A000961 - Fondazione Insieme onlus

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FONDAZIONE INSIEME onlus.
Da PSICOLOGIA CONTEMPORANEA OTT-06 N. 197 pag. 40 <<I PADRI GAY>> di Anna
Oliverio Ferraris e Alessandro Rusticelli.
Per la lettura completa del pezzo si rimanda al periodico citato.
In ambito internazionale sono state promosse numerose ricerche sulle coppie gay con figli.
Alcune di queste hanno riguardato individui che, pur definendosi omosessuali, continuavano
ad essere coinvolti in un rapporto coniugale, mantenendo spesso nascoste le proprie
inclinazioni.
Altre invece hanno riguardato genitori che, preso atto della propria omosessualità, vivevano
con un nuovo partner come abbiamo potuto rilevare in un recente studio, queste sono anche le
condizioni di molti genitori omosessuali italiani.
Lo studio cui facciamo riferimento, di carattere preliminare ed esplorativo, ha coinvolto
trenta genitori omosessuali di entrambi i sessi ed era mirato a cogliere, attraverso interviste in
profondità, i vissuti e i problemi delle persone che vivono quotidianamente questa realtà.
Una parte di questo lavoro, relativa ai vissuti delle madri lesbiche, è già stata presentata
nel n. 195 di questa rivista.
Dopo la pubblicazione di quell’articolo, ci sono pervenute molte sollecitazioni a riferire
anche dell’altra parte della ricerca, quella relativa alla condizione dei padri omosessuali.
Ad essa è dunque dedicato questo articolo.
VOGLIA DI PATERNITA’.
Gli omosessuali possono realizzare il loro desiderio di paternità in diversi modi.
Probabilmente il più comune resta ancora il matrimonio, ma vi è anche la possibilità
dell’unione con una donna al di fuori dei vincoli coniugali o, laddove consentito dalla legge,
dell’adozione.
Una soluzione sempre più diffusa è rappresentata dalla fecondazione artificiale: negli ultimi
dieci anni, infatti, sia in Europa che negli Stati Uniti si è assistito ad una crescita esponenziale
del numero di lesbiche che scelgono di concepire dei figli in questo modo, spesso utilizzando
seme donato da amici gay che si prestano ad essere attivamente coinvolti nella cura e
nell’educazione dei bambini, andando a formare un tipo del tutto nuovo di famiglia allargata.
Sono in crescita anche le coppie gay che decidono di avere un figlio attraverso una “madre
surrogata” (situazione di cui si parla nel Box della pagina accanto), cioè una donna che, nella
più semplice delle varie situazioni possibili, si presta ad essere fecondata con il seme di uno dei
componenti della coppia per poi rinunciare, dopo la nascita, ad ogni diritto sul bambino.
Negli ultimi anni si sono verificati alcuni casi di questo tipo negli Stati Uniti, suscitando
clamori e critiche da più parti.
Al contrario di quanto avviene in altri Paesi europei (Belgio, Gran Bretagna, Danimarca,
Olanda, Slovenia e Spagna per la fecondazione assistita; Norvegia, Svezia, Finlandia,
Danimarca, Gran Bretagna, Olanda, Germania e Spagna per le adozioni) in Italia le leggi in
vigore non consentono ai single e alla coppie omosessuali di accedere alle tecniche di
fecondazione assistita, né di richiedere l’adozione di un bambino.
Alla base di questi divieti troviamo immancabilmente un interrogativo di fondo:
omosessualità e paternità sono compatibili?
Molti ritengono di no, ma in ogni caso resta il fatto che sono sempre più numerosi i gay che
sentono il desiderio di formare una famiglia con figli.
Fare coppia con un partner del proprio sesso non esclude il infatti il desiderio di avere una
prole, anche se poi, nei fatti, spesso non è facile conciliare questi due lati della propria identità
individuale e sociale.
Nella nostra recente indagine esplorativa abbiamo intervistato otto omosessuali maschi di
età compresa tra i 44 e i 63 anni (tabella 1).
