e
forse non dovrei sorprendermi, visto che la loro tattica consiste nel distruggere le condizioni di
ascoltabilità.
Ho studiato filosofia all’Università di Yale e ho continuato a concentrarmi sulle questioni di etica
ebraica lungo l’arco della mia intera educazione. Sono contenta di aver ricevuto quel bagaglio
etico e l’educazione che mi è stata data, e che tuttora mi anima. È falso, assurdo e doloroso
per chiunque sentir dire che chi formula una critica dello Stato di Israele è un antisemita, o, se
ebreo, un ebreo che odia sé stesso. Accuse di questo genere cercano di demonizzare la
persona che articola un punto di vista critico e di squalificare questo punto di vista in partenza.
Si tratta di una tattica di messa a tacere: di questa persona non si può parlare, e qualunque
cosa essa dica va respinta in anticipo o distorta in modo tale da negare la validità stessa della
presa di parola. L’accusa rifiuta di prendere in considerazione il punto di vista, di discuterne la
validità, di valutarne le sue prove, e di trarne una conclusione oculata sulla base dell’ascolto
della propria ragione. L’accusa non è semplicemente un attacco contro le persone che hanno
punti di vista discutibili, ma si traduce in un attacco contro qualsiasi scambio ragionevole di
opinioni, contro la stessa possibilità di ascoltare e parlare in un contesto in cui si potrebbe
prendere in considerazione cosa l’altro ha da dire. Quando degli ebrei etichettano altri ebrei
come “antisemiti”, essi cercano di monopolizzare il diritto di parlare a nome degli ebrei. (…)
Non dimenticare Sabra e Chatila
Trent’anni fa il mondo scopriva, inorridendo, Sabra e Chatila, il nome
del campo profughi palestinese dove per due giorni miliziani cristiani
massacrarono tutti gli abitanti, compresi vecchi, donne, bambini.
Intendevano così vendicarsi per l’assassinio del loro neo eletto
presidente della Repubblica, Bachir Gemayyel.
Quell’orrore ebbe luogo grazie alla copertura dell’esercito israeliano
che occupava militarmente Beirut
Fu un massacro silenzioso. Il peggiore subito dal popolo palestinese. Accadde trent’anni fa, in
Libano, nei due campi rifugiati di Sabra e Chatila.
Un numero imprecisato di civili, si ipotizza fra le settecento e le 3500 persone – tra cui donne e
bambini – furono assassinate fra il 16 e il 18 settembre 1982 dalle milizie cristiano-falangiste
libanesi. L’esercito israeliano aveva invaso il Libano il 6 giugno. Pochi giorni dopo il cessate il
fuoco, negoziato dagli Stati Uniti, prevede l’evacuazione da Beirut dell’OLP di Arafat, i cui
militari erano asserragliati nella parte occidentale della capitale.
L’11 settembre, Ariel Sharon, all’epoca ministro della Difesa israeliano e architetto
dell’invasione, ribadisce che duemila ‘terroristi’ palestinesi restavano nascosti nei campi per i
rifugiati. Il 14 settembre una bomba esplode nella sede del partito
falangista. Il neo presidente libanese, il cristiano-maronita Bashir Gemayel, viene ucciso. La
sua elezione aveva fatto sperare nella fine di una guerra civile che devastava il Paese dal 1975.
Proprio questo assassinio servirà da pretesto al massacro. In molti lo definiranno soltanto una
vendetta dei falangisti cristiani. Ma senza la complicità dell’esercito israeliano, che circondò i
due campi e lasciò entrare i miliziani, la strage non sarebbe mai potuta avvenire. Durante la
notte l’aviazione israeliana illuminò il cielo per aiutarli. In molti furono uccisi con asce e
pugnali. Nel silenzio, senza che la comunità internazionale si rendesse conto di quello che
stava acadendo.
Per i sopravvissuti di Sabra e di Chatila, il 17 settembre è il giorno del cordoglio e della
memoria. Provenienti da tutto il mondo, si raccolgono in preghiera sulle tombe. Israele ha
riconosciuto la responsabilità indiretta di Ariel Sharon nel massacro che trent’anni dopo resta
impunito. Euronews
Piantato un ulivo per non dimenticare stragi Sabra e Chatila
iniziativa della Provincia di Cagliari nel parco di Monte Claro
15 settembre, 20:00
(ANSA) - CAGLIARI, 15 SET - Piantato un ulivo oggi nel parco Monte Claro a Cagliari per non
dimenticare le stragi di Sabra e Chatila, campi di rifugiati palestinesi alla periferia di Beirut
(Libano) dove nel settembre 1982 furono uccisi centinaia di arabi palestinesi da milizie cristiane
libanesi. L'albero e la targa commemorativa sono stati posti nell'area dedicata alla memoria, vicino
agli ulivi in ricordo di Emanuela Loi, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e
Peppino Impastato. Presente Angela Quaquero, presidente della Provincia che ha promosso
l'iniziativa assieme all'associazione Amicizia Sardegna-Palestina. (ANSA).
Da Bocchescucite .156
Sabra e Shatila 30 anni dopo. Una strage rimasta impunita. Vi proponiamo l’articolo che
scrisse Robert Fisk uno dei primi giornalisti ad entrare nei campi palestinesi dopo il
massacro.
di Robert Fisk – settembre 1982
Roma, 16 settembre 2012, Nena News - “Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e
il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono
completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si
insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle
mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi
da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini
verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a
banchettare.
Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù giravano intorno alle
nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che assumessimo la generosa immobilità dei morti.
Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci
erano intorno, ricordandoci che c’è vita anche nella morte. Qualcuno ne trae profitto. Le
mosche sono imparziali. Per loro non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati
vittime di uno sterminio di massa. Le mosche si sarebbero comportate nello stesso modo con
un qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio, doveva essere stato così anche nei caldi
pomeriggi durante la Peste nera.
All’inizio non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le mosche si
avventavano infallibilmente sulle nostrae bocche. Per questo motivo ci tenevamo sopra un
fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se
a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare. Lo
sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo qualche minuto, anche noi
cominciammo a puzzare di morto.
Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni
crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli assassini – i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato
entrare nei campi per «spazzare via i terroristi» – se n’erano appena andati. In alcuni casi il
sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver visto un centinaio di morti, smettemmo di
contarli. In ogni vicolo c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto
all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni
corridoio tra le macerie trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano
scomparsi dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di andarsene. Dappertutto,
trovavamo i segni di fosse comuni scavate in fretta. Probabilmente erano state massacrate
mille persone; e poi forse altre cinquecento.
