ATELIER 4 – Conflitti e convivenza negli spazi

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ATELIER 4 – Conflitti e convivenza negli spazi
La protezione dello spazio pubblico
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
La protezione dello spazio pubblico
Antonio Acierno
Dipartimento di Conservazione dei beni Architettonici ed Ambientali
Facoltà di Architettura, Università degli Studi Federico II di Napoli
[email protected]
Tel 081 2538853
Abstract
La sicurezza urbana costituisce un problema multiforme caratterizzato da distinte componenti che invocano la
specificità dei luoghi e delle soluzioni. Si riscontra una comune tendenza nella risposta alle emergenti
problematiche di sicurezza, verso un modello securitario. Si propone al modello dominante, fondato su
recinzioni, diffusione di telecamere ed ordinanze repressive conformante uno spazio pubblico “fortificato” uno
alternativo che cerca lo spazio pubblico “accogliente” fondato su socializzazione, vitalità e scambio sociale,
nella consapevolezza dei maggiori rischi che questo approccio comporta. Si delineano linee di ricerca da
approfondire per il sapere professionale e progettuale in particolare.
1. Politiche di sicurezza e spazio pubblico
La sicurezza della città contemporanea costituisce un problema multiforme e chiama in causa componenti di
natura sociale, antropologica, culturale, economica, percettiva e fisica che non sono mai le stesse per le differenti
realtà territoriali, ciascuna contraddistinta da peculiarità locali. Non esiste pertanto una soluzione generalizzabile
e la specificità di ciascun luogo si trova ad affrontare problemi di sicurezza urbana con cause ed attori sociali
distinti.
E’ riscontrabile una comune tendenza, invece, nelle risposte che i governi, nazionale e locale, stanno dando alle
istanze sociali di sicurezza, facendo intravvedere un generale processo di affermazione delle politiche securitarie
nella gestione dello spazio pubblico urbano.
Le politiche l ocali di sicurezza, nella di versità de gli a pprocci implementativi, ci inte ressano nell’am bito
disciplinare urbanistico soprattutto quando intervengono sulla trasformazione dello spazio fisico della città e per
i rapporti che intessono con le azioni pianificatorie, in particolar modo negli interventi di riqualificazione delle
aree degradate delle città così come, anche se meno diffusamente dei primi, nei casi di progettazione di nuovi
insediamenti.
In qualc he misura il dibattito su lla sicurezza urba na ha rinvi gorito il fi lone di ri flessioni sug li aspetti
antropologici d ella qu alità del v ivere, su lla n ecessità d i ri costruire il sen so d ella relazion e tra i cittad ini e
l’ambiente urbano.
E’ ov vio che il d ibattito d isciplinare su lla sicu rezza in q uesta pro spettiva si è a mpliato ri prendendo anch e
movimenti di pe nsiero già av viati d a q ualche dec ennio, sin d a qu ando sono emerse l e c ontraddizioni e l e
inefficienze dei modelli i nsediativi derivati dall’urba nistica moderna, e pertan to il problema della sicurezza
urbana, in teso esclusivamente co me lo tta alla cr iminalità sp aziale vo lta a debellare i focolai d i violenza
concentrati in particolari zone della città, finisce co l d iventare un altro tema, d i maggiore pert inenza delle
strategie di repressione e di giustizia sociale.
La sicurezza di cui vogliamo discutere è quella posta al centro del dibattito sulla qualità del vivere e degli
insediamenti, e si riferi sce al la p iù d iffusa e g enerica pe rcezione d ’insicurezza, e alle st rategie p rogettuali
urbanistiche mirate alla “rassicurazione” degli users urbani.
Le questioni più urgenti legate alla sicurezza delle città sono costituite dall’indebolimento delle centralità urbane,
dalla scarsa visibilità delle zone più marginali e periferiche così come dall’aumento della segregazione sociale e
della specializzazione funzionale, che spesso investono queste aree e, di particolare rilevanza, dalla diffusione
del degrado e dalla difficoltà di garantire una manutenzione costante dello spazio pubblico.
La città contemporanea pone la necessità di affrontare tali problematiche che investono la sicurezza dello spazio
pubblico, in particolar modo delle zone marginali dove è più evidente il processo di zonizzazione sociale che ne
amplifica il processo di frammentazione. E’ necessario agire rimuovendo il più possibile le barriere di accesso a
queste aree, dotandole di adeguate centralità capaci di riequilibrare le dinamiche interne o addirittura di fungere
Antonio Acierno
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da attrattori per la popolazione proveniente da altre zone della città per perseguire una completa integrazione nel
tessuto urbano.
In risposta a queste inefficienze, si è proposto da più parti la necessità di un corretto inserimento di nuovi spazi
ed attre zzature pubbliche, m ediante una scelta consapevole e pa rtecipata dell e localizzazioni, della l oro
manutenzione e continuo miglioramento, mirando alla progettazione e realizzazione di spazi pubblici dotati di
qualità intrinseche tali da garantirne l’autoprotezione.
Spazi che devono fondarsi sulla mixité e sulla co ntinuità funzionale di usi ed users, progettati con speciale
attenzione alla qualità estetica in risposta alle necessità psicologiche, culturali e simboliche dei fruitori, che
richiedono una significativa partecipazione delle comunità locali destinatarie degli interventi, accompagnati da
una adeguata organizzazione gestionale degli spazi di transizione.
2. Perché e per chi funziona lo spazio pubblico: appunti per una ricerca
Le analisi sugli interventi di riqualificazione urbana mirati al conseguimento di una diffusa sicurezza urbana si
concentrano m olto sp esso sulla lettur a degli spazi degrad ati, m arginali, caratt erizzati da segni persisten ti
d’inciviltà e v andalismo, e, i n ch iave pro positiva pro gettuale, si delineano su ggerimenti e criteri per la
realizzazione di spazi integrati, multifunzionali e, in una parola, vitali.
Tuttavia la maggioranza delle indagini e delle proposte partono dalle inefficienze degli spazi, cui si cerca di
porre rimedio ispirandosi ad una cultura progettuale che molto spesso si è costruita in ambiti culturali distanti
dalla sensibilità che richiede il tema della sicurezza urbana.
In alternativa a questo approccio si propone di partire da un punto di vista “positivo”1, ovvero analizzando non
gli spazi pubblici problematici bensì quelli che sembrano “funzionare” socialmente, che favoriscono lo scambio
sociale, la frequentazione e la diversità, con l’obiettivo di cercare di individuare alcuni elementi comuni che
possano essere adottati in maniera efficace nelle strategie di riqualificazione. Si fa riferimento principalmente
agli spazi pubblici per eccellen za, le piazze e i parch i, m a anche a quelli che ne r ipropongono le stesse
caratteristiche in sca la m inore, c ome piccoli slargh i, piazzette e giardi ni, ovverosia quell a mi nuta rete
interstiziale che costituisce il tessuto connettivo, solitamente pedonale, della città.
Le domande da cui partire, quindi, sono a ragion veduta le seguenti: perché in un’epoca di maggior benessere,
nella quale potenzialmente ci sono maggiori opportunità di migliorare gli spazi urbani per il cittadino, stiamo
producendo sp azi urbani c he mal si ad attano agl i usi pubblici, se n on ad dirittura r isultano sgr adevoli a lla
maggioranza degli utenti o che trasmettono una diffusa sensazione di disagio? E in che tipo di spazio pubblico i
cittadini preferiscono andare e svolgere le proprie attività?
Si propone una linea di ricerca orientata alla comprensione dei caratteri dello “spazio pubblico accogliente” al
fine di progettarne dei nuovi o di riuscire a riqualificare, gestire e conservare/migliorare quelli esistenti.
Il dibattito teorico sullo spazio pubblico ha avuto un momento di notevole sviluppo e attenzione negli anni ’60 e
’70, soprattutto nella ricerca e nella definizione dei segni peculiari di uno spazio pubblico vivibile in contrasto
con quello improprio o sgradevole. Questo importante dibattito sulla forma, gli usi e la percezione dello spazio
vivibile sembra oggi essersi specializzato in canali diversificati, affrontando le tematiche della sostenibilità
ambientale, gestione, perc ezione esteti ca e sicu rezza urban a. Qu esti sp ecialismi h anno d isaggregato la
discussione contribuendo tuttavia allo sviluppo di filoni distinti di ricerca sulla vivibilità degli spazi urbani.
Negli ultimi anni c’è stato un nuovo filone di ricerca che ha riaperto la discussione sugli spazi pubblici e il loro
miglioramento, in particolar m odo nel m ondo an glosassone con l’interesse de l go verno br itannico al la
produzione d i u n better public space, su pportando il CAB E (C ommission fo r Architecture i n t he B uilt
Environment), e del lavoro professionale dell’Urban Design Group. Negli USA, invece, il rinascimento degli
studi sullo spazio pubblico trova un punto di riferimento nel New York Based Project for Public Space, ed in
Europa nell’European Centre on Public Space e l’intensa attività editoriale di riviste specializzate sull’urban
design2.
Molte di queste attività si sono tradotte in pubblicazione di manuali e guide di buona progettazione degli spazi
pubblici con il limite di rappresentare il punto di vista dei professionisti, e non esiste, invece, molta ricerca su
quello che i cittadini considerano uno spazio pubblico e su come vorrebbero usarlo, nonché sulla loro percezione
e il livello gradito di comfort.
La domanda centrale per i professionisti dello spazio dovrebbe riguardare la ricerca di cosa rende alcuni spazi
più efficienti sul piano della frequentazione sociale e della vivibilità, perché e come alcune aree di uso pubblico
1
A riguardo si veda l’interessante lavoro di Henry Shaftoe (2008), /Convivial Urban Spaces. Creating Effective Public Spaces/, Earthscan,
London.
2
Si indicano di seguito i corrispondenti siti web: www.cabespace.org.uk; www.spaceforpublic.org; www.pps.org
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(piazze, slarghi, giardini, parchi, marciapiedi) incontrano i bisogni reali della gente in misura tale da far superare
le paure, i disagi, le incertezze e spingere alla sosta e alla socializzazione.
E’ innegabile che l’uomo essendo un animale sociale, tende a cercare i propri simili e a costituire gruppi per
svolgere le più disparate attività e, soprattutto a ricevere una rassicurazione psicologica da queste indispensabili
frequentazioni.
In un’epoca di crescente individualizzazione degli stili di vita, che induce già a ridurre i rapporti interpersonali,
molto spesso sostituiti dai surrogati dei contatti virtuali della rete, bisogna domandarsi fino a che punto questa
tendenza all’introversione sociale e alla riduzione dei contatti reali soddisfi la natura umana e se lo spazio
pubblico r eale ( non quello vi rtuale) sia de finitivamente i n declino o se i nvece sia ne cessaria u na sua
rivitalizzazione, anche in risposta a quei bisogni di contatto fisico e pienamente “sensoriale” che fino ad oggi
hanno caratterizzato la condizione umana.
Una p arte, ch e definirei pessimista, del p ensiero so ciologico ed urb anistico ritien e ch e lo sp azio pu bblico
tradizionale “corporale” sia ormai morto3.
Ponendosi in una condizione alternativa, positiva ed ottimista, cerchiamo di definire i caratteri di uno “spazio
pubblico che funziona” ovvero vivibile, accogliente, frequentato e gradevole.
Si propongono, pertanto, alcuni punti su cui costruire un percorso di riflessione e di ricerca sulla comprensione
dei caratteri dello spazio pubblico accogliente e sulla loro progettazione e/o riqualificazione.
La crescita ipertrofica: la città contemporanea, cresciuta a dismisura, invadendo il territorio circostante risulta
oggi un puzzle di pe zzi disarticolati e diso mogenei, con imm ense periferie prevalentemente deg radate e
costituenti focolai di problemi sociali, reti infrastrutturali ingombranti che costituiscono barriere non solo nella
continuità degli ecosistemi biologici ma soprattutto per la mobilità lenta e pedonale.
La città contemporanea ha accumulato un’innumerevole quantità di spazi pubblici degradati ed ingestibili con i
quali bisogna fare i conti. Non si tratta solo di fare una battaglia contro lo spreco di suolo, all’interno dei principi
di sostenibilità ambientale, ma di ricucire i brandelli di uno spazio pubblico lacerato che versa in condizioni di
estremo degrado, che favoriscono lo sviluppo delle paure e conseguentemente l’abbandono fisico, innescando un
ciclo di declino sociale.
Tali condizioni non appartengono solo al patrimonio ereditato dalla città industriale e post-industriale, ma anche
nei più recenti interventi di espansione urbana di molte città si seguono principi progettuali che determinano
effetti indesiderati o spazi residuali ingestibili. Nella cultura anglosassone questi ultimi sono stati definiti, con
l’originale sintesi che la contraddistingue, SLOAP (space left over after planning), ossia gli spazi lasciati senza
una chiara identità funzionale dopo la pianificazione, sottolineando la responsabilità diffusa della stessa pratica
professionale e gestionale nel produrre spazi ambigui e con una debole destinazione d’uso, che si prestano a
trasformarsi facilmente in luoghi senza una precisa identità di cui i cittadini stentano ad appropriarsi.
Varietà, diversità, mobilità: lo spazio pubblico è composto da una varietà di luoghi anche molto differenti l’uno
dall’altro, da quelli tradizionali e pubblici per eccellenza come le piazze e i parchi, nonché gli stessi marciapiedi
quando sufficientemente ampi, alle versioni ridotte di questi ovvero slarghi, piccoli giardini e marciapiedi. A
questi si aggiungono oggi altri spazi della mobilità dove, prevalentemente nelle grandi città, si trascorre buona
parte della giornata come le stazioni e i sottopassaggi delle metropolitane, le stazioni ferroviarie, aeroportuali e
portuali.
Nei ritmi accelerati contemporanei l’attività principale svolta negli spazi pubblici è quella dello spostamento e lo
spazio pubblico resta un luogo di semplice attraversamento.
Salute, apprendimento, mediazione, economia e democrazia negli spazi pubblici: gli spazi pubblici sono il
campo di gioco della società dove questa esplora e ricerca nuove esperienze e opportunità per lo scambio e
l’evoluzione sociale. Il pensiero sociologico urbano e quello urbanistico hanno più volte ribadito che uno spazio
pubblico che funziona è una condizione necessaria per lo sviluppo della democrazia e della civiltà4 (Mumford,
Sennett).
In m aniera pi ù det tagliata, l o s pazio p ubblico è f ondamentale pe r l a s alute e d i l be nessere fi sico,
l’apprendimento, la risoluzione dei conflitti, la tolleranza, la solidarietà e l’economia.
Gli spazi pubblici, come parchi, aree attrezzate e piazze, offrono indiscutibilmente ai cittadini un luogo dove
poter respirare aria pulita e dove poter esercitare il fisico, in particolar modo per gli stili sedentari di vita e il
cumulo di stress che inducono i correnti ritmi lavorativi. Numerose ricerche mediche hanno dimostrato come gli
spazi pubblici possono favorire non solo il benessere fisico ma anche quello mentale.
Uno spazio pubblico variamente frequentato resta ancora una delle migliori opportunità per poter incontrare,
osservare, condividere comportamenti, norme e stili di vita differenti. Attraversare o meglio sostare in una piazza
3
Cfr. Ben-Joseph, E. e Szold, T. (2005), /Regulating Place/, Routledge, New York.
Mumford, L. (1964), /The Highway and the City/, Secker & Warburg, London; Sennett, R. (1973), /The Uses of Disorder: Personal
identity and city life/, Penguin, Harmondsworth.
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del centro città, frequentato da diversi gruppi sociali ed etnie, su cui prospettano edifici pubblici e privati, attività
mercatali e commerciali, giovani ed anziani, lavavetri, vigili urbani o qualsiasi altra figura, offre certamente
maggiori possibilità di conoscenza e di apprendimento che non la passeggiata nell’ultimo centro commerciale
apertosi in periferia, frequentato da gruppi sociali ristretti e più selezionati e con una prevalente attività urbana,
quella del consumo.
Lo spazio pubblico offre un’arena dove poter incontrare gruppi sociali affini con i quali si condividono analoghi
comportamenti, ma anche dove poter imparare a gestire i conflitti con chi pratica stili di vita differenti (pensiamo
ai recenti flussi migratori). La risposta più semplice ai conflitti è quella di trincerarsi entro i confini monoclasse
del proprio quartiere (le gated communities rappresentano il vertice di questo atteggiamento negativo) o degli
ambienti lavorativi ad accesso limitato, ma l’unica alternativa a questa deriva è la socializzazione nello spazio
pubblico anche con iniziative progettate ad hoc (manifestazioni, festival, ecc.), dalla quale potrà nel tempo
maturare anche la solidarietà.
Anche dal pu nto di vista economico, il miglioramento del le co ndizioni di vivibilità del lo spazi o pubblico
possono pro durre v antaggi, in m aniera pi ù di retta pe r l’u so t uristico con seguenza delle po tenziate c apacità
attrattive dello spazio urbano ma anche per le attività commerciali e di ristoro che ne possono derivare.
Inoltre, l’uso dello spazio pubblico è direttamente collegato alla sicurezza dei luoghi, mediante la sorveglianza
informale, così come ci ha fatto già notare più di trent’anni fa Jane Jacobs. La frequentazione e la vitalità dello
spazio pubblico, pur offrendo in taluni casi un maggior numero di potenziali vittime per alcuni tipi di reato
(borseggio, scippi, furti), indubbiamente restituiscono una diffusa percezione di sicurezza agli utenti in misura
maggiore rispetto a luoghi isolati ed abbandonati.
Infine, lo spazio pubblico ha storicamente rappresentato il cuore della civiltà occidentale, nella emblematica
espressione dell’agorà greca, teatro di discussione e risoluzione dei conflitti nel governo della cosa pubblica. Lo
spazio pubblico è stato e resta il luogo delle manifestazioni, dei cortei e perfino delle rivoluzioni, e non a caso,
nei regimi totalitari, esso è generalmente controllato e spesso progettato con espressioni di monumentalità e
vastità, che rendono l’ambiente quasi intimidatorio e non di facile fruizione da parte degli utenti 5. I governi, da
quelli democratici ai dittatoriali, hanno sempre predisposto usi e regole di comportamento nello spazio pubblico
esprimendo anche strategie di controllo della società e proponendo modelli e stili di vita. Non bisogna pertanto
sottovalutare la q uestione d ella g estione d ello sp azio pubblico, liquidandolo fretto losamente con una su a
imminente morte sotto la spinta della invadente tecnologia della comunicazione, perché nella gestione e nel
progetto dello spazio pubblico si prefigurano anche modelli di società.
3. Modelli alternativi di gestione dello spazio pubblico: esclusione o
inclusione
La sicur ezza de llo sp azio pubblico diventa per tanto anche una qu estione di scel ta tr a strateg ie ed azi oni
d’intervento che prefigurano modelli differenti di società: si tra tta di garantire la sicurezza perseguendo un
modello di esclusione di alcuni gruppi sociali o di favorire l’integrazione e la risoluzione dei conflitti?
Il modello che aspira alla frammentazione e alla privatizzazione dello spazio pubblico, riducendo le eterogeneità
dei gruppi sociali e favorendo la costituzione di gruppi sociali affini per classe e censo, è quello che si è andato
affermando soprattutto nella società americana nelle gated communities e nei centri commerciali/svago periferici
o nei centri città direzionali commerciali (down town) ad accesso limitato, esportato rapidamente in Europa.
Questo è u n m odello c he p ratica i l co ntrollo deg li a ccessi, la rest rizione d ella frequentazione d i parchi,
l’innalzamento d i recin zioni attorn o ag li sp azi pu bblici, la rea lizzazione d i barriere fisich e d issuasive,
l’installazione di telecamere, il controllo dei quartieri residenziali mediante ronde di c ittadini residenti e le
variegate tecniche del cpted6.
In Europa questo approccio ha dato vita al “Designing out Crime”7, che sostiene un’attenta progettazione dello
spazio al fine di impedire l’occorrenza dei reati, sostanzialmente controllando il territorio e difendendolo.
Alternativo a quest’ultimo è invece un recente approccio fondato su strategie opposte, il “crowd out crime”, che
sostiene l’allontanamento del crimine fondato sulla vitalità e la massima frequentazione dello spazio pubblico. I
5
Pensiamo alla Piazza Tiananmen a Pechino o alla Piazza Rossa a Mosca, estremamente vaste e non accoglienti.
Il Cpted (Crime Prevention Through Environmental Design) nasce negli anni ’70 sul filone di studi aperto da O. Newman ed è stato
applicato in numerosi interventi di riqualificazione urbana, maturando riflessioni sugli esiti, spesso anche critiche che ne hanno modificato
negli anni l’approccio e le metodologie. Per un approfondimento si consulti il sito dell’associazione internazionale degli enti e soggetti che
praticano il cpted: www.cpted-net.org.
7
Si veda il sito web dell’associazione ww.e-doca.net che raccoglie esperienze, documenti e materiali. Nel Regno Unito a questo filone
appartiene anche il Secured by Design, progettazione certificata di quartieri sicuri.
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New Urbanists, gli Urban Villagers e i sostenitori della 24 Hour City 8 fondano la propria azione sulla messa in
atto di strategie di frequentazione dello spazio pubblico, capace di infondere sicurezza percepita negli utenti e di
produrre nel medio periodo anche la diminuzione dei reati spaziali per effetto della sorveglianza naturale e dei
circoli virtuosi di integrazione e mediazione dei conflitti che si possono generare.
Si delineano due orientamenti negli interventi finalizzati alla sicurezza urbana: da un lato, la progettazione di
spazi pubblici accoglienti e capaci di favorire l’integrazione e, dall’altro, secondo un punto di vista totalmente
opposto, l’implementazione di strategie di sorveglianza del territorio per spazi pubblici escludenti.
La progettazione dell o s pazio pub blico p rotetto ed accoglie nte, ric hiede un o s forzo di cam biamento
dell’approccio progettuale professionale, che s i al lontani dal m odello pr evalentemente d ominato d al sapere
tecnicistico e visuale, per adottare uno stile organico incrementale che permetta l’aggregazione nel tempo di
soluzioni spontanee e adattive da parte dei fruitori. Le esperienze teoriche ed operative degli ultimi decenni sulla
sicurezza u rbana nece ssitano di una sistematizzazione intelligente che forn isca li nee g uida nonché p rincipi
sostenibili ed implementabili, per scongiurare la definitiva affermazione dei modelli securitari.
Bibliografia
Alexander Christopher, (2004), Sustainability and Morphogenesis: The birth of a living world, Schumacher
lecture, Centre for Environmental Structure, Berkeley CA.
Bauman Zygmunt, (2005), Fiducia e paura nella città, Milano, Mondadori.
Borja Jordi, (2003), La ciudad conquistada, Alianza Editorial, Madrid
CABE's, (2 005). W hat ar e we scar ed of? The value of r isk in d esigning pub lic space . Disponibile su :
http://www.e-doca.eu/
CABE's, (2007). Living with risk: Promoting better public space design. Disponibile su: http://www.e-doca.eu/
Ghel Jan, (2007).What If We Built Our Cities Around Places?. Disponibile su: http://www.pps.org/
Landry Charles, (2006), The art of city making, London, Earthscan
Shaftoe Henry, (2008), Convivial Urban Spaces. Creating Effective Public Spaces, London, Earthscan.
8
Cfr. Shaftoe, H. (2008), capp. 1-2.
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Roma oltre il piano: forme di urbanità per la città contemporanea
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Roma oltre il Piano:
forme di urbanità per la città contemporanea
Sandra Annunziata
Dipartimento di Studi Urbani di Roma Tre
[email protected]
Mara Cossu
Dipartimento di Studi Urbani di Roma Tre
[email protected]
Abstract
In questo contributo si racconta l’espansione di due ambiti urbani di Roma. Si problematizzano gli esiti di
un’intera stagione urbanistica e si cercano chiavi di lettura in grado di osservare e interpretare embrionali
forme di urbanità e e il relativo bisogno di progetto.
Si propone una lettura analitica della natura degli spazi prodotti, spesso orientati alla semplificazione del
modello insediativo a favore di una stretta dicotomia tra residenza e consumo. Ma tale dicotomia non é
puramente sterile: porta con sé iniziative e attività messe in pratica dagli abitanti per ri-orientare le sorti del
loro contesto di vita e comporta una ri-concettualizzazione della nozione di urbanità, intesa come condizione
preliminare all’esercizio di una cittadinanza spazialmente situata.
1. La retorica del Piano e le promesse mancate
Negli ultimi anni a Roma si è registrata una considerevole espansione degli insediamenti, specie in prossimità
dei confini comunali. Si tratta di una città nuova, percepita come precipitato fisico diretto della retorica del
Nuovo Piano Regolatore, approvato nel 2005.
Il Piano è stato costruito come un ambizioso tentativo di inaugurare un nuovo corso dell’urbanistica italiana
basato sul “pianificar facendo” e su tre parole d’ordine: centralità, cura del ferro e tutela dell’agro.
Con queste tre parole si volev a controbilanciare il magnetismo delle attiv ità trainanti n ella cit tà st orica e
riqualificare i t essuti pe riferici, decentrando ser vizi e opportunità di l avoro, est endendo l a t utela ad am pie
porzioni dell'agro e puntando sul potenziamento della rete del trasporto su ferro. Questa strategia trova conforto
in altri esempi nord Europei, in cui si è dato inizio alla stagione dei large urban development come possibile
modello di sviluppo e di “regionalizzazione dell'urbanità” (Bertolini, 2006; Salet, 2008).
Tali presupposti sono riusciti ad aggregare consensi non solo in termini urbanistici.
I primi esiti però non sembrano riscuotere lo stesso consenso. L'attuazione sta registrando posizioni critiche
anche nei confronti del modello, che inizia oggi a mostrare le lacune di una stagione urbanistica contrattuale,
tendenzialmente debole, orientata all’iniziativa privata e accusata di aver subordinato l'interesse collettivo alle
logiche della rendita immobiliare (Berdini, 2008a, 2008b; Vezio De Lucia 2005).
A seguito di inchieste giornalistiche, si è acceso un intenso dibattito tra tecnici dell’amministrazione, assessori,
consulenti1 che difendono a vario titolo le buone intenzioni del piano.
Ne emerge una critica pesante dell’ampio declino della cultura urbana2, sia nei confronti delle responsabilità
politiche, che verso la disciplina: “l’urbanistica […] ha perso la capacità di forgiare sensibilità e pensiero attorno
alla città, di parlare e di farsi ascoltare” (Bianchetti, 2008a).
Nessuna delle tre parole d’ordine del Piano sembra essere stata in grado di mantenere le promesse. L’espansione
residenziale ve rso i c onfini c omunali è p ercepita c ome u n at tacco al l’agro r omano senza pari. Ne ppure
l’avvenuta istituzione nel 1997 di undici nuove aree tutelate e l’allargamento di parchi urbani e regionali esistenti
riesce a ridimensionare questa visione (Palazzo, 2005). Il legame tra le trasformazioni urbane e il sistema del
trasporto pubblico, che avrebbe dovuto rappresentare l’innovazione del piano (Tocci, 2008), sembra saltato.
1
Si fa qui riferimento alla lettera aperta scritta da Campus Venuti a Walter Veltroni in cui si sollevava dalle responsabilità del Piano e alla
controrisposta di Salzano entrambe pubblicate su eddyburg.
2
“nei lun ghi an ni di governo ur bano, la sini stra h a costruito una sconfitta culturale senza a ppello […]. Le s peranze c he ave vano
accompagnato le ambizioni della nuova urbanistica romana si sono dissolte progressivamente , il pianificar facendo (che ha caratterizzato
l’urbanistica romana degli ultimi 20 anni) ha fallito la sua sfida” (Tocci, 2008).
Sandra Annunziata, Mara Cossu
1
Roma oltre il piano: forme di urbanità per la città contemporanea
Il giudizio è senza appello: a Roma si è disegnata la più insostenibile delle città, sia dal punto di vista del
consumo d i suolo che d a qu ello de lla mo bilità3. Ann ullato il legame tra centralità e f erro co me o biettivi
strettamente d ialoganti, l’esito p rincipale d el P iano è la subordinazione del sistema d ella mobilità alla
localizzazione di residenze e grande distribuzione. La città sembra dunque condannata nei fatti a dipendere
dall’automobile anche per le più sem plici azi oni quo tidiane. A R oma si abita sempre pi ù “faticosamente”
(Bianchetti, 2008b), al contrario di quanto avviene in altre capitali, e tale difficoltà non sembra trovare sollievo
nelle promesse delle centralità.
2. La città sotto i nostri occhi e un confronto con la letteratura
internazionale
Il caso romano si presenta come un’anomalia, difficilmente confrontabile con la letteratura internazionale, che
interpreta i recenti progetti urbani come la chiave di volta tra innovazione nella produzione edilizia e forme di
sviluppo urb ano ( Salet, 2008 ). Una sim ilitudine é riscontrabile nel fatt o che d iversi co ntributi accusano il
paesaggio urbano prodotto negli ultimi anni di essere poco incoraggiante nei confronti dell’urbanità (Fainstein,
2009). Si assist e così all 'emergere di nuov e dec linazioni - fostering urbanity, the quest for new urbanity,
reclaiming urbanity (Brandolini, 2006; Giuliani, 2007; Groth & Corin, 2005) - che trattano in modo diverso le
istanze poste dalla città di recente costruzione 4. Il denominatore comune del discorso sembra voler spostare le
analisi critiche da discorsi sull'efficienza finanziaria e organizzativa dei progetti, verso una lettura più orientata ai
soggetti e alla scala minore: che tipo di spazi sono stati prodotti e come vengono utilizzati? Valgono ancora le
nozioni di urbanità, spazio pubblico, cosi come ereditate dalla città storica?
La prospettiva adottata nella osservazione dei casi vuole documentare una urbanità apparentemente basata sulla
prossimità spaziale tra residenza e consumo. Essa sembra seppur faticosamente in fabbricazione, nell´accezione
debitrice a De Certea u, i nsieme alla fabbricazione, letterale in qu esto cas o, de lle centra lità. Proprio tale
prospettiva porta con sé diverse domande sulla configurazione della città, non solo su che tipo di spazio si sia
prodotto, ma anche se si tratti di una città che mobilita o smobilita, mina o promuove processi di partecipazione,
incoraggia o scoraggia il conseguimento dei diritti di cittadinanza basati sullo spazio di prossimità. In altre
parole, quale forma di urbanità è possibile per la città contemporanea?
Queste domande rimangono per lo più aperte, ma i casi fin qui osservati ci consentono di sollevare alcuni nodi
inerenti la natura degli spazi prodotti, che problematizzano il nesso tra la domanda di beni pubblici locali e la
qualità dello spazio di prossimità, rivelando un bisogno di progetto. Ci consentono inoltre di riflettere sulla
mancanza di nesso tra le parti e sulle questioni inerenti l´accessibilità di ciascuna di esse. Ci permettono, infine,
di sollevare l’ipotesi di una ri-localizzazione, seppur parziale e variabile, dell’urbanità in spazi nuovi, come gli
spazi esterni e interni al centro commerciale e il web.
3. Ponte di nona e Romanina: due brani urbani in costruzione
Estrema periferia est di Roma. Il Piano individua una delle centralità metropolitane, Ponte di Nona- Lunghezza,
che si presenta oggi sotto forma di un grande contenitore per il commercio con più di 200 negozi, multisala e
ristoranti. Si p revede u na nu ova st azione f erroviaria, 20 00 p archeggi, s ervizi pu bblici e pri vati, at tività
ospedaliere, la sede del municipio, un hotel centro congressi, un mercato coperto. Lo spazio restante ospiterà un
parco tematico con centri sportivi.
A fianco della centralità promessa, si estende un’area residenziale di 6.000 appartamenti, nota come Nuovo
Quartiere Caltagirone, progettata da un consorzio immobiliare che negli anni 90 aveva acquistato i terreni. Ha
ereditato il nome dal suo costruttore, che, sulla base di un accordo di programma, avrebbe dovuto occuparsi della
realizzazione delle urbanizzazioni primarie e secondarie, restituendo una porzione di città completamente finita
ai cittadini.
Ad oggi 4.854 unità abitative sono terminate e occupate da circa 18.000 residenti. Il quartiere è quindi il prodotto
della volontà privata e presenta i limiti della tipica speculazione edilizia romana. Nel 2003, quando gli abitanti
hanno cominciato ad insediarsi, l’area si presentava come un cantiere privo di servizi minimi e versava in una
condizione di reale perifericità, aggravata dall’assenza di collegamenti pubblici. Sintomi di questa condizione
erano la manca ta r accolta della sp azzatura, la ca renza di se rvizi di pro ssimità (l e poste, la farmac ia), le
pericolosità delle strade, senza marciapiedi né illuminazione.
Le difficoltà dei primi abitanti, che si definiscono “pionieri”, non ridimensionano le attese costruite su una
retorica della vendita di un “complesso suburbano nel verde, con attrezzature sportive nel parco e molti negozi”:
3
“Achille rischia di non raggiungere la tartaruga se mentre recuperiamo il ritardo del secolo passato creia mo nuovi ins ediamenti che
aumentano il deficit infrastrutturale”. (Tocci 2008a)
4
Sul tema dell’urbanità si è recentemente espressa Bianchetti “L’urbanità non è solo una faccenda di inizio novecento. Le regole della
convivenza, l’arte di stare nello spazio, il saper stare in città, la necessità di regolare i conflitti, l’invenzione dei modi di incontro, non sono
solo problemi della città moderna. La città contemporanea moltiplica le occasioni e consente agli individui di partecipare (appartenere a più
mondi). Questi fino a quando non interviene l’incubo della sicurezza a moltiplicare le fratture della discontinuità; dispositivi tesi ad incrinare
topologicamente il carattere dell’urbanità”.
Sandra Annunziata, Mara Cossu
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Roma oltre il piano: forme di urbanità per la città contemporanea
una promessa di urbanità a tutti gli effetti. Nonostante acquistino sulla carta, la fiducia nell’attore privato è
totale: “Caltagirone non fallisce” risponde il marito alla moglie preoccupata della bontà del loro investimento.
Nel 2004 i cittadini si organizzano e rivolgono al Sindaco una richiesta esplicita di servizi pubblici locali: la
sicurezza e i marciapiedi; a seguire autobus e farmacie. Ma la lista è ancora lunga. Nasce il comitato di quartiere
e viene a perto un forum online per agevolare la c omunicazione, fa re il punto de gli i ncontri, scambiare
documenti. Un gruppo di volontari si organizza per redigere un giornale locale, viapontedinona, ch e pubblica
l’aggiornamento delle attività del comitato di quartiere.
Figura 1 (Nuove lottizzazioni a Ponte di Nona. Foto di Claudia Meschiari)
Per portare avanti le proprie rivendicazioni, gli abitanti scendono in piazza nel marzo 2007: una manifestazione
di quartiere, rara nel suo genere. Di lì a poco, la coalizione di destra vincerà le elezioni comunali e il presidente
del comitato di quartiere verrà eletto consigliere municipale nella stessa coalizione.
Nel maggio 2007 si inaugura il centro commerciale “più grande d’Europa”. Subito dopo, altri centri commerciali
“più grandi d’Europa” hanno cominciato a costellare la città da Nord a Sud. In assenza di alternative, gli abitanti
sono in prima fila per partecipare all’inaugurazione, il primo fatto interessante che avviene nel quartiere e che li
coinvolge direttamente.
Poco più a Sud , nel l’area circostante la vecc hia borgata abusiva della Ro manina, co stellata da magazzini e
contenitori commerciali della zona “O” del Piano Regolatore del 1962, dagli anni ’90 inizia a profilarsi una città
solo parzialmente diversa dal passato.
In quegli ann i, approdano in questa zona l’università di Tor Vergata e il centro commerciale la Romanina,
insediamenti “pionieri” nel loro genere. Da allora, una serie di piccoli, medi e grandi contenitori sostituiscono
gradualmente i vecchi magazzini: Ikea, Decathlon, il centro commerciale Anagnina e Domus, solo per citare i
più rilevanti.
Parallelamente, una serie di interventi di edilizia residenziale sia pubblica che privata inizia a costellare la zona,
senza alcuna attenzione agli spazi d i relazione tra i diversi nuclei che non siano all’interno del medesimo
comprensorio.
La centralità prevista, di livello urbano, è vicina a quella di Tor Vergata, di livello metropolitano. Centralità
privata la p rima, pu bblica la second a. L’ area è d al 1 990 d i p roprietà d i Sca rpellini, u no d ei pi ù no ti
immobiliaristi di Roma. che costruisce il suo progetto di trasformazione urbana, completamente immerso nella
retorica ricorrente del trinomio residenza-servizi-verde.
Il nome scelto per il progetto è “fare centro a romanina” 5. La firma, imponente, di Manuel Salgado, con il
coordinamento di Maurizio Marcelloni per la parte urbanistica. L’assetto dell’area è definito da uno schema di
assetto preliminare per il qua le so no stati at tivati laboratori territ oriali presso c iascuno d ei q uartieri
potenzialmente attratti nell’orbita della centralità. Si tratta, ovviamente, dei quartieri che rientrano nel perimetro
del comune di Roma, mentre i Comuni di Ciampino, Grottaferrata e Frascati e le loro espansioni residenziali,
sebbene in reale prossimità con l’area di progetto, non vengono coinvolti.
Le domande e i lavori che vengono avviati nei laboratori sono prevalentemente di preparazione alle potenziali
relazioni da intessere tra il proprio contesto di vita e la centralità in arrivo. A fronte di un’analisi delle carenze
interne del singolo quartiere (come viene percepito, quali sono i suoi confini, quali i problemi) le domande poste
5
www.farecentroaromanina.com
Sandra Annunziata, Mara Cossu
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Roma oltre il piano: forme di urbanità per la città contemporanea
agli intervistati riguardano le loro aspettative nei confronti della centralità come nuovo centro urbano. Un modus
operandi tipico degli interventi pubblici di trasformazione urbana, potenzialmente essenziale per l’attivazione di
programmi di recupero o riqualificazione urbana: i cittadini danno risposte prevalentemente sul loro quartiere,
ma viene loro richiesto uno sforzo per proiettare le proprie aspettative all’interno della potenziale centralità.
Della struttura di quest ’ultima nu lla è chia ro, fatta e ccezione pe r le quote di residenz a e comme rcio,
costantemente in aumento nelle richieste dell’imprenditore all’amministrazione. Non viene esplicitata la quota e
la tipologia dei servizi, che cambia di continuo. Tantomeno sono chiari la configurazione e l’accessibilità del
verde. Unica certezza è, nel 2008, la richiesta di Scarpellini di un incremento delle cubature, a scomputo della
realizzazione del prolungamento della linea A della metropolitana da Anagnina a Romanina, fermata prevista nel
cuore della centralità.
Oggi, l’area della cen tralità Romanina è metafora importante delle trasformazioni che la città si prepara ad
affrontare. Il “nuovo centro” è ancora vuoto, unica area di incolto residuale in un mare di nuove edificazioni,
rotatorie, strade ad alto scorrimento e contenitori commerciali completamente introversi.
4. Quale urbanità per la città contemporanea?
Sebbene siano am biti u rbani i n costruzione, g li abitanti si s ono fatti portatori di i stanze e p ratiche che
costruiscono fo rme d i urb anità del tutto i nesplorate. Se un a lettu ra spa ziale riv ela un pae saggio non
incoraggiante sotto il profilo dell’urbanità, un salto di scala e una prospettiva meno distaccata e più attenta ai
dettagli offrono nuove possibili letture.
