y - Università degli Studi di Parma

Transcript

y - Università degli Studi di Parma
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PARMA
Dipartimento di Diritto, Economia e Finanza Internazionale
Pietro A. Vagliasindi
Politiche pubbliche, reddito e redistribuzione.
Indice
PAGINA
I. POLITICHE REDISTRIBUTIVE, DISUGUAGLIANZA E POVERTÀ.........................1
1. BILANCIO PUBBLICO E REDISTRIBUZIONE.................................................................................1
2. SUL CONCETTO DI DISUGUAGLIANZA. .......................................................................................4
3. LA DISUGUAGLIANZA AL DI LÀ DELL’APPROCCIO WELFARISTA ED INDIVIDUALISTA............10
4. LE MISURE DI DISUGUAGLIANZA..............................................................................................11
5. CONCETTO E MISURE DELLA POVERTÀ. ..................................................................................15
II POLITICHE DI STABILIZZAZIONE E DEBITO PUBBLICO....................................18
1. IL MODELLO REALE ED IL TEOREMA DEL BILANCIO IN PAREGGIO.........................................18
3. INDICATORI DELLE POLITICHE FISCALI: FUNZIONI E LIMITI ..................................................27
4. L’INSERIMENTO DEL DEBITO NEL BILANCIO E NEL SETTORE REALE......................................29
I. POLITICHE REDISTRIBUTIVE, DISUGUAGLIANZA E POVERTÀ
In quanto segue affronteremo il problema della diseguaglianza alla base della funzione
redistributiva. A tal fine faremo riferimento innanzitutto alle problematiche generali legate alla
politica del bilancio pubblico.
1. Bilancio pubblico e redistribuzione.
Come abbiamo già accennato, la finalità redistributiva del reddito tra singoli, settori
produttivi e regioni è una delle principali finalità pubbliche assieme a quella allocativa,
macroeconomica e regolatrice-assicurativa. Le situazioni efficienti sono infinite e,
prescindendo dall’attività pubblica, dipendono dalla distribuzione iniziale delle risorse.
Tuttavia efficienza ed equità possono essere in contrasto tra loro. In presenza di questo trade
off efficienza-equità, bisogna ricorrere a giudizi di valore per muoversi verso situazioni
migliori, essendo possibile seguire percorsi diversi sul piano distributivo e dell’equità.
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
2
Prima Versione.
E’ innegabile che la crescita delle spese sia stata in parte favorita dall’affermazione di una
visione welfarista interessata a redistribuire il reddito a favore dei meno abbienti (attraverso i
meccanismi della sicurezza sociale).
La politica redistributiva complessiva va spiegata non solo sulla base di principi
economici, anche solo considerando gli obiettivi perseguiti più o meno coerentemente dalla
classe dirigente. Come evidenziato da De Viti, ogni gruppo si mobilita per far approvare spese
e privilegi che lo avvantaggiano e trova scarsa resistenza essendo il costo ripartito sull’intera
collettività. Ogni lira spesa o prelevata dallo Stato ha tuttavia un effetto sulla distribuzione
delle risorse. L’attività finanziaria, alterando le scelte private e la distribuzione delle risorse,
rende perciò necessario l’utilizzo di strumenti atti a valutare se i singoli interventi ed il loro
disegno di insieme siano socialmente desiderabili specie da un punto di vista redistributivo.
In prima approssimazione possiamo definire la redistribuzione come un’attività pubblica
che consiste nella distribuzione del prelievo coattivo. Esempio tipico i trasferimenti di reddito
(che fanno parte della redistribuzione esplicita quali: (1) l’assistenza pubblica, (2)
l’assicurazione sociale (finanziata con contributi). Abbiamo però anche effetti indiretti
derivanti da: vincoli, regolamentazioni, trasferimento di diritti, sistema tributario e programmi
di spesa pubblica. In teoria è possibile valutare il contributo delle singole componenti alla
determinazione della diseguaglianza. Tuttavia a causa di una serie di problemi di imputazione
di benefici e costi a livello dei componenti la collettività, ad es. per quel che riguarda i
trasferimenti in natura (in kind benefits), bisogna accontentarsi di stime parziali. In particolare
la redistribuzione in kind (e.g. prestazioni gratuite, buoni pasto, sconti) provoca una
distorsione scelte. Questa è massima con prestazione minima E° (quando il prezzo relativo è
nullo), parziale con riduzione prezzi E’ (e.g. prezzo relativo dimezzato) come illustrato in fig.
. Tra le forme di redistribuzione risulta perciò politicamente e socialmente accettabile se legata
a distribuzione beni primari.
Recentemente l’egualitarismo sembra aver perso parte del suo “appeal”, divenendo una
preoccupazione quasi secondaria, dandosi per scontato che, col passare del tempo, la crescita
economica risolva il problema più o meno automaticamente. Infatti, si discute sempre meno di
ridurre le disuguaglianze nella distribuzione dei redditi, mentre il dibattito economico e
politico sulla povertà sembra restare un utile terreno di confronto. Senza entrare nella
controversa evidenza empirica circa la crescita nel tempo di diseguaglianza e povertà, va
ricordato come la redistribuzione del reddito sia ancora tra i principali campi di azione
dell’attività finanziaria e necessiti di maggiore razionalità. Negli ultimi anni, i paesi
industrializzati continuano a riformare gli istituti tradizionali del welfare state per contenere la
spesa e migliorarne l’efficienza, con conseguenze sulla distribuzione del reddito che vanno
analizzate approfonditamente.
Una generale alternativa a questo complesso sistema di tributi, spese e trasferimenti è stata
individuata nell’imposta negativa, proposta con formule differenti dalla signora Williams (con
adesione volontaria e obbligo di lavoro, trasferimento in somma fissa sostitutivo prestazioni
socio-assistenziali, finanziamento con imposta proporzionale sui redditi) e da M. Friedman
(con un sussidio del 50% tra reddito effettivo e quello esente). Il vantaggio della prima
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
3
Prima Versione.
proposta consiste nel fatto che è volontaria e evita la trappola della povertà, la seconda
comporta costi minori per la collettività.
Yn = Y
Y n Y n = T f + Y (1 - t)
Y n = (1 - t) (Y - R °)
x2
E
E’
U’
U*
E*
R°
Y n = R°
E’
Y n = (1 - t)Y
Y n = Y + 0 ,5 (R °- Y )
E
E°
x’1
E /p 1
x°1
x*1
U°
U
R°
Y
E /p 1’
E ’/p 1’ x 1
Nel grafico sono riportate e confrontate le due alternative i cui effetti dipendono dalla
distribuzione iniziale dei redditi e dalla scelta dei parametri.
Williams: Yn = Tf + Y(1-t) Friedman: Yn = Y+0,5(R°-Y) per Y<R° o Y = (1-t) (Y-R°)
La redistribuzione viene usualmente giustificata, facendo riferimento alle funzioni del
benessere collettivo. In particolare, il liberalismo fa dipendere il benessere della collettività W
= W(U1, …, Ui, …, Un) dal benessere dei singoli componenti Ui e giustifica l’istituzione di
sistemi di welfare, ritenendo ingiusto che chi ha minori capacità produttive, rimanga, privo di
mezzi di sussistenza.
Al di là di questa tradizionale logica welfarista, oggi si tende a recuperare il valore del
principio di libertà individuale, indipendentemente dagli obiettivi di efficienza ed equità. In
pratica con ciò alcuni autori tendono a porre un limite all’intervento pubblico. La visione
liberista ripresa da Nozick (1974), partendo dalla mancanza di efficienza del settore pubblico,
ritiene l’intervento moralmente scorretto, atto ad alterare i meccanismi di mercato ed a portare
inefficienza. L’ideale è lo “Stato minimo”, che, astenendosi da interventi redistributivi,
controlla l’agire degli operatori e fornisce i beni pubblici che il mercato non può fornire in
modo efficiente. Lo Stato non dovrebbe quindi oltrepassare, con la coercizione, una sfera
privata di libertà della persona. In questo senso si tende a parlare di libertà negativa, un
termine che indica come questa ottica sia piuttosto parziale e riduttiva.
Non andrebbe quindi dimenticato che libertà significa anche possibilità di scegliere, una
libertà positiva che, dipende dall’abilità di una persona di funzionare (vedi successiva analisi
di Sen). In tale ottica bisogna considerare quindi le caratteristiche personali oltre che la
disponibilità di beni primari (quali la nutrizione, l’educazione etc.) e l’ambiente esterno nel
quale una persona si realizza.
È inoltre importante sottolineare come essendo la diseguaglianza una caratteristica
dell’ambiente che genera esternalità, la redistribuzione costituisce al limite un bene pubblico
del quale tutti beneficiano, il che limita la capacità del mercato e giustifica l’intervento
pubblico. Diseguaglianza e povertà caratterizzano l’ambiente nel quale i componenti di una
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
4
Prima Versione.
1
collettività si realizzano e, turbando l’ordine sociale, producono costose esternalità. In questo
senso, disuguaglianza e povertà sono mali pubblici dei quali tutti partecipano, il che limita la
capacità dei privati di fornire risposte efficaci.
2. Sul concetto di disuguaglianza.
Prima di approfondire la questione da un punto di vista operativo, é opportuno premettere
come sia quanto mai problematico ricavare una precisa definizione dei concetti di equità e
diseguaglianza. Bisogna, infatti, stabilire quale sia precisamente l’oggetto che intendiamo
studiare e, quindi, gli indicatori utili ad analizzarlo (misurando sviluppo economico, standard
di vita, povertà e diseguaglianze), le finalità da perseguire e le loro modalità pratiche di
attuazione. Esistono diversi possibili concetti equità che mirano a: a) evitare la
cristallizzazione della ricchezza, b) garantire un paniere minimo vitale, c) evitare
discriminazioni (equità orizzontale), d) introdurre un tetto per ridurre la concentrazione tra i
più ricchi (i.e al top), e) aumentare la quota dei redditi per i decili più bassi, f) ridurre i
differenziali salariali, g) garantire un reddito di inclusione (o di cittadinanza) non lasciando
nessuno al di sotto della linea di povertà, h) dare ad ognuno secondo i suoi bisogni.
Se proviamo ad accantonare al momento l’approccio normativo per affrontare il problema
da un’ottica positiva, cercheremo risposte a quesiti quali: (a) perché si sia verificata una data
distribuzione del reddito, (b) come tale distribuzione si modifichi in seguito a date variazioni
nei parametri esogeni del modello.2 Ciò tuttavia ci rimanda al concetto stesso di distribuzione
del reddito, che può essere intesa in modo diverso a seconda che si faccia riferimento alla
ripartizione del prodotto tra i fattori produttivi o del reddito tra individui od aggregazioni di
più individui, come le famiglie. Tralasciando possibili distinzioni legate all’ambito territoriale,
si usa distinguere tra distribuzione funzionale del prodotto tra i fattori (con le categorie di
redditi da lavoro, profitti, interessi, rendite) e personale del reddito (o della ricchezza) tra i
diversi soggetti. Il loro collegamento è divenuto sempre più articolato e complesso, dato il
progressivo superamento della distinzione tra salariati, imprenditori e capitalisti. Infatti, ogni
soggetto percepisce redditi di natura diversa (stipendi, profitti, interessi, rendite) con un
ammontare ed una composizione non necessariamente stabile nel tempo. Inoltre, nel
determinare la distribuzione personale complessiva (quella forse più rilevante, in quanto
meglio evidenzia le differenze di benessere tra soggetti diversi), entrano in gioco una serie di
concause, quali abilità naturali, livello di istruzione raggiunto, eredità, origini familiari, etc.