Mentre eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli israeliani che ci
osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest – il secondo palazzo del viale Camille
Chamoun – li vedevamo che ci scrutavano con i loro binocoli da campo, spostandoli a destra e
a sinistra sulle strade coperte di cadaveri, con le lenti che a volte brillavano al sole, mentre il
loro sguardo si muoveva attraverso il campo. Loren Jenkins continuava a imprecare. Pensai
che fosse il suo modo di controllare la nausea provocata da quel terribile fetore. Avevamo tutti
voglia di vomitare. Stavamo respirando morte, inalando la putredine dei cadaveri ormai gonfi
che ci circondavano. Jenkins capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto
assumersi una parte della responsabilità di quell’orrore. «Sharon!» gridò. «Quello stronzo di
Sharon! Questa è un’altra Deir Yassin.»
Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre
1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa
scientifica di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle
proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato.
Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di
persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa,
un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la parola «episodio» in Libano – che
andava ben oltre quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage
terroristica. Era stato un crimine di guerra.
Jenkins, Tveit e io eravamo talmente sopraffatti da ciò che avevamo trovato a Shatila che
all’inizio non riuscivamo neanche a renderci conto di quanto fossimo sconvolti. Bill Foley dell’Ap
era venuto con noi. Mentre giravamo per le strade, l’unica cosa che riusciva a dire era «Cristo
santo!». Avremmo potuto accettare di trovare le tracce di qualche omicidio, una dozzina di
persone uccise nel fervore della battaglia; ma nelle case c’erano donne stese con le gonne
sollevate fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola squarciata, file di ragazzi ai quali
avevano sparato alle spalle dopo averli allineati lungo un muro. C’erano neonati – tutti anneriti
perché erano stati uccisi più di ventiquattro ore prima e i loro corpicini erano già in stato di
decomposizione – gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette delle razioni dell’esercito
americano, alle attrezzature mediche israeliane e alle bottiglie di whisky vuote.
Dov’erano gli assassini? O per usare il linguaggio degli israeliani, dov’erano i «terroristi»?
Mentre andavamo a Shatila avevamo visto gli israeliani in cima ai palazzi del viale Camille
Chamoun, ma non avevano cercato di fermarci. In effetti, eravamo andati prima al campo di
Burj al-Barajne perché qualcuno ci aveva detto che c’era stato un massacro. Tutto quello che
avevamo visto era un soldato libanese che inseguiva un ladro d’auto in una strada. Fu solo
mentre stavamo tornando indietro e passavamo davanti all’entrata di Shatila che Jenkins
decise di fermare la macchina. «Non mi piace questa storia» disse. «Dove sono finiti tutti? Che
cavolo è quest’odore?»
Appena superato l’ingresso sud del campo, c’erano alcune case a un piano circondate da muri
di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle casupole alla fine degli anni settanta. Quando
varcammo la fangosa entrata di Shatila vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state fatte
saltare in aria con la dinamite. C’erano bossoli sparsi a terra sulla strada principale. Vidi diversi
candelotti di traccianti israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli paracadute. Nugoli di
mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che avevano annusato la vittoria.
In fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri dall’entrata, trovammo
un cumulo di cadaveri. Erano più di una dozzina, giovani con le braccia e le gambe
aggrovigliate nell’agonia della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la
pallottola aveva portato via una striscia di carne fino all’orecchio ed era poi entrata nel
cervello. Alcuni avevano cicatrici nere o rosso vivo sul lato sinistro del collo. Uno era stato
castrato, i pantaloni erano strappati sul davanti e un esercito di mosche banchettava sul suo
intestino dilaniato.
Avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o tredici anni. Portavano jeans e
camicie colorate, assurdamente aderenti ai corpi che avevano cominciato a gonfiarsi per il
caldo. Non erano stati derubati. Su un polso annerito, un orologio svizzero segnava l’ora esatta
e la lancetta dei minuti girava ancora, consumando inutilmente le ultime energie rimaste sul
corpo defunto.
Dall’altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di macerie, trovammo i
corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le donne erano tutte di mezza età ed erano state
gettate su un cumulo di rifiuti. Una era distesa sulla schiena, con il vestito strappato e la testa
di una bambina che spuntava sotto il suo corpo. La bambina aveva i capelli corti, neri e ricci,
dal viso corrucciato i suoi occhi ci fissavano. Era morta.
Un’altra bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via, con il vestitino bianco
macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più di tre anni. La parte posteriore della testa
era stata portata via dalla pallottola che le avevano sparato al cervello. Una delle donne
stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola attraversandone il petto aveva ucciso anche
il bambino. Qualcuno le aveva squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un
altro bambino non ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro pietrificato dall’orrore.
Tveit cercò di registrare tutto su una cassetta, parlando lentamente in norvegese e in tono
impassibile. «Ho trovato altri corpi, quelli di una donna con il suo bambino. Sono morti. Ci sono
altre tre donne. Sono morte.»
Di tanto in tanto, premeva il bottone della pausa e si piegava per vomitare nel fango della
strada. Mentre esploravamo un vicolo, Foley, Jenkins e io sentimmo il rumore di un cingolato.
«Sono ancora qui» disse Jenkins e mi fissò. Erano ancora lì. Gli assassini erano ancora nel
campo. La prima preoccupazione di Foley fu che i miliziani cristiani potessero portargli via il
rullino, l’unica prova – per quanto ne sapesse – di quello che era successo. Cominciò a correre
lungo il vicolo.
Io e Jenkins avevamo paure più sinistre. Se gli assassini erano ancora nel campo, avrebbero
voluto eliminare i testimoni piuttosto che le prove fotografiche. Vedemmo una porta di metallo
marrone socchiusa; l’aprimmo e ci precipitammo nel cortile, chiudendola subito dietro di noi.
Sentimmo il veicolo che si addentrava nella strada accanto, con i cingoli che sferragliavano sul
cemento. Jenkins e io ci guardammo spaventati e poi capimmo che non eravamo soli.
Sentimmo la presenza di un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una bella ragazza distesa
sulla schiena.
Era sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido le scendeva lungo la
schiena. Gli assassini se n’erano appena andati. E lei era lì, con i piedi uniti, le braccia
spalancate, come se avesse visto il suo salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi, era una
bella donna, e intorno alla sua testa c’era una strana aureola: sopra di lei passava un filo per
stendere la biancheria e pantaloni da bambino e calzini erano appesi. Altri indumenti giacevano
sparsi a terra. Quando gli assassini avevano fatto irruzione, probabilmente stava ancora
stendendo il bucato della sua famiglia. E quando era caduta, le mollette che teneva in mano
erano finite a terra formando un piccolo cerchio di legno attorno al suo capo.