La questione posta sull’urbanità, l’accusa di “assenza normativa di urbanità” presente in molte ricostruzioni
critiche di pr ogetti u rbani rece ntemente conclusi ( Fainstein, 20 09), sem brano st rettamente dipendenti
dall’erosione dello spazio pubblico (Cremaschi, 2008a, 2008b). L’argomentazione è che, in assenza di spazi
pubblici, l’urbanità intesa come “arte di stare nello spazio” e di convivere con la diversità, non sia possibile. Da
qui emerge un atteggiamento nostalgico nei confronti della città autentica (Zukin, 2009) dotata di caratteristiche
formali e sociali che ne alimentano la desiderabilità.
Figura 2 (Paesaggio urbano a Romanina)
Ma sarebb e troppo semp lice, se non err oneo, d ecretare l’a trofizzazione d elle form e di so cialità e d ella
dimensione rel azionale basa ta sul lo s pazio, i n a ssenza d i sp azi p ubblici, o d i i ncontro, i ntesi i n senso
Sandra Annunziata, Mara Cossu
4
Roma oltre il piano: forme di urbanità per la città contemporanea
tradizionale. I casi dimostrano che nelle pieghe del quotidiano gli abitanti hanno sviluppato forme di resistenza e
adattamento ad un contesto inizialmente poco ospitale.
A Ponte di Nona alcuni germogli di socialità e di rivendicazione trasformano aree di cantiere in un quartiere, in
cui l’interazione e le pratiche di convivenza si scoprono spazialmente definite.
Nella formazione del comitato di quartiere si sono gettate le basi per una socialità di vicinato che di li a poco è
diventata “identità pontenonina”.
A Romanina le attività dei diversi comitati di quartiere confluiscono per le sfide del livello sovra-locale nella
Comunità Territoriale del X municipio, che si propone come soggetto unico di interlocuzione con il Municipio e
con il Comune, proponendo riflessioni di metodo e di merito sui primi esiti del PRG nonchè una revisione
operativa del sistema delle centralità, che comporti l’abolizione delle centralità private, tra cui Romanina.
Questi gruppi autorganizzati non hanno solo una valenza politica, di rivendicazione, ma operano anche come
agglutinatori di socialità. Con il comitato, il forum online e il giornale il quartiere Ponte di Nona comincia a
costruirsi socialmente. A questi si aggiunge oggi l’attività scrupolosa e puntuale di diversi blogger ch e, pur
partecipando al comitato, hanno come oggetto del proprio blog temi inerenti l’accessibilità al quartiere, e in
generale, il suo sviluppo futuro.
A Romanina, la situazione è analoga, con le attività dei comitati e dei blogger, ai quali si aggiungono le diverse
testimonianze nei social network sulle modalità di vita in questi quartieri. Qui le persone discutono di problemi
specifici, organizzano raduni e manifestazioni. Attività immateriali e a-spaziali per antonomasia con ricadute
fisiche dirette nello spazio.
Questo conferma quanto lo spazio del locale continui ad avere un peso importante nella vita dei cittadini, anche a
fronte dello sp azio de i flussi (Castells, 2 004). Lo spazio co nta ed è C astells a richiamare l’importanza d el
communal space for everyday life e la necessità del suo progetto (Castells, 2009).
Anche i centri commerciali assorbono in questa prospettiva nuovi significati ( Musarò, 2006). Nonostante le
critiche, diffuse anche tra chi è parte integrante del loro mondo, i centri commerciali sono diventati a tutti gli
effetti i centri di queste aree. Sono luoghi di incontro e di svago, ma offrono anche servizi primari (nidi per
l'infanzia, biblioteche). Le int erdipendendenze t ra cen tri commer ciali e ar ee r esidenziali so no i ndubbie e
testimoniate in vario modo. Sembrano aver interiorizzato gran parte della vita dei quartieri.
A P onte d i Nona i r esidenti tr ascorrono gran par te del l oro tem po all´ interno d el “Cen tro”, ch e off re
un’opportunità occupazionale per molti di essi. Diverse offerte di lavoro sono state pubblicizzate dal forum
locale e si stima che 300 abitanti del quartiere vi lavorino. Inoltre, contrariamente a quanto si pensi, il Centro non
solo offre negozi, ma anche servizi, seppur minimi: aree gioco per i più piccoli, un campetto da calcetto, attività
di intrattenimento. E’ il posto dove in contrarsi e anche la co munità re ligiosa, in assenza di un a chiesa, ha
richiesto al direttore del centro uno spazio per la messa. I residenti lo percepiscono quindi come una risorsa e
non a caso vi si rivolgono per la sponsorizzazione del loro giornale locale.
A Romanina, i parcheggi pertinenziali diventano spazi appetibili per pratiche altrimenti prive di localizzazione.
Se l a c onfigurazione d ei n uovi q uartieri resi denziali sancisce l’impossibilità d i relazion i in p ubblico e d i
interazioni spon tanee, d elle possib ilità d i in contro co l d iverso e l’estran eo (p rerogativa trad izionalmente
attribuita allo spazio pubblico), l’aggregazione della popolazione presso i centri commerciali rende questi ultimi
luoghi privilegiati per questo tipo di interazione.
I diversi centri commerciali dell’area offrono occasioni per stare e per incontrare, si aprono al pubblico la sera,
con locali e pub, lasciano aperti i parcheggi coperti per raduni notturni del tutto particolari (pattinatori e auto fra
gli altri). In un con testo urb ano completamente privo di possib ilità di frui re della città a p iedi, offrono un
microcosmo fatto di piazzette, fontane e spazi educativi per l’infanzia. Dove la configurazione delle strade e
delle rotatorie ostacola le relazioni tra parti adiacenti dei quartieri e il verde diviene margine invalicabile anzichè
fattore di c omunicazione, t utte le st rade porta no ai parc heggi di centri pi ù o m eno gra ndi, c he offrono
gratuitamente campi da basket e giochi per i bambini. Infine, quando avvengono licenziamenti, le manifestazioni
non si tengono di fronte al ministero del Welfare, ma all’interno di questi spazi.
5. Conclusioni: ripartire dallo spazio come sede della convivenza.
La diversità, la vitalità e più in generale l’urbanità, intesa come l’arte di stare nello spazio e come insieme di
relazioni che avvengono nella città, sono state per decenni il cuore delle teorie urbane. hanno rappresentato
inoltre la maggiore preoccupazione degli urbanisti, che hanno tentato il superamento dei limiti del funzionalismo
a favore di un approccio orientato alla diversità nell’intepretazione e nel progetto della città.
Contributi recenti individuano nell’urbanità e nelle forme di socialità che si dispiegano nello spazio urbano,
forme basil ari d i esercizio de lla cit tadinanza e d i d iritti di cit tadinanza sit uati nell o sp azio. La p rospettiva
spaziale nei confronti della giustizia, la spatial justice, sta acquistando terreno nel dibattito sulla qualità urbana
(Soja, 2009; Fainstein, 2009). La prospettiva dell’urbanità, a differenza di quella più generale della cittadinanza,
situa nello sp azio u rbano, nello spazio tra le ca se, m odi e rel azioni de ll’abitare, o ffrendo l e c ondizioni di
partenza per un più ampio principio del diritto alla città.
Sandra Annunziata, Mara Cossu
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Roma oltre il piano: forme di urbanità per la città contemporanea
Rispetto a queste posizioni il paesaggio urbano recentemente prodotto sembra gettare le premesse per una vita
quotidiana faticosa e difficile. La promessa delle centralità sembra sostituita da una città che prosegue il suo
sviluppo per parti autoreferenziali e incapaci di dialogare, destinando perifericità agli interventi sia in termini
spaziali che funzionali, data l’effettiva carenza dei servizi pubblici locali.
I progetti delle centralità provano nelle intenzioni a sopperire alla mancanza di un pensiero dello spazio, ma le
configurazioni assunte dall’intorno delle aree ad esse destinate rivela il loro prematuro fallimento.
Lo spazi o prod otto è assim ilabile ad uno sca rto n ell’accezione progettuale su ggerita d a Ferr aro. Le nuov e
espansioni, sono fatte di margini incompiuti, terraine vague, aree a standard abbandonate o sottoutilizzate. Spazi
sprecati,se visti in termini di efficienza; occasioni perse a causa della carenza di progetto e pensiero sulla città.
Tutto questo non ha però impedito la formazione di una sfera pubblica, sebbene dislocata in contesti del tutto
inaspettati. I quartieri, quando definibili come tali, si presentano spesso privi di spazi pubblici di relazione che
non siano le strade. Anche quando parchi giochi, aree attrezzate e piccoli slarghi riescano a farsi spazio tra le
case, la loro capacità di attrazione degli abitanti è scarsa o fortemente legata a rivendicazioni locali.
Figura 3 (Area verde attrezzata a Romanina)
Forme d i so cialità e ini ziative c ollettive di liv ello lo cale e non so lo si rad icano fo rtemente n ello spa zio e
prendono forma in posti inconsueti: nel centro commerciale da un lato, e attraverso blog e siti internet dall’altro.
Pratiche sviluppate mediante un dispositivo a-spaziale come la rete che si radicano fortemente nello spazio, e
scelgono quello spazio per le sue caratteristiche intrinseche.
Forme di urbanità e pratiche di convivenza sembrano in grado di rilocalizzarsi opportunamente nello spazio in
grado di accoglierle.
Come p uò allora il p rogetto tornare a in tercettare la t otale polifonia, a volte co nflittuale, dell’ab itare
contemporaneo? Di certo appare necessario tornare a pensare lo spazio, intendendolo come qualcosa di molto
più ampio e complesso di un’area di progetto.
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Sandra Annunziata, Mara Cossu
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Gli spazi pubblici: luoghi di conflitto e risorsa della città multietnica
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
Gli spazi pubblici:
luoghi di conflitto e risorsa della città multietnica
Franca Balletti
Dipartimento Polis
Facoltà di Architettura di Genova, [email protected]
Tel 010 209 59 33 /fax 010 209 59 07
Silvia Soppa
Dipartimento Polis
Facoltà di Architettura di Genova, [email protected]
Tel 010 209 59 33 /fax 010 209 59 07
Abstract
Una pluralità di cambiamenti nella società e nella città ha determinato il declino dello spazio pubblico; sempre
più diffuse nelle città medio-grandi sono fenomeni di degrado fisico, di esclusione sociale, di privatizzazione
dello spazio pubblico non solo in aree periferiche, ma anche in zone centrali, come i centri storici. D’altra
parte, gli spazi pubblici sono anche sempre più spesso l’obiettivo di azioni sociali per la loro difesa e cresce il
numero di comitati, gruppi e associazioni di cittadini che ne reclamano la cura e si mobilitano per la
riconquista di spazi essenziali per la vivibilità ambientale e la coesione sociale: piazze, strade, aree verdi.
1. Spazio pubblico e Centro Storico
Quando si parla di spazio pubblico il riferimento è spesso al “negativo” del tessuto urbano - percorsi, piazze,
aree verdi - a luoghi “aperti” o “vuoti” che in passato operavano da elementi catalizzatori di condivisione sociale
tra diverse popolazioni e che oggi sembrano solo in attesa di una destinazione d’uso, di una funzione, di un
progetto che li caratterizzi.
Ognuno di questi territori, però, è qualcosa di più di un contenitore di funzioni, ha un diverso status, una storia
particolare, appartenente alle popolazioni che lo abitano, dalla quale partire per gettare le basi per una riflessione
sullo stesso concetto di “spazio pubblico”.
Sono molteplici, infatti, le accezioni che possono essere date allo “spazio pubblico”: da luogo in cui a tutti è
concesso diritto di accesso, regolato da un insieme di norme e convenzioni, allo spazio dei servizi collettivi
orientati al “con sumo co mune”, allo spa zio d ella p artecipazione al la v ita co llettiva. È evidente ch e ogg i i l
significato prevalente è riferito al suo essere luogo di transito o ad un regime giuridico della proprietà che decide
la destinazione dei terreni e degli usi piuttosto che prestare attenzione alle rappresentazioni sociali che ospita.
Di con seguenza, gli in terventi sullo sp azio pubblico hann o spesso come a ttenzione pr eminente la su a
qualificazione attraverso azioni che lo propongono come un'estensione dello spazio commerciale o come un
semplice prolungamento di quello domestico, ignorando la dimensione identitaria, culturale del contesto in cui si
inserisce, favorendone la frammentazione e l’ulteriore privatizzazione con il conseguente indebolimento dei
valori sociali impliciti nel concetto di cittadinanza.
“Ogni centimetro quadrato è sfruttato in funzione di qualcosa (quasi esclusivamente in chiave economica) e
lo spazio li bero si rest ringe e non solo in termini fisici ma anche in termini d i negazione
dell’autodeterminazione del singolo individuo e di socializzazione spontanea” (Pietromarchi, 2005; p. 8).
Non si può non condividere quanto sostiene Franco Cassano descrivendo le dinamiche della società attuale:
[la nostra libertà è] fatta di continui gesti di appropriazione e di esclusione degli altri dal nostro possesso
privato […] Q uesta em ulazione [dei p ossidenti] ha p rodotto la strage degli i ncontri e delle s olidarietà
collettive, la trasformazione del «pubblico» in una entità residuale, in qualcosa in cui si scaricano con sempre
meno scrupoli i rifiuti delle nostre appropriazioni private [...] (Cassano, 1996; pp. 17-18).
Ma lo spazio pubblico è soprattutto “sfera pubblica”:
“area dove si forma l’opinione pubblica, dove ci si confronta e si discute; è lo spazio non intenzionale, quello
che viene occupato dagli immigrati delle varie etnie, nazionalità, lingue, culture, dai non rappresentati, da
quelli che non hanno voce, dai giovani; è il luogo dove i conflitti si manifestano e dove sono esplicite le
differenze” (Baioni, Boniburini, Salzano, 2009; p.3).
Franca Balletti, Silvia Soppa
1
Gli spazi pubblici: luoghi di conflitto e risorsa della città multietnica
Rispetto a questa prospettiva può essere particolarmente fertile prendere in considerazione lo spazio pubblico nel
Centro Storico di Genova che si presenta, oggi, come un laboratorio di incontro-scontro tra passato e presente,
tra inerzie e innovazione, tra ‘popolazioni’ diverse che proprio rispetto allo spazio aperto manifestano esigenze e
comportamenti profondamente divergenti.
Per comprendere la situazione attuale occorre gu ardare ag li ultimi dieci, quindici anni. In questo periodo il
Centro Storico è divenuto il luogo sul quale si sono manifestate due opposte tendenze: da una parte, l’afflusso di
migranti provenienti da paesi extra-UE1., dall’altra l’afflusso di nuove popolazioni come quelle dei city user
(movida in generale, studenti, popolo degli aperitivi) e di un nuovo tipo di residenti composto da intellettuali,
professionisti, giovani. In altre parole il Centro Storico ha rappresentato sia una scelta abitativa di convenienza
per gli strati più svantaggiati della popolazione, sia una scelta dettata dal profilo culturale di una popolazione che
ne app rezza la c entralità dell a l ocalizzazione, le pec uliarità artistico-culturali, la possi bilità di trovare un
ambiente so ciale r icco ed eter ogeneo, sia il luogo d i prima “acc oglienza” d i popo lazioni immigrate ch e in
maggioranza vivono, spesso da clandestini, l’emergenza della ricerca di un lavoro oppure che, in altri casi, si
inseriscono nel mondo delle attività illegali.
Il Centro Storico è diventato così quella parte di città dove si sperimenta una nuova cittadinanza, dove si mettono
in d iscussione r egole d i c onvivenza e d i rel azione, d ove si c ontaminano i l inguaggi, le f orme c ulturali, l e
identità; attivando percorsi che potrebbero trovare condizioni ideali nei caratteri stessi della città storica, in cui il
costruito, il progetto, l’impianto urbano è espressione stessa della necessità morfologica di dividere/condividere
spazi pubblici e privati (Purini, 2001).
È il contesto stesso della ricerca che mette in evidenza le molteplici dimensioni dell’agire sullo spazio pubblico,
che non si l imitano sem plicemente a d una s ua “rifunzionalizzazione” e d ab bellimento estetico oppure al
rispondere all ’esigenza, t ipica dei quartieri resi denziali de lle peri ferie m etropolitane, d i p rovvedere ad una
dotazione di s pazi a standard, n ei quali si p ossano svo lgere alcune at tività collettive: esso è i nnanzitutto
“ambiente di vita”, spazio determinato “dalle imprevedibili destinazioni che un ambiente urbano pensato per una
serie di funzioni precise sceglie di opporre a quelle previste, in un rovesciamento spesso improvviso di rituali e
di finalità” (Purini, 2001; p. 2).
Il conflitto è allora la vera anima di questa accezione dello “spazio pubblico”, la dimensione nella quale esso
mostra la sua autentica necessità, il suo principio e insieme il suo senso ultimo. È il conflitto tra dimensione
privata e dimensione collettiva, che si è sempre manifestato nella storia; è il conflitto tra inclusione ed esclusione
sociale, tra regola e diversità, diversità sempre più spesso rifiutate attraverso la negazione dell’ “indisciplinata
differenziazione delle città” (Forni, 2002; p.45).
Il Centro Storico è, da un lato, incubatore di culture; in cui si dispiega l’intreccio, a volte conflittuale a volte
creativo perché fecondo di mutamenti ed ibridazioni, tra culture urbane, tradizionali, giovanili, autoctone, di altre
etnie e fra stili di vita differenti (Bovone, Mazzette, Rovati, 2005), dall’altro lato, territorio dell’incontro-scontro
tra gruppi sociali diversi - gli stranieri, la nuova borghesia intellettuale, ma anche i residenti “nativi” -; è una
società c he a dis petto de lla " forzata" prossim ità a bitativa non si parl a, non sta in sieme, una so cietà “n on
comunicante” (Dispos, 2004).
In quest o contesto per l’Amministrazione locale un importante strum ento, ca pace sia di non di sperdere l a
ricchezza dei differenti e c ontrapposti stimoli che nasc ono da qu esto luogo si a di adat tarsi al le d iverse
“dimensioni” di questa re altà senza precl uderne a priori alcu na, è la c ostruzione, attrave rso m odalità
partecipative, di progetti integrati di riqualificazione.
Questo strumento è adatto a rafforzare l’identità dei quartieri in cui si interviene, grazie alla sua capacità di dare
impulso e voce ad una rete di associazioni che lavorano e vivono nel territorio, di fare proprie progettualità di
diversa scala - da quelle di stimolo, simboliche, a quelle di sostegno delle piccole realtà, dalle azioni per il
radicamento locale a quelle di rafforzamento dei flussi turistici, a quelle di coinvolgimento nella vita di quartiere
-, tutte rivolte a raggiungere l’obiettivo principale della riqualificazione degli ambienti di vita.
Esso mette in primo piano la considerazione ed il rafforzamento del “capitale sociale”, ovvero quella rete di
relazioni personali e famigliari mobilitabili da ogni singola persona per assumere informazioni/conoscenze e
migliorare la sua posizione sociale, ma anche il contesto in cui vive. Sotto forma di fiducia, il capitale sociale e
la socialità sp ontanea ri vestono un ’importanza determinante ai fini d ella buona ri uscita de lle in iziative d i
rivitalizzazione del tessuto sociale ed economico.
2. Il Centro Storico e il quartiere della Maddalena
Il quartiere Maddalena nel Centro Storico dei Genova riassume un vasto repertorio di bisogni sociali, attinenti il
singolo e la sua capacità di indipendenza sociale: bisogni collegati ad emergenze trasversali – impoverimento
1
Gli stranieri residenti nel Centro Storico risultano ancora in percentuale maggiore rispetto alle altre Circoscrizioni della città, sebbene negli
ultimi anni abbiano fatto registrare una flessione (sul totale dal 25,7% al 16,8%), che conferma la tendenza della presenza straniera ad
allargarsi a corona nelle realtà territoriali immediatamente circostanti il centro cittadino. Tale morfogenesi migratoria potrebbe avere come
spiegazione la geografia dei valori immobiliari delle diverse zone cittadine e il forte aumento del prezzo di acquisto degli immobili del
Centro Storico che nell’arco di dieci anni (1995-2005) è quintuplicato.
Franca Balletti, Silvia Soppa
2
Gli spazi pubblici: luoghi di conflitto e risorsa della città multietnica
generalizzato, aumento del costo della vita e degli alloggi, mancanza di lavoro – che vanno ad aggravare disagi
legati anche alla presenza di particolari fasce sociali disagiate o dedite ad attività illegali.
La cronaca cittadina mette spesso in evidenza quali problemi urgenti di questa e di altre parti del cuore della città
temi di carattere sociale: il forte degrado sociale (povertà, prostituzione), che potrebbe erodere il presidio delle
popolazioni insediatevisi in questi anni e rendere inefficaci gli sforzi di rivitalizzazione dell’Amministrazione; la
“fragilità” della sicurezza urbana (presenza di micro-criminalità diffusa, spaccio), che è origine di contrasti tra
residenti e pubblica vigilanza, scontro tra comunità di etnia differente, disincentivo alla valorizzazione di attività
commerciali e turistiche e alla loro espansione.
Il quart iere (Fig. 1), pur essendo co llocato in posizione pr ivilegiata appena a sud dell a straordinaria Strada
Nuova, può essere definito una “enclave” chiusa in sé stessa con proprie regole, dove chi proviene dall’esterno
avverte un forte senso di disagio e spesso non ha motivi di attrattività o di semplice necessità di frequentazione.
Il tessuto edil izio è fittissi mo c on sacche di de grado, abitate in p revalenza da fasce de boli e d imm igrati
extracomunitari, anche se non mancano punti di eccellenza - palazzi nobiliari 2 - abitati da genovesi, di ceto
medio-alto, fortemente radicati nel sito, ma in condizioni di progressivo isolamento.
Figura 1 - Vista dall’alto del “triangolo” della Maddalena, racchiuso all’interno del Centro Storico
Nel “triangolo” della Maddalena coesistono differenti popolazioni che si sono stanziate negli ultimi decenni
delineando un qu adro de mografico c omplesso e variegato. Nel qu artiere v ivono r esidenti s torici e “ nuovi”
residenti. Fra i primi trov iamo le persone di ceto op eraio, sp esso ex -lavoratori del por to or a pensionati o
artigiani, e gli immigrati dell'immigrazione interna dal Sud, con una forte presenza di persone anziane che
vivono pro blematiche leg ate sia alla m orfologia d el qu artiere stesso sia alla d ifficoltà d i coabitare con le
trasformazioni sopravvenute; fra i secondi, gli immigrati stranieri. L'immigrazione provoca problemi in termini
di convivenza e di criminalità per la compresenza di tante e diverse etnie, con tutta una serie di bagagli culturali,
di vita, di educazione, distanti tra loro.
Tra i bisogni espressi - sicurezza, assistenza economica - si ritrova anche la manutenzione del territorio, la sua
pulizia e i l suo esser e po vero d i spa zi verd i o accog lienti; la care nza di s pazi comuni, anc he di ri dotte
dimensioni, rappresenta un obiettivo ostacolo alla socializzazione, al gioco, alla semplice vita di relazione anche
dei bambini e più in generale delle famiglie.
L’Amministrazione comunale, a partire dagli anni Novanta, ha effettuato importanti investimenti per attuare
interventi di ri qualificazione, bonifi ca, rist rutturazione, illuminazione de gli spazi pubbli ci, animazione
economica e culturale, promozione ed inclusione sociale, anche in forza del Programma Organico di Intervento
delle Vigne, del Programma di Iniziativa Comunitaria URBAN II, del Programma Interventi per GeNova 2004.
Tuttavia, le iniziative promosse negli anni passati non hanno inciso positivamente sulla situazione descritta, anzi
il rafforzamento dei percorsi a perimetro dell’ambito ha impoverito ulteriormente il tessuto commerciale, già
2
Alcuni inseriti nell’elenco dei Palazzi dei Rolli di recente riconosciuti dall’UNESCO come Patrimonio dell’Umanità.
Franca Balletti, Silvia Soppa
3
Gli spazi pubblici: luoghi di conflitto e risorsa della città multietnica
reso fragile dallo spostamento in altra sede di importanti uffici comunali che consentivano la permanenza di
attività di vendita giornaliera anche al servizio dei dipendenti.
Nel 2007 h a preso avv io il Patto p er l o Sv iluppo l ocale d ella Madd alena3 che si pro pone di conseguire
un'inversione di tendenza della situazione attuale, cercando di impostare occasioni di frequentazione qualificata,
ubicando servizi di qualità in sostituzione di locali in stato di degrado, migliorando i percorsi sia in termini di
recupero fisico che di arredo, segnaletica, illuminazione. Al di là delle singole progettualità avviate, in questa
sede, si vuole rilevare l’importanza dell’impostazione del metodo di lavoro.
Se l’incipit di partenza è quello che la complessità va affrontata intervenendo sul contesto economico-sociale e
su fattori “sensibili” come la sicurezza e la pulizia, il re-insediamento di attività economiche, il sostegno a quelle
esistenti e la qualificazione dello spazio pubblico, la finalità generale, impostata dallo strumento del Patto, è
quella di i mpegnare tu tti i so ggetti co involti i n un a azion e coo rdinata e un itaria di recu pero d el qu artiere,
partendo dalla consapevolezza che nessuno dei singoli attori e nessuna singola azione possano essere, da soli,
risolutivi.
Lo strumento operativo del Patto è rappresentato dal Piano di Sviluppo Locale della Maddalena (PSL) approvato
nell’ottobre 2008, ch e ha t ra i suo i p rincipali obiettivi quelli d i risp ondere alla do manda su l futuro della
Maddalena interpellandosi prima di tutto su che cosa il quartiere stesso è in grado di fare, che responsabilità i
vari attori si prendono, quali sono oggi i vincoli e le risorse mobilitabili.
L’obiettivo è q uello d i au mentare l’integrazione e la con divisione dell e azio ni d ei diversi attori, siano essi
soggetti pubblici o privati e, di ag ire, conseguentemente, sull’efficacia e sulla tempestività/opportunità delle
azioni/progetti. Ogni aderente conferisce al Patto risorse decisionali e prende l’impegno di operare, nella sua
sfera di competenza, coerentemente a quanto concordato con gli altri attori.
Il PSL ha dato avvio ad un processo a garanzia de l maggior grado di coinvolgimento dei diversi attori nel
progetto del territorio, nelle diverse forme dell'informazione e di consultazione, favorendo la partecipazione
attiva e consapevole di tutti i soggetti verso i quali sono indirizzate o per i quali siano disponibili iniziative
specifiche4. Diversi gli strumenti utilizzati: dal Comitato di Pilotaggio, gruppo guida del PSL, che presiede tutte
le att ività d i an alisi e di in formazione, co ordina e monitora l’att uazione del Pian o stab ilendone le priorità,
all’Assemblea, sede dell’informazione e della comunicazione ed anche luogo della verifica della coerenza delle
azioni del PSL rispetto ai obiettivi prefissati, ai Forum locali e ai Tavoli Tecnici l uoghi della partecipazione,
dell’ascolto, della condivisione delle azioni del PSL con i cittadini, singoli e organizzati anche non coinvolti
direttamente nel Comitato di Pilotaggio.
Il processo ha generato una forte spinta progettuale che ha permesso non solo la messa a punto di un’analisi
condivisa dei problemi e delle risorse del territorio, ma soprattutto l’avvio di progetti di riqualificazione; nasce,
infatti, dai tavoli e dalle idee del Patto il Progetto Integrato per il recupero e la riqualificazione dell’area, che ha
ottenuto i finanziamenti della Regione Liguria nell’ambito del Programma Operativo Regionale Liguria, FERS
2007-2013 e che prevede, tra le diverse azioni, il recupero di quegli elementi fisici che contribuiscono al degrado
ambientale e sociale dell’a rea; l’implementazione d i servizi d i ti po so ciale-aggregativo e pe r l'in fanzia, p er
ridurre i p rincipali fabbisogni d egli abitanti, co n pa rticolare ri guardo al le fasce pi ù deboli; i l rec upero
dell’attrattività dei percorsi di attraversamento verso e da luoghi eccellenza (dal Porto Antico a via Garibaldi, al
Polo Museale)5.
Bibliografia
Libri
Bovone L., Mazzette A., Rovati G. (a cura di), (2005), Effervescenze urbane. Quartieri creativi a Genova,
Milano, Sassari, Milano, FrancoAngeli.
Dipartimento d i Sc ienze P olitiche e Sociali, (20 04), La riqualificazione del Centro Storico di Genova:
imprenditorialità e consumi culturali come risorse simboliche ed economiche, Genova.
Cassano F., (1996), Il pensiero meridiano, Roma-Bari, Laterza.
3
Il Patto p er l o Svilu ppo d ella Mad dalena è s tato s ottoscritto ne lla pri mavera 20 07 d a: C omune di Genova, Prefettura, C amera d i
Commercio, Industria e Artigianato di Genova Municipio I Centro Est, CIV Maddalena, Associazione il Sestiere della Maddalena, FILSE,
Ri.Ge.Nova, ARTE, AMIU, Università degli Studi di Genova (Facoltà di Architettura) e Job Centre, con il ruolo di coordinamento tecnico.
4
Sono mobilitati gli attori locali: il CIV Maddalena, che rappresenta in modo organizzato le istanze della rete commerciale della zona della
Maddalena; le Parrocchie, Associazioni, Comitati, che rappresentano in modo organizzato le istanze della popolazione residente e degli attori
sociali del territorio; il Consorzio Qualità e Recupero, che propone interventi di riqualificazione dei diversi manufatti in coerenza con le
azioni del P.S.L. e che intercetta risorse e volontà imprenditoriali.
5
Nasce anche nell’ambito del Patto il Progetto RING, Recuperare identità nel cuore di Genova, finanziato per il periodo 2009-2011 con
fondi FSE e FESR, che prevede la realizzazione di un Distretto Culturale con sede nel quartiere della Maddalena. Tra le diverse azioni: la
mappatura dei valori culturali e commerciali dell'area in funzione della realizzazione di uno spazio fisico e virtuale di conoscenza e di
consumo coinvolgente tutto il territorio del Distretto; lo studio di fattibilità per collegare i siti museali con gli altri valori e risorse d el
territorio; l'analisi delle potenzialità e della riconducibilità dei prodotti dell'artigianato esistente e del tessuto enogastronomico a riferimenti
storici, culturali, simbolici, riferibili al Distretto.
Franca Balletti, Silvia Soppa
4
Gli spazi pubblici: luoghi di conflitto e risorsa della città multietnica
Forni E., (2002), La città di Batman. Bambini, conflitti, sicurezza urbana, Torino, Bollati Boringhieri.
Paba G., (1998), Luoghi comuni. La città come laboratorio di progetti collettivi, Milano, Franco Angeli.
Pietromarchi B., (2005), Il luogo [non] comune. Arte, spazio pubblico ed estetica urbana in Europa, RomaBarcellona, Fondazione Olivetti e Actar.
Articoli:
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Poli D. (a cura di), (2007). Luoghi contesi: la riconquista dello spazio pubblico, Contesti. Città, territori e
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Siti web:
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www.eddyburg.it
Purini F., (2001). Spazio pubblico e conflitto [Online]. Disponibile su: http://www.celsius.lucca.it
Sitologia
http://www.incubatorecentrostorico.it
http://urbancenter.comune.genova.it
Riconoscimenti:
Il presente contributo è frutto di un lavoro comune; tuttavia il paragrafo “Spazio pubblico e Centro Storico” è da
attribuirsi a Silvia Soppa, mentre il paragrafo “Il Centro Storico e il quartiere della Maddalena” è da attribuirsi a
Franca Balletti.
Franca Balletti, Silvia Soppa
5
Confini, distanze e prossimità: nuovi dispositivi per il progetto dello spazio pubblico
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
Confini, distanze e prossimità: nuovi dispositivi per il
progetto dello spazio pubblico
Sara Basso
Dipartimento di Progettazione Architettonica e Urbana
Facoltà di Architettura, Università degli Studi di Trieste, [email protected]
Tel 0421 221774
Abstract
Affrontare il progetto dello spazio pubblico richiede oggi precisarne meglio il senso e il ruolo assunti,
all’interno della città contemporanea, per la società che in essa si trova ad abitare, stabilmente od
occasionalmente. L’ipotesi sostenuta è che per progettare uno spazio pubblico nuovo, rispondente a questa
società, sia necessario uno sforzo di riflessione critica utile a chiarirne il significato: solo a partire da questo è
possibile ripensare all’approccio e agli strumenti utili a perseguire la concreta realizzazione di un luogo che
possa dirsi ‘pubblico’. Attraverso questo contributo si intendono delineare alcuni temi che si ritiene possono
suggerire linee di ricerca possibili per perseguire questo obiettivo.
1. Lo spazio pubblico: nuovi orizzonti di senso
Nella città contemporanea ci si scontra con una dimensione dello spazio pubblico completamente diversa da
quella del passato: non univoca, sfuggente, dalle molte e, non sempre prevedibili, variabili. Cambiamenti sociali
(fenomeni migratori e nuove composizioni sociali in primis), modificazioni nei modi di rapportarsi allo spazio
della città dispersa e quindi nell’abitare, trasformazione del senso e del valore dei luoghi un tempo ‘centrali’ e
simbolicamente rappresentativi della comunità insediata, nuove domande di sicurezza: sono, questi, alcuni tra i
principali motivi che spingono molti studiosi ad interrogarsi sulla natura e la forma dello spazio pubblico della
contemporaneità1. Questioni che, allo stesso tempo, profilano l’urgenza di rivedere l’approccio al progetto dello
spazio pubb lico, tan to nella sua relazione co n l a cit tà, quanto in quella con gli abitanti e con ch i ne fa
occasionalmente uso ed esperienza.
Ma di quale spazio pubblico? A quale dei tanti significati possibili e plausibili dobbiamo rivolgere la nostra
attenzione?
Tra le molte ipotesi di spazio pubblico che si profilano all’interno di un discorso ricco ed articolato, la riflessione
qui proposta aderisce ad un suo significato non tanto nei termini di spazio predestinato ad un uso in comune o
collettivo (contrapposto a privato), quanto piuttosto al suo senso come luogo2 dove, mettendo in gioco la nostra
identità3, sia possibile fare esperienza della diversità e dell’alterità. Ci si riferisce, allora, ad un spazio che dia
luogo a forme di convivenza4. In questo, il suo significato e valore ‘pubblico’ non è designato istituzionalmente
ma deriva piuttosto da un processo in cui confluiscono pratiche, attribuzioni, valori, e attraverso cui si giunge
alla definizione di un’immagine - quella di luogo (del) pubblico, appunto - condivisa. È a questo tipo di spazio
che ritengo debba rivolgersi con maggiore attenzione il progetto: allo spazio pubblico pensato come “luogo di
relazioni”. Avanzo l’ipotesi che la risposta attraverso cui architetti/urbanisti hanno cercato di affrontare un’ormai
riconosciuta e conclamata crisi dello spazio pubblico non sia sempre l’esito di una riflessione a priori sullo
spazio come luogo ‘del pubblico’, ma risulti in molti casi mediata dall’attenzione verso temi trasversali: ora il
paesaggio, ora l’arte pubblica, ora un’emergente dimensione ecologica-ambientale…5. Temi che in alcuni casi
sembrano testimoniare un’oggettiva difficoltà nel definire in che cosa si siano trasformati i tradizionali spazi di
1
Si vedano, a titolo di esempio, (Innerarity, 2008), (Bianchetti, 2008), (Lanzani, 2003a), (Ilardi, Desideri, 1996).
“È nei luoghi che l’esperienza umana si forma, si accumula e viene condivisa, e il suo senso viene elaborato, assimilato e negoziato. Ed è
nei luoghi, e grazie ai luoghi, che i desideri si sviluppano e prendono forma, alimentati dalla speranza di realizzarsi, rischiano la delusione, e
– a dire il vero – il più delle volte vengono delusi.”: (Bauman 2005; p. 21, 22).
3
Sulla relazione tra luogo e identità si vedano: (Cacciari 2000), (Raffestin 2003).
4
“Il carattere pubblico viene conferito ad un luogo se e quando tutti coloro che vi si trovano ad interagire in una situazione di compresenza,
utilizzando in modi diversi e con motivazioni differenti (e non condivise: la compresenza può essere – e in genere lo è – caratterizzata da
tensioni e conflitti), apprendono, attraverso l’esperienza concreta della diversità […] la compresenza in termini di convivenza. E attraverso
questo processo di apprendimento, “si fanno” pubblico.”: (Crosta, 2000; p. 42, 43)
5
Modi di trattare lo spazio pubblico testimoniati anche dalle numerose pubblicazioni sul tema, in particolare da riviste (Lotus navigator,
A+T, Lotus,…) che hanno dedicato al tema numeri monografici specifici.
2
Sara Basso
1
Confini, distanze e prossimità: nuovi dispositivi per il progetto dello spazio pubblico
aggregazione, e nell’integrare i n una r isposta prog ettuale convincente le molte d omande di cui oggi g li
utenti/abitanti e gli stessi spazi sono portatori.
A partire dall’osservazione di uno spazio della convivenza, intendo proporre alcune questioni (aperte) da cui
ritengo p ossa e ssere utile partire per ripensare i l p rogetto p er/dello sp azio pubblico. A tal f ine, d elineo tre
possibili campi d i indagine: i l p rimo a ttiene al ruo lo co struttivo e po sitivo c he può avere il co nfine come
dispositivo di relazione, il secondo al valore delle distanze tra noi e gli ‘altri’ come mezzi per organizzare gli
spazi della socialità, rapportandoli a quelli del privato, il terzo alla necessità di riconsiderare l’importanza di un
approccio “micro” alla progettazione dello spazio.
2. Confini necessari
La pr ima question e ri guarda la n ecessità del confine co me strumento p er g arantire relazioni tra identità
differenti. Quest’ipotesi (avvalorata da studi e da una riflessione che trova fondamento nel contributo di geografi,
sociologi, filosofi, oltre che di architetti6) viene confermata dall’analisi di un caso studio specifico: il territorio di
confine italo-sloveno, nell’entroterra triestino. La lettura delle dinamiche sociali e insediative di questo territorio
- dove si sono trovate a convivere, in modo spesso conflittuale, etnie diverse (slovena e italiana) - permette di
confermare ulteriormente l’ipotesi che il confine sia indispensabile per affermare l’identità e permettere che
questa possa porsi in relazione, con le sue specificità e diversità, ad altre senza entrare in conflitto con loro.
Quello ch e insiste su l con fine triestin o è stato definito come u n terr itorio “e tnico”, occu pato in origine da
sloveni. L’annessione allo stato italiano ha minato il persistere del sistema di organizzazione sociale, ma anche
territoriale, legato a forme collettive di gestione della proprietà 7 in cui gli sloveni da sempre hanno riconosciuto
la p ropria identità co llettiva, p erpetuandone l’affermazione nel tempo. Il mancato r iconoscimento d i
un’organizzazione spaziale come riflesso di un’antica organizzazione sociale (le proprietà collettive non sono
riconosciute in Italia) ha indotto l’etnia autoctona a difendere il proprio spazio rafforzandone i confini: da luogo
di i dentificazione e di ri produzione di va lori i dentitari con divisi, il territorio s i è trasformato in “e nclave
strategica” entro cui tutelare e difendere la propria identità.
In questo territorio, ulteriori confini sono andati sedimentandosi nel confronto con la popolazione italiana. Le
relative forme di convivenza sono spesso restituite dalla letteratura nei termini di dominanza della maggioranza,
italiana, su lla m inoranza, slov ena. Per e vitare l’assim ilazione, la co munità sl ovena au toctona si è trov ata
costretta a rafforzare anche i propri confini “etnico-culturali” e a vivere in una necessaria condizione di chiusura.
