scarica metà libro

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scarica metà libro
Claudio Selva
Y
© 2014 I sognatori, Lecce
ISBN 978-88-95068-40-4
Per contattare la casa editrice I sognatori,
consultare il sito internet:
www.casadeisognatori.com
Copertina di Francesca Santamaria
(per gentile concessione dell'autrice)
finito di stampare
nel mese di giugno 2014
presso Digital Print srl
Segrate (MI)
13, 90 euro
Claudio Selva è nato a Pisa nel 1983.
Laureato in filosofia, abita tra Firenze e Venezia e lavora
come editor per Studio Nuit. Y è il suo romanzo d’esordio.
Se gli scrivete all'indirizzo claudiovictorselva@gmail. com,
può darsi che vi risponda.
Ad Angela
“Ogni mio sogno, appena lo comincio a sognare,
è incarnato in un’altra persona che
inizia a sognarlo, e non sono io […]
Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori
che recitano svariati drammi.”
Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine
Naturalmente, un manoscritto
18/2/21
Durante il colloquio mensile nell’ufficio del Direttore,
mentre lui e il Dottore erano distratti a farfugliare di tazzine
da caffè – o di non so cosa, ho adocchiato la mia preda abbandonata su un taccuino, quasi al centro del campo di battaglia. Con la scusa d’uno sbadiglio ho fatto cadere l’avambraccio in posizione favorevole, le ultime due falangi dell’indice sinistro hanno ballato un can-can diagonale verso la
penna; quindi, fingendo di lisciarmi i capelli e aggiustarmi il
polsino, l’ho fatta scivolare nella manica. Tanto poco è bastato
per avere la meglio sui miei nemici, strateghi da Risiko.
La carta non mi preoccupa, ne ho sempre avuta in abbondanza e continuerò ad averne, almeno di quella che si trova
accanto al water. Avvilente certo, ma la qualità è molto bassa
per l’utilizzo cui sarebbe destinata, il che la rende adatta ai
miei scopi: se la arrotolo in papiri dentro al materasso e
scrivo solo quando sono in bagno, nessuno dovrebbe sospettare nulla; al massimo, se ci passo troppo tempo o se
qualcuno dell’economato si accorge che consumo più carta
del solito, mi cambieranno dieta...
Non ho un orologio, ma posso arrangiarmi numerando i
fogli. Il problema è l’inchiostro: quanto più scrivo, tanto
prima dovrò smettere di farlo. Sembra quasi una metafora.
Al diavolo… troverò una soluzione, organizzerò una linea di
rifornimento.
Fra poco il Dottore verrà a prendermi con due infermieri.
Mi faranno il Trattamento. Forse stanotte verrò rapito, portato
nei sotterranei. Mentirei se dicessi che non m’importa ma
ora, qui sulla carta, nel mio mondo, con la penna in mano,
tutto questo non esiste.
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1. Y
Proprio sotto l’orecchio, accanto all’osso della mandibola
ma già sul collo, l’onorevole Paravano ha un grosso neo
marrone di forma incerta, il quale allungandosi e contraendosi rispecchia goffamente quanto accade sulla faccia. Cavallo di Troia capace di moltiplicarsi per milioni, folata di
onde sonore che diligenti quanto ottusi martelletti battono
sui rispettivi timpani, la voce dell’onorevole Paravano è rotonda e virile:
«In Italia abbiamo una fiorente industria del vetro, con una
produzione annua molto più alta della media europea. C’è
tutto un artigianato, pensiamo per esempio a Murano, che ha
eletto il vetro a...»
«Venga al sodo, Onorevole Paravano.»
«Certamente dottor Zunti: quello che mi preme sottolineare
è che il vetro è un materiale nobile, con una lunga e gloriosa
storia alle spalle. Piacevole alla vista in tutte le gradazioni di
colore, gradevole al tatto ma soprattutto, e qui non credo che
il dottor Camilli mi vorrà contraddire, è un materiale che rivela immediatamente la più minuscola macchia di sporcizia.
Cosa che la tazzina di porcellana, caro Camilli, la tazzina di
porcellana non può fare; ed è inutile prendere in giro gli
elettori insistendo con la storiella che “anche il bianco della
tazzina svela le macchie”, perché qui casca l’asino: nel caso
circoscritto delle macchie scure può anche essere vero, ma
una qualsiasi macchia bianca, per esempio di detersivo, passerà inosservata al consumatore, e questo è un fatto incontestabile. Oltretutto, la scienza ci dice che il vetro è un miglior
conduttore di calore rispetto alla porcellana. Che cosa significa concretamente? Significa che il caffè servito nel bicchierino di vetro, a dispetto della propaganda di questo Governo, rimane caldo più a lungo!»
La pausa conclusiva viene attaccata dall’onorevole Camilli, che incalza:
«Intanto, Onorevole Paravano, lei ha chiamato “asini” la
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maggioranza degli italiani e questo senz’altro non…»
«Non ho mai detto...»
«Onorevole Paravano, la prego di non interrompere.»
«Grazie dottor Zunti, sarò breve. Il fatto, caro Paravano, è
che lei non vuole accettare la realtà, e cioè che la maggioranza degli elettori preferisce, come me, bere il caffè in una
normale tazzina di porcellana, e che questo le fa invidia, perché i sondaggi dimostrano chiaramente che il suo bicchierino di vetro non va oltre il 23% delle preferenze. Quanto al
resto, è del tutto falso che il caffè al vetro si mantiene più
caldo di quello in tazzina, perché lo spessore della porcellana è studiato appositamente per garantire il massimo rendimento sotto questo profilo; per cui, prima di dire cose che
non corrispondono alla realtà dei fatti...»
«Vede, Onorevole Camilli, noi non siamo, come dire… noi
vogliamo occuparci dei problemi veri della gente vera; noi
crediamo che oggi, in Italia, si debba guardare avanti, e crediamo che alla fine gli elettori ci daranno ragione. Se vinceremo queste elezioni, e certamente le vinceremo, ci impegneremo ad approvare nei primi cento giorni di Governo un
decreto legge che incentivi nei bar l’uso di bicchierini di vetro. E non solo. Abbiamo già pronto un disegno di legge che
rivoluzionerà l’intero settore dei pantaloni da uomo. È ora di
finirla, cari signori, con questo strapotere dei jeans! Ma è
possibile, dico io, nel duemilaventuno...»
«Onorevole Paravano non tiriamo fuori i jeans, le ricordo
che io nella scorsa legislatura ho presentato alla Camera un
disegno di legge che prevedeva l’obbligo per i negozi di
abbigliamento di esporre in vetrina almeno il 30% di pantaloni prodotti con tessuti alternativi, e che pertanto se c’è qualcuno che può dire di essersi battuto...»
«Eh no, adesso non mi venga a dire che lei non indossa i
jeans perché...»
«Non ho mai detto questo. Però mi risponda, lo sa lei che
cos’è la pastiera napoletana? Lo sa? Si è mai mangiato un’ottima cassata con i canditi? E poi se vogliamo parlare di can11
diti allora perché non parliamo anche di automobili?»
«Mi lasci parlare! Io non l’ho interrotta!»
«È vero o non è vero che lei ha dichiarato...»
«Onorevole Camilli non m’interrompa, Onorevole Camilli...»
«... in una recente intervista di preferire...»
«... Onorevole, la prego di non interrompermi…»
«... di preferire la automobili tedesche a quelle italiane, che
peraltro...»
«Onorevoli, ONOREVOLI! Scusate. Non vorrei che questo dibattito confondesse le idee all’elettorato. Abbiamo iniziato parlando delle tazzine da caffè perché nelle ultime
settimane è stato uno dei punti di maggiore attrito fra le due
forze politiche del Paese. Se ne sono occupati tutti i principali quotidiani, a volte anche scrivendo cose contraddittorie,
e quindi era opportuno fare chiarezza, ma prima che la discussione ci porti oltre direi di mandare in onda le vostre
schede di presentazione. Prego la regia di mandare in onda il
servizio.»
Onorevole Avvocato Andrea Camilli, candidato Premier
per il Partito del Popolo (PP).
Nato a Milano il 17 Ottobre del 1955 da padre imprenditore e madre casalinga, riceve un’educazione tradizionale
cattolica. Nel 1983 si laurea in giurisprudenza e comincia a
lavorare per uno studio legale. Fin da allora si segnala per
le sue principali passioni: la politica, il campionato di calcio, la bistecca di vitello (preferita ben cotta), i jeans firmati, le automobili italiane e l’arredamento in stile liberty.
Un anno più tardi diventa Assessore alla Cultura nel Comune di Rocca Pavese e sposa l’avvenente Annamaria Goldi
Paoli, figlia del Conte Ammiraglio Antonino Goldi Paoli,
dalla quale avrà un figlio: Sergio Camilli, oggi sottosegretario allo Spettacolo.
Dopo una breve esperienza come Sindaco, viene eletto per
la prima volta alla Camera dei Deputati: è il 1992. Nel ‘95
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partecipa come relatore esterno al congresso di Fiuggi e
pochi mesi dopo si iscrive ad Alleanza Nazionale, nel quale
militerà fino allo scioglimento definitivo del partito. Con la
nascita della “terza Repubblica” è tra i fondatori del Partito del Popolo, che nell’aprile del 2014 vince a sorpresa le
elezioni. Durante la prima legislatura ricopre la carica di
Ministro del Tesoro e successivamente è Ministro dello Spettacolo nel Governo tecnico guidato da Arturo Gori.
La sua popolarità subisce un duro colpo nel febbraio del
2018, in seguito a un’intervista nella quale dichiara di avere
tifato Milan prima di diventare interista, ma la notizia viene
subito smentita da fonti interne al partito. Sarà lo stesso
Andrea Camilli a portare in tribunale i vertici del settimanale sportivo che ha pubblicato lo scoop.
Nel corso di questa campagna elettorale l’onorevole Camilli si è battuto duramente per il reinserimento in commercio dello steroide AX31, per l’abbassamento delle tasse,
per la reintroduzione dei dazi doganali su tutti i prodotti
made in Taiwan, per la diffusione delle pettinature con extension tra le signore e contro la moda dei capelli lunghi
con rasatura ai lati della testa per gli uomini, trovando
sempre pieno appoggio all’interno del proprio partito e non
di rado tra le file dell’opposizione. Pur non sottraendosi al
dialogo con i sostenitori del bicchiere di vetro, si dichiara
decisamente a favore della tradizionale tazzina di porcellana.
Come tutti gli italiani ama la pasta ed è appassionato di
calcio. Cattolico, eterosessuale, possiede due levrieri e detesta i gatti. Fuma sigari toscani, non beve alcolici, adora
giocare al biliardo e sciare. Attualmente risiede a Roma, nel
quartiere Parioli. La sua meta prediletta per le vacanze
estive è la Sardegna mentre d’inverno preferisce le Dolomiti
del Brenta. Ha più volte ribadito che finché rimarrà in politica non parteciperà ad alcun reality show.
Se questo fosse un film, il punto da cui osserviamo la scena
arretrerebbe allargando il campo visivo dal presentatore e
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dagli ospiti fino ai contorni della scenografia; poi, lentamente, i fili elettrici farebbero la loro comparsa raggruppati
sul pavimento come ciocche di capelli. L’occhio della telecamera si allargherebbe fino a mostrare le pareti dello studio
e infine i contorni dagli angoli smussati che separano la superficie di uno schermo televisivo ultrapiatto dalla plastica
che gli sta intorno. A questo punto, col solo artificio di una
brusca e orribile rotazione, verremmo catapultati tra gli avventori del pub in cui si trova la suddetta televisione.
«Per chi voterai?»
«Eh?»
«Per chi voti alle prossime elezioni? Paravano o Camilli? A
me la faccia del Camilli non convince...»
«Bah, penso che starò a casa.»
«E perché? È un tuo diritto votare!»
«È per quello che sto a casa.»
Sonia afferra il manico del boccale di birra e beve una
lunga sorsata, poi replica storcendo la bocca:
«Ma non puoi, è un tuo diritto!»
«Sonia, un diritto è quando ti viene garantita la possibilità
di fare qualcosa, non... va beh, senti, vado a pisciare.»
La ragazza guarda dentro al bicchiere la birra che ingiallisce il bancone. Ha un ciuffo di capelli che deve continuamente spostare dagli occhi, mani affusolate, unghie corte laccate di nero, sopracciglia sottili e due piercing, un Monroe e
un Labret laterale. Quando parla strascica un po’ le parole, e
mentre gli occhi scattano da quelli dell’interlocutore lungo
traiettorie orizzontali la testa rimane immobile.
«A pisciare? Un’altra volta?»
Alzo il culo dallo sgabello e seguo la luce spezzata azzurra
che indica la porta del cesso. Non l’ho neanche salutata, povera Sonia. Beh, con quelle tette non farà fatica a trovare
compagnia.