Solo il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man mano allargando
indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non l’avevano ancora trovata. Pensai che
Jenkins stesse pregando, ma imprecava di nuovo e borbottava «Dio santo», tra una
bestemmia e l’altra. Provai tanta pena per quella donna. Forse era più facile provare pietà per
una persona giovane, così innocente, una persona il cui corpo non aveva ancora cominciato a
marcire. Continuavo a guardare il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il filo da
bucato, quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento all’altro.
Probabilmente quando aveva sentito sparare nel campo era andata a nascondersi in casa.
Doveva essere sfuggita all’attenzione dei miliziani fino a quella mattina. Poi era uscita in
giardino, non aveva sentito nessuno sparo, aveva pensato che fosse tutto finito e aveva
ripreso le sue attività quotidiane. Non poteva sapere quello che era successo. A un tratto
qualcuno aveva aperto la porta, improvvisamente come avevamo fatto noi, e gli assassini
erano entrati e l’avevano uccisa. Senza pensarci due volte. Poi se n’erano andati ed eravamo
arrivati noi, forse soltanto un minuto o due dopo.
Rimanemmo in quel giardino ancora per un po’. Io e Jenkins eravamo spaventati. Come Tveit,
che era momentaneamente scomparso, Jenkins era un sopravvissuto. Mi sentivo al sicuro con
lui. I miliziani – gli assassini della ragazza – avevano violentato e accoltellato le donne di
Shatila e sparato agli uomini, ma sospettavo che avrebbero esitato a uccidere Jenkins e
l’americano avrebbe cercato di dissuaderli. «Andiamocene via di qui» disse, e ce ne andammo.
Fece capolino in strada per primo, io lo seguii, chiudendo la porta molto piano perché non
volevo disturbare la donna morta, addormentata, con la sua aureola di mollette da bucato.
Foley era tornato sulla strada vicino all’entrata del campo. Il cingolato era scomparso, anche se
sentivo che si spostava sulla strada principale esterna, in direzione degli israeliani che ci
stavano ancora osservando. Jenkins sentì Tveit urlare da dietro una catasta di cadaveri e lo
persi di vista. Continuavamo a perderci di vista dietro i cumuli di cadaveri. Un attimo prima
stavo parlando con Jenkins, un attimo dopo mi giravo e scoprivo che mi stavo rivolgendo a un
ragazzo, riverso sul pilastro di una casa con le braccia penzoloni dietro la testa.
Sentivo le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza, dall’altra parte di una
barricata coperta di terra e sabbia che era stata appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta
più di tre metri e mi arrampicai con difficoltà su uno dei lati, con i piedi che scivolavano nel
fango. Quando ormai ero arrivato quasi in cima persi l’equilibrio e per non cadere mi aggrappai
a una pietra rosso scuro che sbucava dal terreno. Ma non era una pietra. Era viscida e calda e
mi rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai gli occhi vidi che mi ero attaccato a un
gomito che sporgeva dalla terra, un triangolo di carne e ossa.
Lo lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta sui pantaloni, e finii di
salire in cima alla barricata barcollando. Ma l’odore era terrificante e ai miei piedi c’era un volto
al quale mancava metà bocca, che mi fissava. Una pallottola o un coltello gliel’avevano portata
via, quello che restava era un nido di mosche. Cercai di non guardarlo. In lontananza, vedevo
Jenkins e Tveit in piedi accanto ad altri cadaveri davanti a un muro, ma non potevo chiedere
aiuto perché sapevo che se avessi aperto la bocca per gridare avrei vomitato.
Salii in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi consentisse di saltare
dall’altra parte. Ma non appena facevo un passo, la terra mi franava sotto i piedi. L’intero
cumulo di fango si muoveva e tremava sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando
guardai giù di nuovo, vidi che solo uno strato sottile di sabbia copriva altre membra e altri
volti. Mi accorsi che una grossa pietra era in realtà uno stomaco. Vidi la testa di un uomo, il
seno nudo di una donna, il piede di un bambino. Stavo camminando su decine di cadaveri che
si muovevano sotto i miei piedi.
I corpi erano stati sepolti da qualcuno in preda al panico. Erano stati spostati con un bulldozer
al lato della strada. Anzi, quando sollevai lo sguardo vidi il bulldozer – con il posto di guida
vuoto – parcheggiato con aria colpevole in fondo alla strada.
Mi sforzavo invano di non camminare sulle facce che erano sotto di me. Provavamo tutti un
profondo rispetto per i morti, perfino lì e in quel momento. Continuavo a dirmi che quei
cadaveri mostruosi non erano miei nemici, quei morti avrebbero approvato il fatto che fossi lì,
avrebbero voluto che io, Jenkins e Tveit vedessimo tutto questo, e quindi non dovevo avere
paura di loro. Ma non avevo mai visto tanti cadaveri in tutta la mia vita.
Saltai giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi piagnucolando come uno scemo
perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena aprii la bocca per parlare, entrarono le mosche. Le
sputai fuori. Tveit vomitava. Stava guardando quelli che sembravano sacchi davanti a un basso
muro di pietra. Erano tutti allineati, giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano
sparato alla schiena mentre erano appoggiati al muro e giacevano lì dov’erano caduti, una
scena patetica e terribile.
Quel muro e il mucchio di cadaveri mi ricordavano qualcosa che avevo già visto. Solo più tardi
mi sarei reso conto di quanto assomigliassero alle vecchie fotografie scattate nell’Europa
occupata durante la Seconda guerra mondiale. Ci sarà stata una ventina di corpi. Alcuni
nascosti da altri. Quando mi inchinai per guardarli più da vicino notai la stessa cicatrice scura
sul lato sinistro del collo. Gli assassini dovevano aver marchiato i prigionieri da giustiziare in
quel modo. Un taglio sulla gola con il coltello significava che l’uomo era un terrorista da
giustiziare immediatamente. Mentre eravamo lì sentimmo un uomo gridare in arabo dall’altra
parte delle macerie: «Stanno tornando». Così corremmo spaventati verso la strada. A
ripensarci, probabilmente era la rabbia che ci impediva di andarcene, perché ci fermammo
all’ingresso del campo per guardare in faccia alcuni responsabili di quello che era successo.