Concetto e indicatori di diseguaglianza non sono, quindi, univoci, ma dipendono
dall’obiettivo specifico che l’indagine si propone. Ad esempio, un’indagine statica tipo crosssection fotografa individui in fasi diverse della vita e porta a confrontare unità eterogenee
evidenziando notevoli diseguaglianze anche a parità di reddito medio nell’arco dell’intera vita.
Tale problema è, invece, evitato da un’analisi dinamica che segua l’evoluzione della
situazione nel tempo.
1
È consueto che i meno avvantaggiati obiettino a vedere i ricchi arricchirsi. Anche nei paesi ricchi, le reazioni di giovani
e disoccupati possono mettere a rischio la stabilità del sistema socio-economico.
2 Nell’analisi empirica si considerano frequentemente date forme funzionali, quali l’ipotesi paretiana N = c Y-a e quella
lognormale e si analizza la loro dinamica nel tempo per evidenziare l’evoluzione delle caratteristiche della distribuzione.
5
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
Prima Versione.
E’ inoltre difficile definire precisamente gli attributi economicamente rilevanti. Ad es.
differenze di reddito e ricchezza possono non implicare necessariamente diseguaglianze, ove
si tenga conto adeguatamente di diversità nei bisogni e meriti, a livello demografico e
regionale o della mobilità sociale.
Per chiarire meglio i problemi, ritorniamo all’usuale approccio della teoria economica e
supponiamo di volere misurare la diseguaglianza in termini di benessere individuale,
identificato per semplicità dalla funzione di utilità diretta U = U(x) (funzione del vettore dei
beni x) che l’individuo massimizza sotto il vincolo di bilancio p x = M (spesa = risorse
economiche disponibili). Servendoci della funzione di utilità indiretta U = V(p, M) vediamo
come il benessere dipenda dai prezzi e dalle risorse disponibili (identificabili con il reddito o
3
la ricchezza).
Accettando l’ipotesi utilitarista, ovvero di utilità cardinale decrescente, è facile osservare come,
dati i redditi dei diversi soggetti, l’obiettivo di massimizzare il benessere sociale W implichi una
equidistribuzione dei redditi con identiche funzioni di utilità. Ciò implica naturalmente una forte
attività redistributiva: considerando la figura 6 con due individui A e B aventi rispettivamente il
reddito YA ed YB ciò implica una redistribuzione da A a B fino a giungere da A e B ad A’ e B’,
con un beneficio netto bn.
Tale constatazione giustifica (dal lato delle imposte) la teoria del sacrificio minimo che,
per minimizzare il sacrificio della collettività, prescrive di raggiungere, con le imposte,
l’eguaglianza dei redditi e di assoggettare ad imposta prima l’individuo con reddito maggiore,
il che implica un sacrificio crescente al crescere del prelievo. In particolare, in figura 6 con la
teoria del sacrificio minimo avremo imposte solo su A fino a che partendo da A giungiamo
ad A”, con un sacrificio pari ad AYAYA”A” La medesima imposta su B avrebbe comportato
un sacrificio maggiore. Ciò implica ovviamente un sistema fortemente progressivo.
Fig. 6
U’
F ig . 7
U’
A”
AE
B
A”
B’
bn
A’
A
A’
bn’ bn”
B’
BE
B”
→∆Y
YA Y’A
Y”A
C
→∆Y
YB Y’B
Y’A
Y EA Y”A
Y’B Y EB
Y”B
La questione diventa problematica ipotizzando utilità differenti. Massimizzare il benessere
sociale W non implica più una equidistribuzione dei redditi ma un reddito maggiore
3
Il nostro approccio è al momento volutamente semplicistico. In generale, va ricordato, infatti, come la funzione indiretta
di utilità V(p, t, g, M) sia inoltre influenzata da imposte e trasferimenti t, dall’effettiva possibilità di accesso ai servizi
pubblici g. È inoltre importante considerare la disponibilità di redditi, beni e servizi dei familiari (non ignorando quindi la
dimensione familiare in generale un tema che affronteremo in seguito).
6
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
Prima Versione.
all’individuo con maggiore “sensibilità” Y’A > Y’B. Entrano quindi in gioco problemi di non
comparabilità delle utilità.
In ogni caso, Lerner, con l’ipotesi di incertezza circa l’attribuzione della funzione di utilità
tra i due individui, mostra che l’equidistribuzione minimizza le perdite dovute ad errori.
Confondendo i due soggetti (A con B in fig. 7) mentre con equidistribuzione avremo un costo
pari a bn” il costo sarebbe nettamente maggiore (fari a bn”) discriminando tra i due soggetti in
base alla diversa sensibilità.
Restano tuttavia i problemi di comparabilità (è possibile sommare utilità diverse?) e di
ipotesi di probabilità (vale la conclusione se probabilità errore è minore del 50%?).
È utile aprire una breve parentesi sulle motivazioni della redistribuzione, che può derivare da
moventi sia benevoli che malevoli e sul problema di un’equa distribuzione delle risorse (ad es. in
assenza di invidia).
La redistribuzione benevola si verifica quando le utilità sono interdipendenti, sicché dei
trasferimenti volontari aumentano il benessere di entrambe gli agenti economici, quando il
reddito di uno dei due agenti è al di sotto di una data soglia. Supponendo un reddito di
equilibrio YE ed un livello di utilità marginale del reddito pari ad u° per l’individuo A, se il
beneficio che trae dal reddito di B è uAB sarà ottimo redistribuire quando il reddito di B è
inferiore ad Y”B in fig. 8.
Tale interdipendenza modifica la frontiera delle utilità (fig. 9) e la redistribuzione aumenta
contemporaneamente equità ed efficienza (potendosi considerare un bene pubblico). La
redistribuzione aumenta l’utilità di che dona e di chi riceve e comporta uno spostamento da f
ad f* (o ad es. da A’ ad A).
u
F ig . 8
u B + u AB
UA
A
f*
F ig . 9
E
f
B’
B”
u AB
u°
B
uB
A’
BE
A”
UB
Y ’B
Y ”B
Y
E
B
I problemi di redistribuzione non sono sempre unidimensionali. Data la distribuzione delle
dotazioni tra 2 e possono quindi dipendere dalla presenza di differenti funzioni di utilità,
individui possiamo guardare all’equità come assenza di invidia. Se gli individui A e B
avessero la stessa funzione di utilità il punto E di equidistribuzione sarebbe un punto di
ottimo. Ciò non si verifica nel caso in figura, anche se sicuramente in tal punto nessuno
invidia la situazione dell’altro. Naturalmente partendo da tale situazione non si arriverebbe
con lo scambio ad E’ o E” ; due allocazioni simmetriche preferite rispettivamente da A e da
B. In sostanza, come vediamo in figura 10, se B preferisce E” (l’allocazione simmetrica) ad
E’ tale allocazione non è equa per B. In figura 11, partendo da E2 trovo allocazione equa ed
efficiente E3 su A’A”, che non implica equidistribuzione dei beni tra i due agenti.
7
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
Fig. 10
xB1
Prima Versione.
xB1
Fig. 11
B
B
xB2
B
2
x
E1
E”
UA2
A
1
U
UB2
UA1
E’
E
UB1
UA2
A”
E2
E3
UB2 UB1
xA2
A
xA2
A
xA1
UA3
A’
UB3
xA1
La redistribuzione malevola è un caso di un certo interesse che implica una redistribuzione
di reddito da soggetto “invidiato” ad un terzo neutrale. In pratica, l’invidia può causare
interdipendenza, sicchè UA diminuisce con l’aumentare UB e viceversa. Partendo da E1 quindi
le utilità di A e B aumentano se i loro redditi sono redistribuiti a terzo neutrale. Una posizione
di ottimo sarà tipo E2, lungo da curva dei contratti A’A”.
F ig. 12
YB
U
E2
U
U
0
E1
A
1
U
B
1
Y
r2
n1
r1
B
2
F ig . 1 3
n2
A
E
En
A
2
Er
E3
YA
0
Yr
E°
Yn
Ym
Y
B
In presenza di meccanismi istituzionali imperfetti, tale situazione può eventualmente
secondo alcuni condurre persino ad un eccesso redistribuzione, come E3 in fig.12.
Torniamo ora al problema pratico abbandonando definitivamente l’ipotesi di utilità
cardinale. Un problema fondamentale nel misurare la diseguaglianza è (come nel caso della
SWF) la scelta di una forma funzionale di riferimento W(Ya, Yb) e l’eventuale rispetto del
criterio di miglioramento paretiano (applicato al reddito). Dati i teoremi di impossibilità si può
pensare ad una scelta arbitraria (non democratica), tuttavia implicita in ogni decisione di
governo e parlamento.
Tale scelta non è indifferente, ne di poco conto. Considerando due soggetti e partendo ad
esempio da una situazione E° possiamo chiederci a quanto reddito siamo disposti a rinunciare
per eliminare la diseguaglianza. Ovvero, quale è la distribuzione egualitaria tra i due soggetti
(sulla retta bisettrice a 45 gradi) che comporta lo stesso benessere sociale. Un ragionamento
che come vedremo è la base logica dell’indice di Atkinson.
La risposta è abbastanza semplice adattando al caso l’impostazione limite rawlsiana
(ovvero dando peso nullo al reddito marginale del più benestante) o l’impostazione limite
benthamita (ovvero dando peso eguale ad ogni reddito marginale). In pratica, Er è
l’equidistribuzione Rawls-equivalente ad E°, sicchè ridurre la diseguaglianza è sempre valido
anche a costi infiniti. Viceversa, applicando la funzione utilitarista E è l’equidistribuzione
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
8
Prima Versione.
Bentham-equivalente ad E°, sicchè ridurre la diseguaglianza non è mai valido anche a costi
trascurabili. Come al solito tra questi due casi estremi si muovono le usuali forme funzionali
come as es. Nash. In questo caso En sarà l’equidistribuzione Nash-equivalente ad E°.
Come premesso seguendo la logica precedente otteniamo un indice di diseguaglianza utile
operativamente, l’indice di Atkinsondato dalla differenza percentuale tra n1 ed n2 ovvero (Ym
– Yn)/Ym (o tra r2 ed r1 ovvero (Ym – Yr)/Ym).
Sotto il profilo operativo, misurare la diseguaglianza ci porta ad una breve digressione sulla
definizione delle risorse economiche disponibili M che è opportuno considerare; ovvero alla
scelta tra il reddito Y e la ricchezza R. Prima di operare tale scelta è utile esaminare i due
concetti, il loro collegamento, nonché le implicazioni in termini di oggetto di studio e
problemi operativi.
In pratica il reddito Y misura l’aumento di risorse economiche di un soggetto in un dato
periodo, mentre la ricchezza R la disponibilità immediata complessiva. Una definizione di
reddito comprensiva, che collega le due variabili è quella, di H. Simons, del reddito entrata
come consumo potenziale (ossia possibile senza modificare lo stock di ricchezza), ovvero Yt =
Ct + ∆Rt (con saggio di interesse costante). Anche il reddito spesa Ct, data la sua minore
volatilità nel tempo, può essere un buon indicatore del benessere atteso.
Il reddito risulta particolarmente utile se intendiamo comparare incrementi di benessere
dovuti a risorse addizionali Vi(p, M+Yi)-Vi(p, M) > Vj(p, M+Yj)-Vj(p, M). La ricchezza,
invece, è più appropriata se la comparabilità del benessere è in termini di livello Vi(p,
Ri)>Vj(p, Rj). Generalmente politici, studiosi e collettività sono interessati a confrontare sia i
livelli Ri, che i guadagni di benessere Yi. Purtroppo, in entrambe i casi, si pongono seri
problemi operativi.