La distanza che si è venuta ad instaurare nei confronti della popolazione italiana è segnata dal consolidarsi
progressivo di ulteriori “confini immateriali”, che condizionano e ostacolano la risoluzione dei conflitti generati
in relazione alla gestione e all’uso del territorio. L’immagine di luogo in cui perpetuare il riconoscimento della
propria identità contrasta infatti con quella, ampiamente nota e diffusa tra la maggioranza, di un posto di grande
pregio paesaggistico e ambientale, dove poter abitare in un contesto naturale ma, allo stesso tempo, vicino alla
città. Il territorio sloveno, quello dei borghi, è stato così interessato, soprattutto in tempi recenti 8, da fenomeni di
urbanizzazione che hanno favorito il radicarsi di modelli insediativi estranei alla cultura locale, portatrice al
contrario d i form e i nsediative fru tto di un lun go e p aziente ad attamento alle co ndizioni cli matiche e
geomorfologiche del contesto9.
A partire da queste considerazioni, si delinea un nuovo modo di intendere il confine. In questo contesto, non
sembra negabile l’ipotesi che l’istituzione del confine politico abbia interrotto il processo di identificazione che
per le popolazioni autoctone avveniva attraverso “la terra” e la sua gestione, concorrendo allo stesso tempo al
consolidamento di ulteriori confini relazionali e sociali. Ma questo caso testimonia anche come il processo di
identificazione e di riconoscimento che si esperisce nell’abitare il proprio luogo non sia legato alla dimensione
territoriale, ma ad una scala ridotta, quella del quotidiano, compiendosi nei gesti minuti e nelle pratiche legate al
“fare territorio” attraverso cui avviene l’affermazione della propria appartenenza. Se è ad una scala discreta che
si realizza il processo di identificazione, è qui che si richiede una più precisa definizione del confine per il
riconoscimento di una più generale identità comunitaria. Questo ha rilevanza nel momento in cui si pensa a come
possa incidere sulle pratiche legate all’abitare e, di conseguenza, sui modi di vedere il proprio luogo (territorio) e
di rapportarsi attraverso esso all’alterità.
Oggi molte ricerche che guardano all’abitare hanno saputo restituirci significati nuovi della parola, alludendo
alla dimensione non più solo stanziale, ma alla possibilità che l’abitare si esperisca in una dimensione allargata,
estesa al territorio, in virtù dei possibili sistemi di relazione che si possono stabilire tra gruppi vicini e lontani,
6
Tema che ho avuto modo di affrontare in Basso, (in corso di pubblicazione).
Si tratta di un sistema basato sugli usi civici e sulle cosiddette comunelle. Gli usi civici definiscono una realtà collettiva in cui l’uso e lo
sfruttamento del fondo è riservato ai soli membri (definiti anche comunisti, antichi, originari…): questi membri fanno parte di una collettività
detta comunella, vi cinia, co munanza…, che c onduce a benef icio indivi duale i terreni p revalentemente agr ari, m entre e sercitano
collettivamente determinati benefici.
8
Non è casuale che prima del degli anni ’60 gli strumenti urbanistici predisposti per la città non contemplassero disposizioni specifiche per i
borghi carsici; piani particolareggiati per i borghi vengono redatti solo a metà degli anni ’80.
9
Tipica è, in questo senso, la modificazione che si può rilevare nella trasformazione non sempre coerente del principio insediativo della casa
carsica operata in molti interventi di ristrutturazione e recupero di questa tipologia.
7
Sara Basso
2
Confini, distanze e prossimità: nuovi dispositivi per il progetto dello spazio pubblico
affini o meno, e variabili nel tempo (Cacciari, 2004). Questo territorio sembra suggerirci che questa opportunità,
ovvero l’opportunità di garantire all’abitare una sfera di possibilità relazionale ampia (Tagliagambe, 2005), non
può avvenire se non previa la più attenta definizione dell’ambito della stanzialità circoscritta del quotidiano.
In questo, è la piccola scala, quella relativa all’insediamento, alle sue forme di organizzazione e di reciproche
relazioni, che diviene determinante: è solo ripercorrendo e tracciando i confini nei contesti minimi del confronto
quotidiano che si possono riconoscere con chiarezza i confini legati ad una territorialità più ampia, e si può così
garantire una maggiore possibilità di relazione tra individualità e, soprattutto, etnie. Un passo indispensabile per
consentire ai differenti gruppi etnici di mettersi in relazione non in termini di opposizione/difesa, o di chiusura
(enclave), ma d i ap ertura, of frendo una po ssibile altern ativa al con flitto generato tra il processo d i
istituzionalizzazione di un territorio e la sua gestione tradizionale.
Il co nfine può al lora diventare f ondamento pe r un nuovo processo di c omposizione del lo s pazio, un a
composizione che più che con-fondere deve accostare e accordare, facendo vivere l’intero nella qualità di ogni
sua parte, ricordando che solo dalla giustapposizione, e non dalla separazione, nasce la ricchezza.
3. Distanze e prossimità
La lettura di questo caso sembra suggerire un’ulteriore rif lessione in merito alla r ilevanza che sembra oggi
assumere il concetto di distanza e le sue declinazioni possibili. La distanza non è solo metrica: la distanza può
diventare strumento di indagine quando serve a riconoscere, e definire, l’intervallo che esiste tra un ‘noi’ e
differenti ‘territori del sé’ (Lanzani, 2003b), tra i nostri confini - i confini del nostro corpo - e quelli degli altri, e
a riconoscere proprio in queste relazioni l’origine di processi di modificazione degli spazi abitati.
Oggi sem briamo e ssere d isabituati al l’esperienza de ll’altro, co ntinuamente alla ri cerca d i u na distan za d i
sicurezza c he ci allontani da ci ò c he ci è divers o, s conosciuto e q uindi perc epito c ome fon te di perico lo,
insicurezza o minaccia10. Stabilire distanze diventa un modo per trovare sicurezza attraverso forme di esclusione
o, in casi estremi (come quello an alizzato), d i assimilazione (Sed mak, Su ssi, 1984). Un’ esigenza, qu ella di
rafforzare la separazione dagli altri, dettata anche da una non più verificabile rispondenza tra spazio sociale e
spazio fisico, proprio perché quest’ultimo sembra acquisire con sempre più forza la configurazione di spazio
dell’imprevisto, dove i luoghi della socialità collettiva subiscono una significativa rivisitazione invalidando i
tradizionali criteri di localizzazione sociale. Pensiamo, ad esempio, agli immigrati che utilizzano e rivitalizzano
gli spazi collettivi abbandonati delle città storiche e/o dei piccoli centri 11: sono nuovi abitanti che si appropriano
di luoghi da cu i ci siamo allon tanati, ori entando la no stra attenzione e pre ferenza verso spazi d ell’incontro
“altri”, maggiormente controllati12. Un fenomeno, questo, che confuta vigorosamente la credenza, come osserva
Bordieu, che l a vicinanza fisica pro duca effetto d i av vicinamento so ciale: “nu lla è più i ntollerabile ch e la
prossimità fi sica (v issuta co me p romiscuità) di gente so cialmente lon tana” (Bordieu 20 04; p. 55). Così, l a
necessità d i ev itare l’i mprevisto ci sp inge a ch iedere ed esi gere m aggiore sicu rezza, co ntrollo, sp ostando
l’attenzione dalla configurazione dello spazio alla sua chiusura ed esclusività.
Come modificare il senso il valore della distanza da negativo a positivo? E fare in modo che la distanza spaziale
acquisisca un’accezione positiva concorrendo a ridurre e, forse, approssimare, quella sociale?
Recuperare l’idea di distanza può avere una duplice valenza: può essere intesa come dispositivo per intervenire
nei territori allargati, e offrire in essi nuove occasioni per riscoprire il valore del silenzio e della pausa 13; mentre
ad una scala più ridotta può concorrere a “dare luogo” a relazioni fertili tra identità differenti nella formazione
degli spazi dell’abitare. Stabilire giuste distanze può cioè diventare il mezzo affinché l’identità possa assumere
valore non s olo c ome principio di differenziazione (n ei termini di iden tità “ condizionante”) evide nziando
differenze tra le cose, ma anche come principio di relazione.
La di stanza (fisica) può di ventare “i nteressante” (D e So là-Morales, 19 99): può far si stru mento prog ettuale,
laddove serve ad delimitare un “campo” in funzione delle relazioni probabili e possibili che nello stesso possono
accadere. L a dista nza può diventare lo st rumento pe r de finire nuove gerarchie e strutture dello spazio di
relazione14, laddove il passaggio tra pubblico e privato si presta a una classificazione più articolata, che richiede
sfumature sottili, la messa in atto di sequenze, senza prescindere dal considerare che il comune non può essere
stabilito a priori ma lo spazio può solo e deve offrire le condizioni affinché questo comune possa aver luogo. La
distanza può così approssimarsi gradualmente in quello che il sociologo Zdravko Mlinar chiama “principio di
10
“Ciò che Jacques Lucan chiama il “grande Altro” è anche uno dei nomi per designare questo Muro che ci rende capaci di mantenere la
giusta distanza, garantendo che la vicinanza dell’altro non ci sommerga […]. Il paradosso è che questo Muro non è soltanto negativo, ma allo
stesso tempo fa nascere fantasie su che cosa si nasconda dietro di esso, su che cosa desideri l’altro davvero”: (Žižek, 2002).
11
Come molte ricerche hanno ampiamente dimostrato: si veda (Lanzani 2003b), (Bianchetti, 2003).
12
Tipico l’esempio dei centri commerciali e degli outlet.
13
“Il territorio post-metropolitano ignora il silenzio; non ci permette di sostare, di ‘raccoglierci’ nell’abitare. Appunto, non conosce, non può
conoscere distanze. Le distanze sono il suo nemico. Ogni luogo al suo interno sembra destinato ad accartocciarsi, a perdere di intensità fino a
trasformarsi in null’altro che in un passaggio, un momento della ‘mobilitazione’ universale”: (Cacciari, 2006; p. 40, 41).
14
Il riferimento è al testo di Serge Chermayeff e Christopher Alexander, dove i due autori, partendo dal riconoscimento della gerarchia
urbana degli spazi della vita pubblica e privata e la lettura di queste sequenze in alcuni esempi di modalità insediative, giungono a definire
forme di organizzazione spaziale definite “gerarchie organizzative” finalizzate a riportare equilibrio tra la vita di relazione e quella privata:
(Chermayeff, Alexander, 1968).
Sara Basso
3
Confini, distanze e prossimità: nuovi dispositivi per il progetto dello spazio pubblico
adiacenza”, dove in luogo della separazione prevale l’approssimazione reciproca (Mlinar, 1996), la prossimità e,
con essa, anche la promiscuità15.
In questo, la prossimità sembra destinata ad acquistare un nuovo ruolo di centralità nel discorso e nel progetto
per lo spazio pubblico. La rinascita di un interesse per questo tema16 permette di riconoscerne il potenziale in
particolare sul fronte di due tra i possibili significati che si presta ad assumere: nei termini di accessibilità (a
funzioni, lu oghi, m a an che ad usi diversi e possib ili) e i n quelli di rappo rto privilegiato e dirett o con la
dimensione natura, che richiama inevitabilmente all’idea di paesaggio sia come dato (dal paesaggio percepito e
lontano a quello imm ediato co n un possi bile ru olo strutturante ne l pro getto 17) m a an che come mezzo pe r
ripensare ai temi del benessere, del corpo, dello stare bene in un luogo, di un’ecologia … Trasversale a questi,
l’attenzione alla prossimità intesa come densità, nelle sue declinazioni già ampliamente esplorate e discusse18.
Temi che nel loro complesso possono incidere in modo significato sull’organizzazione degli spazi pubblici e sul
loro rapporto con gli edifici (siano questi residenziali, commerciali e/o altro) con cui sono in relazione, e che
porta ad un ripensamento non solo dell’idea di progetto, ma anche a quella dell’apparato normativo che lo
sostiene.
4. Costruire paesaggi minimi
Un’ulteriore q uestione rim anda alla d imensione/scala de llo spazio pu bblico. S in d all’antichità, l ’idea dello
spazio pubblico ha rinviato a quella di vuoto definito dalle quinte degli edifici, frons scenae di uno spazio reso
luogo dalla collettività che lo anima, un’idea, questa, accolta ed esaltata dalla modernità (Corboz, 1993). La
contemporaneità, invece, ha verificato come questa concezione di spazio non trovi più corrispondenza nella
società che lo può utilizzare. In tempi recenti, inoltre, l’attenzione rivolta all’individuazione e alla registrazione
delle pratiche legate agli usi e alle modalità di disporre degli spazi collettivi e/o pubblici (Bianchetti, 2003), ha
messo in luce una tendenza alla loro privatizzazione e ad esperire forme di vita in comune piuttosto de-limitate,
circoscritte, frutto di sistemi di autoregolamentazione che, in molti casi, pur nella eterogeneità e nell’apparente
disordine dei risultati, hanno avuto effetti positivi sulla ri-configurazione di spazi altrimenti ridotti all’incuria e
all’abbandono (si pensi, ad esempio, alle pratiche di privatizzazione degli spazi collettivi in alcuni quartieri di
edilizia residenziale pubblica)19.
Questi indizi spingono evidenziano la necessità di intensificare l’osservazione e l’operatività ad una scala ridotta
e contenuta, ad una scala che potremmo definire micro.
Micro non è locale. Il micro rimanda all’infinitamente piccolo, e non solo all’attenzione che deve essere rivolta
alle m icrotrasformazioni, m a a nche a i p ossibili m icroprogetti c he possono dare o rigine a r elazioni c on
l’infinitamente g rande. M icro richiam a ad una ri duzione scalare d ella disciplina, a quel suo farsi piccola,
insinuante, capace di vedere piccolo tra le cose. Le sempre più frequenti osservazioni dei paesaggi del quotidiano
e delle pratiche che li connotano sembrano avvalorare l’ipotesi dell a necessità di orien tare l’attenzione alla
costruzione di paesaggi minimi, rafforzando l’idea del decisivo contributo che può dare una microurbanistica
“fai-da-te” nel generare nuovo “collante” tra organismi edilizi. Questo non nell’ottica di assecondare processi di
appropriazione o su ddivisione autonoma e individuale dello spa zio, ma piuttosto di av viarne un a
regolamentazione avvalorando contestualmente l’idea che anche interventi minimi possono generare reazioni che
si ripercuotono, con effetti positivi, in ambiti più ampi, concorrendo a definire una nuova gradualità nell’uso e
dunque nella definizione degli spazi.
Micro allude anche alla dimensione dello spazio pubblico, all’idea di sostituire i grandi vuoti con spazi raccolti,
intimi, spazi che offrano riparo e protezione, configurando nuove sequenze di interni (Bianchetti, 2008, p.106)
che acco lgano i p otenziali u tenti o ffrendo loro co ndizioni d i ben essere. Un o biettivo, q uesto, che po trebbe
contrastare la tendenza ad interiorizzare negli edifici lo spazio in comune 20, e a rivalutarne il ruolo anche nei
termini di spazio di mediazione (tra privato e pubblico, tra urbano e domestico, tra paesaggio e urbano, ecc.) e
prolungamento (della natura/paesaggio verso l’edificato, dello spazio verde privato verso il pubblico, ecc.). In
questo l’attenzione per il verde, merito del paesaggio, ha dato, e può ancora dare molto, un contributo decisivo
15
“Nell’architettura urbana, promiscuità significa rompere la sfera del rispetto (la distanza) di ciascun edificio e invaderla con quella di un
altro. […] Credo nella validità di lavorare con la distanza in quanto valore, in quanto strumento per modellare gli spazi vuoti e ottenere una
promiscuità di forme e funzioni e un’identità di luoghi”: (De Solà-Morales, 1999; p. 114).
16
Il tema de lla pr ossimità n on è n uovo, ma, come no to, r isale ag li anni ’ 60 ( si dev e all ’antropologo americano Hall). I l r itorno di
un’attenzione per la prossimità è segnalato da alcune iniziative: mi limito qui a riferirmi agli esiti di un concorso progettuale, il concorso
Europan 5: (Europan, 1999).
17
Si veda a questo proposito il contributo di Marcel Smets nel testo citato in nota 16 (Europan, 5).
18
La densità come tema progettuale è stata ripresa in tempi recenti (molte le pubblicazione sul tema, soprattutto di riviste), anche se non con
esplicito riferimento allo spazio pubblico.
19
Si veda Laboratoriocittàpubblica (2009).
20
Guardando ai progetti in Europan 1999, mi sembra infatti si possano riconoscere, negli approcci al progetto, alcune tendenze relative agli
spazi comuni/pubblici: la prima è quella che fa dello spazio pubblico elemento della composizione del principio insediativo, trattandolo come
stanza all’aperto, ma recintata e invisibile all’esterno, un’altra che considera lo spazio pubblico come elemento della composizione urbana
(tipico è il caso di chi lo considera come un tappeto su cui disporre, secondo modalità variabili, gli elementi della composizione (case e/o
altro). La terza tendenza è quella che lo considera come mediazione/prolungamento verso l’urbano, il paesaggio ecc.
Sara Basso
4
Confini, distanze e prossimità: nuovi dispositivi per il progetto dello spazio pubblico
nell’esplorare la dimensione dello spazio come volume, senza tralasciare l’irrinunciabile valore che un ventennio
di pratica ha consegnato al progetto attraverso il ‘disegno di suolo’.
Bibliografia
Libri
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Sara Basso
5
Immigrati e spazio urbano - Inclusione ed esclusione nel governo delle città
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
Immigrati e spazio urbano
Inclusione ed esclusione nel governo delle città
Paola Briata
Dipartimento di Architettura e Pianificazione
Politecnico di Milano, [email protected]
Tel. 02-23995426
Abstract
Il paper restituisce gli esiti principali di una ricerca sugli strumenti di governo del territorio attivati in quattro
aree di altrettante città dove la presenza immigrata appare rilevante o estremamente visibile. Il lavoro si
propone di mostrare come, a fronte di un dibattito nazionale estremamente aggressivo, il trattamento dei
problemi posti dallo spazio urbano dell’immigrazione possa variare da città a città, intrecciandosi sia con il
“discorso pubblico” costruito a livello locale sul tema, sia con la maggiore o minore capacità espressa da
alcune realtà urbane di governare le trasformazioni della società post-fordista e di perseguire finalità di
integrazione delle popolazioni fragili, di origine immigrata e non.
1. Introduzione
Rivolgere l’attenzione al trattamento del tema dell’immigrazione negli strumenti di governo del territorio nel
nostro Paese può forse apparire un punto di vista poco rilevante a fronte del predominio del tema della sicurezza,
dell’asprezza assunta dal dibattito a livello nazionale e dalle recenti derive xenofobe.
Senza dub bio, l’impostazione d el d ibattito e delle politiche a livello nazion ale sono rilevanti. La no stra
legislazione in materia politiche di immigrazione è ancora dominata dal tema della regolazione dei flussi1. Poca
attenzione è stata rivolta alle politiche per gli immigrati2, centrate sulle possibili forme di integrazione, sui diritti
dei nuovi arrivati, sul valore della loro presenza nella nostra società. Condizioni generali di contesto che non
possono essere ignorate nell’introdurre questo tema.
Ciò non tog lie che sono o rmai numerosi g li st udi che h anno riconosciuto nelle citt à un tassello centrale
nell’elaborazione delle politiche per gli immigrati dato che queste sono state delegate completamente ai governi
locali, in particolare ai Comuni (Caponio, 2006). Questi, a loro volta, nel tentativo di rendere meno visibile
possibile il trattamento di una questione così spinosa agli occhi dell’opinione pubblica, hanno devoluto il più
possibile ruoli e funzioni all’associazionismo e al terzo settore. La dimensione cruciale per comprendere cosa
accade è dun que q uella l ocale, dov e ag iscono le M unicipalità, i sistemi l ocali d i po litiche, il vo lontariato.
All’assenza di una po litica nazionale, corrisponde una varietà di esperienze sui livelli locali che ha portato
all’identificazione di una “via italiana” al trattamento dei problemi posti dall’immigrazione “locale e adattiva”
(Tosi, 2004).
Queste cond izioni di con testo sembrano leg ittimare uno s guardo anc he s ul r uolo aff idato a gli st rumenti di
governo del territorio nelle singole città. In questa prospettiva rileva sottolineare che, nel nostro Paese, a fronte
di u n quadro or mai molto articolato d i studi cen trati sulla descrizione delle pecu liarità d ei pro cessi di
territorializzazione della città multietnica3, il tema delle forme di intervento messe in atto in questi contesti
appaia ancora poco esplorato. Tu ttavia, è stato os servato c ome an che il go verno de i te rritori urba ni
dell’immigrazione sia dominato dal tema della sicurezza ipotizzando che, in alcune città, sia stata proprio la
presenza immigrata a stimolare la promozione di forme di intervento finalizzate a determinare meccanismi più o
meno diretti di espulsione (Crosta et al, 2000).
Con riferimento ad alcuni studi di caso4, il paper si propone di mostrare come la questione sia più articolata e
come il trattamento dei problemi posti dallo spazio urbano dell’immigrazione possa variare da città a città,
intrecciandosi sia con il “discorso pubblico” costruito a livello locale sul tema, sia con la maggiore o minore
1
Alcuni segnali diversi sono giunti solo dalla legge Turco-Napolitano del 1998 e dal disegno di legge Amato-Ferrero.
Per una distinzione tra politiche di immigrazione e politiche per gli immigrati si veda Caponio (2006).
3
Si vedano, ad esempio, Cologna (1999; 2003); Laino (2003); Lanzani, Vitali (2003); Natale, (2002).
4
Il paper restituisce gli esiti di una ricerca biennale finanziata a partire da ottobre 2007 dal Diap del Politecnico di Milano attraverso
l’assegno di ricerca “Strumenti analitici e normativi di governo del territorio”.
2
Paola Briata
1
Immigrati e spazio urbano - Inclusione ed esclusione nel governo delle città
capacità espressa da alcune realtà urbane di governare le trasformazioni della società post-fordista e di perseguire
finalità di integrazione delle popolazioni più fragili, di origine immigrata e non.
2. Gli studi di caso
Si è deciso di co ncentrare l’atten zione sugli st rumenti di go verno del territ orio attivati i n qu attro aree di
altrettante città dove la presenza immigrata è rilevante o comunque estremamente visibile5: l’area BramanteCanonica-Sarpi a Milano, il quartiere del Carmine a Brescia, il centro storico di Genova e Porta Palazzo a
Torino6. Le esperienze analizzate sono riferibili a contesti urbani e di quartiere che hanno già affrontato il tema
dell’immigrazione “interna” e che negli ultimi anni hanno dovuto confrontarsi con ondate migratorie “esterne”.
Fa eccezione il caso di Milano, dato che la zona si caratterizza come il quartiere cinese già dagli anni ’30. Anche
se i nuovi arrivati tendono a insediarsi prevalentemente in zone periferiche e a basso costo, i casi prescelti
permettono di concentrare l’attenzione su aree centrali o semi-centrali delle città, dove si registra una pressione
immobiliare elevata e dove le dinamiche di inclusione-esclusione – estremamente rilevanti con riferimento al
tema dell’immigrazione – possono risultare più evidenti.
In ognuno dei quattro casi si è partiti da una descrizione del quartiere e dello spazio urbano dell’immigrazione; ci
si è occupati delle forme di intervento prospettate e delle azioni attivate; si è cercato di inquadrare tali forme di
intervento n el contesto più gen erale d elle strateg ie d i governo d el territorio de lle città m esse a l c entro
dell’attenzione e, sempre con riferimento a queste ultime, si è cercato di approfondire il discorso pubblico
sull’immigrazione proposto a livello locale e l’eventuale contributo/ruolo attribuito alle forme di intervento sul
territorio nella costruzione di t ale di battito. Le caratteri stiche d ei terri tori d ell’immigrazione presi in
considerazione dalla ricerca, i problemi emersi nelle aree, gli strumenti di intervento adottati per affrontarli e gli
esiti finora rilevabili sono brevemente restituiti nelle tabelle I-IV7.
Tabella I: L’area Bramante-Canonica-Sarpi a Milano
contesto
Area popolare e quartiere
cinese di Milano già dagli
anni ’30, interessata da un
processo di gentrification
dagli anni ’80
Dagli anni ’80: apertura
delle frontiere in Cina e
aumento degli immigrati a
Milano e nell’area che
diviene un centro
polifunzionale di servizi a
livello metropolitano per
la comunità cinese
Dalla fine degli anni ’90,
l’area è un punto di
riferimento per
l’importazione e la vendita
all’ingrosso di merci made
in china
15% della popolazione
residente composta da
immigrati di origine cinese
problemi
Concentrazione
spaziale di esercizi
all’ingrosso in un
tessuto urbano storico
inadatto a queste
attività: esternalità
negative sul contesto
residenziale locale
forme di intervento
Proposte di trasferimento
in un polo esterno per i
negozi cinesi all’ingrosso,
senza
incentivi/compensazioni
(proposte molto discusse,
ma non ancora attivate in
misura significativa)
problematicità/esiti
Scarsa capacità del
comune di dialogare sulle
forme di intervento
proposte sia con le
associazioni che
rappresentano gli abitanti
italiani, sia con i
negozianti cinesi
La situazione è
percepita come un
problema dai residenti
italiani come dai
commercianti cinesi,
ed è stata favorita da
un’assenza di regole
nel mercato delle
licenze e da una scarsa
capacità dimostrata
dalla città negli ultimi
anni di governare le
trasformazioni urbane
Zona a traffico limitato
(ZTL) (2008) per
regolare/ostacolare le
attività di carico/scarico
delle merci
(Debole) trattativa sulle
forme di intervento con la
parte più integrata della
comunità cinese che ha
esigenze molto diverse da
quella arrivata negli anni
più recenti
Bando di gara per la
progettazione di un’isola
pedonale (2009) da
completare entro il 2010 e
trattative con realtà
commerciali al dettaglio
italiane e internazionali
per il rientro nell’area
dopo la pedonalizzazione
La ZTL ha creato
problemi sia ai
commercianti cinesi, sia ai
residenti italiani
Un conflitto sull’uso dello
spazio pubblico è stato
trattato come un conflitto
etnico
5
Questa distinzione appare rilevante perché gli studi sulla presenza immigrata nelle città italiane hanno evidenziato come, fino a questo
momento, non siano rilevabili nel nostro Paese quelle forme di concentrazione o segregazione degli immigrati che, in altri contesti, sono state
ritenute patologiche, determinando la centralità di forme di intervento basate sulla dispersione o sulla rottura della territorialità chiusa dei
“ghetti etnici”.
6
Gli studi di caso sono stati costruiti e realizzati direttamente a Milano, Genova e Torino; per quanto riguarda l’esperienza di Brescia, si è
fatto riferimento ad una ricerca portata avanti da Synergia (Grandi 2008).
7
Per approfondimenti sui quattro casi si vedano Briata (2009a; 2009b).
Paola Briata
2
Immigrati e spazio urbano - Inclusione ed esclusione nel governo delle città
Tabella II: Il quartiere del Carmine a Brescia
contesto
Il Carmine
“occupa” ¼ del
centro storico di
Brescia ed è
sempre stato un
punto di approdo
per gli immigrati
“interni” prima,
“esterni” poi
problemi
Affitti molto
elevati e
condizioni di
sfruttamento
degli
immigrati da
parte di
proprietari
italiani
Già dagli anni ’60
quartiere multiproblematico
Degrado e
sovraffollamento degli
alloggi
Dagli anni ’90,
quartiere
“abbandonato” e
degradato:
situazione che ha
favorito
l’inserimento degli
immigrati sia dal
punto di vista
abitativo, sia per
quanto riguarda la
presenza
commerciale e di
pubblici esercizi
40% della
popolazione
residente composta
da immigrati
stranieri
Paola Briata
forme di intervento
Piano di recupero
(2001)
denominato Progetto
Carmine
problematicità/esiti
Riqualificazione obbligatoria degli immobili
in gran parte in mano ai privati
Localizzazione nell’area di una sede
dell’università, di una biblioteca, di un asilo
nido, di una stazione di polizia e di alloggi per
gli studenti
La riqualificazione ha contribuito ad innescare
un processo di gentrification e ad allontanare
una parte della componente immigrata e altre
popolazioni “fragili” come gli anziani
La presenza immigrata non è stata oggetto di
una tematizzazione specifica e il trattamento
dei problemi causati dal Piano è stato delegato
ai servizi sociali che hanno operato per
trasferire le persone in regola in un quartiere
pubblico periferico
Non è stato messo a punto un vero e proprio
“piano sociale”: le situazioni più
problematiche sono state “spostate” in altre
aree della città
Al processo di sostituzione di abitanti
all’interno degli edifici è corrisposta solo in
parte una sostituzione commerciale: il
quartiere rimane fortemente connotato dal
punto di vista etnico, ma non è più un’area off
limits
3
Immigrati e spazio urbano - Inclusione ed esclusione nel governo delle città
Tabella III: Il centro storico di Genova
contesto
Degrado del tessuto
edilizio, economico e
sociale della città vecchia
“rifiutato” dalle classi
medio-alte. Apice di questo
processo: anni ’80 quando
arrivano anche ondate
consistenti di immigrati
stranieri
problemi
Degrado fisico
degli edifici e
dello spazio
pubblico
Dagli anni ’90 la città ha
investito su una strategia di
sviluppo basata sul
recupero del centro storico
e sulla riapertura del
proprio sbocco verso il
mare, prima occupato dal
porto
Microcriminalità
e presenza di
attività illegali
Sfruttamento a tal fine di
una serie di occasioni
correlate ai “grandi eventi”
(colombiane; G8; Genova
capitale europea della
cultura) e di una serie di
strumenti di rigenerazione
di matrice europea,
nazionale, regionale, locale
22,1% della popolazione
residente composta da
immigrati stranieri
Paola Briata
Esclusione
sociale di
abitanti italiani e
stranieri
Stigmatizzazione
da parte delle
classi medio-alte
di un’area
strategica per lo
sviluppo della
città postindustriale
forme di intervento
Dal 1992, insieme
integrato di azioni di
diversa natura: PIC
Urban, Contratti di
Quartiere, Programmi
organici di intervento,
Centri integrati di via,
etc
Si è scelto di
concentrare
l’attenzione su due
Contratti di Quartiere:
quello per l’area
Giustiniani-Porta
Soprana e quello del
Ghetto
problematicità/esiti
Nel centro storico è stata
perseguita una strategia
finalizzata ad aumentare il
valore immobiliare degli edifici
degradati, a riqualificare gli
spazi pubblici e ad inserire
nuove attività e funzioni
(trasformazione di Palazzo
Ducale in un centro culturale;
insediamento della Facoltà di
Architettura)
Esiti: progressiva
riappropriazione del centro
storico da parte di city users e
classi medio-alte; processi di
gentrification. Il processo è
molto evidente a est di Via San
Lorenzo. Rimangono più
problematiche le situazioni del
Ghetto, di Prè e della Maddalena
Le strategie di rigenerazione
hanno contribuito ad allontanare
dal centro storico le popolazioni
più povere, immigrati inclusi.
Permane comunque un mix
sociale perché le classi medioalte non sono disposte ad
acquistare immobili ai piani
bassi dei vicoli
4
Immigrati e spazio urbano - Inclusione ed esclusione nel governo delle città
Tabella IV: Porta Palazzo a Torino
contesto
Porta Palazzo è stata il porto
di entrata a Torino per gli
immigrati “interni” dagli anni
’50 e per quelli “esterni” a
partire dagli anni ’80
Il mercato all’aperto di Piazza
della Repubblica, uno dei più
grandi d’Europa, è un punto di
approdo per chiunque cerchi
un lavoro (più o meno legale)
Nel 1995 emersione di una
“crisi urbana” causata dalla
crescita della presenza
immigrata, ma anche dallo
scarso livello di integrazione
sociale della popolazione
“autoctona”
Scelta dell’amministrazione di
non intervenire tramite azioni
positive etnicamente connotate
per favorire l’integrazione
degli immigrati
problemi
Scarso livello di
integrazione
sociale degli
immigrati, ma
anche della
popolazione
autoctona
Necessità di
intervenire sulle
condizioni di
lavoro del
mercato di
Piazza della
Repubblica
Degrado del
tessuto edilizio
e degli spazi
pubblici
23% della popolazione
composta da immigrati
stranieri
forme di intervento
Progetto pilota urbano
(1998) The Gate: living
not leaving che “integra”
anche altre forme di
intervento già previste
per l’area tra cui:
- la sistemazione della
piazza del mercato e la
realizzazione di un
sottopassaggio per gli
autoveicoli;
- il miglioramento dello
spazio pubblico;
- l’accompagnamento
alla realizzazione di
alcuni Piani di recupero
su 4 lotti particolarmente
degradati per i quali sono
previste azioni volte a
salvaguardare l’attuale
composizione sociale
attraverso un sistema di
incentivi economici che
favorisce le persone in
difficoltà
problematicità/esiti
Il tema portante di The Gate
è l’inclusione e sono state
portate avanti strategie
partecipative rivolte alla
popolazione dell’area nel
suo complesso, di origine
immigrata e non
The Gate ha attivato azioni
in materia di integrazione
sociale, sviluppo economico,
vivibilità, sicurezza,
multiculturalismo e
sostenibilità
Il progetto è sempre stato
incluso nel Progetto Speciale
Periferie, una sorta di
progetto strategico attivato
dal Comune di Torino per i
suoi “quartieri in crisi”
The Gate è stato anche una
sorta di laboratorio urbano
che ha ispirato l’istituzione,
nel 2006, dell’assessorato
alla rigenerazione urbana e
all’integrazione
3. Temi e questioni aperte
Le esperienze al centro dell’attenzione di questo studio permettono di avanzare alcune considerazioni sui mezzi
di controllo s ociale attraverso i l controllo de llo s pazio m essi all’opera nelle varie città e s ui m eccanismi
inclusivi/esclusivi delle popolazioni di origine immigrata che comportano. Da questo punto di vista, gli strumenti
di governo del territorio attivati nei contesti analizzati non differiscono in modo sostanziale da quelli già visti in
altri Paesi dove la presenza immigrata nelle città appare più consistente e “concentrata”. In particolare, si agisce
sullo spazio pubblico attraverso iniziative finalizzate alla “rottura della territorialità”8 dei luoghi di insediamento
degli immigrati, immettendo a ttività (eserc izi co mmerciali, bar e ristoranti n on connotati dal pu nto d i vista
etnico) e funzioni (università, biblioteche) volte ad attrarre popolazioni “esterne”, soprattutto visitatori e city
users. In questo modo a Brescia, come a Genova e a Torino il territorio appare meno “presidiato” dalla presenza
immigrata e di viene agl i occhi deg li estern i pi ù fr equentabile, men o pericoloso. Del tutto p articolare è la
situazione di Milano dove non si è di fronte ad un’area off limits per la presenza immigrata, ma ad un conflitto
sugli usi dello spazio che contrappone i commercianti cinesi all’ingrosso agli abitanti di classe medio-alta. In
questo contesto, le forme di zoning finora prospettate ricordano in modo per alcuni versi inquietante quelle
adottate alla fine dell’ottocento negli Stati Uniti a Modesto per ostacolare le attività delle lavanderie gestite dagli
immigrati di origine cinese9.
Un secondo ambito di intervento riguarda le operazioni di controllo sociale – inteso sia come controllo, sia come
cura (Mazza, 2006) – messe al lavoro per agire sulla dimensione degli alloggi. In molti casi questi interventi
hanno una doppia natura sulla quale non è semplice trarre conclusioni univoche. Se, da un lato, si tratta infatti di
operazioni che intervengono sulle condizioni di sfruttamento della presenza immigrata da parte dei proprietari
italiani, co ndizioni che ge nerano sovraffollamento i n immobili de gradati e al loggi i nsalubri, dall’altro l e
operazioni di recupero producono un innalzamento dei valori immobiliari, innescano processi di gentrification e
spesso comportano l’espulsione dei soggetti più deboli, immigrati (ma non solo) compresi. Il problema diviene
8
Ho usato questo concetto, proposto in Yiftachel (1990), per ragionare sulla trasformazione della enclave etnica di Spitalfields a Londra nel
quartiere culturale di Banglatown (cfr. Briata, 2007).
9
La vicenda è nota perché si è soliti far risalire le origini dello zoning a questa esperienza (cfr. Mancuso, 1978).
Paola Briata
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Immigrati e spazio urbano - Inclusione ed esclusione nel governo delle città
allora esplorare se e come le città abbiano previsto forme di compensazione degli “effetti collaterali” di questi
interventi. Da qu esto pu nto d i vista, g li attegg iamenti so no mol to d ifferenziati: a Geno va ci si è af fidati
completamente ad un meccanismo spontaneo prodotto da un mercato degli alloggi nel contesto del quale le classi
medio-alte tendono a non investire sugli appartamenti ai piani bassi delle case dei vicoli del centro storico; a
Brescia i m eccanismi di es pulsione s ono stati c ompensati attraverso il trasferim ento delle pop olazioni
svantaggiate in un quartiere popolare periferico; a Torino si è invece cercato di salvaguardare la composizione
sociale del quartiere prevedendo un sistema di incentivi per le persone in difficoltà.
I casi esaminati permettono inoltre di ragionare su come gli strumenti di governo del territorio si inseriscano o
possano contribuire alla promozione di un discorso pubblico sull’immigrazione più o meno allineato con quello
dominante nel nostro Paese. L’asprezza assunta dal dibattito a livello nazionale ha sollecitato questo tipo di
riflessione che risulta per molti versi correlata alle capacità espresse dalle città di governare le trasformazioni
urbane dopo la crisi del modello fordista e, al tempo stesso, di proporre una riflessione sulle possibilità di
insediamento dei gruppi svantaggiati (Briata et al, 2009).
A Brescia e a Genova si interviene su contesti fortemente caratterizzati dalla presenza immigrata e si attivano
iniziative che hanno effetti di espulsione sia sugli immigrati, sia sulle popolazioni più deboli, ma si evita un
riferimento esplicito a queste problematiche. In entrambi i casi, l’atteggiamento adottato sembra riflettere le
tensioni presenti in entrambe le città a non costruire un discorso pubblico aggressivo nei confronti della presenza
immigrata (p iù esp licito a Gen ova, pi ù sfu mato a Bresci a) ma, al tempo stesso , a i nvestire su st rategie di
sviluppo che, seppure a scala diversa, necessitano della trasformazione del centro storico per essere attuate.
Milano e Torino sembrano invece esprimere strategie opposte sia con riferimento alla costruzione del discorso
pubblico sull’immigrazione, sia con riferimento alla capacità di governare le trasformazioni urbane. In entrambi i
casi, le forme d i gov erno d el territ orio attivate con tribuiscono a costruire o so stengono la co struzione del
discorso pubblico sull’immigrazione proposto dalle città. A Milano un conflitto sugli usi del suolo, nato anche
dalla scarsa capacità dimostrata dalla città di governare le trasformazioni urbane e da una sostanziale assenza di
regole (Balducci et al, 2006), è stato impropriamente presentato come un conflitto “etnico” (Cologna, 2008) per
rafforzare un discorso pubblico estremamente aggressivo. A Torino, la scelta di lavorare esplicitamente sul tema
dell’integrazione degli immigrati e di non separare questo tema da quello dell’integrazione dei gruppi più fragili
in ge nerale, appare s enza du bbio s ia un a scelta cu lturale, s ia una sfida in un Paese co me no stro do ve
l’immigrazione è anc ora tratt ata pre valentemente i n termini secu ritari. Negli stessi ann i i n cu i altre
amministrazioni locali si sono affrettate ad istituire un assessorato dedicato alla sicurezza, The Gate ha costituito
una sorta di laboratorio urbano dove sono state messe a fuoco le linee di intervento dell’assessorato promosso nel
2006 che ambisce a tenere assieme il tema della rigenerazione urbana e quello dell’integrazione degli immigrati.
Pur non n egando la dim ensione per al cuni versi reto rica di que ste scelt e, è ne cessario consi derarne an che
l’aspetto “provocatorio” e il valore culturale.