Dovevano essere arrivati lì con il permesso degli israeliani. Dovevano essere stati armati da
loro. Chiaramente quel lavoro era stato controllato – osservato attentamente – dagli israeliani,
dagli stessi soldati che guardavano noi con i binocoli da campo.
Sentimmo un altro mezzo corazzato sferragliare dietro un muro a ovest – forse erano
falangisti, forse israeliani – ma non apparve nessuno. Così proseguimmo. Era sempre la stessa
scena. Nelle casupole di Shatila, quando i miliziani erano entrati dalla porta, le famiglie si
erano rifugiate nelle camere da letto ed erano ancora tutti lì, accasciati sui materassi, spinti
sotto le sedie, scaraventati sulle pentole. Molte donne erano state violentate, i loro vestiti
giacevano sul pavimento, i corpi nudi gettati su quelli dei loro mariti o fratelli, adesso tutti neri
di morte.
C’era un altro vicolo in fondo al campo dove un bulldozer aveva lasciato le sue tracce sul
fango. Seguimmo quelle orme fino a quando non arrivammo a un centinaio di metri quadrati di
terra appena arata. Sul terreno c’era un tappeto di mosche e anche lì si sentiva il solito,
leggero, terribile odore dolciastro. Vedendo quel posto, sospettammo tutti di che cosa si
trattasse, una fossa comune scavata in fretta. Notammo che le nostre scarpe cominciavano ad
affondare nel terreno, che sembrava liquido, quasi acquoso e tornammo indietro verso il
sentiero tracciato dal bulldozer, terrorizzati.
Un diplomatico norvegese – un collega di Ane-Karina Arveson – aveva percorso quella strada
qualche ora prima e aveva visto un bulldozer con una decina di corpi nella pala, braccia e
gambe che penzolavano fuori dalla cassa. Chi aveva ricoperto quella fossa con tanta solerzia?
Chi aveva guidato il bulldozer? Avevamo una sola certezza: gli israeliani lo sapevano, lo
avevano visto accadere, i loro alleati – i falangisti o i miliziani di Haddad – erano stati mandati
a Shatila a commettere quello sterminio di massa. Era il più grave atto di terrorismo – il più
grande per dimensioni e durata, commesso da persone che potevano vedere e toccare gli
innocenti che stavano uccidendo – della storia recente del Medio Oriente.
Incredibilmente, c’erano alcuni sopravvissuti. Tre bambini piccoli ci chiamarono da un tetto e ci
dissero che durante il massacro erano rimasti nascosti. Alcune donne in lacrime ci gridarono
che i loro uomini erano stati uccisi. Tutti dissero che erano stati i miliziani di Haddad e i
falangisti, descrissero accuratamente i diversi distintivi con l’albero di cedro delle due milizie.
Sulla strada principale c’erano altri corpi. «Quello era il mio vicino, il signor Nuri» mi gridò una
donna. «Aveva novant’anni.» E lì sul marciapiede, sopra un cumulo di rifiuti, era disteso un
uomo molto anziano con una sottile barba grigia e un piccolo berretto di lana ancora in testa.
Un altro vecchio giaceva davanti a una porta in pigiama, assassinato qualche ora prima mentre
cercava di scappare. Trovammo anche alcuni cavalli morti, tre grossi stalloni bianchi che erano
stati uccisi con una scarica di mitra davanti a una casupola, uno di questi aveva uno zoccolo
appoggiato al muro, forse aveva cercato di saltare per mettersi in salvo mentre i miliziani gli
sparavano.
C’erano stati scontri nel campo. La strada vicino alla moschea di Sabra era diventata
sdrucciolevole per quanto era coperta di bossoli e nastri di munizioni, alcuni dei quali erano di
fattura sovietica, come quelli usati dai palestinesi. I pochi uomini che possedevano ancora
un’arma avevano cercato di difendere le loro famiglie. Nessuno avrebbe mai conosciuto la loro
storia. Quando si erano accorti che stavano massacrando il loro popolo? Come avevano fatto a
combattere con così poche armi? In mezzo alla strada, davanti alla moschea, c’era un
kalashnikov giocattolo di legno in scala ridotta, con la canna spezzata in due.
Camminammo in lungo e in largo per il campo, trovando ogni volta altri cadaveri, gettati nei
fossi, appoggiati ai muri, allineati e uccisi a colpi di mitra. Cominciammo a riconoscere i corpi
che avevamo già visto. Laggiù c’era la donna con la bambina in braccio, ecco di nuovo il signor
Nuri, disteso sulla spazzatura al lato della strada. A un certo punto, guardai con attenzione la
donna con la bambina perché mi sembrava quasi che si fosse mossa, che avesse assunto una
posizione diversa. I morti cominciavano a diventare reali ai nostri occhi.
Sabra e Shatila, un simbolo per non dimenticare
I palestinesi ci chiedono giustizia, una giustizia che questi trenta anni hanno
loro negato, costringendoli a vedere liberi e potenti molti dei responsabili di
quella violenza.
martedì 18 settembre 2012 Nenanews
di Maurizio Musolino*
Beirut, 18 settembre 2012, Nena News - Il 1982 sembra lontano una vita. In quell'anno
morivano sotto i colpi della mafia prima Pio La Torre poi il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa,
De Mita diventava segretario della Dc gettando le basi per la nefasta stagione del Caf, l'Italia
calcistica trionfava in Spagna e Pertini era il presidente della Repubblica, in Polonia con la
complicitjavascript:void(0)à di Papa Giovanni Paolo II dilagava Solidarnosc e l'ex presidente
della Banca d'Italia, Roberto Calvi veniva trovato suicidato sotto il ponte dei Frati neri a
Londra. Storie che a volte sembrano lontanissime, altre - invece - tremendamente vicine ed
attuali. In quell'anno Beirut era messa a ferro e fuoco da una guerra civile drammatica e
crudele scoppiata nel 1975 e da una occupazione israeliana altrettanto insensata quanto
violenta e sanguinaria.
La notte del 16 settembre di quell'anno la capitale del Libano non riuscì a prendere
sonno. Il cielo della parte sud della città continuava ad essere squarciato da razzi
luminosi che illuminavano l'area a giorno. Tutti si chiedevano cosa stesse
succedendo, e molti avevano sulle labbra la risposta. Quei razzi erano lanciati sopra i
campi palestinesi di Sabra e Chatila dove si stava compiendo uno dei più atroci
crimini del secolo scorso.