Tutti erano stati sposati e in sette casi su otto il matrimonio si era concluso, diversi anni
dopo la nascita dei figli, con la separazione o il divorzio.
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Tabella 1. Età, stato civile attuale e numero dei figli degli intervistati: per garantire
l’anonimato, i nomi sono di fantasia.
ANNI
STATO CIVILE
FIGLI
MARIO
57
Separato
2
PAOLO
45
Separato
2
FLAVIO
61
Divorziato
1
FRANCO
60
Sposato
5
PIERO
46
Divorziato
2
BRUNO
63
Separato
1
MARCO
44
Separato
2
ANDREA
45
Divorziato
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Dai colloqui avuti con queste persone è emerso chiaramente come l’incontro-scontro con la
propria omosessualità nell’ambito del matrimonio determini molto spesso una vera e propria
crisi di identità, il cui superamento comporta un faticoso percorso.
Bruno (63 anni), ad esempio, descrive costì la scoperta della sua inclinazione omosessuale:
<<Nel 1964mi sono sposato e poco dopo è nato mio figlio. Le prime curiosità verso gli uomini
le ho avute verso i trent’anni, anche se poi i primi approcci sessuali veri e propri sono arrivati
solo qualche anno più tardi. Ho vissuto molto male la scoperta delle mie inclinazioni sessuali:
ho provato sofferenza e dolore, mi sono confuso e ho pianto. Insomma è stata una vera e
propria crisi esistenziale>>.
Piero (46 anni) racconta: <<Ho vissuto molto male la cosa, soprattutto per il fatto che
l’omosessualità veniva considerata come una malattia da parte di tutti. Non ne ho mai
parlato con nessuno, soprattutto per paura di non essere accettato. Solo mia moglie ne era al
corrente. Ho provato una profonda vergogna. Questo fino al momento in cui mi sono
finalmente deciso a venire allo scoperto>>.
La crisi di cui parlano le persone intervistate può avere soluzioni diverse: alcuni, dopo anni
di silenzi e conflitti interiori, giungono alla sofferta decisione di accettare le proprie inclinazioni
e iniziare una nuova vita. Spesso in queste circostanze il primo passo verso l’assunzione di
un’identità gay è rappresentato dalla decisione di porre fine al rapporto coniugale. Piero che è
padre di due figli di 14 e 17 anni racconta: <<Mia moglie ed io siamo stati insieme per 10
anni. Abbiamo divorziato perché intorno ai trentacinque anni non ce l’ho fatta più. Pur
volendole molto bene, la vita sessuale con lei era, vissuta tra l’altro in totale fedeltà, non mi
bastava più. Mi innamorai di un uomo, un amido eterosessuale che non contraccambiava i
miei sentimenti, e così piombai in una profonda depressione. A quel punto con mia moglie
abbiamo dovuto prendere atto, con molta sofferenza, che dovevo fare i conti con me stesso e
dare libertà alla mia natura. Dal momento che non accettavo il compromesso di una libertà
solo di tipo sessuale, e desideravo anche una vita omo-sentimentale, abbiamo preso la
decisione di separarci>>.
Se alcuni reagiscono a questi eventi intraprendendo un percorso di ristrutturazione della
propria identità sessuale, altri non arrivano mai ad un vero e proprio outing.
Franco (60 anni), tuttora sposato e padre di 5 figli, ci ha detto: <<Sono sposato da più di
20 anni ormai e per lungo tempo ho completamente rinunciato a vivere la mia omosessualità
era considerata una malattia, una perversione. Per farla breve, io credevo che ci fosse
qualcosa che non andava bene in me, allora mi dissi che se ero “sbagliato” dovevo cercare di
mettermi in linea, dovevo cercare di farmi violenza. Così mi gettai a capofitto nelle attività
parrocchiali, facevo il buon marito e il buon padre, sempre sostenuto dalla speranza che le
cose potessero cambiare. Tutto questo mi è costato grandi sacrifici e per anni mi sono
annichilito completamente. Poi alla fine tutto è capitolato, le fantasie e i desideri
continuavano ad esserci e ho capito che forse mi ero fatto delle aspettative sbagliate. Oggi
sono una persona che ha vissuto a metà>>.
