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l`indicatore forense - ordine avvocati livorno
L’INDICATORE FORENSE
Notiziario dell’Ordine degli Avvocati di Livorno
PERIODICO QUADRIMESTRALE - anno V - n° 6 - DICEMBRE 2014
(Poste Italiane SpA - Spedizione Abb. Postale - 70% D.C.B. Livorno)
L’Indicatore Forense
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L’I N D I C ATOR E FORENSE
L’INDICATORE
FOR EN S E
La redazione
dell’Indicatore Forense
e il Consiglio dell’Ordine
augurano
ai colleghi
e alle loro famiglie
Buon Natale
e Felice Anno Nuovo
Buone Feste
SOMMARIO
) “Ne vale(va) la pena”
di Vito Vannucci
Pag.
3
) “L’anno che verrà…”
di Valter Maccioni
Pag.
4
) Notazioni Sul Nuovo Codice Deontologico Forense
di Marcello Monaci
Pag. 5/6
) “Possiamo ancora guardarci allo specchio?”
di Andrea Dinelli
Pag.
7
) I nuovi Consigli Distrettuali di Disciplina
di Leonardo Biagi
Pag.
8
) Jacques Verges: l’avvocato del Terrore
di Leonardo Biagi
Pag.
9
) Dei delitti e delle pene
di Federico Procchi
Pag.
10
) L’Avvocato penalista e la Deontologia: i rapporti con i testimoni
di Franco Balestrieri
Pag.
11
) Essere avvocato
di Cecilia Gradassi
Pag.
12
) Avvocata: un “ambiguo malanno”?
di Aurora Matteucci
Pag. 13/14
) Angelo Froglia, genio e sregolatezza
di Arrigo Melani
Pag. 15/16
) La legge di interpretazione autentica come espediente per far cassa
di Roberto Cartei
Pag. 17/18
) Un “sorpasso” ….... lungo cinquant’anni
di Paolo Cotza
Pag. 18/19
) La rivoluzione della Geografi a Giudiziaria
di Alessandro Viti
Pag. 20/21
) Grazie per ora
di Davide Lera
Pag.
21
) Pillole di Processo Civile telematico
di Marco Vitalizi
Pag. 22/23
) Il Legittimo Impedimento
di Sandra Albertini
Pag. 24/25
) Salvis Iuribus
di Renato Luparini
Pag.
25
) Regolamento interno del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Livorno
per l’accreditamento delle attività formative
di Paolo Cotza
Pag.
26
) Piano dell’Offerta Formativa per l’anno 2015
di Paolo Cotza
Pag.
27
) Le statistiche
di Marco Vitalizi
Pag.
28
L’INDICATORE FORENSE
Quadrimestrale
registrazione c/o il Tribunale di Livorno in data 26 giugno 2009 al n.12
Redazione e Amministrazione:
c/o Ordine Avvocati di Livorno,
Via De Larderel 88, Tel. 0586/895064, Livorno.
Stampa: Editrice «Il Quadrifoglio» Via C.Pisacane, 7 - Livorno
Direttore responsabile: Bruno Damari
Comitato di Redazione:
Marco Vitalizi (coordinatore), Franco Balestrieri,
Roberto Cartei, Davide Lera, Valter Maccioni, Federico Procchi.
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L’Indicatore Forense
di Vito Vannucci
“Ne vale(va) la pena”
“Ne vale(va) la pena”
L’indicatore (finalmente!) ritorna in edicola e il “consigliere
delegato”, Marco Vitalizi, è stato
chiaro: entro il 31 agosto gli articoli devono essere pronti.
Così, durante il (breve) periodo di vacanza mi trovo a pensare
all’argomento su cui scrivere.
L’ispirazione non mancherebbe: in particolare, avrei quasi già
scritto “in testa” un pezzo sull’imparzialità del giudice.
Il problema è che le considerazioni che vorrei fare traggono
spunto da un episodio di vita (professionale) vissuta che, però coinvolge, personaggi del nostro Foro
sicuramente riconoscibili anche
se non nominati.
Ne parlo con mio fratello il
quale mi sconsiglia caldamente,
ravvisando concretissimi pericoli di reato, ma mi suggerisce
un’alternativa: “scusa ma non hai
deciso di “ritirarti” e, quindi, che
questo è il tuo ultimo mandato di
consigliere? Allora scrivi un articolo di saluto”.
Ed allora vada per il saluto,
anche perché non so se ci sarà,
prima della fine della consiliatura,
la possibilità di far uscire un ulteriore numero dell’Indicatore da
utilizzare a tale scopo.
Già, ma come si saluta dopo 17
anni di consiglio di cui gli ultimi
sette da presidente?
Mi viene in mente un collega
anziano, tra i più stimati e ben
voluti, che un giorno, nel corso di
una delle chiacchierate che spesso seguivano ai nostri incontri in
ascensore, riferendosi alla presidenza, mi disse “ma chi glielo ha
fatto fare” (mi ha sempre dato del
Lei nonostante potessi, quasi, essere suo figlio).
Gli risposi con l’articolo pub-
conoscenze tecniche dell’avvocato e la commozione e la rabbia del
figlio raccontava la storia del padre e del suo barbaro assassinio,
un applauso forte, lungo, intenso
e vero che esprimeva e manifestava la totale partecipazione e condivisione degli ascoltatori.
Ecco, l’incontro con Umberto
Ambrosoli è una di quelle cose
che sono orgoglioso, come presidente dell’Ordine, di aver contribuito a realizzare, una di quelle
volte in cui senti, davvero, di essere riuscito a “dare qualcosa”.
Però, da buon livornese e, quindi, con spirito dissacratore, non
posso chiudere il mio saluto in
modo così serioso e, forse, un po’
enfatico (me ne scuserete).
Voglio, invece, ricordare un
episodio di tutt’altro genere che,
nonostante risalga ai miei primi
momenti da presidente non ho
mai dimenticato.
Seduta di Consiglio dedicata
all’esame degli esposti.
Come prassi chiedo ad ogni
consigliere lo “stato” dei fascicoli
dei quali è relatore.
Giunge il turno di uno dei consiglieri “anziani”, persona (all’apparenza) particolarmente seria e
compassata ed al quale era stato
assegnato il caso (l’ennesimo) di
due colleghi che litigavano per
l’offensività delle espressioni usate da uno nei confronti dell’altro.
Quel consigliere, così come accade in quei casi, aveva il compito
di tentare una conciliazione tra i
due litiganti.
Gli chiedo: “come lo senti?”
(riferendomi, ovviamente, al collega presunta parte offesa che
sapevo essere stato contattato telefonicamente dal relatore).
Mi risponde: “lo sento rigido”
Non ho mai saputo se il doppio
senso sia stato, o meno, volontario (anche se propenderei per la
seconda ipotesi).
So solo che scoppiammo tutti
a ridere come accade, in genere,
a scuola, quando ad uno studente
scappa una frase con più o meno
evidenti significati erotici.
Insomma, si è trattato di uno di
quei momenti in cui (fortunata-
L’Indicatore Forense
mente) si riesce a “tornare bambini” che, in fondo, è uno dei segreti
della vita.
L’episodio viene ricordato ancora oggi tra i consiglieri quando
la situazione richiama, per alcuni
aspetti, quella “originale” in cui
fu pronunciata la battuta.
Ecco, per me questo è stato il
Consiglio, momenti di forte passione e tensione etica ed emotiva
e momenti, altrettanto belli, di goliardia ed amicizia: un’esperienza
appassionante.
Per cui, riprendendo la chiusa
del mio articolo del gennaio 2012
posso dire che “si, ne è valsa la
pena”.
NSE
L’INDICATORE FORE
’Ordine degli
Notiziario dell
orno
Avvocati di Liv
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Foto di R. ONORATI
Vito Vannucci
blicato sul n. 1/012 dell’Indicatore nel quale spiegai le ragioni che
mi avevano spinto a quella scelta
e convinto a proseguirla, chiudendo così il pezzo: “ne vale la pena”.
Oggi, al termine di quell’esperienza, la domanda che quel collega potrebbe pormi, probabilmente
sarebbe: “Lo rifarebbe?”.
La risposta sarebbe un “SI” deciso e senza incertezze.
Infatti, senza entrare in racconti
e bilanci dettagliati di questi sette
anni (occorrerebbe, forse, l’intero numero dell’Indicatore), quel
che posso dire, ma che per me è
fondamentale, è che si è trattato di
un’esperienza appassionante nel
senso letterale del termine.
E’ stata, cioè, un’esperienza
che ha suscitato dentro di me passioni e sentimenti forti: passione
e orgoglio per l’essere avvocato,
delusione e persino rabbia per chi,
anche all’interno dell’avvocatura,
non percepisce la dignità e la bellezza di questa professione, perseveranza e decisione nelle battaglie, gioia per il raggiungimento
dei risultati per cui si è ostinatamente combattuto - prima tra tutti
l’approvazione della nuova legge
professionale - lo stretto legame talvolta amicizia di quella vera e
perciò rarissima - che si crea lavorando fianco a fianco, per anni,
con altre persone. E’ stato grazie a
queste passioni e sentimenti che,
quasi, non ho sentito il peso dei
sacrifici che pure, indubbiamente,
ci sono stati.
Il momento più bello?
Ce ne sono stati davvero molti
ma, forse, quello che mi ha lasciato il ricordo più forte è il pomeriggio (25.06.10) alla Camera di
Commercio con Umberto Ambrosoli che, accettando la richiesta del Consiglio, venne a raccontarci “dal vivo” l’esperienza del
padre, avv. Giorgio Ambrosoli,
mirabilmente ritrascritta nel libro
“Qualunque cosa succeda”.
Auditorum della CCIAA completo in ogni ordine di posti; 270
paia di occhi che in un silenzio
totale, fissavano Umberto Ambrosoli che, con parole nelle quali
erano allo stesso tempo presenti le
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PERIODICO QUADRIMESTRALE - ANNO II - n° 3
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III - n° 4 - APRILE
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IV - n° 1 - GENNA
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di Valter Maccioni
“L’anno che verrà……”
“L’anno che verrà…”
“L’anno che sta arrivando …
porterà una trasformazione e tutti
quanti stiamo già aspettando…”
Questo ritornello, tratto dalla
celebre canzone di Lucio Dalla,
ben si attaglia ai futuri Consigli degli Ordini circondariali che
saranno eletti nel gennaio 2015
sulla base della legge n. 247/12
e della normativa regolamentare
ad essa collegata.
Infatti la legge 247/12 introduce novità significative sulla
composizione dei Consigli, sulle
modalità di elezione dei consiglieri, la loro durata in carica.
Il numero dei componenti del
Consiglio dell’Ordine (art. 28/1°
comma) è ancora determinato in
proporzione degli iscritti all’Albo, ma rispetto alla precedente normativa si parte ora da un
minimo di cinque membri per gli
Ordini fino a cento iscritti per arrivare gradatamente ad un massimo di venticinque membri per gli
Ordini che superano i cinquemila
iscritti.
Dunque, mentre i grandi Ordini salutano il superamento del
limite massimo di quindici componenti stabilito dalla vecchia
legge, gli Ordini come il nostro
– che conta circa 850 iscritti vedrà il proprio futuro Consiglio
ridurre i propri componenti dagli
attuali quindici a soli undici.
Da questo punto di vista possiamo dire che la nuova legge ci
penalizza, a mio avviso ingiustificatamente, visto che il futuro
Consiglio sarà chiamato a svolgere le proprie attività istituzionali con quattro consiglieri in
meno rispetto a quanto è avvenuto nell’ultimo decennio.
Una novità significativa è rappresentata dal fatto che i consiglieri dovranno essere eletti “in
base a un criterio che assicuri
l’equilibrio tra generi” con la
previsione che “il genere meno
rappresentato deve ottenere almeno un terzo dei consiglieri
eletti”; a Livorno, su undici
consiglieri, almeno tre dovranno quindi appartenere al genere
meno rappresentato.
Ciò va ad incidere sia sulla
espressione del voto di preferenza che sulle modalità di forma-
4
zione delle liste dei candidati.
In attesa dell’emanazione del
Regolamento Ministeriale che
fornirà le necessarie indicazioni
in materia, ciascun elettore potrà
esprimere un numero di voti non
superiore ai due terzi dei consiglieri da eleggere; si potrà tuttavia superare detto limite qualora
le preferenze siano destinate ai
due generi.
Per la formazione delle liste
invece, quando in una lista non vi
è la rappresentanza di entrambi i
generi l’indicazione dei nominativi della lista non potrà superare
i due terzi dei componenti complessivamente eleggibili; limite
che dovrebbe permanere anche
nel caso di lista che vi sia la rappresentanza di entrambi i generi
ma il numero dei componenti sia
comunque inferiore a quello degli eligendi.
I futuri Consigli dell’Ordine
dureranno in carica quattro anni,
un tempo doppio rispetto a quanto è avvenuto fino ad oggi.
Un periodo così lungo, se da
un lato consentirà ai Consigli
una programmazione più ambiziosa degli obbiettivi da realizzare, dall’altro presuppone che
l’avvocato che intenda cimentarsi in questa avventura sia pienamente consapevole dell’impegno
gravoso che va ad assumersi
oltre che veramente convinto
di portarlo a compimento senza
cedimenti né rilassamenti fino a
scadenza del mandato.
Risultano eletti coloro che
hanno riportato il maggior numero di voti, avuto sempre riguardo
al rispetto dei generi.
Il Consiglio, una volta insediatosi, elegge il Presidente, il Tesoriere ed il Segretario (la carica
di vice-presidente è prevista solo
per i Consigli con almeno quindici componenti, e quindi almeno
per il momento al nostro Ordine
sarà preclusa questa facoltà); per
ognuna delle cariche si procede
ad una autonoma votazione, e
risulterà eletto - nell’ambito di
ciascuna di esse - il consigliere
che avrà riportato il maggior numero di voti.
La nuova legge favorisce il ricambio dei componenti dei Con-
sigli, introducendo per i Consiglieri il limite di due mandati
consecutivi con possibilità di
ricandidatura quando sia trascorso un numero di anni uguale agli
anni nei quali si è svolto il precedente mandato.
E’ previsto inoltre che “In
caso di morte, dimissioni, decadenza, impedimento permanente
per qualsiasi causa di uno o più
consiglieri” subentra il primo
dei nuovi eletti, nel rispetto e
mantenimento dell’equilibrio
dei generi; con la vecchia normativa, invece, la sostituzione
del consigliere sarebbe dovuta
avvenire attraverso una nuova
elezione.
Una novità sostanziale introdotta dalla nuova normativa è
data dal fatto che davanti ai
Consigli dell’Ordine non saranno più celebrati i procedimenti
disciplinari (dal 1° gennaio 2015
demandati ai Consigli distrettuali
di disciplina); i nuovi Consigli
continueranno tuttavia a vigilare
sulla condotta degli iscritti, permanendo l’obbligo di trasmettere
al Consiglio distrettuale di disciplina gli atti relativi ad ogni violazione di norme deontologiche
di cui sia venuto a conoscenza.
I Consigli manterranno comunque una nutrita serie di
compiti e prerogative elencati all’art. 29 legge n. 247/12,
che vanno dal sovraintendere
all’esercizio del tirocinio forense, a tutto ciò che concerne la
formazione obbligatoria degli
iscritti, al controllo della continuità, effettività, abitualità e
prevalenza dell’esercizio professionale, l’attività di opinamento delle notule, i tentativi di
conciliazione previsti dall’art.
13/9° comma delle n. 247 e l’intervento in contestazioni insorte
tra gli iscritti tra loro e/o con i
clienti, la costituzione di camere
arbitrali ed organismi di risoluzione alternativa delle controversie (esigenza rafforzata alla
luce delle recenti misure governative).
Queste funzioni sono destinate
ad incrementarsi ulteriormente
nel momento in cui entreranno
in vigore talune previsioni con-
L’Indicatore Forense
Valter Maccioni
tenute nella nuova Legge professionale, in primis lo Sportello per
il cittadino le cui incombenze si
profilano davvero gravose; è questo il motivo per cui non appare
ragionevole l’avere previsto, per
Ordini con un numero di iscritti
pari al nostro ormai abituato a
lavorare con quindici consiglieri,
un ridimensionamento dei componenti per circa un terzo.
I nuovi Consigli dell’ordine
avranno un Collegio dei revisori
chiamato a controllare e verificare la regolarità della gestione
patrimoniale del Consiglio. La
nomina compete al Presidente
del Tribunale; per gli Ordini con
meno di 3.500 iscritti (come il
nostro) la funzione è svolta da
un revisore unico.
In seno ai Consigli dell’Ordine composti da almeno nove
consiglieri (quindi con almeno
cinquecento iscritti all’Albo)
è prevista la possibilità di procedere attraverso Commissioni
di lavoro composte ciascuna da
almeno tre membri, di cui possono fare parte (escluse le materie deontologiche o che trattino
dati riservati) avvocati non consiglieri dell’Ordine.
Questa previsione va nel senso giusto in quanto favorirà un
maggior coinvolgimento propositivo degli iscritti nelle questioni che interessano, soprattutto a
livello locale, la professione.
Le novità, dunque, sono tante e l’impatto - soprattutto per
quanto riguarda il nostro Foro
- si preannuncia non di poco
conto.
Per questo, essendo interesse
di tutti che le cose funzionino
nel miglior modo possibile, è
fondamentale il contributo costruttivo di ciascuno.
Forza e coraggio
Notazioni Sul Nuovo Codice Deontologico Forense
di Marcello Monaci
NOTAZIONI SUL NUOVO CODICE
DEONTOLOGICO FORENSE
(entrata in vigore: 15 dicembre 2014)
Bando ai preamboli.
Tanto più che anche nel Nuovo
Codice Deontologico è ‘(quasi)
incredibilmente’ saltato il preambolo, pur premesso al Codice
Deontologico che è ancor oggi ed ancor per poco - in vigore.
*
Seguendo l’ordine codicistico
nella sua parte speciale, iniziamo
quindi col porre l’attenzione su
quelle che si presentano come
le novità più salienti in tema di
quei comportamenti che hanno
mantenuto, od hanno ricevuto,
il marchio della riprovevolezza,
e quindi della deontologica scorrettezza.
Ripristino del divieto del patto
di quota lite.
Mutuando la previsione da
quella della legge ordinamentale - e non potendo com’è ovvio
far quindi diversamente - è stato
reinserito il divieto del patto di
quota lite.
V’è peraltro da dire che, sempre in - necessitata - aderenza
alla legge, è stato previsto che,
in sede di accordi tra avvocato e
cliente sulla definizione del compenso, può, fra l’altro, esservi
anche una pattuizione ‘a percentuale’ sul valore dell’affare o su
quanto si prevede possa essere di
giovamento, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, per
il destinatario della prestazione.
Orbene, escluso con certezza
che il compenso possa essere
rappresentato da una parte dei
beni o dei crediti litigiosi, dubbi ed equivoci riteniamo che
potranno presentarsi in ordine
ai limiti ed ai confini di un compenso pattuito sulla base di una
percentuale parametrata sul valore dell’affare o sul vantaggio
anche non patrimoniale che potrà derivarne al destinatario della
prestazione.
Doveri di informazione.
Tra i molteplici doveri di informazione si ritiene qui opportuno segnalare sia l’obbligo
informativo incombente sull’avvocato in ordine alla propria copertura assicurativa sia l’obbligo
di esso avvocato, se richiesto,
sia in corso di rapporto sia ed
ovviamente ad avvenuta cessa-
zione del mandato, di fornire al
cliente ed alla parte assistita copia di tutti gli atti e documenti,
anche provenienti da terzi - fatta
eccezione per quanto concerne
la corrispondenza riservata tra
colleghi - concernenti l’oggetto
e l’esecuzione del mandato, sia
in sede stragiudiziale che giudiziale; con la possibilità peraltro
per l’avvocato, e ciò anche senza
il consenso del cliente e/o della
parte assistita, di estrarre e conservare copia della documentazione ricevuta.
Azione contro il cliente e la
parte assistita per il pagamento
del compenso.
La novità consiste nel fatto che
l’avvocato, per agire giudizialmente nei confronti del cliente o
della parte assistita per il pagamento delle proprie prestazioni
professionali, è tenuto non solo
a rinunciare, come è attualmente,
all’incarico nell’ambito del quale si è registrata l’inadempienza
nel pagamento dei compensi, ma
anche e per di più a rinunciare
nella intierezza a tutti gli incarichi ricevuti.
Obbligo di soddisfare le prestazioni affidate ad altro collega.
Visti i molteplici dubbi e dilemmi sorti al riguardo sotto il vigente Codice che hanno dato luogo a frequenti malintesi, dovuti
talvolta ad obbiettive incertezze,
ma anche, ed in più casi, a tortuose ambiguità se non anche, in
una direzione e nell’altra, a veri
e propri abusi, con conseguenti
discredito professionale e personale tra colleghi e risentimenti
di lunga o di infinita durata, il
Nuovo Codice rende tale obbligo più stringente, prevedendo
espressamente e chiaramente che
l’avvocato che incarichi direttamente altro collega di esercitare
le funzioni di rappresentanza o
assistenza, ove non adempia il
cliente, deve egli personalmente
provvedere a compensarlo.
E’ stato in tal modo e per tale
ragione eliminata la possibilità,
come consente l’attuale Codice,
di liberarsi dall’obbligo dando
l’avvocato effettiva dimostrazione, ed anche postergando il
proprio credito, di essersi inutilmente attivato sul piano dell’induzione del cliente a far fronte ai
suoi obblighi.
‘Abuso’ della clausola di riservatezza in tema di divieto di
produzione della corrispondenza
scambiata con il collega.
Una previsione assolutamente
nuova è quella della rilevanza
disciplinare attribuita allo scorretto comportamento dell’ avvocato che ‘abusi’ della clausola
di riservatezza in ordine a corrispondenza che, in realtà, di per
sé, nulla ha, e nulla contiene, di
riservato.
Quanto sopra perchè ci si è
trovati troppo spesso a dover registrare, nel più vario ed eterogeneo scambio di corrispondenza,
l’ (ab)uso dell’apposizione, in
tutta leggerezza ed ad ogni piè
sospinto, della locuzione di “riservata personale”, senza che ne
ricorresse in effetti alcuna ragione giustificatrice né alcuna effettiva esigenza
Dovere di verità.