Da allora sono passati trent'anni, tanti, a volte sufficienti a veder scorrere due generazioni. Ma
parlare di Sabra e Chatila ha ancora oggi un significato ricco nello stesso tempo di umanità e di
attualità.
Una umanità racchiusa negli occhi dei parenti delle vittime di quel massacro, che in 48 ore
lasciò morti per le strade dei due poveri campi palestinesi oltre duemila persone, perlopiù
donne anziani e bambini. Gli uomini, i fedayeen, avevano lasciato il campo appena pochi giorni
prima, dando seguito ad un accordo internazionale che fra le altre cose prevedeva anche
l'impegno ad assicurare la sicurezza dei campi palestinesi da parte degli Usa e della Francia.
Ma le cose andarono diversamente. I contingenti francesi, statunitensi e italiani
lasciarono Beirut prematuramente - una sorta di precipitosa quanto inattesa fuga - e
questo fu una sorta di via libera alle falangi fasciste maronite e agli israeliani
occupanti. A metà mese era morto in un attentato ancora oggi controverso il neoeletto
presidente della Repubblica libanese, Bashir Gemaiel e gli animi erano infiammati. Tutti
temevano la follia di una vendetta verso uomini e donne, civili inermi e innocenti. La storia ci
racconta di un massacro spaventoso, che fin dalle prime ore non riuscì ad essere occultato fra i
crimini di una guerra civile che sembrava senza fine, e che costrinse lo stesso Israele a
formalizzare una commissione di inchiesta che terminate le indagini dichiarò Ariel Sharon ,
allora ministro della Difesa, responsabile, e forse complice, di quanto accaduto. Una sentenza
però che non impedì qualche anno dopo allo stesso Sharon di diventare Primo ministro di
Israele. Nessun processo e nessuna indagine ha mai punito gli artefici di quel crimine.
Quegli occhi ci chiedono giustizia, una giustizia che questi trenta anni hanno loro negato,
costringendoli a vedere per le strade di Beirut, la città che avvolge sia Chatila che Sabra, liberi
e potenti, i protagonisti di quella violenza.
Sabra da allora non fu più ricostruita, al suo posto c'è un mercato dove si può trovare di tutto,
posto di macerie e disperazione, ricettacolo per i vecchi e nuovi poveri che la grande Beirut
produce inesorabile a gettito continuo. Poco lontano uno slargo, una specie di piccolo parco, lì i
militari israeliani buttarono i corpi delle povere vittime di quel massacro nel tentativo di
nasconderne l'esistenza al mondo. E proprio lì grazie al Comitato per non dimenticare
Sabra e Chatila e al lavoro del giornalista del "manifesto" Stefano Chiarini,
prematuramente scomparso negli anni scorsi, oggi c'è un luogo della memoria. Pochi
simboli che ricordano quel crimine e i tanti che lo hanno preceduto e seguito. Chatila invece
continua ad esistere, dista da Sabra appena qualche centinaio di metri. A Chatila abitano circa
ventimila persone, gran parte delle quali palestinesi, ma con il tempo altri poveri hanno
occupato le case dei palestinesi rendendo ancora più caotica la vita nel campo. Le vie di Chatila
sono strettissime e se si alza la testa si vede un groviglio infinito di fili elettrici e di tubi.
L'acqua è un bene preziosissimo come l'elettricità che va e viene con una logica che solo chi
vive a Chatila conosce. Le fognature, vecchie e inadatte al numero degli abitanti del campo,
sono insufficienti e quando piove riversano il loro maleodorante carico nelle viuzze strette e
buie. Per molti bambini vedere il cielo e il sole è un sogno. In queste condizioni continuano a
vivere famiglie palestinesi che di generazione in generazione si passano, come in una staffetta
olimpica, la speranza di poter un giorno mettere fine a questa sofferenza per tornare nella loro
terra, la Palestina.
Una umanità carica di dignità, consapevole del furto storico che da decenni avviene a scapito
del loro futuro. Un diritto quello a ritornare nelle loro case sancito dalla legalità internazionale
fin dai testi più alti e significativi. La Quarta convenzione di Ginevra parla chiaramente e
obbliga le potenze occupanti a permettere il rientro delle popolazioni nelle loro proprietà. Un
dettato però da sempre disatteso da Israele, che sul diritto al ritorno dei profughi
palestinesi non ha mai accettato neanche di discutere. Ci sono poi tante risoluzioni delle
Nazioni Unite che riconoscono questo diritto, a partire dalla risoluzione 198 del 1948, ma
anche queste solo carta straccia per i governi di Tel Aviv. Una ingiustizia, un sopruso, che si
regge sulla silente complicità di tutto il mondo, che non dice nulla e che si gira dall'altra parte
quando si parla di rifugiati palestinesi.
E qui, nella vita di tutti i giorni, sta tutta l'attualità di quel massacro avvenuto trenta anni fa.
Giustizia per le vittime, ma anche giustizia per un popolo che da oltre sessanta anni è costretto
a vivere nei campi in condizioni miserrime. L'origine di tutto è nell'occupazione e nelle
politiche sioniste, ma la situazione è aggravata dalle politiche messe in essere dai "fratelli"
arabi e nello specifico dai libanesi. Il Libano considera da sempre i quasi cinquecento
mila palestinesi ospiti scomodi e a volte indesiderati, salvo poi cercare di arruolarli
ora con uno ora con l'altro quando le vicende interne si complicano, come sta
accadendo anche in questi giorni a causa della crisi siriana. Ma non basta, le leggi del
Paese dei cedri impediscono a questi cittadini senza patria e senza futuro di poter
svolgere ben 45 lavori (ma in un recente passato erano oltre settanta); gli
impediscono di poter essere proprietari delle poche cose che si sono costruiti e
quindi di poter lasciare ai figli eredità; impediscono di poter studiare e di potersi
curare, se non a costi altissimi equiparati a quelli che si fanno pagare ai ricchi ospiti
dei paesi del Golfo. Queste limitazioni si aggiungono a quelle sugli spostamenti, sulla
possibilità di riunirsi in associazioni e a potersi ristrutturare le abitazioni, spesso
fatiscenti e inospitali.