Cazzo, questo bagno è pieno di piscio, sono in punta di
piedi e fra un po’ sentirò i calzini bagnati... che schifo! Va
beh, c’è di peggio, in fondo era birra prima di diventare pi14
scio. Non ho niente contro i reni di sconosciuti. La puzza
però resta.
Fasci al rogo. Marco tvtb. Punk is quasi dead. Trentenne
passivo cerca militare cell. . .
Dovrei lasciare anch’io una traccia di me su questo muro,
che non sia solo schizzi d’urina? E che potrei scrivere? Ma
ho davvero qualcosa d’importante da dire al mondo? E soprattutto, ma che domande del cazzo mi faccio invece di pisciare?
Apro la porta con la scarpa per non toccare la maniglia.
Però, che bella questa palla riflettente accanto all’asciugatore automatico guasto. Di cosa sarà fatta? Mi viene in mente
la parola “tungsteno”, per qualche motivo. Riesco a vederci
dentro tutta la stanza, quasi la contenesse davvero, o come
se fosse – la stanza – riflesso dell’immagine di questa palla.
Esco dal bagno, di nuovo fumo e luci corrono sul corpo,
spezzettano, squartano e ricompongono, cammino fra i tavoli con la grazia di un tacchino, mi accorgo di stare tornando verso Sonia e prima che sia troppo tardi svolto a sinistra, in una saletta appartata con un tavolo lunghissimo. Uno
dei tizi seduti fa cenno di sedermi, la maggior parte degli
altri neanche si è accorta che esisto.
«Ciao, tutto bene?»
«Io tutto bene, voi?»
«Ti serve coca?»
«Coca? No, grazie, non tiro mai da fuori area.»
Che battuta scadente, penso un attimo dopo averla detta.
Fortuna che lui non sembra averla capita.
«Area? Che area?»
«Areazione, l’impianto.»
Non tutti gli scocciatori possono essere dissuasi, ma quasi
tutti possono essere disorientati. Penso a quando accompagnavo un gruppo di ritardati mentali a un centro diurno di
accoglienza, anni fa. Ce n’era uno che mi parlava continuamente di quello che faceva, ma quello che faceva, purtroppo
per tutti e due, non cambiava mai di una virgola da un giorno
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all’altro; così un giorno mi ripete per l’ennesima volta che
ha dovuto mangiare tutta la colazione perché buttarla via sarebbe stato peccato, avrebbe fatto arrabbiare il Signore, e io
gli dico: quale signore? Lui rimane in silenzio per una buona
mezz’ora, finché, ormai alla fine del viaggio, si volta e dice:
«Quello alto, coi baffi.»
Pochi sani di mente avrebbero dato una risposta così intelligente.
«Di dove sei?» mi chiede il tipo.
«Di Prosecco.»
Mento sempre per evitare l’ allora conosci. . .
«Prosecco? Mai sentito.»
«Che bevete?»
Non che io voglia offrire da bere a tutta la comitiva, i più
sembrano distratti o impegnati in altre conversazioni. L’importante è che risponda la mora che sta seduta dall’altra parte del tavolo, di fronte a me. A occhio e croce sedici, diciassette anni. Non che sia particolarmente bella, non ancora,
però da come tiene la bocca si vede benissimo che lo diventerà, e poi che occhioni languidi, che modo passionale di
non guardarsi intorno, che espressione superficiale delle sopracciglia arcuate...
È senz’altro più cacciatrice che preda: sta seduta come fosse da sola in camera sua, le gambe e le ginocchia completamente raccolte sulla poltrona, i piedi e le caviglie che penzolano giù, una mano fra i capelli, neri, lisci, con la frangetta
folta, posati su due seni lasciati così poco intravedere che
non fosse altro ci proverei per la curiosità.
«Per me un mojito, grazie.»
Ah. Dunque mi ascolti mentre ti guardi intorno con quell’aria annoiata da gatta snob! Ti conosco da tredici secondi
ma venderei l’anima al diavolo, a Dio o a Kenshiro per poterti guardare mentre inizi a leccarti come una gatta vera…
«Cameriere, un mojito per lei e per me un lattepiù» urlo in
direzione di un tipo tatuato col vassoio in mano.
«Che?»
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«Un mojito e un orgasmo alla menta, grazie.»
«E una birra chiara per me» fa il tipo che m’ha offerto la
coca. Gli sorrido senza sforzarmi troppo, in fondo poteva
andare peggio, a questo tavolo ci saranno dieci persone oltre
alla katije, che ha ripreso a guardarsi intorno annoiata,
snobbando anche le pareti. Se non avessi già venduto l’anima, lo farei ora per vederla mangiare delle fragole. Non dico
una volgare banana, mi accontento delle fragole. Ma niente
fragole. Sta per accendersi una sigaretta. Il tipo della coca
mi tocca la spalla:
«Di dove hai detto che sei?»
«Di Prosecco.»
«Mai sentito.»
«È quasi al confine col Piemonte, dopo Carrara.»
«Ah... e come mai da queste parti?»
«Lavoro. Faccio il giardiniere.»
«Io sono assicuratore.»
«Bene.»
«Sì, mi piace. Si guadagna bene.»
«Beh, si lavora per quello no?»
«Sì.»
Tiro i lacci della mia trappola puerile:
«E si guadagna per...?»
«Per campare» risponde lui perplesso.
«E si vive per...?»
L’Assicuratore mi guarda ancora più perplesso e alza le
spalle.
«Si vive per morire» interviene la moretta con un sorriso
accennato.
Pretese poetiche? Mah, non credo; forse stamattina aveva
compito su Leopardi.
«Ezra, vieni un attimo fuori. Ti devo parlare.»
Ehi un momento, cos’è questa storia, da dove sbuca ‘sto
tazzorro maledetto? E l’ha chiamata Ezra oppure ho capito
male? Lei si alza senza regalarmi neanche uno sguardo e se
ne va col tamarro. Che idiota, dovevo attaccare subito! I pub
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sono territori da blitzkrieg, non ci si può impantanare nella
guerra di trincea. Beh, comunque ha ordinato. Probabile che
torni.
«Ehi scusa, come si chiama la tua amica?»
«Chi?»
«Quella che stava seduta lì.»
«Ezra.»
«Ezra?»
«Sì, come quella poetessa, quella del centro sociale fascista…»
«Ezra Pound?»
«Sì, lei.»
Lo sapevo che prima o poi mi doveva capitare anche dal
vivo, l’idiota che in chat ci prova perché hai per nick Aletheia, Sciascia o qualsiasi altra parola finisca per “a”.
«Bella fica eh?»
«Chi, la tua amica?» faccio io con indifferenza da fiction.
«Peccato che sta con lo zanniero. Quello se vede che ci
provi tira fuori il coltello e ti taglia le palle.»
«Senza anestesia?»
L’Assicuratore scuote la testa, serio:
«Dico davvero, se ci stavi facendo un pensiero è meglio
che te ne vai prima che tornino, perché se lei gli dice una
mezza parola, tipo che la guardavi o cose del genere, quello
è capace di tutto. È strafatto di coca, non ci sta con la testa.»
«Che due palle… ma tutti di coca vi dovete fare? Coca per
uscire la sera, coca al lavoro, coca con l’aperitivo... ma dico
io, dove siamo arrivati? Erba ormai non se ne trova quasi
più, funghi e acido nemmeno... tutte paste del cazzo e bamba, bamba.... che poi secondo me tirate tanta di quella farina
e borotalco...»
Arrivano le Code-di-gallo, su un vassoio d’acciaio, collegate per mezzo di una mano e di un polso a un cameriere
tarchiato e muscoloso con i capelli rossi molto folti. Ricorda
un po’ Blanka, ma meno verde. Pago e valuto se allontanarmi da qui o rimanere a mio rischio e pericolo.
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«Grazie della bevuta» dice l’Assicuratore.
Alzo le spalle e il bicchiere verso di lui, prima di sorseggiare. Dall’angolo sbuca all’improvviso lei, in controluce,
seguita a breve distanza dallo zaccaro, che non mi guarda
nemmeno e torna in fondo al tavolo. Mentre lui si siede, per
la prima volta incrocio lo sguardo di Ezra. La luce è poca,
ma credo che i suoi occhi siano grigio chiaro. Sposto verso
di lei il mojito che il cameriere ha lasciato sul tavolo; il nagana sembra già impegnato a discutere con qualcuno, là in
fondo.
«Ti chiami Ezra?»
Annuisce in maniera appena percettibile. Forse sono usciti
a discutere poco fa, magari hanno litigato. O magari sono
andati a strusciarsi un po’ e baciandola mi troverei a contatto
con la bava dello sgazzurro. Chissà con che poesia le mette
le mani sul culo. Mi rattrista talmente immaginarla tra le sue
braccia che il mio lato kamikaze prende il sopravvento e
gioco il tutto per tutto, così, o la va o la spacca, sfidando la figura di merda che mi saluta dal futuro.
«Di’ a colei che cammina col canto sulle labbra, senza cantare e senza sapere chi lo scrisse, che un’altra bocca, forse
bella come la sua, potrebbe in epoche nuove trovarle adoratori. »
Sorride. Mi trova patetico oppure... ?
Disserra le labbra, comincia a parlare, e mentre pronuncia
ogni parola i muscoli del collo e delle spalle si rilassano,
sento quasi una specie di torpore oppiaceo post-orgasmico.
«. . . quando le nostre due ceneri saranno deposte con quelle
di. . . di?»
«… di Waller» le suggerisco incredulo.
«. . . strato su strato nell’oblio, finché il mutamento avrà distrutto tutto, eccetto la Bellezza. »
Lode all’altissimo (quello coi baffi), Ezra conosce Pound!
È assolutamente incredibile, inverosimile che conosca quella
poesia, sembra una di quelle situazioni in cui guardi il tramonto e pensi ehi Dio, quelle nuvole non sono per nulla
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credibili, il rosso va sfumato meglio sennò si vede che è
acrilico…
Sarà la sorpresa per una stoccata così elegante e rapida, sarà perché il successo sembra avermi spalancato del tutto la
strada, sarà che il suo sguardo, reso vacuo dall’alcool che ho
in corpo, già sembra felice di fermarsi nel mio: sta di fatto
che non riesco a fare altro se non insistere nella mia espressione estasiata, fino a quando non comincia a deperire in
ebete, e allora non trovo di meglio che difendermi con un
sorso di birra.
«Ehi, era mia la birra!» fa l’Assicuratore.
Mi scuso con un sorriso imbarazzato, cala il silenzio sulla
nostra sezione di tavolo. Merda. Conto fino a dieci: se nessuno dice niente sono praticamente out, e a quel punto tanto
varrebbe buttarla su Wittgenstein o sulle barzellette spinte.
La ciambella di salvataggio arriva da quello seduto alla
mia destra, che fino a ora mi dava le spalle e che domanda
biascicando:
«Come si cura la calvizie?»
«Prova la cura degli antichi romani.»
«Sarebbe?»
«Prendi una ciotola di legno, fai un impasto di laserpizio,
pepe, aceto, vino, zafferano e sterco di ratto, lo mescoli bene
e poi ci massaggi la cute.»
Sulle loro facce schifate c’è anche un mezzo sorriso.
«Un trapianto ti ci vorrebbe, Coledda» dice Ezra, e quello
ruota gli occhi e torna a voltarmi le spalle.
«L’avete visto alla televisione il Guinness dei primati?» fa
l’Assicuratore.
Siamo gli unici primati ad avere un Guinness, penso io, per
fortuna senza dire niente. Ezra muove appena la testa per
dire di no.
«È una figata. Lo sapete quanto pesa l’uomo più grasso del
mondo? Seicentotrentacinque chili!»
A questo punto tiro fuori il mio pezzo forte in materia:
«Sapete qual è la parola più lunga del vocabolario italiano?»
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«No.»
Prendo fiato:
«Hippopotomonstrosesquippedaliofobia, con trentacinque
lettere.»
«E che vuol dire?»
«Vuol dire paura delle parole lunghe. Non ci credete? Cercatelo su Wikipedia…»
Ezra beve l’ultimo terzo di mojito, guarda verso il maraglio che là in fondo mulina le braccia raccontando qualcosa
alla comitiva. L’Assicuratore s’è messo a discutere con quel
tale della calvizie. Ora o mai più.
«Ezra… quanti anni hai?»
Ci pensa un secondo:
«Diciassette, tu?»
«Ventidue.»
«Sembri più vecchio» dice lei alzando un sopracciglio.
«Grazie.»
«Come mai ti sei seduto qui?»
«Destino.»
«Non ci credo al destino.»
«Neanch’io. Che bevi? Un altro mojito?»
Sorride, ma le labbra s’increspano quasi subito in un
broncio infantile.
«Senti... come mai conosci quella poesia di Pound?» chiede.