Sono state introdotte importanti novità in materia del dovere di verità nel procedimento da
parte dell’avvocato.
Rammentiamo come tale tema
sia stato magnificamente trattato, tra gli altri, in occasione
dell’incontro del 24 ottobre u.s.
promosso dalla Camera Penale
di Livorno.
Qui ci limitiamo solamente ad
una semplice segnalazione, anche perché le relative disposizioni codicistiche vengono affrontate in un distinto e specifico articolo di questo stesso Notiziario.
Ascolto del minore.
Anche sotto tale riguardo sono
state introdotte molte, e molto significative, novità che, per ovvi
motivi, in questa sede non ci è
dato di poter adeguatamente riferire e rappresentare, in quanto,
e tra l’altro, la delicatezza della
materia e la articolata previsione
dei comportamenti disciplinati
dalle relative disposizioni del
Nuovo Codice, onde non incorrere nel rischio di un nudo ed incompleto richiamo, necessitano
di una analisi particolarmente attenta e debitamente scrupolosa.
L’Indicatore Forense
Marcello Monaci
Rapporti dell’avvocato con le
Istituzioni Forensi.
Anche in ordine alle novità
introdotte circa i vari profili dei
rapporti dell’avvocato con le
Istituzioni forensi riteniamo di
non poterci intrattenere in questa
sede.
Le sanzioni.
Sempre in ossequio alla previsione di cui alla legge ordinamentale, il Nuovo Codice Deontologico prevede espressamente
per ogni comportamento costituente illecito deontologico la
relativa sanzione edittale.
Da notare, inoltre, v’è che il
Nuovo Codice ha introdotto il
meccanismo del possibile aggravamento e della possibile attenuazione della sanzione edittale.
Da notare infine v’é la previsione anche codicistica dell’istituto del “richiamo verbale”, che,
pur espressamente individuato
dalla legge come uno degli esiti
della decisione che definisce il
procedimento disciplinare, non
riveste peraltro in alcun modo il
carattere della sanzione disciplinare.
La tipizzazione “per quanto
possibile” delle condotte.
Il Nuovo Codice Deontologico, in forza e nel solco della legge ordinamentale, che ha
spostato l’asse della prescrizione
(oltre che della procedura) deontologica nella direzione della sfera della sanzione ( oltre che della
procedura) penale, e quindi in direzione dell’ambito e dell’orbita
del principio di legalità, ha provveduto, “per quanto possibile”,
a caratterizzare e definire con la
massima precisione auspicabile
tutte le disposizioni normative
codicistiche da esso dettate in
ordine al comportamento cui è
tenuto l’avvocato, dando ad esse
il segno della determinatezza
5
Notazioni Sul Nuovo Codice Deontologico Forense
e concretezza nel momento e
nell’atto della individuazione
e della descrizione dei vari elementi di cui (ed in cui) si configura il fatto costituente l’illecito
deontologico; e ciò appunto in
osservanza del principio legislativamente imposto della tipizzazione della condotta.
Il ‘nuovo sistema’, se indubbiamente va incontro a giuste e
sacrosante esigenze garantistiche
di tutela della posizione e dello
‘status’ professionale - ma anche
personale - dell’avvocato sottoposto a procedimento disciplinare, nel contempo apre, o lascia
aperti, vari altri problemi.
In primis, il principio di legalità, come ben sanno i penalisti,
impone che se il fatto contestato
non corrisponde perfettamente
in tutti i suoi elementi oggettivi
e soggettivi alla fattispecie incrimintarice, il reato - nella forma
contestata , e salva l’ipotesi della
possibilità nel caso della derubricazione ad altro minore reato
- non sussiste.
E’ chiaro che l’osservanza dello stretto principio di legalità,
esteso ora al campo disciplinare,
non potrà che condurre alle medesime conseguenze.
Quanto sopra equivale a dire
che, ove i fatti contestati in sede
disciplinare non corrispondano
perfettamente a tutti gli elementi che ‘tipicizzano’ il comportamento costituente un illecito deontologico, si dovrà necessariamente pervenire ad una decisione
di proscioglimento, non potendosi più, per la predeterminazione
e la certezza dell’incolpazione,
ricollegarsi a “concetti diffusi
e generalmente compresi dalla
collettività”, come è avvenuto
sino ad oggi in forza della prassi - invero ‘creativa’ della ‘norma
incolpatrice’, riconosciuta peraltro esplicitamente legittima dalla
Corte di Cassazione - secondo la
quale la mancata corrispondenza tra contestazione e pronuncia
disciplinare non portava necessariamente alla nullità della contestazione e/o al proscioglimento
dell’incolpato ove l’organo giudicante avesse comunque rilevato nel comportamento dello stesso elementi di fatto in qualche
modo riprovevoli per la funzione
e l’immagine della figura e del
ruolo dell’avvocato, individuando poi direttamente esso organo
giudicante la adeguata sanzione
in una tra quelle previste in via
generale dalla vigente legge ordinamentale.
6
Diverso sembra essere il convincimento di alcuni autorevoli
studiosi ed operatori di settore,
i quali richiamano e fanno riferimento ad una ipotizzata “norma di chiusura” che sarebbe da
individuarsi in una disposizione
della legge ordinamentale, che
farebbe da valido sostegno atto
a corroborare la tesi della permanenza-sopravvivenza
della
autonomia normativa degli organi ordinistici, fondandolo sulla
previsione e canonizzazione dei
principi generali di indipendenza, probità, dignità e decoro,
diligenza e competenza; principi, questi, parimenti e quasi del
tutto pedissequamente ripresi ed
inseriti nel Nuovo Codice.
Sempre ai fini di una ritenuta sopravvivenza ordinistica dell’autonomia normativa,
da parte degli stessi autorevoli
studiosi ed operatori di settore
viene invocata la determinante
valenza del sintagma utilizzato
dalla legge ordinamentale -”per
quanto possibile” - a proposito
della necessità della tipizzazione
dei comportamenti costituenti illecito disciplinare, in forza della
cui conveniente esegesi vengono
richiamati e ritenuti applicabili i
principi validi in tema di norme
penali incriminatrici “a forma
libera” per le quali la predeterminazione e la certezza dell’incolpazione sono validamente
affidate a concetti diffusi e generalmente compresi dalla collettività in cui il giudice opera.
Epperò a noi sembra che, nel
caso in esame, si versi in tema di
interpretazione della fattispecie
incriminatrice - che è comunque
sussistente ed anche e comunque
predeterminata pur se in qualche modo vaga e sfuggente e
che ha comunque in sè una sua
propria specifica sanzione - e che
si tratti quindi dei margini più o
meno ampi della discrezionalità
interpretativa riconosciuta a chi
giudica, e non si versi pertanto
in tema di vera e propria autonomia normativa disciplinare di cui
alla norma di chiusura contenuta
nell’attuale - ma perente - codice
deontologico, secondo la quale le disposizioni specifiche del
medesimo codice costituiscono
esemplificazioni dei comportamenti più ricorrenti e non limitano l’ambito di applicazione dei
principi generali ivi espressi.
Una simile norma di chiusura non si trova - per l’appunto,
e non per caso - riprodotta nel
Nuovo Codice Deontologico.
Ci troviamo qui, come è agevole desumere, davanti alla cruciale questione ed alla correlativa
ruvida domanda se continuerà o
meno a sussistere, e se sì, in quale ambito, con quale estensione,
con quali limiti ed in capo a quali organi ordinistici, una qualche
potestà ed autonomia normativa
diversa da quella direttamente
ed espressamente conferita dalla
legge ordinamentale in capo al
Consiglio Nazionale Forense in
sede ‘codicistico-regolamentare’
A nostro (più che ultra peritoso) parere, mentre al C.N.F. è
riconosciuta, come detto, dalla
legge ordinamentale la potestà
normativa in sede codicisticoregolamentare, e solo in quella sede, e quindi ovviamente,
sempre in quella sede, anche
- ma solo - in via modificativointegrativa, agli altri organi - ai
Consigli degli Ordini territoriali
a dar data dal 15.12. 2014 ed ai
Consigli Distrettuali di Disciplina con il 1°Gennaio 2015) nessuna potestà è conferita e nessuna
autonomia normativa viene e/o
verrà riconosciuta.
Distinzione (mancata) tra
norme di comportamento aventi
ovvero non aventi valenza disciplinare.
La legge ordinamentale ha
previsto - e dispone e statuisce
- esplicitamente che il Codice
Deontologico deve al suo interno
individuare e distinguere quelle
norme che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al
corretto esercizio della professione, hanno una rilevanza disciplinare, e quelle che, non rispondendo alla tutela di un pubblico
interesse, debbono essere dalle
prime tenute differenziate non
assumendo esse in alcun modo
rilevanza disciplinare, potendo,
esse, peraltro, a nostro avviso,
avere una valenza sotto altri e
diversi profili, quale quello di
carattere civilistico, anche sotto
l’aspetto dell’illecito nonché della loro idoneità, in caso di violazione, a fondare un giudizio di
risarcimento del danno.
Come abbiamo visto più sopra,
nel Nuovo Codice Deontologico
a tutte le norme di comportamento in esso inserite viene conferita
rilevanza disciplinare prevedendosi per la loro violazione sempre ed in ogni caso una sanzione;
e, comunque, esso Codice non
prevede alcuna norma di comportamento non avente rilevanza
disciplinare e non passibile quin-
L’Indicatore Forense
di Marcello Monaci
di di sanzione.
Orbene, al di là della legittimità della scelta di campo, e
peraltro nella presupposizione
che non è certo la semplice inscrizione nel codice tra le norme
di comportamento ad attribuire ad essa norma, pur dotata di
sanzione, il carattere di interesse
pubblico - il quale, per sua natura, v’è ovvero non v’è - siamo
sicuri che tutte le norme di comportamento previste nel Nuovo
Codice rispondano alla tutela di
un pubblico interesse?
Così, ad esempio, siamo certi che risponda ad un pubblico
interesse l’avere previsto come
fatto deontologicamente illecito
e l’averlo quindi reso passibile
della sanzione disciplinare della
censura il comportamento tenuto
dall’avvocato che abbia abusato
della clausola di riservatezza?
Ovvero, ed ancora, in via più
generale, siamo sicuri che anche
altri comportamenti che attengono ai semplici e stretti rapporti
tra colleghi o tra cliente ed avvocato rientrino effettivamente
nella sfera dell’interesse pubblico?
Anche il C.N.F. a dire il vero
si è posto la domanda, essendo
sorto evidentemente un qualche
dubbio al riguardo. Epperò, ha
poi deciso e deliberato per l’inserimento sempre e a tutto tondo
anche di queste norme, non risolvendo peraltro il problema di
fondo, che, per quanto a noi appare, potrà essere sempre riproposto, anche in sede disciplinare,
sotto l’aspetto della legittimità di
tali norme.
Regime transitorio e principio
di legalità.
Altro effetto dell’”attrazione”
della materia disciplinare nella
sfera della azione, del procedimento e della sanzione penale, e
quindi del connaturato principio
di legalità, è quello che l’entrata
in vigore del Nuovo Codice Deontologico, oltre a determinare,
come è naturale ed ovvio, la cessazione di efficacia delle norme
previgenti anche se non specificamente abrogate, determina
anche l’ulteriore conseguenza
innovativa - rispetto al principio sinora seguito per cui tempus regit actum - che le norme
contenute nel nuovo codice si
applicano anche ai procedimenti
disciplinari in corso al momento
della sua entrata in vigore, se più
favorevoli per l’incolpato.
***
di Andrea Dinelli
“Possiamo ancora guardarci allo specchio?”
“Possiamo ancora
guardarci allo specchio?”
Da troppo tempo ascoltiamo,
spesso costretti a fornire spiegazioni sul punto, luoghi comuni
che caratterizzano oggi la Ns.
professione; procedo in ordine
sparso:
- gli avvocati sono troppi (noi
avvocati siamo troppi); nella
sola città di Roma ci sono più
avvocati che in tutta la Francia
- è il momento di cambiare; ci
vuole il numero chiuso
- la professione così non può
andare avanti; dobbiamo essere
specializzati
Ed innumerevoli altri ancora.
Troppo spesso chi si occupa
di vicende dell’avvocatura - anche al suo interno - dimentica un
passaggio fondamentale; che ci
piaccia o no il mondo è cambiato e con il mondo sono cambiati
anche gli avvocati.
Il sistema, di estrazione scacchistica, dell’”arrocco” attraverso il quale folte schiere di
appartenenti al Ns. mondo cercano improbabili e comunque
perdenti difese non può avere
spazio alcuno.
Chi, come chi scrive, segue
da anni e con estrema attenzione le Assisi dell’avvocatura (ed
il motivo è molto semplice: la
passione per questa derelitta
professione) non ha mai sentito
proporre valide soluzioni per il
futuro.
Al contrario ha ascoltato raffinatissime e variegate critiche
(peraltro tutte serie e credibili
ma altrettanto demagogiche)
agli errori del passato. Critiche
che perlopiù provengono da chi
ha per primo commesso quelli
errori o meglio nulla ha fatto per
evitarli nonostante le Cassandre
dell’epoca certamente non tenessero la bocca chiusa.
Ed infatti sono ancora tutti seduti ai posti di maggior prestigio
della governance dell’avvocatura, talvolta abilmente scambiandoseli tra loro...
La ragione (delle difficoltà
di proporre soluzioni) è molto
semplice: la battaglia è oramai
perduta (la battaglia certamente,
forse non ancora la guerra).
Ed ecco allora il titolo e la
provocazione contenuti e rappresentati in alcuni semplici
esempi tratti da frammenti di
vita quotidiana:
siamo certi di guardarci allo
specchio senza provare “spiacevoli” sensazioni dopo, ad esempio, essere usciti da uffici giudiziari all’interno dei quali imperversano segretarie, più o meno
decorose (non solo nell’abbigliamento e nel portamento) che
dispongono dei “ferri del mestiere” con nonchalanche pari a
quella di avvocati navigati? Che
presenziano ad udienze? Che
quotidianamente provvedono
ad attività proprie ed esclusive
dell’avvocato (per essere chiari
quelle che sino a poco tempo
addietro erano chiaramente indicate alla voce “competenze” del
precedente tariffario forense)?
Ed ancora colleghe e colleghi,
trasversalmente giovani e meno
giovani, che quotidianamente
manifestano, per primi a loro
stessi, come NON si esercita
la professione (domande improvvide, intasamenti in uffici
sbagliati, mancato rispetto del
personale di cancelleria, tentativi di evitare - o addirittura saltare - quelle file che ogni giorno
dobbiamo percorrere per provvedere agli adempimenti della
professione). Senza avventurarci in altre reali problematiche
quali ad esempio quelle degli
avvocati di strada (che ben poco
hanno a che vedere con i protagonisti del noto libro di Grisham) ma che stanno veramente
sulla strada perché non in grado
di attrezzarsi uno studio, ed altro
ancora....
Senza parlare del rispetto degli orari, dei cellulari che suonano sempre, ovunque, dell’assoluto disprezzo dei tempi (chi
partecipa ai congressi sa bene
a cosa mi riferisco in merito ai
tempi e programmi da rispettare) e comunque e di tutte quelle
altre piccole / grandi nefandezze
che - ben consci - commettiamo
giorno dopo giorno senza più
una briciola di pudore.
Ma soprattutto - lo spazio è e
deve essere poco e mi avvio a
concludere ma resto pronto a dibattere l’argomento con chiunque ne abbia interesse - la sovrana impreparazione anche di
fronte a situazioni di vantaggio
evidente (pensiamo all’udienza
c.d. di smistamento in ambito
penale) quasi sempre - se magari evidenziate da un giudice
Andrea Dinelli
sarebbe meglio un preventivo
esame di coscienza ed una rivisitazione, a 360°, del modo di
svolgere la Ns. comunque meravigliosa professione?
Ed infine non posso dimenticare i Ns. principali interlocutori; i magistrati che si caratterizzano per la capillare organizzazione delle loro udienze, per il
pervicace tentativo di evitare le
attese, per il rispetto dei tempi
“Il ritratto senza volto”, 1937 - René Magritte
- vergognosamente giustificate
con la, tanto canonica quanto
insostenibile scusa, di aver poco
tempo a disposizione!!
Ed allora ripeto e (quasi) concludo: possiamo ancora guardarci allo specchio? O forse
L’Indicatore Forense
di deposito dei provvedimenti e dei protocolli, per l’estrema considerazione del ruolo
dell’avvocato e … poi mi sveglio dal sonno e mi accorgo che
forse di qualche specchio difettano pure loro.
7
di Leonardo Biagi
I nuovi Consigli Distrettuali di Disciplina
I nuovi Consigli Distrettuali di Disciplina
“Ieri non è più, domani non è
ancora. Non abbiamo che il giorno d’oggi. Cominciamo.”
Non a caso apro il mio intervento con questa considerazione,
o più precisamente questa esortazione, di Madre Teresa di Calcutta, al “debutto” dei nuovi Consigli Distrettuali di Disciplina.
Noi Avvocati siamo estremamente inclini a rimpiangere il
passato, e certo con questi chiari
di luna è per certi versi comprensibile, e contemporaneamente
siamo diffidenti, quando non intimoriti o altre volte giustamente
arrabbiati, di fronte alle novità
che riguardano la nostra professione. Ma abbiamo anche molto
forte, come singoli un po’ meno
come categoria, una delle caratteristiche umane più importanti per
la sopravvivenza, cioè lo spirito
di adattamento.
I nuovi Consigli Distrettuali di
Disciplina sono tra le novità probabilmente più importanti della
legge 247/2012 e, come detto in
premessa, sono stati accolti con
qualche perplessità e alcune polemiche, secondo le migliori tradizioni, a partire già dalle prime
elezioni dei nuovi Consiglieri di
Disciplina.
Ma una riforma in materia disciplinare, per quanto perfettibile, non poteva invero essere rinviata ulteriormente, ed i motivi
sono noti a tutti.
Innanzi tutto l’esigenza di uniformare il più possibile l’attività
disciplinare, sia sotto il profilo
del contenuto delle decisioni (e
da qui anche la riforma del Codice Deontologico nella parte in
cui introduce i limiti edittali delle
sanzioni in relazione alle tipologie di illecito), sia soprattutto
sotto il profilo dell’iniziativa disciplinare. Le statistiche hanno
spesso rappresentato che l’attività ordinistica disciplinare non
era territorialmente omogenea,
e questa circostanza comportava
inevitabilmente lo scoprire il fianco ai detrattori della cd. “giustizia
domestica” sempre in agguato
per proporre, di fronte anche alla inoperosità di alcuni Ordini o
alle sollecitazioni dell’Antitrust
(quando non di associazioni sorte
a tutela interessi diffusi), soluzioni radicali e pericolose.
8
Pure forte era l’esigenza di
potenziare la terzietà dell’Organo Giudicante la cui vicinanza
all’incolpato era spesso fonte di
critiche senza che mai nessuno
si ponesse, tuttavia, il problema
inverso della qualità e della reale
equità della decisione che fosse
assunta da soggetti diversi dai
propri Colleghi del Foro.
Il legislatore è dunque intervenuto con una soluzione equilibrata in grado di soddisfare le esigenze di cui sopra, risolvendo peraltro un altro importante aspetto
del “vecchio” procedimento
disciplinare, ovvero la necessità
di evitare, per quanto possibile,
la commistione tra “accusa” ed
Organo Giudicante.
Sotto questo profilo, operativamente assai importante, l’art. 58
del nuovo Ordinamento Forense
stabilisce una netta distinzione
tra il Collegio Giudicante e il
Consigliere che dovrà, nei sei
mesi successivi alla ricezione
dell’esposto (da parte del CdO
territoriale, che resterà il destinatario degli esposti o della comunicazione di una notizia di reato
da parte della locale Procura),
procedere all’istruttoria per poi
proporre al Collegio giudicante,
peraltro già precedentemente individuato, richiesta motivata di
archiviazione o di approvazione
del capo di incolpazione.
Solo la pratica e poi la giurisprudenza del CNF e della Suprema Corte potranno risolvere alcu-
ni problemi di carattere
non solo operativo ma
di garanzie dell’incolpato che potranno sorgere nella dinamica dei
rapporti tra istruttore e
giudicante, facilmente intuibili, ma certo il
meccanismo voluto dal
legislatore era probabilmente l’unico in concreto attuabile ai fini di
cui sopra.
L’influenza dei principi del processo penale
è assai forte nel nuovo
procedimento disciplinare.
La
prescrizione
dell’illecito deontologico è evidentemente
basata su tali principi,
come anche la necessità di una
maggiore attenzione alla formulazione del capo di incolpazione, la disciplina degli avvisi
all’incolpato ed il suo diritto di
difesa, sia durante l’istruttoria
preliminare che durante la fase
dibattimentale, nonché l’espressa previsione riguardante l’utilizzabilità di atti ed in genere le
regole riguardanti lo svolgimento dell’istruttoria dibattimentale.
Del resto, l’art. 59 n.6) lett. n)
espressamente prevede che “per
quanto non specificatamente disciplinato dal presente comma,
si applicano le norme del codice
di procedura penale, se compatibili”.
Ho alcune e personalissime
perplessità sulla “deriva” penalistica del procedimento disciplinare: il termine “deriva” è forse
improprio e troppo forte, e non
me ne vorranno gli amici penalisti. Ma ho come la sensazione,
che spero si rivelerà infondata,
che potranno subire un pregiudizio l’attenzione a quelle sottili e
qualche volta impalpabili caratteristiche personali, relazionali,
comportamentali, culturali che
hanno distinto gli Avvocati, come singoli e come categoria, negli anni passati. Ciò, comunque
e indubbiamente, a vantaggio di
una più certa ed equa persecuzione dei comportamenti ben tipizzati nel nuovo Codice Deontologico. Intendo dire, il rischio
della concentrazione nei CDD,
L’Indicatore Forense
Leonardo Biagi
distinti e distanti dalle realtà e
dalla quotidianità dei Fori locali, sugli illeciti tipizzati potrebbe
andare a discapito di quell’attenzione che i CdO avevano il
diretto e proprio dovere di porre
di fronte a comportamenti dei
singoli collocabili, ad esempio,
in una zona grigia tra il deontolgicamente scorretto e il deontologicamente consentito ma
la cui commissione o meno da
parte degli iscritti poteva e può
caratterizzare il livello di dignità e decoro dell’intera categoria.