Le scelte apparentemente opposte di Milano e Torino sembrerebbero inoltre confermare la tesi assunta in un
recente contributo da Bricocoli e Savoldi (2008), secondo i quali la tematizzazione in forma securitaria di molti
problemi sarebbe in parte dovuta ad una sovrarappresentazione di problematiche mal trattate (o affatto trattate)
da altre politiche. Politiche “di scarto”, osservano i due autori, ma anche estremamente potenti nel condizionare
un dibattito pubblico dal quale anche gli strumenti di governo del territorio non sono immuni. Le scelte di
Torino, del resto, appaiono in linea con un atteggiamento più generale della città che, dalla fine degli anni ’90, ha
deciso di investire non solo sulla promozione di un piano strategico centrato sullo sviluppo economico di una
realtà in profonda trasformazione, ma anche sul Progetto Speciale Periferie (Governa & Saccomani, 2004): una
sorta d i pi ano strategico pe r i “quartieri in crisi” at traverso il q uale si è c ercato d i p romuovere forme di
integrazione territoriale, economica e sociale delle aree in difficoltà.
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Paola Briata
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Le periferie come luogo di scontro e anomia o come occasione di incontro e formazione societaria?
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
Le periferie come luogo di scontro e anomia o come
occasione di incontro e di formazione societaria?
Rose Marie Callà
Dipartimento di Scienze Umane e Sociali
Università di Trento
[email protected]
0461.392378
Alessandro Franceschini
Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale
Università di Trento
[email protected]
0461.882690
Abstract
I fenomeni di ri-urbanizzazione tipici delle città che si convertono al terziario creativo hanno come conseguenza
anche lo sviluppo di aree periferiche caratterizzate da residenzialità disagiata, perché migrante o a basso
reddito. La collettività avverte questo come un problema. Tuttavia se l’intervento dell’ente pubblico è rapido e
puntuale, il conflitto delle aree periferiche può trasformarsi in una risorsa, in un interessante laboratorio di
convivenza. L’esperienza del quartiere “Magnete” di Trento offre l’occasione per riflettere sugli strumenti che,
amministrazione pubblica anzitutto ma anche la disciplina urbanistica, possono e devono maturare per il
governo della città contemporanea.
1. Le periferie: da fenomeno negativo a occasione di cittadinanza
In Italia, nel corso degli ultimi decenni, si è assistito ad una dinamica demografica positiva in città di varie
dimensioni, caratterizzate da trasformazioni economiche che tendono all’innovazione e alla dinamicità (Davico,
Mela, 20 02:79). Qu esto f enomeno dettato pr incipalmente da f attori econo mici e definito co me “riurbanizzazione”, è accompagnato in primis da un a umento d ei p osti d i l avoro c he, co nseguentemente,
richiamano gruppi sociali ad alto livello di istruzione e formazione professionale. Contemporaneamente, in tali
contesti urbani, si assiste ad altre trasformazioni che inducono anch’esse ad un aumento della popolazione: la
riqualificazione del patrimonio edilizio del centro storico, generalmente ad opera di soggetti pubblici, che a sua
volta determina il rilancio sia dei servizi, sia dei mezzi di trasporto pubblici che delle infrastrutture. Ne scaturisce
un “imborghesimento” sociale, architettonico ed urbanistico del centro storico (Davico, Mela, 2002:80). Questa
porzione della città che subisce l’azione di restyling sembra tuttavia non funzionare come vettore di integrazione
e di spazio pubblico, ma rimane luogo di autonomizzazzione degli individui calati in un prezioso e raffinato
arredo urbano. Contemporaneamente a queste trasformazioni vissute dalla città formale, si assiste all’espansione
della/e periferia/e, nella modalità diffusa.
Questo anche perché, accanto ai flussi di gruppi sociali ad alto livello di istruzione e di reddito, si affiancano
arrivi di gruppi sociali a basso reddito, generalmente provenienti da Paesi del Sud del Mondo. Lo sviluppo,
infatti, delle economie cosiddette avanzate abbisogna di un parallelo sviluppo di economia di bassa qualità che
permetta ai fruitori e attori delle prime di esplicitare i propri ruoli (Davico, Mela, 2002:81). Nonostante questi
soggetti provenienti da Paesi in Via di Sviluppo siano a tutti gli effetti degli «utili invasori» (Ambrosini, 2000),
ai residenti storici autoctoni appaiono soprattutto come elementi inquinanti da allontanare, ghettizzare, contenere
in quelle eterogenee porzioni di città ai margini della sezione della città formale, occupata generalmente al centro
storico e che rappresentano, a tutti gli effetti, delle «città parallele» (Ferrarotti, 2009).
Consapevoli del fatto che è ri duttivo e p oco co rretto c ircoscrivere il feno meno dell’esclusione sociale n el
contrasto centro-periferia in quanto esistono periferie ricchissime e centri che ospitano esclusi di ogni genere
(Augé, 200 7:17), è senz’altro vero ch e se i n un passato p ost-bellico, oramai pi uttosto lon tano, le peri ferie
rappresentavano la metafora della modernità e del progresso, oggi si evidenzia in esse soprattutto la scarsa
qualità del loro ambiente urbano, il loro disordine funzionale, con l’assenza di servizi, di attrezzature e di spazi
Rose Marie Callà e Alessandro Franceschini
1
Le periferie come luogo di scontro e anomia o come occasione di incontro e formazione societaria?
liberi, con la consegue nte di fficoltà da pa rte de gli abitanti di appro priarsi del loro spaz io, caratterizzato
dall’assenza di occasioni e relazioni. Cittadini residenti «che si portano addosso anche lo stigma negativo del
vivere in un quartiere problematico» (Guidicini, 2000: 52).
Quello che spesso viene definito come il “dramma delle periferie” è rappresentato dall’emarginazione di interi
gruppi sociali – vere e proprie subculture (Park, 1938) –, esclusi quasi sempre da un punto di vista sociale,
spesso anche privati dei servizi essenziali, di spazi deputati alla relazionalità e di stimoli culturali. Come se la
lontananza dal centro significasse irrimediabilmente perdita di opportunità (Ferrarotti, 2009:18). E tuttavia questi
luoghi ai margini, percepiti come fonte di problema e/o privi di funzioni importanti, sono abitati da un numero
crescente di individui che svolgono funzion i vitali per il centro, senza le quali il salotto della città propria
cesserebbe di esistere. Ed i soggetti che svolgono tali funzioni vitali non sono «popolazione eccedente», vite di
scarto (Bauman, 2004), ma persone che hanno lasciato il loro paese e portano con sé ricchi bagagli culturali,
anzitutto «ciò che di più prezioso una patria può donare: la nostalgia» (Roth, 2003:115).
A fronte dello sviluppo delle città parallele, le governance urbane oscillano tra forme di segregazione di tali
contesti periferici a tentativi di disciplinare la loro espansione, di omologare forme di convivenza non ortodosse,
di annullare gli usi degli spazi pubblici non convenzionali.
Il tentato processo di integrazione da parte della “città propria” avviene dunque sulla base di diversi imperativi:
legalità, razionalizzazione, ordine sia esso di tipo urbanistico-architettonico con progettazioni disciplinanti dello
spazio, sia di tipo socio-culturale con tentativi di contenimento delle diversità etniche. Le aree suburbane, per
contro, si propongono come zone indeterminate, sia per il loro confini geografici mutanti e sia per i gruppi
sociali eterogenei che in esse risiedono (Ferrarotti, 2009).
Sia le azioni di segregazioni che quelle di riordino appaiono tuttavia dettate da una miopia di fondo che non tiene
in dovuta considerazione le trasformazioni epocali che la società globale sta subendo e che, necessariamente, si
ripercuotono anche sui destini delle aree urbane, siano esse formali o appartenenti alla “città altra”. Il fenomeno
delle migrazioni internazionali, infatti, impossibile da arrestare a causa degli squilibri laceranti di natura sociale,
economica a demografica tra nord e sud del mondo, ci pone di fronte a scenari urbani multietnici, nei quali lo
scontro e l’incontro, i conflitti e le contaminazioni con l’Altro, sono e saranno progressivamente sempre più
diffusi (Guidicini, 2008; Ferrarotti, 2009).
Da un lato, dunque, si assiste ad una realtà locale “gelosa della propria specificità”, ma dall’altro il territorio
diviene un mero contenitore anonimo e anomico (Guidicini, 2008).
Si può ragionevolmente prevedere che non sarà il mondo periferico – in senso urbano, in senso globale, in senso
sociale – ad indietreggiare, anzi esso si imporrà come modello sia sociale sia come tipologia di insediamento
abitativo prevalente. Mentre la città formale, sempre più simile ad un oggetto inanimato, svuotata dai conflitti nel
senso sia di fligere – urtare –, ma anche di cum – insieme –, non riacquisterà la sua antica capacità di creare
società (Ferrarotti, 2009).
Le emergenti forme di urbanità sia delle periferie più o meno degradate da un punto di vista urbanistico e/o
sociale, ma sia i centri st orici “incellofanati” i n vet rine il luminate, pa lazzi restaurati e ri cche so litudini,
evidenziano la loro fragilità alla quale si può rispondere solo con la ricostruzione ex-novo, o con il rafforzamento
dei meccanismi di solidarietà e di socialità avanzata, partendo dal territorio, rilanciando i quartieri e le iniziative
di partecipazione e di condivisione (Guidicini, 2000). Perché è proprio la mancanza di senso di condivisione che
origina il senso soggettivo, ma anche la condizione oggettiva, di esclusione. Forse è proprio nella periferia che
potenzialmente possono emergere in spazi, tempi e situazioni a volte imprevedibili, elementi della dimensione
comunitaria come l’identità, il senso di appartenenza, la fiducia, la reciprocità, la solidarietà. Elementi questi
portati av anti da i ndividui che co scientemente h anno ab bandonato il cen tro o che dal cen tro son o stati
“scacciati”: soggetti sociali deboli, migranti e “altri”.
Le ci ttà han no biso gno d i q uesti a ltri “u tili” e “p roblematici” pe rché ra ppresentano la po ssibilità d elle
cittadinanza e della condivisione sociale nella diversità come sinonimo di arricchimento societario (Guidicini,
2000). Esistono, in questo senso, alcuni esempi che dimostrano come la costruzione comunitaria sia possibile
anche in c ontesti d ifficili e (p ercepiti come) p ericolosi, nonostante il rispetto pedissequo degli s tandard
urbanistici. Anzi, paradossalmente, soprattutto in questi.
Si descrive di seguito il caso di una periferia “ordinata” ma priva di una comunità residente che con un percorso
di condivisione partecipata crea una propria identità, risolve parte delle carenze sociali e strutturali, in modo
originale e creativo.
2. Il caso “Magnete” a Trento: da “Bronx” a Comunità
A partire dal dopoguerra le città sono state protagoniste di un fenomeno importante ed imprevisto: le periferie
sono cresciute veloci, senza essere accompagnate da un’altrettanto veloce crescita delle comunità re sidenti.
Questo fenomeno ha invertito, di fatto, la tendenza con cui le città sono state costruite nei secoli, ovvero per
mano di una comunità. La crescita subitanea d elle periferie ha preferito seguire le logiche di mercato e di
opportunità piuttosto che quelle della convivenza. Tuttavia è possibile avviare azioni ex-post di costruzione della
comunità. Quando la città è ormai finita anche nelle porzioni periferiche stigmatizzate in negativo.
Rose Marie Callà e Alessandro Franceschini
2
Le periferie come luogo di scontro e anomia o come occasione di incontro e formazione societaria?
Un caso interessante da analizzare in tal senso è costituito dal caso “Magnete”, un quartiere periferico della città
di T rento c ostruito i n anni rece nti e prota gonista di una s uggestiva az ione di ri qualificazione s ociale. Il
“Magnete” è un articolato com plesso edilizio, un e dificio m isto (servizi e resi denziale) m orfologicamente
identificabile in un grand e blocco tripartito orientato est-ovest, che comprende spazi verdi e spazi pubblici.
Rispetto alla struttura della città di Trento, il complesso è situato nella zona nord, in una area particolarmente
marginale e collocato in un’area chiusa tra la linea ferroviaria, una strada statale ad alto traffico e un’area exindustriale, oggetto di riconversione urbana, attualmente in attesa di disinquinamento.
Il complesso è stato costruito alla fine degli anni Novanta. È strutturato in quattro “listoni” che ospitano 274
famiglie (di cui una cinquantina “migranti”) per un totale di 543 residenti. Si tratta, in parte, di alloggi realizzati
dall’Istituto t rentino edilizia ab itativa (Itea) – en te ch e nella Prov incia autonoma di Trent o gestisce l a
realizzazione dell’edilizia economico popolare. In una parte del complesso sono ospitati alcuni servizi ed uffici,
tra cui la sede trentina dell’Agenzia delle Entrate. Il manufatto edilizio è sostanzialmente di buona qualità sia
nella progettazione degli spazi sia nell’articolazione dei materiali: aree a verde si alternano ad aree che fungono
da spazio di ritrovo sociale. Tra i servizi va segnalata anche la presenza di una pizzeria.
Il q uartiere ri sponde du nque a t utti gl i st andard u rbanistici rel ativi al ver de, ai ser vizi e pi ù i n generale
all’urbanizzazione secondaria. La stessa struttura architettonica è di buon livello con un’evidente attenzione alla
qualità d egli sp azi co struiti. Tu ttavia questa bella scat ola ed ilizia n on è stata sufficien te p er trasformare il
quartiere in un luogo in cui è bello vivere. In particolare è risultata carente la modalità con cui è stato realizzato
il tessuto sociale: le famiglie hanno riempito gli alloggi secondo le risposte del mercato, nel caso di alloggi
privati, o secondo le assegnazioni dell’ente pubblico, nel caso degli alloggi popolari.
I problemi sociali dentro il Magnete si sono manifestati fin da subito: la presenza di alcune famiglie a basso
reddito e con problemi sociali si è intrecciata con le difficoltà intrinseche di un quartiere periferico, senza legami
diretti con la città. Il quartiere soffre così di “isolamento” e presenta episodi di disagio sociale che lo rendono
protagonista sulla stampa locale. Ecco nascere così la metafora del «Bronx» per descrivere quel brano di città
(Coletta, 2009).
Il disagio degli abitanti (sono le donne, le madri che abitano nel quartiere, ad avviare le prime azioni di protesta
e di richiesta all’ente pubblico) amplificato dai mass-media, è divenuto protagonista di un’azione promossa dal
“Polo Sociale 2” e dalla Circoscrizione competente – struttura questa implementata dal “Piano Sociale per la
città di Trento” (Fazzi, Scaglia, 2001) e avente lo scopo di individuare i disagi e promuovere, anche con l’aiuto
di soggetti appartenenti al privato sociale, la loro risoluzione. I due soggetti pubblici hanno avviato un percorso
di co struzione di co munità. A segu ito d elle r ichieste delle f amiglie e dell’ individuazione dei d isagi so ciali
all’interno del complesso, quindi, il Comune di Trento (tramite l’Assessorato alle Politiche sociali) ha affidato,
nel 2 003, ad un a C ooperativa so ciale ( Cooperativa Ar ianna) il co mpito di av viare m omenti d i co struzione
comunitaria.
I progetti attivati dalla Cooperitiva – denominati «Animagnete: laboratori creativi per bambini e genitori» e
«Prove di comunità: spazi e incontri per ascoltarsi, partecipare e costruire… insieme» – hanno avuto come
obiettivo quello di attivare processi di conoscenza e di rafforzare relazioni positive tra gli abitanti del complesso
residenziale, s ostenendo d a un la to l a g enitorialità res a più f ragile da un a s ocietà i n ra pido m utamento e,
dall’altro, rafforzando la comunità stessa, sviluppandone il senso di identità e di consapevolezza a ttraverso
l’acquisizione di maggiori competenze comunicative e di convivenza.
Le prime richieste delle famiglie sono state di evidente necessità. In particolare la prima battaglia compiuta dagli
abitanti si è concentrata sulla necessità di dotare il quartiere di un pulmino di servizio che garantisse ai bambini
l’arrivo alla scuola più vicina, a qualche chilometro di distanza. Altre richieste si sono concentrate sul bisogno di
rendere più efficiente il servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani. Una altra vittoria delle famiglie è stata quella
di avere a disposizione una sala per le riunioni e per gli incontri sociali.
Le azioni messe in campo dalla Cooperativa Arianna e dal Comune di Trento possono essere sintetizzate nelle
seguenti li nee di la voro: c ontribuire alla creazione di un a com unità integrata e dialogante; offrire s pazi
relazionali e di confronto agli abitanti del Magnete; far emergere la creatività e l’immaginazione dei bambini e
dei genitori; sostenere una genitorialità consapevole; favorire la cooperazione tra bambini; favorire un armonioso
processo di costruzione di identità; offrire momenti di socializzazione e incontro tra bambini e adulti.
Nella pratica le azioni si sono concretizzate soprattutto nella conversione di spazi privati in spazi pubblici,
creando luoghi destinati alla comunità dove i residenti possano incontrarsi e riconoscersi e, soprattutto, nella
creazione di momenti di incontro e di socializzazione (feste, ritrovi, azioni comuni, momenti di sensibilizzazione
e di informazione) necessari tra vicini di casa e tra abitanti dello stesso condominio.
A distanza di sei anni dall’avvio dell’azione della Cooperativa Arianna è possibile affermare che al Magnete è
oggi presente una comunità più viva e strutturata che coinvolge abitanti di età, religione, nazionalità diverse.
Gran parte dei conflitti iniziali sono andati scemando. La presenza di questa comunità ha conseguentemente
migliorato in maniera significativa la qualità della vita dentro il complesso. E questo è stato possibile grazie a
due momenti:
• l’espressione del disagio da parte degli abitanti e la richiesta di aiuto all’ente pubblico;
Rose Marie Callà e Alessandro Franceschini
3
Le periferie come luogo di scontro e anomia o come occasione di incontro e formazione societaria?
•
la capacità dell’ente pubblico di ascoltare e di offrire un pronto intervento dimostrando di considerare la
costruzione della comunità un elemento fondamentale – ancorché tardivo – della costruzione della città.
3. Conclusioni: una lezione per l’urbanistica
Questa esperienza dimostra ancora una volta come sia necessario che le città siano impermeabili al nuovo e al
diverso c he sopraggiunge e che si insedia nelle aree m arginali, l ette generalmente e solo c ome l uoghi di
imperante disorganizzazione sociale e di degrado urbano, evitando di incrementare quella dualità che caratterizza
la maggior parte delle città contemporanee: debolezza sociale frammista alla debolezza del tessuto della città
(Guidicini, 2000:8). Il ribaltamento necessario, invece, è quello di riconoscere il mondo periferico come bacino
di riso rse econo miche e cultu rali f uture e di gar antirgli un posto ce ntrale nella fo rmazione di Società. La
progettazione urbana, architettonica e sociale, quindi, dovrebbero essere sempre più strumenti atti ad evitare che
le di visioni territor iali non siano a nche e ancora c onfini simbolici p er man tenere sald e fron tiere m entali,
puntando ad attenu are d a u n lato l’iso lamento dei gruppi so ciali emarginati nelle p eriferie, e d all’altro la
solitudine dei gruppi sociali che ereditano i centri storici, dando luogo a spazi di contaminazione, dialettica e
scambio sociale (Ferrarotti, 2009:12). Compito dell’architettura e dell’urbanistica è quello di progettare luoghi
che p ossano esser u sati d ai soggetti ch e effettivamente v i andranno a vi vere «ch e ab biano una dimensione
esistenziale, che non comporti una dissipazione di identità e dove gli utenti e l’architettura possano interagire in
una reciproca partecipazione» (Romano, 2001:19). L’esperienza del Magnete può dare all’urbanista una lezione
sintetizzabile in questi punti:
• le politiche urbanistiche non p ossono essere d isgiunte d a qu elle sociali. Soprattu tto n el caso d i
costruzione di interi comparti urbani dove è necessario accompagnare alla costruzione degli spazi la
costruzione di quelle reti sociali che permettono la serena convivenza tra le persone;
• gli “standard” urbanistici, pur necessari, non sono più sufficienti a garantire la qualità della vita entro i
grandi complessi edilizi: gli spazi verdi poco controllabili possono essere degli autentici “buchi neri”
dentro il tessuto urbano; è necessario garantire nuovi spazi obbligatori, come quello di aggregazione –
un tempo non necessario ma oggi fondamentale;
• la periferia, se ben governata, può essere l’occasione per costruire la comunità: non più un problema ma
una risorsa (Ferrarotti, 2009): i confronti, gli scontri e le contaminazioni possono essere un’occasione
inedita di accettazione dell’altro per creare una comunità nuova;
• la progettazione dei nuovi spazi urbani ha bisogno di professionalità che vanno ben oltre i compiti
classici del progettista e dell’urbanista: c’è bisogno del contributo non solo di sociologi e psicologi della
percezione, ma anche di professionisti dell’interculturalità;
• la per iferia, qu ando è ben governata, può esser e un pun golo al la r iqualificazione anche del Centro
storico che tende a diventare la negazione delle potenzialità della periferia: scatole edilizie svuotate di
residenze che creano spazi cimiteriali.
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Rose Marie Callà e Alessandro Franceschini
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Rose Marie Callà e Alessandro Franceschini
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Le funzioni sociali del verde pubblico e la fruizione dei Parchi Urbani
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
Le funzioni sociali del verde pubblico e la fruizione dei
Parchi Urbani
Angela Casile
Dottore di ricerca, Università degli studi Mediterranea di Reggio Calabria,
Facoltà di Architettura,
Dipartimento Scienze Ambientali Territoriali.
Abstract
Oggi tutti vorremmo una città che sappia creare ambienti di qualità e garantirne nel tempo il mantenimento,
che sappia ri-progettare i suoi ambiti degradati, nel rispetto dell’identità dei luoghi, ovvero del loro codice
genetico, del rapporto tra la storia dell’insediamento urbano e la loro riconoscibilità nei segni e nei significati
dei vari paesaggi urbani. Non c’è dubbio che il “Parco Urbano” sia una delle componenti di spicco del
configurarsi degli spazi della città sin dalle epoche più antiche, come spazio di natura formalmente organizzata
per il decoro e la fruizione degli abitanti della città. Individuare nella città le aree da ri-naturalizzare con
funzioni preminenti di ri-equilibrio paesaggistico ed ambientale, ri-organizzare i nostri progetti e interventi
alla luce della consapevolezza dei contesti storici e naturali, re-cuperare i tessuti edilizi, ri-qualificare e “
riparare ”, trasformare le periferie esistenti in “ città a tutti gli effetti “,e così le aree “ interstiziali ”, le aree
perturbane, sono operazioni basilari per una metamorfosi positiva della città.
La città è un sistema costruito perché i suoi abitanti possano avere ottimi servizi e sicurezza, non è certo un
“ecosistema”, benché si tenti di conservarvi qualche frammento di natura, di cui l’uomo ha ancora ora una intima
necessità.
Gli interventi che si possono attuare con il verde possono essere distinti secondo vari livelli corrispondenti a
varie funz ioni: un pr imo livello po trebbe esser e qu ello do ve gli spazi verdi si int egrano co n la struttura
architettonica dell’intorno, dando luogo a zone residenziali. Questi spazi verdi, che potremo chiamare anche di
quartiere, dovrebbero connettersi con il verde dei parchi urbani, dei giardini storici, di quelli fluviali,…. fino a
legarsi a parchi territoriali di ampio respiro.
I giardini e i parchi urbani, purtroppo, non possono quasi mai identificarsi come luoghi naturali, ma spesso si
connotano come in natura artificializzata.
Oggigiorno, bisogna considerare le zone abitate della città come un sistema articolato in vari sottosistemi che
contribuiscono, con azioni ed influenze reciproche, a creare un habitat all’interno del quale si abita, si lavora, si
interagisce socialmente, si gode del tempo libero. Il livello di gradimento dell’habitat da parte delle persone, la
sensazione di benessere che esso è in grado di comunicare e, in definitiva, la sua capacità di attrarre l’interesse
delle persone, dipendono non solo dal fatto che gli elementi che compongono l’organizzazione delle attività
(architettura, infrastrutture, arredo, servizi, commercio, iniziative sociali, ecc.) interagiscono fra loro, ma anche
dal fatto che tali attività si pongano tra loro in relazione armonica.
Un giardino, o un parco, sono elementi dell’ambiente costruito in fondamentale relazione con il paesaggio, utili
per migliorare la qualità della vita nella città. È però necessaria una valutazione attenta di alcune delle loro
caratteristiche, al fine di migliorare la loro funzione e di favorirne la gestione, oltre che per consentirne una
razionale pianificazione degli interventi di estensione delle aree verdi.
Affinché un giardino sia “abitabile” deve rispondere ad alcune funzioni:
•
•
ecologico-ambientale: il verde , anche all ’interno de lle aree u rbane, costituisce un f ondamentale
elemento d i pre senza ecologica, che contribuisce in mod o so stanziale a mitigare g li effe tti d i
degrado e gli impatti prodotti dalla presenza delle edificazioni e delle attività dell’uomo. Fra l’altro la
presenza del verde contribuisce a regolare gli effetti del microclima cittadino attraverso l’aumento
dell’evapotraspirazione, regimando così i p icchi t ermici estivi c on una s orta d i eff etto di
“condizionamento” naturale dell’aria;
sanitaria: in al cune a ree urbane, i n pa rticolare vicino a gli o spedali, l a pr esenza di un g iardino
contribuisce alla creazione di un ambiente che può favorire la convalescenza dei degenti, sia per la
presenza di esigenze aromatiche e balsamiche, sia per l’effetto di mitigazione del microclima, sia anche
per l’effetto psicologico prodotto dalla vista riposante di alberi e vegetazione ben curati;
Angela Casile
1
Le funzioni sociali del verde pubblico e la fruizione dei Parchi Urbani
•
protettiva: il verde può fornire un importante effetto di protezione e di tutela del territorio in aree
degradate o sensibili (argini fluviali, scarp ate, zon e con pericolo di frana, ecc.). Viceversa, la sua
rimozione può in alcuni casi produrre effetti sensibili di degrado e dissesto territoriale;
•
sociale e ricreativa: la presenza di parchi, giardini, viali e piazze alberate o comunque dotate di arredo
verde, consente di soddisfare un’importante esigenza ricreativa e sociale e di fornire un fondamentale
servizio alla collettività, rendendo una città più vivibile e a dimensione degli uomini e delle famiglie.
Inoltre la gestione del verde può consentire la formazione di professionalità specifiche e favorire la
formazione di posti di lavoro;
igienica: le aree verdi svolgono una importante funzione psicologica ed umorale per le persone che ne
fruiscono, contribuendo al benessere psicologico ed all’equilibrio mentale;
culturale e didattica: la presenza del verde costituisce un elemento di grande importanza dal punto di
vista culturale, sia perché può favorire la conoscenza della botanica, e più in generale delle scienze
naturali e dell’ambiente nei cittadini; sia anche per l’importante funzione didattica (in particolare del
verde scolastico). Inoltre i parchi ed i giardini storici, così come gli esemplari vegetali di maggiore età
o dimensione, costituiscono dei veri e propri monumenti naturali, la cui conservazione e tutela rientrano
fra gli obiettivi culturali del nostro paese;
•
•
•
estetico-architettonica: anche questa funzione è rilevante, considerato che la presenza del verde
migliora decisamente il paesaggio urbano e rende più gradevole la permanenza in città, è la ragione per
cui di venta fond amentale un’i ntegrazione fra elementi arch itettonici e verde nell’am bito della
progettazione degli spazi urbani.
Progettare un Parco Urbano può essere utile a rigenerare, ripristinare aree alterate, paesaggi dell’abbandono
dell’emergenza (in tali ambiti, spesso si riscontra una rinuncia alla qualità e all’intervento), ma il progetto di
rigenerazione di tali spazi non può essere affrontato con le strategie troppo riduttive dell’arredo urbano e del
maquilage-riordino estetico dell’universo proliferante dei segni e delle cicatrici che affollano, purtroppo, questi
paesaggi della quotidianità, tuttavia, si tratta di ricontestualizzare i valori delle preesistenze e rimetterli in una
nuova rete di significati, in grado di coniugare in modo fertile gli opposti principi di radicamento nel locale e di
appartenenza alle molteplici reti materiali e immateriali che configurano i territori della contemporaneità.
La vegetazione si presta abbondantemente per diminuire l’impatto paesistico di territori degradati e rovinati, non
solo da un punto di vista mimetico, ma perché l’innesco di fenomeni di colonizzazione vegetale può favorire
rinverdimenti e ri mboscamenti e ffettivamente m igliorativi e ri generativi de lla vi ta di p aesaggi al terati,
fornendone occasioni di ridisegno compatibile, di qualità.
I parch i di qu artiere, il v erde ur bano, i servizi in esso d isseminati, g li sp azi agricoli estern i a lla città,
l’articolazione delle com unicazioni v iarie at traverso st rade pe donali, d i penetrazione, di scorrimento, …
costituivano elementi organizzativi essenziali della trasformazione, sociale oltre che spaziale, attesa per la città.
L’idea di città basata, sul recupero al suo interno per la vita sociale e il tempo libero, e le conseguenti azioni
per raggiungerlo, significano chiaramente mettere in discussione vincoli strutturali, consolidati, mettere in moto
meccanismi legislativi e “tecnico-burocratici” volti ad acquisire terreni alla comunità per obiettivi pubblici,
limitare dunq ue le possi bilità della speculazione ed ilizia, entrare i n con flitto con interessi e grupp i sociali
privilegiati. In questo senso, l’immagine di una città nel verde e col verde rappresenta un vero punto di partenza
per riproporre il rapporto urbano tra spazi artificiali e spazi naturali. Gli spazi verdi vengono caricati di una
vasta gamma di funzioni, esse vanno dallo sviluppo delle personalità, a quello della vita sociale, e risultano
differenziate anche per età, classi sociali e abitudini di uso del tempo libero.
Per i bambini uno dei bisogni che essi avvertono, già dall’età prescolare e fin da quando giocano per la maggior
parte del tempo da soli, riguarda l’esperienza multisensoriale e quindi la conoscenza dell’ambiente nel quale
essi vivono, e attraverso di essa, la conoscenza della natura, dei nuovi rumori, delle nuove voci, dei suoi colori e
degli elementi che la popolano.
Tali conoscenze possono ampiamente essere fornite dai parchi extraurbani, ma il verde urbano è quello che
permette una conoscenza quotidiana, e quindi continua, con l’ambiente in cui vive l’uomo e nel quale egli si
trova, strettamente inserito e vincolato,
più in generale, gli spazi verdi possono essere caricati di funzioni sociali altamente significative.
Riposarsi, giocare, fare footing, leggere e lavorare, mettersi in mostra, fissare un appuntamento, assaporare da
un luogo tranquillo lo svolgersi dell’attività febbrile della città, avere occasioni di fare conoscenze, divagarsi
con la vista e l’incontro di altre persone: sono attività svolte spesso da categorie di persone diverse, che si
succedono nell’uso nel corso di tutte le ore della giornata.
Il sistema del verde e degli spazi aperti non può che essere pensato come un sistema unitario e completo a tutte le
scale, dal quartiere al territorio.
Si tratta di pensare ad una compenetrazione di funzioni e di orari nei diversi momenti della vita quotidiana:
• che esiste già di fatto per pochi privilegiati;
Angela Casile
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Le funzioni sociali del verde pubblico e la fruizione dei Parchi Urbani
1
• che si coglie nei comportamenti dei giovani .
Molteplici attività sociali e culturali - dal teatro alla istruzione, dallo sport all’attività culturale spontanea possono oggi, specie nel Meridione italiano, svolgersi all’aperto ed in collegamento con spazi verdi. In effetti
dalla interazione reciproca e dalla concentrazione di queste attività può avvenire un notevole arricchimento
culturale dell’uso del verde e degli spazi aperti.
La qu estione eco nomica i nciderà non po co su l metodo p rogettuale e su lla q ualità d ei par chi, se i co sti di
costruzione delle aree verdi sono molto più bassi rispetto a quelli delle altre opere pubbliche, l’acquisto delle
aree e i costi di manutenzione pesano invece in maniera considerevole sui bilanci degli enti locali.
Le società in cui viviamo non hanno una prospettiva di sviluppo economico illimitato e difficilmente, quindi,
riusciranno a destinare somme molto maggiori di quelle destinate in passato alla costruzione di sistemi di verde
pubblico idonei sufficienti. Le risorse finanziarie per la costruzione e l’attrezzatura degli spazi aperti sono e
saranno quindi limitate, mentre il fabbisogno, già alto, tende a crescere, a qualificarsi e ad articolarsi.
Oggi tutti vorremmo una città che sappia creare ambienti di qualità e garantirne nel tempo il mantenimento, che
sappia ri-progettare i suoi ambiti degradati, nel rispetto dell’identità dei luoghi, ovvero del loro codice genetico,
del rapporto tra la storia dell’insediamento urbano e la loro riconoscibilità nei segni e nei significati dei vari
paesaggi urbani.
Individuare n ella città le a ree d a ri -naturalizzare con fun zioni p reminenti di ri-eq uilibrio pae saggistico ed
ambientale, re-cuperare i tessuti edilizi, ri-qualificare e “ riparare ”, trasformare le periferie esistenti in “città a
tutti gli effetti”, e così le aree “ interstiziali ”, le aree perturbane, sono operazioni basilari per una metamorfosi
positiva della città. La progettazione implica anche l’attenzione e il rispetto del senso di appartenenza, che si
esplicita nelle culture, nella lingua, nei dialetti, nella memoria, nella qualità simbolica, negli stili di vita nel grado
di autocoscienza e nelle capacità di sussidiarietà degli abitanti della città.
La valorizzazione del patrimonio culturale della città comporta l’uso di metodologie e tecniche tradizionali, ma
anche l ’invenzione-creazione, di itinerari c onoscitivi e p edagogici, di eco-musei, di p rogettazione di r eti
ecologiche e di attività di rivalutazione dell’identità e riconoscibilità dei luoghi e della loro immagine, di tutto
quanto contribuisce alla costruzione della “ vision ” futura dei luoghi urbani.
Ogni città offre, nel suo insieme e nelle sue parti, una serie di possibilità aperte alla reinterpretazione e ciò che
richiede è di combinare senza dimenticare, senza tralignare , e, soprattutto, di far emergere le sue verità per
mezzo del nuovo.
L’esistenza di un parco in città é un'opportunità di correggere difetti e, insomma, di migliorare una piccola parte
del territorio, contribuendo all'ottimizzazione del funzionamento di sistemi o di attività. In questa concezione, il
parco assume una funzione importante dal punto di vista territoriale, poiché si configura come opportunità di
recuperare spazi interstiziali, anelli spezzati, collegamenti difficili, o interrotti, tra centro storico e periferie. Fra
i metodi progettuali che stanno offrendo buoni risultati in termini di miglioramento della convivenza e della
socialità sono quelli che si ispirano proprio a principi di progettazione partecipata; sono metodi di lavoro
secondo cui il coinvolgimento dei fruitori, ovvero dei cittadini di tutte le età, consente di far esprimere la cultura
e l’identità della popolazione attraverso la manifestazione dei propri bisogni, delle proprie speranze, dei propri
micro-progetti.
Il percorso della progettazione, della trasformazione o della gestione dei parchi urbani diviene un laboratorio di
partecipazione alla ri-progettazione degli spazi verdi pubblici, alla loro continua manutenzione, riparazione.
Un parco s ocialmente a ttivo, dopo esse re st ato b en inquadrato ne l p rogetto s otto il profilo ec ologico e
paesaggistico e dotato di eventuali infrastrutture di viabilità generale, interna e di servizio, deve trovare al suo
interno spazi e luoghi soggetti alla possibilità di una moderata trasformazione generazionale. La condizione di
successo di tale metodo è che venga conseguita una vera, e non una fittizia, partecipazione consapevole al
processo decisionale.
La parte cipazione alle decisi oni pre vede apporti e d esperienze da p arte di c onoscenza de lla p opolazione,
convoglia nel progetto le necessità, le aspirazioni e le azioni caratteristiche della popolazione e si conclude con
l’accettazione delle proposte operative riscontrabili nel progetto e nella gestione del parco.
Pertanto, il parco compresa la sua prog ettazione, non solo costituisce un elemento ludico, di avventura, ma
soprattutto diventa un fattore di educazione ambientale e di formazione alla cultura, o alla storia locale.
Diversi studi sono stati fatti sulla funzione delle aree verdi come luogo di aggregazione e di riduzione della
conflittualità tra gruppi giovanili e riduzione della violenza sulla proprietà pubblica.
Così pure si va diffondendo la “ terapia del verde ” in attività paramediche per la cura ed il miglioramento della
salute, di alcune situazioni patologiche e cliniche.
Il parco urbano si è molto e voluto di recente ( come ab biamo più vo lte c onstatato) da un a di mensione
contemplativa o di riconoscimento igienico per la città. L’interesse della ricerca per il cambiamento di forme e
dimensioni e pe r l’app rofondimento delle su e potenzialità evo cative d el rapp orto tra cittadino e nat ura, di
centralità nel progetto urbano ed architettonico, di pubblica utilità, è stato basilare. L’emergere, oggi, mentre si
riafferma la necessità di spazi poetici del parco, di un’interrelazione artistica tra land-arch, land-art e land1
ad esempio quando vanno a giocare a tennis usciti dal lavoro, o quando trascorrono al parco l’intervallo di colazione.
Angela Casile
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Le funzioni sociali del verde pubblico e la fruizione dei Parchi Urbani
scape, nuovamente di un a gamm a complessa di posizioni, f a reg istrare un a geografia episodica di sce lte
linguistiche eterog enee, fig lia di qu ella frammentarietà e co ntraddittorietà ch e i nveste le culture del nostro
tempo, inclusa quella dell’architettura per la città.
In sintesi, si riportano tre considerazioni che hanno guidato lo sviluppo del tema e sono utili ad avviare azioni
virtuose e concrete di trasformazione urbana e dei parchi pubblici:
1. pensare alla qualità degli spazi pubblici della città, concepita finora poco in funzione dei cittadini e
della loro caratteristica di abitanti e residenti, ma in funzione delle attività e della mobilità. Bisogna
iniziare a progettare le opere più elementari e fondamentali per la città quali: parchi, percorsi sicuri
casa-scuola, vie residenziali, piste ciclabili e pedonali,… ;
2. dare sp azio al verd e ed alle su e a rticolazioni a rete, perché è uno degli strumenti p rivilegiati per
riordinare moltissime delle funzioni degli spazi pubblici. È indispensabile procedere con una rinnovata
metodologia che dimostri di avere recepito il territorio non come semplice contenitore di destinazioni
d’uso, ma come un continuo dinamico sistema di componenti ecologiche, antropiche e paesaggistiche,
costantemente in interscambio ed evoluzione;
3. costruire relazioni ed iniziative di progettazione partecipata per conseguire attività e progetti fattibili,
concreti, pertinenti ed educativi.
Una rinnovata stagione del rapporto città-spazi verdi inteso secondo una logica sistemica può andare a costituire
momenti aggregativi e di forza in grado di fornire riequilibri e arricchimenti a consuete pratiche progettuali e
gestionali, quali ad esempio quelle fondate sui concetti di “ corridoi ecologici ”, di greenways e di “ trame
verdi”. La nozione di “corridoio ecologico”, non sarà inutile ricordare che rappresenta una fascia di connessione
e scambio, esteso tra gli elementi essenziali a garantire la continuità ecologica, tra le aree di valore naturalisticoambientale localizzate all’interno della città, dei tessuti urbani e collegabili con presenze extraurbane di forte
consistenza e connotazione naturalistica.