«Beh, è una storia lunga.»
Mi guarda e aspetta, un sopracciglio alzato.
«Allora, so che può sembrarti assurdo ma... mi sono fatto
un’operazione qualche mese fa, ora ho una porta USB dietro
l’orecchio sinistro, collegata a un chip intracranico. Quando
mi va d’imparare qualcosa scarico il file, lo passo in una
chiavetta e poi direttamente all’area cerebrale della memoria. Non guardarmi così, non è una cazzata. Non hai mai
sentito parlare di questa tecnologia? Solo da qualche mese la
sperimentano sull’uomo. È una bella cosa, puoi essere l’ultimo deficiente di questo mondo e citare a memoria l’opera
omnia di Kant. Magari in tedesco, che fa più figo.»
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«Ma falla finita, non ci credo.»
«Se vuoi ti do una dimostrazione. Cosa vuoi che citi a memoria?»
Mano sul mento e sguardo annoiato, rotea gli occhi al
soffitto.
«Vuoi che ti faccia vedere i file sulla chiavetta? Ne ho già
scaricati una decina.»
«E che ci capisco se vedo i file? Mica prova che hai una
porta USB nel cervello!»
«Se non ci credi avvicinati un secondo che te la faccio vedere...»
«Ehm, lo vedi quello là? È il mio ragazzo.»
Lo dice come se fosse un rimprovero, ma senza irrigidirsi.
«Ottimo.»
«Senti, a parte la storia della memoria virtuale, che non mi
convince proprio per niente… lo sai che se si accorge che
stiamo parlando ti spacca la faccia?»
«Cazzo, un genio...»
«Ha moltissimi altri pregi.»
«Tipo?»
«Non sono affari tuoi. Semmai devi essere un po’ ritardato,
se non ti rendi conto che rischi per nulla.»
«Che ne diresti di finire la serata a casa mia? Potremmo
guardare un film.»
Scuote la testa.
«Manhattan?»
«Non mi interessi, e se anche m’interessassi un pochino cosa
credi… cioè, guardati un po’ intorno…»
«Vuoi che ci facciamo una nottata non-stop di Straub?»
«E tu vuoi che ti mandi affanculo?»
«Era un modo per dire che farei qualsiasi cosa per te...»
«Allora intanto fanne un paio: non rompere i coglioni e
non citare gente a casaccio. Non m’interessa quanti libri hai
letto.»
«Non li ho letti, li ho scaricati con la chiavetta, e non ti stavo
prendendo per il culo, è solo che avrei voglia di fare qualco22
sa di assurdo stasera.»
Scuote di nuovo la testa:
«E ti sembra assurdo guardare un film?»
«Dipende.»
«Dai, vediamo, fammi una proposta assurda.»
«E perché? Tanto mi diresti di no...»
Lei abbassa gli occhi e poi guarda verso il tasciozzo.
«C’è una gru qua fuori, nel cantiere, alta una trentina di
metri. In cima c’è un pianerottolo. Potremmo salirci su e lì,
magari...»
Le lancio uno sguardo d’intesa, lei sorride divertita, forse
senza malizia.
«Che idee ti vengono?»
«Mi pareva che qualcuno avesse chiesto una proposta assurda.»
«Stai rischiando di prendere un sacco di botte. Per niente.»
Alzo le spalle.
«Ne vale la pena.»
Sbuffa, si guarda intorno per capire se qualcuno ci sta ascoltando:
«Non so neanche come ti chiami.»
«Raffaele.»
«Raffaele, non voglio dire che tu sia brutto, e non sei neanche antipatico, anzi...»
«Ezra, io fra due ore parto, vado a Venezia, e poi non lo so,
fra qualche giorno penso di prendere un treno per l’Olanda.»
Sta aspettando che io prosegua. Misuro bene il tempo. Afferro il bicchiere, bevo con calma, fingo di pensarci su:
«Vuoi… vuoi venire con me?»
Altre voci di sottofondo. Rumore di bicchieri. Improvvisamente lei è molto seria.
«Ti piaccio così tanto?»
«Forse.»
«Forse?»
Alzo ancora le spalle.
«Forse.»
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«Tu a me no. E comunque non ti conosco.»
I nostri sguardi vagano sulla superficie del tavolo, vorrei
alzarmi e andarmene. Non le avrei chiesto di venire con me
se non avessi saputo fin da subito che avrebbe rifiutato… e
allora perché… perché è cambiato tutto in un attimo? Quand’è che ha smesso di essere un gioco?
Qualcuno mi tocca la spalla. È di nuovo l’Assicuratore:
«Hai una cartina?»
Gliene metto in mano tre, finisco il bicchiere. So bene che
non la rivedrò. Posso fare il coglione finché voglio ma resta
il fatto che mi dispiace, e non poco. Per un attimo cerco
d’immaginare la mia vita futura in lei: fino a quando si ricorderà di me? Una settimana, due mesi, forse di più? E io,
per quanto me la ricorderò? La guardo ancora, mentre sistemo la sedia. Non è che finga di non accorgersi che me ne sto
andando, è solo che si rifiuta di prenderlo in considerazione.
Non la biasimo. Il mio saluto è atono, ha l’unico scopo di far
capire che non porto nessun rancore; la sua risposta, normalissima, si confonde con quella dell’Assicuratore. Ormai non
posso aspettare, la guardo per l’ultima volta prima di
scomparire tra i corpi in fila per bere e per pisciare. Ha la
pelle da bambina e un bellissimo neo, sul collo.
2. Questo non è un aneddoto
Diversamente da quel che potrebbe sembrare a causa delle
scarse doti narrative del qui scrivente, quello che segue non
è un aneddoto isolato ma un estratto significativo della vera
storia di Guglielmo Ferrucci, già inquieto spermatozoo nel
testicolo sinistro del padre Fabrizio e poi alunno esemplare,
scaltro amante, laureato in Legge, Sindaco di un Comune
dell’Appennino tosco-emiliano, nonché parte del bulbo d’un
fiore, pezzo di merda, acqua…
Da piccolo Guglielmo Ferrucci abitava con la famiglia a
Fabbrica, un paesino dell’entroterra pisano, nel Comune di
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Peccioli, una manciata di case alla deriva come bolle di
schiuma fra le onde delle colline toscane.
Dietro casa di Guglielmo (un nome pesante, polveroso,
ottuso, che lui stesso giudicava eccessivamente pomposo e
che gli faceva venire in mente la parola “alabarda”) c’era un
orto minuscolo, e di là dall’orto un garage col tetto d’eternit.
Da qui partiva una lunga fila di cipressi, guardiani di un
viottolo sterrato che conduceva alle rive di un piccolo lago
artificiale, a forma di rettangolo, scavato quasi mezzo secolo
prima per l’irrigazione dei campi.
Era il 1988, Guglielmo aveva undici anni e già da qualche
mese lui e i suoi amici usavano scendere in bicicletta fino al
lago, per gareggiare nel lancio di quei piccoli frutti, inutili
come tutte le cose che la nostra specie non usa e non vende
ma duri e profumati di resina finché sono verdi, che in toscana chiamano noccole. Come penitenza, l’ultimo doveva
tuffarsi in acqua senza togliersi i vestiti.
Guglielmo era il campione indiscusso di questa specialità.
Ne andava fiero, e la cosa gli valeva un certo rispetto. Quel
giorno però, per via di un inciampo, la sua noccola bucò
l’acqua a neppure due metri dalla riva. L’idea di tuffarsi Guglielmo non la prese neanche in considerazione: preferì
confessare quello che fino ad allora aveva potuto nascondere
dietro il talento di lanciatore, e cioè di non saper nuotare.
«Deh» gli disse uno dei ragazzetti, figlio di un ex panchinaro del Livorno, «proprio te che c’hai un lago dietro ‘asa
ci vieni a di’ che ‘un sai notà? Ma ti levi di ‘ulo!»
Credettero si trattasse di una scusa per non tuffarsi, e siccome volevano vendicare le numerose sconfitte subite fino a
quel giorno lo spinsero in cinque verso la riva, sollevandolo
praticamente da terra. Guglielmo scalciava, urlava (sberciava, secondo il vocabolario locale) ma dopotutto non era una
performance inattesa, faceva per così dire parte del giocoso
copione. Sennonché, quando si accorse che la resistenza era
vana, fu preso da una tale paura che scoppiò a piangere e a
strillare con tutto il fiato che aveva in corpo. Lo lasciarono
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all’istante, ma con quella penosa scenata aveva perso qualsiasi rispetto da parte del gruppo; e se ne rese conto cadendo, prima ancora di rotolare nella polvere. Il giorno dopo gli
fecero capire che un gruppetto di ganzi come loro non poteva accettare tra le proprie fila una fichetta come lui. Meno di
una settimana e sul pulmino della scuola, sia all’andata che
al ritorno, iniziarono a chiamarlo “gattina”.
Si sa che l’accanimento giocoso dei ragazzini si autoalimenta, e quanto a scrupoli morali un branco di undicenni
equivale a un branco di avvoltoi: più è facile il bersaglio più
crudeli si fanno i colpi, più il poveraccio o la poveraccia si
mostrano esasperati, più gli attacchi s’infittiscono. Gattina!
Gattinaaa! Cori di voci stridule e contraffatte partivano
sempre più spesso dalle poltrone in fondo allo scuolabus, da
sempre covo benthamiano dei grandi e di quelli che contano.
Per quanto strano possa sembrare a un adulto, a poco sarebbe servito lamentarsi con gli insegnanti o chiedere aiuto
ai genitori. Qualunque ragazzino sa benissimo che queste
soluzioni servono soltanto a rendere più striscianti le prese
in giro, e che andando a violare quella sorta di tacito patto
d’onore che vieta qualsiasi ricorso alle intromissioni di
adulti, si finisce col venire ulteriormente disprezzati e isolati
dal gruppo.
Così, con la goffa risolutezza tipica di quell’età, pensando
che non ci fosse altro da fare per riscattarsi, il futuro Sindaco Guglielmo Ferrucci decise d’imparare a nuotare. Si tolse
la maglia e i pantaloncini e corse, in costume e ciabatte di
plastica, fino al lago, ma fece marcia indietro appena l’acqua
gli lambì le ginocchia.
Il giorno dopo percorse ancora la strada dei cipressi, ma si
bagnò soltanto la punta dei piedi.
Il giorno dopo ancora, appena sceso dallo scuolabus, si
chiuse in camera a pensare. Dopo un’ora e mezza di riflessioni arrivò a una soluzione assolutamente rivoluzionaria rispetto ai suoi approcci precedenti: uscì di nascosto, corse fino all’edicola, comprò per cinque euro un libro e tornò in
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camera a leggere. Il libro s’intitolava Imparare a nuotare:
guida per principianti.
La settimana successiva Guglielmo comprò altri due manuali sul nuoto. Imparò a memoria le istruzioni circa i movimenti esatti delle braccia e delle gambe, l’importanza della
sincronia tra movimento e respirazione, i trucchi per stare a
galla, quelli per faticare di meno, gli esercizi di stretching da
completare prima di entrare in acqua…
Così, quando un giorno sentì d’avere imparato a nuotare,
scese al lago, si tolse le scarpe e prese a camminare lungo il
perimetro della riva. Fece un giro completo, per trovare il
punto esatto da dove tuffarsi. Siccome non era convinto, fece altri due giri. Poi un altro. Poi altri quattro. E quando alla
fine si stancò di girare, decise che in vita sua non avrebbe
mai più letto un libro.
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Un rapimento triste per un coito modesto
19/2/21
Un rapimento triste mi ha stretto alla gola di notte: tra
lenzuola umide di sonno e macchiate di pensieri la quiete
accumulata si è suicidata tra le mie gambe. Un coito modesto, a essere sinceri, ma ineluttabile come gli infermieri che
m’invadono la stanza tre volte al giorno.
Sono ancora molto scosso, faccio fatica a scrivere. Nessuno sembra sospettare niente (confido nel fatto che l’assenza
della penna non sia stata notata), ma domattina verrà il
Dottore e getterà il dado nella propria scatola cranica. Testa
verrò pulito, croce verrò punito. Se solo riuscissero ad
aggiornarsi alla logica moderna potrei avere entrambe le cose, e condimento di sale e zucchero sulle patate.
20/2/21
Stavo riflettendo alla luce lunare, quando le mani di un
pazzo m’hanno trascinato nei sotterranei.
Mani-che-ti-strattonano-dal-buio. E più ti arrivano leggere
all’orecchio, più lo strattone è ineluttabile.