Quando magari, e più in generale, questa attenzione, già talvolta
latente, non possa ulteriormente
diminuire con l’alibi della sopravvenuta sostanziale incompetenza, sebbene nel Regolamento
del CNF (ma non nella legge
247/2012) sia espressamente
previsto il potere, nella pratica
sempre oggetto di discussione,
dell’acquisizione anche d’ufficio
(ricavabile, ritengo, dal “comunque” di cui all’art. 11 comma 1)
della notizia di illecito disciplinare da parte del CdO.
Ultima notazione a proposito
del Regolamento riguarda il cervellotico e disagevole, sebbene
ipergarantista, criterio di composizione della sezione giudicante
che, secondo molti, rischia di
rallentare se non addirittura di
paralizzare lo spedito funzionamento dei Consigli di Disciplina.
E’ su questo che si sono per ora
appuntate le maggiori critiche,
ma non resta che iniziare a lavorare e vedere nella pratica cosa
accadrà, seguendo l’esortazione
di Madre Teresa di Calcutta.
di Leonardo Biagi
Jacques Verges: l’avvocato del Terrore
Jacques Verges:
l’avvocato del terrore
Il destino ha voluto che la
figura certamente controversa
di Vergès passasse alla storia
come una delle personificazioni
dell’eterno quesito che viene
posto agli avvocati: ma come si
fa a difendere una persona che
si macchia di crimini orrendi e
che, magari, la si sa anche colpevole?
Jacques Vergès, deceduto a
Ferragosto dello scorso anno,
ha difeso Klaus Barbie, ufficiale
della Gestapo in Francia e detto
anche il boia di Lione, Ilich
Ramirez Sanchez, killer meglio
conosciuto come Lo Sciacallo,
capi dei Khmer Rossi accusati
di genocidio, terroristi internazionali e fedayn palestinesi,
capi di Stato africani. Sulla sua
vita è stato girato un film documentario nel 2007 (“L’avocat
de la terreur”) diretto da Barbet
Schroeder. Accusato talvolta di
violare la morale che impone
all’avvocato difensore degli imputati almeno il rispetto
per la vittima, nelle sue difese
spesso usava strategie dirette
ad abbattere addirittura il principio stesso di legalità che nel
processo penale costituirebbe,
in tale chiave, una sorta di tabù
o di totem di una società conformista e che deve passare in
secondo piano rispetto al primato di valori superiori costituiti, di volta in volta, dall’etica,
dalla storia, dal realismo degli
interessi o dai più alti principi
di umanità, con ciò legittimando anche la difesa dal processo.
Alla domanda di una giornalista, una volta rispose: “Se un
pitbull divora un bambino, lo si
abbatte, perché con l’animale
il dialogo è impossibile. Ma
con un uomo si può e si deve
discutere. Se condanniamo un
crimine in modo assoluto, non
possiamo condannare un uomo
in modo assoluto. E’ questo il
Un’immagine di Jacques Vergès.
paradosso dell’avvocato, che
deve a tutti rispetto”.
Vergès è stato anche un uomo
di cultura, profondo conoscitore
di Montaigne e Voltaire (abitava in un appartamento già abitato da quest’ultimo), e scrittore
di estremo interesse: spesso dimentichiamo quanto sia importante nella formazione e nella
professione di un Avvocato un
bagaglio culturale e di conoscenze ulteriore rispetto alla necessaria preparazione giuridica,
ed è importante ricordarlo soprattutto ai più giovani. Ciò
costituisce un fattore essenziale
per salvaguardare il prestigio e
l’autorevolezza dell’Avvocato,
sia come persona che come
categoria professionale, ma la
lettura soprattutto costituisce
arricchimento, occasione di riflessione e di esperienza quanto
mai importanti per chi, come
gli Avvocati, sono chiamati più
di ogni altro a conoscere le situazioni della vita e i molteplici
aspetti dell’animo umano.
In questo senso si ricorda in
particolare un libro scritto da
Vergès che si intitola “Giustizia
e Letteratura” (edito da Liberilibri) e che così esordisce: “Un
dossier processuale è sempre
il riassunto d’un romanzo, il
tema di una tragedia, la sinopsi
d’un film. Ma questa tragedia,
questo romanzo e questo film
restano allo stato incompiuto:
all’una e agli altri manca un
quinto atto, un epilogo o uno
scioglimento - in breve, un
coronamento, foss’anche di
spine, affinché il dramma sia
completo. Solo gli avvocati
hanno il privilegio d’essere a
un tempo gli spettatori di quel
dramma, confidenti del protagonista, e i coautori, poiché accompagnano l’accusato lungo
l’intero processo e lo aiutano
ad affrontare il quinto atto della
sua tragedia, l’epilogo del suo
romanzo, il finale del suo film.
È a carico dei giudici incarnare
il destino cieco.”
L’autore ripercorre famosi
casi giudiziari della letteratura
o del mito, e quindi inventati,
o casi realmente accaduti, fatti
di cronaca, processi storici o
politici, ed è quindi innanzi tutto interessante per l’immediato
e diretto contenuto culturale e
quindi educativo del libro.
Con Vergès si rilegge, ad esempio, l’Antigone (“...I ver-
L’Indicatore Forense
bali d’udienza hanno qui la
forma d’una tragedia...”) per
mostrare se e come è possibile
la sfida all’Autorità per affrontare un’accusa, usando anche la
tecnica della difesa “di rottura”
contrapponendo i più alti valori
morali (il vincolo fraterno e la
pietas verso i defunti) alla pur
legittima volontà del potere;
viviamo alcuni passaggi del processo a Giovanna d‘Arco, personaggio accostato non a caso
al precedente per la sua intima
tragicità. L’analisi finale del
caso irrisolto di Jack lo Squartatore è psicologicamente arguta
e certo inquietante perché pone
il lettore di fronte ad un terribile
aspetto della sua umanità: la
possibilità di commettere crimini orrendi: “Se di fronte a crimini così eccezionali ci rifiutiamo
di pensare che possano essere
l’opera di uomini uguali a noi è
perché ci sforziamo di dimenticare - poiché tutto ciò disturba il
nostro ego - che il crimine non
è assolutamente un sintomo di
animalità, ma di ominazione”.
Il libro prosegue con Dostoevskij e l’efferato crimine
commesso da Raskonikov, Voltaire ed alcuni processi di fine
‘700, Eschilo, con il tema della
vendetta della parte civile nelle
Eumeneidi, il processo ad Albert Speer, André Gide ed altro
ancora.
Oltre che nel suo valore culturale, il libro è di estremo interesse perché ci svela, con una
luce nuova ed originale, temi
ed aspetti della giustizia che
magari viviamo ed affrontiamo
quotidianamente senza accorgersi tuttavia fino in fondo della
loro importanza, profondità e
complessità, e forse senza mai
rifletterci abbastanza.
Infine, probabilmente non
è un caso se il libro si chiude
con una riflessione sul difficile
compito del Giudicante: “Giudicare non è solamente punire,
e nemmeno prevenire, come
predicano gli umanisti.....Giudicare è anche comprendere.
In una parola, amare; e amare
molto vuol dire amare chi vi
somiglia meno.”
9
di Federico Procchi
Dei delitti e delle pene
Dei delitti e delle pene
(in occasione dei 250 anni dell’ edizione livornese)
1. Muovendosi nel cortile interno del Tribunale Penale di
via Falcone e Borsellino sarà
capitato a molti di scorgere, nei
pressi degli uffici del “casellario
giudiziale”, una lapide - sbiadita dalle intemperie e dal passare dei lustri - cui è affidato il
compito di ricordare che in quei
locali, nel 1764, la tipografia
di Marco Coltellini impresse la
prima edizione della più nota
opera del Marchese Cesare Beccaria, cui fece seguito la pubblicazione - dal 1770 al 1779
- della monumentale Enciclopedia francese. Va all’Unione
delle Camere Penali Italiane ed
alla Camera Penale di Livorno il
merito di aver organizzato, con
il patrocinio del nostro Ordine,
un convengo internazionale che
lo scorso maggio per due giorni
ha ospitato nella città labronica
alcuni tra i più importanti studiosi dell’opera di Beccaria per
celebrare i 250 anni dell’edizione livornese di Dei delitti e delle
pene. Ma quali furono le ragioni
che indussero l’autore meneghino a scegliere di stampare proprio nella nostra città la prima
edizione dell’opera che avrebbe
reso immortale il suo nome?
2. A tal proposito si è soliti far
leva sull’esistenza, in Toscana,
di una “illuminata” legislazione in materia di stampa, tale da
far prediligere gli stampatori del
Granducato per la pubblicazione
di tutte quelle opere che altrove
sarebbero certamente incorse
nella censura ecclesiastica. E, a
ben vedere, la legge sulla stampa del 28 marzo 1743 aveva
davvero ridimensionato drasticamente i poteri dell’Inquisizione, privilegiando il potere
decisionale del revisore laico e
limitando il successivo controllo delle autorità ecclesiastiche
ad una sorta di “certificazione”.
Tale normativa, in vigore per
tutta l’età leopoldina (quanto
meno nei suoi tratti fondamentali), dovette trovare a Livorno
10
Federico Procchi
il mondo quelle idee, così nuove, erano ancora troppo audaci.
un terreno più fertile
rispetto ad altre realtà toscane, anche
perché nella città
labronica l’intento
liberale di Francesco Stefano di proteggere la stampa,
incoraggiando
la
circolazione dei libri
- ivi compresi quelli
editi all’estero - pareva coniugarsi perfettamente con la
vocazione commerciale della città. Le
particolari libertà di
cui Livorno godeva
come “porto franco” furono poste a
profitto da Filippo
Bourbon del Monte
in vari settori, tra cui
quello della stampa, durante il
suo lungo governatorato (17571780). Si tenga inoltre presente
che, a fronte di un irrigidimento
normativo, nel 1763, trovò sempre maggiore affermazione in
Toscana il fenomeno della cd.
“stampa alla macchia” (priva,
cioè, dei riferimenti editoriali o
con indicazioni fasulle), prassi
che nella città labronica trovò
terreno particolarmente fertile.
3. Certo l’officina tipografica
di Coltellini, attiva dal 1763,
non poteva vantare né l’esperienza, né la collaudata organizzazione delle altre due famose ditte (Strambi e Santini)
che incarnavano la tradizione
dell’attività editoriale labronica. Alessandro Verri, inviato
4. L’edizione originale del capolavoro venne così stampata a
Livorno, tra la fine di aprile ed
i primi di luglio del 1764, con
veste tipografica assai modesta:
il frontespizio non recava alcuna
indicazione, né dell’autore, né
del luogo di edizione. Beccaria
optò, tuttavia, per la riproduzione - come epigrafe del libro - di
una citazione tratta dal saggio
quarantacinquesimo, intitolato
De officio iudicis, dei Sermones
fideles ethici, politici, oeconomici, sive interiora rerum di
Bacone:
In rebus quibuscumque difficilioribus non
expectandum, ut quis, simul,
et serat, et metat, sed
praeparatione opus est, ut per
gradus maturescant.
per così dire “in ricognizione”
dal fratello Pietro, gli riferisce
senza indugi di aver trovato un
laboratorio estremamente modesto, che disponeva di “due
soli torchi ed un compositore
guercio”. La tipografia poteva,
tuttavia, giovarsi in quegli anni
della direzione del cognato del
proprietario, Giuseppe Aubert; è
a quest’ultimo che Pietro Verri
affida dapprima la stampa delle
Meditazioni sulla felicità (1763)
e, subito dopo, il manoscritto
dell’opera di Beccaria. Aubert
sottopose il manoscritto di Dei
delitti e delle pene alla lettura
dell’auditore Franceschini, revisore regio, il quale, riconoscendone tutto il valore, raccomandò
di stamparlo sotto altra data. Per
L’Indicatore Forense
Un monito solenne perché
chi accingeva a leggere l’opera
non dimenticasse che “in tutte
le cose, ed in particolar modo
in quelle più difficili, non è lecito aspettarsi di seminare e
mietere contemporaneamente,
ma è necessario che ci sia una
preparazione, affinché esse maturino in modo graduale”. Si
trattava di un’epigrafe in qualche modo “premonitrice” del
destino del libro: la prima tiratura, già esaurita nell’agosto del
1764, avrebbe ceduto il passo a
nuove edizioni, continuamente
accresciute, tradotte e commentate in molteplici lingue, che
hanno consentito al messaggio
di Beccaria di entrare a far parte
del patrimonio morale di uomini
d’ogni nazione e d’ogni cultura.
L’Avvocato penalista e la Deontologia: i rapporti con i testimoni
di Franco Balestrieri
L’Avvocato penalista
e la Deontologia:
i rapporti con i testimoni
La questione che andiamo ad
esaminare è di quelle che tolgono il sonno a noi avvocati, in
particolar modo a quanti di noi
operano in ambito penale.
E’ frequente, infatti, che l’assistito nel narrare al difensore
la propria versione dei fatti per
i quali è indagato, faccia riferimento a soggetti che sono a conoscenza di come la vicenda ha
avuto luogo e chieda il loro contributo in qualità di testimoni nel
celebrando procedimento, nonché stimoli il difensore a parlare
direttamente con loro al fine di
convincerlo della propria estraneità ai fatti addebitatigli.
Ecco che - consapevole di ciò
- il Legislatore Deontologico ha
creato nell’ambito del Codice
una norma tesa a dettare i canoni
di comportamento del difensore
nel rapportarsi con i testimoni.
Il rapporto - o meglio - il contatto con il testimone da parte
dell’Avvocato, è disciplinato
dall’art. 52 del nostro Codice Deontologico, ove al primo
comma si legge “L’avvocato
deve evitare di intrattenersi sulle
circostanze oggetto dei procedimenti con forzature o suggestioni dirette a conseguire deposizioni compiacenti”.
Quanto sopra fa da preambolo
e chiosa allo stesso tempo ad una
norma - il citato art. 52 C.D. che disciplina il modus nel quale
l’avvocato deve esercitare quella
facoltà resagli dal codice di procedura penale al libro V, Titolo VI bis, con il precetto di cui
all’art. 391 bis e ss. in materia di
investigazioni difensive.
Infatti, l’art. 52 C.D. prosegue disciplinando i vari ambiti
dell’attività di indagini difensive, valorizzando da un lato
le capacità giuridiche e morali
del professionista ed allo stesso
tempo dettando regole sia per
l’espletamento di detta attività,
sia per il successivo impiego
delle sue risultanze.
In particolare, il Legislatore
pone all’attenzione del difensore la necessità o l’opportunità di
svolgere dette indagini nell’interesse del proprio assistito, esaltando, quindi i doveri di diligenza e competenza sanciti dagli
artt. 8 e 12 C.D., le modalità e le
forme, nonché tutta una serie di
doveri ai quali è soggetto, come
il vincolo del segreto - anche per
neva all’avvocato di evitare di
intrattenersi con i testimoni, in
quanto tale condotta integrava
violazione dei doveri di dignità e
decoro professionali; in seguito
e poi con la previsione codicistica sopra richiamata della facoltà di investigazioni difensive,
il Legislatore deontologico si è
sentito in dovere di raccogliere
nella norma in parola tutta una
i collaboratori che lo affiancano
o ai quali demanda alcune fasi la conservazione del materiale
raccolto, l’obbligo di informazione nei confronti delle persone
interpellate circa la sua qualità,
della facoltà che hanno di non
rispondere alle domande e della possibilità che possano esser
chiamate davanti al pubblico ministero o al giudice e, in quella
sede, dell’obbligo che avranno
di rispondere anche alle domande del difensore.
La norma in commento deve
essere, necessariamente, letta
alla stregua dell’evoluzione che
ha avuto il ruolo del difensore
nel processo penale, con particolare riferimento alle indagini
difensive.
Prima dell’avvento dell’art. 38
disp. att. cpp. e successivamente dell’art. 190 cpp, il difensore
non poteva svolgere attività di
indagine e, pertanto, il previgente Codice Deontologico impo-
serie di condotte da osservare al
fine di preservare quei principi
fondamentali della professione stessa, data la peculiarità del
mandato cui si vincola il professionista nel caso di specie.
Infatti, il difensore che intende - o meglio che sceglie nell’interesse del proprio assistito - di
rapportarsi con i testimoni, svolgendo investigazioni, deve prestare una particolare attenzione,
trattandosi di attività che, per
loro natura, sono veramente delicate.
Proprio per quanto sopra affermato, attenzione particolare merita il punto 7 dell’art. 52
C.D., laddove si fa espresso divieto al difensore ed ai vari soggetti interessati di corrispondere
compensi o indennità alle persone interpellate, salva la facoltà
di provvedere al rimborso delle
spese documentate.
In riferimento a quanto sopra,
corre l’obbligo di ricordare che
L’Indicatore Forense
Franco Balestrieri
l’art. 377 c.p. intitolato “intralcio
alla giustizia”, disciplina l’ipotesi in cui taluno, offrendo denaro
o altra utilità, induca il testimone,
il perito, il consulente o l’interprete a violare i precetti di cui
agli artt. 371 bis e ter, 372 e 373
del codice penale; trattasi di condotta penalmente rilevante che
assume connotati ancor più gravi
se posta in essere da un avvocato.
Nondimeno, quanto sopra integrerebbe, altresì, la violazione
dell’art. 14 C.D., titolato “dovere di verità”, laddove si dice
espressamente che l’avvocato
non può introdurre intenzionalmente nel processo prove false.
Tale spirito si appalesa leggendo il punto 14 della norma in
commento, laddove recita che il
difensore ha il dovere di rispettare tutte le disposizioni fissate
dalla legge e deve comunque
porre in essere le cautele idonee
ad assicurare la genuinità delle
dichiarazioni; proprio a tal fine,
il difensore dovrà ammonire il
testimone circa le conseguenze
che discendono dal rendere false
dichiarazioni.
Preso atto di ciò, il messaggio
che il Legislatore Deontologico
invia al professionista forense
che si accinge a svolgere indagini difensive e, pertanto, ad entrare in contatto con soggetti che
potranno far parte del celebrando processo, è quello di tener
ben presenti i capisaldi del nostro Codice Deontologico quali
l’art. 5 - probità, dignità e decoro
- l’art. 6 - lealtà e correttezza - il
9 - segretezza e riservatezza, ma,
soprattutto, i canoni indicati nel
Preambolo del nostro Codice,
laddove si dice che l’avvocato
nell’esercizio della sua funzione
deve assicurare la regolarità del
giudizio e del contraddittorio.
11
di Cecilia Gradassi
Essere avvocato
Faccia a faccia: avvocato o avvocata?
Un recente fatto di cronaca che ha avuto al centro la condanna in sede penale di una collega, definita
dalla giornalista “avvocata”, ha scatenato un dibattito sui social network, che ha chiamato in causa
anche l’Accademia della Crusca, su quale sia il termine corretto per definire le donne che svolgono la
professione forense. Escluso pressoché all’unanimità il termine “avvocatessa”, la contesa si accentrata
sull’alternativa “avvocato o avvocata”, che vede strenui difensori sull’uno e sull’altro versante. Ci è
parso dunque interessante mettere a confronto le diverse opinioni anche perché la questione, come ben
emerge dagli interventi che seguono, non è di mero carattere linguistico (M.V.)
Essere avvocato
Rivolgendosi ad un legale donna deve dirsi “Avvocato” o “Avvocata”?
Mi è stato chiesto di mettere
nero su bianco il mio pensiero e le
mie convinzioni in proposito. Probabilmente perché in Consiglio
quando Sandra Albertini ci espone
in materia di “pari opportunità”,
di “quote rosa” o di “legittimo
impedimento” sembro apparire
una conservatrice poco illuminata.
Non è così.
Sono oramai convinta - grazie
anche a Sandra - che le politiche
adottate dalle istituzioni forensi
(CNF e Cassa) negli ultimi anni riguardo alle c.d. quote di genere (o
quote rosa), seppur a mio avviso
non condivisibili, siano NECESSARIE qualora un siffatto meccanismo venga inteso come una opportunità che tenda a riequilibrare
la giusta proporzione negli organi
di rappresentanza.
Non devono essere, invece, intese come diritto per le donne togate a vedersi riconosciuta una “riserva di genere”. Al solo pensiero
- confesso - mi ribolle il sangue
perché ritengo che, nelle elezioni
alle cariche istituzionali o politiche dell’avvocatura, non si possa
imporre una donna in quanto tale
e a prescindere dalle decisioni che
scaturiscano dalle urne. Democraticamente, é l’elettorato che deve
decidere in base alle capacità, alle
propensioni e ai meriti della persona (sia essa donna o uomo). Ma
prima la persona (donna o uomo
che sia) deve proporsi, deve candidarsi. E’ una scelta il candidarsi,
il proporsi per - se del caso - ricoprire una carica o una funzione istituzionale nell’Avvocatura.
Allo stesso modo quella di essere
Avvocato è una scelta libera e personale dettata da molteplici fattori
12
(passionali, sociali, culturali, economici, etc.). Al giorno d’oggi,
non può esserci spazio a discriminazioni in una siffatta scelta.
Discriminate nella loro scelta (a
tacer d’altro!) furono Lidia Poet
e Teresa Labriola in un’epoca in
cui l’accesso all’Avvocatura alle
donne era totalmente preclusa:
vigendo peraltro l’autorizzazione maritale ex codice civile del
1865, le donne erano destinate ed
idonee solo ed esclusivamente ai
“familiari uffici e a tutti quegli uffici sociali i quali abbiano qualche
affinità con questi e che non li perturbino” in quanto “la donna avvocato avrebbe finito con l’abdicare alle proprie naturali funzioni
materne e sociali, con grave pregiudizio per l’interesse superiore
della famiglia e, di riflesso, della
società intera” (in GABBA C., Le
donne non avvocate, Pisa 1884).
Adesso non è più così.