Altresì, devono tener conto delle corrispondenti situazioni urbane in cui si registrano condizioni di rischio e
degrado, o processi d i trasfo rmazione in compatibili, e che p ossono gen erare an titetici corridoi di
conflittualità, pericolosità , produttori di fatti d’instabilità, fragilità e perdita di qualità.
2
Le greenways , sono elementi tipici della “ cintura verde ” ottocentesche che si sono espansi a quasi tutte le
città europee con intenti di interconnettere tra loro parchi urbani e naturali, città e campagne, attraverso una “
3
rete viabile verde ” a misura d’uomo.
Le “ trame verdi ” costituiscono un’accezione francese dei “ parchi verdi ”.
Ad esempio:
•
•
•
il piano regionale dell’ Ile-de France (1994);
il piano verde di Mitwy-Mory, Parigi (1994);
il Plaine Saint-Denis,….;
questi ed altri ancora, rappresentano tipi di politiche per il verde in relazione alla loro collocazione nel
territorio:
• la trama verde dell’agglomerazione;
•
la cintura verde, con i grandi spazi forestali;
•
la corona rurale, con gli spazi agricoli.
La con tinuità territoriale dovrebb e co stituire la cond izione n ecessaria a conservare equilibri naturali, la
coabitazione tra urbano e natura, l’accessibilità pubblica.
I tessuti verdi urbani rimodulano, rispetto al parco tradizionale, anche la progettazione degli accessi, non intesi
più come elementi di transizione con assetti autonomi tra città e verde, ma come un sistema di
connessioni d irette co n la città ; si co struisce così un a so rta d i “tessu to verde” dot ato di un carattere di
“ordinatore urbano ” nell’impianto generale e di una grande libertà nel particolare.
In conclusione, si possono evidenziare alcuni criteri progettuali per una buona realizzazione del parco urbano:
1. il primo, è legato alla consapevolezza che i contesti umano ed urbano in cui nasce un parco sono
fondamentali : gli obiettivi degli spazi verdi sono quelli di integrarsi partendo dallo stesso ordine
naturale, utilizzando gli stessi materiali presenti, si tratta di :
- ricordarsi che gli scenari della città del futuro esigono che si facciano convergere, si mettano
assieme, c onducendoli a si ntesi, l e v oci ed i contributi te orici p rovenienti da gli studi di
antropologia, sociologia e geografia urbana, ed anche di demografia, estetica, comunicazione ;
- vanno affrontati i problemi che provengono da flussi di relazione senza travalicare quelle identità
che appartengono a città come le nostre che sono il frutto di millenarie sedimentazioni;
2
3
Il Green Gurtel di Francoforte (1989).
cfr. Berlino, i collegamenti tra il Tiergarten, il Friedrichschein, il Victoriapark;
Vienna, il Ring, lo spazio anulare verde del Glacis, il WienerWald, l’ Angarten, le rive del Danubio;
Parigi, gli espace verdoyants e i boulevards di Hausmann, il Bois de Boulogne, il Bois de Vincennes,..
Angela Casile
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Le funzioni sociali del verde pubblico e la fruizione dei Parchi Urbani
2.
3.
il secondo, è considerare il parco un collage di reti progettuali collegate che stratificano sul sito,
benché appartenenti a differenti ed autonomi sistemi strutturali: quello dei percorsi, del verde, delle
acque ed, infine, quello dei punti e dei luoghi attrezzati ;
- peraltro , bisogna elaborare un’operatività in stretto raccordo con il contesto urbano circostante,
che promuova una forte istanza di riassetto e riorganizzazione urbana, rifacendosi ai principi e alle
tecniche del giardino europeo, ma anche alle tipologie affermate del verde urbano ( assi prospettici
verdi, avenue, promenade, viali alberati, canali prospettici d’acqua, giardini a parterre , corridoi
ecologici, greenways,….) ;
- si tratta, altresì, superare norme enfatiche e stereotipi disciplinari consunti ripensando l’urbanistica
in un grado di continuità critica e realistica, affrontando tematiche progettuali emergenti, senza
tuttavia pretendere di poter risolvere tutto all’interno del progetto ;
- sarebbe o pportuno azzardare, con m olta di screzione p ercorsi che po rtino ad un m inimo di
formulazioni poeti co-artistica, interpretative delle asp irazioni al la citt à “ac cogliente”,
dell’autocoscienza raggiunta in materia dalle popolazioni;
il terzo, che si potrebbe definire ecologico, caratterizzato da una molteplicità di indirizzi, tra i quali:
- assegnare un ruolo significativo al consolidamento del “sistema” verde nel tempo (si vedano le
considerazioni già fatte: trame verdi,cinture verdi, reti ecologiche,) ;
- collegare all’idea di parco urbano come natura in libero sviluppo entro la città, a quella di una
progettazione partecipata, nata da un approccio ecologico che la orienta alla naturale evoluzione
delle specie viventi ed delle caratteristiche geo-fisiche.
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Angela Casile
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Spazio pubblico e modelli urbani (ir)riconoscibili
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
Spazio pubblico e modelli urbani (ir)riconoscibili i
Milena De Matteis, Andrea Sardena
Università IUAV di Venezia
Abstract
La qualità dell’abitare passa attraverso le peculiarità dello spazio pubblico, elemento chiave per risolvere, o
evitare, taluni conflitti della vita urbana e consentire la socialità. La tesi viene verificata su Villaseta, quartiere
satellite di Agrigento edificato per alloggiare gli sfollati della frana del 1966: un innovativo ed elegante
progetto razionalista, la cui evoluzione è stata però un “fallimento”. L’isolamento e il degrado in cui si trova il
quartiere hanno radici profonde e differenziate, tra cui il “trauma sociale” dell’evento ed il reinserimento in
una nuova piccola città lontana dai modelli urbani riconosciuti da quella popolazione. A Villaseta occorre
adesso creare una complessità urbana che sappia trasformare i non-luoghi presenti in luoghi vitali, identitari e
condivisi.
La qualità dell’abitare1 non può essere riferita unicamente all’abitazione, ma passa necessariamente attraverso
le peculiarità dello spazio prossimo, di relazione, “esterno” alla casa. Lo spazio collettivo è infatti alla base di
tale qualità ed è oggi elemento chiave per risolvere o evitare taluni conflitti della vita urbana, consentendo una
socialità pacifica e produttiva per la crescita della comunità degli abitanti. La crisi dell’abitare contemporaneo si
misura essenzialmente sui suoi spazi collettivi.
Nelle varie situazioni di “crisi dell’abitare”, oggi riscontrabili soprattutto - ma non unicamente - nei numerosi
quartieri periferici residenziali, caso emblematico risulta essere il quartiere satellite di Villaseta ad Agrigento,
di cui verrà ripercorsa la vicenda storica ed analizzati i tratti distintivi.
1. Caratteri del contesto e vicenda storica
Il territorio agrigentino è caratterizzato da eccezionali risorse territoriali, culturali e ambientali, tra cui la Valle
dei Templi, il Parco Archeologico e Paesaggistico, la fascia costiera con Porto Empedocle, lo stesso centro
storico, il paesaggio agrario, l’artigianato e i prodotti tipici, che creano le potenzialità di un’offerta turistico
culturale di livello internazionale. Vi sono p erò numerose criticità, soprattutto gestionali, organizzative e di
legalità, che ancora non consentono di valorizzare appieno queste risorse.
Villaseta, all’interno di questo contesto, non fa eccezione; semmai soffre di problematiche ancora più gravi del
capoluogo di cui è quartiere.
Situato a circa 6 Km a sud-ovest dal centro di Agrigento, e a metà strada tra questa e Porto Empedocle, Villaseta
è sorto nel 1967 come risposta pubblica alla grave emergenza causata dalla frana del luglio 1966, che ad
Agrigento distrusse l’intero quartiere storico di Rabato2: miracolosamente senza nessuna vittima, oltre 5000
abitanti rimasero di colpo senza una casa.
Causa di questo cedimento improvviso furono, secondo le indagini dell’epoca condotte da Giovanni Astengo, le
abnormi edificazioni effettuate negli anni ’60 alle pendici del colle di Girgenti. Su questo colle nel V secolo d.C.,
dopo l’abbandono del nucleo originario ellenistico di Akragàs (la città della Valle dei Templi), venne fondata la
città di Girgenti, poi Agrigento, rimasta fino al XIX secolo priva di ulteriori espansioni oltre le mura e dal 1950
in poi ampliata in modo massivo fino al fenomeno che provocò il grave incidente della frana3.
Subito do po l a fran a attrav erso la leg ge 749 /1966 e su i niziativa d ell’apposito en te IS ES p er l o Sv iluppo
dell’Edilizia So ciale, fu cu rato un urgente programma edificatorio da localizzarsi intorno al borgo ru rale
originario di Villaseta, dove già negli anni ’50 era stato edificato un primo nucleo di nuove case popolari.
Vennero red atti alcuni Piani di Zon a p er l’ edificazione d i dod ici lo tti in dipendenti (responsabile del
coordinamento ing. Ma rio Ghio), i cui pro getti di arch itettura raz ionalista, e legante ed i nnovativa, fu rono
costruiti in momenti successivi (dal 1967 ai primi anni ’80).
1
Abitare nel significato di occupare abitualmente, condividere un luogo sia nella vita pubblica che privata, e di rimanerci ed esser contenti
(Heidegger, 1954)
2
Il quartiere di Rabato è di origine e di impianto arabo, ed era abitato, al momento della frana, prevalentemente da persone umili e con
cultura contadina
3
Per una dettagliata ricostruzione dei fatti si può vedere la relazione della commissione d’indagine sull’inchiesta ministeriale, presieduta da
M. Martuscelli e condotta da G. Astengo, pubblicata su Urbanistica n°48, dicembre 1966.
Milena De Matteis, Andrea Sardena
1
Spazio pubblico e modelli urbani (ir)riconoscibili
Villaseta è una delle prime realizzazioni che segue gli standard urbanistici della legge “ponte” 765/67 e del
DM 14 44/1968, ch e po ssono esser e v isti co me una pro nta risp osta leg islativa all’ evento de lla frana e alla
necessità di evitare il ripetersi di altre situazioni catastrofiche dovute a urbanizzazioni eccessive4.
Le sperimentazioni dei modelli razionalisti finalizzate a trovare nuove soluzioni al problema dell’abitare urbano
in quel periodo si basano generalmente sul riordino attraverso la zonizzazione monofunzionale, l’ampiezza e
dilatazione degli spazi aperti, la presenza di standard quantitativi di servizi al cittadino.
Questa schematizzazione di matrice igienista, che comporta l’inversione dei rapporti tra pieni e vuoti nella città
contemporanea rispetto a quella storica, oltre ad aver distribuito diversamente la residenza in enormi quantità di
territorio ha reciso l’antica legge della complessità urbana, fondata sulla stratificazione a più livelli delle attività,
sull’integrazione, la molteplicità delle relazioni e l’economia degli spazi.
Viene dunque invertita la regola storica della densità del costruito: il diradarsi degli edifici li porta ad essere
sempre più dei “volumi” che non conformano più lo spazio aperto ma “navigano” in esso, e ne annullano l’antico
carattere di elemento percepibile e progettato, rendendolo un “vuoto”. Sorge quindi la problematica relativa allo
spazio pubblico ed alla sua mancanza di identità.
2. Analisi della situazione attuale: le origini del degrado
Nonostante si debba riconoscere l a prontezza e l ’efficacia delle a zioni c he portarono alla rea lizzazione e
all’assegnazione dei nuovi alloggi agli sfollati della frana, dopo una sistemazione in tendopoli abbastanza breve,
Villaseta è oggi un quartiere estremamente problematico, ed la su a criticità pri ncipale è f acilmente
identificabile con lo stato di abbandono e degrado fisico in cui versa.
In pri ma i stanza si pu ò osser vare co me la n otevole distanza dal ce ntro cittad ino, nono stante la co struzione
dell’imponente viadotto Morandi che co nnette il n uovo abitato col cen tro di Ag rigento, abbia cr eato u na
situazione di marginalità difficilmente su perabile, si a d al pu nto di vista fisico, che p sicologico per la
popolazione che abita il quartiere.
Il po sizionamento scel to nel 19 67 per qu esta edificazione, identifica un a pro blematica dell’i ntero territor io
agrigentino: l’essere co mposto da quartieri “satelliti” monofunzionali, p eriferie n on m arginali m a d el tutto
distaccate dal centro storico, vera città.
A discapito delle intenzioni di progetto dunque – un quartiere razionalista innovativo, dignitoso, con ampi spazi
aperti, molti servizi ed al loggi sp aziosi – Vil laseta a ppare come un quartiere sofferente ed abbandonato.
Nonostante le numerose opportunità territoriali5 la realtà di Villaseta sembra essere caratterizzata da incuria,
fatiscenza, sottoutilizzo, incompletezza, isolamento e depressione socioeconomica.
Basta una prima visita per accorgersi di due macro-caratteristiche di Villaseta che saltano subito alla vista: la
presenza imponente di attrezzature sportive mai completate e di spazi commerciali non utilizzati (i servizi e le
attività commerciali presenti, sono oggi concentrati solo intorno al borgo originario, ad ovest dell’insediamento)
e il senso di smarrimento ed inattività negli spazi aperti, dilatati, di non chiara appartenenza ed abbandonati. Si
percepisce ovunque u n d isinteresse gen erale soprattutto verso lo sp azio c ollettivo, q uello di tu tti o p iù
verosimilmente di nessuno.
Esasperate dalla reale separazione fisica da Agrigento, possono senz’altro addursi tre ordini di motivazioni alle
origini della situazione di degrado esistente, in riferimento alle tre “anime” di una città - polis, civitas, urbs6.
Innanzitutto, legato al concetto di polis, l’indifferenza dimostrata dalle istituzioni nei confronti del quartiere e la
mancanza di adeguata gestione e di interventi d i manutenzione: una volta sistemati gli sfollati nelle nuove
abitazioni, il più era stato fatto. Questa forma di superficialità ha aggravato una condizione che ha però le radici
in qualcosa di più profondo.
Il senso di marginalità ed isolamento vissuto dalla civitas, la popolazione trasferita dalle aree della frana, infatti
non ha le sue motivazioni soltanto nella nuova condizione di grande distanza dal centro storico. Il “ trauma
sociale” dell’abbandono forzato del proprio ambiente di vita e convivenza per il reinserimento in uno nuovo,
sconosciuto, trae alimento anche dai diversissimi caratteri urbani ed architettonici di questi due brani di città.
Il centro storico di Agrigento, come molti centri storici italiani, era – ed è nella parte rimanente - uno spazio
vissuto, d enso e st ratificato (a nche s e s pesso è st ato nel pa ssato insalubre e soffocante), r iconoscibile e
riconosciuto.
Di impi anto ch iaramente a rabo, Rab ato po ssiede vico li ciechi e st rade a “bai onetta” che gli conferiscono
un’atmosfera di cresce nte intimità, a ccentuata dagli innumerevoli sp azi stretti. Ab itato pr evalentemente d a
contadini, braccianti ag ricoli e p iccoli p roprietari terri eri7, i l qu artiere h a visto svo lgersi la v ita qu otidiana
T. Cannarozzo (2007), “Agrigento: riflessioni e proposte per un progetto di futuro”
Dal punto di vista turistico, oltre alla vicina Valle dei Templi vi sono altri siti archeologici e vari punti d’interesse culturale come la casa di
Luigi Pirandello; inoltre il paesaggio è caratterizzato da un pregevole panorama digradante fino al mare su zone di valore ambientale e
agricolo.
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Salzano (2008) “Urbs, civitas, polis”
7
Lombardo (2006)
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Milena De Matteis, Andrea Sardena
2
Spazio pubblico e modelli urbani (ir)riconoscibili
principalmente a ll’esterno delle abitazioni, “in strada”, sulla sog lia di casa c he diventava la ve ra e pr opria
“stanza all’aperto” dell’abitazione. In tal senso fondamentale nella conformazione e nell’uso dello spazio urbano
è il “cortile”8, il vero luogo dello scambio e della comunicazione inter-familiare. La mediazione tra il privato e il
pubblico avveniva dunque nella sequenza di determinati spazi urbani: casa-cortile-piazza.
Questa articolazione degli spazi aperti (legata ad abitudini di vita che in parte si sono radicalmente modificate
nel corso degli ultimi anni) permetteva una complessa forma di conoscenza e rapporto tra la popolazione che
abitava il quartiere e la città. Il cortile era il vero luogo del “controllo” sociale da parte degli abitanti prossimi:
l’uscire e il rientrare a casa, l’intrattenersi coi vicini, sostare insieme negli spazi privati e semiprivati era il primo
(ed il più importante) modo per instaurare relazioni di conoscenza, controllo, mutuo soccorso, ecc.
Diversamente, il quartiere razionalista di Villaseta è una nuova piccola città elegante, sicura e salubre ma
lontana, sia fisicamente che mentalmente, dai modelli urbani riconosciuti da quella popolazione. Agli abitanti di
Rabato trasferiti in Villaseta è mancata la percezione di una urbanità che conoscevano da generazioni e quindi la
possibilità di identificarsi, soprattutto all’inizio, col nuovo quartiere e la sua diversa struttura. Lo sradicamento
improvviso dal centro città e da uno stile di vita consolidato – seppur difficile per alcuni aspetti – ha infatti
causato l’incomprensione del nuovo modello spaziale, così diverso da quelli conosciuti, e delle innovazioni
presenti nella nu ova stru ttura urbana, nelle nuov e tipo logie resid enziali e sopr attutto nel tessuto deg li sp azi
aperti.
In particolare, se gli alloggi spaziosi e salubri hanno rappresentato un miglioramento delle condizioni di vita, gli
spazi aperti così ampi e dalla non chiara appartenenza hanno invece subito un processo di non utilizzo e di
abbandono. Le migliorie edilizie e delle condizioni di vita non sono bastate per creare “urbanità”, nonostante la
popolazione ch e v i si è i nsediata fosse so stanzialmente unita. L’e ffetto è stat o u no “s paesamento” ed una
progressiva chiusura negli spazi privati da parte degli abitanti con la conseguente dispersione delle relazioni di
vicinato già esistenti e solidificate ad Agrigento: lo spazio pubblico di Villaseta non è riuscito a diventare lo
spazio adatto alla convivenza di quelle persone. La popolazione sembra dunque essersi passivamente rassegnata
ad una condizione di lontananza dalla città, sia a livello fisico che psicologico, contribuendo involontariamente
alla diffusione di fenomeni di criminalità e vandalismo, tipici dei luoghi dove è debole il senso del bene comune.
Una ulteriore riflessione sui motivi dello stato di degrado di Villaseta è quindi direttamente collegata al concetto
di urbs e di forma urbana, nell’ipotesi che si fosse potuto immaginare (per la realizzazione del quartiere) un
disegno urbano più efficace, realizzato su lla base di “p attern”9 più riconoscibili e con divisibili dalla
popolazione locale. E’ evidente infatti che il progetto d’insieme, nonostante la ricercatezza, l’innovatività e
l’eleganza razionalista, non è riuscito a stimolare usi ed appropriazione nei suoi abitanti.
E’ mancato un disegno che consentisse di identificare chiaramente gerarchie d’uso e gradienti di privacy nello
spazio aperto, che caratteri zzasse gli s pazi come “v uoti positivi” cio è elementi percep ibili e no n d ilatati e
dispersivi; tu tti el ementi essen ziali pe r la v italità urb ana. La rea ltà ap pena descritta è sicur amente un a
problematica riscontrabile in moltissime periferie contemporanee: la dilatazione e disgregazione dello spazio
pubblico in qualcosa di indefinito e non percepibile, che viene quindi sottoutilizzato o del tutto abbandonato.
Ad un a rap ida an alisi, tra l e problematiche legate al disegno urbano riscontrate a Villaseta possono
annoverarsi:
• la mancanza di strutture ricettive e nodi d’aggregazione sociale e fisica;
• un t essuto conn ettivo i ndifferenziato, ideato app ositamente p er l’au tomobile, in adeguato alla
percorrenza pedonale;
• la dilatazione degli spazi aperti, con il conseguente disperdersi della residenza e un eccesso di fluidità e
continuità disarticolata, la frammentarietà delle aree a verde;
• la percezione di disorientamento e l’i ncapacità di dist inguere spaz i pub blici da spazi com uni e
semiprivati;
• la definizione e l’uso inadeguati delle aree a parcheggio;
• la difficoltà dei collegamenti interni dovuta a forti dislivelli orografici;
• un “eccesso di disegno” nella ridondanza di percorsi e dettagli, che comunque non risolvono le barriere
architettoniche.
8
Nella sua descrizione più comune, il “cortile” (Lombardo 2006) non è nient’altro che uno spazio aperto tra le costruzioni, con lo scopo di
illuminare e ventilare gli ambienti interni e conferente un preciso carattere all’impianto costruttivo e alla morfologia urbana della quale fa
parte. Spesso è il luogo comune all’aperto di più abitazioni, e si configura quindi come uno spazio filtro, uno spazio in-between Hertzberger
(1991).
9
Come descritto in “A Pattern Language” (Alexander, 1977) i pattern sono soluzioni esemplari, modelli archetipi risolutivi di un problema
contestuale, adattabili e def initi solo in informazioni essenziali e ideogrammi; o gni “lin guaggio” di p attern è riferito ad un a specif ica
comunità locale autodeterminata. In particolare alcuni dei qui citati elementi caratteristici di Rabato come la “stanza all’aperto”, il “cortile”,
lo “spazio aperto collettivo”, sono tutti ritrovabili in alcuni dei pattern creati da Alexander e dal suo gruppo per altri contesti, e sembrano
avere dunque una connotazione non necessariamente “locale”.
Milena De Matteis, Andrea Sardena
3
Spazio pubblico e modelli urbani (ir)riconoscibili
In sintesi, a Villaseta si sente la forte necessità di creare una complessità urbana che sappia trasformare gli spazi
pubblici e più in generale quelli aperti, da luoghi di nessuno, non-luoghi10, a luoghi vitali, articolati, identitari e
condivisi, fulcri di quella convivenza urbana che è sinonimo di qualità della vita.
3. Riqualificare lo spazio pubblico: fenomeni spontanei e soluzioni
progettuali
Dalle osservazioni effettuate si possono trarre alcune prime conclusioni sull’importanza del ruolo e dei caratteri
dello s pazio pu bblico n ella creazione un am biente v itale, di coesione sociale e di ri conoscibilità, basilare
connettivo tra edifici e non più mero spazio residuale. Del resto l’azione diversificata sullo spazio pubblico
(forme, relazio ni, si gnificato, co mplessità, u si…) è d ivenuta una d elle priorità d ell’attuale ri qualificazione
urbana sostenibile, che si concentra prevalentemente sulle periferie residenziali monofunzionali.
Innanzitutto l’esempio di Villaseta ci mostra come nella conformazione degli spazi urbani sia essenziale attenersi
ai modelli culturali locali propri della popolazione che vivrà i luoghi: è solo attraverso la riconoscibilità di tali
modelli ch e si cre erà u n sen timento d i ap propriazione e identità. E’ questo un pri ncipio che si r itrova ne l
concetto di “pattern” di C. Alexander11, o ancora in quello di “common understanding” di N. Habraken12.
Non si tratta di una rinuncia ad ogni possibile innovazione di tipo progettuale e formale, ma è fondamentale
affiancare ogni proposta innovativa ad un percorso di riconoscimento da parte della popolazione coinvolta; cosa
che non è stata effettuata, anche per motivi di tempo e di tempi culturali, per gli abitanti di Rabato spostati
d’urgenza in Villaseta.
Inoltre è opportuno soffermarsi su alcune qualità e caratteristiche formali del disegno degli spazi. Lo spazio
aperto a Villaseta è stato più volte definito come “dilatato, indifferenziato, non percepibile”. Diversi studi 13
identificano in alcune proprietà geometriche e d’uso, dei caratteri positivi per conformare spazi e percorsi “a
misura d’uomo”, da considerare attentamente in fase di ri-progettazione.
Tra le so luzioni prop oste per una p iù ad eguata r iconfigurazione deg li sp azi ap erti, vi è la densificazione:
l’aumento d ella b assa densità ab itativa14 e d i qu ella d’uso, cioè dell’intensità delle relazioni urbane15. In
quest’ottica il non-luogo, il vuoto urbano dequalificato che spesso è interposto tra gli edifici nei quartieri di
matrice razionalista, da problema diventa risorsa: offre infatti opportunità di interventi puntuali ed efficaci in
ambiti attualmente privi di “valore”, sfruttando l’assenza di vincoli fisici e spesso giuridici, che è invece la
caratteristica della città con solidata. E’ proprio questo il v alore in trinseco delle p eriferie, l’alto grado d i
trasformabilità, spesso non ancora riconosciuto. Affrontare il tema della densità nell’articolazione e dimensione
dello spazio “aperto residenziale” significa indagare quello della prossemica16, ovvero dell’uso e della gestione
che l’uomo fa dello spazio quando pone distanze tra individui, al fine di avvicinarli o di allontanarli nelle
interazioni quotidiane e nella strutturazione degli spazi abitativi e urbani17.
Rimane infine invariata l’importanza della gestione e manutenzione: è ormai un dato acquisito che lo “spazio di
tutti” spesso si identifica come “spazio di nessuno”, con il conseguente disinteresse generale sia nel suo uso che
nella sua manutenzione; disinteresse spesso aggravato dalle mancate risorse pubbliche destinate proprio allo
spazio pubblico. In tal senso risulta fondamentale il coinvolgimento diretto della popolazione nella gestione dei
“luoghi”, n on so lo per u na q uestione meramente manutentiva, m a, sop rattutto, p er ottenere qu ell’effetto
predominante che è il “controllo sociale”18 di quello spazio.
Tra le azioni progettuali che in prima istanza sembrano assumere valore per Villaseta vi sono:
• ricucire il tessuto urbano con nodi attrattori e d’aggregazione sociale anche di tipo “semi-privato” (vedi
i cortili del centro storico);
• semplificare i percorsi, dare riconoscibilità agli spazi aperti oggi dilatati;
• chiarire il rapporto di spazi e giardini pubblici, semipubblici, privati (eventualmente incoraggiando
l’attuale “occupazione” privata delle aiuole pubbliche);
10
Desideri, Ilardi (1997) “Attraversamenti: i nuovi territori dello spazio pubblico”
“A Pattern Language” (Alexander, 1977); cfr nota 9.
12
“Common und erstanding” c ome es pressione d i coerenza de gli am bienti ur bani, in u na cu ltura co mune e splicita ( leggi, no rmative,
regolamenti) ed implicita (abitudini, usanze, preferenze). “The Structure of the Ordinary” (Habraken 1998).
13
Tra gli altri: K. Lynch (1964), J. Gehl (1987), H. Hertzberger (1991), C. Alexander (1977, 2004).
14
Un aspetto di grande interesse sociale nell’alta densità è la possibilità di incontri che non erano stati anticipatamente programmati e di
svolgere attività che non si erano pianificate in anticipo. L’imbattersi in situazioni e persone che non si è scelto di incontrare rappresenta
infatti una ricchezza e favorisce il continuo scambio di idee, opinioni e il confronto tra stili di vita diversi e persino in conflitto tra loro. (J.
Gehl 1987)
15
Caudo, (2009)
16
Il termine prossemica è stato coniato alla fine degli anni ‘60 dall’antropologo americano Edwuard T. Hall (proxemics); deriva dal latino
proximus (prossimo) e dal greco séma (segno), la prossemica è quindi la disciplina che studia lo spazio personale e sociale e come l’uomo li
percepisce; lo spazio inteso cioè come fatto comunicativo.
17
Reale (2008)
18
Habraken (1998) “The Structure of the Ordinary”
11
Milena De Matteis, Andrea Sardena
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Spazio pubblico e modelli urbani (ir)riconoscibili
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migliorare la densità urbana, cioè il rapporto vuoto/costruito, e l’intensità delle relazioni: ipotizzare una
densificazione (infilling) ragionata nei “vuoti urbani” con nuove funzioni e alloggi speciali;
modificare l’attacco a terra degli edi fici “c orreggendo” l ’accessibilità agli al loggi, operando
sull’assetto e sugli usi dei piani pilotis;
valorizzare il verde urbano “pubblico” (riducendone la superficie), le aree archeologiche e le risorse
locali in genere;
sfruttare l’orografia panoramica e connettere i dislivelli, oggi spesso cesure insuperabili;
migliorare l ’aspetto microclimatico (ag endo ev entualmente an che sulla forma dell’insediamento) e
paesaggistico;
ripristinare le attività commerciali attraverso incentivi economici e programmi appositi, rendere fruibili
le attrezzature sportive (terminandole!) e garantire la multifunzionalità all’intero quartiere;
definire l ’assetto p roprietario (eventuale al ienazione p p/pr) e l e st rategie pe r l a fa ttibilità d egli
interventi;
attivare p rocessi di p artecipazione del la p opolazione nel la g estione del le t rasformazioni u rbane e
sociali;
evitare l’inserimento di megastrutture e di interventi a grande scala ma puntuali (ad esempio centri
commerciali, parcheggi scambiatori, ecc) che non coinvolgono realmente la trasformazione urbana e
sociale del quartiere;
favorire la formazione di poli di eccellenza (impianti sportivi, sevizi di accoglienza micro turistica, ecc.)
Le pr oposte sud dette nascono , oltre che dall’ analisi de lla situ azione fisica, m orfologica e funzionale del
quartiere, anche dall’osservazione di alcuni fenomeni spontanei di “convivenza” e tentativi autonomi,da parte
degli abitanti, di riqualificazione del quartiere che nella difficile realtà di Villaseta rappresentano la concreta
scintilla di partecipazione e di senso di appartenenza da cui far seguire ogni successivo spunto d’azione e ipotesi
d’intervento.
Sono da evidenziare, tra questi fenomeni, i tentativi di riproduzione delle condizioni di vicinato di Rabato (lo
spazio collettivo del cortile) attraverso l’appropriazione del suolo pubblico prossimo alle piccole attività supersiti
(il bar e il supermercato) mediante l’inserimento di “arredi urbani” e “immagini”, quanto mai insoliti, a cui
“appoggiarsi” e a c ui fare r iferimento: sedie e poltroncine, m otorini-panchine, statue v otive, m urales
autoprodotti… E, ancor più indicativo, il fenomeno di appropriazione spontanea dei “vuoti urbani”, delle aiuole
pubbliche non curate e degli spazi immediatamente a ridosso degli edifici, trasformati in giardini privati, orti,
stanze all ’aperto: s ebbene ren dano a ncora più complessa l a morfologia e l ’appartenenza de gli spa zi aperti ,
quantomeno offrono un miglioramento della qualità fisica e visiva del contesto locale. Resta da segnalare infine
un nuovo att ivismo sociale che ha il suo fu lcro n ella parrocchia (struttura fortemente sen tita come luogo
d’identificazione e unità locale) che sta recentemente coinvolgendo gli abitanti, in particolar modo i più giovani,
nel tentativo di uscire dallo stato di annichilimento e depressione sociale in cui il quartiere si trova, e ritrovare
così una nuova dignità di “quartiere”.
1 - Il “sistema Agrigento” e la posizione di Villaseta nel territorio
Milena De Matteis, Andrea Sardena
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Spazio pubblico e modelli urbani (ir)riconoscibili
2 – Agrigento
3 - Immagine dell’area franata nel 1966
4 - Il progetto di Villaseta nei dodici lotti di progetto, edificati in circa vent’anni
Milena De Matteis, Andrea Sardena
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Spazio pubblico e modelli urbani (ir)riconoscibili
6 - Agrigento e viadotto Morandi visti da Villaseta. Netta la se
parazione dal centro urbano.
7 - Villaseta vista da un’immagine satellitare
8 - Abitazioni su pilotis lungo la trafficata strada provinciale SP1
9 - Il quartiere Rabato prima della frana
Milena De Matteis, Andrea Sardena
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Spazio pubblico e modelli urbani (ir)riconoscibili
10 - L'area della frana, all’estremità ovest di Agrigento
11a - 11b - Immagini attuali del centro storico a ridosso dell’area franata
12 - Villaseta: dilatazione e abbandono degli spazi aperti
Milena De Matteis, Andrea Sardena
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Spazio pubblico e modelli urbani (ir)riconoscibili
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Milena De Matteis, Andrea Sardena
9
Immigrazione e territorio. Oltre la retorica sull’esclusione sociale
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
Immigrazione e territorio
Oltre la retorica sull’esclusione sociale
Carlotta Fioretti
Dipartimento di Studi Urbani
Università degli Studi Roma Tre, [email protected]
3381648423
Abstract
Letteratura e politiche urbane europee che affrontano il tema dell’immigrazione sono permeate da una doppia
retorica, quella dell’esclusione e inclusione sociale, che viene letta attraverso dispositivi spaziali, in particolare
i quartieri. Tale narrativa sembra essere stata messa in discussione dalle realtà dei paesi dell’Europa
meridionale, tra cui l’Italia. Sembra opportuno rivedere i processi di esclusione ed inclusione degli immigrati
nelle città mediterranee, nella convinzione che solo partendo da una diversa prospettiva, più ancorata al
territorio, si possano disegnare le politiche adeguate.
1. Introduzione
Il rapporto tra immigrazione e città nel contesto europeo può essere visto da diverse angolazioni.
Innanzitutto è possibile affermare che l’immigrazione è andata sempre più definendosi come la “nuova questione
urbana”, rispetto alle questioni sociali che hanno storicamente interessato le grandi città prima e le metropoli poi.
Il fenomeno migratorio in Europa investe, in effetti, principalmente le città, alterandone gli assetti e creando
nuove e importanti sfide per il loro governo.
C’è inoltre da considerare che con la crisi dei welfare nazionali è andata intensificandosi una “localizzazione”
dell’azione pubblica, per la quale la soluzione dei problemi sociali di natura complessa viene delegata alla sfera
locale. Se le politiche di immigrazione, intese come quelle di controllo dei flussi, rimangono a livello nazionale,
le politiche per gli immigrati, come quelle sociali, di integrazione e coesione, sono sempre più riferibili alla sfera
locale (Caponio, 2006). Localizzazione quindi, ma anche territorializzazione. Recentemente, le questioni sociali
vedono uno spostamento dell’enfasi sui luoghi, che sono visti come pericolosi, degradati, in crisi a seconda delle
prospettive. Di conseguenza anche l’azione di policy si lega ad un territorio d’azione.
Emerge un quadro in cui la città e i suoi spazi sembrano essere al centro dei processi di esclusione ed inclusione
degli immigrati. Ma di quali spazi si parla, sembra essere un problema ancora aperto. Per lo più la letteratura,
come anche il discorso politico e l’azione pubblica, si sono focalizzati sulla dimensione del quartiere. Questo
perché la povertà e il disagio sembrano concentrarsi in determinati quartieri e proprio questa concentrazione
sembra essere alla base della difficoltà di uscita dalla spirale dell’esclusione. Questa posizione si traduce nella
pratica in una serie di programmi di rigenerazione dei quartieri in cui spesso la strategia abitativa è quella di
aumentare il mix sociale e diversificare i regimi edilizi. La pratica della dispersione e del mix sembra riscuotere
particolare approvazione nei contesti etnicamente connotati che hanno attraversato situazioni di crisi, come per
gli scontri nelle banlieue parigine nel 2005, o le tensioni di Bradford, Oldham e Burnley nel 2001.
In Italia non è possibile trovare un corpus vero e proprio di politiche urbane atte a favorire l’integrazione degli
immigrati. In generale, sia a livello nazionale che locale, prevalgono le politiche di controllo rispetto a quelle di
inclusione. Tut tavia è altre ttanto v ero ch e l’It alia è un p aese per il qu ale l ’influenza dell’ Europa è stata
determinante in materia di politiche urbane, basti pensare all’esperienza dei programmi Urban. Sembra dunque
opportuna una revisione della retorica dell’esclusione e inclusione sociale per capire come si è evoluta in Europa
e come eventualmente può essere trasposta nel contesto italiano.
2. La retorica dell’esclusione/inclusione sociale e l’accento sul quartiere
Gli immigrati costituiscono uno dei gruppi più vulnerabili all’interno delle società urbane: anche se non sono
necessariamente poveri, spesso una serie di barr iere li ostacola dalla piena partecipazione nella società. Per
questa ragione il fenomeno dell’immigrazione è spesso sovrapposto a quello dell’esclusione sociale.
Le teorizzazioni s ull’esclusione s ociale hanno ori gine ne lla c osì detta social polarization theory t rattata
ampiamente negli anni ’90 (Sassen, 1991; Mollenkopf e Catells, 1991). Tale prospettiva sostiene che negli ultimi
Carlotta Fioretti
1
Immigrazione e territorio. Oltre la retorica sull’esclusione sociale
decenni le città dei paesi industrializzati sono state investite da importanti processi di ristrutturazione economica,
dovuti all’avvento della globalizzazione. Ciò ha comportato la strutturazione di nuovi assetti economici urbani
prevalentemente basati sui servizi, che hanno a loro volta implicato la crescita della domanda di lavoro altamente
specializzato da un lato, e scarsamente qualificato dall’altro. Quest’ultima ha agito come un fattore d’attrazione
per l’arrivo di nuovi migranti. Una tale polarizzazione del mercato lavorativo si è riflessa in una crescente
distanza s ocio-economica d ella p opolazione, sempre più d ivisa tra gli inclusi e g li e sclusi. Se condo t ale
interpretazione la polarizzazione si manifesta anche dal punto di vista dell’organizzazione spaziale della città,
con i gruppi benestanti che vivono nelle gated communities (o nei quartieri gentrificati) e i meno abbienti
segregati in ghetti.
Questa prospettiva, prevalentemente statunitense, ha riscosso successo anche nell’Europa nord-occidentale. La
retorica degli esclusi e degli inclusi che sono anche spazialmente segregati ha, infatti, permeato la letteratura e le
politiche europee. Anche se il dibattito sull’esclusione sociale è stato incredibilmente ampio e vario, Murie e
Musterd (2004) ne sottolineano due principali caratteristiche. Prima di tutto lo scollamento dalle prospettive
precedenti quasi esclusivamente centrate sull’aspetto della povertà economica: al contrario l’esclusione sociale
implica l’interazione di diversi elementi che sono riconducibili principalmente a una inadeguata partecipazione
sociale, mancanza di integrazione sociale e mancanza di potere (Murie, 2005) – per questa ragione anche le
minoranze etniche, e non solo i disoccupati a lungo termine, possono ricadere nella categoria degli esclusi.
Secondariamente, il riconoscimento dello spazio come dimensione fondamentale nel processo di costruzione
dell’esclusione che si traduce in una particolare attenzione ai quartieri.
Il quartiere acquista importanza nel momento in cui si rileva come le persone più svantaggiate, con meno
possibilità di scelta nel mercato abitativo tendono a concentrarsi in aree svalorizzate: perlopiù aree centrali
degradate (inner city) o quartieri pop olari periferici. Seco ndo alcuni autori ( Taylor, 1995 ; Power, 1996) gli
abitanti di questi quartieri vengono coinvolti in spirali discendenti. L’impopolarità dell’area contribuisce alla
concentrazione di abitanti poco abbienti, che comporta di conseguenza un impoverimento dell’ambiente sociale
(mancanza di potere politi co, mancanza di risorse per attrarre ben i e servizi di qu alità, po ca stab ilità e
responsabilizzazione nei confronti del luogo) che a sua volta influisce sugli abitanti comportando isolamento,
sfiducia, comportamenti anti-sociali: fattori che non fanno che peggiorare lo stigma che grava sul quartiere.