Come nel caso di Franco, a volte queste persone scelgono di rimanere sposate riuscendo
col passare del tempo a raggiungere un equilibrio più o meno soddisfacente sia sul piano
cognitivo che su quello affettivo. Per chi è cresciuto quando l’omosessualità era ancora
fortemente disapprovata a livello sociale lo stile di vita della “coppia gay” semplicemente non
rappresenta un’opzione di vita realmente accettabile.
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LA PATERNITA’ GAY.
Nonostante tutte le difficoltà cui queste persone devono far fronte, come la crisi d’identità e
i conflitti coniugali, la paternità rimane un’esperienza centrale nella loro vita e una parte
fondamentale della loro identità.
Marco (44 anni), padre di due ragazzi adolescenti, dice: <<Essere gay non significa essere
un cattivo padre. I figli sono un dono splendido che la vita ti fa e allo stesso tempo un
impegno grandissimo. Non potrei mai fare a meno di loro>>.
Andrea (45 anni), al riguardo, si esprime con estrema chiarezza: <<Due sono le cose che
nella mia contano di più e che mi definiscono per quello che sono: una è la mia identità gay,
l’altra è l’essere padre. Al di là degli interessi, del lavoro e delle relazioni, queste sono le due
cose a cui ruota tutta la mia vita>>.
Scoprirsi gay e trovarsi di fronte al bisogno di ridefinire la propria identità e di ripensare la
propria vita non significa abdicare ai doveri di padre, né tanto meno disinteressarsi dei bisogni
emotivi dei figli. Anzi, in questi casi il senso di responsabilità è ulteriormente rafforzato dalla
consapevolezza delle conseguenze che il coming-out (la rivelazione) potrebbe avere sulle vite
dei figli.
Paolo (45 anni) ci ha detto: <<Ho due figli, Carolina ed Aurelio. Carolina ha 15 anni,
Aurelio 13. Con loro c’è sempre stato un ottimo rapporto. Non gli ho ancora parlato della
mia omosessualità, ma lo farò. Credo che uno dei motivi principali per cui l’ho tenuto
nascosto per tutto questo tempo è che temevo che loro, se si fosse saputo di me, avrebbero
potuto subire delle discriminazioni.
E’ proprio questa una delle preoccupazioni principali di questi padri: trovare i modi e i tempi
più adatti per parlare di ciò ai figli di ciò che sta avvenendo senza che ciò provochi loro
sofferenza o li danneggi in qualche modo.
Piero (46 anni), a questo proposito, dice: <<Il timore che il mio orientamento sessuale
possa danneggiare i miei figli in qualche modo ce l’ho e non posso nasconderlo. E’ un timore
che riguarda soprattutto le conseguenze sociali del fatto di avere un padre come me. Proprio
per questa ragione non faccio pubblicità della mia omosessualità negli ambienti che
frequentano, come la scuola o gli amici>>.
La conclusione del rapporto coniugale, poi, rappresenta un altro momento particolarmente
delicato nella vita dei padri gay. Si tratta in un certo senso di in punto di non ritorno e
precede spesso il coming-out con i figli.
Flavio (61 anni), padre di un figlio 34nne, dice: <<Mio figlio sa tutto. Ho iniziato a
parlargliene indirettamente quando era adolescente, intorno ai 16 anni, prima che divorziassi.
Poi, un giorno, dopo la rottura con la mia moglie, decisi di invitarlo a cena con la sua fidanzata
e di presentargli il mio compagno. Ho voluto che la cosa avvenisse in maniera naturale, non
volevo che si trattasse solo ed esclusivamente di un discorso sul piano teorico o astratto, ma
che lui potesse vedere con i suoi occhi, che conoscesse questo ragazzo che stava con me.
Devo dire che Giampaolo reagì con qualche riserva, nei primi tempi, poi presto superata, anche
perché è stato educato ad avere una mentalità aperta>>.
