note di regia - Teatro alla Scala

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note di regia - Teatro alla Scala
Carmen senza vergogna (note di regia)
Emma Dante
In una piazza del sud, con una fontana al centro, i muri si sgretolano in polvere rossiccia dando la sensazione che da un momento all’altro potrebbero
crollare del tutto; tra queste mura che segnano i confini di un paese dell’entroterra si sviluppa la trama di una storia popolare, vissuta a cielo aperto,
sotto gli occhi di poveracci, truffaldini, operaie, militari e ragazzini con le
pezze al culo. Una storia con pochi segreti dove tutto è esposto in maniera
estrema e grottesca ma nello stesso tempo intima e delicata. Una purezza di
fondo c’è nel gioco di seduzione che una zingara mette in atto, una purezza
che è tipica degli animali e dei bambini, nei cui comportamenti s’intravede
qualcosa di angelico. Perché non esiste vergogna in Carmen, non esiste volgarità. Essere Carmen significa trasgredire le regole; allontanarsi dal moralismo e dall’ipocrisia di certi ambienti per bene dove l’orrore c’è, ma è ben custodito lontano dalla vista. Essere Carmen significa provare l’ebbrezza della
libertà, reggere il sacrificio della scelta, sentire il peso del libero arbitrio e di
conseguenza mettere in discussione l’esistenza di Dio.
Al cospetto di un paese fortemente influenzato dalla chiesa cattolica vive
una Carmen laica, in assoluta autonomia e indipendenza, nonostante l’arredo sacro che la circonda tenti continuamente di convertirla: la croce che all’occorrenza viene piantata dai due chierichetti, il parroco sempre pronto a
dir messa, il vestito da sposa di Micaëla come simbolo della sua verginità e
del suo desiderio di matrimonio, l’amitto-bavaglio delle recluse-operaie costrette a vivere ammassate dentro una fabbrica monastica, il grande pannello degli ex voto (gambe, braccia, polmoni, reni, teste e cuori di cera) per propiziare una buona riuscita della corrida, a cui Escamillo appende un braccio
pregando che nello scontro col toro il suo corpo resti intatto, e infine il carro
funebre spinto dai due incappucciati col corteo di cinque prefiche velate di
nero pronte a catturare l’anima.
Carmen va spavalda incontro alla morte e se ne frega di finire tra le fiamme
dell’inferno. Come le eroine greche, ribelle per natura, non resta nei ranghi
più di mezza giornata. Diserta. Si oppone alle regole. Vive raminga per vocazione e anche se si dà a chi dice di amare realmente non è mai di nessuno.
La musica “mediterranea” di Carmen, citando Nietzsche, spinge all’intuizio-
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ne simbolica dell’universalità dionisiaca, generando appunto il mito, e precisamente il mito tragico.
Gli scippi, i piccoli crimini, il pestaggio dei ladruncoli, lo sfruttamento delle
donne operaie e dei ragazzini fanno parte di un mondo, come quello descritto da Mérimée, in cui la disperazione, il degrado nascono dalla necessità
di elaborare il concetto del tragico.
Negli ambienti più degradati, nei bassifondi, c’è una passione esplosiva e incontrollata, un amore inteso come fatalità: innocente, crudele e perciò naturale!
Carmen fa paura. A tutti. Alla chiesa e alla società. E anziché eroina mitica le
viene offerto il posto di martire contemporanea di un paese bigotto.
Non credo in una lettura realistica di quest’opera, nella misura in cui attraverso il realismo si immagini un’imitazione della realtà. Credo invece in
un’interpretazione della realtà dove il paesaggio è macchiato da qualche
pennellata surreale.
Il popolo che frequenta Carmen si annida nelle intercapedini di un paese verticale dove i blocchi di tufo e mattoni tendono a compenetrarsi con altri
blocchi di tufo e mattoni, dove pozzi di luce, piazzole interne, finestre murate e crepe ai muri, sono il recinto dentro il quale si vive e si muore. È impossibile uscirne a meno che il carro vuoto non entri a prendere il predestinato. Il
carro vuoto è il nostro sguardo che s’intrufola nella storia e dopo un viaggio
lungo e ammaliante porta Carmen via con sé. “Nell’udirla si diventa noi stessi un capolavoro”, scrive ancora Nietzsche.
L’opera si apre con il corteo del carro vuoto che simbolicamente attende di
ricongiungersi a Carmen, il cui destino è segnato sin dall’inizio. Il carro è rappresentato come una bara del sud e le prefiche, a ogni piè sospinto, piangono a comando. La processione ritornerà in tutti gli atti della tragedia, presagio di morte, finché alla fine del quarto atto, sul carro, il corpo esanime di
Carmen verrà involto in un manto sacro.