La narrativa della “spirale del declino” contribuisce al diffondersi dell’idea che i quartieri in cui si concentrano
persone svantaggiate possano avere un effetto negativo sulle opportunità dei singoli abitanti ( neighbourhood
effect). Attorno a tale convinzione si sviluppa in letteratura una corrente che tratta delle conseguenze negative
che nascono dalla concentrazione di un particolare gruppo, in generale costituito da popolazioni a basso reddito,
ma più specificatamente -accogliendo il dibattito sui ghetti negli Stati Uniti – costituito da minoranze etniche. Se
ne evidenziano in particolare tre: la stigmatizzazione dell’area (inducendo, ad esempio, i datori di lavoro a
sviluppare un pregiudizio negativo nei confronti di chi vi abita), la predominanza di un modello sociale negativo
(che può influenzare altrettanto negativamente gli individui) e, nel caso specifico in cui il gruppo segregato è una
minoranza etnica, la difficoltà di integrazione nella società ospitante (Musterd e Ostendorf, 2005; Bolt et al.
2010).
Queste tre argomentazioni hanno influenzato il disegno di policy per favorire l’inclusione degli immigrati, in
tutta Europa, favorendo la diffusione di programmi che agiscono a livello del quartiere, portando avanti delle
azioni per aumentarne il mix sociale ed etnico e conseguentemente avere delle comunità più bilanciate.
Le politiche dirette a l imitare l a segregazione d elle m inoranze et niche si s ono p articolarmente di ffuse n ei
cosiddetti pae si assim ilazionisti (come la Dani marca), d ove l a pr eoccupazione per i pro cessi d i au tosegregazione delle comunità straniere è preponderante nel dibattito. Tuttavia ciò che sembra particolarmente
interessante, come sottolineano Bolt et al. (2010), è che anche i paesi con una tradizione multiculturale hanno
recentemente assunto delle misure anti-segregazione. In particolare in Inghilterra, dopo i disordini di Bradford,
Oldham e Burnley del 2001, la questione relativa all’auto-segregazione ha pervaso il discorso politico e guidato
un certo numero di iniziative implementate sotto il vessillo della coesione sociale.
3. Alcune posizioni critiche
Il di scorso s ull'esclusione soci ale fin q ui r accontato e l e s ue de rive i n t ermini d i p olitiche d i inclusione e
integrazione sono stati sottoposti a numerose critiche da una letteratura piuttosto ampia.
Maloutas (2004) spiega come la teoria della polarizzazione sociale sia nata in un contesto specifico, quello delle
città globali statunitensi, ma sia stata poi applicata anche al caso Europeo (tramite il discorso sull'esclusione),
dove la maggior parte delle realtà urbane non rispecchiano il profilo della città globale. Ciò è stato possibile
perché la variante Europea di questa modellizzazione ne rappresenta una versione “lasca”, meno rigida, che porta
con sé alcune criticità: una mancata attenzione alle specificità dei contesti, la perdita di un ragionamento sulle
dinamiche alla base di questi processi urbani e infine l’uso dei concetti di polarizzazione e segregazione in modo
indistinto.
Innanzitutto viene criticata l’applicazione della teoria della polarizzazione in maniera indifferente al contesto, e
vengono al contrario enfatizzate le peculiarità delle città europee rispetto a quelle americane. In questo senso il
Carlotta Fioretti
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Immigrazione e territorio. Oltre la retorica sull’esclusione sociale
discorso sulle minoranze etniche è decisivo, essendo che le città europee non presentano gli stessi livelli di
discriminazione e seg regazione ch e si possono invece t rovare n el cor rispettivo americano. Inoltre vengon o
riconosciute delle differenziazioni interne allo stesso contesto europeo.
Queste argomentazioni sono collegate con un altro elemento: la necessità di trattare ed ampliare i fattori alla base
dei fenomeni sociali urbani. Non sembra infatti sufficiente considerare solo le cause macro-economiche come
sostenuto dalla teoria della polarizzazione; in effetti un elemento che ha un ruolo determinante soprattutto nel
contesto europeo è rappresentato dai diversi sistemi di welfare (Hamnet, 1996; Musterd e Ostendorf, 1998).
Rispetto a ciò, è importante evitare di cadere in facili semplificazioni, per cui il mercato viene visto come alla
base dell’esclusione, mentre lo stato come l’attore che facilita l’inclusione. Murie (2005) spiega come i sistemi
di redistribuzione, com e anche l e ret i di reci procità ( la fam iglia, l a comunità il v icinato) e i l mercato
costituiscono tutti e tre le vie principali per l’accesso alle risorse e, di conseguenza, possono costituire al tempo
stesso dei mezzi per l’inclusione o delle fonti di esclusione. Un’attenta considerazione dei sistemi di welfare è
dunque necessaria, facendo particolare attenzione all’evoluzione di tali sistemi (che per lo più è avvenuta in
senso neo-liberale) e al modo in cui essi operano.
L’ultimo e lemento d i critica è riferito al concetto di segregazione che, in effetti, a ssume u na co nnotazione
differente nel contesto europeo poiché si presenta a livelli piuttosto bassi e non presenta le caratteristiche della
ghettizzazione. Comunque, anche nelle città europee sono in atto processi di concentrazione di determinati
gruppi socio-economici ed etnici. In questo ultimo caso, spesso alla concentrazione residenziale corrispondono
anche delle peg giori cond izioni ab itative ( van Kempen e Ö züekren, 19 98). Tuttav ia, ci ò non b asta per
considerare la segregazione come un aspetto puramente negativo. È possibile infatti trovare, sia nella letteratura
Americana c he Euro pea, d elle posizioni nei confron ti della se gregazione che ne e nfatizzano gli aspetti di
integrazione sociale e spaziale, di senso di identità, di capitale sociale e culturale (Waquant e Wilson, 1993; Bolt
et al. 1998). Come Murie (2005) avverte, la segregazione residenziale non può essere vista come una aprioristica
condizione di vantaggio o svantaggio, ma piuttosto può rivelare aspetti in entrambi i sensi, e questi fra l’altro
possono cambiare nel tempo. Molti altri autori concordano con questa posizione e conseguentemente criticano
quelle po litiche ch e incoraggiano assi omaticamente il mix so ciale ed et nico. Si evidenziano so lo al cune
argomentazioni in t al sen so. L’esclusione, co sì come la povertà e la marg inalizzazione, è un a ca ratteristica
individuale e n on sp aziale: le m isure di de-segregazione rischiano d i alim entare u n ce rto deter minismo
ambientale. Gli studi di valutazione non comprovano l’efficacia delle pratiche di de-segregazione: al contrario
mostrano i possibili effetti negativi (Musterd e Ostendorf, 2005). Per quanto riguarda il caso delle minoranze
etniche, la critica riguarda il rischio di cadere in posizioni ideologiche che spesso sono anche alla base del
diffondersi di un clima di paura e tensioni razziali.
La recente le tteratura che p orta avanti i l caso dei paesi del l’Europa meridionale ha d ato un co ntributo
fondamentale proprio all’interno di questo dibattito.
4. La prospettiva dell’Europa meridionale
All’interno delle argomentazioni critiche che sostengono l’importanza del contesto nell’analizzare i processi
sociali urbani, troviamo anche la posizione dei paesi dell’Europa meridionale. Tale prospettiva sottolinea la netta
differenza tra le città dei paesi del sud Europa, rispetto a quelle più settentrionali, al punto che all’interno del
panorama Europeo il mediterraneo sembra emergere coma una regione uniforme, le cui caratteristiche risultano
1
rilevanti per il dibattito sull’esclusione/integrazione degli immigrati .
Questo tipo di posizionamento è supportato da una doppia tradizione: da un lato quella che sostiene la peculiarità
dei paesi del sud Europa all’interno della classificazione dei welfare regimes originariamente pensata da EspingAndersen (cfr. Mingione, 1991; Ferrera, 1996; Gallie e Paugam, 2000); dall’altro lato quella che analizza le
caratteristiche specifiche che ha assunto il fenomeno migratorio nei paesi mediterranei (cfr. King e Black, 1997;
King et al. 2000; King e Ribas-Mateos, 2002; Ribas-Mateos, 2004).
In particolare alcuni autori (Malheiros, 2002; Maloutas, 2004, 2007; Arbaci, 2007, 2008; Arbaci e Malheiros,
2010) si concent rano sul l’aspetto della segrega zione etnica e analizzando un cert o numero di metropo li
meridionali, mostrano come gli immigrati seguano qui dei particolari schemi di inserimento territoriale che
vanno nel senso della sub-urbanizzazione e della de-segregazione.
L’aspetto i nteressante d i tali ricerc he è c he evide nziano come a proce ssi di de-segregazione corr ispondano
paradossalmente incrementi nei livelli di polarizzazione sociale, fen omeni d i marginalizzazione abitativa ed
esclusione sociale, in discordanza con l'interpretazione dominante. Le conseguenze sono molteplici. Innanzitutto
viene nuov amente prob lematizzata la po sizione de lla social polarization theory che v edeva i pr ocessi di
esclusione spaziale e sociale come l’esito della globalizzazione e delle forze del mercato. Infatti gli assetti sociospaziali degli immigrati nei paesi sud-Europei sembrano dipendere fortemente (più che da forze globali) dagli
specifici contesti socio-economici nazionali e locali e dalla loro evoluzione nel tempo. Non solo dunque viene
1
I paesi dell’Europa meridionale che vengono presi in considerazione sono principalmente Portogallo, Spagna, Italia e
Grecia. Malheiros specifica la presenza di eccezioni, con città della Francia centro-meridionale (Lione) più simili a quelle
mediterranee, e città come Barcellona più vicine alle realtà del nord.
Carlotta Fioretti
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Immigrazione e territorio. Oltre la retorica sull’esclusione sociale
riaffermata l’importanza del sistema di welfare (all’interno del quale ricordiamo il peso della famiglia e dalla
Chiesa C attolica accan to allo stato), ma vien e sottolineato sop rattutto il ru olo d ei sistemi abitativi e d i
pianificazione. In particolare nel caso dell’Italia sembra che decisive siano state la cultura e le politiche che
hanno sostenuto la proprietà privata (come modalità di regolazione del territorio e di accesso alla casa), e che
hanno contribuito all’indebolimento del sistema dell’affitto, in particolare sociale e ad una frammentazione dei
tessuti urbani (piccoli appezzamenti costruiti da singoli costruttori).
Anche le peculiari caratteristiche del fenomeno migratorio hanno un peso sul sistema di insediamento degli
stranieri: la grande varietà di etnie, la rilevanza della componente femminile e di determinate tipologie di lavoro
sono t utti elem enti che f avoriscono la dispersione te rritoriale. Inoltre gli a utori pongo no l’accento sull e
caratteristiche dei singoli sistemi urbani, quali l’organizzazione tradizionale del tessuto urbano (che nel caso di
Atene porta a forme di segregazione verticale, ma si pensi anche ai bassi napoletani), i sistemi di regolazione
sempre più restrittivi (che oggi limitano le soluzioni abitative informali, che hanno storicamente rappresentato
una via d’uscita per molte categorie), i particolari mercati abitativi e i processi di rinnovo urbano. Questi ultimi
sembrano aver contraddistinto le realtà urbane italiane in maniera precedente e più intensa degli altri paesi
meridionali, ta nto da determ inare processi di val orizzazione e gentrificazi one di m olte aree centra li e
semicentrali, favorendo così la periferizzazione degli immigrati.
Risulta evidente dall’analisi di questi fattori come la de-segregazione degli immigrati non significhi maggiore
integrazione, ma al contrario sia proprio un sintomo di un forte disagio sociale, principalmente rappresentato da
una diffic oltà di accesso alla c asa. Gli autori u tilizzano queste argom entazioni pe r mett ere in discussione
l’importazione dei modelli di policy nati e sviluppatisi nei paesi nord-europei a seguito del mito dei quartieri
socialmente e etnicamente misti (Arbaci e Malheiros, 2010 fanno riferimento ai programmi a base areale come
Single Regeneration Budget e Development Social de Quartiers). In parti colare la critica si sv iluppa in tre
direzioni (Arbaci, 2008; Malheiros, 2002). La prima si riferisce al rischio di importare una retorica vuota dietro
alla quale si pu ò na scondere u na de -problematizzazione (la l ettura positiva della c aduta de gli i ndici di
segregazione) o l’a ttuazione di interventi lim itati a lla va lorizzazione fisica dei quartieri (alim entando i
meccanismi di esclusione anziché contrastarli). Secondariamente si critica la base eccessivamente ristretta di
questo tipo di interventi: agire alla scala di quartiere non permette di agire al livello dei fattori strutturali che
generano il problema, ad esempio il sistema abitativo nazionale e locale. Infine sembra opportuno tradurre i
principi che si rivelano positivi del modello (empowerment), a partire dalle peculiari condizioni del contesto (la
cultura della casa in proprietà, l’informalità delle pratiche) per sviluppare esperienze originali (ad esempio nel
campo dell’auto-costruzione).
5. Conclusioni
Si è visto come una delle principali caratteristiche del discorso sull’esclusione sociale è l'accento posto sulla sua
dimensione spaziale, che viene fatta coincidere con il quartiere di residenza: il quartiere può essere un elemento
che determina o rinforza il processo di esclusione, essendo al centro di meccanismi quali la stigmatizzazione,
l’inerzia sociale, la mancanza di integrazione. All’interno di questa prospettiva esclusione sociale e segregazione
residenziale diventano sinonimi, influenzando il disegno di politiche atte a superarle. Se quartieri omogenei in
termini di classe sociale, tipologia abitativa, etnia sono alla base dei processi di esclusione, sembra ragionevole
pensare che quartieri “misti” dovrebbero facilitare l’integrazione. Conseguentemente, in molti paesi vengono
attivati pro grammi e p olitiche che ag iscono a liv ello d ella c omposizione del quartiere allo scop o di c reare
comunità p iù b ilanciate e i ntegrate. Tuttavia qu este posizioni so no m esse i n di scussione da una crescente
letteratura sia nelle premesse che negli esiti.
Il contributo d ei paesi dell’Europa meridionale cade proprio all’interno d i questo dibattito. Nelle città sudeuropee, le popolazioni di immigrati non si insediano seguendo degli schemi concentrativi, ma nonostante questo
sono soggette ad alti livelli di esclusione. Ne deriva una critica a concettualizzazioni facili e decontestualizzate:
modelli interpretativi e politiche importati da altri contesti rischiano di essere poco utili, e di oscurare la vera
natura dei problemi. Sono dunque necessarie nuove teorizzazioni a partire dalla lettura critica dei contesti di
applicazione.
Proprio per questo si vogliono sottolineare alcuni elementi che emergono dal dibattito sud-europeo e che si
ritiene possano essere spunti interessanti per approfondimenti futuri.
Innanzi t utto em erge ch iaramente come i con testi s ud-europei sebbene de -segregati dal p unto d i vista
residenziale non siano esenti da problemi. Gli autori si soffermano maggiormente su un aspetto specifico di
questa questione, cioè mettono in evidenza come la de-segregazione sia in realtà l'effetto di un grave processo di
esclusione abitativa. In questo senso vanno lette anche le raccomandazioni che gli autori fanno in termini di
politiche (ad esem pio agire su lle po litiche ab itative, stim olare l 'auto-costruzione). Tuttav ia si ri tiene ch e la
questione p otrebbe essere af frontata anche da al tri punti di v ista. Se l a m aggior parte de gli st udi sulla
segregazione prende la città nel suo complesso o il quartiere come unità di analisi, è possibile che se si partisse
da unità di analisi più significative emergerebbero altre forme di segregazione che sono attualmente sottostimate
dal dibattito dominante (Phillips, 2007). In questa direzione si muove parzialmente Maloutas (2007) quando
Carlotta Fioretti
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Immigrazione e territorio. Oltre la retorica sull’esclusione sociale
rileva l'esistenza di forme di segregazione verticale all'interno dei singoli blocchi residenziali. Per il contesto
italiano Tosi (1998) suggerisce di prendere in considerazione le forme di segregazione non residenziale come ad
esempio que lle negli spazi pubb lici e q uelle che non hanno un a r ilevante d imensione sp aziale, co me la
segregazione delle reti sociali.
Un s econdo a spetto si riferisce al fa tto che l a retorica d ell'esclusione è una retorica doppia, c he rin via
necessariamente al suo opposto cioè all'integrazione:
“(E)xclusion and integration can be regarded as two sides of the same coin and can thus be put in a similar
conceptual fr amework. T hat im plies that the ories relate d to social exclusion may als o function as a
framework for the understanding of integration processes and, vice versa (...).” (Murie e Musterd, 2004; p.
1442)2.
Partendo da questa considerazione, se il quartiere non è il luogo adatto per leggere i processi di esclusione
sembra opportuno chiedersi se possa essere il luogo adatto per innescare meccanismi di integrazione. È stato già
ampiamente ricordato come molte delle politiche europee vanno in questo senso, sia perché utilizzano come base
d'azione il quartiere, sia nel sen so che sostengono l'integrazione a partire da co munità miste e co ese. Se il
dibattito sui paesi sud-europei aggredisce questa posizione non sembra però indagare in maniera esauriente il
presupposto che si nasconde al suo interno cioè che lo spazio possa essere un dispositivo di integrazione per gli
immigrati. Da qu i sembr ano e mergere d ue questioni. In nanzitutto l'id ea stessa di in tegrazione pu ò risu ltare
problematica qualora assuma una connotazione simile a quella di assimilazione. Anche il concetto di coesione in
questo contesto può essere messo in discussione nel momento in cui è difficilmente compatibile con l'idea di
diversità. Alcuni autori sembrano usare concettualizzazioni più felici per indicare le potenzialità dello spazio
all'interno del questione dell'immigrazione, come ad esempio urbanità (Tosi, 1998) o cittadinanza (Sandercock,
1998). Infine se i quartieri residenziali non sembrano essere lo spazio adatto per favorire l'inclusione, quali altri
“spazi” po trebbero essere ad atti a que sto ru olo? A min (200 2) su ggerisce qu egli sp azi dov e av viene la
negoziazione quotidiana della differenza, riferendosi ai posti di lavoro, alla scuola ma anche gli spazi comunitari
all'interno dei quartieri. Sembra opportuna una riflessione in questo senso anche all'interno del contesto italiano.
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possono dunque ess ere messi nel me desimo quadro con cettuale. C iò i mplica ch e le teorie legate all' esclusione sociale
possono anche funzionare da cornice per capire i processi di integrazione e, vice versa (...)”.
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Carlotta Fioretti
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Carlotta Fioretti
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Lo spazio urbano come occasione di convivenza
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
Lo spazio urbano come occasione di convivenza
Alessandro Franceschini
Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale
Università di Trento
[email protected]
0461.882690
Bruno Zanon
Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale
Università di Trento
[email protected]
0461.882606
Abstract
Lo spazio urbano rappresenta da sempre un luogo specifico dell’incontro e dello scontro sociale. La città è nata
per favorire la socialità, per offrire protezione alle persone, per contenere e sedare, con le sue strutture, il
conflitto che sempre, la convivenza delle diversità, può generare. La città storica e città moderna hanno però
organizzato diversamente gli spazi urbani creando anche così anche diversi tipi di rapporto tra fruitori e città.
L’interpretazione degli elementi che compongono questi due tipi di città e la rilettura di alcune recenti
esperienze di analisi urbana nel contesto trentino offrono spunti di riflessione per affinare gli strumenti di
progetto in mano agli urbanisti.
1. Progetto e controllo dello spazio urbano: qualità e sicurezza
L’esperienza quotidiana della vita in città, oltre che le notizie di cronaca e le statistiche giudiziarie, segnalano la
presenza, in tutti i centri urbani, di luoghi dove si concentrano episodi criminosi. Sono gli hot spots, luoghi dove
convergono le persone (le stazioni, i mercati, le piazze), oppure appartati (i parchi), o particolarmente degradati,
dove il controllo è effettuato, anziché dagli abitanti o dalle istituzioni, da coloro che sono intenzionati ad attuare
azioni criminose.
Non sono spazi generici, in quanto sono spesso quelli che caratterizzano le città e ne qualificano le funzioni di
servizio, trasporto, commercio, svago e dove le persone si incontrano. Come mai gli spazi peculiari della città
sono anche quelli considerati più a rischio, che ci fanno vivere in un contesto di “paura liquida” (Bauman,
2008)? Possiamo rinviare tali motivazioni alle r apide tr asformazioni so ciali, alla co mpresenza d i comunità,
culture, etnie diverse? Eppure la città per sua natura è il luogo di incontro della diversità, della combinazione di
potenzialità e i ntenzioni d ifferenti. C ertamente un asp etto cru ciale e spesso sottovalutato è co stituito dalla
struttura spaziale che si è affermata nel corso del Novecento in ragione delle trasformazioni socio-economiche supportata peraltro dalle teorizzazioni del Movimento Moderno - ed alle più recenti trasformazioni della città
contemporanea, in particolare la diffusione urbana, lo smarrimento delle relazioni fisiche e sociali, la perdita di
identità dei luoghi.
I ri pensamenti i ntervenuti neg li u ltimi decenni rispetto a t ali m odalità, anche come rispo sta ai tem i della
sicurezza, solo in parte sono stati efficaci, oscillando dalla segregazione degli spazi al fine di dividere i gruppi
sociali (le gated communities) alla qualificazione della città nel suo insieme al fine di sostenere il senso di
appartenenza e la r esponsabilità deg li ab itanti. D a c itare a quest o pro posito l ’approccio d efinito Crime
Prevention Through Environmental Design (CPTED), concetto coniato da C. Ray Jeffery (1971) in un testo che
pone l’accento sul ruolo del disegno dello spazio fisico nel sostenere la sicurezza e il controllo della città, non
nella convinzione che un ambiente ben congegnato determini automaticamente comportamenti corretti, ma al
fine di creare le condizioni perché sia più difficile porre in essere atti criminosi oltre che per conseguire una
riduzione della paura del crimine ed un miglioramento della qualità della vita (Cardia, 2000, Crowe, 2000). Il
senso di questo filone, che vede diversi approcci ed esperienze (Defensible Space, Secured by design, Situational
crime prevention, ecc., cfr. Newman, 1996; Crowe, 2000; Schneider, Kitchen, 2002, 2007; Colquhon, 2004) è
quello di rompere il legame tra i comportamenti criminosi o devianti e le condizioni del luogo ( place-based
Alessandro Franceschini e Bruno Zanon
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Lo spazio urbano come occasione di convivenza
crime prevention) intervenendo sulla configurazione spaziale in modo da favorirne il controllo naturale da parte
degli abitanti e riducendo le occasioni per l’attuazione di iniziative criminose.
L’attenzione alla sicurezza, sviluppatasi anche in Italia sia relativamente agli aspetti sociologici che a quelli
criminologici ed urbani (Amendola, 1995, 2003a, 2003b; Ruspini, Di Nicola 2008; Cardia, 2005) non appare
peraltro sufficiente a garantire senso di appartenenza e di responsabilità. È necessario porre una nuova attenzione
alla qualità urbana nel suo complesso, ripensando metodi e strumenti della tecnica urbanistica e del disegno
urbano. In questo percorso è utile confrontare lo spazio della città contemporanea con quello della città storica,
riprendendo concetti e metodi relativi all’analisi della percezione e al rapporto tra comunità e contesto urbano,
spesso citati ma troppo poco praticati. La rilettura di alcune esperienze di indagine riguardanti il rapporto tra
abitanti e luoghi consente infine di trarre alcune conclusioni sui compiti del progetto e del governo urbano nella
città contemporanea.
2. La città: luogo di incontro di persone e di conflitti sociali
La città è molto di più di una coincidenza di forma fisica (urbs) e di struttura sociale e istituzionale (civitas): è il
luogo privilegiato dell’incontro, della promozione sociale e dello sviluppo personale. Come sostiene Lewis
Mumford, le città non sono n ate come con seguenza d ell’aumento della popo lazione ma sono state fon date
«quando gli uomini hanno sviluppato la capacità di andare al di là dei problemi di semplice sopravvivenza». A
questa “capacità” sono sicuramente ascrivibili molte attività dell’uomo: da quella istituzionale a quella religiosa,
da quella ludica a quella culturale. Dentro le città, separate dall’esterno con le mura, si è sempre svolto il vivere
“civico” dell’uomo: dentro le agorà, nei fori, nelle piazze, negli stadi e dentro i palazzi pubblici gli abitanti si
sono sempre ritrovati per incontrare l’altro.
La stessa struttura de lle città storiche riflett e la necessità di offrire condizioni per l’incontro (la piazza), i l
commercio (il portico, il mercato), di integrare funzioni diverse (abitare, lavorare, commerciare, ecc.), di offrire
servizi e strutture specialistiche (la chiesa, i luoghi del governo, del sapere, ecc.). Tra le caratteristiche precipue
della città c’è però da sempre la capacità di garantire la sicurezza, sia dall’esterno (la città murata, il borgo
fortificato), sia al suo interno (le regole della convivenza, il controllo sociale). Tuttavia, la città moderna, segnata
dal paradigma razionalista, non sempre ha tenuto conto delle qualità intrinseche in termini di sicurezza degli
spazi che andava costruendo e delle modalità della loro percezione.
La città, infatti, si propone all’individuo attraverso l’articolazione dei suoi spazi. Grazie al medium degli organi
di senso il fruitore percepisce questi luoghi e crea nella sua mente l’immagine della parte di città che fruisce,
frequenta o v isita an che pe r un a so la vo lta. La co dificazione di questi au tomatismi co mportamentali van ta
un’ampia letter atura d’ indagine, pr evalentemente teorica, sviluppatasi qua si c ontemporaneamente
all’affermazione del Movimento Moderno in architettura. Fin dalle prime esperienze urbanistiche del Novecento
fu infatti chiaro – soprattutto ad antropologi e a psicologi – che la città che il razionalismo stava costruendo
aveva delle discrepanze rispetto allo spazio sedimentato della città storica.
Uno dei primi autori a descrivere la città in chiave “antimoderna” è stato Camillo Sitte, alla fine dell’Ottocento,
criticando il fatto ch e ne lla co struzione della città moderna tutte l e irregolarità v enissero m eticolosamente
eliminate, s pesso anche c on gra ndi s pese, mentre a vrebbero pot uto esser e b en ut ilizzate: «Sen za di e sse i l
complesso, per quanto perfetto, conserverà sempre una certa rigidezza e produrrà un effetto assai freddo» (Sitte,
1889).
Gli studi si fecero più strutturati a partire da metà del Novecento, in particolare con Kevin Lynch, che ha
considerato la città come u n o rganismo co mplesso ch e si rapp orta ag li individui at traverso la percezione:
«Guardare la città – scrive Kevin Lynch nelle prime pagine di The Image of the City – può dare uno speciale
piacere, per quanto banale possa essere ciò che si vede». L’autore statunitense paragona la città ad una grande
architettura: «una costruzione nello spazio, ma di scala enorme, un artefatto che è possibile percepire soltanto nel
corso di lunghi periodi di tempo» (Lynch, 1964).
Un altro studioso statunitense, T. E. Hall, nei suoi studi di “prossemica” ha dimostrato, già negli anni Sessanta,
l’importanza del rapporto tra individuo e spazio circostante. Gli urbanisti, sostiene l’autore, dovrebbero tenere in
considerazione la possibilità di progettare e creare vari tipi di città, che siano adatte ai popoli che le abitano, cioè
coerenti ai loro schemi prossemici, coinvolgendo anche psicologi, antropologi ed etologi. Giunse ad affermare
che: «Gli urbanisti dovrebbero anche mettersi sulla strada della creazione di spazi congeniali alla promozione o
al rafforzamento delle oasi etnico-culturali» (Hall, 1968).
Anche Gordon Cullen ha proposto un’angolatura diversa sulla città: «materiali a disposizione del pianificatore
ambientale – scrive – sono massi di roccia, cemento, legno, terra, metallo, catrame, prato, in vari aspetti, in
tensione o no, e poi colline, acqua, gente, tutti gli elementi di cui si compone il mondo in cui viviamo. Il …
compito di urbanista consiste nel disporre tra loro questi blocchi di materiali» (Cullen, 1961). L’autore promuove
così un’idea di urbanistica fatta non di schemi urbani zenitali, come era nella tradizione del movimento moderno,
ma fatta di forme percepite che assieme vanno a costruire la realtà a cui il fruitore deve rapportarsi.
L’Italia non ha vissuto esperienze – teoriche e applicative – paragonabili a quelle appena elencate, tuttavia va
ricordato il lavoro di Giancarlo De Carlo ad Urbino, dove vennero applicate le nuove sensibilità alla costruzione
Alessandro Franceschini e Bruno Zanon
2
Lo spazio urbano come occasione di convivenza
del nuovo piano regolatore della città marchigiana. «Se è vero – scriveva De Carlo – che il fruitore percepisce lo
“spazio” della città e non la sua “forma” e che è attorno al cittadino e alle sue esigenze che essa deve essere
costruita e modificata, allora può essere interessante capire quali sono oggi le componenti in cui è organizzata la
città e quali sono le relazioni che si svolgono nello spazio urbano» (De Carlo, 1964).
Un approccio più recente è quello sviluppato in Inghilterra da Bill Hillier sotto il nome di Space Syntax (Hillier,
Hanson, 1984), che non ha peraltro consolidato ancora gli esiti attesi.
La c onsiderazione de gli aspetti della perc ezione s ottolinea l a ina deguatezza de l sa pere tecn ico ris petto all a
complessità dei compiti di disegno e governo dello spazio della città contemporanea. La crisi è segnata non solo
dalla caren za di risposte ad eguate ma d al ritardo delle riflessioni i n p roposito. L a c ritica all e so luzioni d el
Movimento Moderno ha visto, infatti, il ritorno a vecchi (ma rassicuranti) modelli, come è successo nel periodo
del Post Modern, o l’elaborazione di concezioni urbane non semplici da accettare, come nel più recente New
Urbanism, le cui realizzazioni riguardano spesso comunità sub-urbane. Per contro, il New Urbanism considera
aspetti spesso trascurati, quali il rapporto tra edifici e spazio pubblico, i percorsi, i marciapiedi. È necessario, in
breve, riqualif icare il sapere tecn ico relativo al la c ittà rinnovando gli elementi manualistici e normativi ch e
compongono i diversi elementi urbani in modo coerente entro spazi funzionali, dotati di senso e di identità. È
quello c he raccom andava J ane Jacobs (2 000) ed è quello che fa nno is tituzioni com e la Commission for
Architecture and the Built Environment (CABE) in Inghilterra, fo rnendo metodi e strumenti per valutare la
qualità urb ana ed ed ilizia, per stimolare l’appropriazione d ella città da pa rte d elle comunità locali (CABE,
DETR, 2000, 2001).
3. Lo spazio urbano della città storica e quello della città contemporanea
Un confronto sempre imbarazzante è quello tra la città storica e la città contemporanea, se si va oltre la semplice
considerazione della forma - compatta e densa la prima, dilatata e diffusa la seconda -. Peculiarità della città
storica è l’essere il risultato di una serie imponente di stra tificazioni che, attraverso reiterate modificazioni,
hanno portato alla forma più adatta alla sua fruizione. La città contemporanea, invece, si caratterizza per una
progetto teorico spesso lontano dalle reali necessità degli abitanti. Per quanto riguarda lo spazio urbano, quali
sono le differenze tra i due tipi di città? In breve si possono elencare i seguenti aspetti:
Funzione: la città storica è caratterizzata dalla multifunzionalità, mentre la città moderna è caratterizzata dallo
zoning, ovvero dalla specializzazione dei vari settori del costruito: residenziale, produttivo, artigianale, verde...
Questa seconda modalità determina una frequentazione degli spazi in determinate fasce orarie e l’abbandono in
altre.
Tipologia di fruizione: La città storica nasce per essere frequentata a piedi, con mezzi a traino animale e poi in
bicicletta, mentre la città moderna nasce per essere agilmente fruita con l’automobile o con i mezzi di trasporto
pubblico. Di conseguenza, se nella prima le auto si muovono con difficoltà, nella seconda sono gli individui ad
avere difficoltà di relazione.
Dimensione degli spazi: La città storica è caratterizzata da spazi compressi, la città contemporanea da spazi
dilatati. Lo spa zio c ompresso – a pa rte i m omenti d i aff ollamento – porta a d u na f requentazione cost ante
aumentando il li vello d i con trollo so ciale, m ente la sp azio d ilatato porta ad u na fr equenza p iù rarefatta,
aumentando i momenti di “solitudine”.
Dimensione degli edifici: la città storica è caratterizzata da edifici alti al massimo cinque-sei piani, mentre la città
contemporanea è dotata anche di edifici di grande dimensioni. Questo può determinare la perdita del senso di
appartenenza e di proprietà sia dell’edificio che delle sue pertinenze.
Relazione fra gli spazi: nella città st orica la diff erenza tra spazio pub blico e pri vato è costituita dal limite
dell’edificio. Nella città moderna il distacco dell’edificio dal suolo e dalla strada produce l’indipendenza dei due
elementi: camminare lungo la strada non comporta interagire con l’edificio, le sue funzioni, i suoi abitanti.
Relazione fra i percorsi: nella città storica i percorsi di sovrappongono, mentre in quella contemporanea sono
sempre più spesso “separati”. Qu esta differenziazione provoca, accanto ad una maggiore sicurezza stradale,
condizioni o sensazioni di insicurezza del pedone, il quale non è sottoposto alla visuale di automobilisti e degli
abitanti.
Articolazione degli spazi: nella città storica ogni spazio inutile è stato progressivamente occupato da qualche
funzione o spazio utile, mentre in quella moderna la ricerca dell’articolazione degli spazi prevede spesso la
creazione di una quantità di angoli morti, di spazi privi di controllo visivo e di difficile definizione in termini di
proprietà e di responsabilità.
Struttura delle forme architettoniche: nella città storica anche gli edifici sono il frutto di una stratificazione che
ha dato luogo a forme quasi “casuali” sempre diverse, mentre nella città moderna gli edifici sono caratterizzati
da una forte semplificazione formale. Nel primo caso la fruizione dello spazio è varia, nel secondo ripetitiva e
disorientante.
Collocazione degli spazi accessori: nella città storica non esistono spazi destinati esclusivamente a un certo tipo
di funzione, mentre in quella moderna alcuni spazi accessori (come parchi e parcheggi) assumono dimensioni
considerevoli e spesso, pur essendo considerati necessari, sono percepiti come pericolosi.
Alessandro Franceschini e Bruno Zanon
3
Lo spazio urbano come occasione di convivenza
4. Sicurezza urbana e percezione della sicurezza
Sulla base del le co nsiderazioni espo ste, ch e so ttolineano i ca ratteri dello spaz io urbano, le m odalità della
percezione e i diversi modi di percepire da parte delle singole comunità e degli individui, segnati da culture e
sensibilità differenti, la città deve essere considerata come un sistema complesso di spazi fisici e di vissuti
individuali. In q uesto qu adro, la sicu rezza urb ana va p erseguita da un lato m ediante il co ntrollo de i
comportamenti delle persone, dall’altro riconsiderando l’assetto fisico della città.
Il primo aspetto rinvia al rapporto tra le persone e l’ambiente, comprendendo le relazioni tra azioni criminose e
conformazione degli spazi (Eck, Weisburd, 1995; Crowe, 2000; Schneider, Kitchen, 2007). Da tempo le teorie
dell’atteggiamento criminale hanno prestato una crescente attenzione agli aspetti spaziali, spostando l’attenzione
dall’individuo criminale alla situazione criminale, che riguarda fatti sociali ma anche relativi alla conformazione
dello spazio fisico entro il quale si svolge l’atto criminoso. Si tratta di un luogo che offre garanzie di impunità
per conformazione e/o per assenza di controlli o di possibilità adeguate di controllo.
Il secondo aspetto riguarda i modelli urbanistici e, in modo più ampio, le questioni della qualità urbana. Si tratta,
in particolare, della funzionalità ed adeguatezza di organismi sempre più grandi e complessi nei quali vivono
gruppi sociali ed etnici differenti, dove emergono con forza i temi della identità degli abitanti rispetto alla città
ed alle sue diverse parti, con tutte le conseguenze relative all’abitare, vale a dire il senso di appartenenza e di
responsabilità nei confronti dei luoghi.
Su questi temi si stanno diffondendo i momenti e gli organismi di riflessione e di lavoro. Basti citare a livello
europeo lo European Forum on Urban Safety e le articolazioni nazionali, in particolare il Forum Italiano sulla
Sicurezza Urbana, che raccoglie numerose amministrazioni locali attive in proposito. Questi organismi stanno
elaborando specifici documenti, anche di rilievo normativo, sullo spazio urbano. In questo quadro la cultura
urbanistica appare in ritardo, non integrando le consapevolezze ed il saper fare in tema di sicurezza nel progetto
e nel governo dello spazio urbano.
La ri lettura di al cune esperienza di anal isi del r apporto fr a sp azio u rbano e f ruizione p uò f ornire al cuni
suggerimenti per valutare la qualità dello spazio urbano ed intervenire di conseguenza. Ci si riferisce, come
primo esempio, al p rogetto “A piedi sicu ri” pro mosso d al Comune di Trento a par tire da ll’anno scol astico
2003/04 e mirato a migliorare l’itinerario casa-scuola nei bambini e nei ragazzi delle scuole dell’obbligo, in
particolare delle elementari. I ri sultati di u na di qu este esperi enze (C allà, 20 09), letti da un punto d i v ista
urbanistico e morfologico, consentono di affermare come i genitori e i bambini considerino sicure le parti della
città c aratterizzate da u n c ontesto ur banistico “t radizionale” (i n par ticolare i l c entro st orico) i n r agione
rispettivamente, del 71,9% e del 58%, mentre sono percepiti come insicuri gli spazi di nuova urbanizzazione, in
particolare l’immediata periferia, in ragione del 46,3% e del 50%. Il centro storico viene segnalato da una quota
di bambini (6,9%) più sicuro di casa propria e da una quota di adulti (5,6%) più sicuro dei boschi e delle
campagne.
Un’altra esperienza (Alba et al., 2009) fa riflettere, in maniera qualitativa, sulla percezione dello spazio da parte
dei bambini della scuola elementare a partire dai disegni che descrivono il tragitto da casa a scuola. I bambini
che rag giungono la scuo la a pied i e i n un co ntesto urb ano tra dizionale off rono dell e rap presentazioni
caratterizzate da una presenza abbondante di particolari e di colori più caldi. I disegni realizzati da scolari che si
muovono in auto per raggiungere la scuola e in un contesto di città contemporanea sono invece caratterizzati da
colori e da toni più drammatici e dall’assenza di riferimenti visivi o identitari che descrivano l’esperienza della
percorrenza.
Cercando di sfuggire dal rassicurante ma allo stesso tempo pericoloso assioma che la città tradizionale significa
sicurezza e che la città moderna significa invece insicurezza, queste indagini sottolineano le problematicità dello
spazio urbano contemporaneo, in particolare l a scarsa q ualità d elle p eriferie e la p resenza i nvadente delle
automobili.
5. Conclusioni. Il ritorno dello spazio della convivenza
Come può lo spazio della città contemporanea – soprattutto nelle sue zone più periferiche – tornare ad essere
luogo di incontro sociale, di co nvivenza e d i q ualità urbana? Gli studi e g li esiti d elle i ndagini citate
suggeriscono pratiche e strumenti che, adeguatamente approfonditi e precisati, dovrebbero stare nella cassetta
degli attrezzi dei progettisti e delle commissioni urbanistiche ed edilizie.
Sono temi che possono essere riassunti da un lato nella esigenza di sostenere il controllo spontaneo degli abitanti
e dall’altro nella necessità di stimolare la responsabilità individuale e collettiva. In breve:
Rispetto delle modalità locali dell’abitare:
 proporzione tra edificato e contesto (edifici, spazi e infrastrutture);
 proporzione del mix funzionale, sia quantitativo che spaziale, in senso orizzontale (tra i diversi edifici e
luoghi) e in senso verticale (all’interno dello stesso edificio).