In questa situazione di negazione della quotidianità quel massacro compiuto trenta anni fa
diventa ogni giorno più vivo e diventa simbolo dei diritti sottratti, dell'ingiustizia perpetuata nei
decenni. Ricordarlo è così non solo un esercizio di pietà umana, ma soprattutto un atto di lotta
e un essere partigiani in favore delle vittime, di chi è depredato di tutto a partire dal proprio
futuro. Essere a Beirut a fianco dei rifugiati palestinesi in questi giorni è pertanto un atto di
coraggio e di chiarezza politica, e forse proprio per questo molti storceranno la bocca. Gli stessi
che vorrebbero liquidare la questione palestinese a semplice crisi umanitaria. Ma proprio per
queste ragioni noi ci saremo, in tantissimi, !per non dimenticare..
*portavoce del Comitato Per non dimenticare Sabra e Chatila
Trent'anni di solitudine
Michele Giorgio - il manifesto
Martedì 18 Settembre 2012 09:06 Dal 16 al 18 settembre 1982, nei campi profughi palestinesi, i miliziani cristiano-falangisti,
sotto gli occhi compiacenti delle truppe d'invasione israeliane, uccisero tremila persone:
uomini, donne, bambini. Civili inermi, e non combattenti armati BEIRUT. «Furono le mosche a
farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l'odore. Grosse come
mosconi, all'inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti».
Comincia così il lungo racconto scritto trent'anni fa da Robert Fisk, uno dei primi giornalisti
stranieri ad entrare nei campi profughi di Sabra e Shatila dopo il massacro di 3mila palestinesi.
Il lungo e penoso resoconto di un giro tra case e strade colme di cadaveri che Fisk e i suoi
colleghi non dimenticheranno mai. Sono passati trent'anni da quella strage compiuta dal 16 al
18 settembre 1982 da miliziani cristiano-falangisti agli ordini (ma non solo) di Elie Hobeika,
sotto gli occhi compiacenti delle truppe d'invasione israeliane. I ricordi sono ancora vivi per
chi scampò a quella mattanza. Molto meno tra i libanesi immersi nella loro vita frenetica. Non
ha più memoria invece la «comunità internazionale», pronta a processare e condannare vecchi
e nuovi criminali di guerra, che ha scelto però di dimenticare esecutori e mandanti di quel
massacro.
Uomini, donne, bambini. Civili inermi e non combattenti armati, uccisi in ogni modo possibile
per vendicare la morte in un attentato, qualche giorno prima, del neo-eletto presidente della
repubblica Bashir Gemayel, il falangista messo al potere dalle truppe di occupazione agli
ordini di Ariel Sharon, a quel tempo ministro della difesa di Israele e stratega dell'Operazione
militare «Pace in Galilea». Lo ricorda bene Aziza Khalidi che qualche giorno fa ha rivissuto nei
racconti fatti ai giornalisti le varie fasi del massacro, dall'incredulità dei primi momenti
all'orrore della scoperta del bagno di sangue. La donna a quel tempo era direttrice
amministrativa dell'ospedale Gaza, costruito ai margini del campo di Shatila con fondi messi a
disposizione dell'Olp. Quel trauma non lo ha mai superato. «E non ci riuscirò mai - ha detto perché quei tre giorni (di massacro) hanno segnato la mia vita, fui costretta a lasciare il Libano
per molti anni per riprendermi da ciò che accadde».
I dieci piani dell'«edificio» Gaza, come è conosciuto adesso, non accolgono più l'ospedale. Il
palazzo fatiscente alloggia in minuscoli appartamenti a basso costo famiglie palestinesi,
lavoratori siriani, migranti. In queste stanze trent'anni fa si tentò, spesso invano, di curare i
superstiti della carneficina. C'era anche il dottor Ben Alofs, un medico olandese. «Il nostro
obitorio si riempì di cadaveri in pochissimo tempo - ha scritto e raccontato in più di una
occasione - Ricordo un bambino di 10 anni che fu trasportato agonizzante all'ospedale. Era
vivo e aveva trascorso tutta la notte sotto i cadaveri dei suoi genitori, fratelli e sorelle. Gli
assassini venivano aiutati dagli israeliani, che illuminavano i campi... Sabato mattina 18
settembre fummo arrestati dai miliziani falangisti che ci costrinsero ad abbandonare i feriti e a
lasciare Sabra e Shatila. Passammo attraverso centinaia di donne, bambini ed uomini fatti a
ciambella. Vedemmo corpi nelle strade e negli stretti vicoli... Appena prima di uscire dal campo
un'immagine che resterà per sempre nella mia mente: un grosso cumulo di terra rossa da cui
fuoriuscivano braccia e gambe. Fuori da Shatila vi era un bulldozer dell'esercito israeliano».
Domenica 19 settembre, aggiunge Ben Alofs «tornai a Sabra e Shatila accompagnato da due
giornalisti danesi e un olandese...Tutti eravamo atterriti dalla ferocia degli assassinii...Quando
le piogge autunnali iniziarono a cadere, alla fine di novembre, le fogne congestionate
inondarono Sabra e Shatila. La congestione era causata in parte dai cadaveri gettati nelle
fogne».
Le premesse del massacro sono nell'imposizione di Israele e dei suoi alleati libanesi
dell'allontanamento da Beirut e dal Libano di 15mila guerriglieri palestinesi e tutto il gruppo
dirigente dell'Olp, i soli protettori dei profughi in un paese che già da sette anni viveva nella
guerra civile. Fu perciò formata la Forza Multinazionale di interposizione (Fmi, con soldati
statunitensi, francesi e italiani) incaricata nella seconda metà di agosto di garantire l'ordine
durante il ritiro delle forze dell'Olp e l'incolumità dei civili palestinesi rimasti. Il 23 agosto il
parlamento libanese elesse all'ombra dei carri armati israeliani Beshir Gemayel a capo dello
stato. La Fmi, invece di rimanere a presidio della zona musulmana (Ovest) di Beirut fino al
ritiro delle truppe israeliane, si imbarcò in anticipo sulla data stabilita. Il 9 settembre partirono i
marines Usa, l'11 i bersaglieri italiani e il 13 settembre salparono i francesi. I falangisti libanesi
alleati di Israele intanto insistevano sulla presenza nei campi palestinesi di «terroristi»,
guerriglieri che a loro dire non avevano lasciato Beirut. Voci che si fecero più insistenti quando
il 14 settembre una potente bomba esplose nella roccaforte delle Forze Libanesi, ad
Ashrafieh, provocando 21 morti, tra i quali Beshir Gemayel. Subito dopo le truppe israeliane
occuparono Beirut Ovest e circondarono i campi profughi.