Troppo colore disturba e rischia di allontanare lo sguardo. Il grigio, d’altro
canto, addormenta. Deve esistere una gradazione di mezzo che non sia troppo violenta per la nostra sensibilità e non troppo delicata per la nostra giusta
dose di cinismo. Il fatto di cronaca rivelato in quest’opera accattiva, eccita…
qualsiasi amato vorrebbe uccidere l’amata, e viceversa, se non altro per dimostrare il suo amore. L’eros e la morte sono amanti, si seducono, s’inseguono costantemente. Nel quarto atto Carmen punterà a Don José un coltello intimandolo di lasciarla passare ma quando lui riuscirà a disarmarla, ripuntandoglielo a sua volta, lei stessa, ormai spacciata, si spingerà la lama
dentro le viscere. Come una penetrazione finale e clamorosa. Con il sacrificio
di sé stessa fino alla morte. “ Jamais Carmen ne cèdera! Libre elle est née et
libre elle mourra!”
Qualche appunto sui personaggi
Il mondo fanatico e conservatore in cui vivono i protagonisti dell’opera è in
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totale contrapposizione con quello di Carmen: mentre Micaëla è buona, devota, giudiziosa, Carmen è scorretta e impudica. Le due donne sono agli antipodi ma entrambe necessarie all’onesto brigadiere: Micaëla incarna la madre, Carmen l’amante.
Tutti i personaggi hanno sempre un seguito, non riescono a star da soli, accompagnati dalle proiezioni dei loro desideri e rimpianti come Linus dall’inseparabile coperta. Al seguito di Micaëla c’è un prete, guida spirituale, che nel
primo atto celebrerà come in sogno le sue nozze con Don José. Subito dopo
per Micaëla comincerà l’incubo: a ogni ingresso si farà sempre più vecchia e
nel terzo atto il suo abito da sposa sarà logoro e ingiallito come simbolo del
sogno infranto. Il prete l’accompagnerà, vecchia e malata, dal figlio-amato
Don José.
Escamillo, dal terzo braccio fuso iconograficamente con il costume da torero
come un accessorio eterno, avrà sempre un corteo mascherato che erige i
suoi trofei: due gigantografie sanguinarie di tori ammazzati. Il suo terzo
braccio rappresenta destrezza e virilità come le ali ai piedi di Hermes simboleggiano velocità.
Durante la marcia, i militari, al posto dello zaino, si tengono aggrappato il
proprio doppio rimasto bambino. Al cambio di guardia si lasceranno scivolare dalle spalle il sé fanciullo per rimarcare simbolicamente il passaggio dall’infanzia all’età adulta. Eccolo correre e far capriole il piccolo esercito della
propria fanciullezza!
Le sigaraie fanno il loro ingresso nella piazza con ordine e rigore come se
uscissero da un convento. Nell’ora di libertà, lasciano la fabbrica in fila con
un fiore in bocca che gli nasconde la faccia, indossando un grembiule che sa
più di divisa monacale. Con incedere solenne vanno alla fontana e aprono le
vesti per rinfrescare i loro corpi stremati. Questo gesto piuttosto che sedurci,
ci farà pietà!
Carmen è circondata dai bambini come una mucca che attira le mosche.
Quando è operaia, sfrutta l’occasione per rivendersi sottobanco i sigari che
ruba in fabbrica, nascondendoli addosso ai bambini. I soldati li corrompe regalandogli i sigari, ballando e cantando per loro. In cambio di questo e altri
favori lei e i suoi compagni ricevono il silenzioso beneplacito delle forze dell’ordine. Sempre sarà accompagnata da cinque bambine vestite come lei, che
si muovono come lei, che sono le sue piccole Carmen della spensieratezza.
L’unico a non avere seguito è Don José. Solitario e introverso. Distante da
tutto. Come una fortezza inaccessibile circondata dal deserto. Quali segreti
nasconde? Quale fascino scaturisce dal suo essere puro e incontaminato?
Carmen lo espugna, diventando sentinella del suo cuore. Allora, in lui qualcosa non funziona più. Il virus gli viene iniettato e Carmen dentro la sua testa, come una Minerva che non vuole uscire, determina la distruzione. Ma
prima del crollo, il brigadiere, in uno slancio disperato, parte all’assalto da
solo contro un’intera armata: l’amore.
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