Pur essendo il reddito un dato normalmente disponibile e di facile interpretazione, bisogna
decidere a quale definizione riferirsi, se comprendere per esempio fringe benefits, capital
gains, illegal income, home production e tenere conto che tali grandezze dipendono anche in
misura rilevante da scelte individuali, fattori stocastici etc. e che l’unità di tempo nella quale si
opera il confronto resta comunque arbitraria. Viste le difficoltà operative, sembra utile basare
l’analisi sul convenzionale periodo annuale e su grandezze quali il reddito imponibile (al netto
quindi dei contributi) trascurando tipologie reddituali difficilmente misurabili.
Per calcolare la ricchezza bisognerebbe, invece, aggregare attività diverse (comprendendo
attività intangibili quali la ricchezza umana) in termini monetari in modo da considerare
l’effettivo potere economico a disposizione degli individui (e non sempre i prezzi di mercato
rispondono a tale fine). In tal caso, operativamente, sembra utile tralasciare le attività
intangibili e suddividere la ricchezza reale e finanziaria (considerando in modo distinto la
prima abitazione di proprietà, visto l’orientamento del policy maker).
Una ulteriore misura, teoricamente molto valida, emerge considerando la dimensione
temporale in modo da comprendere i periodi futuri nei quali ogni unità opera. In tal caso M
indica la ricchezza “lifetime” totale (i.e. la somma complessiva dei redditi futuri attesi). I
problemi operativi in questo caso sono anche maggiori, date le difficoltà di prevedere i redditi
futuri e di valutare l’incertezza. Si delinea, per esempio, il problema di personalizzare il
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
9
Prima Versione.
vettore dei prezzi, in presenza, ad esempio, di mercati dei capitali imperfetti (e quindi di tassi
di interesse differenziati implicitamente presenti nei prezzi futuri). È quindi opportuno
considerare in parte la ricchezza “lifetime”, superando i problemi operativi suaccennati,
considerando l’accumulo dei redditi imponibili da lavoro (provenienti ad esempio da una
carriera standard) e delle pensioni percepite in un periodo standard (differenziato per sesso),
distinguendo tra ricchezza retributiva e pensionistica avendo queste di norma un livello di
utilità differente come evidenziato dalla decisione di andare in pensione.
Una volta superati i problemi concettuali ed operativi relativi alla definizione delle risorse
economiche disponibili M, possiamo approfondire la questione ritornando al discorso sulla
valutazione della diseguaglianza. Sulla scorta del contributo di Bergson del 1938, si potrebbe
ricorrere a funzioni del benessere collettivo W(V1, …, Vi, …, Vn), crescenti in termini di
benessere individuale, ∂W/∂Vi>0. In tal modo potremmo valutare la diseguaglianza
soddisfacendo il criterio di miglioramento paretiano (il benessere aumenta se migliora la
situazione di almeno un individuo, senza peggiorare quella degli altri), pur introducendo
esplicite comparazioni interpersonali e valutazioni redistributive.
Le valutazioni sono tuttavia differenti, a seconda che si adotti la funzione utilitaristabenthamita W = Σi Vi, o rawlsiana W = mini (Vi) con curve di indifferenza ad angolo,
quando Va = Vb (lungo la bisettrice).4
In generale, la funzione del benessere collettivo W permette di valutare in concreto i diversi
stati del mondo raggiungibili dal sistema economico misto (dove con la redistribuzione, il
benessere può aumentare per alcuni e diminuire per altri) rappresentati dalla grande frontiera
delle utilità (che considera i punti di ottimo paretiano, dove non e possibile avere ulteriori
miglioramenti paretiani) eventualmente vincolata, dati gli strumenti imperfetti a disposizione
del policy maker.
Tuttavia, anche una volta risolti i problemi di scelta, ipotizzando gusti uguali (Vi=V) ed una
data funzione del benessere i precedenti attributi di reddito e ricchezza individuali restano
comunque insufficienti per misurare in modo realistico la diseguaglianza. Infatti la nostra
analisi ci potrebbe facilmente condurre ad equiparare benessere ed opulenza privata (i.e.
comando sui beni U(xi)) giungendo a farci confondere finalità e strumenti. Infatti, al di là del
possesso dei beni, contano fattori demografici e regionali, indicatori di ‘sviluppo umano’, la
soddisfazione dei ‘bisogni di base’, la distribuzione familiare dei beni x acquistati sul
mercato.5
4
Questa funzione non è distributivamente neutrale, ma non è distintamente egualitaria, poichè non considera
negativamente aumenti di utilità che allontanano un soggetto dalla situazione Va = Vb, ma attribuisce ad essi un peso
nullo.
5 Neppure questi sono l’unico argomento del benessere, esistono anche inquinamento, crimine, disarmonie sociali. Inoltre
va riscontrata la dimenticanza di vincoli quali ad es. condizioni fisiche e culturali oggettive e dell’ampiezza di opportunità
e scelte a disposizione dei differenti individui. Bisognerebbe quindi considerare (oltre ai risultati raggiunti xi in termini di
beni) le effettive opportunità (gradi di libertà individuali). Ciò indica come nell’analisi della diseguaglianza personale
entrino a pieno titolo oltre ad elementi economici (diversi dai comuni concetti di reddito e ricchezza) anche fattori extraeconomici (non tutti di eguale rilevanza economica) a meno di cadere nel cosiddetto ‘feticismo delle merci’.
10
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
Prima Versione.
3. La disuguaglianza al di là dell’approccio welfarista ed individualista.
Ignorando beni pubblici e imposte possiamo riferirci alle analisi di Lancaster, alla
produzione familiare di Becker ripresa nell’approccio dei functioning di Sen (Commodities
and Capabilities e Standard of Living 1985) V = vi(fi(c(x))), dove x indica i beni posseduti
[che possono collegarsi a reddito e ricchezza x=x(p, M)], c converte i beni in caratteristiche, fi
rappresenta la funzione personale di utilizzazione (functioning legati alle caratteristiche
personali) ed appartiene ad Fi l’insieme delle funzioni disponibili (functioning space). fi(c(x))
indica quindi il vettore dei risultati raggiunti (functioning achievements) scegliendo fi ossia
come i sia in grado di utilizzare i beni. La funzione di valutazione vi infine può essere una
scalare (Ui il livello di soddisfazione) o un ordinamento parziale del benessere in relazione ai
funzionali raggiunti.
Beni
Ambiente:
politico
sociale
fisico
Caratteristiche materiali
Capacità
personali di
funzionamento
Caratteristiche
personali
Risultat
(functioning
Benessere
Stato
psichico
Anche se esiste uno standard comune di valutazione v tra individui diversi (con identiche
valutazioni degli stati sociali) e siamo in grado di fare comparazioni interpersonali del
benessere resta un problema di valutazione di “insieme” poiché le possibilità di scelta tra i
beni possono essere limitate in modo diverso e gli “insiemi” Fi (delle capacità di base rilevanti
per diseguaglianza) differire (la loro ampiezza misura le capacità del soggetto -’libertà’) il che
può essere in parte influenzato da politiche pubbliche. A ciò é connessa anche la valutazione
del vantaggio ex ante dei risultati ottenibili in situazioni di incertezza.
Esistono quindi problemi economico-metodologici di valutazioni interpersonali dato che la
rappresentazione delle scelte (ciò che la persona massimizza) non coincide necessariamente
con la auto-valutazione del proprio benessere e questa non si restringe necessariamente
all’intensità della soddisfazione o al rapporto desiderio-realizzazione (che considerano solo le
attitudini mentali) ma comprende elementi quali condizioni fisiche, lo status sociale e la
valutazione delle condizioni di vita desiderabili.
In particolare, al di là dei precedenti problemi di misurabilità e/o comparabilità, l’approccio
economico-individualista (da noi esemplificato) usualmente trascura le questioni che
emergono sia nella scelta dell’unità sociale di riferimento (individuo, famiglia nucleare o
estesa) che nella valutazione del benessere di unità pluri-individuali differenti, operando
attraverso scale di equivalenza e ignorando le disuguaglianze al loro interno. Dipendendo il
benessere individuale principalmente da quello della famiglia di appartenenza e dal suo
comportamento, è però ovvio che l’analisi debba soprattutto considerare la distribuzione di
redditi e ricchezza familiare. Usualmente, data la presenza di forti economie di scale, si tende
11
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
Prima Versione.
a privilegiare la famiglia rispetto ai soggetti individuali, ed in particolare ci si basa sulla
famiglia di fatto (household) piuttosto che su quella anagrafica (family). Si pone quindi il
problema di quale reddito o ricchezza considerare. A parità di reddito complessivo due
famiglie non hanno lo stesso livello di benessere in quanto su quest’ultimo influiscono le
caratteristiche demografiche del nucleo familiare, in primo luogo la numerosità. L’utilizzo del
reddito pro capite presenta un difetto opposto, favorendo le famiglie numerose, poiché non
tiene conto delle economie di scala che si creare nella famiglia. Operativamente, per risolvere
la questione si utilizzano le scale di equivalenza, che sono dei coefficienti che permettono di
calcolare il reddito equivalente, il quale è indipendente dalla numerosità della famiglia.
Utilizzando date scale di equivalenza (tra n componenti ed a adulti equivalenti) si
trasformano i redditi effettivi dei vari tipi di famiglie in redditi equivalenti. Vari sono i metodi
utilizzati per costruire le scale di equivalenza, tra i quali quelli di tipo econometrico, che si
rifanno alla relazione individuata da Engel tra reddito, quota di spesa per generi alimentari e
numerosità familiare.6 Un metodo pratico oggi in voga, utilizza invece la funzione
esponenziale a = ns (in particolare l’OCSE ha usato questo metodo ponendo s = 1/2). Si noti
che per un parametro s = 0, a = 1 (il che corrisponde a non fare alcuna correzione rispetto al
reddito monetario, favorendo i singoli), con s = 1, a coincide invece con il numero dei
componenti ed il reddito equivalente corrisponde al reddito pro capite, favorendo le famiglie
numerose.
In tav 1 sono indicati i coefficienti di alcune scale di equivalenza normalizzati rispetto al
valore della coppia; i valori delle diverse scale sono vicini tra loro per cui la scelta dell’una o
dell’altra ha un peso assai limitato, la scala 30 ha indubbie doti di semplicità e non sfavorisce
eccessivamente né le famiglie numerose, né i single, un fenomeno emergente nelle società
moderne.7
Tav. 1 Scale di equivalenza a confronto
Componenti n =
OCSE
Carbonaro
Scala 30
ISTAT
1
0,71
0,60
0,70
0.67
2
1,00
1,00
1,00
1.00
3
1,23
1,34
1,30
1.42
4
1,41
1,63
1,60
1.80
5
1,58
1,91
1,90
2.27
6
1,73
2,16
2,20
2.61
7
1,87
2,40
2,50
2.95
4. Le misure di disuguaglianza.
Un modo standard di misurare operativamente la disuguaglianza e la sua evoluzione nel
tempo è utilizzare un indice che, esprimendo in modo sintetico la concentrazione dei redditi,
sia in grado di confrontare distribuzioni alternative e di individuare quella maggiormente
desiderabile In altre parole, un indice di disuguaglianza è una funzione D (y ) , del vettore
y = {y1 ,..., y N } dei redditi. Solitamente i valori sono normalizzati in modo da essere compresi
6
Engel notando che la quota di spesa alimentare decresce rispetto al reddito e cresce rispetto alla numerosità familiare
pensò di utilizzare tale quota come indicatore di benessere e ricavò un coefficiente che indica di quanto deve aumentare il
reddito, al variare della numerosità familiare, per mantenere inalterato il benessere.
7 Tali serie di coefficienti, crescente al crescere del numero di individui, servono ad eliminare l’eterogeneità dei redditi
dovuta alla diversa numerosità delle unità familiari.