Un dato interssante che emerge dalle interviste è che i padri gay cercano, già durante il
matrimonio di preparare i figli ad un eventuale coming-out, educandoli per esempio al rispetto
delle differenze, all’apertura mentale e facendogli prendere pian piano coscienza dell’esistenza
di diversità sessuali. Attraverso l’educazione, questi padri cercano di ridefinire in positivo la
percezione che i figli hanno della diversità, di qualunque natura essa sia, preparando così il
terreno per un’accettazione dell’eventuale scoperta dell’omosessualità paterna e cercando di
creare una sorta di “effetto cuscinetto”, che possa mitigare le conseguenze negative di una
simile notizia.
IL PUNTO DI VISTA DEI FIGLI.
Ma come reagiscono i figli alla scoperta dell’omosessualità paterna? Alcuni studiosi
(Bozett, 1980, 1986; Miller, 1979; Patterson, 1992, 2004) sostengono che i figli finiscono per
accettare senza grossi problemi l’omosessualità paterna. Secondo questi autori ciò che conta
è la qualità della relazione: se il rapporto fra padre e figlio è caratterizzato da una buona
capacità comunicativa e da affetto reciproco, ad un primo momento di confusione e
sbandamento potrà far seguito la comprensione del figlio per la condizione del genitore.
Oltre alla qualità della relazione incide anche l’età. I figli più piccoli sembrano avere minori
problemi ad accettare l’omosessualità del genitore rispetto ai più grandi. Quando invece la
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scoperta dell’omosessualità paterna avviene durante l’adolescenza, possono sorgere delle
difficoltà o dei conflitti. Probabilmente più il padre aspetta a rivelare ai figli le proprie
inclinazioni, più tempo essi hanno di interiorizzare i pregiudizi della società. Ciò naturalmente,
non fa che rendere più difficile per i padri offrire un’immagine positiva di sé come gay e per i
figli riuscire ad accettarla.
Giorgio (38 anni, figlio di padre gay), per esempio, ci ha detto: <<Mio padre mi spiegò
quasi subito la situazione. Avevo circa 12 anni quando mi parlò per la prima volta della sua
omosessualità All’inizio mi vergognavo da morire del fatto che mio padre era gay e cercavo
di nascondere la cosa a tutti i costi>>.
La letteratura sull’argomento e la nostra esperienza diretta mettono in evidenza inoltre che
quando i figli hanno problemi ad accettare l’omosessualità del genitore ciò che rifiutano non è il
rapporto con lui o il ruolo paterno, ma l’identità gay, con tutto il carico di interpretazioni,
valutazioni e stereotipi sociali che essa comporta.
Per Laura (18 anni, figlia di padre gay) quello del padre è un mondo a parte, del tutto
separato dal suo: <<Capisco che lui faccia di tutto perché io lo accetti per quello che è, lo so
che mi vuole bene e che tiene al mio giudizio, ma è veramente difficile per me mandare giù il
fatto che sia gay. Questa è la vita e il mondo che lui ha scelto, d’accordo, ma io non voglio
esserne coinvolta>>.
Anche se il genitore non parla ai figli della propria omosessualità, questi possono,
crescendo, intuire qualcosa, oppure venirne a conoscenza attraverso fonti diverse dai genitori,
magari anche anni prima che questi si decidano a parlarne apertamente. In questo caso, se il
genitore non affronta apertamente il tema della propria omosessualità, i figli possono sentirsi
ingannati o sminuiti per il fatto di non essere stati informati prima, o direttamente da lui.