Di nuovo rapito ai miei esercizi. Io, io che ho due lauree e
non puzzo neanche d’agosto, io che se non fossi limitato –
come il generale greco Hajianestis – dalle gambe di vetro
prenderei a cannonate gli infermieri e ordinerei alla cavalleria di
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21/2/21
Un po’ di tempo fa Filippo VI di Francia riuscì a portare
sul campo 12.000 cavalieri contro l’esercito inglese. Fu di
sicuro il contingente di cavalleria più numeroso che abbia
mai preso parte a una battaglia medievale. Dodicimila uomini e dodicimila cavalli lanciati al galoppo, dotati di lance
e spade, coperti di armature e stemmi. Erano cavalieri francesi, spagnoli, tedeschi e boemi; tra le loro fila spiccavano
Carlo re dei Romani, Giacomo II di Maiorca e il re di Boemia. Il re di Boemia era cieco, ma pur di prendere parte alla
battaglia si era fatto legare in sella al proprio cavallo e
armato di una lunga lancia, al fianco di due nobili cavalieri,
uno per lato, che lo guidassero verso il nemico.
In testa all’esercito francese marciavano 5.000 balestrieri
genovesi, mercenari famosi in tutta Europa per la loro abilità
in battaglia; poco prima del tramonto, dopo diciotto ore di
marcia ininterrotta, si trovarono di fronte gli inglesi asserragliati lungo una dorsale. Solo 4.000 tra fanti e cavalieri,
supportati da 8.000 arcieri tra i migliori dell’epoca.
Per farla breve, dodicimila contro diciassettemila. Tenendo
conto della superiorità numerica e della forza d’urto della
cavalleria, soprattutto contro unità leggere come gli arcieri,
la vittoria di Filippo era quasi scontata.
Tutto si svolse molto rapidamente. Avanzarono per primi i
balestrieri, ma erano troppo affaticati per la marcia e prima
che riuscissero a portarsi a tiro furono massacrati da una
tempesta di frecce. Mentre battevano in ritirata, si scontrarono con la prima ondata di cavalleria, che perse d’impeto e
non fece in tempo ad attraversare il campo di battaglia prima
di essere anch’essa massacrata dagli arcieri britannici. Partì
a quel punto la seconda carica di cavalleria, la quale si
infranse contro i resti della prima che batteva in ritirata, e
così la terza, che puntualmente si scontrò con la seconda.
Poi la quarta con la terza e via di seguito, per quindici cariche consecutive, senza che nessuno riuscisse a imporre una
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versione meno tragicomica dell’assalto.
Se anche una sola carica fosse riuscita a raggiungerli, per
gli arcieri inglesi sarebbe stata la fine, ma nell’incredibile
caos dell’attacco nessuno riuscì a capire cosa stesse succedendo, o forse Filippo lo capì ma non riuscì a trattenere i
cavalieri, e così ogni carica si scontrò puntualmente coi superstiti di quella precedente, per finire massacrata sotto
l’incredibile mole di dardi dal cielo. Gli arcieri inglesi ricaricavano a turno e il loro fuoco era continuo: è stato stimato
che ogni minuto piovvero sui cavalieri francesi circa sessantamila frecce (ovvero mille al secondo).
Il Re di Boemia fu trafitto nella settima carica e, a differenza degli altri, ebbe la fortuna di non vedere mai in che
battaglia del cazzo gli toccò crepare.
22/2/21
Quando vengo rapito, nei sotterranei, quasi sempre vedo i
seni di mia Madre e li afferro tra le mani: un attimo dopo mi
ritrovo bagnato, disteso su un lettino di metallo con un bastone tra i denti e le ventose alle tempie. Ogni volta che la
mia Mamma con voce di mezzosoprano ordina al Dottore di
sottopormi al Trattamento, quest’uomo che parla di Jung
masticando chewing-gum mi lega a un lettino, e con una
parola mi dà le convulsioni. È il suo passatempo. Non sono
riuscito ad afferrarla, quella parola. A volte sembra Ficacalda, altre Aletheia o Muoribastardosottomillefreccealsecondo.
È un codardo d’uomo, questo Dottore: non fosse per le mie
gambe gli impiccherei la voce e le mani. E poi tutti abbiamo
un passatempo, in questi uffici scarni, altrimenti impazziremmo! Non credete anche voi? Certo che lo credete – e
credete anche che io sia pazzo! Pazzo! Ah! Dio sa tutto, di
quello che credete, di quello che dite e di quello che fate:
Dio è il server su cui gira il mondo!
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Quanto al passatempo del Dottore, una volta gli ho detto
che è qualcosa di inumano, di crudele, e lui girando e rigirando una penna tra le dita mi ha risposto che non è affatto
un passatempo, ma una cosa per la quale ha dovuto studiare
anni e anni all’università di Vienna, e che serve a curarmi, a
guarire la mia malattia. È sicuro che io sia malato, il Dottore: secondo lui i rapimenti sono “crisi”; secondo lui, “normale” è avere una sola personalità. Averne più di una, con
caratteri diversi e ricordi separati, è una malattia che si chiama schizofrenia e si cura con il Trattamento. Gliel’hanno
insegnato all’università.
«Dottore» gli ho detto una volta, «io non sono malato.
Quando uno è malato sta male, invece io stavo bene finché
non m’avete rinchiuso qui.»
Lui non rispose, non risponde mai. Forse aveva paura di
dire una banalità ancora più lampante.
Qualunque cosa gli dico non importa, conferma sempre le
sue idee.
«Dottore io voglio uscire, è meglio essere malati che vivere
qui dentro.»
Lui mi guarda e pensa: dice così perché è schizofrenico.
«Dottore, ieri sono stato rapito e ho visto mia Madre.»
Dice così perché è schizofrenico.
«Dottore, perché non muori?»
Dice così perché è schizofrenico .
A volte ho l’impressione che non risponda perché si sente
superiore, forse perché ha fatto l’università.
Anch’io ho fatto l’università, però non mi hanno mai insegnato la parola delle convulsioni; il mio passatempo è più
gentile, francese come la mia Mamma: racconto storie di
generali. Ora che ho carta e penna, posso anche scriverle.
La storia che racconto più spesso agli infermieri è quella di
Sir William Erskine, che alcuni consideravano pazzo, che ha
il mio stesso cognome e che nella battaglia di Sabugal lanciò
le truppe nella direzione sbagliata; e che morì, infine, chiedendo agli astanti:
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«E perché mai l’ho fatto?» dopo essersi lanciato dalla finestra di un albergo a Lisbona.
Purtroppo, tutti i grandi generali sono incompresi. Se anch’io
avessi avuto un padre, avrei voluto che fosse un generale.
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3. Via della solitudine
Venezia non è in Veneto. I treni si fermano alla stazione di
S. Lucia, i freni stridono come farebbero da qualsiasi altra
parte, scendi ed è ancora tutto tranquillo, cammini lungo la
banchina verso l’ingresso/uscita. A quel punto cominci a
sentire che qualcosa non va, o almeno a me è successo così;
ma è solo quando oltrepassi la porta e scendi il secondo scalino che iniziano davvero a pruderti i chakra. Probabilmente
i più non se ne accorgono perché l’architettura della stazione
dissimula un poco il passaggio, ma se osservi bene quello
che ti sta davanti, il canal Grande, la cupola verde di San
Simeon, il Ponte degli Scalzi, il profilo della chiesa di Santa
Maria di Nazareth, e poi magari ti volti indietro, verso l’atrio da dove sei arrivato, ti rendi conto che qualcosa proprio
non va, che non stai per addentrarti in una semplice città
della regione Veneto, Italia, pianeta Terra.
Sono le sette del mattino e sono accecato dal sonno. Ho
sognato Ezra. Devo ancora smaltire l’orgasmo alla menta di
ieri sera. In questo momento, l’unica cosa che desidero è
trovare un posto dove collassare in pace. Mi siedo su una
panchina, ma soffia un vento talmente gelido che è come se
Dio in persona mi stesse dicendo “levati di lì, coglione”.
Un posto più caldo ci dev’essere da qualche parte – forse
di là, oltre al ponte Dinonsoché.
Calli, archi, sotoporteghi, fatiscenti appartamenti di legno
marcio, palazzi splendenti di suggestioni orientali, lunghi e
tortuosi corridoi di pietra: dopo mezz’ora di Venezia il senso
del reale è talmente lontano che mi infilo addirittura in una
chiesa, quella dei Frari – così poderosa e romanica, e cerco
una panca di legno – che qui almeno non c’è vento.
Non si vede nessuno. Mi accoccolo in posizione fetale, le
mani come cuscino. La panca è stata riverniciata da poco, sa
di chimico. Chiudo gli occhi. Li riapro. Mi tolgo le scarpe,
mi volto a pancia in giù, distendo le gambe. Gratto un gomito, mi giro di nuovo…
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Niente, non ce la faccio a prender sonno. Però in queste
condizioni non posso neppure godermi Venezia. Devo svegliarmi per bene. Svègia bàuchi descànta macachi, dicono
da queste parti. Provo a darmi due schiaffetti. Non va. Ci
vorrebbe un intervento esterno, una bella botta d’adrenalina;
qualcosa di forte, tipo una muta di alani che sbuca da dietro
l’altare e mi corre incontro latrando, o un’apparizione divina. Magari entrambe le cose, la Santa Vergine che sguinzaglia un rottweiler.
Stendo le gambe sulla panca davanti, provo a recitare mentalmente una preghiera. Non si sa mai che funzioni. Signore,
se proprio sta scritto sul tuo Libro che non devo dormire, allora – te lo chiedo per favore – fammi avere una bella dose
di adrenalina.
«Mi scusi, cosa ci fa lei qui?»
Mi volto: un prete pallido dal ghedinesco profilo mi scruta
severo. Le panche sono tutte vuote, gli dico, mi faccia restare almeno finché non arriva gente. Non si può, ribatte, e non
si tengono i piedi sulle panche, invece di lamentarti impara
l’educazione, il rispetto, luogo Sacro, decoro, polizia, Padreterno, giovani d’oggi...
Punto i piedi davanti al monumento funebre a Canova,
opera di fronte alla quale vorrei perlomeno inchinarmi, ma il
prete la prende per una provocazione e mi spinge verso
l’uscita.
Obbedisco, Padre. Non voglio ingaggiare un corpo a corpo
con Don Intransigenza.
Sulla porta, un attimo prima di essere accecato dalla luce,
passo davanti a una signora dall’espressione folgorata (“gentile”, direbbero altri), custode di una cassetta in legno scuro
con la beffarda iscrizione Ingresso 3 euro esclusi orari delle
funzioni, dietro la quale si sta formando una lunga fila.
Alzo gli occhi facendo schermo con le mani: fuori dai Frari
c’è una folla incredibile che sciama in tutte le direzioni. I
veneziani si riconoscono perché procedono velocissimi come i loro cognomi, mentre i turisti avanzano a passo incerto,
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quasi reverenziale.
Due tipi in piedi sul ponticello, uno in giacca e cravatta e
l’altro vestito completamente di nero, con una felpa larga e
pantaloni di velluto a coste, stanno discutendo di un qualche
libro. Mi siedo sugli scalini fradici d’alghe, voltato dall’altra
parte. Le loro voci mi arrivano fuori campo.
«Mi piace come cambi continuamente registro, come giochi a nasconderti con il lettore, a inseguirlo e a farti inseguire. Funziona, ma il problema grave è che non si viene mai al
punto, capisci? Get the point, dicono gli inglesi. Così sembra tutto un girare a vuoto, fine a se stesso.»
«Macchè: nella seconda parte…»
Fischietto un motivetto a caso per non starli a sentire. La
fila di turisti davanti ai Frari è sempre più lunga: sono così
stereotipati nel loro abbigliamento da turisti che sembra una
divisa ufficiale, qualcosa che ti danno all’aeroporto o in
albergo. Tedesco? Si metta questi pantaloni kaki prima di
uscire, altrimenti non la riconosceranno. Lei è giapponese?
Ecco un cappello, occhiali e macchina fotografica.
Le onde del canale, che a guardarle sembrano minuscole e
innocue, a forza di dare colpetti sugli scalini mi schizzano
d’acqua putrida. Mi alzo. I due tizi sul ponticello stanno ancora discutendo, quello vestito di nero dice:
«… e poi se lo scopo è qualcos’altro, che cambia? Alla fine
anche il “qualcos’altro” è fine a se stesso, per cui non cambia nulla.»
Questo tizio è quasi più pedante di me, per non starlo ad
ascoltare guardo gli scalini di pietra che scendono nel canale
come se sotto ci fosse una cantina allagata. Ne conto sette,
ma potrebbero essere dieci, o quindici. O quindicimila. Gli
ultimi tre che riesco a vedere sono interamente coperti da
una mucillaggine verde.
Decisamente il senso d’irrealtà non svanisce, anzi: rilancia. E
allora ben venga, farò anch’io la mia stupida parte. Voglio vedere Campo San Giacomo, poi l’Accademia, poi non so. Ma
c’è tutto il tempo, l’Eurostar per l’Olanda parte domattina.