Adesso l’Avvocatura è, fortunatamente, conquistata dalle donne
che rappresentano il 50% degli
iscritti (a Livorno, considerando
anche i praticanti senza patrocinio,
il numero delle donne è peraltro
superiore a quello degli uomini:
581 donne contro 528 uomini).
Ciò posto, perché solamente
adesso talune donne Avvocato
sentono il bisogno di farsi chiamare “Avvocata”?
Non può essere un problema
meramente linguistico (peraltro,
la parola Avvocata così come sindaca o ministra è piuttosto cacofonica).
Per quanto ci consta, la rivendicazione di femminilizzare le
qualifiche o più propriamente le
professionalità sembra nascere
dai cambiamenti sociali culturali
e politici intervenuti negli ultimi
decenni.
Non può, quindi, essere una
questione di corretto uso della
lingua italiana (Accademia della
Crusca docet) ma si tratta di problematica che va al di là di una
connotazione (maschile e femminile) pura e semplice e che,
inevitabilmente, ricade in ambito
dei rapporti tra uomini e donne in
generale e, nella specie, nel rapporto che le donne hanno con gli
uomini.
Gli avvenimenti occorsi sembrano far ritenere che quando i
numeri (delle donne in Avvocatura così come in politica, nelle
istituzioni o nelle altre professioni
in passato prerogativa del sesso
maschile) sono andati in pareggio
sia iniziato lo “scontro”: Uomini
contro Donne, Avvocato contro
Avvocata, come se quella “A” al
termine di una parola possa rivendicare una identità, un valore e
attribuisse dignità alla donna che
svolge la professione.
Sebbene rispetti profondamente
la collega che preferisce sentirsi
chiamare “Avvocata”, non credo
che sia assolutamente così che
stanno le cose.
E, comunque, non ho MAI sentito dentro la necessità di andare a
qualificare al femminile il ruolo o
la funzione (oppure la carica) che
la donna si trova, di volta in volta,
a svolgere (o ricoprire).
Ho da sempre ritenuto che l’attività che ci troviamo a svolgere
fosse connotata dalla neutralità
rispetto al sesso di chi la esercita.
Ritengo che non debba avere
alcuna rilevanza se Tizio è difeso
da un uomo o da una donna ma
sarà, invece, importante che Tizio
sia assistito al meglio, che colui o
colei al quale Tizio si rivolge sia
un professionista preparato, com-
L’Indicatore Forense
Cecilia Gradassi
petente e deontologicamente corretto. Insomma, con il diritto ad
essere difesi la “O” ovvero la “A”
finale niente hanno a che fare.
Ma v’è di più.
Ho, altresì, ritenuto che questa
spasmodica corsa a femminilizzare le professioni - peraltro tanto
“politicaly correct” e in voga nella
stampa locale e nazionale - sia oltremodo sminuente per le donne.
Fin dall’inizio della pratica
forense ho sentito di voler essere AVVOCATO, lo volevo con
tutta me stessa perché sentivo,
nel profondo, che era comunque
la mia strada. Professionalmente
parlando, essere Avvocato (e non
fare l’Avvocato) era il mio sogno
e rappresenta tutt’oggi un onore
ed un privilegio svolgere questa
professione. Riuscire ad essere
un Avvocato comporta sacrificio,
in ogni senso.
E, quindi, quando ti imbatti nel
primo cafone di turno che ti si rivolge appellandoti “Signorina”,
beh, quegli anni trascorsi a studiare con l’ansia dell’esame di Stato
che ti toglie la fame e i week-end
spesi a finire un atto che scade ti si
ripresentano davanti con una violenza inaudita e la tua dignità di
donna di fa esclamare seccamente:
“Avvocato, prego!”.
di Aurora Matteucci
Avvocata: un “ambiguo malanno”?
Avvocata:
un “ambiguo malanno”?
Contro l’in-differenza di genere. - Per la necessità del linguaggio sessuato.
Era il 1883. Lidia Pöet, tentò,
prima donna in Italia, a varcare le soglie dell’avvocatura. La
sua iscrizione venne impugnata
dal pm e annullata dalla Corte
di appello di Torino (App. Torino, 11/11/1883). Le pagine
di quella sentenza, oggi, sono
quanto di-più distante si possa
immaginare dal rinnovato senso comune. Non si discute certo
più di come (e se) legittimare le
donne all’esercizio della professione forense. Agli occhi - maschili e femminili - moderni, le
parole dei giudici torinesi suonano come l’eco lontana di tempi andati, né più né meno che
grotteschi esercizi ermeneutici
funzionali al mantenimento di
una organizzazione sociale patriarcale. L’esclusione di Lidia
e delle donne tutte dall’esercizio
della professione forense poggiava, allora, su queste bieche
ragioni: la pudicizia sexui per
la quale era sconveniente che il
“gentil sesso” prendesse parte
allo strepito dei pubblici giudizi in cui si discutono argomenti
che potrebbero imbarazzare le
“donne oneste”; la necessità di
rispettare i più elementari canoni estetici violati dall’uso della
toga su abbigliamenti femminili
e l’imparzialità dei giudici che
ben avrebbero potuto far pendere l’ago della bilancia in favore
di una “avvocatessa leggiadra”.
La pretesa delle donne era, dunque, considerata arrogante: esse
non debbono pretendere di divenire eguali agli uomini “anziché
[preferire di rimanerne] le compagne, siccome la Provvidenza
le ha destinate” (lo ricorda anche G. Alpa, Prefazione al testo
“Donne e diritti. Dalla sentenza
Mortara del 1906 alla prima avvocata italiana”, ed. Il Mulino,
2005, 7-33).
Vi era, tuttavia, anche una ra-
gione “ formale” (se possiamo
arrivare a definire sostanziali
quelle descritte prima) a favore
dell’esclusione: la legge professionale, scrivono i giudici torinesi, non parla mai di avvocate.
Si rivolge solo agli avvocati,
dunque, agli uomini.
La differenza di genere veniva
quindi coniugata in negativo: le
avvocate erano escluse perché
la legge professionale era indirizzata ai soli avvocati.
Mi si potrebbe dire: vedi, oggi
le cose sono cambiate siamo tutti avvocati, tutti godiamo degli
stessi diritti, tutti esercitiamo la
stessa funzione. Noi avvocatidonne possiamo essere iscritte
all’albo. E ci mancherebbe che
non fosse così..
Ma la questione deve assumere, secondo me, toni e dimensioni diverse.
Proverò, allora, a rendere merito all’occasione che Marco
Vitalizi mi ha dato nel prendere
posizione su questa questione
a me davvero cara da anni, da
molto prima che cominciassi
la meravigliosa avventura della
professione forense ringraziando la collega Mariapia Lessi alla
quale devo non solo di aver alimentato, coltivato e instradato
questa sensibilità (che ha contribuito a forgiare insieme ad
altre donne del centro donna di
Livorno, oggi Evelina De Magistris, frequentato negli anni
della mia adolescenza, quando
il formante lessicale neutro sembrava l’unico disponibile nonostante la nostra lingua possieda
oggi e possedesse anche allora
multiformi e variegate declinazioni) ma anche i suggerimenti
e le letture che mi hanno aiutata
a dare forma ad un pensiero che
dentro di me (e anche fuori da
me) si va costruendo da anni.
Lo faccio partendo dalle obiezioni che, da quando mi sono
affacciata a questa professione
tentando, con somma fatica,
anche personale, di suggerire
nei luoghi istituzionali e negli
scritti difensivi, una declinazione di genere e di farmi chiamare
avvocata anziché avvocato, mi
vengono mosse soprattutto dalle
colleghe: il termine avvocata è
un neologismo ed è cacofonico.
L’altro: ma non credi che sia
sminuente della nostra funzione
etichettarci come avvocate? Noi
donne siamo uguali agli uomini.
Io non esercito una professione
diversa e quindi ho diritto di
essere chiamata avvocato. Farmi chiamare avvocata sarebbe
come disinvestire sull’obiettivo della parità. Ultimamente
mi è stato anche rimproverato
l’anacronismo della questione:
insomma, stiamo sempre qui a
battagliare di parità? Il femminismo è fenomeno da archiviare
nei gloriosi anni ’70. Se siamo
ancora a questo punto, vuol dire
che qualcosa non va. Io piuttosto
direi: se siamo sempre qui vuol
dire che qualcosa non è passato.
Non credo che queste ragioni
siano valide. Non certo quella
del neologismo cacofonico, né
tanto meno quella della pretesa
deminutio della nostra funzione che presuppone un’idea, che
non condivido, della presunta
neutralità dell’uso maschile del
termine avvocato, valido per
tutti.
Provo a spiegarmi cominciando con un esempio.
Entriamo nello studio legale Rossi. Squilla il telefono.
La segretaria: “Studio legale
Rossi, buonasera”. Il sig. Bianchi: “Buonasera, sono il Sig.
Bianchi, cerco l’avvocato Rossi”. Segretaria: “ Mi rincresce,
l’avvocato Rossi non c’è. E’ ad
una riunione a scuola del figlio
doveva parlare con il professore
di matematica. Ma sarà qui tra
un’ora. Appena rientrato la faccio richiamare”.-Sig. Bianchi:
“No, grazie, non lo disturbi, non
è urgente, provo io a contattar-
L’Indicatore Forense
Aurora Matteucci
lo domani. Intanto mi faccia la
cortesia di anticipargli-che ho
contattato l’Ingegnere Gialli e
che si è reso disponibile ad essere il-nostro consulente di parte”.
L’avvocato Rossi è una donna o e’ un uomo? Non è dato
saperlo. Il professore di matematica è senz’altro un uomo.
Altrimenti avremmo usato il termine professoressa,-da anni non
fa più scandalo. La segretaria è
senz’altro una donna. Se fosse
stata segretario generale del Comune di Livorno, chissà, forse
l’avremmo chiamata “il segretario generale, dott.ssa Verdi”. E
L’ingegnere Gialli? Forse uomo,
forse donna.
Siamo davvero convinte/i che
la ragione che giace al fondo di
questa resistenza sia solo grammaticale? Se così fosse, staremmo consumando un errore perenne. A dircelo è l’Accademia
della Crusca, ormai impegnata
da tempo sul fronte del corretto uso della lingua italiana. Per
la Crusca il termine corretto è
avvocata. Altro che neologismo
cacofonico! Non è un neologismo. Il termine deriva dal latino ad-vocata. Ad essere nuovo,
semmai, è il suo uso corretto.
Se secondo le nostre comuni
regole grammaticali è sbagliato (oltre che cacofonico) usare
l’articolo maschile per definire
alcune professioni o situazioni
(tradizionalmente appannaggio
delle donne) come il maestra, o
il casalinga,-perché mai dobbiamo avallare questa incoerenza
lessicale, infrangendo regole
consolidate, quando ad essere in
gioco sono professioni diverse
ed inorridire, all’opposto, per
13
di Aurora Matteucci
Avvocata: un “ambiguo malanno”?
la corretta declinazione? Perché saltare sulla sedia quando
correttamente diciamo la ministra, la sindaca, la deputata,
la architetta, la ingegnera, la
avvocata? Ci si è chiesti perché, tanto per fare un esempio,
diciamo l’infermiera e non l’
ingegnera. Le due parole sono,
linguisticamente, sovrapponibili, stessa desinenza. Non sono
sovrapponibili le professioni
che descrivono. Se il termine
ingegnera rappresenta un’offesa per le orecchie di qualcuno,
forse si annida, dietro questa
ritrosìa, un pregiudizio. Non è
la forma ad esser sotto accusa,
ma il suo significato. La forma
è in questo caso sostanza: perché
linguaggio veicola, lo sappiamo
bene, concetti, opzioni politiche,
funzioni. Veicola convinzioni,
trasformazioni sociali, relazionali. Il nostro poi si è mostrato negli
ultimi tempi anche estremamente flessibile all’accoglimento di
termini tecnici nuovi che hanno
irrobustito, piaccia o non piaccia,
il nostro vocabolario (taggare,
twittare, postare…). Ma l’antipatia dura poco. Eppure, quando
ad essere correttamente declinate
sono proprio le professioni che
con fatica e a suon di rivoluzioni culturali abbiamo preteso che
ci appartenessero il nostro linguaggio tende ancora a mortificare la sostanza. La professione
di infermiera ormai si nutre di
un riconoscimento sociale collaudato. Lo stesso non può dirsi
per la professione di ingegnera.
Né per quella di avvocata, nonostante i numeri oggi rivelino il
contrario. Ma, evidentemente la
forza di questa conquista sociale
che dobbiamo a donne come Lidia Pöet o Elisa Comani (prima
avvocata italiana), ancora stenta
a consolidarsi. Il numero non è
abbastanza. Ci vuole la consapevolezza della nostra identità
di genere, anche sul piano professionale. D’altra parte quando
analizziamo la nostra presenza
nell’avvocatura sulla base dei
tre parametri del ruolo, della
rappresentanza, del reddito gli
alti numeri della iscrizione agli
albi - che agitiamo, giustamente,
come una conquista- sono destinati ad evaporare come i fumi di
14
Lidia Poët
La prima donna ad entrare nell’Ordine degli Avvocati in Italia
una ciminiera, a non fotografare
correttamente il reale livello di
disparità che ancora connota la
nostra dimensione professionale.
Pensiamo all’influenza che esercitano anche oggi, sulla scelta del
settore di elezione,-considerazioni che poco o nulla hanno a che
fare con le nostre reali ambizioni
professionali: ritmi pesanti di lavoro inconciliabili con la famiglia, incapacità di adeguarsi a parametri maschili. In un saggio di
Ilaria Li Vigni, collega penalista
milanese, “Avvocate, sviluppo e
affermazione di una professione”
(ed. F. Angeli, 2013) si ricorda
come il 70 % delle avvocate penaliste dichiara di lavorare 8 ore
al giorno e purtroppo di chiedere
la cancellazione dall’albo dopo
solo cinque anni dall’ottenimento del titolo. Solo 15 donne
presiedono, in Italia, i Consigli
dell’ordine (secondo dati risalenti al 2012 e diffusi dal Cnf).Quanto al reddito, sempre secondo i dati riportati da Ilaria Li Vigni, una avvocata percepisce una
retribuzione pari al 54 % in meno
dei colleghi uomini.
Se la questione, infatti, fosse
solo, per così dire, grammaticale
sarebbe presto liquidata, grazie
all’autorevole posizione dell’Accademia della Crusca. Ma so
bene che l’argomento grammaticale non soddisfa le ragioni
della mia scelta, né consente di
superare l’altra obiezione. Io
non desidero la declinazione al
femminile solo perché mi piace
usare correttamente l’italiano.
E chi grida allo scandalo della cacofonia non si accontenta
dell’eccezione grammaticale sol
perché “suona meglio” il termine
avvocato. In realtà lo considera
un neutro, in- differentemente
utilizzabile per uomini e donne.
Noi professioniste/i del diritto
ben sappiamo che l’interpretazione letterale di una norma non
sempre è in grado di dipanare
l’opacità di significato che esso
conserva, ahimé, oggi sempre
meno perspicuo. Ci dobbiamo
affidare, a volte, anche alle rationes legis, dunque, alle motivazioni politiche che sottendono
L’Indicatore Forense
l’introduzione di una regola, di
un istituto, di un articolo, di una
legge etc.
Guardando al fondo della
questione, allora, a me pare che
le ragioni politiche siano quelle
più robuste ad essere superate,
scalfite, scansate, perché paiono avvinte a filo doppio ad un
equivoco che si è andato consolidando negli anni: quello della
confusione tra parità e omologazione al modello maschile. Essere uguali agli uomini, usare il
loro linguaggio, i loro codici etici
e quelli grammaticali costituisce
per qualcuna/o il raggiungimento
dell’obiettivo della parità. Ciò diviene tanto più evidente quando
noi donne ci accingiamo a praticare professioni tradizionalmente maschili.
Come scrive Cecilia Robustelli, docente di linguistica italiana all’Università di Modena e
Reggio Emilia, nel suo “L’uso
del genere femminile nell’italiano contemporaneo”, l’utilizzo
di forme maschili per descrivere una professione esercitata da
una donna esprime una visione
androcentrica della società.-Riequilibrare un periodo di discriminazione significa rendere visibili le donne e questo deve inevitabilmente partire dalla scelta
per un linguaggio che restituisca
valore alla nostra aspirazione
professionale attraverso il riconoscimento della nostra identità.
Noi non siamo uguali agli uomini pur indossando la stessa toga
con pari dignità e pur godendo o
dovendo godere degli stessi diritti e traguardi: nominarci correttamente significa riconoscere
la nostra differenza di genere
senza nulla togliere alla nostra
funzione. Diversamente “ annegheremo la nostra identità nella[loro], […] cancelleremmo la
visione che la nostra esperienza
della società ci ha aiutate a intravedere (V. Woolf,-Le tre ghinee,
Milano, 1998, 143-144).
Io sono donna, sono avvocata,
felice di esserlo. - E ad Euripide, in coro, dovremmo dire che
no, non siamo un ambiguo malanno. I tempi sono più che maturi perché si possa smettere di
sentirci ridicole se ci chiamiamo
con il nostro nome.
di Arrigo Melani
Angelo Froglia, genio e sregolatezza
Angelo Froglia, genio e sregolatezza
Faccia da putto intelligente, aveva i capelli a caschetto
come un artista rinascimentale
Angelo Froglia nacque a Livorno il 23 marzo 1955, da Bruno - portuale - e Argia Guerrieri,
in via dell’Ufficio dei Grani, e
venne a mancare l’11 gennaio
1997, un venerdì, alle 7 e 15 del
mattino, in Roma, all’età di 41
anni, 9 mesi e pochi giorni. E’
passato alla storia labronica per
l’episodio delle “teste false di
Modigliani”, ripescate nei Fossi
insieme a quelle dei tre studenti,
Pietro Luridiana, Pierfrancesco
Ferrucci e Michele Guarducci,
ma il nostro desiderio è di illustrare la sua persona (difficile,
difficilissima), e la sua figura
per altri motivi, avendo avuto
la ventura di conoscerlo fin da
quand’era ancora ragazzo e di
aver conversato telefonicamente
con lui quasi tutti i giorni di quel
fatale gennaio 1997.
Perché scrivere di Angelo Froglia? Innanzitutto perché, nella
galleria dei livornesi raccontati
nella “History”, è da collocare
tra i principali e non solo per il
suo genio e la sua sregolatezza
ma perché vivere quaranta anni
o poco più con l’intensità con la
quale spese i suoi giorni è di pochi, è fuori dagli schemi giornalieri, è illustrare l’anti tran-tran
quotidiano, lui che fu pittore in
antitesi ai colleghi, anche i più
celebri, che vissero o vivono
ancora in una nicchia serena e
quasi felice, con tanto genio ma
senza sregolatezza.
Ci sovviene uno dei più celebrati post-macchiaioli, Giovanni
Lomi, per fortuna di chi scrive
dirimpettaio di abitazione: usciva la mattina a sole inoltrato,
con il cavalletto e la cassetta
dei colori e tornava per l’ora di
pranzo - dal lungomare o dal
porto - con le piccole tele dipinte, sereno, sorridente. Dicevo
al suo figlio Ghigo ed al nipote
Massimo - pure odierno dirimpettaio - è il più bel mestiere del
mondo, libero, senza padroni,
senza orario. Dirà invece Angelo Froglia: “Dipingere è un
mestiere da puttane, è ingoiare
il sesso di Dio senza dare al-
cunché in cambio... dipingere
è bello, bello come fare del sesso, bello come sentire i rumori
ch’escano dal seno sudato e
compresso della femmina che
s’accende nell’amplesso”.
La faccia da putto intellingente
Da via dell’Ufficio dei Grani
la famiglia Froglia si trasferisce
in via della Maddalena. Dopo il
liceo artistico, Angelo frequenta l’Accademia di Belle Arti di
Firenze, ma a quindici anni di
età, cioè nel 1970, partecipa ad
una Mostra-Concorso a Piombino con un quadro-denuncia nei
confronti della “prigionia degli
animali” e titola l’opera “Una
scimmia in gabbia”: vincerà il
primo premio.
L’Accademia di Belle Arti
era diretta da Afro Basaldella
che veniva da New York ed era
considerato l’erede legittimo di
Picasso perché sapeva intrecciare il cubismo con l’impressionismo americano. Sarà un
incontro fondamentale per Angelo nel nel 1971 apre a Livorno
il primo studio (se il ricordo di
Roberto Pisani - detto l’Etrusco
- altra figura nel mondo pittorico livornese, è preciso, si tratta
di un fondo della via S. Carlo,
nel tratto da via Verdi a Borgo
Cappuccini), con importanti
frequentazioni: Antonio Favilla, compositore jazz, Maurizio
Beltramme, Ubaldo Bronchi,
Massimo Carboni - diplomato
ragioniere, laureato in Lettere -,
Cinzia Contini, Tiziano Gorini,
1984: Angelo Froglia in conferenza stampa nello studio degli avvocati
Arrigo, Riccardo e Andrea Melani illustra le sue “teste di Modì”.
(foto Renzo Del Secco).
L’Indicatore Forense
Arrigo Melani
Gualtiero Vannucci che costituirono “Il gruppo del portone”
che pubblica il giornale “La
scimmia sotto il sole”, ove, nel
primo numero, Froglia scrive un
articolo su Dada.
E’ sempre Roberto Pisani che
ci narra come da quel gruppo
derivassero tele e disegni che
poi venivano venduti all’estero.
Di Angelo Froglia scrisse Mario Aiello sul settimanale Panorama: “Avrà un figlio concepito
a 18 anni e poi gli capiterà di
diventare nonno a 36. Aveva i
capelli a caschetto come un artista rinascimentale, la faccia da
putto intelligente e lo sguardo
da livornese molto Modì. Figlio
della contestazione sessantottesca e ci ha creduto davvero rimanendone impigliato per sempre e per questo va rispettato”.
La dura realtà carceraria
Nel maggio del 1997 (pag.
157 della Retrospettiva ‘73-’96,
Edit. Graphis Arte) si legge: “...
Nel 1977 conosce Marco Solimano e si inserisce nelle Brigate
Rosse. Seguirà l’assalto alla Cisnal di Livorno - 1978 - cui non
partecipa personalmente ma al
processo, per coerenza ideologica, non si discolpa sicché scontò
un periodo di carcere fino all’81
e quando rientra a Livorno lascia l’organizzazione come
dissociato e riapre il “capitolo
droga”, nuova dura realtà carceraria: Novara, Cuneo, Fossombrone, nella spirale della droga
e in quella dell’aids.