Il caso di Gaia (28 anni, figlia di padre gay) è esemplare: <<Mio padre non ce ne la mai
parlato direttamente, io e mia sorella siamo venute a saperlo dalla mamma, qualche tempo
dopo che lei e papà avevano divorziato. Ero confusa, ma soprattutto ero delusa perché lui ce
lo aveva nascosto. Ricordo che andai da lui e gli dissi: <<Papà noi abbiamo saputo di te …
perché non ce ne hai mai parlato ti stesso?>>
Quando i figli sono piccoli, generalmente soffrono di più per la separazione dei genitori che
per la scoperta dell’omosessualità. Fino a 7-10 anni i bambini non hanno ancora ben chiaro il
significato sociale dell’omosessualità. Solo in seguito acquisiscono una maggiore
consapevolezza al riguardo, iniziando a rendersi conto che l’amore tra persone dello stesso
sesso non è ben visto a livello sociale. Non è un caso che in questo periodo possono sorgere
delle difficoltà nell’accettare l’omosessualità paterna o dei veri e propri conflitti familiari. Di
questo i padri gay sono consapevoli e infatti parecchi scelgono di non confidarsi con i figli,
oppure aspettano anni prima di trovare il coraggio di aprirsi su tale questione.
Le ragioni di base di un simile comportamento possono essere varie e diverse: l’omofobia
interiorizzata del padre, che si esprime in sentimenti di vergogna per le proprie inclinazioni
sessuali; la paura che la rivelazione possa far precipitare il rapporto con i figli; l’idea che ciò
non li riguardi, o che in qualche maniera il coming-out paterno possa danneggiarli a livello
sociale.
Diversa è la situazione quando anche il figlio è gay (eventualità non frequente, perché non
è l’omosessualità del genitore a determinare quella del figlio), come nel caso di Enrico (22
anni, figlio di padre gay e gay lui stesso), che descrive in questi termini la scoperta
dell’omosessualità paterna: <<Lui me ne ha parlato direttamente. Avevo 17 anni quando
affrontammo l’argomento per la prima volta. Ricordo che mi stava accompagnando in auto da
qualche parte e smarrì la strada, poi accostò e mi spiegò tutto. All’inizio rimasi disorientato
perché mi parlò della sua situazione e del matrimonio con mia madre. Quella sera andai a
dormire un po’ confuso, ma il giorno dopo la confusione non c’era già più e il rapporto con lui
era come sempre. Tra noi non era cambiato nulla. Fin da quando ero piccolo, anche se non
sapevo cosa fosse l’omosessualità, sentivo che c’era qualcosa che mi accomunava a mio padre,
qualcosa di particolare … Quel giorno tutte quelle sensazioni che avvertivo avevano preso
finalmente forma, forse era per questo che eravamo sempre stati sulla stessa lunghezza
d’onda>>.
La situazione dei padri gay è particolarmente delicata e complessa: se alcuni riescono a
conciliare omosessualità e paternità, a vivere serenamente la loro condizione e a trasmettere
questa serenità ai figli, altri invece vanno incontro a difficoltà che non riescono a fronteggiare.
Le difficoltà dipendono, come è emerso chiaramente dalle nostre interviste, da svariati fattori,
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esterni ed interni all’individuo, quali l’influenza e la forza dell’educazione ricevuta; gli
apprendimenti sociali (modelli e stereotipi) profondamente radicati nel soggetto o nei suoi
familiari; le risposte dell’ambiente di vita e in particolare dei figli (rifiuto, incomprensione,
sconcerto, sofferenza, …); il timore della discriminazione sociale nei confronti dei figli prima
ancora che nei propri. Una cosa comunque appare chiara: l’inclinazione omosessuale non
cancella il desiderio di paternità e la capacità di svolgere il ruolo parentale, sia nei confronti dei
figli avuti nell’ambito di una relazione eterosessuale, e indipendentemente dal destino di
quest’ultima, sia nei confronti di quelli che si vorrebbe avere, o adottare, laddove le leggi lo
consentono.
Anna Oliverio Ferraris: è ordinario di Psicologia dello sviluppo
presso l’Università “La Sapienza” di Roma.
Psicologa e
psicoterapeuta è autrice di numerosi saggi.
Alessandro Rusticelli: psicologo clinico e studioso della
famiglia, ha svolto la ricerca sulle madri lesbiche e i loro figli
presso la Cattedra di Psicologia dello sviluppo all’Università “la
Sapienza” di Roma.