Alle 5 di sera di giovedì 16 settembre iniziò «l'operazione di pulizia dai terroristi» con le belve
agli ordini di Eli Hobeika che penetrarono nei campi palestinesi per avviare la strage di civili,
ai quali poi si aggiunsero i libanesi dell'Esercito mercenario del Sud del Libano, alleato di
Israele. Si dice che alla mattanza parteciparono anche miliziani sciiti. Furono uccisi in ogni
modo possibile i profughi palestinesi ma anche cittadini siriani e libanesi, colpevoli di vivere o
simpatizzare con i «nemici». Il rastrellamento dei «terroristi» avvenne casa per casa con i
comandi israeliani che seguivano cosa accade dalla terrazza della vicina ambasciata del
Kuwait abbandonata dai diplomatici del paese arabo. Da parte loro i soldati di Tel Aviv
sparavano razzi illuminanti durante la notte, aiutando gli assassini. Dall'ospedale Gaza furono
cacciati i medici e il personale straniero. Coloro che vi avevano cercato rifugio furono portati
via e assassinati. Il bagno di sangue si fece più intenso nelle ultime ore del 17 settembre
quando cominciò a diffondersi la notizia della strage. Alle prime luci del 18 settembre i miliziani
falangisti si ritirarono, lasciandosi dietro le spalle un fiume di sangue: 3mila tra assassinati o
scomparsi nel nulla.
Nessuno dei responsabili diretti e indiretti di quella strage è mai stato portato davanti a una
corte internazionale per essere giudicato per crimini di guerra e contro l'umanità. La
«Commissione d'inchiesta Kahan» in Israele concluse che uniche colpevoli del massacro di
Sabra e Shatila erano state le milizie falangiste di Hobeika e si limitò a rilevare la
responsabilità indiretta di Ariel Sharon per non averlo saputo prevenire o fermare. Elie
Hobeika morì nel 2002 a Beirut in un attentato che gli chiuse per sempre la bocca mentre a
livello internazionale partivano iniziative per portare i colpevoli libanesi e israeliani davanti alla
giustizia.
La memoria in ogni caso non muore. Sabra e Shatila non sarà mai dimenticata. Lo
confermano anche le centinaia di stranieri, che assieme ai profughi palestinesi, in queste ore
stanno commemorando le vittime del massacro. Anche nel ricordo di Stefano Chiarini, il
giornalista del manifesto fondatore in Italia del «Comitato per non dimenticare Sabra e
Shatila». Una marcia di centinaia di persone facenti capo ai comitati popolari e alle ong
palestinesi, ieri ha attraversato Shatila fino al «Cimitero dei Martiri». Oggi la delegazione del
«Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila», coordinata dai giornalisti Maurizio Musolino
e Stefania Limiti, e i rappresentanti della ong palestinese «Beit atfal sumud», sfileranno dal
centro culturale della municipalità di Ghobeiry fino a Shatila dove renderanno onore alle
vittime del massacro e incontreranno le loro famiglie. È prevista anche una seconda marcia dei
comitati popolari che hanno allestito una mostra fotografica sulla strage.
LETTERA A OBAMA
Gentile sig.Obama,
I miei colleghi insegnanti non erano d’accordo, ma io le scrivo lo stesso.
Mohammed, il direttore didattico, dandoci la bellissima notizia che probabilmente la nostra
scuola di gomme a Khan al Ahmar non verrà demolita, ha aggiunto che “comunque questo non
è stato un regalo di Obama, ma solo una decisione provvisoria della Corte israeliana”. Infatti,
per tenere calmi i coloni del vicino insediamento di Kefar Adumim, Israele ha solo rimandato la
terribile decisione di abbattere la nostra scuola e forse l’intero villaggio “in attesa di una
soluzione complessiva alla questione beduina da parte del Governo israeliano”.
Anche se non ci capisco tanto di politica internazionale, ho ascoltato con attenzione quello che
gli abitanti di Khan al Ahmar dicevano ieri sera sotto la grande tenda della comunità.
Insomma, è chiaro che per lo stato d’Israele noi beduini, come tutti i palestinesi, non
dovremmo nemmeno esistere e invece di lasciarci vivere sulla nostra terra stanno pensando di
distruggere tutti i nostri villaggi.
Mi fa paura quella parola “soluzione complessiva della questione beduina”, perché non so cosa
ne sarà di noi ed ogni mattina, guardando i ragazzini giocare allegramente nel villaggio, mi
chiedo sinceramente se, insieme a Dio -inshallah- chi potrà aiutarci. Ogni giorno che passa
vedo le cose peggiorare sempre più disastrosamente. Non possiamo certo vivere tranquilli né
tanto meno fare serenamente scuola ai nostri bambini, se vediamo su tutte le colline intorno
sempre più case costruite e strade e ponti e cemento che uniscono una colonia all’altra,
devastano la terra dei nostri pascoli, ci rubano l’acqua e mi sembra a volte anche l’aria per
respirare…
Per questo, gentile presidente degli Stati Uniti, le scrivo perché so che, se volesse, lei potrebbe
prendere delle decisioni davvero importanti per il nostro futuro. E non solo per la nostra
scuola. Sembra trascorso un secolo da quando al Cairo, nel suo primo discorso da presidente
degli Stati Uniti, aveva dimostrato di sapere bene che la radice di tutto è l’occupazione e la
colonizzazione israeliana. Aveva detto chiaramente che “i palestinesi devono sopportare
grandi e piccole umiliazioni quotidiane causate dall’occupazione. La situazione della
popolazione palestinese è intollerabile. L’America non ignorerà le legittime
aspirazioni dei palestinesi di dignità, opportunità future e di un proprio Stato. Questa
soluzione è nell’interesse di Israele, nell’interesse della Palestina, nell’interesse
dell’America e nell’interesse del mondo intero” (4 giugno 2009).
Forse però in questo momento, alla vigilia delle elezioni, la sua preoccupazione principale non
è la nostra sorte, ma piuttosto il voto degli americani che lo devono rieleggere. Sappia però
che la gran parte dei palestinesi ha ormai perso la speranza in un intervento americano per
evitare la catastrofe. Se le scrivo, però, è perché, da insegnante, ho imparato a far leva sulle
capacità di bene di ogni persona, sia esso un mio alunno beduino o il presidente degli Usa.