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4. La parabola di G. Ferrucci
Guglielmo Ferrucci cominciò a frequentare la sede del Partito del Popolo, anche se a quei tempi si chiamava in un altro
modo, appena quindicenne, quattro anni dopo l’episodio del
mancato tuffo in acqua. Dopo due lustri di militanza si risolse ad allevare un baffo moderato e a sostituire l’onda del
ciuffo con una più diplomatica riga nel bel mezzo della
chioma. Entusiasta, il partito lo inserì nella lista per le elezioni comunali.
Un paio di esperienze positive da consigliere, tra i venticinque e i trentuno anni, poi il grande salto: candidato a Sindaco. Dopo una campagna elettorale incentrata sullo slogan
“una politica coerente al servizio del cittadino”, da lui stesso
ideato, stravinse le elezioni.
Al di là della semplice propaganda, Guglielmo Ferrucci lo
era senz’altro, coerente, tant’è che si vantava di non avere
mai una volta cambiato idea dal compimento della maggiore
età.
«La coerenza è la prima virtù della politica» dichiarò all’ingresso del municipio appena rieletto Sindaco col settantuno
per cento dei voti.
«Chi cambia idea deve cambiare anche mestiere» ironizzò
sorridente due anni dopo, di fronte alle telecamere venute a
curiosare al suo matrimonio.
Com’era prevedibile, la stampa locale prese a coccolarlo e
qualche articolo lo accostò addirittura a segretari di partito,
ministri, personalità politiche di primissimo piano. Ormai
tutti erano convinti che il partito l’avrebbe candidato alla
Camera dei Deputati in una posizione “blindata” e, addirittura, qualche esponente locale dell’opposizione riconobbe
pubblicamente che era lecito aspettarsi per quell’illustre concittadino un futuro in Parlamento.
La doccia fredda arrivò alla presentazione delle liste elettorali: senza addurre alcuna motivazione, ma quasi certamente per la spontanea e feroce antipatia che aveva suscitato
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in Gardina, un sottosegretario del Governo uscente arrivato
alcuni mesi prima in visita al paese e la cui influenza era
stata sottovalutata dal Ferrucci stesso, il suo nome era il
terzultimo della lista. Tradotto: in un sistema elettorale che
non prevede il voto di preferenza, nessuna speranza di essere eletto.
Le reazioni immediate, in tutto il Comune, furono di vibrante sdegno. Alcuni dei suoi più fedeli collaboratori e
amici, indignati, pensarono addirittura di stracciare la tessera, una parte della stampa gridò allo scandalo e un’altra parte, minoritaria, espresse sorpresa mista a rammarico; ma col
passare dei giorni e delle settimane, inevitabilmente, il muro
di giudizi che aveva sostenuto il Ferrucci iniziò a mostrare
le prime crepe. Se l’hanno escluso, si diceva in giro, qualche
motivo ci sarà.
Per lui, per il Sindaco Guglielmo Ferrucci, quello che contava non erano tanto le ragioni dello sgambetto politico o la
reazione della gente, quanto la sensazione di ingiustizia e di
fallimento, di rassegnata impotenza. Non c’è più nulla da
fare, pensava amaramente.
Come dargli torto? Anche se lui non la vedeva in questi
termini, aveva ascoltato le insulse lagne dei suoi concittadini
per anni (signor Sindaco in quella strada c’è una buca, signor Sindaco tizio fa rumore dopo mezzanotte, signor Sindaco vorrei farle notare che nel nostro Comune non ci sono
spazi per i giovani, caro Sindaco è una cosa indecente di
notte nel parcheggio sotto casa mia c’è una prostituta. . . ),
aveva curato il baffetto e la riga dei capelli, aveva sacrificato
tutto alla carriera… e all’ultimo momento, quando la strada
sembrava in discesa, paf! La poltrona in Parlamento se l’era
vista sfuggire.
Certo, la Legge gli garantiva entro cinque anni un’altra
chance, ma la delusione l’aveva marchiato a fuoco. Cadde in
uno stato di apatia che durò fino alla successiva campagna
elettorale per le elezioni comunali.
A sfidarlo questa volta era un esperto di economia che
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aveva lasciato la carriera universitaria per la politica, o almeno di questo si vantava. I sondaggi lo davano a dieci punti
percentuali dal Ferrucci ma in netto recupero, e gli indecisi
erano ancora tanti.
«La gente vuole qualche cambiamento nell’amministrazione» dissero un giorno i compagni di partito al Ferrucci. Per
lui fu come se avessero bestemmiato:
«Un cambiamento? Stabilità ci vuole! Coerenza!»
In realtà avevano ragione loro. Quello che era stato il suo
cavallo di battaglia, la coerenza, ormai non faceva più presa
sull’elettorato, vuoi perché troppo spesso sbandierata, vuoi
perché le idee come i gusti sono irrimediabilmente volubili.
La virtù massima di Guglielmo Ferrucci, dopo averlo catapultato verso percentuali bulgare, stava diventando una zavorra. Se i cittadini erano stanchi di sentire sempre le stesse
parole e glielo facevano notare, lui si trincerava dietro la
propria coerenza e quelle parole, per coerenza, continuava a
ripetere.
Nei dibattiti sulle tivù locali i giornalisti che propendevano
per l’altro candidato riuscivano regolarmente a farlo infuriare mettendo in dubbio la caratteristica a lui tanto cara, e
proprio una di quelle sere, stanco di replicare alle illazioni di
uno spettatore, Guglielmo Ferrucci pretese di dimostrare una
volta per tutte di che pasta era fatto: quando il conduttore gli
offrì in diretta un bicchier d’acqua con l’invito a non surriscaldarsi troppo, rispose che non aveva sete e che la cosa, in
quanto persona coerente, era da considerarsi definitiva. Com’è ovvio nessuno lo prese sul serio, ma tre giorni dopo, a
una settimana dal voto, la giovane cronista di una testata
provinciale venuta a intervistarlo non poté fare a meno di
notare il suo aspetto emaciato, le guance smagrite, il sorriso
tirato.
Il Ferrucci confessò, a metà tra una confidenza e un proclama, che non aveva più assunto liquidi dopo avere rifiutato il bicchier d’acqua in diretta televisiva.
«Un buon politico non cambia idea per seguire il proprio
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tornaconto» aggiunse sprezzante quando la giornalista chiese se stesse scherzando, «e non creda che io abbia modificato la mia dieta per integrare liquidi, o che si tratti di una
protesta non-violenta, di uno sciopero della sete. Si tratta di
dimostrare, nonché di esercitare, quella virtù che si chiama
“coerenza”. Ho detto che non ho sete: non è da me cambiare
idea.»
L’intervista fu ripresa da un paio di quotidiani a tiratura
nazionale, ma nel Comune in cui il Ferrucci era Sindaco addirittura non si parlava d’altro e tutti si domandavano fino a
che punto sarebbe arrivato con questa provocazione. I compagni di partito cercarono di convincerlo che la sua mossa
era stata impopolare, gli dissero che l’opinione pubblica la
considerava una protesta per futili motivi, uno sproposito,
qualcuno anche una ridicola bugia e in sintesi, quasi all’unanimità, una cazzata, e che in conseguenza di ciò il candidato avversario l’aveva sorpassato nei sondaggi. Lui non li
volle ascoltare e rimase convinto che i cittadini, alla fine,
avrebbero apprezzato la sua coerenza.
La sera dell’ultimo comizio, nella piazza centrale del paese, Guglielmo Ferrucci apparve irriconoscibile. Dimagrito,
mentalmente e fisicamente provato dalla carenza di liquidi,
di fronte a quei pochi elettori che ancora stavano dalla sua
parte e che gli chiedevano di riprendere a bere, rimase quasi
in silenzio. La direzione regionale del partito, infuriata e
sbigottita per quello che pareva a tutti gli effetti il comportamento di un mentecatto, prese la decisione di scaricarlo
immediatamente dopo le elezioni, dando ormai per scontata
la vittoria del candidato avversario.
Venerdì, poco dopo l’ora di pranzo, a soli due giorni dalle
elezioni, Guglielmo Ferrucci accusò un malore e fu trasportato d’urgenza all’ospedale. Morì durante il tragitto in
ambulanza, e nel Comune dov’era stato Sindaco nessuno
trovò nulla da obiettare a che gli fosse intitolata una strada.
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Acerbo violaceo
23/2/21
Questa mattina, mentre ero in bagno a scrivere, sono arrivati in quattro. Ho buttato la carta nel cesso prima che la vedessero. Mi hanno preso per le braccia e fatto stendere sul
lettino, poi l’infermiere più anziano m’ha fatto un’iniezione.
Sedativi e non so che altro.
Di solito quando mi fanno l’iniezione resto cosciente, ma è
come se non avessi più una volontà: faccio tutto quello che
dicono. Se dicono alzati mi alzo, se dicono ‘sta fermo sto
fermo. Divento un cagnolino tonto e bene addestrato, cioè il
paziente ideale. Se mi lanciassero una pallina, gliela riporterei scodinzolando.
Non odio gli infermieri, è il loro lavoro. Se potessi li impiccherei uno a uno, ma non arrivo a odiarli. La verità è che
mi sto rammollendo, scendo a compromessi più facilmente,
accetto quello che succede senza oppormi. Ho perso quasi
del tutto la capacità di stupirmi. L’unica cosa che mi stupisce ancora è che qualcuno voglia entrare qui dentro e vivere
così... ma in realtà sono pochi, pochissimi. Quasi sempre
sono i familiari a insistere. Anche stamattina, mentre mi riportavano in camera, sono passato davanti all’ufficio del
Dottore: la sala d’attesa era piena e c’era di nuovo quella ragazzina, Denise credo si chiami, seduta a testa bassa tra la
madre e il padre. Certo, magari non vogliono farla ricoverare, no, magari s’accontentano di qualche terapia o psicofarmaco, qualcosa che la tenga buona e docile, obbediente...
la moglie del Sindaco invece, lei non s’accontenta, anche
stamattina si disperava, dentro l’ufficio del Dottore, urlava
che il marito sta peggiorando, che è malato, che ormai rischia la vita, che deve essere internato anche contro la sua
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volontà, per il suo bene. Un giorno mi piacerebbe leggergliela, la storia di suo marito. Mancava solo lo studente,
Raffaele, quello che dice di avere un chip nel cervello. Non
ho ancora capito se davvero è uno studente di psicologia, o
se invece è matto come tutti gli altri.
24/2/21
È notte. Stasera mia Madre non verrà a trovarmi, non verrebbe neanche se urlassi con tutto il fiato che ho in corpo.
Se chiudo gli occhi la rivedo, in piedi davanti a me, in soggiorno, sorridente mentre abbraccia centinaia di aghi e lame
protesi dal nucleo metallico di una sfera. Era morta tanto
tempo prima, ma quella è l’ultima volta che l’ho vista da viva: aveva la pelle incantevole e bianca come le pareti e il pavimento di marmo, lacerata dove le punte si conficcavano per
la pressione dell’abbraccio e le ferite non perdevano sangue.
Sprofondato nella sua pesante poltrona foderata di velluto
verde, mio padre sorrideva seguendomi con lo sguardo dietro gli occhiali da vista. Lui non la guardava ma sentivo che
attraverso di me, attraverso i miei occhi poteva vederla, bellissima com’era stata da viva e com’era in quel momento e
come sarebbe rimasta per sempre.
Quando mia Madre mosse la sfera stringendo gli aghi e le
lame nella carne delle braccia, mio padre disse qualcosa che
non capii e s’alzò in piedi; continuando a guardarmi afferrò
la poltrona e cominciò a trascinarla verso di me.
La stanza era immensa, vuota, inodore. In fondo c’era una
porta, talmente lontana che sembrava una virgola nel bianco.
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5. Atomo
“Dal mio corpo in putrefazione cresceranno fiori,
e io sarò dentro di loro: questa è l’eternità”
Edward Munch
La bara che conteneva il corpo di Guglielmo Ferrucci fu
calata nella fossa e ricoperta a colpi di badile. Le lacrime di
parenti, compagni di partito e amici, penetrarono lentamente
nella terra smossa fino al coperchio di legno. Poco prima, io
e Franz c’eravamo salutati come si usa tra noi: m’era passato accanto in silenzio, forse perché sapeva che ci saremmo
rivisti ma più probabilmente perché era un pezzo di merda.
Il cuore aveva ceduto all’aldilà uno spasmo che s’era propagato come onda lungo tutto il corpo per morire sui piedi,
quando nel petto rigido l’infarto aveva stroncato il mio
ospite il suo scheletro la sua pancia e le sue viscere, vene e
sangue arrestato nella corsa, lo stomaco e i suoi muscoli, il
colon e la cellula che lo componeva, di cui io facevo parte.