Controllo visivo dello spazio, pur evitando forme urbane monotone e anonime.
Alessandro Franceschini e Bruno Zanon
4
Lo spazio urbano come occasione di convivenza
Identità dei luoghi, in ragione della specificità delle funzioni e della presenza di elementi simbolici.
Presidio dello spazio mediante la manutenzione, il ridisegno periodico, la riappropriazione collettiva degli spazi
e delle decisioni sulle trasformazioni (responsabilità e partecipazione).
Bibliografia
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Alessandro Franceschini e Bruno Zanon
5
L’arte come servizio urbano.
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
L’arte come servizio urbano
Serena Francini
Architetto
Dottorato Progettazione Paesistica
Università degli Studi di Firenze
[email protected]
Abstract
Le trasformazioni urbane tengono conto della dimensione artistica? Quale è il grado di interazione tra l’arte, la
progettazione urbana e l’architettura del paesaggio? Il progetto degli spazi aperti nel paesaggio urbano si può
efficacemente relazionare all’installazione di opere d’arte? Può l’arte essere uno strumento per rinnovare
l’immagine di una città e restituire senso di appartenenza ai suoi abitanti?
1. Premessa
“Credo che una delle principali funzioni dell’arte
sia quella di forzare i limiti di ciò che
si può realizzare”
Dennis Oppenheim
“Se si chiede cosa sia l’arte pubblica ad un interlocutore generico la risposta che probabilmente si otterrà sarà:
una statua equestre o un altro tipo di monumento” collocato in una piazza o in un altro spazio pubblico. “Per
molto tempo l’arte pubblica è stata soprattutto questo: un esercizio di retorica celebrativa al quale, nel migliore
dei casi, i cittadini fanno l’abitudine oppure, nel peggiore dei casi, viene subìto come un affronto permanente.
Potremmo dire però che l’arte pubblica dalla convenzionale idea di monumento si è progressivamente allargata
verso l’idea di ornamento/decorazione, arredo urb ano, seg no di ri generazione urbana, segno identitario” ma
soprattutto “spazio relazionante, processo relazionale.”1
Le basi di questa ricerca si fondano sull'interpretazione dei concetti che vanno verso questa direzione e sul
tentativo di una loro evoluzione che tenda verso la definizione dell’arte, o meglio dell’intervento artistico, non
come elemento de lla sc ena urba na, m a com e pro cesso ch e pro muove un dialogo multidisciplinare tra
progettazione architettonica, urbana e del paesaggio, escludendo così l’autonomia funzionale dell’opera.
Negli ultimi anni, con sempre maggiore frequenza, l’architettura ha preso in prestito alcune procedure dalle
pratiche artistiche contemporanee cercando di tradurle nei propri meccanismi operativi. Questo interesse si è
sviluppato in molte direzioni: nello studio del rapporto tra figurazione e paesaggio circostante, in un’accresciuta
coscienza dell’impatto comunicativo deg li spa zi pubblici, nella cap acità interpretativa del l uogo da parte
dell’arte, nelle qualità estetiche delle installazioni artistiche e nella loro funzione di aggregatori di interessi e
curiosità che si riflette nel luogo che li ospitano, nella ricerca di strategie che guidino la progettazione urbana.
Perché l’arte pubblica? O meglio: a cosa serve l’arte pubblica? Molte definizioni le sono state attribuite: “l’arte
pubblica diventa un motore di impresa, l’arte pubblica come identificazione del luogo o sua distinzione, l’arte
pubblica come strumento di risanamento sociale e territoriale, l’arte pubblica come prova di inclusione sociale,
l’arte pubblica com e m ezzo di sviluppo di una c ittadinanza”2. È ch iaro qu indi ch e m ancando d i una
legittimazione al ruolo dell’arte nel paesaggio urbano, e quindi nello specifico, negli spazi aperti del paesaggio
urbano, altre funzioni e usi le vengono attribuiti spesso in maniera inappropriata.
Il fine di questa ricerca sta proprio nel provare a ricercare il ruolo dell’arte nel paesaggio urbano: pensare quindi
che il progetto degli s pazi a perti (p iazze, strade, pa rchi, aree verdi… ) si po ssa efficacem ente relaziona re
all’installazione d i o pere d’arte con l’ob iettivo d i cre are u n rap porto b iunivoco t ra opera -spazio (non
“collocazione in” ma “relazione con”), anzi creare il luogo, come afferma Dennis Oppenheim “l’opera non è
collocata in un luogo, è quel luogo”3.
1
Sacco P. (2006), Meccanismi argomentativi dell’Arte Pubblica, Arte pubblica e periferie, numero monografico, Il Mulino, p. 5.
Campitelli M., (2008), Public Art a Trieste e dintorni, Milano, Silvana Editoriale, p.156.
3
Lailach, M. (2007), Land Art, London, Taschen, p.80.
2
Serena Francini
1
L’arte come servizio urbano.
La parola chiave diventa progetto: pensare che un intervento artistico diventi parte integrante di un progetto
urbano. L’arte quindi come un atto di coscienza progettuale. Il ruolo del progettista ne realizza la possibilità: è
nel co mpito di chi pro getta (nel sen so lato di quest a paro la ape rta ad abb racciare la sfera della
multidisciplinarietà e anche della partecipazione sociale) proporre e trovare indirizzo a nuove soluzioni.
Pertanto diventa necessario rinunciare ad utilizzare il termina public art (e la traduzione arte pubblica) perché
legata ad un contesto culturale troppo utilizzato e pertanto forviante: parleremo invece di arte urbana in tesa
come nuova forma di processo progettuale.
2. Arte: nelle forme che si sviluppano negli spazi aperti del paesaggio.
Alta sulla città, in cima a un’imponente colonna, si ergeva
la statua del Principe Felice. Lui era tutto coperto di sottili
foglie d’oro fino, come occhi aveva due zaffiri lucenti, e un
grande rubino rosso scintillava sull’elsa della sua spada (…)
“E’ bello come una banderuola”, osservò uno dei consiglieri
comunali che voleva farsi una reputazione
di possessore di gusti artistici;
“solo non altrettanto utile”, aggiunse, per
paura che la gente lo considerasse poco pratico.
Oscar Wilde, Il principe felice
Per “arte pubblica si intendono gli interventi artistici, che hanno luogo in città o in paesaggi naturali, comunque
fuori dai musei e dai luoghi prescelti ad ospitare l’arte, frequentati da un pubblico generalmente lontano dal
mondo dell’arte”4.
L’arte ch e opera nello spazio aperto pubblico ha come co mune denominatore il confronto con un pubblico
generico e non specialistico, anche se sono cambiati nell’arco del XX secolo i modi di commissionare le opere, i
luoghi prescelti per realizzarle e il modo di relazionarsi con i fruitori. Le varie declinazioni, dall’embellisment
ottocentesco, al concetto propagandistico e sociale dell’arte pubblica negli anni venti e trenta del novecento (ne
sono un esem pio gli in terventi di An tonio M araini e Arturo M artini), all’istituzione neg li ann i sett anta i n
Inghilterra e negli Stati Uniti di commissioni di public art programmate e coordinate (come il programma Art in
Public Places5 costituito dalla contea Metro-Dade, in Florida nel 1973), agli interventi più estemporanei e di
matrice maggiormente utopica in Italia negli stessi anni (Campo Urbano a Modena del 1969 e Volterra 73), fino
alle pratiche di community art (come i progetti del gruppo multidisciplinare Osservatorio Nomade6) , rendono
complesso un approccio sistematico al tema.
Arte e città hanno rappresentato un sodalizio sigillato nel passato dal monumento, sia questo la statua o la
fontana nella piazza, o la decorazione delle facciate delle chiese, oppure ancora l’arco di trionfo. Nel paesaggio
metropolitano l’arte ha quindi svolto nel passato un ruolo preciso, sia esso, dall’Ottocento in poi, elogio della
ricchezza e dello stile della classe dominante, oppure grandioso affresco storico-politico della rivoluzione di un
regime, dove ogni intervento artistico nelle città spettacolo è stato precisamente regolamentato dallo stato.
Intorno al 1968, un gruppetto di artisti americani (tra cui Walter De Maria, Robert Smithson, Rober Morris) ed
europei (Richard Lo ng, Hamish Fu lton) sv iluppa prog etti ch e co ntemplano t ecniche e m ateriali nuov i, i l
paesaggio come soggetto artistico assume una dimensione inaspettata e antisimbolica. Il paesaggio non è più
rappresentato o preso i n prestito c ome sce nario ma è i mpiegato c ome materiale dell’art e. Si t ratta di arte ,
architettura o design ambientale? Quando la critica d’arte americana Rosalind Krauss coniò lo slogan “sculpture
in the expanded field”7 aveva in mente questa disorientante compenetrazione di discipline. Pertanto è dalla Land
Art e dalla Earth Art che l’arte ha sentito il bisogno di sganciarsi dal sistema acquisito per esprimersi in nuove
condizioni di apertura. La public art che fonda i suoi principi su questa tendenza sviluppandone i connotati,
nasce negli anni settanta, soprattutto in Inghilterra e in America. Finalità è ambientare nei contesti più disparati
della città, (piazze, parchi, strade…) interventi site specific, progettati cioè appositamente per quel luogo così da
trasformarlo con segnali creativi revitalizzanti, a funzione spiazzante, spesso critica, obbligando l’occasionale
osservatore ad una sua rilettura. Obiettivo non secondario è il miglioramento della qualità della vita, sollecitando
gli abitanti a “vedere” con occhi nuovi il contesto ambientale in cui si snoda il loro percorso esistenziale.
La Convenzione Europea del Paesaggio afferma che “Il riconoscimento di un ruolo attivo dei cittadini nelle
decisioni che riguardano il loro paesaggio può offrir loro l'occasione di meglio identificarsi con i territori e le
città in cui lavorano e trascorrono i loro momenti di svago. Se si rafforzerà il rapporto dei cittadini con i luoghi
in cui vivono, essi saranno in grado di consolidare sia le loro identità, che le diversità locali e regionali, al fine di
4
Birozzi C., Pugliese M., (2007), L’arte pubblica nello spazio urbano, Milano, Mondadori Bruno, p.1.
www.co.miami-dade.fl.us//publicart
6
www.osservatorionomade.net
7
Krauss, R., (1998), Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land Art, Milano, Bruno Mondadori, p.256
5
Serena Francini
2
L’arte come servizio urbano.
realizzarsi dal punto di vista personale, sociale e culturale (…)” 8. Possiamo quindi constatare una finalità di
intenti tra quanto stipulato dalla Convenzione ed i principi che hanno caratterizzato le basi del movimento public
art. Confronto questo che ci porta a rimarcare che l’arte, e quindi l’intervento artistico, nella varietà dei modelli
di riferimento, possa essere non solo uno strumento per rinnovare l’immagine della città, ma anche un modo per
restituire senso di appartenenza ai suoi abitanti intervenendo sulla qualità degli spazi aperti attraverso la loro
progettazione. Come afferma Julie Ault, “per ogni progetto c’e una comunità e un luogo”9, pertanto la creazione
di u n int ervento a rtistico dev e a vvenire attraverso un processo di condivisione e coinvolgimento spaziale e
sociale.
In Italia l’arte urbana, nel XX secolo, ha avuto una sua particolare storia: un misto di nobiltà, elitarismo, e al
tempo stesso mediocrità, manifestandosi essenzialmente attraverso le celebrazioni dei caduti delle due guerre del
“secolo breve”. Per la prima volta nella storia italiana sono stati eretti monumenti a masse di uomini, invece che
a singole figure er oiche (re, poeti, scrittori, condottieri, esploratori): così destinati all’attenzione del rispetto
diventano le vittime e non più gli eroi, con il risultato di far nascere, in ogni città italiana, una rete intricata di
memorie e di luoghi simbolici. Ma questi esempi, se interventi artistici vogliamo considerarli, sono lontani dal
concetto di arte urbana intesa come processo progettuale.
Nel periodo a cavallo tra gli anni settanta, ottanta, possiamo constatare l’ultima campagna di interventi artistici
nello spazio urbano, quando alcune amministrazioni locali si sono premunite di “arredare” le loro piazze con
opere di artisti contemporanei: la serie di interventi dei fratelli Arnaldo e Giò Pomodoro a Milano e Pesaro,
Henri Moore a Prato, le presenze di Pietro Cascella a Parma, Massa e Pesaro. La logica che sottintende a tutti
questi episodi segue il principio “accostamento parassitario” tra arte e spazio pubblico: le opere vengono quindi
poste come elementi ausiliari ad un intervento edilizio.
Negli ultim i a nni si è anc he assistito a d una lieve accelerazione del processo c ontrassegnata da e pisodi
interessanti come le sculture di Tony Cragg a Siena e l’intervento di Alberto Garrutti a Bergamo (otto lampioni
la cui intensità luminosa scandisce la nascita del vicino ospedale). Si tratta comunque in tutti i casi, di due
versioni dello stesso principio di “arredo urbano” nella prima l’artista è chiamato a commentare con la propria
opera uno spazio urbano predeterminato, nella seconda l’opera già realizzata viene scelta per adornare un luogo.
Adornare un luogo e non progettarlo!
Nonostante pochi esempi in cui progettazione urbana e intervento artistico hanno avuto un connubio riuscito e
vincente, come il caso del Passan te Ferrov iario a To rino o la metropolitana di Napo li, è no ta la diffidenza
italiana per interventi che non siano gestibili da parte del sistema politico e amministrativo in termini di consenso
politico immediato. Ed è proprio la miopia della classe politica locale, che spesso non riesce a ragionare andando
oltre le scadenze elettorali ad allontanare inesorabilmente la sperimentazione artistica dalle piazze e dalle strade
italiane, e a pri vilegiare le versi oni pi ù p revedibili d ell’arte urbana. I noltre i nfluisce no n poc o su qu esto
immobilismo l’inesistenza di mecenati o semplicemente di soggetti privati (anche a causa della legislazione poco
propensa a favorire questi pro cessi) disposti a finanziare interventi ne llo sp azio p ubblico. Quind i mentre il
soggetto pubblico la ignora, quello privato in Italia tende a custodire “in privato” l’arte contemporanea, mettendo
in secondo piano il principio stipulato dalla Convenzione Europea che sancisce che “ogni parte si impegna ad
accrescere la sensibilizzazione della società civile, delle organ izzazioni private e delle autorità pubbliche al
valore dei paesaggi, al loro ruolo e alla loro trasformazione”10.
3. Da Public Art a Arte Urbana: una nuova forma di processo progettuale.
La città favorisce l’arte ed è arte; la città crea il teatro ed è teatro.
E nella città, nella città quale teatro, che le attività più importanti
Dell’uomo vengono formulate ed elaborate attraverso individui, eventi, gruppi in conflitto e in cooperazione,
sino alle apoteosi più significative.
Lewis Mumford
E’ necessario operare delle distinzioni dentro la definizione di arte pubblica a fronte del moltiplicarsi di pratiche
artistiche, del diversificarsi di spazi eleggibili per l’arte, di esperienze e fonti di committenza. Si rende necessario
distinguere il significato di arte negli spazi pubblici, scultura urbana o arte site specific, ricollocandole nelle
diverse tradizioni da cui prendono origine. “L’espressione public art proviene da una forma di commissione
pubblica diffusa negli Stati Uniti e in Inghilterra, che è differente dalla tradizione europea e soprattutto italiana
della scultura urbana, mentre l’espressione site specific, frequentemente usata come sinonimo di public art fa
riferimento ad una tradizione dell’arte contemporanea inaugurata dalla Minimal e dalla Land Art”11.
La parola arte pubblica diventa quindi un concetto molto vago ed inflazionato, che ci porta a utilizzare un’altra
accezione per affrontare il tema dell’arte “pubblica” o meglio dell’ arte che si sviluppa negli spazi aperti del
8
Tratto dalla Convenzione Europea del Paesaggio, Relazione Esplicativa, capitolo II, art.24.
Ault J., (2002), Alternative Art New York, 1965-1985, University of Minnesota Press.
10
Tratto dalla Convenzione Europea del Paesaggio, capitolo II, art 6a.
11
Perelli L., (2006), Public Art. Arte, Interazione e progetto urbano, Milano, Franco Angeli, p.15.
9
Serena Francini
3
L’arte come servizio urbano.
paesaggio u rbano: arte urbana. D efiniremo art e u rbana una forma d i pr ogettazione i ntegrata che pone i n
relazione l’intervento artistico e la progettazione urbana, e che ha il fine di costruire una continuità identitaria
nella città attuale, attraverso un progetto. Obiettivo quindi è di arrivare a definire una possibile zona di coprogettazione fra l’architettura del paesaggio, la progettazione urbana e l’arte urbana.
“Non si tratta di mettere a confronto l’artificio mirabile e la potenza del bello e del sublime del luogo attraverso
una serie di strategie produttive e riproduttive ingegnose, ma di stabilire i termini di una nuova dialettica di
integrazione. Non è tanto importante infatti, a qu esto punto, incidere seg ni gran diosi di do minio, violenti e
possessivi, nel paesaggio (…) ma di segnare, dentro congruenti relazioni di contesto, nuovi scarti semantici,
attivi sul piano progettuale e riverberanti nel campo sociale”12. Non si tratta quindi di collocare nel paesaggio un
bronzo di Henry Moore, l’obiettivo è caratterizzato dall’interazione, dall’unità di arte e paesaggio, o meglio
intervento artistico e progetto di paesaggio: si tratta di stabilire le condizioni di una nuova integrazione dialettica.
L’opera d’arte urb ana non d iventa un a nuova r ealtà estetica lì depositata, ma to rna ad essere “un pezzo di
paesaggio”.
Le settemila querce che Joseph Beuys ha piantato a Kassel poco prima di morire come compenso per dieci anni
di lavoro non sono solo una testimonianza dell’opera di un grande e geniale artista, ma indicano come non si
possa più rinunciare ad una nuova riflessione dell’arte nella città.
Tuttavia è lecito chiedersi quando si possa parlare di arte urbana; numerosi sono infatti gli esempi che pur
avendo instaurato un rapporto percettivo, visuale, spaziale e un coinvolgimento socio-economico con il luogo di
intervento non possono essere ritenuti tali. L’artista graffitaro Bansky afferma parlando della sua arte “imagine a
city where graffiti wasn’t illegal, a city where everybody could draw wherever they liked . Where every street
was awash with a million colours and little phrases. Where standing at bus stop was never boring ”13. La risposta
a se queste operazioni artistiche possano essere considerate un esempio di arte urbana sta proprio nella parola
“illegal”.
Altro elemento discriminante è il significato attribuito al concetto di temporaneità, in questo caso l’opera diventa
evenemenziale, revocabile, com e tante opere di C hristo che i ndagano “il paesaggio c ome finestre di
sperimentazione di possibili assetti” e che anche se “entrano nell’esperienza del pubblico più profondamente di
quanto non sarebbe se fossero definitive, si pensi ai portali arancioni di Central Park (…), per estrarne una
visione critica altrimenti sconosciuta”14 i loro risultati possono si innescare input processuali ma tuttavia, essendo
temporanei, sono incapaci di promuovere una progettazione urbana ad esso associata.
4. Il public space del paesaggio urbano: luogo di progettazione integrata tra
intervento artistico e progettazione urbana.
Partiamo d al r iconoscere ch e ogg i gli sp azi apert i de l paesa ggio u rbano h anno p erso la loro p iù specif ica
funzione d i t eatro d i p rocessi d i a ggregazione s ociale diventando s pazi s empre pi ù v aghi ne i qua li l e
trasformazioni in atto riescono qui più che altrove ad impoverirne il significato ed il loro uso. Spesso relegati ad
essere luogo di transizione, di passaggio, privi di identità e di capacità aggregativa, “nella nuova frontiera degli
spazi aperti, lo spazio diventa sempre più e solo “spazio”, che è pubblico solo quando c’e un pubblico: da spazio
pubblico a spazio e pubblico”15. Ma cosa rende uno spazio aperto pubblico? E’ pubblica una qualità descritta
dalla proprietà o dall’accesso, è pubblico uno spazio non elitario, lo spazio pubblico “ è spazio sociale dove in
assenza di un fondamento, il significato e l’unità sociale è negoziata, allo stesso tempo costituita e messa a
rischio”16.
Accanto alla strada, al parco, alla piazza, che fanno parte del corredo storico, si mescolano oggi quelle tipologie
complesse e stratificate di spazi intermedi e polifunzionali misti “insieme aperti e chiusi a multiple relazioni
scalari”17. Pertanto si t ratta di capire quale ruolo possa avere l’arte i n questi s pazi e quindi, i n generale,
all’interno delle trasformazioni in atto nel paesaggio urbano.
Opere e pratiche artistiche infatti possono non solo incidere sulla forma e l’uso dello spazio aperto urbano, ma
anche sulla creazione di un gusto estetico e più in generale sulle relazioni sociali che si svolgono nella scena
urbana. La qualità dello spazio pubblico, potenziata o messa in discussione dall’intervento artistico, può essere
letta come uno degli indicatori più significativi per la comprensione delle relazioni tra la comunità, il paesaggio,
la sua storia e il suo futuro. Tuttavia
non si tratta di allestimenti ma di una definizione e quindi progettazione dello spazio attraverso l’opera d’arte, in
maniera contestuale alla sua realizzazione.
12
Fagone V., (1996), Arte nella natura, Milano, Mazzota, p. 12-13.
www.bansky.co.uk “immaginare una città dove i graffiti non siano illegali, una città dove ognuno possa disegnare ovunque gli piaccia.
Dove ogni strada sia inondata di milioni di colori e piccole frasi. Dove stare alla fermata dell’autobus non sia mai noioso.”
14
Zagari F., (2009), La piega del tempo nel paesaggio. Le fattispecie antropiche del progetto nella nostra epoca, Istant Book, n.3, Reggio
Calabria, Centro Stampa d’Ateneo.
15
Caputo P., (2006), Le architetture dello spazio pubblico. Forme del passato, forme del presente, Milano, Triennale di Milano, Electa, p.11.
16
Deutsche R., (1998), Evictions. Art and Spatial Politics, Cambridge, MIT Press.
17
Perelli L., (2006), Public Art. Arte, Interazione e progetto urbano, Milano, Franco Angeli, p.71
13
Serena Francini
4
L’arte come servizio urbano.
Pertanto due sono i possibili approcci di intervento nel public space: il caso in cui l’opera d’arte o più in generale
l’intervento artistico assuma la città come scenario instaurando comunque con questa un rapporto percettivo,
semiologico, funzionale e sociale (inserimento in), allargando quindi il concetto alla base dei presupposti teorici
impliciti delle proposte di Francesco Somaini “la scultura ha forse e da sempre un paesaggio naturale”18; oppure
il caso i n cu i la ci ttà si trasform i con l ’arte attr averso pr ogetti a rtistici gu idati da u n pr ogetto ur bano
(progettazione con), come è accaduto nei già citati casi dell’area del Passante Ferroviario di Torino e della
metropolitana di Napoli o nel Millenium Park di Chicago. Progetti questi che hanno l’ambizione di contribuire
alla qualità degli spazi aperti pubblici, il public space, se non addirittura di avere un impatto rilevante non solo
sulla qualità della vita, ma anche nella trasformazione dell’utilizzo dei luoghi pubblici.
In qu este direzioni l’arte diventa stru mento utile per la prog ettazione fi sica e sociale dello sp azio urb ano
contemporaneo, assumendo un ruolo nella progettazione del public space, attraverso il dialogo tra attori diversi e
approcci multidisciplinari.
Bibliografia
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Somaini F., Crispolti E., (1972), L’urgenza nella città, Milano, Mazzotta Ed.
 copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purchè sia correttamente citata la fonte.
18
Somaini F., Crispolti E. (1972), L’urgenza nella città, Milano, Mazzotta Ed., p.1
Serena Francini
5
Un approccio partecipativo dinamico per la riqualificazione e la valorizzazione fluviale nei Contratti di Fiume
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
Un approccio partecipativo dinamico per la riqualificazione
e la valorizzazione fluviale nei Contratti di Fiume
Alessandro Giangrande
Laboratorio TIPUS, Dipartimento di Studi Urbani
Università degli Studi Roma Tre
[email protected]
Tel 06.57339677 / Fax 06.57339649
Abstract
L’approccio descritto, di tipo ciclico e incrementale, coniuga due metodi di pianificazione/progettazione:
costruzione di Scenari Futuri Dinamici (SFD) e Strategic Choice (SC). La natura incrementale dell’approccio
è la diretta conseguenza del fatto che l’evoluzione della “visione” degli attori territoriali porta inevitabilmente
a modificare nel tempo sia lo scenario futuro prefigurato dagli attori stessi, sia la scelta degli interventi più
idonei a realizzarlo.
Il caso della rigenerazione di Basse di Stura, un sito situato nella periferia nord di Torino caratterizzato da un
elevatissimo livello di degrado, è qui utilizzato per descrivere l’approccio in dettaglio.
Il lavoro illustra anche come l’approccio potrebbe essere applicato ai processi di riqualificazione e
valorizzazione fluviale nei Contratti di Fiume.
1. Premessa
Una sorta di “atto unico” – piano disegnato, piano-progetto ecc – sono destinati a fallire (Faludi, 1987; Faludi,
1989: 135, 151; Friend & Hickling, 2005).
Questi piani non sono utili per orientare – né tanto meno vincolare – le scelte progettuali a lungo termine poiché
l’assetto che prefigurano è statico, non evolve contestualmente alla situazione politico-decisionale, ambientale,
sociale, culturale, economica ecc. del territorio. Ciò è soprattutto vero quando il piano riguarda un’area vasta e
gli interventi che ne conseguono comportano tempi lunghi di attuazione, come spesso avviene nei processi di
riqualificazione e valorizzazione fluviale che sono oggetto di un Contratto di Fiume.
L’approccio proposto, di tipo incrementale e ciclico, coniuga due metodi di pianificazione/progettazione:
costruzione di Scenari Futuri Dinamici (Giangrande, 2006) e Strategic Choice (Friend & Hickling, 2005;
Giangrande e Mortola, 2005: 322, 326).
Uno Scenario Futuro Dinamico (SFD) è la prefigurazione delle trasformazioni che gli attori territoriali
interessati desiderano per i loro spazi di vita. Questa prefigurazione non è la rappresentazione dello stato finale
del territorio riferita a uno specifico orizzonte temporale, ma una “visione” che gli attori potranno sempre
aggiornare in funzione della mutata situazione del contesto. Lo scenario è un documento scritto accompagnato in
genere da immagini: foto, disegni e schizzi di carattere esplicativo/evocativo.
Anche Strategic Choice (SC) è un metodo dinamico. L’assetto del territorio riferito ad un’epoca futura, secondo
SC, non può essere prefigurato a priori ma è il risultato delle scelte progettuali che, realizzate secondo una logica
incrementale, concorrono a determinarlo. Con l’aiuto di SC gli attori possono identificare e scegliere in ogni
momento del processo gli interventi che sono maggiormente compatibili tra loro e coerenti con le trasformazioni
già attuate, nonché le azioni più adatte a superare le incertezze e i conflitti che ne rendono spesso difficile o
impossibile la realizzazione (cfr. Friend & Hickling op.cit.).
Tra SC e SFD esiste uno stretto legame. L’input principale di SC è costituito dai problemi e dalle soluzioni
progettuali atte a risolverli che si deducono dallo scarto esistente tra scenario futuro e situazione attuale. Per
identificare i problemi e le soluzioni gli attori territoriali possono essere aiutati dalle analisi e dalle proposte
formulate da esperti di settore.
La natura incrementale del processo di trasformazione del territorio è la diretta conseguenza del fatto che
l’evoluzione della “visione” degli attori territoriali e le nuove conoscenze acquisite dagli esperti portano
inevitabilmente a modificare nel tempo l’elenco dei problemi e delle loro soluzioni.
In quanto segue l’approccio sarà illustrato attraverso un caso di studio che riguarda le proposte di
riqualificazione e valorizzazione di un ambito fluviale.
1
Alessandro Giangrande
Un approccio partecipativo dinamico per la riqualificazione e la valorizzazione fluviale nei Contratti di Fiume
2. Il caso di studio
Verso la fine del 2007 numerosi Enti pubblici e privati della Città di Torino e della Regione Piemonte1 hanno
sottoscritto un protocollo d’intesa per realizzare l’iniziativa Transmitting Sustainble City, nel cui ambito è stato
organizzato un workshop internazionale che aveva il compito di elaborare strategie e progetti per rigenerare il
sito di Basse di Stura, situato nella periferia nord di Torino.
Il sito ha una superficie di circa 500 ha e si sviluppa per tre chilometri lungo le sponde del fiume Stura. E’
un’area molto disomogenea, definita negli anni ’90 “cimitero di rifiuti inurbato nella città”, connotata da tempo
dalla presenza di attività produttive, aree industriali dismesse, attività di trasformazione degli inerti. I suoli sono
stati utilizzati fino agli anni ‘80 come aree di conferimento di rifiuti industriali costituiti prevalentemente da
scarti di fonderia. Al suo interno si trovano anche vecchie cascine, terreni coltivati e due laghi di cava dismessi
dalle attività di estrazione, le cui sponde sono attualmente in fase di lenta rinaturalizzazione.
I promotori dell’iniziativa hanno costituito due Comitati Scientifici: locale e internazionale. L’autore è stato
nominato membro del Comitato Scientifico internazionale e invitato a partecipare al workshop come tutor di uno
dei cinque gruppi di lavoro interdisciplinari – ciascuno costituito da progettisti ed esperti di nazionalità diversa –
che hanno prodotto altrettante proposte progettuali alternative.
Il workshop si è svolto a Torino dal 10 al 16 febbraio 2008. 2 I risultati dei gruppi sono stati esposti e discussi al
XXIII Congresso Mondiale UIA (Torino, 29 giugno - 3 luglio 2008) e in altre occasioni.
In questo lavoro saranno illustrati i risultati del gruppo coordinato dall’autore. Al termine sarà discussa la
possibilità di applicare l’approccio metodologico utilizzato in quella sede alla definizione e all’attuazione delle
scelte nell’ambito di un Contratto di Fiume.
3. Uno scenario futuro per Basse di Stura
Dopo aver letto i documenti prodotti dai due Comitati Scientifici, il gruppo di lavoro ha visitato l’area e
incontrato sia alcuni rappresentanti dei comitati cittadini, sia gli alunni e gli insegnanti di alcune scuole medie
delle zone limitrofe.
Per costruire lo scenario il tutor ha invitato i membri del gruppo a elaborare una sorta di “racconto dal futuro”,
riferito a un orizzonte temporale lontano, sulla base delle informazioni acquisite. A ogni co-tutor e studente è
stato chiesto d’immedesimarsi in un abitante di Basse di Stura che ritorna nei suoi luoghi d’origine ormai
rigenerati dopo esserne stato lontano per molti anni, per descriverne le attività, i discorsi e le emozioni.
Il “racconto” è stato costruito come collage delle frasi pronunciate a turno dai singoli membri del gruppo. Queste
frasi sono state registrate fedelmente e opportunamente riorganizzate per costruire lo scenario, dove sono
prefigurate anche situazioni alternative – se riferite allo stesso ambito spaziale – e non compatibili – se riferite ad
ambiti diversi Le alternative rispecchiano le differenze di valori e di opinioni degli attori territoriali
nell’interpretazione dei membri del gruppo di lavoro .
3
4
4. Il processo progettuale
4.1 La struttura del problema progettuale/1: aree di decisione e opzioni
Il gruppo di lavoro ha confrontato la situazione attuale di Basse di Stura con quella dello SFD e ha individuato
alcune soluzioni progettuali alternative (opzioni) atte a risolvere quelle situazioni problematiche (aree di
decisione) che, allo stato attuale, impediscono di realizzare la situazione prefigurata nello scenario (Figura 1).
1
Città di Torino, Regione Piemonte, Provincia di Torino, Ente Gestione Parco Fluviale del Po’ Torinese, Politecnico di Torino, Ordine degli
Architetti PPC della Provincia di Torino, Federazione degli Ordini del Piemonte e della Valle d’Aosta, Collegio dei Costruttori Edili, ANCE
Torino, Istituto Superiore Sistemi Territoriali per l’Innovazione (SITI), Legacoop Piemonte, Agenzia Territoriale per la Casa (ATC) della
Provincia di Torino, Azienda Multiservizi Igiene Ambientale Torino (AMIAT), Collegio Edile di API Torino.
2
Il gruppo di lavoro era costituito da un tutor (A.Giangrande), tre co-tutor (A. Caperna, A. Cerqua, P. Garrone) e quattordici studenti (D.
Catenazzi, B. Cavallet, M . De Matteis, F. R. Diaz, T. Di Carlo, F. Emanuel, S. Giannuzzi, A. Lain, I. Fonseca Leite, J. Paloma, M. Pelfini ,
M. Puttilli, B. Sembianti, E. J. Silva Costa Pinto).
3
Le alternative, in questa fase, sono tutte mantenute in vita: la scelta delle alternative migliori (preferite) è stata fatta in seguito, con l’aiuto di
SC.
4
La breve durata del workshop (una settimana) non ha consentito, diversamente da altre esperienze (Giangrande 2006), di far partecipare
direttamente tutti gli attori territoriali interessati alla costruzione dello scenario futuro.
2
Alessandro Giangrande
Un approccio partecipativo dinamico per la riqualificazione e la valorizzazione fluviale nei Contratti di Fiume
Figura 1- Aree di decisione e opzioni (continua)
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Alessandro Giangrande
Un approccio partecipativo dinamico per la riqualificazione e la valorizzazione fluviale nei Contratti di Fiume
Figura 1- Aree di decisione e opzioni (continua)
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Figura 1- Aree di decisione e opzioni
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Alessandro Giangrande
Un approccio partecipativo dinamico per la riqualificazione e la valorizzazione fluviale nei Contratti di Fiume
La costruzione dell’elenco delle aree di decisione e delle opzioni è il frutto di numerose discussioni che si sono
svolte all’interno del gruppo. In definitiva sono state individuate 16 aree di decisione: il numero di opzioni
associate a ogni area varia da 2 a 5. L’elenco può essere aggiornato in qualsiasi momento. Ad es., sarà sempre
possibile eliminare alcune aree, una volta riconosciuta la loro irrilevanza, o inserirne di nuove. Lo stesso dicasi
delle opzioni: alcune potranno essere introdotte in seguito nell’elenco per tener conto di nuove proposte
progettuali che dovessero emergere nel contesto territoriale mentre altre saranno eliminate perché giudicate del
tutto irrealizzabili (vedi oltre).
4. 2 La struttura del problema progettuale/2: grafo di decisione, fuochi e schemi di
decisione
Una volta individuate le aree di decisioni e le opzioni, il gruppo a proceduto in primo luogo a deisegnare il grafo
di decisione, che rappresenta le relazioni esistenti tra le aree (figura 2)
Figura 2- Grafo di Decisione
Quando due aree di decisione sono collegate significa che una o più opzioni della prima area sono incompatibili
– o, al contrario, sinergie – con una o più azioni della seconda. Il collegamento può essere certo (tratto spesso, di
colore blu) o incerto (tratto sottile, di colore rosso)5.
Con l’aiuto del programma STRAD (1992) l’intero problema progettuale è stato quindi articolato in fuochi.
Un fuoco è un sottoinsieme di grafo di decisioni che identifica una parte di un problema progettuale vasto e
complesso che può essere risolta in modo sostanzialmente indipendente. La stessa area può appartenere a più
fuochi (in altri termini, i fuochi non sono necessariamente sottoinsiemi disgiunti).
Nel caso di Basse di Stura i fuochi individuati sono 6: ogni fuoco comprende da 3 a 6 aree di decisione. Con
l’aiuto di STRAD sono stati quindi identificati gli schemi di dcisione di ogni fuoco. Tali schemi costituiscono
tutte le combinazioni di opzioni - una per ogni area di decisione – che possono essere attuate perché mutuamente
compatibili. La loro realizzazione contestuale comporta inoltre i vantaggi connessi alle sinergie eventualmente
presenti tra alcune opzioni dello stesso schema.
5
L’incertezza deriva in genere dal fatto che alcune opzioni, in questa fase, sono troppo vaghe (ad es., non sono ancora ben definite in termini
localizzativi e/o dimensionali).
6
Alessandro Giangrande
Un approccio partecipativo dinamico per la riqualificazione e la valorizzazione fluviale nei Contratti di Fiume
4. 3 La valutazione degli schemi di decisione: gli schemi preferiti
Gli schemi di decisione di ogni fuoco sono stati confrontati e valutati rispetto a un insieme di aree di confronto,
ovverosia di criteri di sostenibilità – declinata nelle sue diverse accezioni – congruenti con la “visione” degli
attori territoriali.
La valutazione ha consentito d’identificare gli schemi preferiti di ogni fuoco che sono stati utilizzati per
elaborare i progetti corrispettivi.
5. Le fasi successive del processo
Gli schemi di decisione preferiti e i relativi progetti, sia pure elaborati a un livello molto preliminare,
rispecchiano i desiderata degli attori territoriali (vedi SFD) e le proposte tecniche più interessanti dei Comitati
Scientifici.
Il processo non ha avuto finora un seguito: lo scarso impegno politico delle amministrazioni locali e
l’impossibilità di reperire nell’immediato i finanziamenti necessari per realizzare i progetti hanno finora
impedito di procedere alla fase attuativa.
In quanto segue saranno illustrati i passi del processo che dovranno essere fatti per elaborare in dettaglio i
progetti e portare a compimento la rigenerazione del sito di Basse di Stura, nell’ipotesi che si determino presto
condizioni politico-decisionali ed economico-finanziarie più favorevoli di quella attuale.
5.1 Gestione sistematica delle incertezze
Le opzioni degli schemi preferiti presentano numerose incertezze che, allo stato attuale, non consentono di
elaborare in maggiore dettaglio i progetti e relizzarli.
Secondo SC le incertezze sono di tre tipi:
 incertezze dovute a una scarsa conoscenza del contesto ambientale (UE, Uncertainties about the
working Environment)
 incertezze dovute alla carenza di coordinamento tra le organizzazioni direttamente o indirettamente
interessate al progetto (UR, Uncertainties about Related decisions)
 incertezze dovute alla scarsa conoscenza degli interessi e dei sistemi di valore degli attori che hanno il
potere di prendere o influenzare le decisioni (UV, Uncertainties about guiding Values).
Un’opzione progettuale che presenta una o più incertezze deve essere differita: prima di realizzarla è necessario
valutare la rilevanza di ogni incertezza, individuarne il tipo (UE, UR o UV) e scegliere le opzioni esplorative più
adatte a rimuoverla. Di ogni opzione esplorativa occorrerà inoltre fornire una stima approssimata del costo,
nonché dei ritardi e dei vantaggi connessi alla sua attuazione.
Tutte (o quasi tutte) le opzioni presentano in genere incertezze. Le attività finalizzate a ridurre o eliminare le
incertezze e quelle più propriamente tecnico-progettuali s’intrecciano durante tutto il processo: secondo SC, le
prime sono da considerare parte integrante delle seconde.
L’ordine degli interventi da realizzare nel processo incrementale è determinato principalmente dalle incertezze
delle opzioni. In teoria dovrebbero essere attuate per prime le opzioni preferite dei fuochi che includono le aree
di decisione più urgenti e importanti (prima quelle dei fuochi 1 e 2, poi quelle del fuoco 3,…); in pratica sarà
opportuno realizzare prima le opzioni che non presentano incertezze – o ne presentano in misura molto ridotta –
e rinviare la realizzazione di quelle che presentano molte incertezze che non è possibile risolvere in tempi brevi.