E scrive, pittura, legge, studia.
Il critico d’arte Duccio Trombadori precisa: «...figlio di un tem-
15
di Arrigo Melani
Angelo Froglia, genio e sregolatezza
po difficile e ingrato Angelo F.
è passato attraverso i momenti
più acuti dell’esperienza vissuta
dalla sua generazione... L’arte
non ama la ripetizione, vive di un
solo esempio e può consumarsi
tutta all’istante. Di questa pasta
dovevano essere nutriti i pensieri
di Froglia quando, nel 1984, con
l’aiuto di una telecamera si mise
a parodiare Amedeo Modigliani
e gettò nel canale di Livorno due
teste scolpite in granito dell’Elba
e in pietra serena...; l’intellettuale Froglia e il suo programma
“maledetto” che medita su Schopenbauer e Nietesche, cita Picasso, Duchamp e l’antropologo
Levy-Strauss; Froglia che indica
la via di una “verità interna” ai
suoi dipinti con il riferimentoalle virtù del “nero” quale colore
predominante, totale assenza di
luce e perciò «negazione assoluta”».
E’ proprio nel 1984 che Angelo si reca in Francia per esaminare i disegni di Picasso esposti
all’Hotel Salè e comincerà a
lavorare su quei disegni, a Cannes.
Si era trovato in carcere durante il rapimento e l’uccisione
di Aldo Moro e lui continuava
a prendere appunti e dipingeva
quadri usando colori rudimentali, impastando frammenti di
intonaco con gocce di saliva e
nel contempo diventava amico
di Renato Curcio “con cui forse l’univa il senso pudico di una
responsabilità personale che
non cerca clamore nè indulgenza” (così scriveva il già citato
Ajello su Panorama).
Si dichiara Caronte,
il traghettatare dei malati di
Aids
Sono 400 le opere di Angelo Froglia realizzate soprattutto negli ultimi 5-6 anni di vita
quando affermava “sono venti
anni che dipingo ma mi par di
cominciare domani e va bene
sia così”. Ha scritto Nicola Micieli in “Mediterraneo ed altre
storie”: “... Angelo Froglia ha
lavorato con una intensità rapinosa quasi preso da una sorta di eroico furor creativo o di
invasamento, diremmo in chiave
dionisiaca”.
Livorno gli è stretta: si reca
in Francia per conoscere Jean
Modigliani, va a Stoccarda e
16
Angelo Froglia. “Figure” 1992 olio su tela 100x150
poi a Barcellona ove esagera
con la droga e torna in Italia in
fin di vita, ricoverato in coma
all’Ospedale Civile di viale Alfieri ma supera la crisi anche se
scopre di essere sieropositivo;
tornato, relativamente, in salute,
si dedica intensamente al lavoro
soggiornando a Castiglioncello
e sono del 1988 le Mostre Internazionali con la Galleria Rotini.
Nel 1990 entra nella Comunità di Don Pierino Gelmini e si
dichiara “Caronte” per traghettare i malati di Aids allo “sbarco
supremo” ed insegna loro a dipingere icone sacre, alla maniera dei russi.
Negli anni successivi si sposta a Tavarnelle e scrive: “...Lì
ho vissuto con estrema soddisfazione la contraddizione forte
dell’essere metropolitano fino
al midollo e vivere, tra il verde
acuto del Chianti, la serenità
malinconica, crepuscolare, indotta dai cirri che si rincorrono
sospinti da una brezza senz’afa
che in città non si conosce”.
E’ di questi anni la sua frequentazione del mio studio legale per
reati di droga, ove viene sempre
con bellissime donne e sempre
diverse, tutte perdutamente innamorate. Angelo è calmo, educato, gentile, alza le spalle a chi
lo definisce “il pittore maledetto”, mi dà del “lei” e ce ne vorrà
per il “tu”, anche in lettere dal
carcere ove mi reco per colloqui
sempre sereni e mai banali. Ha
improvvisi scatti quando legge
certe motivazioni di sentenze ma
sempre con grande dignità, come
erano gli scatti micidiali dello zio
Nedo Froglia, un campione del
ciclismo labronico.
L’incontro ed il matrimonio
con Patrizia
L’ultima avventura geografica
è Montalto di Castro ove arriverà a dimensioni impensabili. Là
scopre il ristorante giapponese
perché gli piace l’idea dei tavolini bassi, del pesce crudo e delle
salsine anche se, all’alba, si cucina trippa e uova al tegamino.
E proprio a Montalto conosce
Patrizia Ciferri, una attraente
ragazza che lavorava come organizzatrice e si sposano nella
vecchia sede del Partito Comunista dove andava a parlare Di
Vittorio, rimessa a nuovo dai
vecchi militanti. Compiuti gli
anni, nel 1996, torna a Roma,
è ormai conteso dai galleristi.
E’ un personaggio: Maurice Bignani, uno dei più noti rappresentanti delle B.R., scriverà a
Patrizia: “Ho conosciuto Angelo nel carcere di Nuoro, sapeva
usare con lucidità la gentilezza
quando tutti erano con il sangue
negli occhi, sapeva nasconde-
L’Indicatore Forense
re la provocazione intellettuale
quando tutti erano in uno stato
di abulia, aveva la sublime arte
del prestigiatore e dell’artista”.
Non si passa quindi alla storia
un figlio di Livorno che sorrideva a chi affermava che se le
teste ripescate fossero state vere
avrebbero avuto il valore di 14
miliardi di lire ciascuna.
Ho, nel mio studio, un autoritratto giovanile che Angelo mi
regalò spontaneamente dopo il
primo incontro. La vedova Patrizia mi scrisse una lettera il
7 luglio del 1997: “Carissimo
Avvocato, la ringrazio per i suoi
consigli, la sua grande disponibilità ma soprattutto per il suo
profondo rispetto nei confronti
di Angelo. Questo la rende speciale, del resto quando Angelo
mi parlava di lei lo faceva sempre con grande affetto”.
L’anno 1955
Angelo era nato nel 1955
quando Pier Paolo Pasolini pubblicò Ragazzi di vita, preludio di
Vita violenta, ed uscì il film più
famoso di James Dean, Gioventù bruciata.
Un anno che era pertanto, irrimediabilmente, nel suo destino.
Dal libro
di Arrigo Melani, Dicembre 2010,
Ed. Il Quadrifoglio - Livorno
La legge di interpretazione autentica come espediente per far cassa
di Roberto Cartei
La legge di interpretazione autentica
come espediente per far cassa
Da tempo la Corte Europea per
i Diritti dell’Uomo punta i suoi
riflettori su una anomalia che si
manifesta con una certa frequenza
nel nostro ordinamento. Si tratta
dell’uso distorto della legge di
interpretazione autentica cui non
infrequentemente il legislatore
nazionale fa ricorso perseguendo
obiettivi che niente hanno a che
vedere con l’esigenza di interpretare una norma dal significato
incerto.
Per meglio comprendere il fenomeno di cui si tratta appare
opportuno accennare anzitutto al
caso paradigmatico che costituisce oggetto della più recente tra le
pronunce della Corte Europea in
materia (sentenza sul caso Azienda Agricola Silverfunghi c. Italia
del 24.6.2014).
Nel caso preso in esame dalla
Corte, un’impresa Agricola aveva convenuto in giudizio l’Inps al
fine di ottenere la restituzione di
somme che, a suo avviso, l’istituto
previdenziale aveva indebitamente riscosso. In particolare, secondo
la prospettazione dell’Impresa, il
diritto alla restituzione si fondava
sul fatto che l’Inps non aveva mai
voluto riconoscere la cumulabilità
di due benefici – fiscalizzazione e
sgravi contributivi – previsti dalla normativa speciale a favore di
aziende agricole operanti in zone
svantaggiate; benefici che invece,
a suo avviso, dovevano ritenersi cumulabili. Il Tribunale adito
accertava la fondatezza della domanda, condannando l’Inps alla
restituzione delle somme, e la sentenza di primo grado veniva confermata dalla Corte di Appello.
Occorre precisare che l’iniziativa giudiziale assunta dall’Azienda Agricola era stata preceduta
da numerose cause promosse da
altre imprese del medesimo settore, il cui diritto alla restituzione
delle somme era stato accertato da
Tribunali e Corti di Appello con
decine e decine di sentenze (alla
fine saranno oltre 150) le quali,
senza eccezione alcuna, avevano
verificato la fondatezza di tale
diritto sulla scorta dell’interpretazione uniforme di norme speciali ritenute del tutto univoche e
insuscettibili di dar luogo a dubbi
interpretativi. La stessa Corte di
Cassazione aveva confermato,
con due sentenze, la correttezza
dell’operato dei giudici di merito.
Senonchè l’incidenza del contenzioso sulle non floride casse
dell’Inps induceva il Governo,
preoccupato per le condizioni
finanziarie dell’istituto previdenziale, a correre ai ripari. Come?
Per mezzo di un Decreto Legge con cui si dichiarava che alla
norma sulla quale si fondava il
diritto delle imprese alla restituzione delle somme erroneamente
versate, doveva essere data un’interpretazione opposta a quella che
era stata data fino a quel momento
da ogni giudice di merito adito e,
come si è detto, dalla stessa Corte
di Cassazione, cosicchè risultasse
esclusa la cumulabilità dei due benefici e conseguentemente destinata al rigetto ogni domanda proposta contro l’Istituto. Il Decreto
del Governo veniva poi convertito
in legge senza neppure un dibattito parlamentare, dal momento che
sulla legge di conversione il Governo poneva la fiducia.
Ovviamente la legge così introdotta produceva subito l’effetto sperato: tutte le sentenze che
avevano accertato fino a quel
momento la cumulabilità dei due
benefici e il conseguente diritto
delle imprese alla restituzione delle somme indebitamente pagate
venivano completamente ribaltate
nelle successive fasi processuali,
con il conseguente rigetto di ogni
domanda. E così l’Inps risultava
salvo; ma non lo Stato italiano,
perché molte delle imprese creditrici, dopo il giudizio di Cassazione, ricorrevano alla Corte Europea
per i Diritti dell’Uomo.
Vista dall’osservatorio della
Corte Europea, l’operazione attraverso la quale lo Stato-legislatore,
in funzione delle esigenze segnalate dallo Stato-amministrazione,
approva una legge che viene definita di interpretazione autentica
ma che ha lo scopo, non già di
eliminare dubbi interpretativi, che
ogni sentenza ha in precedenza
escluso, sibbene di introdurre una
nuova disposizione definita di interpretazione autentica soltanto
per renderla retroattiva, si tradu-
ce in un’inammissibile ingerenza
del potere legislativo sull’Amministrazione della Giustizia, dal
momento che a questo punto al
Giudice non rimane altra scelta
che applicare la nuova legge con
effetti retroattivi, ancorchè palesemente innovativa e manifestamente priva dei requisiti della norma propriamente interpretativa.
Il fenomeno appare decisamente incompatibile con lo stato di diritto. La stessa Corte di Cassazione non ha mancato di segnalare, in
particolar modo con riferimento
alla materia tributaria, la gravità
dell’anomalia e di stigmatizzare il
fenomeno dello Stato-legislatore
che viene in soccorso dello Statoamministrazione. Al riguardo,
osservano le stesse Sezioni Unite
(con la sentenza n. 25506/2006):
“in materia fiscale gli interventi
interpretativi sono sempre pro fisco, in quanto dettati da ragioni
di cassa (nell’intento di realizzare
maggiori entrate). Non sono ispirati, quindi alla esigenza di realizzare la certezza del diritto, ma
soltanto a garantire gli interessi
di una delle parti in causa”.
Le Sezioni Unite sottolineano anche come l’anomalia risulti
ancor più grave allorquando la
norma che viene definita di interpretazione autentica sia introdotta
dal Governo con ricorso al Decreto Legge. Sempre nella richiamata sentenza si osserva, infatti,
che in questo caso “non è facile
distinguere l’amministrazione
finanziaria, parte in causa, dal
legislatore, posto che la norma
interpretativa è stata approvata
con decreto legge del governo,
convertito in una legge, la cui
approvazione è stata condizionata dal voto di fiducia al governo”.
Con il corollario che in questo
caso “l’amministrazione finanziaria ha avuto il privilegio di
rivestire il doppio ruolo di parte
in causa e di legislatore e che, in
questa seconda veste, nel corso
del giudizio ha dettato al giudice
quale dovesse essere, pro domo
sua, la corretta interpretazione
della norma sub iudice”. Come
dire che, se esistesse un’etica del
legislatore, in questi casi risulterebbe certamente violata.
L’Indicatore Forense
Roberto Cartei
Nonostante le forti critiche
rivolte al Legislatore, come si
vede, dalla Magistratura ordinaria, e nonostante che la Corte di
Cassazione abbia più volte sollevato la questione di legittimità
costituzionale di norme definite di
interpretazione autentica, la Corte
Costituzionale, a quanto consta,
ha ogni volta salvato la legge interpretativa, ma lo ha fatto con
argomentazioni che suscitano non
poche perplessità e che, a dispetto delle dichiarazioni di principio
con cui il Giudice delle Leggi riconosce, ai sensi del novellato art.
117 1° comma cost., il valore di
parametro costituzionale interposto alle norme della Convenzione
Europea così come interpretate
dal Giudice Europeo dei Diritti,
si pongono di fatto in palese contrasto con la giurisprudenza della
Corte Europea.
Per convenirne, basti considerare i casi in cui, esaminando le
medesime norme definite di interpretazione autentica, il nostro
Giudice delle leggi ne ha esclusa
l’illegittimità costituzionale in
relazione all’art. 117, 1° c. Cost.,
mentre la Corte Europea ha accertato che, facendovi ricorso, il legislatore italiano ha violato il diritto
al giusto processo sancito dall’art.
6.1 della CEDU.
Ad esempio, con la sentenza n.
311 del 26.11.2009, la Corte Costituzionale rigettava la questione
di incostituzionalità di una norma
definita di interpretazione autentica che, secondo l’ordinanza di
rimessione della Corte di Cassazione, essendo lesiva del diritto
17
La legge di interpretazione autentica come espediente per far cassa
all’equo processo sancito dall’art.
6.1 della Convenzione Europea
nella interpretazione della Corte
di Strasburgo, doveva ritenersi
costituzionalmente illegittima per
violazione dell’art. 117 1° comma
Cost.. Con la sentenza di rigetto,
la Corte Costituzionale, disattendendo le argomentazioni della
Cassazione, escludeva, invece,
che la legge interpretativa sottoposta al suo esame potesse violare
l’art. 6.1 della Convenzione.
Ebbene, il giudizio espresso al
riguardo dalla Corte Costituzionale è stato poi decisamente smentito dalla Corte Europea la quale,
con la sentenza sul caso Agrati c.
Italia del 7.6.2011, esaminando,
la fattispecie concreta, osservava
a proposito della medesima legge
interpretativa: “la Corte ribadisce che se, in linea di principio,
il Legislatore può regolamentare
in materia civile, mediante nuove
disposizioni retroattive, i diritti
derivanti da Leggi già vigenti, il
principio della preminenza del di-
ritto e la nozione di equo processo
sanciti dall’art. 6 ostano, salvo
che per ragioni imperative di interesse generale, all’ingerenza
del legislatore nell’amministrazione della Giustizia allo scopo
di influenzare la risoluzione di
una controversia”; soggiungendo
che nel caso di specie “l’obiettivo indicato dal Governo, ossia
la necessità di riempire un vuoto
giuridico (…) mirava in realtà a
preservare solo l’interesse economico dello Stato riducendo il
numero delle cause pendenti dinanzi ai Giudici Italiani”.
Principi, questi, che oltre tutto la Corte Europea aveva già
enunciato nella sentenza sul caso
Maggio c. Italia del 31.5.2011 e
che ha successivamente ribadito con la sentenza sul caso De
Rosa c. Italia dell’11.12.2012,
in entrambi i casi smentendo il
precedente giudizio della Corte
Costituzionale che aveva ritenuto
perfettamente legittime le norme
interpretative censurate poi dal
Giudice Europeo.
Ora, con la motivazione della più recente delle sentenze in
materia, quella sopra richiamata, concernente il caso Azienda
Agricola Silverfunghi c. Italia
del 24.6.2014, la Corte Europea
ribadisce il proprio orientamento
forse con ancor maggiore fermezza, testualmente osservando:
“il principio dello stato di diritto e la nozione di equo processo
sanciti dall’art. 6 precludono,
salvo che per motivi imperativi
di interesse pubblico, l’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia
con il proposito di influenzare
la definizione giudiziaria di una
controversia”, soggiungendo che
“le considerazioni di carattere
economico non possono, da sole,
autorizzare il potere legislativo
a sostituirsi al giudice nella definizione delle controversie” ed
osservando che nel caso preso
in esame “la legge interpretativa
ha avuto l’effetto di modificare
Un “sorpasso” ….... lungo cinquant’anni
di Roberto Cartei
in maniera definitiva il risultato della lite pendente, in cui lo
stato era parte per mezzo di un
suo ente amministrativo, appoggiando la posizione dello Stato a
scapito delle società ricorrenti,
nonostante il fatto che queste ultime avessero ottenuto un risultato positivo in primo grado e in
appello”.
Prima o poi, dunque, il nostro
Giudice delle leggi, che fino ad
ora, a dispetto dei buoni propositi formalmente espressi in linea
di principio, ha di fatto mostrato,
almeno in tema di leggi interpretative, un’inspiegabile resistenza ad assumere come parametri
interposti di costituzionalità, ai
sensi dell’art. 117 1° comma
cost., le norme della Convenzione Europea così come interpretate dalla Corte di Strasburgo,
dovrà pur adeguarsi alla giurisprudenza della Corte stessa. In
attesa che lo faccia, sappiamo
comunque che c’è pur sempre un
…..giudice a Strasburgo.
di Paolo Cotza
Un “sorpasso”… lungo cinquant’anni
Il Direttore del nostro “Indicatore” (più prosaicamente, l’Avv.
Vitalizi), mi invita ancora a parlare di cinema ed avvocatura: lo
spunto glielo aveva fornito un
articolo apparso sul Numero 1
della Rivista della Scuola Superiore dell’Avvocatura “Cultura e
Diritti”dal titolo “Diventare avvocati e riuscire ad esserlo: insegnare l’etica delle professioni forensi attraverso le trame narrative” a firma di Giovanni Pascuzzi.
Articolo invero interessante nel
quale si sostiene come le trame
narrative (letterarie, teatrali e cinematografiche), possono servire
a visualizzare le problematiche
che si incontrano nella professione e - in conseguenza - quali
siano i comportamenti corretti da
tenere: l’argomento ci “toccava”
direttamente visto il ciclo “Avvocati e cinema ….. Si può fare!”
organizzato dal Consiglio con il
quale abbiamo voluto parlare di
avvocatura attraverso il cinema,
sottolineando gli aspetti della
professione che il cinema - nei
films scelti - ha portato all’atten-
18
zione dello spettatore.
Mi accingevo dunque a scrivere sull’argomento ma la mia
mente - sempre parlando di cinema - è quasi da sola volata in altra
direzione per rendere omaggio ad
un film cult della cinematografia
italiana che proprio quest’anno
celebra i suoi cinquant’anni: “Il
Sorpasso”.
Pellicola girata nel 1962 in parte a Castiglioncello, deve la sua
straordinaria fortuna ad una serie
di elementi speciali e vincenti: il
regista (Dino Risi), gli attori (Vittorio Gassman, Jean Louis Trintignant, Catherine Spaak, Claudio
Gora), gli sceneggiatori (Ettore
Scola e Ruggero Maccari), la località ovvero come si dice oggi
la “location” (la Via Aurelia da
Roma alle curve ed alla scogliera del Romito), visto che davvero
questo film può a ragione fregiarsi del titolo di primo road movie
italiano (Dennis Hopper ha detto
che “Easy Rider” fu ispirato a “Il
Sorpasso”!).
Ovviamente parlare di cinema
per l’ “Indicatore” significa anche
parlare in qualche modo di noi,
della nostra professione, della
nostra realtà, insomma degli Avvocati, ed un legame tra l’avvocatura e questo film esiste davvero, state a sentire: “La nullità di
un atto processuale si distingue
dall’annullabilità perché quella
può essere rilevata d’ufficio dal
Giudice. Mentre .....”. No, non è
un passo di un testo di procedura civile, è solo una battuta della
scena 5 del copione del sorpasso
che gli autori fanno dire a Roberto Mariani (Jean Louis Trintignant), giovane studente al IV
anno di Giurisprudenza all’Università di Roma che nel giorno
di ferragosto (del 1962 abbiamo
detto), viene travolto dalla vitalità
e dall’irrefrenabile “sete di vita”
di Bruno Cortona (Vittorio Gassman).
La volontà di marcare una netta
differenza tra i due protagonisti fa
scegliere così agli autori un “tranquillo” studente di Giurisprudenza (come noi siamo stati e come
lo fu uno degli autori, Ettore Scola), da contrapporre appunto alla
L’Indicatore Forense
Paolo Cotza
incredibile personalità del “diavolo” Bruno Cortona: certamente
la circostanza non è significativa
(lo studente avrebbe potuto essere di medicina o di agraria), ma
nel 1962 - più di oggi - studiare
Giurisprudenza e diventare avvocato significava entrare a far parte
dell’establishment, diventare un
esponente importante della società, quanto meno in gran parte
delle nostre piccole città se è vero
che, nella scena 24, gli autori
fanno dire al cugino di Roberto
di Paolo Cotza
Un “sorpasso” ….... lungo cinquant’anni
- Alfredo - che fa l’avvocato a
Tarquinia: “ ..... Vedi, io ho il mio
bravo studio a Tarquinia e di tanto in tanto difendo anche in Pretura. Di lavoro ce n’ho quanto ne
voglio .... Per via delle saline. A
Roma, invece ...... Ci sono stato
ultimamente per due giorni: una
massa di incompetenti. In provincia un avvocato è qualcuno,
la provincia ti rispetta. A Roma
ci sono professionisti che non
hanno neanche la bicicletta. Io,
modestamente, ho l’Appia, eccola lì fuori, grande macchina! Sul
rettilineo fa mangiare la polvere anche all’Aurelia dell’amico
tuo” (dimenticavo un particolare
[anch’esso da annoverare tra gli
elementi rivelatisi la fortuna del
film]: i due protagonisti viaggiano a bordo di una Lancia Aurelia
Sport B24S, carrozzata Pininfarina). Ed il cugino Alfredo “rincara” la dose: “Tu hai fatto bene
a scegliere Legge. E’ una grande
professione che dà molte soddisfazioni. Tu prendi la laurea e
poi fai come me. Dai l’esame da
procuratore, apri uno studio a
Rieti (Roberto è di quella città,
ndr), e te ne freghi. Vedrai che ti
fai pure l’Appia. Magari ti trovi
anche una brava moglie, come la
mia ......” (prospettive oggi - forse
- impensabili per un giovane praticante …...), e Roberto, incalzato
da Bruno che sta a poco a poco
“distruggendo” ogni suo mito,
arriva a dire tra sé. “ ..... Alfredino. Se sarò bravo arriverò dove è
arrivato lui: all’Appia III serie”.