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
12
Prima Versione.
tra 0 e 1. Usualmente, questi valori estremi (0 e 1) rappresentano rispettivamente il caso di
perfetta uguaglianza e di massima disuguaglianza. È importante tenere sempre presente come
ogni misura, metta in risalto aspetti particolari della disuguaglianza e incorpori quindi dei
giudizi di valore.
Per la costruzione degli indici di disuguaglianza si possono seguire tre approcci: (i)
assiomatico, basato sulla specificazione delle proprietà che la misura della disuguaglianza
deve possedere, (ii) statistico, consistente nell’utilizzare le comuni misure statistiche oggettive
di disuguaglianza (esaminato in precedenza) e (iii) welfarista, che considera una determinata
funzione di benessere sociale, atta a fornire una misura normativa della disuguaglianza.8
Ovviamente con l’approccio assiomatico, maggiore è il numero di assiomi imposti, più
ristretto è l’insieme delle misure che rispettano gli assiomi. Secondo questa impostazione un
indice di disuguaglianza deve soddisfare almeno: (a) l’assioma di simmetria (restando
insensibile a permutazioni tra i redditi),9 (b) l’assioma d’indipendenza dalla media (la
disuguaglianza non muta al variare dell’unità con la quale si misura il reddito, i.e.
D (y ) = D (λ ⋅ y ) , per ogni λ > 0 ) essendo una misura relativa di disuguaglianza) e (c) il
principio del trasferimento (o principio di Pigou-Dalton, che richiede una riduzione della
disuguaglianza quando si trasferiscono risorse da un ricco ad un povero, senza alterare
l’ordinamento dei soggetti).10
L’approccio statistico, come già ricordato, fa uso delle tradizionali misure statistiche di
diseguaglianza. Tra questi sono da segnalare:
a) lo scarto relativo medio
s = Σi |m-yi|/n,
b) la varianza
σ2 = Σi (m-yi)2/n
c) il coefficiente di variazione c = σ/m = [Σi (m-yi)2/n]½/m
dove n è in numero degli i individui e m = Σi yi/n il loro reddito medio.
La varianza rispetta l’assioma di simmetria ed il principio del trasferimento, in quanto ha il
pregio di attribuire un peso tanto maggiore quanto più i redditi sono distanti dalla media, ma
non rispetta l’assioma di indipendenza dalla scala, essendo un valore assoluto. Dividendo la
radice della varianza (lo scostamento quadratico medio) per la media otteniamo il coefficiente
di variazione che soddisfa tutti e tre gli assiomi.
Questi indici valutano positivamente un trasferimento dai ricchi ai poveri, ma non
distinguono a sufficienza tra i diversi livelli di bisogno. Per evitare questo limite si usano
spesso i logaritmi dei redditi. La varianza logaritmica, cioè calcolata sul logaritmo del reddito
σ2v = Σi [ln(m)- ln(yi)]2/n non solo rispetta il principio di indipendenza dalla scala di
equivalenza ma rileva una riduzione della disuguaglianza tanto maggiore quanto più povero è
8
L’impiego di questi metodi può condurre alla stesso indice, ma i diversi ragionamenti seguiti permettono di evidenziare
le ipotesi sottostanti alla funzione, altrimenti implicite
9 Considerando come unità la famiglia è richiesto solo che l’indice sia insensibile a permutazioni tra i redditi di famiglie
omogenee.
10 In pratica data la distribuzione iniziale del reddito y, due individui i e j con reddito pari a y e y con y > y ed una
i
j
i
j
∗
distribuzione alternativa y che differisce da quella iniziale per il fatto che si è realizzato un trasferimento di reddito da j
(
)
( )
a i di importo k < yi − y j , deve valere che D (y ) > D y .
∗
13
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
Prima Versione.
il beneficiario del trasferimento, in quanto il passaggio ai logaritmi comporta una maggiore
riduzione delle distanze assolute tra i redditi più elevati rispetto a quelli bassi.
Tuttavia, anche tale misura considera la dispersione delle risorse rispetto alla media, più che la
sperequazione nella ripartizione, a differenza di misure oggettive quali la curva di Lorenz e l’indice di
Gini.
Lo strumento principe per misurare variazioni nella distribuzione dei redditi (anche in
conseguenza delle imposte) è tuttavia la curva di Lorenz, ideata nel 1905 dall’omonimo
statistico, che pone in relazione la percentuale del reddito con quella dei redditieri:
Ordinando in modo crescente la popolazione degli n redditieri (i.e. y1 < y2 < ... < yi < ... < y N ,
la curva di Lorenz è definita come il luogo dei punti ( pi , qi ) , dove pi =
i ∈ [0, n] .
i
, qi =
n
i
∑
j =1
y
j
n ⋅m
In pratica, le frazioni cumulate della popolazione (pi = i/n) e del reddito qi = Σ(yj/nm), sono
rappresentate rispettivamente sulle ascisse e sulle ordinate.
i
Li( ) =
n
i
∑
j =1
y
j
n ⋅m
Essa è molto usata anche perché di immediata comprensione, essendo rappresentabile in un
quadrato di lato unitario (visto che pn = qn = 1) ed indicando ogni punto la percentuale di
reddito posseduta da una certa frazione della popolazione. La curva coincide con la diagonale
principale del quadrato (una retta a 45°) nel caso di equidistribuzione delle risorse, altrimenti
si trova al di sotto della diagonale. Nel caso di massima concentrazione dei redditi, un solo
individuo detiene tutto il reddito e la curva coincide con la base ed il lato destro del quadrato.
Una distribuzione è più o meno concentrata di un’altra se la relativa curva è al di sotto o al
di sopra dell’altra, come risulta dalla successiva figura ad es. Y è più concentrata di X.
Un’imposta proporzionale lascia la curva dei redditi netti invariata rispetto ai lordi, una
progressiva (dove i più poveri pagano meno) provoca uno spostamento della curva verso l’alto
(da Y ad X), una regressiva sposta la curva verso il basso(da Y ad X). Alternativamente
possiamo confrontare la concentrazione del gettito fiscale con il reddito iniziale. Con
un’imposta proporzionale la curva di concentrazione del gettito e dell’imponibile coincidono,
mentre la curva di concentrazione del gettito di un’imposta progressiva Y (regressiva X) è al
di sotto (sopra) di quella del reddito iniziale essendo X più ( Y meno) concentrata.
In particolare la Lorenz-dominanza indica che tra due distribuzioni quella più elevata (se ha
media non inferiore) è preferita dalle normali funzioni del benessere W(V(y1), ...V(yn)),11
paretiane con ∂W/∂yi>0 e ∂2W/∂yi2<0.
Tuttavia, poiché le curve possono intersecarsi (come Z ed X) non tutte le distribuzioni dei
redditi sono ordinabili secondo il principio della dominanza di Lorenz. Il criterio della
dominanza di Lorenz quindi non sempre permette di determinare una distribuzione più
desiderabile. Ciò non costituisce però una debolezza del metodo, ma evidenzia la difficoltà di
descrivere un fenomeno complesso, come la disuguaglianza, con un singolo valore numerico.
11
Il teorema della dominanza di Atkinson considera una funzione di benessere sociale scomponibile e additiva, non
decrescente, simmetrica e concava
14
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
Prima Versione.
Per superare il problema si può fare riferimento all’indice di Lorenz (o di Gini) L’indice di
Gini si può esprimere in funzione delle frazioni cumulate della popolazione pi, e da quelle
cumulate del reddito qi, ossia in relazione alla curva di Lorenz.
N −1
N −1
N N
1
G(y) = ∑( pi − qi ) / ∑ pi =
⋅ ∑∑ yi − y j
1≤i≤n
2n(n − 1)m i=1 j =1
i =1
i =1
Esso ha perciò una semplice interpretazione geometrica come rapporto tra superficie della
distribuzione e area di equiconcentrazione (pari ad 1/2). Ovviamente, assume un valore nullo
quando l’area di concentrazione è nulla cioè vi è equiripartizione delle risorse, ed un valore
unitario nel caso di massima disuguaglianza, quando l’area di concentrazione corrisponde al
triangolo (area di massima concentrazione).
L’indice da rilievo all’aspetto della disuguaglianza essendo anche la sommatoria delle
differenze tra tutti i valori di reddito. Tuttavia anche in questo caso non si hanno specifiche
informazioni sul grado di asimmetria e si da peso eguale a trasferimenti tra redditi bassi, medi
ed alti.
1
m"
G L i ( i/n )
m'
Li(i/n)
Y
X
Z
Σj=1, i(yj /nm) 1
Σ j= 1 , i ( y j / n )
1
In particolare, l’indice di Gini si basa su una funzione del benessere sociale pari alla somma
ponderata dei redditi individuali, con pesi pari al posto occupato da ogni individuo nella scala
dei redditi. Per ovviare ai limiti della Lorenz dominanza si è generalizzata la curva di Lorenz
moltiplicandola per il reddito medio (che assume così un valore massimo pari a m invece che
1).
i
n
LGi( ) =
i
∑
j =1
y
n
j
1≤i≤n
Il teorema della dominanza di Lorenz generalizzata afferma che tra due distribuzioni quella
più elevata è preferita dalle funzioni del benessere paretiane. Tuttavia, le curve possono
intersecarsi tra loro, sicché non tutte le distribuzioni dei redditi sono ordinabili, senza ricorrere
12
ad ulteriori informazioni derivabili ad esempio dalle funzioni del benessere.
12
In questo caso, la distribuzione preferita dipende dal valore assunto dalla derivata terza della funzione di benessere
sociale, ovvero dal grado di avversione alla disuguaglianza del policy maker. Infatti, la derivata terza può essere
considerata un indicatore dell’avversione alla disuguaglianza indicando la sensibilità della funzione di benessere a
trasferimenti di reddito tra soggetti con livelli differenti di reddito.
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
15
Prima Versione.
Atkinson considerando la funzione del benessere utilitarista W = ΣiU(yi) ed una funzione
di utilità U(y) = y1-ε/(1-ε) (per ε≥0, ε≠1) [U(y) = ln y per ε=1] ricava un indice di inefficienza
13
distributiva A(ε). A differenza delle misure statistiche, come l’indice di Gini, che
incorporano implicitamente funzioni del benessere arbitrarie, i confronti basati sull’indice di
Atkinson dipendono da una funzione di benessere sociale ben identificata e sulla scelta di ε,
un parametro di avversione alla disuguaglianza.
In pratica, l’indice di Atkinson parte dal reddito equivalente equamente distribuito, ye, che
se posseduto da ogni individuo, assicurerebbe il medesimo livello di benessere della
distribuzione attuale y [i.e. ΣiU(yi) = n U(ye)]. Esso è pari a:
A(ε ) =
 y 
m − ye
= 1 − ∑  i 
m
 i =1  m 
N
1−ε



1
1−ε
In pratica, A(ε) misura l’inefficienza distributiva, indicando la frazione di reddito cui la
collettività potrebbe rinunciare, passando dall’attuale distribuzione ad una equidistribuzione
tale da mantenere inalterato il benessere della collettività. Alternativamente, A(ε) indica
l’aumento di benessere derivante da una redistribuzione egualitaria del reddito. Al crescere di
ε il valore di A(ε) aumenta, poiché un incremento dell’avversione alla disuguaglianza accresce
il benessere che implica un passaggio all’equidistribuzione.
È possibile determinare il valore di ε soggettivamente in base alla propria avversione alla
disuguaglianza, fissando x la massima perdita percentuale accettabile perché un trasferimento
di ricchezza da un ricco ad un povero sia ancora desiderabile.