Si dice, tra l’altro, in queste settimane, che la indiscutibile e incrollabile amicizia americana di
Israele, in realtà sarebbe una fiaba. Lei ripete spesso: “noi abbiamo da sempre e coltiveremo
sempre di più il legame tra gli Usa e Israele. Un’amicizia durevole e unica, ancorata ai nostri
comuni interessi e valori profondamente radicati”. D’altra parte il suo rivale repubblicano, Mitt
Romney, va ben oltre, sostenendo che non c’è “un centimetro di differenza tra noi e il nostro
alleato Israele”. Ma ad di là di questa dichiarazione di “amore imperituro”, sembra che i vertici
militari statunitensi siano profondamente in disaccordo con Israele. In particolare perché voi
americani non state appoggiando la precisa e insistente volontà israeliana di attaccare l’Iran.
Magari, Mr. Obama, fosse vero che non siete del tutto ciechi di fronte all’arroganza di Israele
che ci sta sistematicamente opprimendo e magari fosse vero che non siete del tutto sordi ai
mille inviti della comunità internazionale per mettere alle strette il governo israeliano che, solo,
ha in mano le chiavi della pace!
Insomma, se è vero che in queste settimane possiamo riprendere l’anno scolastico, non
possiamo fingere di non vedere all’orizzonte non solo avanzare il mostruoso insediamento di
Maaleh Adumim, ma soprattutto proseguire il disegno distruttivo di Israele.
L’editoriale di Haaretz del 14 settembre titolava: “Gerusalemme: capitale della
discriminazione”. Ancora una volta si scriveva che “la condizione dei migliaia di abitanti arabi
di Gerusalemme Est è sempre più drammatica” e si parlava proprio delle scuole, discriminate
rispetto a quelle di Gerusalemme Ovest.
Io posso solo dirle che i miei ragazzini che stamattina festeggiano perché la loro scuola è
ancora in piedi, presto diventeranno grandi e per il loro futuro non basterà leggere qualche
articolo più coraggioso né ascoltare un discorso pieno di promesse del presidente americano.
Cordialmente,
Sheeren, insegnante della scuola del villaggio di Khan al Ahmar.
BoccheScucite ha immaginato questa lettera per augurare a tutti i bambini palestinesi un
buon anno scolastico.
Il discorso ‘sparito’ del patriarca
di Giovanni Panettiere
in “Quotidiano.net” del 16 settembre 2012
«Il riconoscimento dello Stato palestinese è il bene più prezioso che il mondo arabo possa ottenere
in tutte le sue confessioni cristiane e musulmane». Quelle parole non avrebbe dovuto pronunciarle,
almeno non davanti al papa, ma, alla fine, il patriarca greco cattolico melchita di Damasco,
Gregorio Laham III - al vertice di una comunità di oltre 1,3 milioni di fedeli -, ha rotto gli indugi.
Accogliendo l'altro giorno Benedetto XVI nella basilica di San Paolo ad Harissa, in Libano, dove il
Santo Padre ha firmato l'esortazione apostolica post sinodale sul Medio Oriente, il presule si è
lanciato in un pieno e convinto sostegno alla causa palestinese, spronando il pontefice a dare il via
libera allo Stato arabo.
Per il patriarca «il riconoscimento potrà garantire la realizzazione degli orientamenti espressi in
questa esortazione apostolica post-sinodale per la quale abbiamo manifestato la nostra più viva
gratitudine. Preparerebbe la strada verso una vera primavera araba, una vera democrazia e una vera
rivoluzione capace di cambiare il volto del mondo arabo e dare la pace alla Terra Santa, al vicino
Oriente e al mondo».
Non è la prima volta che Laham III si sbilancia sulla questione palestinese. Solo due anni fa, nel
corso del sinodo sul Medio Oriente, il patriarca tradì la sua simpatia per Ramallah, senza però
incontrare il favore della maggioranza dei padri sinodali. Nei giorni scorsi, invece, sul sito ufficiale
della visita del papa in Libano (www.lbpapalvisit.com), era stato pubblicato in anteprima il testo del
saluto del presule a Benedetto XVI. L'intervento conteneva anche un richiamo esplicito alle vicende
della Terra santa. Ma il messaggio in rete c'è rimasto solo qualche giorno: alla vigilia dell'arrivo di
Ratzinger è stato espunto dal web. Censura vaticana?
«Il testo è stato rimosso semplicemente perché questo genere di interventi si pubblicano dopo che
sono stati pronunciati», si è affrettato a dire il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi.
Appena in tempo, dal momento che fonti vaticane avevano già manifestato una certa irritazione per
l'anteprima dell'intervento di Laham III. «È solo la posizione personale del patriarca», avevano
precisato alla stampa. In effetti, la tesi del melchita appare chiaramente in disaccordo con
l'orientamento della diplomazia d'Oltre Tevere, più propensa ad attendere un intervento delle
Nazioni unite che ad avanzare la prima mossa sul terreno minato del riconoscimento di uno Stato
palestinese.
Tolto il discorso dal web, Laham III ha tenuto il suo discorso davanti al pontefice. Liberamente, o
quasi. Rispetto alla versione pubblicata on-line, il saluto pronunciato ad Harissa è stato, infatti,
ripulito dei riferimenti più problematici: via il passaggio sul riconoscimento dello Stato palestinese
come «atto coraggioso di equità, di giustizia e di verità», omesso il rimando al Vaticano che, con il
disco verde a Ramallah, finirebbe «per incoraggiare gli altri Stati europei e non solo a riconoscere la
sovranità dello Stato palestinese». A questa revisione del testo si aggiunge il caso della
ripubblicazione sul sito ufficiale del viaggio papale: nonostante siano trascorsi due giorni dalla sua
pronuncia, dell'intervento non c'è traccia. Molto probabilmente, una volta che il papa sarà rientrato a
Roma, la pagina verrà aggiornata per dare al pubblico un quadro d'insieme della tre giorni in Medio
Oriente. Al momento nulla si muove.
Senz'altro Ratzinger avrebbe preferito omettere nella sua visita in Libano qualsiasi riferimento alla
politica, specie quella israelo-palestinese dato il rapporto, non sempre facile, tra il Vaticano e Tel
Aviv. Solo qualche settimana fa Israele aveva protestato con la Santa sede per la nomina del nuovo
nunzio apostolico, mentre resta sempre aperta la questione della beatificazione di Pio XII.
Benedetto XVI, come è suo stile, avrebbe voluto dare un taglio esclusivamente pastorale alla sua tre
giorni in Medioriente. Tuttavia, di fronte alle violente manifestazioni nel mondo islamico di questi
giorni, c''è da chiedersi se il richiamo alla Palestina del patriarca Laham III non sia stato, non solo
inevitabile, ma anche utile per allentare le tensioni tra Occidente e musulmani.
Giovanni Panettiere