Ma anche in un
precedente colloquio
(scena 16), tra i due
protagonisti si parla di
diritto e di avvocati:
BRUNO “Pure tu
scusa eh? Ma mi pare
che stai sbagliando
tutto. Ti prendi la laurea e resti avvocato
per tutta la vita. Non
lo so mica” ROBERTO: “La gente continuerà sempre ad
ammazzare e a fare
testamento. Per questo non credo si possa
inventare la pillola”
BRUNO: “Ammettiamo. Ma gli omicidi
grossi, di successo,
se li beccano sempre
quei quattro principi del Foro che non
mollano mai, neppure
a cent’anni. E a te ti
lasciano le causette di
Pretura”.
Bruno - perfetto esponente del
boom economico di quegli anni
dove il futuro più lontano da guardare era quello del giorno successivo (indovinatissima l’espressione usata da Oreste De Fornai ne
“Il sorpasso - 1962 - 1992 I filobus sono pieni di gente onesta” :
“cinismo a corto raggio” quello
“sbandierato da Gassman”) consiglia quindi a Roberto di studiare “diritto spaziale” (“Ecco una
materia che almeno l’avrebbe un
futuro”), innescando in lui domande e dubbi sulla sua scelta professionale alla quale il successivo
colloquio con il cugino Alfredino
che sopra abbiamo riportato - forse - darà il colpo mortale.
Ed ancora il “nostro” mondo
(meglio, il mondo della legalità),
viene deriso da Bruno (Gassman)
Cortona quando questi, giunto al
porto di Civitavecchia e parcheggiata la macchina proprio di fianco ad un cartello di sosta vietata,
prende la multa dal tergicristalli di
una macchina anch’essa parcheggiata in divieto di sosta accanto
alla sua e la posiziona sotto il tergicristallo della Lancia Aurelia:
qui la sceneggiatura si differenzia
dal film perché in quest’ultima il
dialogo è breve ed alcune battute non furono recitate (intuizione
geniale di Dino Risi che è stato
uomo di cinema e che certamente
ha reso meno “pesante” il film),
ma vale la pena riportare il colloquio immaginato dagli autori
per evidenziare l’atteggiamento e
la considerazione di Bruno per la
Giustizia e gli avvocati (forse non
lontano da un idem sentire tutto
italiano per l’argomento).
Questa la sceneggiatura:
Bruno scende, va a sfilare l’avviso di contravvenzione e lo ferma sul parabrezza della propria
macchina come se già gli avessero fatto la multa. Anche Roberto è
sceso ed ha seguito l’operazione
di Bruno.
Bruno (giustificandosi)
Se non ci aiutiamo tra noi automobilisti
(Nel film il dialogo termina qui
ed insieme si avviano verso la
trattoria)
Roberto
Ora lo sai che è un reato? Sottrazione di documento
Bruno finge di cadere dalle nuvole
Bruno
Perché, che ho fatto?
Roberto
Hai spostato il foglietto della
multa
Bruno
Io? Le giuro signor giudice che
non sono statoio. Sono innocente.
Caro avvocato, i reati finché non
si confessano non sono perseguibili.
Roberto
Però hai giurato il falso
Bruno
Si, ma per convenienza
Roberto
Se ti capito io, per giudice, però
finisci in galera
Bruno
Lo so. Anche se mi capiti come
avvocato difensore.
E dobbiamo tornare all’inizio
del film per trovare ancora un
riferimento al mondo della legalità, ancora una volta deriso dal
“fulminante” ed irriverente Bruno (Gassman) Cortona: la Lancia
Aurelia sfreccia ad altissima velocità in una Roma deserta passando col rosso ad un incrocio;
dall’ombra di un portone scatta
fuori un vigile che soffia nel fischietto e Roberto domanda a
Bruno (che continua imperterrito
la sua corsa) “Fischia per noi.
Non si ferma?” (siamo all’inizio
del film e Roberto dà ancora del
“lei” a Bruno); e Bruno: “Mai
fermarsi. Se non te la contestano
a voce la contravvenzione non è
valida. Studi procedura: che avvocato sei?”.
Bruno Cortona: questo personaggio è davvero il prototipo di un
italiano che forse per troppo tempo
L’Indicatore Forense
ha imperversato nel nostro Paese, il
prototipo del “furbo” o del “furbetto” che tanto è (giustamente) avversato e criticato anche dal nostro
Presidente del Consiglio in alcune
recenti considerazioni, ma Dino
Risi, Gassman, Maccari e Scola
sono riusciti a rendercelo simpatico, a farne comunque un maestro
di vita per il giovane timido ed
impacciato Roberto (Trintignant)
Mariani, studente di Giurisprudenza al quarto anno e solo la morte
di quest’ultimo riporterà lo spettatore alla realtà e riuscirà a fermare
questo strepitoso road movie, la
morte per dirci che davvero tutto
è imprevedibile ed ingovernabile,
che la felicità può durare anche
solo lo spazio di una mezza giornata, anche per chi - come il “nostro”
Roberto - è stato sempre alle regole
della società e che - forse per davvero - “sono sempre i migliori che
se ne vanno”.
Ma Bruno (Gassman) Cortona non è solo un “furbetto”, un
vorace divoratore della vita, un
uomo che bene conosce la vita
e che lascia poco (per non dire
punto) spazio alla commozione,
ai sentimenti: è anche un uomo
sincero, un uomo semplice che
dice quello che pensa (dote rara,
anche nel 1962), ed è, anche per
questo, che è stato e sarà sempre
un personaggio amato.
Un esempio tra i tanti episodi
del film? In quel periodo i films del
regista Michelangelo Antonioni
andavano per la maggiore, erano
pellicole impegnate che facevano
riflettere sulla vita (in particolare
tra i giovani; primi vagiti di una
rivoluzione culturale che avrebbe
cambiato il volto della società),
che parlavano di “alienazione” e
di “incomunicabilità”: ma Bruno,
parlando de “L’Eclisse” (uscito
anch’esso nel 1962), ricorda solo
di averci fatto “una bella pennichella” ed Antonioni è citato solo
per il simbolo del successo (l’automobile): “Bel regista Antonioni;
c’ha una Flaminia Zagato. Una
volta sulla fettuccia di Terracina
m’ha fatto allungà il collo”.
Vorrei essere riuscito ad incuriosire chi non ha veduto (davvero qualcuno c’è?) questo bellissimo film e chi lo ha veduto a
(ri)vederlo per riscoprirlo in tanti
particolari, in tante battute, in tante scene e nei bravissimi attori:
ho pensato fosse giusto ricordare una stagione magnifica per il
cinema italiano e, checchè se ne
dica, per il nostro Paese.
19
di Alessandro Viti
La rivoluzione della Geografia Giudiziaria
La rivoluzione della Geografia Giudiziaria
Sebbene quella sulla revisione della geografia giudiziaria sia
una legge di recente applicazione, pare opportuno, per la nostra
memoria storica, tracciare un
breve sunto di quanto è accaduto nell’ultimo trienno, periodo
nel quale la professione forense
ha subito tanti e tali interventi
normativi da modificarne profondamente ed irrevocabilmente
la stessa essenza e la rilevanza
sociale.
Dopo alcuni tentativi sperimentati negli anni ’90 e non andati a buon fine, nel 2013 l’Italia
ha visto compiuto, con un intervento di rilevantissimo impatto,
il ridisegnamento della propria
geografia giudiziaria.
Con la legge 14.9.2011 n. 148
il Parlamento aveva conferito
delega al Governo al fine di riorganizzare la distribuzione sul
territorio degli uffici giudiziari.
Ciò sarebbe dovuto accadere
mediante l’emanazione di decreti legislativi volti a realizzare
risparmi di spesa e incremento
di efficienza, con l’osservanza di
alcuni specifici criteri e principi
direttivi. In sostanza il Legislatore nazionale, pur nella manifesta volontà di ridurre il numero
degli uffici giudiziari, invitava a
tenere conto di alcuni elementi
essenziali quali l’estensione del
territorio, il numero degli abitanti, i carichi di lavoro, l’indice delle sopravvenienze, la
specificità territoriale del bacino
di utenza, anche con riguardo
alla situazione infrastrutturale, e il tasso d’impatto della
criminalità organizzata. Nel rispetto di tali criteri il Governo
avrebbe dovuto procedere alla
soppressione ovvero alla riduzione delle sezioni distaccate di
tribunale.
Ci si attendeva, pertanto, un
intervento particolarmente radicale, ma nulla lasciava presagire
che tutte le 220 sezioni distaccate dei Tribunali venissero soppresse. Con il Decreto il d.lgs.
n. 155/2012, giunto in pieno
agosto (chissà perché le riforme
epocali della nostra Giustizia
avvengono sempre sotto il sole
cocente…), infatti il Governo ha
posto fine all’esperienza delle
sezioni distaccate, giudicandole
“improduttive” e ha eliminato
20
anche 31 Tribunali, accorpandoli ad altri di maggiore grandezza. L’opera è stata, infine,
completata con la soppressione
di tutti gli Uffici del Giudice di
Pace diversi da quelli situati nei
capoluoghi di provincia. A dire
il vero, in relazione a questi ultimi, il Governo ha escogitato una
sorta di “partita di giro” prevedendo che tali Uffici potessero
essere mantenuti a condizione
che i costi del funzionamento
e la predisposizione del personale fossero a carico non più
del Ministero ma dei Comuni.
Ciò conferma quello che molti
hanno sempre pensato in merito
all’intervento del Governo e che
cioè lo stesso sia stato studiato
più come una misura di “spending review” piuttosto che di
politica giudiziaria.
La scelta governativa è stata
quella, pertanto, di un indiscriminato taglio orizzontale che ha
completamente disatteso quei
criteri che in maniera peraltro
assai precisa, il Legislatore aveva indicato.
Se da un lato la Magistratura in modo assai compatto ha
accolto con grande favore la
riforma, sostenendo che ogni
accentramento di funzioni comporti un miglioramento della
organizzazione del lavoro dei
Giudici, dall’altra l’Avvocatura
ha evidenziato, invece, le numerose pecche portate dalla normativa. In primis è stato sottolineato come il passaggio di tutti i
fascicoli dalle sedi distaccate a
quella centrale abbia portato, in
numerosi casi, alla paralisi dei
Tribunali, incapaci di sorreggere
il carico derivante dalle vecchie
sezioni. Ma l’elemento di criticità su cui l’Avvocatura ha tentato
di porre l’accento è stato quello
dell’enorme disagio provocato
ai cittadini, soprattutto nelle materie di maggiore rilievo sociale,
quale la volontaria giurisdizione. Non solo: è stato evidenziato
come il trasferimento nelle sedi
centrali di tutti i procedimenti
penali avrebbe comportato, e
sta comportando, la necessità di
continue trasferte, per cittadini,
consulenti, agenti ed ufficiali
di Polizia Giudiziaria, costretti
questi a lasciare il servizio “attivo” per recarsi nel capoluogo a
rendere testimonianza.
Per quanto concerne la nostra
Provincia, Livorno ha assistito
alla chiusura delle sue tre sezioni distaccate, Cecina, Piombino e Portoferraio. Nonostante
le vibranti e convinte proteste
della cittadinanza e della classe
forense, si è arrivati alla fatidica
data del 13 settembre 2013, allorquando i portoni delle tre sezioni distaccate si sono chiuse,
con il contestuale trasferimento
di tutto il contenzioso nella sede
centrale di Livorno. A nulla
sono valsi i fondati appelli manifestati dagli Enti Locali e delle Associazioni di categoria, che
hanno evidenziato che la stessa
conformazione della provincia
livornese avrebbe necessitato di
una attenzione maggiore volta a
contenere disagi alla popolazione. Basti pensare ad un cittadino
di Piombino che per raggiungere la sede livornese del Tribunale deve percorrere più di cento
km. O addirittura quello elbano
che deve, ancor prima, raggiungere la terra ferma. Viene da
sorridere, usando un eufemismo, allorquando si legge una
intervista dell’allora Ministro
della Giustizia, Avv. Severino,
la quale assicurava che era stato
conteggiato un cittadino avrebbe dovuto affrontare uno spostamento massimo di circa 40 km
e che ciò, se era un problema
al momento dell’unità di Italia,
oggi era superato dall’esistenza di autostrade e treni veloci
(sic!).
Di scarsa consolazione appaiono, anche, le affermazioni di
chi ritiene che con l’attuazione
del processo civile telematico, tutte le difficoltà andranno
a ridursi notevolmente. In tal
senso sarebbe sufficiente scambiare due parole con quei colleghi della Provincia che si sono
visti costretti a rivoluzionare
le proprie abitudini, la propria
organizzazione del lavoro, ad
affrontare sacrifici e costi supplementari al fini continuare a
svolgere una professione che,
sebbene sempre più bistrattata,
rimane pur sempre una funzione
alla quale la Carta fondamentale
ha voluto riconoscere un rilievo
di natura costituzionale.
Grande merito deve essere
L’Indicatore Forense
Alessandro Viti
riconosciuto, in questo frangente, alle Associazioni locali
degli Avvocati, che hanno profuso tutto il loro impegno e la
loro dedizione al fine di scongiurare la chiusura degli Uffici
periferici. Tuttavia il Governo,
disattendendo i criteri dettati dal
Legislatore del 2011, ha ostinatamente proceduto sulla propria
strada, prevedendo, allo stato
attuale, soltanto alcuni ritocchi
che paiono, più che altro, delle
correzioni in merito a situazioni oggettive che nell’ottica del
taglio orizzontale apprestato,
erano state del tutto dimenticate.
Con il decreto n. 14 del
19.2.14 e successivo provvedimento del maggio 2014, infatti,
il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha disposto la riapertura delle Sezioni distaccate
delle tre isole: Lipari Ischia e la
“nostra” Elba. Il Governo, infatti, aveva “dimenticato”, che vi
sono situazioni che, più di altre,
necessitano di una considerazione del tutto particolare. Mentre,
pertanto, tutta la legislazione
nazionale si muoveva verso una
piena, sebbene difficoltosa, attuazione del principio della c.d.
“continuità territoriale”, con il
decreto L.vo 155 del 2012 si
era compiuto un passo indietro,
limitando non poco per gli abitanti delle isole l’accesso alla
Giustizia.
Il correttivo del Governo ha
così consentito la riapertura della Sede Distaccata di Portoferraio a far data dal 6 ottobre 2014.
Qualcuno potrebbe pensare ad
un lieto fine almeno per i cittadini elbani…. In realtà non tutto
di Alessandro Viti
La rivoluzione della Geografia Giudiziaria
è andato come si sperava. Infatti
il Tribunale di Livorno ha deciso
di trattenere tutto l’arretrato sia
civile che penale, oramai accentrato nelle sede centrale; inoltre
ha limitato non poco le materie
che verranno trattate nella sede
portoferraiese: basti pensare che
tutta la volontaria giurisdizione
resterà di competenza di Livorno, così come le esecuzioni mobiliari e i decreti ingiuntivi con
le relative opposizioni. In campo
penale “resteranno” a Livorno
tanto i procedimenti provenienti
da udienza preliminare che quelli derivanti da opposizione ai decreti penali di condanna. In buona sostanza le aule della sede di
Portoferraio, ripulite e rimesse a
lucido, sono state riaperte per far
posto a qualche fascicolo… Non
si può che auspicare un ripensamento da parte del Presidente del Tribunale di Livorno che
consenta a Portoferraio di potere
iurisdicere nella sua completezza, senza limitazioni né restringimenti. E’ probabile che l’attuale situazione dipenda anche
dal tenore dello stesso decreto
ministeriale che ha previsto sì
la riapertura della sede elbana e
delle altre due isole, ma a tempo. Infatti, salvo ripensamenti il
portone del Tribunale di Portoferraio si chiuderà nuovamente
e definitivamente il 31 dicembre
2016. Difficile comprendere il
di Davide Lera
Grazie per ora
Una espressione “grazie per
ora” che conosce una sempre
maggiore fortuna (o sfortuna)
all’interno degli Studi legali.
Un’espressione apparentemente portatrice (annunciatrice) di
buoni propositi e notizie positive,
quasi rassicurante e ancor meglio
aperta ad allusioni ed illusioni.
Il cliente si presenta in Studio,
si siede davanti al professionista,
riceve o carpisce consigli, consulenze, assistenza giudiziale, poi si
alza e saluta, cortesemente con un
grazie per ora.
Maligna espressione e commiato traditore!
Il grazie per ora crea un’aspettativa nel destinatario, per intendersi è una anticipazione, il
“prima” di un “dopo”, foriero di
dovute e legittime gratificazioni
economiche, susseguenti quelle
morali e soddisfacenti per il cliente che , per ora ti ringrazia ma poi
dopo ...
Beh, poi dopo: un dopo che immaginiamo vicino: la consulenza
è stata data, la causa è imminente, il rapporto fiduciario è ormai
nato e pressoché consolidato, a
quell’ammiccante grazie per ora
oramai dovrà pur far seguito quel
momento, doveroso di riconoscimento del lavoro del professionista.
E invece no! O meglio in quel
periodo di tempo, sempre più ampio tra il grazie per ora e il quanto
le devo (che talvolta diventa infinito) ci rendiamo conto che il rapporto fiduciario tradizionalmente
pendente verso l’avvocato nel
senso che era il cliente a mettersi
nelle mani sapienti del professionista che ne era consapevole e responsabile, si è improvvisamente
invertito.
Ora, ma non da ora, è il professionista che è nelle mani del
cliente e che ha la quasi netta sen-
significato di tale sopravvivenza
a tempo: c’è da chiedersi se le
ragioni che ne hanno determinato la riapertura, quali l’insularità, non saranno più, nel 2017, in
grado di giustificare il mantenimento delle tre sezioni riaperte,
a meno che non si ritenga che
nel frattempo le tre isole si avvicineranno, motu proprio, alla
terra ferma, rendendo di fatto,
inutile la sopravvivenza delle
sedi insulari…
sazione che spetta solo al cliente
decidere se e quando provvederà
a corrispondere la controprestazione. L’avvocato allora si rende
conto che in qualche modo ha perso l’attimo che si presenta subito
dopo il grazie per ora, che è stato
poco reattivo e poco attento ad
evitare la fatidica frase.
Si potrebbe qui parafrasare
(malamente) il Lorenzo de’ Medici: chi vuol esser attento sia, del
pagamento non vi è certezza!
Sì perché una volta uscito dallo
Studio il cliente che pur ha ringraziato, ti lascia nella solitudine
della responsabilità professionale
ma non in nome del sopra detto
rapporto di fiducia ma in quello
del procrastinare il più possibile
l’agognato momento del pagamento: tanto ormai sei intrappolato nei meandri della responsabilità
professionale.
E sempre più spesso i clienti utilizzano disinvoltamente
quell’espressione, con una naturalezza strategica, quasi inconscia,
contro la quale ti ritrovi inerme.
Quel che fa rabbia è che nonostante vi sia la consapevolezza
da parte del professionista che il
cliente alla fine del colloquio ben
possa prepararsi la dipartita con
un “grazie per ora” allontanando
da sé lo spauracchio della richiesta di un acconto o un fondo spese, non si riesce, il più delle volte,
ad evitarlo in tempo, a prevenirlo
e ti senti in trappola: perché una
volta che è stato detto diventa poi
difficile replicare con la pur giusta
e corretta risposta: grazie a Lei,
faccia pure, ora, con la segretaria; oppure: l’“ora” è già passato
e siamo al “dopo”. Il cliente ha
già con quella rodata espressione
alzato un muro tra sé e il professionista quanto meno in termini
di richieste sostanziali, vi è spazio
solo per i convenevoli; bando alla
sostanza.
Fra l’altro il “grazie per ora”
ha una sua musicalità, uno strano effetto che purtroppo (si deve
ammettere) si abbina bene al linguaggio, all’ambiente e perché no
alla liturgia del mondo dell’avvocatura.
Mi spiego. Immaginiamo di
dover traslare la stessa formula in
ambienti diversi dal nostro: stona.
Appare oltre modo chiaro nel
rapporto tra cliente ed artigiano
o commerciante; diventa del tutto
naturale, in questi casi, ricevuta
la prestazione, avviarsi alla cassa. Ma immaginiamo anche un
incontro tra paziente e medico,
peggio se dentista, chi si azzarda
ad accomiatarsi con un grazie per
ora?!
Nei nostri Studi no, tale espressione appare lì per lì gratificante: il
cliente è soddisfatto e ti ringrazia
per la scienza e coscienza profusa
con tanta dovizia, per la professionalità manifestata e dimostrata, in
sostanza per la prestazione ricevuta. Sì ma per ora; cioè per ora
occorre accontentarsi del ringraziamento, poi si vedrà. Ma come
tu hai dato tanto e tutto e dall’altra
parte niente. E sarà l’altra parte,
il cliente, che ha il potere di decidere quando e se ci sarà un dopo.
E noi artefici del nostro destino
incerto che ci impegniamo fin da
subito profondamente con e per
il cliente in virtù di quel rapporto
fiduciario che forse troppo facilmente riteniamo di aver instaurato
con il cliente nel nome di quella
professionalità che deve esserci
L’Indicatore Forense
Davide Lera
riconosciuta.