1
ε=
2⋅ x
Se si ritiene accettabile prendere il 25% in questa redistribuzione di reddito avremo un
valore di ε pari a 1/2, se la perdita accettabile è il 75% allora ε pari a 2, e così via.
5. Concetto e misure della povertà.
Legato al concetto disuguaglianza è il concetto di povertà, anch’esso misurato con
strumenti di derivazione sia statistica che assiomatica. Si tratta, tuttavia, di un concetto
eminentemente operativo. Infatti, differentemente dalla disuguaglianza il punto di partenza è
l’identificazione di coloro i quali appartengono alla “categoria” dei poveri. Tale
identificazione viene fatta fissando una soglia di reddito o “linea della povertà” e
considerando poveri coloro che non superano tale soglia.
In pratica, dato il vettore dei redditi y = {y1 ,..., y n } e la soglia di povertà z (da definire secondo una
delle metodologie che definiremo nel seguito), il numero di coloro che hanno un reddito yi < z è una
funzione della distribuzione dei redditi e della soglia q = q (y , z ) .
Comunemente la definizione di questa soglia segue due criteri alternativi, basati sui concetti
di povertà: (a) assoluta (che considera un paniere dei beni e servizi di sussistenza,
13
Il benessere dipende quindi da ε (il parametro di avversione alla disuguaglianza), in particolare la funzione di benessere
è pari alla somma dei redditi se ε = 0 (e quindi totalmente indifferente alla disuguaglianza) e si avvicina ad una funzione di
tipo rawlsiana (pari al reddito dell’individuo più povero) al crescere di ε ed al suo tendere ad un valore infinito. Cfr.
Atkinson (1980).
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
16
Prima Versione.
classificando come povero chi non possiede l’equivalente monetario di tale paniere
irrinunciabile di beni primari,), (b) relativa (che considera un insieme di beni crescente al
crescere del tenore di vita medio, evidenziando chi non possiede i mezzi sufficiente per
raggiungere un dato tenore di vita, proporzionale al benessere medio della società).
Il concetto di povertà assoluta è principalmente usato negli studi sulle economie in via di
sviluppo, nelle quali ampie fasce della popolazione si trovano in condizioni di povertà
assoluta. Naturalmente, con il progresso sociale e tecnologico, le condizioni di vita migliorano
e il numero di poveri, calcolati in base al concetto di povertà assoluta, si riduce, senza che si
verifichi necessariamente un miglioramento effettivo nella ripartizione globale delle risorse
divenute disponibili.
Alternativamente, il concetto di povertà relativa, considera, non un paniere “biologico” di
sussistenza, ma un insieme di beni tanto più ampio quanto maggiore è il tenore di vita medio
della collettività. Questo concetto di povertà è relativo, poiché la linea di povertà dipende dal
livello di benessere realizzato dalla società. La linea della povertà è quindi funzione del
reddito individuale, familiare o a volte dal reddito di riferimento di un particolare istituto
assistenziale, come ad esempio il minimo vitale.
OCSE e Unione Europea utilizzano una definizione di soglia di povertà basata sul reddito
medio, considerando convenzionalmente povera una famiglia di due componenti il cui reddito
complessivo non supera il reddito medio pro capite. Conseguentemente, la soglia di povertà
così determinata, varia al variare della numerosità familiare in base al coefficiente della scala
14
di equivalenza . Si tratta di una convenzione non esente da gravi difetti. Ad esempio, in
periodi di recessione, in seguito alla riduzione del reddito medio, può verificarsi una riduzione
del grado di povertà, nonostante il tenore di vita sia globalmente peggiorato.
Gli indici tradizionali di povertà misurano principalmente due aspetti del fenomeno: la
diffusione e l’intensità. L’usuale indice di diffusione della povertà è l’head count ratio, il
quale indica la percentuale della collettività che vive con un reddito al di sotto della soglia di
povertà, i.e. ha un reddito inferiore a z:
H=
q
n
Questo indice, tuttavia non rileva il grado di povertà, ossia non fornisce indicazioni su
quanto il reddito di ogni famiglia sia distante dalla soglia di povertà.
Questa informazione è invece fornita dagli indici di intensità: quali il poverty gap
complessivo e l’income gap ratio.
Per ogni famiglia povera i, il poverty gap, gi , è definito come la differenza tra la soglia di
povertà e il reddito della famiglia: gi = z − yi , sicché il poverty gap complessivo è pari a:
q
PG = ∑ g i
i =1
14
In pratica, fissata la soglia di povertà pari al reddito medio pro capite, per determinare se una famiglia è povera, il
reddito familiare è prima reso equivalente (utilizzando una scala di equivalenza) e, successivamente, confrontato con il
valore della soglia.
17
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
Prima Versione.
Poiché questa misura dipende dalla scala con la quale il reddito viene misurato, solitamente
si preferisce utilizzare un indice relativo come l’income gap ratio, pari al rapporto tra poverty
gap medio e la soglia di povertà:
q
I=
q
∑g /q ∑g
i =1
i
z
=
i =1
i
q⋅z
Si noti come quest’ultima misura consideri l’intensità del fenomeno, senza fornire
indicazioni sulla diffusione della povertà.
Ovviamente una valida analisi del fenomeno povertà dovrebbe comprendere sia le informazioni
che ci fornisce l’head count ratio, sia quelle fornite dall’income gap ratio.
Si noti, infine, come l’income gap ratio sia totalmente indifferente rispetto a redistribuzioni
di reddito all’interno della categoria dei poveri. Tale informazioni possono essere ottenute
considerando un indice di concentrazione, riferito a coloro che vivono al di sotto della soglia
15
di povertà, quale ad esempio l’indice di Gini dei poveri Gp.
Anche nell’ambito delle misure della povertà, accanto ai tradizionali indicatori, si è
sviluppata un’impostazione di tipo assiomatico. Tra questi nuovi indicatori, che soddisfano
particolari proprietà, considereremo l’indice di Sen modificato, particolarmente valido poiché
considera contemporaneamente vari aspetti del fenomeno.
Una prima versione di questo indice è stata proposta da A. Sen (1976) che, nel tentativo di
derivare un’indice che rispettasse determinate proprietà, giunse ad un indice (che ha preso il
suo nome) basato contemporaneamente sull’head count ratio H, l’income gap ratio I e
sull’indice di Gini dei poveri G p . Recentemente, l’indice di Sen è stato modificato da
Shorroks al fine di ottenere una misura che rispettasse ulteriori assiomi; questa misura ha
preso il nome di indice di Sen modificato e viene calcolato con la seguente formula:
P(y, z ) = (2 − H )HI + H 2 (1 − I )G p
La formula appena riportata è sicuramente poco intelligibile. Tuttavia, la procedura seguita
da Shorrocks per ricavarla fa si che essa rispetti, tra le altre, le proprietà di simmetria,
monotonicità.
Questa misura si presta molto bene a fornire indicazioni complete sulla povertà ed è
particolarmente utile per confrontare il fenomeno in paesi differenti. Infatti, l’indice di Sen
modificato è omogeneo di grado 0 in y e z, ed è normalizzato nell’intervallo [0,1]. In
particolare esso assume un valore nullo P(y,z) = 0 quando non vi sono poveri (q=H=0),
mentre è pari all’unità P(y,z) = 1 quando tutti sono poveri (q=H=1) e il reddito è
equidistribuito Gp = 1.
In conclusione, data la sua complessità il fenomeno povertà può essere difficilmente
rappresentato da un singolo indice preso in modo isolato. Volendo considerare l’evoluzione di
questo fenomeno nel tempo in un paese, o confrontare validamente, situazioni alternative,
sembra quindi opportuno considerare congiuntamente gli indici appena considerati.
15
In pratica, tale indice è quello di Gini calcolato però su di un vettore dei redditi ridotto y*, che considera solamente i
redditi al di sotto della soglia di povertà.
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
18
Prima Versione.
II POLITICHE DI STABILIZZAZIONE E DEBITO PUBBLICO.
Come si determina l’equilibrio macroeconomico nel breve periodo? Come agiscono le
politiche fiscali? Cos’è lo spiazzamento? Si può aumentare reddito e surplus di bilancio?
Cos’è la stabilizzazione automatica? Quali indicatori della politica fiscale sono disponibili? Il
deficit influenza l’equilibrio di lungo periodo? Cos’è la sostenibilità del debito? Quali sono gli
effetti dell’imposizione sugli interessi delle obbligazioni pubbliche?
In questa sezione svilupperemo l’analisi delle problematiche legate alla politica fiscale e del
debito pubblico nel modello IS-LM in economia chiusa con un solo bene. In particolare
inizieremo con l’equilibrio sul mercato dei beni IS, considerando gli effetti economici
collegati al bilancio pubblico e trascurando con opportune ipotesi per il momento il mercato
monetario LM e quello dei fattori produttivi AS. Il livello del saggio di interesse i e dell’indice
dei prezzi alla produzione P, sono per ora assunti costanti, in prima approssimazione.
Introdurremo poi la moneta nel modello ed esamineremo l’equilibrio stazionario della
economia nel modello IS-LM.
Inizialmente forniremo il modello complessivo di economia. Il resto della sezione può
essere interpretata o come l’esame di casi particolari del modello o come una serie di
approssimazioni successive (che ci permetteranno un esame accurato del modello e delle
conseguenze delle possibili ipotesi semplificatrici).
1. Il modello reale ed il teorema del bilancio in pareggio.
Consideriamo il seguente modello di economia reale. Esso sarà esaminato in questo
capitolo attraverso approssimazioni successive e costituisce la base per la formulazione della
curva IS, alla quale aggiungeremo poi la LM.
Il nostro punto di partenza è l’equilibrio sul mercato dei beni tra offerta Y e domanda
aggregata in termini reali (C + I + G + E - X), destinata al consumo privato C pubblico G ed
all’investimento privato I (Y = C + I + G + E - X). Possiamo ignorare il settore estero,
ipotizzando la bilancia commerciale E - X (esportazioni meno importazioni) costante e pari a
zero. Tutte le grandezze sono espresse in termini reali ipotizzando prezzi alla produzione
unitari.
Questa identità si trasforma in condizione di equilibrio di mercato considerando le domande
in termini reali, ossia le relazioni che definiscono le funzioni dell’investimento e del consumo.
Il primo I = I(i -π*, K-K°) dipende negativamente dal saggio di interesse reale atteso r*=i-π*
(qualora il tasso di inflazione atteso π* sia nullo r* è pari al saggio nominale i) e dallo
scostamento del capitale K dal suo livello desiderato K° (Ii = dI/di<0, Ik=dI/dK< 0); mentre il
consumo C = c (YD, W) -TC al netto delle imposte TC dipende dal reddito disponibile in
termini di prezzi al consumo YD, e dalla ricchezza privata W, che nel seguito ipotizzeremo
esogenamente data.
È inoltre utile definire il deficit reale del bilancio pubblico D = G – TD - TC, come
differenza tra spesa G e imposte indirette TC e imposte dirette (al netto dei trasferimenti) TD
= TY - TR (dove le imposte sul reddito TY = T + t Y possono essere in parte costanti ed in
parte funzione del reddito). Si noti come il deficit reale dipenda quindi, in presenza di una
funzione delle imposte (t > 0), dal livello del reddito e deve quindi essere determinato
19
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
Prima Versione.
dall’equilibrio del sistema. Nel modello tradizionale di breve periodo viene inoltre usualmente
ignorato il problema del finanziamento del deficit. Per tale ragione nel presente contesto può
essere fuorviante considerare la problematica del debito pubblico.
Il modello rimane incompleto senza una definizione del reddito disponibile YD e della
ricchezza W. Usualmente YD = (Y – TD)/Pc = (Y-TY+TR)/Pc è pari al reddito Y meno le
imposte nette TD, mentre la ricchezza é definita come somma di moneta, titoli e capitale reale
W = (M+B)/P +K. I prezzi al consumo Pc sono pari al costo di produzione dei beni più il
gettito dell’imposta sui consumi TC il tutto diviso per la quantità di beni di consumo C.