BOX: LA MATERNITA SURROGATA.
I ricorsi alla “maternità surrogata” divenne un fenomeno socialmente
rilevante negli Stati Uniti a partire dal 1976, quando comparvero i primi
contratti stipulati fra coppie eterosessuali con problemi di fertilità e donne
che, a volte per motivazioni ideologiche ma molto più spesso per denaro, erano
disposte a portare a termine una gravidanza su commissione e a rinunciare ad
ogni diritto sul bambino dopo la nascita.
La maternità surrogata divise da subito l’opinione pubblica americana e la
questione finì sotto gli occhi di tutti nel 1987, quando Mary Whitehead, che
aveva dato alla luce un bambino (poi diventato noto come “baby M”) dopo aver
firmato un contratto con William e Betsy Stern, cambiò clamorosamente idea,
decidendo di tenere il figlio.
Iniziò una battaglia legale che si concluse con
la decisione della Corte di concedere l’affidamento del bambino agli Stern,
riconoscendo la validità del contratto che era stato stipulato.
Il caso Whitehead contro Stern suscitò numerose polemiche e alla fine spinse
lo Stato del New Jersey a dichiarare illegale la maternità surrogata. Ciò
nonostante, l’uso di madri surrogate si è diffuso non solo tra le coppie
eterosessuali ma anche tra le coppie gay e attualmente gli stati “Surrogacy
Friendly” in America sono diversi, primo tra tutti la California.
Un caso abbastanza emblematico è quello di John e Paul, due quarantenni che,
dopo diversi anni di convivenza, decidono di avere dei figli.
Inizialmente
discutono la possibilità di formare una famiglia allargata con una coppia
lesbica, poi rinunciano.
Spiega Paul: <<Volevamo avere un figlio che fosse soltanto nostro.
Quando
cercavamo di immaginare come sarebbe stata la nostra famiglia, ci riusciva
difficile pensare ad una situazione con quattro genitori.
Sarebbe stato troppo
complicato.
Volevamo una famiglia che fosse composta da noi due e da nostro
figlio, così abbiamo deciso che la maternità surrogata era la via migliore da
seguire.
Ci siamo messi subito alla ricerca di una donna che, per convinzione
ideologica, fosse disposta ad aiutarci a realizzare il nostro sogno, prestandoci
una parte del suo corpo affinché potesse crescervi il nostro bambino>>.
Le domande sulla maternità surrogata sono molte e gli studi sull’argomento
purtroppo ancora pochissimi.
Ciò nonostante è ormai chiaro che il perno sul
dibattito sociale sull’argomento gira attorno a tre interrogativi:
1__ la maternità surrogata è davvero come ritengono i suoi detrattori, una
compravendita di bambini?
2__ la maternità surrogata deve essere considerata come una forma di
sfruttamento della donna?
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3__ la maternità surrogata non dovrebbe invece essere considerata, come
affermano le associazioni Surrogacy Friendly, un modo come un altro, seppur
complesso, attraverso il quale un bambino può venire alla luce, un modo che può
funzionare bene, date determinate premesse relazionali legali?
Anche partendo dall’assunto che la relazione tra la coppia che desidera un
figlio e la donatrice dell’utero funzioni e duri nel tempo, l’intreccio di
variabili psicologiche ed economiche che caratterizza la maternità surrogata
solleva comunque questioni etiche, questioni che vanno al di là delle persone
direttamente coinvolte e che riguardano la società nel suo insieme e i
significati stessi che attribuiamo ai concetti di maternità e paternità.
La maternità surrogata implica molto di più di una semplice separazione tra
genitorialità biologica e genitorialità sociale.
Gli eventi che la
caratterizzano non riguardano solo la donna e il suo corpo, ma anche il legame
che può instaurarsi fra lei ed il feto durante la gravidanza.
Inoltre
riguardano il rapporto che il figlio creerà successivamente con tutte quelle
persone, presenti o assenti, che fanno parte della sua storia individuale.