Viene in mente, anche se il
paragone appare un po’ forzato,
l’ultima scena del film “I Laureati” quando Pieraccioni & C. convincono il cameriere del ristorante a fare da start per la corsa che
avrebbe deciso chi doveva tra loro
pagare il conto e quello, vedendo
sparire il gruppo dietro l’angolo, capisce che non lo avrebbero
pagato e con aria sconsolata di
chi ha contribuito in maniera determinante alla truffa nei propri
confronti - ma che per aver fornito
una prestazione apprezzabile non
si aspetta -, ammette: ...e io gli ho
dato pure il via.
Certamente non saremo così
ingenui ma occorre stare attenti
a quell’affermazione dall’aspetto
rassicurante ma dall’anima irriverente, di origini nobili ma non
antiche, in uso in questi tempi difficili e diventata ormai una moda
che difficilmente si capisce come
quando e da dove si sia diffusa.
Una moda ormai entrata nel dna
della clientela come categoria e
probabilmente più che una moda
un virus che, cari colleghi, dobbiamo attrezzarci per debellare.
21
di Marco Vitalizi
Pillole di Processo Civile telematico
Pillole di Processo Civile telematico
Questioni in tema di deposito
telematico degli atti introduttivi dei procedimenti monitori
L’entrata in vigore dell’art. 16
bis, IV comma, D.L. 179/2012,
convertito con modificazioni dalla L. 17/12/2012 n. 2012, che, a
decorrere dal 30 giugno 2014,
ha previsto l’obbligatorietà del
deposito telematico degli atti introduttivi dei procedimenti monitori ha subito fatto sorgere dubbi
ed interrogativi sia in ordine alla
sfera di applicabilità della norma,
sia di carattere pratico.
Quanto al primo profilo si pone,
ad esempio, la questione se l’obbligatorietà del deposito telematico riguardi o meno tutti i procedimenti che diano luogo alla
emissione di un provvedimento
monitorio.
Il nostro codice di rito difatti,
oltre ai procedimenti di cui agli
artt. 633 e segg. che hanno classicamente esito nella emissione di
un decreto ingiuntivo per il pagamento di somme o per la consegna di una determinata quantità
di cose fungibili o per la consegna di una cosa mobile determinata, conosce anche altri tipi di
provvedimenti monitori che si riconducono a fattispecie di diverso tipo. Solo per esemplificare si
ricordano l’ordinanza ingiuntiva
che il giudice può emettere a seguito di istanza che gli sia stata
avanzata dalla parte, fino al momento della precisazione delle
conclusioni, ai sensi dell’art. 186
ter c.p.c. Od ancora, il decreto
ingiuntivo emesso dal giudice ai
sensi dell’art. 644 c.p.c., separatamente dalla convalida della
intimazione dello sfratto per morosità per l’ammontare dei canoni scaduti e da scadere fino alla
esecuzione dello sfratto e per le
spese relative all’intimazione.
Rimanendo in tema, si segnala
altresì il decreto ingiuntivo che ai
sensi dell’art. 611 c.p.c., all’esito
della esecuzione per consegna o
rilascio, il giudice della esecuzione può emettere su istanza di parte per il pagamento delle spese
del procedimento. Analogo provvedimento può essere emesso dal
giudice della esecuzione, ai sensi dell’art. 614 c.p.c., sempre su
istanza di parte, per la liquidazio-
22
ne delle spese dei procedimenti
esecutivi in materia di obblighi
di fare o di non fare.
Ci si chiede dunque se anche in
questi casi la parte sia a questo
punto obbligata ad introdurre la
propria istanza esclusivamente
attraverso un deposito telematico.
La risposta sembra potersi tranquillamente dare in senso negativo.
La norma di riferimento (art. 16
bis, IV comma, D.L. 179/2012)
riconduce difatti espressamente
l’obbligatorietà del deposito telematico ai procedimenti dinanzi al
tribunale di cui al libro IV, titolo
I, capo, I del codice di procedura
civile; il che, se da un lato riconferma, allo stato dell’arte, la non
applicabilità del processo telematico ai procedimenti dinanzi al
Giudice di Pace, da un altro lato
circoscrive specificamente il suo
ambito di operatività ai procedimenti monitori di cui agli artt.
633 e segg c.p.c.
Ne restano dunque esclusi tutti
gli altri procedimenti che pure
si concludano con un provvedimento monitorio.
Ciò non significa però l’esclusione tout court, per tali procedimenti, dell’obbligo di deposito
telematico dei relativi atti.
Così ad esempio, riguardo alla
istanza di ingiunzione ex art. 186
ter c.p.c., l’obbligatorietà del deposito, se non deriva dal quarto
comma dell’art. 16 bis, è da affermarsi alla luce del I comma
della medesima norma, allorché,
così come modificato dall’art. 44
D.L. 90/2014 convertito dalla
L. 114/2014, prevede l’obbligatorietà del deposito telematico
degli atti processuali e dei documenti da parte dei difensori delle
parti precedentemente costituite (c.d. atti endoprocessuali), a
decorrere dal 30 giugno 2014,
per i procedimenti iniziati innanzi al tribunale ordinario dalla stessa data e, a decorrere dal
31 dicembre 2014, per gli stessi
procedimenti, ove siano iniziati
prima del 30 giugno 2014. Non
pare difatti esservi dubbio su ciò,
che l’istanza ex art. 186 ter c.p.c.
costituisca un atto endoprocedimentale e che dunque debba
seguire la sorte tracciata dal legislatore per tutti gli atti che hanno
tale caratteristica (tipicamente le
memorie ex art. 183, VI comma,
c.p.c., le memorie conclusionali
etc.).
Quanto poi alle due tipologie di
decreti ingiuntivi di competenza
funzionale del giudice dell’esecuzione, di cui abbiamo fatto
cenno, le relative istanze della
parte, ed ogni altro atto e/o documento connesso, ricadono pari
pari nell’alveo della disciplina
dettata dal II comma dell’art. 16
dlgs. cit., che testualmente estende l’obbligatorietà del deposito
telematico istituita dal comma
precedente, con le decorrenze
temporali di efficacia previste
dal D.L. 90/2014, ai depositi
successivi a quello “dell’atto con
cui inizia l’esecuzione” con riferimento ai “processi esecutivi di
cui al libro III del codice di procedura civile”. Anche qui difatti
non può esservi dubbio sul fatto
che le istanze della parte volte
ad ottenere i decreti ingiuntivi
ex art. 611 e/o 614 c.p.c. debbano considerarsi a tutto gli effetti
atti endoprocedimentali, laddove
poi l’ambito di applicabilità della
norma si estende espressamente
ai tutti i procedimenti esecutivi di
cui al libro III del codice e dunque anche a quelli per consegna o
rilascio e a quelli per l’esecuzione di obblighi di fare o non fare.
§o§o§
L’accesso al fascicolo informatico della parte non costituita
L’entrata in vigore dell’obbligatorietà del deposito telematico
per i procedimenti monitori ha
poi immediatamente posto, sia
sotto profilo giuridico, che pratico, il problema di individuare
strumenti e modalità per consentire all’altra parte l’accesso al fascicolo informatico.
Si tratta in questo caso di problematiche non specificamente
legate alla telematizzazione del
procedimento monitorio, ma più,
in generale, a quella della progressiva estensione del processo
telematico a tutti i tipi di procedimenti che porterà alla dematerializzazione definitiva (o fin dove
sarà possibile) del fascicolo processuale cartaceo.
L’Indicatore Forense
Marco Vitalizi
In epoca precedente al PCT il
legale della parte ingiunta, munito di specifica procura, poteva
direttamente accedere in cancelleria per consultare gli atti e i
documenti contenuti nel fascicolo cartaceo ed estrarne, volendo,
copia al fine di predisporre l’atto
di opposizione od anche solo per
valutare la convenienza e l’opportunità di opporsi al provvedimento monitorio ovverosia per
suggerire al cliente di adempiere
allo stesso.
Tutto questo ora non è possibile;
né è pensabile, come qualcuno
pure aveva suggerito, realizzare
degli access point nelle cancellerie per consentire alle parti non
costituite di consultare sul posto
il fascicolo informatico di proprio
interesse. Tale soluzione invero,
non solo avrebbe creato seri problemi organizzativi, ma soprattutto appariva in contrasto con
la stessa filosofia che è sottesa al
processo civile telematico, vale
a dire limitare, quanto più possibile, gli accessi alle cancellerie
anche al fine di consentire l’applicazione del personale, e delle
risorse in genere disponibili, ad
altre attività amministrative e di
ausilio del giudice, con risparmio
di tempi e di costi sia per l’amministrazione della giustizia che
per le parti.
La soluzione è stata individuata
nel concedere, a seguito di specifica istanza della parte denominata “richiesta di visibilità”, l’autorizzazione ad accedere al fascicolo informatico da postazione
remota per un periodo di tempo
limitato, durante il quale l’avvo-
di Marco Vitalizi
Pillole di Processo Civile telematico
cato potrà consultare e scaricare gli atti e i documenti contenuti nel fascicolo ed utilizzarli a fini difensivi nel modo ritenuto più opportuno.
La “richiesta di visibilità”, da inoltrare esclusivamente per via telematica, dovrà contenere:
a) il riferimento del fascicolo di cui si richiede l’accesso
b) il codice fiscale della parte che ha concesso la delega
c) i dati del delegato (coincidente con il mittente del deposito, che
tipicamente sarà il legale incaricato)
e potrà essere formulata secondo il seguente facsimile:
Tribunale di ______________
Istanza di richiesta di visibilità temporanea del fascicolo informatico
n. _____/___ R.G.
Il
sottoscritto
Avv.
_______________,
cod.
fisc.
__________________, con studio in _____________________,
nella sua qualità di procuratore e difensore di ____________,
cod. fisc. / P.IVA ______________________, residente/con sede in
__________________________, come da procura rilasciata ex art.
83 c.p.c. ed allegata alla busta di deposito del presente atto,
premesso
- che il sig./La soc. ____________ è parte del procedimento in epigrafe indicato;
avendone interesse
- ai fini dell’eventuale proposizione dell’opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. ________________________________________
- (ovvero, se si tratta di altro procedimento) a fini difensivi, dovendo procedere all’esame di atti, documenti e provvedimenti depositati nel fascicolo informatico,
chiede
di essere autorizzato alla consultazione da remoto del fascicolo informatico per il tempo necessario all’espletamento delle anzidette
attività difensive.
Con osservanza.
Avv. _______________________________
Tale atto dovrà essere reso oggetto, come detto, di un deposito telematico, sotto la tipologia “AttoRichiestaVisibilita”, cui dovrà essere
allegata la procura rilasciata dalla parte per la presa in visione del
fascicolo; a questo riguardo si suggerisce, come per tutti i casi di procura allegata alla busta telematica, che nella medesima siano sinteticamente indicati gli estremi del procedimento.
Ricevuto l’atto, il Cancelliere ne curerà l’accettazione, il che consentirà l’accesso temporaneo per i fini di difesa della parte.
Come si è detto, è necessario che la richiesta di visibilità contenga
il “riferimento del fascicolo di cui si richiede l’accesso”, vale a dire,
come minimo, il numero di ruolo del procedimento.
Ciò non comporta soverchie difficoltà per quanto riguarda i procedimenti monitori o, in genere, per tutti quei procedimenti che vengono
introdotti con ricorso1, che comportano la notifica alla controparte di
un atto che, di regola, reca tutti gli estremi del procedimento da indicare nella richiesta di visibilità.
Problemi possono invece sorgere nella eventualità che l’atto ricevuto
dalla parte non contenga tali estremi2.
Come e dove può l’interessato reperire, in questi casi le informazioni
necessarie?
La risposta è semplice: dal Polisweb.
Alcuni Punti di Accesso consentono di operare ricerche anche nei
fascicoli che non vedono la parte costituita, semplicemente inserendo, come chiavi di ricerca, il cognome/denominazione delle parti e/o
l’udienza di comparizione indicata nell’atto di citazione ovvero quella
di comparizione effettiva ex art. 168 bis, IV o V comma, c.p.c..
Il PdA della Regione Toscana (Cancelleria Telematica) non possiede allo
stato questa funzionalità, che è in corso di implementazione nell’applicativo. E’ peraltro possibile effettuare la ricerca sia utilizzando il PdA
della Lextel, con la quale il nostro Ordine ha stipulato una convenzione
allo scopo di permettere agli iscritti poter disporre in via alternativa, anche di volta in volta, di due diversi Punti di Accesso, ovvero utilizzando
il Portale dei Servizi Telematici gestito dal Ministero della Giustizia.
Per quanto riguarda il PdA Lextel, colgo l’occasione per ricordare che
l’utilizzo di tale punto d’accesso è totalmente gratuito, salvo per ciò
che riguarda i depositi telematici, che peraltro prevedono un modestissimo corrispettivo. Anche la mera ricerca dei fascicoli sul Polisweb messa a disposizione dal Pda Lextel è dunque gratuita.
Per effettuarla occorre seguire i seguenti passaggi:
1. inserire la chiavetta USB nella quale è alloggiata la firma digitale
e avviare il browser
2. accedere a www.accessogiustizia.it
3. nella home page che si aprirà cliccare a destra su “accedi ai servizi”
nella successiva schermata cliccare, sempre a destra, su “entra”
nella parte dedicata all’accesso con firma digitale
del Polisweb
4. effettuato l’accesso cliccare sulla icona
5. cliccare su “entra” nella scheda “Polisweb PCT”
nel menu a sinistra della schermata successiva cliccare su “Archivio Fascicoli”
selezionare l’ufficio giudiziario di interesse ed il tipo di registro
(Contenzioso Civile, Lavoro etc.)
nella finestra di ricerca che si aprirà inserire i dati richiesti (cognome/denominazione della parti, date udienze).
Ciò consentirà di visualizzare la scheda del procedimento con gli
estremi identificativi (giudice e numero di ruolo), ma non anche il
contenuto del fascicolo, non essendo - appunto - la parte costituita.
Per quanto riguarda invece la ricerca attraverso il PST (Portale dei
Servizi Telematici):
1. inserire la chiavetta USB nella quale è alloggiata la firma digitale
e avviare il browser
2. accedere a www.pst.giustizia.it/PST
effettuare il login (andando sempre avanti ad ogni alert di sicurezza)
3. nella successiva schermata cliccare su “smartcard”
nella home page che si aprirà cliccare a destra su “accedi” a fianco di “consultazione registri”
selezionare l’ufficio giudiziario di interesse, il tipo di registro
(Contenzioso Civile, Lavoro etc.) ed il proprio ruolo (avvocato)
effettuato l’accesso cliccare sulla scheda “Archivio Fascicoli”
nella finestra di ricerca che si aprirà inserire i dati richiesti (cognome/denominazione delle parti, data udienza).
Anche in questo caso saranno resi visibili solo gli stretti elementi
identificativi del fascicolo (numero di ruolo e giudice).
Rinviamo ad una prossima occasione la trattazione della questione se sia possibile depositare telematicamente, sia pure in via facoltativa, ulteriori e diversi atti introduttivi rispetto al ricorso
per decreto ingiuntivo. Si sostiene da parte di qualcuno, difatti, che la previsione della obbligatorietà del deposito telematico del ricorso per decreto ingiuntivo e dei c.d. atti endoprocessuali non
consenta automaticamente di poter affermare che anche altri tipi di atti introduttivi possano essere, seppure in via meramente facoltativa e non obbligatoria, inoltrati con un deposito telematico.
E’ qui sufficiente segnalare l’orientamento “aperto” del Tribunale di Livorno, il quale sostiene una interpretazione della normativa di riferimento che va nella direzione di ritenere consentita
l’introduzione in via telematica anche di tutti quei procedimenti, diversi da quelli monitori, che si avviano con un ricorso, nonché la costituzione in giudizio mediante deposito telematico della
comparsa di costituzione e risposta.
2
L’eventualità non è meramente teorica. Nulla osta, a mio avviso, a che possa essere ritenuta ammissibile l’introduzione totalmente per via telematica di una causa ordinaria, che prenda avvio
con un atto di citazione notificato, ciò che ora possibile, via PEC e che venga iscritta a ruolo mediante un deposito telematico.
La controparte avrà in quel caso solo la disponibilità dell’atto di citazione ricevuto, che non contiene ovviamente gli estremi della iscrizione a ruolo del procedimento e ciò le renderà necessario
accedere da remoto al fascicolo informatico, ove abbia interesse ad esaminare la documentazione prodotta dall’attore.
1
L’Indicatore Forense
23
di Sandra Albertini
IL LEGITTIMO IMPEDIMENTO
Pari opportunità e politiche di conciliazione
dei tempi di vita privata e professionale:
IL LEGITTIMO IMPEDIMENTO
La normativa a tutela della
maternità costituisce un settore privilegiato per la verifica
della attuazione in concreto dei
principi di pari opportunità e di
uguaglianza. In effetti la maternità rappresenta un momento in
cui si accentua il tema della conciliazione tra vita professionale
e vita familiare ed evidenzia la
differenza di genere nella organizzazione del lavoro all’interno
della categoria forense ed una
evidente disparità di trattamento
rispetto ad altre categorie di lavoratrici tutelate da una specifica
normativa.
Allo stato, grazie alla evoluzione normativa e giurisprudenziale intervenuta in materia,
sono state estese anche a favore
delle avvocate forme di assistenza passiva attraverso il riconoscimento di una indennità di
maternità. In particolare con la
L. n. 379/1990 Cassa Nazionale
Forense ha riconosciuto una indennità pari all’ 80% dei 5/12 del
reddito professionale prodotto
ai fini IRPEF nel secondo anno
precedente la data del parto.Tale
norma è stata trasfusa nell’art 70
del T.U. n. 151/2001, incisivamente innovato dalla successiva
L. n. 289/ 2003, che a fronte di
un tetto minimo volto a garantire
che non siano liquidate alle giovani professioniste indennita’ irrisorie, ne ha introdotto uno massimo per sottolinearne la natura
assistenziale e contestualmente
tener conto della possibilità nelle libere professioni di poter cumulare reddito ed indennità non
vigendo in materia il principio
della astensione obbligatoria.
L’indennità è riconosciuta oltre
che in caso di parto, anche per
l’ipotesi di adozione di un figlio
minore e di aborto.
Analizzando le indennità corrisposte a tale titolo da Cassa
Forense emergono i seguenti dati
: 1) la progressiva femminilizzazione dell’avvocatura in considerazione del continuo crescere del
numero delle indennità liquidate,
24
2) un significativo divario reddituale significativo tra avvocati
ed avvocate, per quest’ultime
nettamente inferiori, in considerazione degli importi mediamente liquidati, 3) la fascia di età di
maggiore erogazione tra i 35 e i
39 anni.
Questi dati, unitamente all’altro dato rilevato dagli Ordini che
individua nella stessa fascia di
età, ovvero tra i 35 e i 40 anni,
il maggior numero degli abbandoni femminili della professione
forense, portano a una riflessione, che deve essere propria di
tutta la categoria, sulla storica e
spiccata connotazione di genere
nella divisione del lavoro all’interno della famiglia come fonte
di disuguaglianza e freno nel
campo lavorativo. E ciò non solo
nel periodo della maternità, in
quanto la donna avvocato dopo
aver assolto ai compiti di cura
ed assistenza dei figli, non riesce anche nell’età della maturità
professionale a recuperare il divario reddituale maturato rispetto ai colleghi essendo chiamata
a prendersi cura ed ad assistere
i genitori anziani, restando il lavoro familiare una responsabilità
quasi esclusiva delle donne in
tutte le fasce della loro vita. Un
tale stato di cose nel tempo avrà
gravi ricadute su tutta la categoria, in quando il numero sempre
maggiore delle avvocate unito a
un contestuale decremento dei
redditi e quindi delle contribuzioni previdenziali, comporterà
senz’altro per Cassa Forense seri
e non superabili problemi di bilancio.
Se alla base delle difficoltà di
affermazione e sviluppo della
professione forense al femminile
e conseguentemente al divario di
reddito tra colleghi e colleghe, si
pone la problematica per le avvocate della non sempre semplice conciliazione dei tempi della
vita privata con i tempi di lavoro,
l’ impegno di tutta la categoria
dovrà dirigersi verso il passaggio
dalla attuale forma di assistenza
passiva a una futura ed ulteriore forma di assistenza, quella
attiva, attraverso la previsione
di servizi concretamente fruibili
dalle iscritte che consentono loro
di meglio gestire ed organizzare
il tempo dedicato alla famiglia
senza trascurare quello dedicato
al lavoro. Mi riferisco ad azioni
positive volte alla sospensione
degli oneri fiscali e previdenziali
per le iscritte durante il periodo
della maternità, alla realizzazione all’interno degli uffici giudiziari di stanze di allattamento,
asili, a servizi di sostituzione in
udienza attraverso la realizzazione di una vera e propria “ Banca
del Tempo “ a cui poter ricorrere
sia in prestito che in deposito.
Vi sono peraltro delle udienze
ove la sostituzione del difensore,
per la complessità e delicatezza
dei diritti trattati o comunque per
la tipologia di attività processuale da compiere, non è sempre
possibile ed ancora oggi manca
una normativa omogenea che
tuteli sotto ogni profilo la maternità nel settore forense, non essendo stato esteso al nostro settore il principio di presunzione di
pericolosità e conseguentemente
di incompatibilità tra maternità
ed attività lavorativa.Il mancato
riconoscimento della pericolosità dello svolgimento di attività
forense nel periodo di astensione obbligatoria per gravidanza e
puerperio è fonte di discriminazione all’interno della categoria,
e integra come tale una grave
violazione dei principi di parità,
ed è all’esterno motivo di ingiustificata disparità di trattamento
rispetto alle lavoratrici dipendenti. Ed invero le richieste portate
avanti dalla categoria femminile forense per il riconoscimento
della maternità come causa di
legittimo impedimento a partecipare alle udienze penali e civili
trovano il loro fondamento nel
dettato costituzionale ed in particolare: nell’art 3 Cost. in quanto
discrimina le avvocate rispetto
agli avvocati e rispetto alle altre
L’Indicatore Forense
Sandra Albertini
categorie di donne lavoratrici;
nell’art 4 Cost perchè pregiudica
e limita il diritto al lavoro della
donna avvocato; nell’art 24 Cost
per il diritto dell’imputato e della
parte in genere di farsi assistere dal difensore prescelto; negli
art 29 e 30 Cost che tutelano la
gravidanza e la maternità come
elementi connessi alla tutela dei
diritti familiari;nell’art 31 Cost.
che protegge la maternità e il diritto del bambino ad avere accanto a sé la madre;nell’art 32 Cost.
sotto il profilo del diritto alla salute della madre e del nascituro;
nell’art 51 Cost.in cui si riconosce la partecipazione di entrambi
i generi, secondo un principio
di democrazia paritaria, alle cariche ed incarichi pubblici. Tali
principi sono ribaditi nel Trattato
CE e nelle direttive comunitarie
n.73/2002 e la n. 54/2006 recepite nel nostro ordinamento con
i D. leg. n. 145/2005 e n. 5/2010.