Ovvero essi sono pari all’unità (i prezzi alla produzione) più tc l’aliquota media dell’imposta
sul consumo (PC+TC)/C = 1+tc, ipotizzando una completa traslazione dell’imposta.
Nel seguito mostreremo come tale definizione di reddito disponibile nasconda in realtà
varie ipotesi implicite e vada perciò per correttezza derivata, date le appropriate assunzioni di
comportamento, dalle altre equazioni del modello e non assunta a priori.
Sostituendo le funzioni comportamentali del consumo e dell’investimento otteniamo la
curva IS
Y = C((Y-TY+TR), W) -TC + I(i-π*, K-K°) + G
Essa sarà inclinata negativamente nello spazio i,Y (come in figura). Ciò avviene perchè una
diminuzione del saggio di interesse i provoca (a parità di π*) un aumento dell’investimento
privato e quindi un aumento del reddito.
Il mercato finanziario è introdotto con l’equilibrio del mercato della moneta M/P = L(i, Y,
W), dove M é l’offerta di moneta in termini nominali è eguagliata in termini reali alla
domanda L(i, Y, W) che dipende negativamente dal costo relativo del denaro (il saggio di
interesse nominale) e positivamente dal reddito Y e dalla ricchezza W (Li = dL/di<0,
Ly=dL/dY>0, 0<Lw=dL/dW<Ly). La LM é inclinata positivamente nello spazio i,Y. Infatti
differenziando l’equazione rispetto a tali variabili otteniamo di/dY > 0. Ciò avviene perchè un
aumento del saggio di interesse i provoca (a parità di π*) una diminuzione della domanda di
moneta che deve essere compensato da un aumento del reddito, perché il mercato resti in
equilibrio.
i
i
IS°
LM
E’
i’
IS’
IS°
i°
E°
LM ∞
E°
i*=i°
LM ∞
E*
LM
Y
Y°
Y
Y°
Y’
Y*
In presenza di trappola della liquidità (LM orizzontale di/dY = Li = dL/di = ∞) si ritorna al
caso di un’economia reale. Servendoci di questa ipotesi possiamo procedere ad analizzare il
modello base (π* = t = W = 0) con un aumento della spesa pubblica e del debito.
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
20
Prima Versione.
Nel seguito, esaminiamo la funzione delle imposte dirette sul reddito e le conseguenze di
una manovra espansiva che aumenti in eguale misura spesa pubblica G e imposte sul reddito
TY lasciando così invariato il saldo di bilancio. Tale politica, nota come manovra del bilancio
in pareggio, sarà poi esaminata con imposte in funzione del reddito.
1a. Il teorema del bilancio in pareggio con imposte fisse
La nostra economia reale può essere semplificata assumendo una funzione lineare
dell’investimento dipendente unicamente dal tasso di interesse i (ipotizzato costante così come
il tasso di inflazione p*) I(i-p*)=I ed una funzione lineare del consumo C = cYD dipendente
unicamente dal reddito disponibile in termini reali rispetto ai prezzi al consumo dato dal
reddito Y (reale ai prezzi dei fattori P=1) più i trasferimenti TR meno le imposte sul reddito
TY il tutto diviso per i prezzi al consumo YD=(Y-TY+TR)/(1+tc). Si noti come in questo caso
(C=cYD) la funzione diviene lineare anche rispetto al gettito reale dell’imposta sul consumo
(e possa quindi essere ignorata l’aliquota media tc) e come c rappresenti la propensione media
e marginale a consumare sia dal reddito complessivo Y che da quello disponibile YD.
Tecnicamente, i problemi della politica fiscale possono essere esaminati considerando un
modello di equazioni che rappresenta l’equilibrio del sistema economico [1]. Questo modello
è lineare, con un deficit predeterminato, in mancanza di funzioni delle imposte dirette ed
indirette:
[1]
Y= C + I + G
C = c (Y - TY + TR) – TC
D = G + TR - TC - TY
[2]
Y = (I +G -TC -cTD)/(1-c)
C = (cI+ cG -TC -cTD)/(1-c)
D = G -TC -TD
Un aumento della spesa pubblica ha un effetto espansivo sul livello del reddito, al contrario
di un aumento delle imposte dirette. Considerando TD = TY -TR, essendo i due strumenti
indistinguibili, avremo il modello [2] in forma ridotta, che evidenzia l’influenza degli
strumenti fiscali (variabili esogene) sulle variabili endogene.
Indicando con dY le variazioni della variabile Y dall’equilibrio iniziale (Y°-Y’) possiamo
riscrivere il modello in termini di variazioni differenziali. I coefficienti associati alle esogene
sono i moltiplicatori e indicano l’effetto discrezionale di un aumento unitario dell’esogena,
sull’endogena. Ad es. i moltiplicatori della spesa G e delle imposte dirette TD sul reddito Y
sono rispettivamente dY/dG = 1/(1-c) e dY/dTD = -c/(1-c) ed i rispettivi impatti iniziali
(pari al numeratore) 1 e –c. Si noti come un aumento unitario della spesa pubblica G abbia
un effetto unitario sul del reddito mentre un aumento unitario delle imposte sul reddito (o una
riduzione dei trasferimenti) riduca il consumo (e quindi sul reddito) di c ovvero della
propensione a consumare.
[3]
dY = (dI +dG -dTC -cdTD)/(1-c)
dC = (cdI +cdG -dTC -cdTD)/(1-c)
dD = dG -dTC -dTD
[4]
dY = (dG-cdG)/(1-c) = dG
dC = (cdG -cdG)/(1-c) = 0
dD = dG -dG
=0
21
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
Prima Versione.
Possiamo ora chiederci cosa succede quando spese G e imposte nette TD variano nella
stessa misura. La risposta é immediata nel modello in forma ridotta, imponendo dG = dTD
(manovra equivalente a dG =dTY o dG =-dTR) e dTC = 0 otteniamo la soluzione [4].
La precedente manovra comporta un aumento del reddito pari a quello di G, mentre lascia
invariati i consumi privati ed il deficit. Sicché il moltiplicatore del bilancio in pareggio sarà
unitario. Questo é il famoso teorema del moltiplicatore del bilancio in pareggio di
Haavelmo, che contraddice la neutralità della spesa pubblica finanziata da imposte sul
reddito.
Vediamo ora di esaminare le ragioni di tale risultato. Si noti come un aumento del reddito
pari a quello della spesa pubblica G abbia un effetto sul consumo identico ad un aumento dei
trasferimenti od ad una riduzione delle imposte sul reddito. Rimanendo così i consumi e gli
investimenti costanti tale sarà la variazione di equilibrio del reddito. Essendo l’aumento della
spesa pari a quello delle entrate, il deficit pubblico rimarrà anch’esso invariato.
Di conseguenza un aumento di G pari alla riduzione di T non provoca alcuna variazione del
deficit e dei consumi e degli investimenti, sicchè dalla condizione di equilibrio otteniamo
dY=dG. Ecco così intuitivamente spiegata la manovra di bilancio in pareggio. L’aumento
della spesa pubblica ha solo l’effetto di impatto iniziale dG, non avendosi alcuna variazione
dei consumi ed effetto moltiplicativo.
Dal risultato precedente è chiara l’importanza della dimensione del bilancio pubblico e
della sua composizione nel determinarne l’impulso espansivo sul reddito. Infatti, come si vede
in fig. 1 esso equivale alla combinazione della crescita del reddito da Y° a Y’ dovuto a dG e
della riduzione da Y’ a Y” dovuto a dTD. La manovra del bilancio in pareggio sfrutta così la
differenza, in valore assoluto, tra i moltiplicatori delle diverse poste di bilancio. Tale
equazione, nota come IS, può essere rappresentata nello spazio i,Y con un’inclinazione
negativa diminuendo I all’aumentare del saggio di interesse (ipotizzando costante il tasso di
inflazione p*). Il livello di equilibrio sarà quello corrispondente al saggio di interesse i°
mantenuto costante dalle autorità monetarie. In figura 1 è rappresentato lo spostamento della
IS con la precedente manovra di bilancio in pareggio ed è evidenziato il mancato aumento
dovuto alla perdita degli effetti moltiplicativi cdG/(1-c) a causa dell’aumento del gettito T e
della conseguente costanza di YD e di C.
i
fig.1
IS”
IS°
IS’
i
IS’
IS°
dY = dG/(1-c)
dY = dG/(1-c)
dY=-dTC/(1-c)
dY=dG dY=cdTD/(1-c)
Y°
Y”
fig.2
Y’
Y°
Y’
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
22
Prima Versione.
Quando si varia invece il gettito dell’imposta sui consumi non si produce un aumento del
reddito perchè l’aumento della spesa pubblica spiazza i consumi privati che diminuiscono
dello stesso ammontare dC = - dG. Come è illustrato in fig.2. Questo è un primo caso di
spiazzamento completo della spesa pubblica, dove ad un aumento della spesa pubblica
corrisponde un eguale e contraria risposta dei privati che riducendo i consumi mantengono
invariato il reddito di equilibrio. Tale risposta tuttavia deriva dalle modalità specifiche del
finanziamento della spesa pubblica (attraverso imposte sul consumo e non sul reddito) e non
dal fatto che i servizi pubblici sono aumentati e quindi i privati richiedono una quantità minore
di servizi privati: un secondo caso di spiazzamento, dovuto al comportamento degli operatori
privati.
Quest’ultima possibilità invece blocca ogni effetto espansivo della spesa pubblica qualora i
privati desiderino che la somma della spesa pubblica e privata sia una quota costante del
reddito disponibile ad esempio dG + dC = cdY. Avremo così dC = cdY - dG ed un aumento
della spesa pubblica comunque finanziato provocherà una pari riduzione del consumo ed un
totale spiazzamento comunque la spesa sia finanziata. La funzione del consumo sarà quindi
del tipo: C = C(YD, G) = c(Y) - G. Ciò implica nel modello ad esempio una definizione di
reddito disponibile differente YD=Y-G=Y+TR-T-TC-D (si noti come ora i consumatori siano
interessati anche al livello del deficit ma non al fatto che TC influenza il prezzo dei consumi
privati). Tale assunzione nega ogni possibile effetto espansivo o restrittivo delle politiche di
bilancio basate sulla manovra della spesa pubblica (anche quando l’investimento dipende dal
reddito). Tuttavia in questo modo si presuppone una perfetta sostituibilità tra spesa pubblica e
privata che è inconcepibile nella pratica perchè significherebbe che lo Stato è in grado di
soddisfare perfettamente i desideri dei privati (sostituendosi alle loro libere scelte) ed per
converso che i privati sono perfettamente in grado di sostituirsi allo Stato nel fornire i servizi
pubblici, sicchè un’economia completamente collettivizzata ed una completamente privata
sarebbero al limite indifferenti.
1b. La funzione del gettito e la propensione a consumare reddito disponibile.
Introducendo ora una funzione del gettito TY = t Y - T rispetto al reddito,16 avremo
[5]
TD = t Y - T
(con TR = 0 per semplicità)
Aggiungendola al modello [1], il gettito fiscale da variabile discrezionale (strumento
esogeno) diventa una variabile strumentale endogena. (In seguito vedremo come l’ipotesi di
linearità non sia ai nostri fini così restrittiva come appare a prima vista.) Il modello [6] subisce
così una notevole trasformazione nella sua struttura non essendo più il disavanzo pubblico
determinabile precedentemente ed indipendentemente dal livello dei consumi e del reddito,
come si vede dal modello in forma ridotta [7].