Dopo, nella bara, lentamente Guglielmo Ferrucci si gonfiò
e poi pian piano perse spessore, putrefacendosi dall’interno
e dall’esterno finché nella riesumazione mi raccolse la terra
e partecipai alla nuova vita del bulbo d’una pianta, un tulipano che aspettava maggio per sbocciare. Fu l’occasione per
rivedere la luce del sole dopo anni di buio.
Polline lieve offerto dal centro del tulipano, fui catturato da
un’ape e trasformato in miele. Giallo e appiccicoso univo
dolce ogni argine di pane, ogni labbro con l’altro, sennonché
labbra e pane appartenevano – fatalità! – all’ignaro nipote
del defunto Guglielmo Ferrucci, la cui scarsa visione d’insieme bastava a comprendere che ero miele, ma non che ero
stato suo nonno.
Nelle fogne tutto si sfaldava velocemente e disciolto nell’acqua viaggiai fino al mare, dal quale giorni fa sono evaporato per andare a piovere in un depuratore. Certo, se mi
son trovato a salire rubinetti il depuratore non deve avere
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avuto anche lui una gran visione d’insieme, giacché ero tulipano e miele, ma anche merda e cadavere.
Per farla breve, volteggiando tra migliaia di gocce riunite
in acqua potabile sono stato versato in una caraffa di vetro
servita al tavolo d’una bella signora, ed è stato lì, nel suo
bicchiere, che – momento mica tanto straordinario per due
atomi, ma di solito infinitamente più distante – ho rivisto
Franz… parte d’una macchia di rossetto!
La cosa incredibile è che ho avuto la fortuna di rimanergli
vicino, appiccicato a quel rosso acceso che un lavapiatti negligente non è riuscito a vincere.
A volte mi domando se sia questa capacità di non vedere le
macchie che permette al lavapiatti, alla signora e alla stirpe
dei Ferrucci di credere fermamente alla vita e alla morte,
alla pura trasparenza del vetro, all’essere qualcosa d’altro, di
diverso dalla residua macchia di rossetto d’un bacio dato per
caso, distratto, un giorno come tutti gli altri.
6. Porno amatoriale
Le discussioni fra gli anziani frequentatori del circolo A.
Gramsci di San Godenzo, una dozzina fra contadini callosi,
tagliaboschi, cacciatori in giacca mimetica, pensionati incartapecoriti e altri esperti di geopolitica internazionale,
vertono perlopiù sulle scelte dei due candidati, onorevoli
Paravano e Camilli, in tema di tazzine da caffè e rapporti con
gli stati del Maghreb. Ora alzandosi di tono ora spegnendosi,
resuscitate fino alla nausea, le voci ruvide sovrastano l’acciottolio del bar.
Dai retta a un bischèro, al presidente ci dovevano mettere... o quella marrocchina l’hai vista? Come si chiama? Saidde? Che topa che l’è dioberva, artro che quer tegame. . .
Nella sala da biliardo, per la millesima volta il Vampa sfida
a carambola il Marchese: un paio di spettatori avvinazzati
sonnecchiano di sbieco sulle panche di legno, con la testa tra
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le mani e nelle orecchie il ronzio del ventilatore che poco
più in alto polemizza con l’afa estiva. Completano il quadro
la barista, vestita di nero per intonarsi al grembiule e, ignorati da tutti, Paravano e Camilli, impegnati a contendersi decibel e pixel di un dinosauro Panasonic.
Sono le dieci e venticinque. Seduti al tavolino rotondo, Luca
e Denise aspettano rispettivamente una birra e una cola con
limone. Denise sta valutando l’effetto dei propri nuovissimi
stivali bianchi sull’angolazione degli sguardi maschili, e non
sa ancora di avere un bigliettino anonimo nella tasca laterale
della borsetta; Luca invece sta riportando alla mente le scene
di un porno visto due ore prima.
Denise è un po’ in carne, proporzionata, seno e fondoschiena
importanti, polpacci pure, un metro e sessanta circa, capelli
sulle spalle castani, sopracciglia appena accennate e nasino
breve all’insù; Luca è più alto di venti centimetri, magro,
con i capelli corti castano scuro, pettinati in avanti e ingelatinati, porta un orecchino d’oro sul lobo sinistro e tiene perennemente la bocca atteggiata a mezzo sorriso, un po’ aperta, come una Gioconda ebete.
I due si conobbero, anche in senso biblico, alla festa del
quattordicesimo compleanno di Denise, in una stanzetta di
periferia affittata per l’occasione e riempita con l’armamentario tipico dell’età: stereo con lettore cd, piatti e sedie di
plastica bianca, qualche palloncino colorato, birra, limoncello sotto il mucchio dei giubbotti. Luca capitò lì solo per
via di un amico comune che l’aveva convinto ad aggregarsi
con la prospettiva di scroccare un po’ da bere e all’inizio
pensò che la festa facesse schifo, ma dopo quattro limoncelli
e dopo essersi visto sbottonare i pantaloni con sorprendente
savoir faire da una Denise particolarmente vivace, complice
la capsula di MDMA che aveva diviso con un’amica, dovette ricredersi. L’unico a non divertirsi quella sera fu proprio l’amico comune, che non riuscendo a capire dove fosse
finito Luca salì in sella alla propria Aprilia per andare a
prendere una multa dai carabinieri fermi alla rotatoria.
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Due mesi più tardi, dopo vari tira e molla, Luca e Denise
diventavano ufficialmente una coppia.
Visto che ho parlato di loro direi per comodità di anticipare
i tempi e passare direttamente a Nicola Lanzichenecchi, prima ancora che entri dalla porta laterale del circolo A. Gramsci col suo passo elastico, cosa che avverrà fra due minuti
circa, in contemporanea con la sosta-trucco di Denise. Il ruolo
di Nicola in questa vicenda non è del resto trascurabile.
Nicola è alto, dinoccolato, con le braccia magre e spropositatamente lunghe; piuttosto peloso, si rade poco, porta i
capelli ricci, lunghi e unti completamente raccolti in una coda. Lui e Luca si conobbero (non in senso biblico) l’estate in
cui Luca, bocciato per la seconda volta, fu spedito nel purgatorio di un cantiere edile. Ha compiuto da poco trentuno
anni e Denise, che ne ha ventidue, si trova spesso ad ascoltare i suoi buoni consigli. Come se non bastasse questo strazio, Nicola ha il vezzo di atteggiarsi a uomo di mondo, quando in realtà non esce dal paese neanche per fare la spesa.
Lavora dall’età di sedici anni nella sopraccitata impresa edile, di proprietà del padre, il quale l’ha arruolato forzatamente per strangolare certe idee circa la gestione di un bar in
Spagna. Dotato di un carattere impulsivo ma tenacemente
ancorato all’autorità paterna, nel giro di due o tre anni, senza
mai essere stato giovane ma solo bimbetto, Nicola è diventato quel che si dice un adulto, e come timida compensazione di ambizioni represse, alla compagnia dei propri coetanei ha cominciato a preferire quella di gente più giovane.
Come Luca, per l’appunto.
Ma ecco, finalmente, scoccare le dieci e mezza ed ecco
Denise che come il meccanismo a molla dei vecchi orologi a
cucù abbandona Luca, entra in bagno e rinviene, frugando
nella borsetta alla ricerca del rossetto, il biglietto anonimo.
Tale biglietto riporta il seguente messaggio:
Sei bellissima!
Ti aspetto questa sera al parcheggio del castagno, a mez-
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zanotte e mezzo. Vieni da sola, ti devo parlare. Ci conosciamo bene e ci siamo visti tante volte al circolino.
Baci bellissima. . . a dopo. . .
Può darsi che sia uno scherzo, ma dato che nessuno le ha
mai scritto un biglietto anonimo, tranne forse alle elementari, Denise rimane abbastanza colpita e dimenticando di sistemare il trucco pensa subito di consegnarlo a Luca. Sennonché ad aspettarla al tavolo trova solo il bicchiere: Luca è
in piedi accanto al banco dei gelati perché nel frattempo è
arrivato Nicola.
Non è il caso di farne una questione di pubblico dominio,
quale certamente diventerebbe se quel ciabattone di Nicola
venisse a saperlo, così Denise si siede e pensa a chi può essere l’autore del messaggio. Per malizia e vanità scarta
l’ipotesi di uno scherzo. Ne ha di ammiratori, anche se per
via del legame con Luca nessuno le si dichiara. Ma Duccio
non può essere, pensa; e neanche il Parve, che s’è appena rimesso con Benedetta; l’Agnello non ha il computer, anche
se potrebbe averlo scritto a scuola... ma no dai, l’Agnello è
troppo sfigato. Come età, tranne gli sbarbini e i vecchi decrepiti può essere chiunque...
Luca continua a blaterare con Nicola senza degnarla d’uno
sguardo. Lei lo fissa con insistenza nella speranza che s’accorga di qualcosa, ma nell’incrocio di sguardi che segue Luca non coglie nient’altro che l’eterno cruccio femminile dell’essere trascurata dal proprio ragazzo in favore d’un amico,
e concludendo che se di stizza si tratta può pure alzare il culo e raggiungerlo, continua tranquillamente a discutere di
meteore calcistiche degli anni Novanta, a loro note indirettamente per limiti anagrafici e circondate da un’aura di
leggenda. Per un po’ Denise sopporta: chi cavolo l’avrà scritto, si domanda, e intanto le arriva all’orecchio il nome di tale Sebastian Rambert seguito da sghignazzi. Non che il biglietto possa averlo scritto questo Rambert, ma all’avvilimento per essere stata lasciata sola inizia a unirsi il fastidio
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per questo chiacchiericcio insulso. A ragione o a torto, Denise non sopporta di essere ignorata in favore di un’altra
persona, tanto più dal proprio ragazzo e in un momento in
cui ha necessità di raccontare una cosa importante. Dopo
essersi trattenuta per un po’, scaglia in direzione del banco
dei gelati questo pensiero: allora parla col tuo amico e
vaffanculo! Col cazzo che ti dico del biglietto! Imbecille! E
passa, negli interminabili minuti che seguono, dalla collera
stizzita ma ancora reversibile alla paranoia di non essere
creduta fedele, per cadere infine in uno stato d’animo rancoroso e malevolo che le ispira un comportamento alquanto
subdolo: al ritorno di Luca fingersi addirittura contenta, scodinzolante come una cagnetta che sia rimasta fiduciosa ad
aspettare il padrone, per vedere se è talmente stronzo da non
rendersi conto di quello che ha fatto.
Finalmente Luca si volta verso di lei, allarga il suo perenne
mezzo sorriso e le va incontro.
«Che sagoma i’ Lanza... oh, tutto bene?»
«Sì.»
«Senti, noi ci si va a giocare un birrino a biliardo, s’è liberato proprio ora... vieni di là?»
«No» dice Denise, questa volta senza la mise da cagnetta.
«Che c’è?» chiede Luca, ma Denise tiene le braccia incrociate e guarda altrove, senza rispondere.
Fino a due secondi fa andava tutto bene, era tranquilla e
affettuosa, e ora fa l’incazzata. Valle a capire le donne, pensa
Luca, e valuta se farsi prestare la stecca dal Vampa o prenderne una da quelle del circolo.
I due amici non hanno ancora girato l’angolo che Denise
sta già cercando qualcosa con cui sfogarsi. Sul tavolo c’è
solo il bicchiere vuoto. Non sarebbe male poterlo lanciare
contro il muro o meglio ancora in faccia a Sara, la barista,
che le è sempre stata antipatica; ma poi cosa direbbero tutti
questi vecchi bavosi e trentenni sfigati, a vedere lei che
all’improvviso fa una cosa del genere, un metro e sessanta di
ragazzina con tanto di vestitino sexy, sempre tutta perfettina
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e sorridente? Si volterebbero increduli, di sicuro qualcuno si
metterebbe a rimproverarla a voce alta, quelli fuori entrerebbero per assistere alla scena, ne parlerebbero tutta la sera,
forse per giorni, poi lo verrebbero a sapere i suoi genitori,
poi quelli del paese accanto, poi Vespa farebbe una puntata
di “Porta a Porta”... insomma meglio non spaccare questo
benedetto bicchiere, meglio prendere il cellulare e far finta
di mandare un messaggio riempiendo invece il display di offese pesanti e volgari, come ha già fatto altre volte per sfogare la rabbia. Ha appena iniziato che Silvia Cianna, fidanzata di Nicola, con scarsissimo tempismo fa il suo ingresso
nel circolino e si dirige decisa verso il biliardo, per intimare
col piglio d’un ufficiale tedesco al proprio compagno di
darsi una mossa, se vuole passare la serata con lei. Nicola fa
una steccaccia clamorosa, beve 42 punti conditi da una bestemmia e perde la partita. Luca allora fa per tornare al tavolo da Denise-compagna-mite-e-paziente, ma viene intercettato a metà strada da Denise-incazzata-e-vendicativa, la
quale non avendo intenzione di calarsi nella parte della ruota
di scorta dice che va a casa perché le è venuto sonno.