A tale quadro normativo, non vi
è peraltro sempre stato un coerente riscontro giurisprudenziale
sia di merito che di legittimità.La
Corte di Cassazione nella sentenza n. 44922/2007 ha invero
rigettato il ricorso presentato da
una collega che si era vista negare l’allattamento come legittimo impedimento a comparire ad
un’udienza, assumendo che “non
può costituire legittimo impedimento del difensore a comparire
quello che derivi dall’esistenza
di una situazione non presentatasi improvvisamente e già destinata fin dall’origine a protrarsi,
senza sostanziali variazioni, per
un tempo di apprezzabile durata,
dovendo in tal caso il difensore
operare una opportuna e tempestiva revisione dei propri impegni e non pretendere invece di i
tenerli fermi a scapito delle esigenze di giustizia”. Nello stesso
di Sandra Albertini
IL LEGITTIMO IMPEDIMENTO
senso si pongono successive pronunce della Corte di cassazione,
tra cui la n. 21529/2008, sino
ad arrivare alla sentenza n. 312
/2012 della Corte Costituzionale.
La Corte Costituzionale nell’affrontare la questione di legittimità costituzionale, postale dal Tribunale di Perugia, del mancato
riconoscimento alla donna esercente la libera professione di avvocato del diritto di usufruire del
periodo di maternità, così come
invece previsto dall’ordinamento italiano per le altre lavoratrici,
con riferimento agli art 3, 31, 37
Costituzione, che esprimono i
principi di uguaglianza e di protezione della maternità e dell’infanzia, nonché del diritto di difesa, pur dichiarandone l’inammissibilità per non aver il tribunale
rimettente indicato la disposizione della cui costituzionalità
dubitava, pone un principio fondamentale di riconoscimento
del legittimo impedimento per
maternità richiamando invero l’
applicabilità alla fattispecie della disciplina dell’impedimento
a comparire del difensore di cui
agli art 484, 420 ter cpp.Con una
sentenza interpretativa di rigetto la Corte Costituzionle appare
pertanto aver risolto favorevolmente, quanto meno in materia
penale, la questione del legittimo impedimento attraverso una
interpretazione delle norme di
riferimento costituzionalmente
orientata.
In attesa di un chiaro pronunciamento normativo sul punto,
come auspicato con l’approvazione della mozione politica n. 24 presentata al XXXII
Congresso Nazionale Forense
tenutosi a Venezia il 9-11 otto-
bre u.s., anche su sollecitazione dello stesso CSM sono stati
stipulati “protocolli “ di intesa
a tutela della maternità nella
organizzazione della attività
giudiziaria al fine di individuare
pratiche virtuose funzionali alla
tutela dello stato di gravidanza
e della condizione di maternità
e paternità nel quadro della promozione concreta ed effettiva
delle politiche di pari opportunità. In effetti il CSM con delibera
consiliare del 23 ottobre 2013 ha
raccomandato a tutti i Capi degli Uffici Giudiziari nell’ambito
delle loro competenze e facoltà
di adottare iniziative dirette ad
individuare prassi nella materia
della organizzazione delle attività di udienza in funzione della
piena tutela delle condizioni di
maternità e responsabilità genitoriale con riferimento a tutte le
di Renato Luparini
SALVIS IURIBUS
SALVIS IURIBUS
La mia generazione, oltre a
esser stata l’ultima a conoscere
le “veline” (intese, ahimè, come
copie di atti…), è quella che ha
assistito al cambio di linguaggio
forense.
Chi ci ha preceduto aveva una
formazione classica profonda e
robusta; gli avvocati di un tempo
si forgiavano dalle elementari al
Ginnasio con le storie di Muzio
Scevola e Orazio Còclite ed erano
fion dal Liceo abituati a maneggiare Cicerone, che compariva
addirittura sulle marche da bollo
da appiccicare alle comparse (la
previdenza forense si pagava così
allora).
Non c’era ardita espressione che
non fosse seguita da un prudente
“absit iniuria verbis” e perentoria
conclusione sulla obbligatorietà di
una certa lettura di una norma cui
non seguisse l’immancabile “in
claris non fit interpretatio”.
Si andava avanti a suon di brocardi e le regole del diritto erano
riprese in modo diretto dal diritto
romano, che ancora costituiva una
materia di applicazione pratica,
specie in materia di diritti reali.
Poi, nel giro di pochissimi anni,
quelle espressioni che avevano
costituito per millenni l’essenza
della scienza del diritto, sono ca-
figure professionali impegnate
negli uffici giudiziari.
In attuazione dei principi normativi sopra espressi, la Commissione Pari Opportunità operante presso il nostro Consiglio,
consapevole che la conciliazione
tra responsabilità familiari e professionali costituisca la chiave
di volta per il raggiungimento di
una parità effettiva tra i generi
nel lavoro, ha elaborato una bozza di protocollo sul Legittimo
Impedimento, ora all’esame del
Consiglio dell’Ordine, con l’auspicio che ben presto possa essere portato alla attenzione della Magistratura e sottoscritto al
fine di dare concreta attuazione
a livello locale delle politiche di
genere a tutela, in una prospettiva futura, quanto meno sotto il
profilo previdenziale, dell’intera
categoria professionale.
dute in disuso.
Il latino è fuori moda, come un
cappello a larghe falde : può esser ancora considerato elegante da
qualcuno, ma appare sicuramente
poco pratico e desueto.
Oggi il linguaggio che suona
come espressione di preparazione
e modernità è l’inglese tecnocratico, la cui conoscenza, o meglio
“know how”, è bene migliorare,
anzi “implementare”.
Il rischio è che però con il latino
finiscano anche gli avvocati.
La nostra non è una professione strettamente necessaria, come
quella del medico; è invece frutto di una cultura e di un ambiente
storico.
Il medioevo conobbe i giureconsulti e i notai; fu l’umanesimo
che, resuscitando la memoria di
Cicerone e Demostene, contagiò
il sistema giudiziario e introdusse
la figura classica di avvocato : il
“vir bonus peritus dicendi”, capace di suscitare attenzione e rispetto con la forza della parola.
Negli anni ’50 un sociologo
americano, Talcott Parsons, si
espresse così : “il professionista ideale non è solo un tecnico
esperto,in virtù della padronanza di una grande tradizione
egli è un uomo educato in modo
liberale, vale a dire un uomo
di cultura generale: I professionisti sono educati in senso
umanistico, uomini di cultura
liberale”.
Questa definizione serviva a
Parsons per descrivere la differenza tra avvocati e uomini d’affari e
a definire gli avvocati come una
professione tesa a valorizzare valori etici e non solo interessi economici.
Non voglio ovviamente fare il
difensore del passato ed esaltare
ad ogni costo le citazioni latine e
il loro abuso, di cui ridondavano
(almeno per il nostro gusto) gli
scritti difensivi di qualche anno
orsono. Certo è che se l’avvocato
si riduce al compito di mero “operatore del diritto” (locuzione che
mi è simpatica quanto l’orticaria)
e a puro conoscitore dell’ultima
massima della Cassazione, perde
la sua ragione d’essere.
Ci sono molti esperti in “legislazione” e moltissimi siti internet
sfornano a beneficio di chiunque
sentenze e circolari; senza nessuna spesa è possibile per tutti trovare accurati formulari e predisporre
istanze e domande di ogni tipo.
L’avvocato rischia allora di essere una spesa inutile, un ingombro da eliminare, come il cappello
a larghe falde e il latino appunto.
Invece proprio in un vasto
mare come quello del diritto moderno dobbiamo essere i navi-
L’Indicatore Forense
Renato Luperini
gatori esperti (“rari nantes” per
dirla con il poeta e la pallanuoto),
capaci non solo di salire a bordo
del piccolo vascello del cliente,
sballottato dalle onde di un potere pubblico sempre più agitato e
debordante, ma di guidarlo con la
perizia che ha solo chi sa guardare
in alto, oltre il mare agitato delle
sentenze che cambiano, verso le
stelle fisse che non mutano mai.
Alla fine, con buona pace delle
password, le regole chiave sono
sempre queste tre: “Neminem laedere, unicuique suum tribuere,
honeste vivere”.
Se vi ho annoiato, mi scuso; mi
fermo qui : “et de hoc satis” e naturalmente ora e sempre “salvisiuribus” (il latino sarà pure vecchio,
ma evita sempre le decadenze).
25
Regolamento interno del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Livorno
per l’accreditamento delle attività formative
di Paolo Cotza
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI LIVORNO
REGOLAMENTO INTERNO
del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Livorno
per l’accreditamento delle attività formative
(Allegato alla delibera consiliare del 19.11.2014)
Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Livorno
premesso che
◆ il 28 Ottobre 2014 il Consiglio Nazionale Forense ha definitivamente approvato il Regolamento (16 Luglio 2014 n. n. 6) per la formazione
continua degli avvocati e praticanti avvocati abilitati al patrocinio, di seguito “Regolamento”;
◆ che l’art. 8 di detto Regolamento attribuisce ai Consigli dell’Ordine di sovrintendere e coordinare nelle proprie circoscrizioni l’attività di
formazione continua, vigilando sull’assolvimento dell’obbligo da parte degli iscritti;
◆ che l’art. 16 del Regolamento attribuisce ai Consigli dell’Ordine la facoltà di “accreditare” gli eventi formativi di cui all’art. 3 del
“Regolamento” (“Le attività formative”), le attività – a rilevanza locale - di cui all’art. 3 commi I e II, nonché le attività di cui alle lettere
a), c), d), e) ed f) dell’art. 12 dello stesso “Regolamento” (“Altre attività ed autoformazione”);
◆ che appare necessario stabilire alcuni criteri generali – oltre quelli già previsti dal “Regolamento” e comunque sempre nel rispetto di
quest’ultimo - in base ai quali fornire di volta in volta l’accreditamento richiesto, al fine di svolgere una valutazione il più possibile
omogenea;
◆ tutto ciò premesso
delibera il seguente
REGOLAMENTO INTERNO DEL CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI LIVORNO
PER L’ ACCREDITAMENTO DELLE ATTIVITA’ FORMATIVE
1) Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Livorno, atteso che il proprio “Piano dell’Offerta Formativa” (P.O.F.) è integrato e deve essere
considerato un unicum con il P.O.F. presentato dalla Fondazione Scuola Forense Alto Tirreno degli Ordini di Pisa, Livorno, Massa-Carrara,
Lucca e La Spezia, delibera sin da ora di accreditare - senza necessità di preventiva valutazione - gli eventi formativi organizzati dalla
Scuola di Formazione Forense per il numero dei crediti che saranno dalla stessa Scuola indicati per ogni singolo evento;
delibera altresì di accreditare
senza necessità di preventiva valutazione – anche gli eventi formativi da soggetti che abbiano raggiunto un “protocollo d’intesa” con il
C.N.F.. Saranno altresì automaticamente accreditati gli eventi formativi realizzati dalle facoltà di Giurisprudenza delle Università degli
Studi italiane e quelli realizzati dagli Istituti e dalle Scuole di perfezionamento universitarie riconosciute (come, ad esempio, la Scuola
Superiore Sant’Anna di Pisa); ciò perché gli eventi organizzati dai soggetti sopra indicati soddisfano sempre e comunque i criteri per
l’accreditamento di cui all’art. 20 del “Regolamento”.
2) Qualora l’istanza di accreditamento per un evento formativo venga richiesta da una società od ente avente scopo di lucro, la delibera di
accreditamento comporterà - per la società o l’ente – il pagamento di una somma (“contributo per l’accreditamento”) che sarà di volta
in volta valutata e deliberata dal Consiglio dell’Ordine tenendo conto del tipo di evento, della sua durata e della somma richiesta ai
partecipanti; in ogni caso la somma dovuta quale “contributo per l’accreditamento” non potrà mai essere inferiore ad Euro 500,00.
3) Per la partecipazione ad eventi formativi con pluralità di relatori, per questi ultimi, oltre all’attribuzione di CF secondo quanto previsto
dall’art. 19 dell. A) del “Regolamento”, rimane ferma l’acquisizione dei CF secondo le regole generali.
4) Per la partecipazione alle sedute disciplinari del Consiglio dell’Ordine, nonché per l’assistenza difensiva in tale sede sono attribuiti 1 credito
in materia deontologica per seduta, sino ad un massimo di 8 crediti per anno.
5) Gli iscritti che intendono svolgere attività di studio e di aggiornamento in autonomia nell’ambito della propria organizzazione professionale
ex art. 12 lett. e) del Regolamento CNF dovranno corredare la domanda, da depositarsi presso la Segreteria del Consiglio, da una breve
relazione illustrativa degli strumenti di sussidio al programma formativo e dei tempi di svolgimento. Saranno autorizzate solamente le
attività formative che si esauriscano entro il 31 dicembre dell’anno in corso. In caso di approvazione della relazione, il Consiglio si riserva
il diritto di richiedere informazioni e chiarimenti circa l’attività effettivamente svolta.
6) Ai ricercatori universitari in materie giuridiche senza incarico di insegnamento vengono riconosciuti, a domanda dell’interessato, 8 crediti
per anno formativo.
7) Alle avvocate che partoriranno sarà riconosciuto un esonero parziale dalla formazione per n. 15 crediti formativi nel triennio in cui è avvenuto
il parto; gli esoneri parziali per i “doveri collegati alla maternità e/o alla paternità” verranno concessi secondo i seguenti criteri:
a) in maniera automatica ed a semplice domanda per entrambi i genitori per n. 7 CF sino ai cinque anni del figlio;
b) a partire dall’età di cinque anni e sino alla maggiore età del figlio ogni richiesta verrà singolarmente valutata dal Consiglio dell’Ordine
per la concessione di esonero parziale.
8) Le domande di esenzione dallo svolgimento delle attività formative per i casi previsti dall’art. 14 del “Regolamento”, ad eccezione per
coloro che hanno compiuto i 65 anni di età e che sono iscritti all’Albo da oltre 25 anni, si propongono mediante deposito presso la
Segreteria del Consiglio dell’Ordine unitamente alla documentazione probante la causa che legittima l’esonero.
26
L’Indicatore Forense
di Paolo Cotza
Piano dell’Offerta Formativa per l’anno 2015
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI LIVORNO
PIANO DELL’OFFERTA FORMATIVA
PER L’ANNO 2015
(art. 7 II comma e 4 Regolamento per la Formazione Permanente)
Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati
di Livorno, in ottemperanza a quanto previsto dal Regolamento per la Formazione
Permanente approvato dal CNF in data
13.07.2007, ha deliberato la proposta del
seguente Piano dell’Offerta Formativa al
fine di favorire la formazione tendenzialmente gratuita e quindi offrire agli iscritti
l’adempimento dell’obbligo formativo per
l’anno 2015.
Il programma, pur definito nella sua organizzazione generale, ha necessariamente
anche carattere provvisorio, potendo e volendo il Consiglio inserire quelle attività
integrative che si (auspica) potranno essere
ulteriormente presentate nel corso dell’anno, ai sensi di quanto disposto dal comma
V dell’art. 7 citato.
Oltre a ciò il Piano proposto deve necessariamente essere integrato con la proposta
redatta dalla Fondazione Scuola Forense
Alto Tirreno degli Ordini di Pisa, Livorno, Lucca, Massa - Carrara e La Spezia e
che costituisce il naturale “prolungamento”
della offerta formativa del nostro Ordine.
Per ciò che concerne i costi, il Consiglio
- nell’anno 2009 - ha deliberato un costo
minimo di Euro 20,00 per ogni evento formativo (generalmente di 3 ore) con la possibilità di aumentare detto costo quando la
durata dell’evento sia maggiore. Si prevede
che vi possano essere eventi la cui offerta
sarà gratuita.
I relatori degli eventi saranno - preferibilmente - gli iscritti all’Albo tra quelli di
maggiore esperienza per le materie che di
volta in volta verranno trattate, gli iscritti
delle associazioni forensi presenti in Livorno e provincia, nonché i compenti del
Consiglio dell’Ordine; ovviamente anche i
docenti ed i tutor della Scuola di Formazione Forense potranno essere relatori per
alcuni degli eventi proposti dal Consiglio.
Non abbiamo volutamente indicato nominativi se non nei casi in cui - ad oggi - possiamo essere certi della presenza. I criteri
e le finalità alle quali il Consiglio si è attenuto nella proposta del Piano dell’Offerta
Formativa sono quelli indicati nel Regolamento per la Formazione Permanente e, in
particolare, quello di fornire una specifica
offerta in quelle materie che costituiscono
la “base operativa” per ogni avvocato, e
quindi il diritto civile, la procedura civile, il
diritto penale, la procedura penale, il diritto
di famiglia e la deontologia.
Ecco dunque il Piano dell’Offerta Formativa del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Livorno per l’anno 2015:
16 Gennaio - Livorno - COA, Scuola
Forense e AIGA “I giovani avvocati ed il
nuovo ordinamento professionale” - relatori da individuare; 3 crediti formativi;
13 Febbraio - Livorno - COA “La normativa antiriciclaggio” - relatori da individuare, 3 crediti formativi;
20 Febbraio - Livorno - COA “Le novità
del DL 132/2014” - Avv. Davide Amadei; 3
crediti formativi;
27 Febbraio - Cecina - COA e Associazione Cecinese titolo da individuare sul
processo telematico; relatori da individuare, 3 crediti formativi;
13 Marzo - Livorno - COA e Camera
Penale - “Messa alla prova e depenalizzazione”; relatori da individuare - 3 crediti
formativi;
20 Marzo - Livorno - COA “Aggiornamento giurisprudenziale in diritto processuale civile” - Prof. Luiso - 3 crediti formativi;
27 Marzo - Livorno - COA “Carte e Corti Europee - Diritti fondamentali e Giustizia
italiana” - Avv.ti G. Campeis - A. De Pauli
- 3 crediti formativi;
10 Aprile - Livorno - COA - “Incontro di
deontologia” - membri del COA 3 crediti formativi;
8 Maggio - Livorno - COA, Osservatorio
Naz. Dir. Famiglia, e AIAF “La negoziazione assistita in materia di famiglia: prime
esperienze a confronto” - relatori da individuare - 4 crediti formativi;
15 Maggio - Piombino - COA a Associazione Piombinese “Aggiornamenti in maL’Indicatore Forense
teria di diritto processuale civile” , Prof. C.
Cecchella; 3 crediti formativi;
19 Giugno - Portoferraio - COA “Incontro di deontologia” - membri del COA - 3
crediti formativi;
26 Giugno - Cecina - COA, Associazione Cecinese e AIAF “Tribunale ordinario,
Tribunale per i Minorenni e Giudice Tutelare: le rispettive competenze nelle relazioni familiari”, Avv. A. Figone; 3 crediti
formativi;
3 Luglio - Livorno - COA e Camera Penale - “I recenti approdi delle Sezioni Unite
sul dolo eventuale e colpa cosciente”; relatori da individuare - 4 crediti formativi;
25 Settembre - Piombino - COA “Incontro di deontologia” - membri del COA - 3
crediti formativi;
16 Ottobre - Cecina - COA “Incontro di
deontologia” - membri del COA - 3 crediti
formativi;
23 Ottobre - Livorno - COA e AIAF
“Procedimenti di separazione e divorzio:
tutela dei figli minori, dei figli maggiorenni
e dei nonni”; relatori da individuare; 4 crediti formativi;
30 Ottobre - Cecina - COA, Camera Penale e Associazione Cecinese “Il processo
penale e la ricerca della verità”; relatori da
individuare; 4 crediti formativi;
13 Novembre - Livorno - “Le novità
giurisprudenziali in materia di diritto del
lavoro”; relatori da individuare; 3 crediti
formativi;
20 Novembre - Piombino - COA, Scuola
Forense e Associazione Piombinese “Aggiornamenti in materia di diritto processuale penale”; relatori da individuare; 3 crediti
formativi;
27 Novembre - Livorno - COA, Osservatorio Naz. Dir. Famiglia “La giurisprudenza sta al passo con la famiglia che cambia:
dal dovere alla responsabilità” - relatori da
individuare - 4 crediti formativi.
27
Le statistiche
di Marco Vitalizi
I numeri del Foro
869 il numero degli avvocati iscritti all’Albo a tutto il 30/11/2014,
di cui 443 uomini e 426 donne.
Rispetto al
31/12/1998
il numero totale degli iscritti (allora era-
423) è più che raddoppiato, ma quello degli uomini (allora 297) è
cresciuto solo di circa il 50%, rispetto a quello quello delle donne (allora
106) che è quadruplicato.
no
235 è il numero dei praticanti oggi iscritti, di cui 80 uomini e 155 donne.
31/12/1998 il numero totale dei praticanti è sceso del
30% (uomini -51% e donne -11%).
Rispetto al
I numeri del Consiglio
Nel
triennio 2012-2014 il Consiglio ha tenuto 114 riunioni
ordinarie.
185 il numero degli esposti e delle richieste di intervento che sono stati
trattati dal Consiglio dell’Ordine durante questo periodo.
35 sono stati i procedimenti disciplinari celebrati, dei quali 20 sono giunti a definizione: 13 di essi si sono conclusi con l’irrogazione di una sanzione, mentre in 7 casi è stata pronunciata una sentenza di proscioglimento.