16
In realtà t è l’aliquota marginale fissa, sicché la nostra analisi comprende il caso delle imposte lineari progressive,
essendo T un’imposta fissa negativa. Mentre nel precedente modello t era contemporaneamente l’aliquota media (ta =
TY/Y) e marginale (tm = dTY/dY = t) ora dobbiamo distinguere tra le due aliquote. Possiamo facilmente vedere come i
valori delle due aliquote siano sempre differenti ed in particolare come l’aliquota media ta sia in questo caso minore di
quella marginale: ta = t - T/Y < t. Tale condizione ta < t è un requisito sufficiente per affermare a livello di reddito
individuale che l’imposta è di tipo progressivo ed essendo tale imposta lineare ciò sarà vero anche a livello aggregato dato
il numero delle unità.
23
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
[6]
Y= C + I + G
C = c (Y(1-t) + T) – TC
D = G + T - TC - t Y
Prima Versione.
Y = (I + G - TC + c T)/[1-c(1-t)]
[7]
D = G -TC +cT +t {(I +G - TC + cTR)/[1-c(1-t)]}
Differenziamo il modello precedente, assumendo di = dI = 0, otteniamo:
[8]
dY = (dG + c dT -cY dt)/[1-c(1-t)]
[9]
dD = [(1-c)(1-t) dG + (1-c) dT - (1-c)Y dt]/[1-c(1-t)]
Si noti come: a) t é uno strumento della politica fiscale, b) pur essendo il sistema lineare in
G e TR esso non é lineare in t (ciò significa che il moltiplicatore dipende dal suo livello), c)
gli effetti di t e TR sulle varie esogene siano proporzionali e come quindi i due strumenti non
siano indipendenti.
Un’analisi con una funzione del gettito generica: TY = T(Y) + T (con 0 < dTY/dY = t <
1) porta ai medesimi risultati. Ovviamente una differenza esiste e consiste nel fatto che mentre
con un’imposta lineare l’aliquota marginale tm è costante mentre ora dipende dal livello del
reddito di equilibrio dove le equazioni sono linearizzate. In entrambe i casi essendo l’aliquota
marginale superiore a quella media otterremo un moltiplicatore minore rispetto al modello con
imposte proporzionali. Infatti in corrispondenza al livello di reddito di equilibrio con imposta
proporzionale valgono le seguenti condizioni (1-t)-1 > (1-ta)-1.
L’unicità dell’equilibrio e la stabilità del sistema richiedono ora 1 - c(1-t) > 0. La
propensione marginale a consumare reddito disponibile può essere maggiore dell’unità senza
che il modello risulti instabile, essendo ora c(1-t) la propensione alla spesa dal reddito.
Ovvero la condizione c>1 non risulta irrealistico visto che c rappresenta ora la propensione
marginale a consumare rispetto al reddito disponibile e non più al reddito totale.
È importante notare le conseguenze di questo fatto che saranno oggetto di analisi in seguito.
Già in questo semplice modello non siamo più in grado, in base alle considerazioni relative al
principio di stabilità dell’equilibrio, di determinare il segno di alcuni moltiplicatori. Essendo
il segno di 1-c indeterminato non possiamo infatti determinare il segno dei moltiplicatori del
deficit pubblico.
La presenza della funzione del gettito [5], riducendo il moltiplicatore, attenua le capacità
espansive di ogni impulso delle variabili esogene sul reddito; effetto noto come
stabilizzazione automatica. Nel caso particolare in cui c fosse stato maggiore dell’unità e
quindi la nostra economia instabile un livello adeguato dell’aliquota restaura la stabilità
dinamica della nostra economia.
Graficamente, il livello del deficit dipende dal reddito come rappresentato in fig. 3 dove in
corrispondenza al reddito Y* abbiamo un deficit in corrispondenza al reddito Y° abbiamo un
pareggio in corrispondenza al reddito Y’ abbiamo un surplus.
Inoltre, a parità di propensione al consumo (inferiore all’unità), l’inclinazione della IS
aumenta (vedi fig.4), e per una data fluttuazione del saggio di interesse la variazione del
reddito risulta minore grazie ad un effetto di stabilizzazione, essendo ora c(1-t) e non più c la
propensione alla spesa. Si riduce anche lo spostamento verso destra della IS in corrispondenza
24
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
Prima Versione.
di un impulso fiscale, dato che l’imposta sul reddito preleva parte dell’incremento del reddito
disponibile t dY (come se la propensione marginale a consumare fosse diminuita).
G, T, TC
fig.3 i
tY
D”
G-T-TC
deficit
D*
IS^
IS
fig.4
dI(1-c(1-t))
stabilizzazione
surplus
D°=0
fluttuazione
dI/(1-c)
Y*
Y°
Y’
Y2
Y” Y°
Y’
Y1
L’effetto discrezionale di un aumento delle imposte sarà dato da -dY/dT mentre l’effetto
totale dell’aumento del gettito sul livello del reddito, detto da Samuelson pseudomoltiplicatore è dato dal rapporto tra il moltiplicatore del reddito e del gettito dell’imposta
desiderata, rispetto ad un dato strumento fiscale, nel nostro caso (dY/dT)/(dTY/dT). Possiamo
così scrivere:
[10]
dY/dT°
-c/[1 - c(1-t)]
-c
----------- = ------------------- = -------dTY/dT° (1-c)/[1-c(1-t)]
1-c
E’ importante notare come il valore dello pseudo moltiplicatore del reddito rispetto al
gettito dipenda crucialmente dallo strumento utilizzato. Infatti, facendo invece variare la
spesa pubblica dG lo pseudo moltiplicatore sarà (dY/dG)/(dTY/dG) = 1/t sicchè
apparentemente un incremento del gettito provocherebbe un aumento delle imposte. Tale
pseudo moltiplicatore coglie l’effetto automatico dell’incremento del gettito all’aumentare del
reddito ed indica invece di quanto è necessario che il reddito aumenti perchè l’aumento del
gettito sia pari a quello della spesa. In sostanza avremo free lunch quando dY/dG>1/t ovvero
dTY/dG>1. L’uso degli pseudo moltiplicatori é legittimo, tuttavia è necessaria attenzione e
cautela, non dimenticando di evidenziare sempre lo strumento, o la manovra fiscale utilizzata.
Nel presente modello, con funzione del gettito, l’effetto totale del gettito, manovrando le
imposte fisse è eguale al moltiplicatore dY/dTY nel modello [1], dove l’imposta sul reddito
era un semplice strumento e non un’endogena.
Collegati alla distinzione precedente ci sono a) il concetto di effetto automatico (quale
differenza tra l’effetto totale e l’effetto discrezionale (dY/dT)/(dTY/dT)-dY/dT e b) il
concetto di stabilizzatore automatico (che indica di quanto l’effetto automatico riduce il
moltiplicatore delle esogene). Un modo esatto per misurare quest’ultimo concetto è l’indice
ISA, proposto da R. Musgrave, che consiste nel rapportare la differenza tra la variazione del
reddito in presenza di imposte fisse TY e della funzione del gettito T(Y) con la variazione del
reddito in presenza di imposte fisse TY.
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
25
Prima Versione.
1/[1-c(1-t)]
ct
[11] ISA = 1 - ---------------- = ---------------1/(1-c)
1/[1-c(1-t)]
Tale indice mostra di quanto si riduce in percentuale la variazione del reddito per effetto
della presenza della funzione del gettito nel nostro modello al posto dell’imposta fissa.
1c. Due distinte manovre del bilancio in pareggio.
Ripetiamo ora una manovra di bilancio in pareggio simile a quella svolta all’inizio,
assumendo per ora una propensione marginale c inferiore all’unità. Volendo trovare il risultato
di un’eguale variazione di G e TR di segno opposto imponiamo dG = -dT e dt = 0
ottenendo:
[12]
dY = (1-c) dG / [1-c(1-t)]
dC = -c t dG / [1-c(1-t)]
dD = -t (1-c) dG / [1-c(1-t)]
In questo caso avremo un aumento del reddito inferiore a dG, essendo c<1, ed una
riduzione dei consumi e del deficit di bilancio. Ciò avviene perchè il gettito TY aumenta
automaticamente all’aumentare del reddito Y (essendo l’aliquota t costante) e quindi la
manovra che comporta un saldo di bilancio invariato al livello iniziale del reddito comporta
invece un surplus di bilancio al livello finale del reddito di equilibrio (maggiore di quello
iniziale).
La presenza della funzione del gettito [5] ci costringe a distinguere tra due manovre di
bilancio in pareggio una “ex ante” dG = - dTR (relativa al livello iniziale del reddito di
equilibrio) e una “ex post” dG = - dTR + t dY (relativa al livello finale del reddito di
equilibrio).
Il lettore si renderà ora quindi conto come la manovra precedentemente studiata fosse di
pareggio “ex ante”. Mantenendo invariato il disavanzo al livello di reddito di equilibrio finale
(manovra di bilancio in pareggio “ex post”) abbiamo il moltiplicatore unitario di Haavelmo.
Tale manovra comporta chiaramente un aumento della spesa maggiore dell’aumento delle
imposte dirette, poichè l’incremento del reddito finanzia automaticamente parte dell’aumento
della spesa pubblica. Tale aumento automatico del gettito tdY è l’effetto automatico (risultato
della variazione del reddito, rispetto al livello iniziale che può derivare o meno dalla manovra
di politica fiscale) e va distinto accuratamente dall’effetto discrezionale -dT, che deriva
direttamente dalla manovra di politica fiscale in corrispondenza del livello iniziale del reddito.
Ovviamente un aumento delle imposte eguale a quello della spesa, nell’equilibrio finale, è
coerente con un aumento del reddito pari a quello della spesa, poichè ciò implica consumi e
investimenti costanti come visto in precedenza. Tale caso è rappresentato in figura che mostra
la riduzione dell’effetto espansivo della spesa pubblica, con la funzione delle imposte, e --Per valori elevati della propensione marginale al consumo tuttavia la crescita del reddito in
risposta ad un aumento della spesa pubblica dG può essere talmente elevata da portare da una
situazione di pareggio ad un surplus. Ritornando al segno dei moltiplicatori è istruttivo
esaminare cosa succeda quando 1 < c < 1/(1-t), dove c indica la propensione marginale a
consumare dal reddito disponibile. Tale caso non è improbabile quando il sistema attraversi
26
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
Prima Versione.
una fase di euforia (o quando reddito disponibile e consumi non sono direttamente confrontati
nelle decisioni dagli operatori che usano assegni e carte di credito). Inoltre esso non implica
necessariamente (a parte il caso di modello lineare) un risparmio negativo, ma solo un
risparmio marginale negativo. La propensione marginale alla spesa rispetto al reddito c(1-t)
rimane sempre minore dell’unità.
i
IS”
IS°
fig.5
IS’
fig.6
G, TY
tY
m=1-c(1-t)
dY = dG/m
G+T+tdY’
D°=0
G+T
D’ = t dY
dY=cdG/(1-c)
dY’ = dG(1-c)/(1-c(1-t))
dY=dG dY= c(1-t)dG/m ctdG/m
Y°
Y’ Ys
Y”
Y°
Y’
Essendo 1 - c < 0 il segno dei moltiplicatori del deficit pubblico assume valori diversi da
quelli normalmente ipotizzati. Diviene quindi formalmente possibile, in presenza di un
aumento della spesa pubblica, il verificarsi di un aumento del reddito tanto ampio da far sì che
l’aumento automatico del gettito tdY superi l’incremento della spesa pubblica dG e comporti
una riduzione del disavanzo. Tale situazione estremamente favorevole per l’operatore
pubblico è nota sotto il nome di “free lunch” ed è esclusa imponendo a priori che la
propensione marginale al consumo sia inferiore all’unità c < 1.