Naturalmente non pretende che Luca ci creda, ma dopo
questa prolungata e gravissima mancanza di attenzioni nei
suoi confronti vuole che sia lui, il colpevole, ad approcciare
l’argomento, cosa che lo porterebbe quantomeno a riconoscere le proprie colpe. Tuttavia Luca, avendola fraintesa fin
dall’inizio e non sapendo nulla del bigliettino, non fa poi
molto per trattenerla. Appena un tentativo d’abbraccio, che
chiaramente non serve a niente.
Domani sarà più facile farsi perdonare, pensa Luca senza
darsi troppo affanno. Con le donne conviene fare così, che
se devi stare lì a menartela ogni volta che se la prendono
per qualcosa non ti resta il tempo di fare altro. . .
Se osserviamo dall’alto il paesino di San Godenzo, muovendoci a piacere e zoomando come sulla mappa tridimensionale di un RTS, notiamo che il centro storico ha la forma
pressappoco di un esagono e che a causa delle vie troppo
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strette è chiuso al traffico. A eccezione dei due lati superiori,
confinanti con orti e castagneti, tale esagono è cinto da una
strada asfaltata che biforcandosi porta a un campetto di
calcio. Il “parcheggio del castagno”, luogo dell’appuntamento, altro non è che il piazzale sterrato dietro il campetto,
privo di illuminazione e adoperato per il suo uso originario
nei giorni delle partite; più raramente, di notte, da qualche
coppietta in vena di effusioni.
Denise è in camera sua, seduta sul letto a guardare un punto vuoto tra il soffitto e un vecchio poster dei Chemical Brothers. Per raggiungere il luogo dell’appuntamento deve semplicemente prendere l’auto e percorrere quel chilometro e
mezzo che la separa dal parcheggio. Tre sono i possibili inconvenienti: il primo è un incontro con Luca, ma è probabile
che Luca sia già tornato a casa; il secondo, un po’ più serio,
è legato a Nicola, che abita proprio da quelle parti e potrebbe quindi veder passare la Matiz blu di Denise; il terzo, ancora più serio, è che il paese è piccolo e la gente non si fa
mai i cazzi suoi.
Denise non sa ancora se andrà all’appuntamento. Vuole
scoprire chi ha scritto il biglietto e come ha fatto a metterlo
di nascosto nella borsetta, ma non ha intenzione di tradire
Luca perché le due volte che è successo, la prima in occasione di una gita scolastica a Praga e la seconda in discoteca
per via dell’MDMA, si è sentita in colpa. Vorrebbe più che
altro avere qualcuno con cui confidarsi e a cui chiedere consiglio, un’amica fidata alla quale spiegare la situazione. Ma
di amiche vere, al momento non ne ha.
E in caso decidesse di andare… jeans e maglietta o vestitino bianco attillato che fa pendant con gli stivali nuovi? Meglio jeans e maglietta, meno pretenziosi, più adatti a rappresentare la casta curiosità di una ragazza occupata per l’autore di un biglietto anonimo. Il vestitino attillato è malizioso,
quasi ambiguo. Jeans e maglietta, allora. Tinta unita? Ma sì,
tinta unita.
Tra un dubbio e l’altro Denise quasi ribalta il nocciolo vero
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della questione, andare o non andare, tanto che alla fine paradossalmente l’ago della bilancia è proprio il raggiunto equilibrio etico-estetico dell’abbinamento jeans, stivali bianchi,
maglia di cotone e orecchini grandi a cerchio.
Via Spadolini è silenziosa, la luce dei lampioni illumina di
giallo l’asfalto grigio stinto e divide il percorso in segmenti;
oltre il ciglio della strada sono parcheggiate svariate automobili. Denise procede in terza, a giri bassi, il motore emette appena un ronzio. Il punto più temuto del tragitto è in
corrispondenza della casa di Nicola: appena prima di passarci davanti Denise trattiene il respiro e spinge un po’ sull’acceleratore, ma l’ingresso del giardino è presidiato solamente da un gatto, animale poco incline al pettegolezzo.
Denise sorride per aver pensato questo del gatto e si rilassa...
ma sbaglia, perché Silvia e Nicola sono in macchina, fermi,
a luce spenta e fuori dal raggio dei lampioni, e senza essere
visti vedono, si accorgono della Matiz blu e della figura
femminile sola al volante, interrompono il litigio futile della
buonanotte e si guardano negli occhi stupiti, con le orecchie
e la coda dritte.
«Dove va Denise a quest’ora?» chiede Nicola.
«Boh. Sembrava da sola...»
«Era da sola. La seguo?»
«Macchè! Dovevo essere a letto mezz’ora fa» dice Silvia.
«La strada finisce subito, il parcheggio è chiuso... do’ cazzo va, nel bosco?»
«Ma sarà andata a fa’ manovra…»
«Che ore sono?»
«Mezzanotte e trentacinque» risponde prontamente Silvia.
Nicola guarda il volante e scuote la testa:
«È tardi, dai, do’ cazzo va a quest’ora?»
«Boh! Fosse stata con Luca...»
«Fosse stata con lui sì, ma era da sola. Non mi quadra per
niente ‘sta faccenda, domani glielo dico.»
«A chi?»
«A Luca!»
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«Fai un po’ come ti pare. Magari è andata a farsi una canna, che ne sai.»
«Eh, sarebbe anche ora che smettesse… c’ha quasi ventidue anni, non è mica più una bimbetta! E comunque non è
andata a fa’ manovra, sennò sarebbe già tornata: bisogna che
lo dico a Luca.»
Silvia guarda il cruscotto contrita, in silenzio.
«Dici che è meglio se lo chiamo ora?»
«Non lo so. Ci sta che sia a letto.»
«Appunto, tanto se è a letto ce l’ha spento.»
Solleviamoci a questo punto, nel breve intervallo di tempo
che serve a Nicola per farsi rispondere Tief, il cliente da lei
chiamato... eccetera, e attraversiamo indenni il tettuccio dell’auto per planare ai margini del parcheggio che sta per rivelare ai fari indiscreti della Matiz una motocicletta Mac3
malamente nascosta dietro un cespuglio.
Lasciamo in fermo immagine l’intera scena e scopriamo,
prima di Denise, che ad aspettare sono in due: il Marchese e
un suo amico, tale Rigo di Contea Londa.
L’idea del biglietto anonimo è venuta al Marchese, Rigo
non conosce Denise e non l’ha neppure mai vista, però si fida del giudizio dell’amico, ancorché sintetico: fatta bene,
tettona, bassina e parecchio maiala. I due si trovano al parcheggio da più di un’ora e mezza, cioè da poco dopo che il
Marchese ha chiuso la partita col Vampa.
Come hanno trascorso queste due ore scarse gli autori del
bigliettino? Appena arrivati al parcheggio hanno imboscato
una busta di nylon contenente tre grammi di fumo, sei bottiglie di Bacardi Breeze, cinque birre in lattina e due pasticche
di Heimia Salicifolia dietro un castagno, si sono rollati una
canna di marocchino 00 e hanno discusso se presentarsi subito in due o lasciare che fosse il Marchese a provarci da
solo, per poi eventualmente far comparire Rigo al momento
buono, quando Denise si fosse già un po’ scaldata. Questa
tattica è stata da loro sinteticamente definita panino, o ta51
nella variante in cui Rigo sbuca a sorpresa. Il Marchese ha pronosticato il successo del panino al 50%, qualcosa in meno con la tagliola se eseguita a regola d’arte e una
probabilità su quattro in caso di presentazione simultanea;
Rigo invece ha appoggiato quest’ultima ipotesi e premuto
per accantonare l’idea di nascondersi, che secondo lui avrebbe
voltato tutto in farsa e fatto prendere un grosso spavento a
Denise. A sentire lui, la cosa migliore sarebbe stata lasciare
la storia del biglietto un po’ in sospeso, creare un’atmosfera
di complicità semiseria per far sentire Denise a proprio agio,
dopotutto lei e il Marchese si conoscono da anni, rollare qualche cannetta, stappare un paio di Bacardi Breeze e… aspettare l’occasione buona.
Intorno alle 23.20, dopo la prima birra, il Marchese ha iniziato a convergere su questa tattica ma ha insistito per stringere il più possibile i tempi adducendo l’argomento che Denise, ci stesse o meno, se fosse venuta al parcheggio non
avrebbe comunque raccontato niente a Luca, primo perché
già ammettere di essersi presentata a un appuntamento al
buio e di aver nascosto il bigliettino l’avrebbe fatto incazzare di brutto; e secondo perché una finta versione degli eventi
messa in giro dal Marchese avrebbe potuto sputtanarla al di
là dei fatti. L’unico rischio sarebbe stato, semmai, se all’appuntamento si fosse presentata con Luca, ma la reputazione
di Denise a San Godenzo è tale, soprattutto nella percezione
del Marchese, da farla apparire un’ipotesi improbabile.
Per festeggiare la propria sagacia tattica i due sono andati a
pescare dalla busta di nylon l’unico pezzettino di charas e
due birre in lattina, dopodichè hanno cominciato a fantasticare sul seguito della serata, oscillanti fra la certezza assoluta del successo e l’altrettanto assoluta certezza che Denise
non sarebbe venuta, entrambe fortificate dal charas, ma soffermandosi di più sulla prima – che ha scatenato la loro
immaginazione in un turbinio di scene lussuriose, nella quale si sono persi finché il Marchese, sporgendo il labbro inferiore, ha commentato:
gliola
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«È maiala Rigo, è maiala!»
Nelle fantasie del Marchese, Denise arriva in minigonna di
jeans (capo d’abbigliamento che peraltro lei non ha mai
avuto) e camicetta nera un po’ scollata, parcheggia vicino
alla moto e sorride sorpresa. La scena passa direttamente a
una Denise maliziosa e visibilmente brilla, semidistesa. Il
Marchese le si avvicina e d’un tratto la bacia sul collo, Denise si ritrae ma senza convinzione, lo allontana un po’ con
la mano e dice “dai” con voce suadente, solo per arrendersi
dieci secondi dopo. Durante l’appassionato bacio che segue,
la mano destra di lei si sposta sul fianco del Marchese e la
sinistra di lui nella scollatura della camicetta. Il bacio si fa
più frenetico, lui ormai le è quasi sopra, con una mano le
alza la gonna e sentendola bagnata sposta di lato le mutandine, la penetra col medio, poi al medio aggiunge l’indice e
l’anulare. Rigo nel frattempo si è tirato fuori l’uccello e li
guarda masturbandosi. Denise tiene gli occhi chiusi, il
Marchese le abbassa la scollatura e il reggiseno al di sotto
dei capezzoli e sfodera un pene di una ventina di centimetri
(che peraltro non ha mai avuto); anche Rigo si avvicina e in
un modo o nell’altro lei si ritrova the scepter of his passion
in mano e inizia ad ansimare forte mentre lo accarezza, poi
guarda il Marchese negli occhi, si china in avanti e glielo
succhia continuando a guardarlo e a masturbare Rigo; finché
si alzano in piedi e lei sfodera un’abilità notevole nel deeptroath … prima di mettersi a novanta con le mani sul tettuccio della Matiz, di modo che entrambi la palpano e a
turno la prendono da dietro con tanto di sonoro ciafciaf sulle
chiappe, gonna alzata sulla schiena e mutandine all’altezza
delle ginocchia. Per chiudere in bellezza lei si gira e li spompina entrambi facendosi venire voluttuosamente in faccia.
Rigo, dal canto suo, non ha mai visto Denise, anche se la
immagina come un collage di varie pornostar e Alice Reggetto, procace cameriera di Contea Londa, quindi fa partire
la scena non dall’arrivo della ragazza bensì dal momento in
cui quasi a fine serata una Denise divertita e assonnata si
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avvicina a lui con la scusa di bere un sorso dell’ultimo Breeze, e nel fare questo gli posa una mano sulla gamba, posizione in cui distrattamente la mano rimane. A dirla tutta, lei
beve infilando un po’ troppo in bocca il collo della bottiglia.