In pratica lo Stato riesce aumentando le proprie spese o diminuendo le imposte non solo ad
aumentare il livello del reddito del paese, ma anche a diminuire il propio deficit di bilancio.
Tale situazione ammissibile per lo Stato diviene assurda se pensata per i privati: come se,
andando al ristorante dopo la consumazione, il cameriere vi pagasse per aver gradito il pasto.
G, TY
fig.7
tY
G-T°+dG
dY*=dG/t
D^
D'
G-T°
dG
t dY’
Y°
Y’
Y*
Y^
Come evidenziato tale condizione è identica per tutti gli strumenti fiscali (ciò è vero però se
gli investimenti dipendono dal reddito) essendo:
[13] dD/ dG = (1- c) (1- t) / [1 - c(1-t)] < 0 per (1-t)-1 > c > 1
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
27
Prima Versione.
[14] dD/dTR = (1-c)/[1 - c(1-t)] = -dD/Ydt < 0 per (1-t)-1 > c > 1
e non contraddice la coerenza del modello, né l’unicità e la stabilità dell’equilibrio.
3. Indicatori delle politiche fiscali: funzioni e limiti
Gli indicatori fiscali servono usualmente a descrivere gli effetti della politica fiscale o di
bilancio sul livello dell’attività economica. Spesso ad essi si richiede anche di distinguere tra
effetti discrezionali ed automatici che derivano dalle funzioni vigenti delle entrate e delle
spese o da quelle di futura attuazione. Per raggiungere tali finalità potrebbe sembrare
opportuno affidarsi a modelli econometrici in grado di fornire previsioni numeriche circa
l’effetto di date politiche fiscali. Tuttavia si ricorre spesso a tali indici di bilancio per la
mancanza di modelli affidabili o per ragioni di risparmio in termini di costi monetari e di
informazioni necessarie richieste. Gli indicatori di bilancio sono inoltre generalmente diffusi a
livello di organizzazioni internazionali. Ciò è giustificato dalla più facile comparabilità delle
politiche fiscali dei diversi paesi attraverso l’uso di tali strumenti di analisi, dato che le
risposte dei modelli econometrici dipendono crucialmente dalle strutture degli stessi.
La misura più semplice del comportamento delle autorità fiscali è data direttamente dal
deficit del bilancio pubblico. In prima approssimazione si può infatti sostenere che un
aumento del deficit, in generale é indice di una politica fiscale di tipo espansivo. Viceversa
una riduzione del deficit, in generale indica una politica fiscale di tipo recessivo. Questo
primo indicatore risulta piuttosto grossolano per vari motivi.
(a) Innanzitutto nel breve periodo le imposte sono una variabile endogena, al pari dei
trasferimenti di tipo sociale e degli interessi sul debito. Dipendendo tali grandezze dal livello
di equilibrio del reddito dal tasso di interesse e dal tasso di inflazione, qualsiasi variazione di
tali valori di equilibrio (dovuta a motivi differenti da una manovra degli strumenti fiscali)
comporterebbe una variazione del deficit dando messaggi errati circa l’effettiva politica
fiscale. In particolare, qualora si avesse un aumento del livello del tasso di inflazione in
seguito ad una variazione autonoma della domanda o dell’offerta aggregata, il deficit
diminuisce, sicché tale indicatore segnalerebbe una politica fiscale di tipo deflattivo, sebbene
non vi sia stata alcuna variazione nella politica fiscale discrezionale. Il valore del saldo di
bilancio misurato per un dato livello di reddito e di tasso di interesse e di inflazione (ad
esempio quelli correnti all’inizio del periodo o quelli di pieno impiego) non subirebbe invece,
in tale caso, alcuna variazione nel suo ammontare; così il deficit discrezionale ed il surplus di
pieno impiego risultano degli indicatori della politica fiscale più corretti.
(b) Tuttavia entrambe queste misure, come verrà dimostrato, soffrono del fatto che variazioni
di diverso ammontare delle imposte e delle spese, aventi effetti opposti ma eguali in valore
assoluto sul livello del reddito, non necessariamente avrebbero effetti opposti ma eguali in
valore assoluto sul livello degli indici precedenti ma comporterebbero una variazione di tali
indici. O viceversa una manovra (delle spese e delle imposte fisse) di bilancio in pareggio
(come si é dimostrato) porterebbe ad un’aumento del reddito, pur lasciando inalterato il deficit
ed il surplus di pieno impiego.
Quest’ultimo inconveniente può essere evitato qualora le poste di bilancio presenti nei
precedenti indici vengano opportunamente ponderate con pesi proporzionali ai valori dei
28
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
Prima Versione.
moltiplicatori rispetto al reddito di equilibrio. Otterremo così due nuovi indici noti come
deficit ponderato e surplus di pieno impiego ponderato. Tuttavia anche il surplus di pieno
impiego ponderato non darebbe sempre indicazioni corrette. Ad esempio nel caso di variazioni
delle spese pubbliche e dell’aliquota impositiva tali da lasciare inalterato il livello del reddito
di equilibrio esso aumenterebbe qualora il livello del reddito sia inferiore a quello di piena
occupazione. Per evitare tale difetto sarebbe quindi opportuno misurare il valore del surplus di
bilancio per il livello di reddito e di tasso di interesse e di inflazione vigenti all’inizio del
periodo. Tale nuovo indicatore, che potremo chiamare deficit ponderato discrezionale, non
subirebbe invece, nemmeno in tale occasione, alcuna variazione nel suo ammontare dando
sempre indicazioni corrette circa la politica fiscale discrezionale.
In seguito nella costruzione dei nostri indici di bilancio per semplicità ci serviremo di
funzioni di comportamento lineari degli operatori. Possiamo servirci del nostro modello reale
semplificato con alcune assunzioni ad hoc per osservare le principali proprietà e difetti delle
precedenti misure. Il livello massimo di semplificazione può essere ottenuto linearizzando le
imposte sul reddito e ignorando inflazione, imposte sui consumi e trasferimenti.
Per quanto riguarda la prima misura più grossolana data dal deficit di bilancio D = T° + t
Y- G. È chiaro che essendo le imposte dirette una variabile endogena dipendente dal livello
del reddito, una variazione del reddito dovuta a motivi differenti da una manovra degli
strumenti fiscali porterà ad una variazione di tale misura. In particolare qualora si abbia un
aumento del livello del reddito dal valore Y° al livello Y’ in seguito ad una variazione
autonoma degli investimenti, come in figura, il deficit diminuirebbe dal livello D° al livello
D’, sicché il nostro indicatore sembrerebbe segnalare una politica fiscale di tipo deflattivo.
Avremo infatti dD = ty dY.
Il valore del surplus di bilancio misurato per un dato livello di reddito (di pieno impiego
Y*)
SPI = T + ty Y *- G invece non subirebbe alcuna variazione (poichè dY* = 0); il
surplus di pieno impiego risulterebbe in questo caso un indicatore corretto della politica
fiscale, al pari del suplus di pieno impiego ponderato e del deficit ponderato discrezionale.
G , TY
G , TY
t Y + dT°
S P I'
cdT°
SPI
D°
D’
tY
G+dG
S P I°
G
D'
D°
dT°
Y°
Y'
Y*
Y
Y”
Y*
Questa misura tuttavia risente del fatto che i diversi strumenti hanno differenti effetti
moltiplicativi, come deficit ponderato. DP = cT° +ctY –G. Qualora si voglia misurare solo
l’impatto degli effetti discrezionali, bisogna passare alle variazioni del deficit ponderato per
correggere per gli effetti automatici del ciclo e dell’inflazione. Una possibile misura sarebbe il
Analisi economica dei mercati e delle istituzioni
29
Prima Versione.
Suplus di pieno impiego ponderato SPIP = c T° + c t Y*- G non muta pesi proporzionali ai
moltiplicatori di equilibrio. SPI e SPIP indicano gli effetti ipotetici di impatto politica fiscale
in condizioni di pieno impiego. Non sono perciò indicatori corretti politica discrezionale
(dG=cT) a reddito corrente come si vede in figura.
Ciò che desideriamo è quindi la variazione del saldo ponderato discrezionale. In particolare,
l’indicatore che risponde alle nostre esigenze è quindi il deficit ponderato discrezionale che
considera Yc, il livello corrente del reddito. DPD = cT° +ctYc -G
4. L’inserimento del debito nel bilancio e nel settore reale
Fino ad ora anche nel modello prospettato all’inizio del capitolo abbiamo ignorato il
problema del finanziamento del deficit e dell’esistenza del debito pubblico. Tale problema va
esaminato contestualmente con la definizione di ricchezza reale W che è formata dagli stock
di moneta M/P, titoli pubblici B/P e capitale privato K. Ovviamente il saldo di bilancio può
essere finanziato con l’emissione di moneta ∆M/P o di titoli ∆B/P (dove ∆ indica il
differenziale rispetto al tempo); lo stock di titoli accumulato nel passato B/P è normalmente
indicato col termine debito pubblico, anche se esso a rigore comprende oltre ai titoli del debito
pubblico anche lo stock di moneta M/P. Gli interessi reali netti corrisposti al settore famiglie
rn B/P = [i(1-ti)-p]B/P costituiscono il servizio (o l’onere) reale netto del debito pubblico e
sono parte dei trasferimenti netti di reddito TR+i(1-ti)B/P-T°. La parte pB/P che pure compare
nel Bilancio dello Stato non costituisce un onere ma è assimilabile ad un rimborso anticipato
essendosi svalutato di tale ammontare lo stock di titoli del debito pubblico. Naturalmente per
il momento nel modello a prezzi fissi P=1 essendo il tasso di inflazione p nullo non avremo
tale termine. Il vincolo del bilancio ed il reddito disponibile devono comprendere tale
trasferimento di reddito
[1D]
D = G + TR + i(1-ti)B/P - T° - ty Y - tc C = ∆M/P + ∆B/P
[2D]
YD = [Y - TY + TR + i(1-ti)B/P]/(1-tc)
Mantenendo invariate le altre equazioni la curva IS diviene:
[3D] Y = C({Y(1-ty)+TR-T°+[i(1-ti)-p*]B}/(1+tc); G; (M+B+K)/(1-tc)) +I(i-p*, Y, K) +G
Essa sarà inclinata negativamente nello spazio i,Y solo qualora |Ir|>Cy(1-ti)B la riduzione
degli investimenti sia maggiore dell’aumento dei consumi dovuti ad un aumento del saggio di
interesse. Infatti differenziando ripetto a tali variabili otteniamo di/dY ={[Cy(1-ty)/(1tc)]+Iy}/{Ir+[Cy(1-ti)/(1-tc)]B}. Ciò avviene perchè un’aumento del saggio di interesse i
provoca (a parità di p*) un aumento del consumo ed una diminuzione dell’investimento
privato con un effetto quindi incerto sul reddito. Ciò non ha grosse implicazioni per il modello
di economia reale ma influenza il ruolo della politica monetaria nel breve periodo.
È interessante esaminare gli effetti dello stock dei titoli sul reddito, fermo restando il saggio
di interesse. dY/dB = {[Cy i(1-ti)/(1-tc)]+Cw/(1-tc)}/{1-Cy[(1-ty)/(1-tc)]-Iy}
Il reddito aumenta per due motivi: 1) perchè aumenta il reddito disponibile ed i consumi
essendo maggiore il servizio del debito Cy i(1-ti)/(1-tc), 2) perchè aumenta la ricchezza e
quindi i consumi Cw/(1-tc). Il finanziamento dell’aumento della spesa pubblica (in assenza di
free lunch) con debito pubblico provoca quindi ulteriori effetti espansivi.