A questo punto Rigo si alza per andare a recuperare la busta
delle canne; arrivati sul posto, immersi in un’oscurità lasciva
e circondati dalla complicità omertosa degli alberi, Denise li
convince a rollare un’ultima canna di charas miracolosamente intatto e insieme vaneggiano sulle stelle, sul fascino
della notte e della pineta (che in realtà non è mai stata una
pineta) finché allo svanire dell’ultima nuvola di fumo lei lo
guarda intensamente negli occhi e si decide a baciarlo. Le
loro lingue s’intrecciano, vorticano languide finché lei si toglie la felpa e Rigo le slaccia il reggiseno, le sfila i pantaloni
e prende a leccarla, prima intorno ai capezzoli e poi scendendo piano lungo la pancia, l’ombelico e infine... sospiri,
vocali roche che arrivano a malapena alle labbra... ma Denise improvvisamente si allontana e corre ridendo verso l’automobile. Rigo la insegue, la raggiunge e virilmente la abbraccia. Naturalmente né Denise né un’altra femmina a questo
punto potrebbero resistere: cominciano a farlo in piedi, poi
sul sellino del Mac3, lei sopra e lui sotto, finché il Marchese
non ricompare direttamente sotto Denise, su un Mac3 quanto
mai stoico e confortevole, soltanto per dare l’occasione a Rigo di penetrare Denise laddove in realtà non ha mai penetrato chicchessia, fino all’estasi suprema dei sensi che tutti e
tre, e ci mancherebbe, raggiungono simultaneamente.
7. Waiting for the sun
Ore 03.14, Venezia, Stazione FS di Santa Lucia.
Clima: molto umido, temperato.
Popolazione: 21 tra turisti e residenti.
Territorio: una sala d’aspetto, due corridoi, quattordici binari
e due toilette.
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Flora: Cynodon dactylon, Trifolium, Verbena officinalis.
Fauna: Aedes albopictus, Blatta orientalis, Columba livia, Culex pipiens molestus.
L’edificio della stazione, a guardarlo di notte, sembra una
graffetta che aspetta d’essere sparata contro la terraferma.
La linea orizzontale è un atrio giallino, ampio e castigato:
una specie di mascella fascista con un sorriso a vetrata e una
capienza di trecento persone; le due braccia laterali sono
corridoi bianco-piastrellati cosparsi di biglietterie automatiche e schermi ultrapiatti, animati da pubblicità a rotazione.
Una buona metà dei presenti, me compreso, va avanti e indietro, senza meta, tanto per passare il tempo. Grossi criceti
glabri, in cerca d’una ruota da far girare. L’altra metà prova
a prendere sonno senza perdere contatto coi propri bagagli,
ciascuno ha l’aria di farsi i fatti propri e di sonnecchiare,
quasi nessuno parla e chi lo fa s’atteggia a cospiratore, ma in
realtà non ci sfugge né una faccia né uno spostamento.
Mi fermo accanto a un ragazzo senegalese, provo a parlargli. Non mi muovono ambizioni pseudo-giornalistiche o
chissà che, sono solo un po’ stanco e ho voglia di parlare
con qualcuno.
Si chiama Sene Diouf, è nato a Dakar, parla poco e sorride
molto, ha zigomi alti, testa rasata, venature di sangue negli
occhi. Di professione ambulante e all’occorrenza raccoglitore di pomodori, Sene sta aspettando il primo regionale per
Bologna. Come tutti ha sonno, come tutti non riesce a
dormire su questi sedili e però, non essendo europeo, si stupisce che siano progettati apposta per conficcarsi nelle reni
di chi ci prova. Diversamente da Mario, con Sene ci puoi
fare due chiacchiere senza scucire sigarette.
Mario è un habituè di Santa Lucia, porta abiti firmati e
sporchi di terriccio. O almeno credo sia terriccio. Ha quarant’anni circa ed è meravigliosamente, infinitamente e completamente megalomane. Al momento è senza lavoro, ma
solo perché ha deciso di mandarli a cagare quegli stronzi,
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che uno come lui in quell’azienda di pompe funebri era
sprecato; e non ha la ragazza, no, ma tanto era solo una rottura di scatole: ne potrebbe avere talmente tante, lui…
È amico di tutti qui, a partire dai poliziotti (“Il comandante
è un amico, se hai bisogno di qualcosa ci parlo io”) e ha
agganci in tutti i settori della memoria e dell’immaginazione: ristoranti, discoteche, New Orleans, mafia russa, Wall
Street, industria del porno ungherese, esercito, guardia di finanza, IRA, becchini abusivi, bische clandestine del Molise... insomma, se hai bisogno di qualcosa, di qualsiasi cosa,
basta che lo chiedi a lui e Mario Magno, Mario il Misericordioso che dopo dieci minuti è già il tuo migliore amico,
metterà in moto i suoi agganci per proteggerti, assumerti,
inserirti nei giri giusti, farti avere le carte che ti servono,
farti conoscere le ragazze più belle. Ma nel frattempo, “se
per favore hai una sigaretta...”.
Antonino Ciambrana me lo presenta Mario, che dopo avergli scroccato due Diana Blu ci lascia inspiegabilmente soli
dileguandosi oltre l’angolo. Antonino parla velocemente, a
voce molto bassa, appena al di sopra delle pubblicità rotanti:
per non perdere il filo sono costretto a leggergli un labiale
umidiccio. Per cortesia, o forse per l’imbarazzo di rimanere
in silenzio, ha attaccato a parlare del più e del meno, finendo
anche lui per raccontarmi i fatti suoi. Ha fatto il cuoco per
quarant’anni, spesso in nero, e ora la pensione sociale non
gli basta per pagare l’affitto. Nei giorni pari dorme in ostello
a Mestre, in quelli dispari nel Regno di Santa Lucia perché
alla stazione di Mestre, dice con occhi sfuggenti, c’è poca
polizia. In effetti Antonino è somaticamente preda: basso di
statura, cicciottello, gambe corte e capelli col riporto. Di solito le prede se non hanno una buona corsa sviluppano capacità mimetiche, potenti veleni o tossine. Lui niente, solo un
vago odore di fritto.
A ogni frase che dico, Antonino si fa docile come se dalla
manica della mia giacca uscisse la spoletta d’una granata.
Nella rete di rapporti sociali che regola la vita del Regno,
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Antonino ricopre il rango di vice-zimbello. Ciò è dovuto
principalmente a due fattori: prima di tutto, essendo presente
solo un giorno ogni due, i vari Rachid, il Kossovaro (così
pronuncia Mario) eccetera non avrebbero uno pronto da
spedire a comprare birre né un capro espiatorio in caso di
problemi con gli sbirri; secondo, c’è già un ottimo zimbello
che è Beppe il Rosso, detto semplicemente “il Rosso”. Beppe il Rosso ha un po’ l’aria dello spaventapasseri, ma di uno
spaventapasseri che ha rinunciato a scacciare gli uccelli,
anche quelli che gli stanno sulle spalle. Sdraiato in un angolo, con un giornale a forma di bottiglia tra le gambe, afferma
la propria esistenza schiarendosi la gola al di sopra delle tivù
ultrapiatte. È il più anziano dei valorosi del Regno, ha rughe
profonde su tutto il viso che lo fanno assomigliare a un Dogue de Bordeaux e visto da vicino ricorda un cadavere. A
quanto mi dicono, nella vita non ha mai fatto altro che camminare e sbronzarsi, sbronzarsi e camminare, ma Venezia è
stata per lui un cul de sac: non ha più trovato l’uscita. Il
Kossovaro e gli altri ne hanno approfittato per convincerlo
che Venezia è un’isola e che quindi dovrebbe farsela a nuoto, e un paio di volte l’hanno ripescato in un canale mentre
cercava di raggiungere la Dalmazia. Chissà perché è convinto di dover andare in Dalmazia. Non si rende conto che il
Ponte della Libertà si trova qualche centinaio di metri dietro
il suo angolino lercio, seguendo i binari. Gliel’ho ripetuto tre
volte. Mi ha guardato come si guarda un ubriaco che farfuglia in un’altra lingua.
Beppe il Rosso non se la passa malissimo perché in qualità
di zimbello ha diritto a una certa protezione: Mario dice che
il Kossovaro e altri valorosi lo difendono da un gruppetto di
rompicoglioni mestrini che per qualche motivo ce l’hanno
con lui. Una volta Mario li ha trovati di notte in un parcheggio, questi tizi, e se la sono vista veramente brutta: il
vendicatore brizzolato, il ninja impavido con la buzzetta e i
jeans di Gucci prosegue il racconto mimando prese stile judo e calci in faccia, tutto a mio beneficio – tant’è che prova
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a riscuotere un’altra sigaretta. Gliela concedo.
È forse degno di nota il fatto che Beppe il Rosso sia convinto di trovarsi a Venezia da un paio di settimane, mentre
secondo Mario sono tre anni e mezzo.
Il Regno di Santa Lucia è retto dal Kossovaro, sovrano
quarantenne poco più alto di Antonino ma fatto di ghisa, il
quale riunisce nella propria persona il potere legislativo e
quello giudiziario, avvalendosi all’occorrenza di Rachid e
altri scagnozzi per l’esecuzione delle sentenze e la riscossione dei tributi. Torvo, scalzo, in canottiera bianca, sta seduto per terra vicino all’ingresso. A meno che non sia sbronzo, il Kossovaro parla di rado. Stasera ha bevuto solo mezzo
litro di vodka per cui è piuttosto silenzioso: il nome di Rachid lo pronuncia come uno starnuto imperioso, altro non
sono riuscito a sentire.
Mario insiste per raccontarmi la storia completa e illustrata
a gesti delle mille vite del Kossovaro, mentre costui si gratta
un piede. Sintetizzando molto: è arrivato in Italia con un
gommone anni fa, e all’inizio era un senzatetto irregolare.
Poi manovale in Puglia a due euro l’ora, quindi spacciatore
in centro a Orvieto. Piccolo ricettatore. Ricettatore di buona
fama a Bologna, carcerato a Sollicciano. Operaio in una cooperativa sociale del settore tessile, aiuto-pizzaiolo al nero
in provincia di Firenze, pizzaiolo e non so che altro, proprietario al cinquanta per cento di una pizzeria con quattro
dipendenti a Monselice... e poi ancora carcerato, questa volta a Venezia. “Mia vita sembra gioco di Monopoli” commenta alla fine il Kossovaro. Gli domando se ha intenzione
di rimanere da queste parti, lui non risponde e io fingo
d’interessarmi alle diagonali del pavimento. Questo slavo
taciturno ispira rispetto, e se un uomo ispira rispetto mentre
sta scalzo e in canottiera sdraiato sul pavimento di una stazione, il merito non è di qualche divisa o automobile o chissà che. In un’altra epoca l’avrei incontrato alla testa di un
gruppo di cavalieri barbuti, lancia o spadone in pugno, tiranno o brigante di qualche feudo sperduto (non part-time
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come questo), e la mia vita sarebbe rimasta appesa a un suo
capriccio.
Quando riapro gli occhi sono le 5.12, mancano due ore alla
partenza del mio treno e il sole si sta arrampicando da qualche parte dietro la curva dell’orizzonte; le prime avvisaglie
di quotidianità lo precedono sottoforma di capelli curati, cornetti caldi e barriti metallici di serrande.
Devo essere crollato di botto mentre guardavo le diagonali
del pavimento perché mi sono svegliato praticamente nella
stessa posizione, rannicchiato accanto alla porta. Mario,
Antonino, Rachid, Sene Diouf… tutti spariti. Mi viene quasi
il dubbio di essermeli sognati, se non le loro facce almeno le
loro storie.
«Mi scusi» dice severamente qualcuno sovraccarico di valigie. Mi sposto sui gomiti come un soldato per farlo passare. Non c’è neanche bisogno di dirlo che tutto è cambiato,
che l’intera stazione freme, produce, consuma. Però a dire il
vero mi sono sbagliato, uno di quelli di stanotte c’è ancora, e
non parlo di me. Tra la gente, le valigie e le gambe che passano, per un attimo intravedo Beppe il Rosso, in piedi, da
solo, disorientato e ondeggiante come parodia d’un vessillo.
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1/3/21
Perché continuo a scrivere? Che voglio dimostrare, che
voglio dire? Quando ho iniziato pensavo che mi avrebbe
fatto bene, che sarebbe stato bello, un passatempo interessante... invece c’è qualcosa che mi sfugge, qualcosa d’importante che succede, mentre scrivo, o che forse succedeva
anche prima ma di cui non mi rendevo conto... non so cos’è,
forse è solo suggestione, vivere ventiquattr’ore su ventiquattro in questa specie di cella... no, a chi la racconto, non è
suggestione.
Perché scrivo? È come se avessi qualcosa dentro che non
può uscire né dalla bocca né dal culo, solo dalla penna.
Perché? Chi sono Raffaele, Denise, Guglielmo e gli altri,
che significano le loro storie? E perché dovrebbero significare qualcosa? Che significa la mia storia? Sono vere le loro
storie? E la mia, è vera la mia storia?
Il punto non è, come diceva quel filosofo, se quando non li
vedo loro continuano a esistere. È l’opposto: esistono, se io
li penso? Se io non avessi scritto di Raffaele, o se nessuno
avesse letto di Raffaele, allora Raffaele...
No. Sono pazzo, schizofrenico. Tutto qui. Devo smettere di
scrivere. Tutto qui.
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continua...