5.2 Incertezze e partecipazione
Molte incertezze conseguono dal fatto che il gruppo di lavoro che ha costruito lo scenario e lo ha interpretato in
termini di aree di decisione e opzioni ha operato senza poter interagire con una parte importante degli attori
territoriali. Le attività svolte all’inizio del workshop – il sopralluogo, la lettura dei documenti prodotti dai
Comitati Scientifici, l’incontro con alcuni rappresentanti dei comitati locali, con gli insegnanti e gli alunni delle
scuole – sono soltanto il “surrogato” di una vera partecipazione.
Per essere davvero partecipato il processo avrebbe dovuto includere, in tutte le sue fasi, la totalità delle categorie
dei soggetti interessati: amministratori locali, imprenditori, associazioni culturali e ambientaliste, associazioni di
categoria, proprietari dei suoli, costruttori ecc. L’impossibilità di interagire in modo continuativo con i soggetti
di cui sopra ha di fatto impedito al gruppo di lavoro di rimuovere le numerose incertezze derivanti dall’ignoranza
dei sistemi di valore e degli interessi di molti attori, soprattutto di quelli che hanno il potere di prendere o
influenzare in misura maggiore le decisioni.
In un processo di progettazione veramente partecipato le aree di decisione, i giudizi d’importanza e d’urgenza
delle stesse e le opzioni avrebbero potuto essere anche molto diversi da quelli individuati durante il workshop.
Lo stesso dicasi delle aree di confronto e dei loro pesi, da cui dipendono fortemente gli schemi di decisione
preferiti che fissano i contenuti sostantivi del progetto.
7
Alessandro Giangrande
Un approccio partecipativo dinamico per la riqualificazione e la valorizzazione fluviale nei Contratti di Fiume
5.3 Il processo ciclico
Gli attori territoriali, nel corso del processo, potrebbero voler introdurre nuove opzioni o sostituirne alcune con
altre più valide; gli esperti di settore potrebbero da parte loro proporre per alcune di esse nuove, più efficaci
soluzioni tecniche.
Se le opzioni da introdurre ex novo o da modificare sono poche, è sufficiente correggere gli elenchi delle opzioni
nelle aree di decisione pertinenti e procedere a individuare i nuovi fuochi e i nuovi schemi di decisione.
Una più rilevante evoluzione del contesto territoriale potrebbe tuttavia indurre gli attori a rivedere radicalmente
la struttura del problema progettuale: in questo caso sarà necessario rivedere completamente lo SFD e costruirne
un altro, più coerente con la mutata “visione” degli attori stessi. Dal nuovo SFD si procederà quindi a ricavare il
nuovo elenco delle aree di decisione e delle relative opzioni progettuali.
In entrambi i casi si tratta di ritorni a una fase precedente.
Questi ritorni, che possono avvenire più volte nel corso di un processo, qualificano l’approccio come ciclico.
Il carattere ciclico del processo, frutto di una “visione” che evolve nel tempo con la situazione territoriale, non
causa deregolamentazione. Grazie a SC, le scelte progettuali effettuate in ogni fase del processo sono sempre
mutuamente compatibili, coerenti con quelle attuate nelle fasi precedenti e in linea con la “visione” degli attori.
6. L’approccio e’ adatto/adattabile a gestire un processo di riqualificazione
e valorizzazione fluviale nei Contratti di Fiume?
Un Contratto di Fiume, tradizionalmente, è un accordo formale tra le parti contraenti che si dovranno impegnare
nella realizzazione degli interventi sottoscritti.
Nell’approccio proposto i contenuti sostantivi e i dettagli dei progetti non sono mai definiti a priori, ma
emergono progressivamente durante il processo incrementale di progettazione e realizzazione.
Pertanto l’accordo non dovrà riguardare gli specifici interventi da realizzare, bensì l’approccio metodologico che
le parti s’impegnano ad adottare. Nell’accordo, oltre all’approccio metodologico, si farà peraltro riferimento alle
principali problematiche territoriali che hanno indotto gli attori a intraprendere il percorso del Contratto di
Fiume, senza però che sia specificato in dettaglio l’elenco dei progetti da realizzare per risolverle.
6.1 Contratti di Fiume e partecipazione
I territori che sono oggetto di Contratti di Fiume sono quasi sempre più estesi dell’area di Basse di Stura. In
quanto segue viene descritta una modalità di partecipazione che tiene conto di questa maggiore estensione.
Le autorità locali danno vita al Forum del Contratto di Fiume costituito dall’insieme di tutti i Forum locali,
ognuno dei quali riguarda uno specifico ambito territoriale.
Di ogni Forum locale possono fare parte tutti coloro che in esso vivono o svolgono un’attività. L’ambito, che
non deve necessariamente fare parte dello stesso Comune, coincide generalmente con una zona che è
sostanzialmente omogenea in relazione alle sue caratteristiche e alle problematiche – ambientali, economiche
ecc. – che essa presenta.
I membri di ogni Forum devono essere uno spaccato rappresentativo della realtà locale: del Forum non fanno
parte soltanto i detentori dei “poteri forti” (amministratori, imprenditori, proprietari dei suoli ecc.) ma anche le
categorie più deboli della popolazione, quali i bambini, gli anziani, i disabili e gl’immigrati.
Ogni Forum locale sceglie democraticamente i membri dei gruppi di lavoro ai quali è demandato il compito di
guidare la costruzione dello SFD .
I gruppi di lavoro votano i delegati del gruppo ristretto di lavoro che opererà alla scala dell’intero territorio
interessato al Contratto. E’ compito di questo gruppo ristretto – costituito da 10-15 membri – assemblare gli
scenari prodotti dai Forum locali e avviare il processo che, con l’aiuto di SC, porterà a progettare e realizzare
secondo una logica incrementale gli interventi di riqualificazione e valorizzazione. Il gruppo potrà articolarsi in
sottogruppi per progettare in parallelo gli schemi preferiti dei diversi fuochi.
Questa modalità di partecipazione prevede lo strumento della delega, ma tutti i gruppi di lavoro sono tenuti a far
uso di strumenti di comunicazione tradizionali (TV e radio locali, giornali ecc.) e avanzati (sito internet, blog
ecc.) per comunicare i risultati intermedi del processo a tutti gli altri partecipanti e all’intera popolazione, che
potranno intervenire nel processo con critiche e suggerimenti. Ogni gruppo può aprirsi a nuovi membri, con
particolare riferimento agli esperti di settore.
Tutti i progetti, prima di essere realizzati, devono essere approvati formalmente dall’assemblea plenaria del
Forum appositamente convocata.
6
6.2 La gestione dei conflitti
L’approccio non contempla l’uso di uno specifico metodo per la gestione dei conflitti che potrebbero
manifestarsi in qualsiasi momento del processo, ma specialmente nella fase di valutazione (scelta delle aree di
6
Ogni Forum locale costruisce il suo SFD. Alcuni elementi della ‘visione’ potranno rigurdare anche la totalità del territorio interessato dal
Contratto di Fiume.
8
Alessandro Giangrande
Un approccio partecipativo dinamico per la riqualificazione e la valorizzazione fluviale nei Contratti di Fiume
confronto e dei loro pesi, valutazione delle opzioni progettuali ecc.). Tali conflitti potrebbero guastare il clima di
collaborazione dei gruppi di lavoro e impedire che il progetto sia realizzato: l’uso di un metodo capace di
attenuarli o risolverli può essere pertanto cruciale.
Non tutti i conflitti possono essere sempre risolti, specialmente quelli che originano da forti interessi economici o
da credenze e pregiudizi personali di tipo ideologico, religioso o razziale.
In ogni caso è importante che si riescano a creare almeno le condizioni per cui gli attori territoriali siano disposti
a partecipare a un processo di negoziazione che, a priori, non favorisca nessuno. Durante il processo gli attori
riusciranno a superare i loro conflitti se saranno aiutati dal metodo e da chi lo gestisce a stabilire accordi che non
siano minimali, di basso profilo, ma che producano un reale vicendevole guadagno.
Produrre un vicendevole guadagno non significa conseguire una duplice (ma spesso ingannevole) vittoria: quella
nostra e quella del nostro antagonista. Occorre invece capire che per conseguire dei vantaggi le parti devono
saper sfruttare le loro differenze (Forester, 1989: 183,184); devono trarre vantaggio dalle loro diverse priorità per
realizzare “guadagni congiunti” . In altri termini, non significa aiutare l’altro per aiutare noi (do ut des), né
aiutare l’altro a soddisfare i suoi obiettivi prioritari affinché noi possiamo dopo soddisfare i nostri (più
semplicemente: fare uno scambio), ma significa che tutti imparino a riconoscere e accettare le priorità degli altri.
Il metodo di gestione dei conflitti da utilizzare congiuntamente all’approccio proposto dovrà essere scelto tra
quelli che si fondano sui questi principi.
7
Bibliografia
Brandon P., Lombardi P., (2005), Evaluating Sustainable Development in the Built Environment, London,
Blackwell.
Faludi A., (1987), A Decision-centred View of Environmental Planning , Oxford, Pergamon Press.
Faludi A. (1989), Conformance vs. performance: implication for evaluation, Impact assessment bulletin, 7 (2-3).
Forester J., (1989), Planning in the Face of Power, Berkeley and Los Angeles, California, University of
California Press.
Friend J., Hickling A., (2005), Planning under Pression. The Strategic Choice Approach, Oxford, Elsevier.
Giangrande A., (2006), La procedura di visioning. Il ricupero dell’ex Istituto Angelo Mai (stralci), Dispensa del
corso di Progettazione e pianificazione sostenibile, Roma, Facoltà di Architettura (Università Roma Tre).
Giangrande A., Mortola E., (2005), Neighbourhood Renewal in Rome. Combining Strategic Choice with other
Design Methods, in Friend J. & Hickling A., op. cit.
STRAD, (1992), The Strategic Advisor. User’s manual, Stradspan Limited, Sledge Hill, Ludford, UK.
7
Il metodo, in particolare, dovrà aiutare il gruppo di lavoro a elaborare opzioni “a somma positiva”, dove il guadagno di alcuni soggetti, in
linea di principio, non deve comportare una perdita per altri.
9
Alessandro Giangrande
Progettare con la comunità a Roma in contesti urbani di complessità sociale, culturale e politica crescente
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
Progettare con la comunità a Roma in contesti urbani di
complessità sociale, culturale e politica crescente.
Daniela Festa, Adriana Goni Mazzitelli ,Viviana Petrucci e Laura Moretti ricercatori Laboratorio TIPUS,
Dipartimento di Studi Urbani, Università degli Studi Roma Tre.
[email protected]
Tel/fax 0039 6 57339621
Abstract
A partire dalle precedenti esperienze di ricerca- azione maturate nei contesti urbani, il Laboratorio di Ricerca
TIPUS si propone di aggiornare e migliorare la teoria e la pratica partecipativa quale approccio innovativo per
affrontare gli inediti scenari di conflitto sociale, culturale e politico che si realizzano nelle metropoli
contemporanee (Touraine, 1997, Bourdieu, 1999). I casi messi a confronto per la sua analisi sono la
progettazione partecipata in tre contesti urbani diversi della città di Roma; centro storico, città intermedia e
periferia. Da una parte con adulti e bambini a sostegno di gruppi auto-organizzati di cittadini che interagiscono
con il Municipio Roma I Centro Storico, approccio bottom-up, e da un’altra il Bilancio Partecipativo del
Municipio Roma IX città intermedia e periferia romana, approccio top – down. In entrambi i casi si è utilizzata
una metodologia che cura in misura maggiore, rispetto all’esperienze tradizionale di pianificazione partecipata,
la diversità socio-culturale e gli aspetti relazionali, come fattori chiave nel affrontare una dimensione micro
dell’urbanistica attuale.
1. La Sfida Della Città Contemporanea Nella Pianificazione Partecipativa
La c ittà c ontemporanea ap pare c ome l’orizzonte press oché i nsuperabile d ell'uomo. I n qu anto t ale, d iventa
urgente riuscire a conciliare il suo straordinario sviluppo, la conservazione delle risorse che la sostengono, la
coesione sociale che garantisce fondamento per una pacifica convivenza.
Da tempo e in modo unanime si riconosce, più spesso nella teoria che nella pratica della sua costruzione, che un
sistema vitale complesso come la città interroghi la scienza da punti di vista diversi: antropologici, sociali,
politici, economici, spaziali, urbanistici.
La globalizzazione ha giocato un ruolo importante non tanto nell'omologare le diverse situazioni geografiche, ma
piuttosto nel rafforzare la scala locale, come insieme degli elementi costitutivi dell'identità territoriale, e quindi
di visibilità nel panorama generale. Il locale è emerso come riferimento geo-economico delle competitività e
dello sviluppo (Gemmiti, 2000 ).
I processi di decentramento con passaggi di competenze alle autonomie locali (si vedano a titolo d’esempio la
Legge costituzionale n.3 del 2001 in Italia e per la Francia, la legge costituzionale 276 del 28 marzo 2003) hanno
contribuito i n maniera ne tta a far emergere le autonomie di scala l ocale an che co me sogg etti po litici e
amministrativi. Gli enti locali di vario livello, ed in primis le città, si configurano come ambiti territoriali forniti
di competenze decisionali autonome e rafforzate da un rapporto diretto (elettorale, politico e via via sempre piu’
fiscale) con i cittadini.
Il dibattito scientifico ed internazionale sui fenomeni ambientali globali da un lato (Conferenza di Rio del 1992 e
successive conferenze internazionali sul tema), la stagione dei grandi movimenti di contestazione sociale (legati
soprattutto ai Forum sociali mondiali) e il riemergere con forza di una dimensione locale di autodeterminazione
hanno progressivamente imposto e nutrito il concetto di città sostenibile e di città vivibile.
Nonostante la ricchezza di questi concetti e la loro diffusione, la definizione del concetto di sviluppo urbano
sostenibile, è complessa, oggetto di un ampio dibattito e in costante evoluzione (Marcuse, 1998). Si tratta inoltre
di concetti che dominano la retorica pubblica e privata caratterizzandosi per molti aspetti non come una dottrina
Festa D., Goni Mazzitelli A. , Moretti L., Petrucci V.
1
Progettare con la comunità a Roma in contesti urbani di complessità sociale, culturale e politica crescente
organica o un sistema di norme coerenti, ma piuttosto come un approccio strategico e di prospettiva (Theys,
2002) benché non sempre chiari in riferimento ai metodi, alle scelte e agli ambiti d’interesse.
A secondo degli au tori, la citt à so stenibile e v itale rich iama insieme d iversi concetti: la citt à co mpatta
e controllata in grado di sopravvivere e di rinnovarsi piuttosto che la mixitè sociale e funzionale e il ruolo della
cittadinanza nel progetto collettivo.
Si tratta di tener conto sia del capitale fisico che di quello umano,
sociale, cu lturale, de i cam biamenti ambientali, naturali ( Brundtland, 19 87) e i ndotti, no nché d ello
sviluppo economico e sociale, dei cambiamenti demografici, dei crescenti flussi migratori dell’emergenza di
nuove disparità sociali . Tali temi non possono essere affrontati singolarmente e autonomamente né alla scala
globale né a quella locale. Molti gli ostacoli e le contraddizioni che restano da sciogliere. Gli approcci sono
ancora tro ppo spe sso sperimentali e g li strumenti con certativi debo li b enché si con stati una mobilitazione
sempre più importante che vede le comunità locali attivamente coinvolte nelle dinamiche di sviluppo (Mathieu e
Guermond, 2005) e sem pre p iù interpellati c ome attori n ecessari ( Agenda p er XX I secolo 1 997) per la
produzione d i po litiche di g overno de l ter ritorio efficaci e sost enibili (M agnaghi 20 03, D ematteis-Governa,
2005).
2. Dalla concertazione alla partecipazione
Come conseguenza alla progressiva globalizzazione, il ruolo dello Stato e dell'azione pubblica, l'economia e la
società hanno subito profonde trasformazioni che hanno portato un certo numero di cambiamenti nella modalità
di go vernance (Le G ales, 2003). In acco rdo a nu ovi ap procci all a gov ernance o a lla buo na gesti one delle
politiche, nuovi metodi di intervento sono emersi. Tuttavia il concetto di governance non è di facile definizione
ed è ancor a in fase di discussione in vari campi delle scienze sociali (scienze politiche, sociologia politica,
economia, per esempio). Emergono, piuttosto, una serie di elementi che aiutano a definirne i contorni. Si potrà
porre l’accento ad esempio su una conduzione della politica pubblica secondo il requisito di cooperazione, di
coordinamento e di controllo tra le parti in causa, sul processo di consultazione e di coinvolgimento della società
civile o di cittadini, sul partenariato pubblico-privato. Per oltre 20 anni, le questioni urbane, a seguito dei
dibattiti sullo sviluppo sostenibile, sono diventate una preoccupazione per la politica internazionale e locale. Su
questa scia, stiamo assistendo alla nascita di forme di azione pubblica rinnovata, all'emergere di nuovi attori e
alla creaz ione di ist anze che costituiscono la base per la govern ance in un co ntesto i n cui l 'incertezza nel
pubblico rimangono forti (Lascoumes, 2005).
A livello locale, le autorità locali e le città in relazione con molteplici attori (ONG, associazioni, cittadini,
imprese) divengono sempre più responsabile della traduzione di un certo numero di principi stabiliti a livello
sovra-nazionali e di programmi di azione di nuove pratiche nel territorio più adatto alla gestione delle politiche
locali (in tutta la città o in periferia).
La negoziazione ed i processi contrattuali si moltiplicano in particolare nel quadro della politica della città, dei
contratti di quartiere o dei progetti urbani. L’approccio bottom-up va sostituendo gradualmente l’approccio topdown : l ’intervento di nuo vi att ori (cit tadini, associazioni, comitati, im prese) nelle scel te che ri guardano
questioni pubbliche va gradualmente assorbendo l’onnipresenza dello Stato nelle scelte di gestione territoriale.
Secondo gli st udi urb ani recenti, i processi di p ianificazione rappresentano oc casioni utili per co involgere
direttamente gli abitanti nel processo di trasformazione del contesto urbano, per aprire uno spazio sempre più
ampio di dialogo e di lavoro congiunto tra i diversi livelli di governo (governance), per costruire l’ “interesse
comune”. La p ossibilità di f are a ppello al le p ratiche di partecipazione s embra p oter rispondere, du nque, a
molteplici obiettivi: conoscere e mettere a sistema la risorse locali implicandole direttamente nelle politiche di
prossimità e innesca ndo dinamiche di territorialità attiva (C. EMANU EL, P.VA LLARO 2005); ridefinire la
domanda del servizio e le necessità del territorio e dunque rafforzare la posizione delle Istituzioni locali nella
dialettica costante con i poteri sovraordinati; indagare i sistemi di governo delle trasformazioni territoriali e i
processi di auto-organizzazione locale.
Primo Caso Studio, Forum Monti , Rione Monti, Centro Storico di Roma.
Il gruppo di ricerca del Lab. Tipus è interessato costruire una visione olistica del territorio e della città.
Festa D., Goni Mazzitelli A. , Moretti L., Petrucci V.
2
Progettare con la comunità a Roma in contesti urbani di complessità sociale, culturale e politica crescente
L’ambiente urbano è osservato attraverso la complessità delle sue manifestazioni, da quelle fisico-spaziali a
quelle socio-culturali e relazionali, aspetti considerati strettamente interconnessi tra loro.
I percorsi partecipativi da noi proposti intendono sviscerare la “vita” dei territori, al fine di far emergere conflitti
e potenzialità attraverso le quali reimpostare nuove forme di convivenza.
Caso studio Rione Monti
Il progetto, inizia all’interno del programma per la “cittadinanza europea attiva e la partecipazione civica” e
QEC_ERAN (Quartieri in crisi), nel 2007 e continua nel 2008, con il programma “Europa per i cittadini” con
l’obiettivo di creare una rete europea per sostenere la partecipazione e le azioni dei cittadini e dei residenti nella
riqualificazione delle zone urbane, attraverso la realizzazione di Forum locali di progettazione partecipativa e lo
scambio di esperienze con una rete internazionale della quale fanno parte , Centre Public d'Action Sociale de
Charleroi
(BELGIO), C omune di Torino (ITALIA), Faculdade d e Letras da U niversidade d o P orto
(PORTOGALLO), Aristotle University of Thessaloniki- Department of Psycology (GRECIA), North & West
Belfast Health & Social Services Trust (INGHILTERRA) Comité de Quartier de l'Hommelet (FRANCIA)
Dipartimento d i Studi U rbani- UniversitàRoma 3 -Rete So ciale M onti ( ITALIA) Charlois (OLANDA)
Associacio CEPS per a la creacio i estudis de projectes socials (SPAGNA)
Il progetto si lega e sostiene l’idea promossa dalla Rete Sociale Monti che pretende costituire nel Rione Monti,
Centro Storico di Roma, una sorta di “cantiere” o “laboratorio” che metta in relazione differenti espressioni e
differenti realtà, per valorizzarne la ricchezza, sperimentare un nuovo modo di lavorare insieme, di partecipare
alle scelte collettive, di confrontarsi con l’Amministrazione Pubblica, di lavorare per migliorare la qualità della
vita e dell’ambiente nel Rione.
La metodologia utilizzata ha messo a confronto metodi di pianificazione strategica come Strategic Choice1
quale strumento di sostegno alle decisioni, con laboratori fotografici, sopralluoghi nel rione, organizzazione di
momenti ludico-creativi per richiamare l’attenzione dei diversi attori e coinvolgere tramite molteplici linguaggi il
maggior numero residenti.
In particolare, è stata individuata, assieme ai residenti, una prima lista di “Problematiche” (Aree di decisione) e
di “possibili soluzioni” (opzioni progettuali).
1
La rosa dei problemi riportata nell’immagini è stata realizzata in questa occasione dall’arch. Alessia Cerqua.
Festa D., Goni Mazzitelli A. , Moretti L., Petrucci V.
3
Progettare con la comunità a Roma in contesti urbani di complessità sociale, culturale e politica crescente
Il coinvolgimento nel Forum dei cittadini più piccoli nasce dalla consapevolezza che il bambino è un valido
indicatore biologico di qualità dello spazio urbano per le modalità con cui egli si relaziona all’ambiente in cui
vive e perché rappresentativo delle fasce più deboli della società, spesso escluse dai processi decisionali (anziani,
diversamente abili, immigrati, etc.).
L’obiettivo è ri pensare l a città assu mendo co me param etro d ella trasfo rmazione il bam bino/a i n
contrapposizione al modello di sviluppo “adultocentrico” della città contemporanea e promuoverne l’autonomia
lavorando su una dimensione locale perchè compatibile con le capacità di controllo e di conoscenza dei bambini.
Il coinvolgimento dei bambini nelle pratiche decisionali, è uno stimolo alla formazione di una comunità effettiva,
basata sulla solidarietà e su pratiche sociali condivise. Suddetta comunità è la base indispensabile per lo sviluppo
e la sicurezza sociale del territorio ed è la condizione necessaria al bambino per poter vivere la città in maniera
autonoma.
Di seguito riportiamo una breve sintesi delle proposte progettuali utili per capire quanto le proposte dei cittadini
siano in si ntonia con un a visi one integrata della sostenibilità e tutela cultu rale dei beni e l e relazio ni del
territorio.
VILLA ALDOBRANDINI: UN FORUM DI RELAZIONI SOCIO-CULTURALI
L’intervento si inserisce all’interno di un processo per migliorare gli spazi verdi e favorire l’accessibilità e la
socializzazione inter-generazionale e il dialogo interculturale nel rione.
Si propone di:
• Attivare un laboratorio di progettazione partecipata su villa Aldobrandini che coinvolga un numero
rappresentativo di residenti, associazioni ed altri soggetti presenti a Monti, così da arrivare alla stesura
di un progetto di riqualificazione definitivo.
• Trovare la forma più adeguata per gestire gli spazi e attività della Villa che metta insieme i principali
attori interessati, associazioni e residenti locali e I Municipio come garante dalla manutenzione ed uso
condiviso dello spazio.
• Condurre, nella Villa, una attività permanente di sensibilizzazione e animazione verso il territorio
per attivare la partecipazione alla risoluzione dei problemi e conflitti, ma anche alle proposte di attività
sociale e culturale come modalità di lavoro.
PROGETTAZIONE PARTECIPATA E AUTOCOSTRUZIONE DI UN LUOGO DA RIQUALIFICARE
PER I BAMBINI : VIA FRANGIPANE
Per dare un segno ai cittadini più piccoli che le amministrazioni pubbliche hanno un “ orecchio verde,” ascoltano
i loro desideri e garantiscono il diritto al gioco, alla sicurezza e alla partecipazione.
Via Frangipane è un percorso obbligato per chi raggiunge la scuola Vittorino da Feltre e la scuola Mazzini dal
rione, può diventare un luogo di sosta capace di accogliere grandi e piccoli.
La riqualificazione della via non risponde esaustivamente alla mancanza di spazi di socializzazione, di luoghi
dedicati al gioco e al problema dell’accessibilità ma è un primo passo importante per riavvicinare le istituzioni
municipali ai cittadini e per avviare la riqualificazione del Rione Monti.
Festa D., Goni Mazzitelli A. , Moretti L., Petrucci V.
4
Progettare con la comunità a Roma in contesti urbani di complessità sociale, culturale e politica crescente
Si chiede al Municipio:
• Attivazione di un laboratorio di progettazione partecipata per la riqualificazione di via Frangipane che
coinvolga un numero rappresentativo di bambini/e e di adulti.
• Piccolo cantiere di auto-costruzione per realizzare alcune delle proposte dei bambini agli artigiani del
rione, con materiali eco-compatibili
RIONE MONTI ACCESSIBILE A TUTTI
Si intende attivare un processo progettuale a partire dalla lettura critica e partecipata del contesto urbano, tramite
operazioni di “mappatura” dei principali percorsi necessari allo svolgimento della vita pubblica, della qualità
degli attraversamenti pedonali, degli accessi, ecc.
Si p rovvederà quindi al la i potesi di e liminazione di barriere arch itettoniche ed inse rimento at trezzature
funzionali, ancorata alla massima fruibilità. Gli interventi saranno definiti in maniera condivisa e partecipata,
utilizzando anche simulazioni e sperimentazioni temporanee.
RICHIESTE AL MUNICIPIO I e Principali attività previste:
•
•
Costruzione di un Tavolo permanente per la qualità urbana: un luogo di confronto tra tutti gli attori
coinvolti nel processo di trasformazione urbana.
organizzazione di attività d i “formazione” riguardo il significato di qualità della vita e qualità
ambientale nel Rione (workshop tematici su accessibilità, spazi pubblici, verde urbano, ecc.).
Formazione intesa come elemento strategico del progetto di partecipazione, per aggiornare e formare i
tecnici, i residenti, facilitare il dialogo, lo scambio tra i differenti attori coinvolti.
Secondo Caso Studio
Il Bilancio Partecipativo Municipio Roma IX 2
Il processo di bilancio partecipativo ha coinvolto tutto il territorio municipale: 807 ettari di estensione e 134.078
abitanti. I principali temi trattati sono stati: Opere Pubbliche – Recupero di spazi per attività culturali, sociali e di
partecipazione – Riqualificazione urbana – Ambiente – Traffico e Mobilità
Il tale processo ha avuto un valore sia consultivo che deliberativo. Le proposte dei cittadini, sono state inserite
nel Bilancio municipale 2009.
Vista l’estensione nel Municipio IX, il territorio è stato suddiviso il quattro quadranti, che corrispondono ai
quartieri. E’ stata realizzata una mappatura degli attori territoriali: associazioni, comitati di quartiere e tutti gli
organismi impegnati in attività significative per il territorio.
Il processo partecipativo si è realizzato attraverso tre fasi. La prima fase di assemblee, due in ogni quadrante,
durante le qu ali i cittadini han no av anzato le l oro prop oste, con il suppo rto d ei tecni ci dell’Un iversità di
RomaTre e gli attori del teatro forum. La seconda fase dei Tavoli di valutazione dove i delegati dei cittadini,
tecnici dell’università ed i funzionari del Municipio hanno applicato l’analisi multicriteri per arrivare ad una
graduatoria di proposte integrate, con criteri decisi in forma partecipata. Nella terza fase si è effettuato un
sopralluogo nei quadranti del Municipio e un’assemblea finale interquadrante con la restituzione dei risultati da
parte dei delegati al resto della cittadinanza e alle autorità politiche. Il processo ha coinvolto nel complesso più di
mille persone. Le proposte favorite sono state recepite nel Bilancio attraverso l’iter tradizionale, il Municipio ha
organizzato un’alt ra a ssemblea pub blica pe r com unicare a tutta l a cittadi nanza quali prop oste e rano state
finanziate ed inserite nel bilancio aprendo un confronto pubblico sugli eventuali scostamenti rispetto al risultato
del percorso partecipativo.
Delle 101 proposte iniziali individuate nell’ambito del processo di Bilancio Partecipativo ne sono state scelte 40
Da queste 40 proposte sono stati sviluppati i progetti integrati.
Il processo è stato finanziato dalla Regione Lazio. Parte di questo racconto è stato utilizzato per la scheda del Atlante della Partecipazione,
Regione Lazio 2009, autori Serena Bianchini, Adriana Goni Mazzitelli.
2
Festa D., Goni Mazzitelli A. , Moretti L., Petrucci V.
5
Progettare con la comunità a Roma in contesti urbani di complessità sociale, culturale e politica crescente
n.
PROGETTI INTEGRATI*
1
La riqualificazione della zona di via del Mandrione
2
La futura piazza coperta di “Arco di Travertino”: i servizi per gli abitanti, lo spazio polivalente e i
luoghi della partecipazione; il parcheggio e il piano di mobilità sostenibile nell’area circostante
3
Razionalizzazione del trasporto pubblico
4
Sensibilizzazione degli abitanti alle problematiche ambientali
5
Nuovi spazi per le attività sportive
6
Mobilità sostenibile: nuove piste ciclabili e percorsi pedonali protetti
7
Centri anziani
8
Nuove aree di parcheggio nel Municipio
9
Un nuovo piano della viabilità locale elaborato con la partecipazione dei cittadini
Il percorso di Bilancio ha permesso di informare i cittadini sulle competenze del Municipio in attesa di un pieno
decentramento e di il lustrare i n m odo t rasparente l a distribuzione della s pesa p ubblica. At traverso l a
partecipazione i cittadini hanno potuto fare proposte operative per il miglioramento e lo sviluppo del proprio
territorio e rappresentarle in modo collettivo ai propri rappresentanti politici ed istituzionali, promuovendo, così,
la “cultura della partecipazione” a livello locale.
Il progetto di Bilancio Partecipativo sviluppato nel Municipio Roma IX, si colloca a pieno titolo nel contesto
storico e politico della città di Roma, e si lega a fenomeni sociopolitici ed amministrativi a varie scale: locale,
nazionale ed internazionale.
I Municipi di Roma hanno acquisito una certa autonomia amministrativa nel 2001. Questo decentramento ha
creato una nuova istituzione di prossimità in ricerca d'identità. Le competenze assai limitate contrastano con il
presupposto di sussidiarietà e con il bisogno di prossimità particolarmente spiccato in un contesto di incertezza
politica e di forte propensione storica all’autorganizzazione.
La po ssibilità d i fare ap pello alle p ratiche d i partecipazione se mbra po ter rispo ndere a molteplici ob iettivi:
conoscere e mettere a sistema la risorsa del territorio implicandole direttamente nelle politiche di prossimità;
ridefinire la domanda del servizio e le necessità del territorio e dunque rafforzare la posizione dei Municipi nel
dialettica costante con il Comune di Roma, dare una risposta alla diffusa diffidenza verso la politica statalista e
alla richiesta degli elettori di approcci innovativi e inclusivi.
Sul piano della comunicazione, particolarmente interessante è stato l’utilizzo del Teatro interattivo facente capo
alla più ampia esperienza del Teatro dell’Oppresso di Augusto Boal.
Tali tecn iche hanno favo rito un a co municazione i nformale e i nterattiva all ontanando le frizion i fron tali tra
cittadini ed amministratori. H anno co nsentito inoltre l a p resa d i parola da parte d i categorie fr agili nell a
comunicazione verbale o semplicemente non abituate alle modalità comunicative di tipo assembleare.
Sul piano dell’interazione tra saperi e poteri viene adottata una metodologia di valutazione multicriterio applicata
in gruppi ibridi. Il metodo multicriterio offre la possibilità di scegliere tra opzioni alternative per promuovere un
accordo tra diversi punti di vista, interessi e poteri. La costruzione di criteri di valutazione condivisi e la scelta
accordata d el peso da attri buire a ciascun criteri o n ella scelta è l a base di val utazione m ulticriteri. Ta le
metodologia promuove la discussione e permettere ai partecipanti di concordare sulla modalità di valutazione,
piuttosto che sulle soluzioni. Ciò favorisce lo scioglimento dei conflitti dal momento che viene trovato l’accordo
sui criteri generali che verranno applicati alle proposte più che la proposta migliore.
Tuttavia l’ep ilogo del p rocesso è fo rtemente legato al la d ifficile dialettica po litica tra l a n eoeletta giun ta
comunale di Roma e i Municipi. La prassi politica di integrare le proposte municipali nel bilancio comunale
viene de rogata d al ne oeletto si ndaco che p rocede al l’approvazione d el B ilancio senz a a lcuna co nsultazione
svuotando di senso i percorsi di BP. A nulla valgono le contestazioni e le mobilitazioni dei municipi coinvolti.
Pertanto quello che a livello municipale sembrava u n pro cesso chiaramente d ecisionale si trasforma in una
esperienza puramente consultativa sul piano degli effetti diretti.
Ciò riporta alla fragilità delle Istituzioni municipali che pur implementando il ruolo di dialogo e di prossimità col
cittadino hanno di fatto un’autonomia patrimoniale incompleta che compromette molte iniziative e doppiamente
offre l’alib i ad un a strumentalizzazione politica lib eratoria rispetto al dialogo i ngaggiato coi cittadini
consentendo di de mandare le colpe de lla mancata r ealizzazione delle proposte cittadine all’istituzione
sovraordinata e politicamente antagonista. In positivo va detto che questa mancata accettazione da parte del
Festa D., Goni Mazzitelli A. , Moretti L., Petrucci V.
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Progettare con la comunità a Roma in contesti urbani di complessità sociale, culturale e politica crescente
Comune ha spinto e stimolato i Municipi a cercare soluzioni creative rispondendo a bandi provinciali e regionali
e con ciò acquisendo autonomia e riempiendo in parte di senso l’identità di questa istituzione di prossimità.
Queste osservazioni finali sull’interazioni con le Istituzioni sovra-locali rafforzano la necessità di una lettura
transcalare dell’esperienza partecipativa ed obbligano a leggere le esperienze municipi in relazione anche alla
più ampia esperienza della Regione Lazio e del contesto italiano.
3. Riflessioni Finali
Sottesa alle esperienze presentate emerge una lettura del territorio come «soggetto vivente ad alta complessità»
(Magnaghi, 2005), intendendo per soggetto vivente nè il complesso di ecosistemi, nè la società presente che vive
in un determinato luogo e neppure il milieu (inteso come giacimento socioculturale di un luogo). Per tale autore
il territorio è soggetto vivente in quanto prodotto dalla interazione di lunga durata tra insediamento umano ed
ambiente, ciclicamente trasformato dal succedersi delle civilizzazioni; non è un oggetto fisico, («il territorio non
esiste in natura»), piuttosto rappresenta l’esito di un «processo di territorializzazione», ovvero un processo di
strutturazione dello spazio fisico da parte della società insediata; il suolo, la terra, l’ambiente fisico, il paesaggio,
l’ecosistema, l’architettura, le infrastrutture non sono ancora il territorio, essi ne rappresentano i supporti fisici e
simbolici.
La specificità del territorio consiste nel suo essere esito della capacità di strutturazione simbolica dello spazio,
consentendo il riconoscimento di una correlazione fra luogo fisico e spazio culturale, simbolico, economico della
società insediata; i l t erritorio è inscindibile sia dai s uoi s upporti m ateriali c he da lle diverse forme di
appropriazione che si sono succedute. Esso e’ frutto delle relazioni (concrete o astratte) tra uomo e ambiente in
un c ontesto tri dimensionale s ocietà-spazio-tempo. Ogni i ndividuo ( in questo cas o attore si ntagmatico) si
"appropria" nel corso del tempo dello spazio con cui intrattiene queste relazioni. Rilevante il fatto che in questa
posizione, rispetto alla precedente, la territorialità rappresenta un processo aperto che dipende dall'individuo e
dal tipo di relazioni instaurate con lo spazio Si tratta, in definitiva, di una visione della territorialita’ in chiave
relazionale (C. Raffestin)
I due casi ci fanno capire che il ribaltamento metodologico (Villasante,2006) viene dato dal cambio di posizione
dei ruoli nella pianificazione (Magnaghi,2005), dove il pian ificatori, o meglio, il gruppo interdisciplinare di
pianificatori, mediante tecniche di conoscenza delle pratiche culturali locali (Sclavi, 2003, Althabe e Selim,2000,
Goni Mazzitelli,2007 ) e l’avvio di processi di progettazione partecipata con gli attori locali riesce a collocarsi
come med iatore e i nterprete deg li i nteressi co llettivi (Ostrom, 2005- El ster,1991) ed il c omplesso mond o
politico-amministrativo degli interessi globali nella costruzione della città (Sassen,2003).
Il coinvolgimento diretto dei cittadini nella gestione delle risorse pubbliche (De Souza Santos et alter 2003) è
una grande opportunità per porre al centro del governo del territorio i bisogni reali delle persone. La criticità
potrebbe essere rappresentata dal carattere sperimentale di questa pratica e dalla mancanza di opportunità per
realizzare spazi permanenti di partecipazione (Cellamare,2006) dove arrivare ad approfondire ogni segnalazione
e sviluppare pro getti d ettagliati, anche fino alla fase e secutiva i n fo rma p artecipativa (Giangrande, Mortola
2000). In oltre nel caso dei Mun icipi romani, ad esem pio, non god endo di au tonomia finanziaria, tali
coinvolgimento e partecipazione de vono t rovare applicazione s oprattutto n el r afforzamento d el p rincipio d i
sussidiarietà e nell’attuazione del pieno decentramento, che permetta una dimensione più adatta ad una microurbanisitica partecipativa (Talia, 2003, Cremaschi,1994).
Infine, l’ascolto attivo, e l’approccio olistico al territorio, ci ha permesso di capire la ricchezza nelle diverse
voci, dai bambini, agli artisti, alle associazioni che sembrano più reticenti, ma che dopo dimostrano di essere
quelle che rimangono fedeli alla difesa del territorio, dopo i grandi progetti e le battaglie medianiche. Le due
grande sfide per l’equipe sono: da una parte arricchire le metodologie e migliorare i linguaggi per arrivare
ancora di più ai gruppi che sono lontani dalle reti decisioniali dei territori, per esempio altre etnie e gruppi
marginali; da un'altra parte lo sviluppo di esperienze di carattere incrementale all’interno delle amministrazioni
pubbliche che contaminano i diversi ambiti della pianificazione e incorporano la visione dei cittadini come parte
di una nuova cultura di governo e costruzione del territorio.
Festa D., Goni Mazzitelli A. , Moretti L., Petrucci V.
7
Progettare con la comunità a Roma in contesti urbani di complessità sociale, culturale e politica crescente
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Mutare lo sguardo: le periferie da criticità a motori progettuali dell’innovazione urbana
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
Mutare lo sguardo: le periferie da criticità a motori
progettuali dell’innovazione urbana
Barbara Lino
Dipartimento Città e Territorio
Università degli Studi di Palermo, [email protected]
Tel/fax 3478320956
Abstract
Le pratiche e le esperienze più recenti nel campo della rigenerazione urbana ci propongono una riflessioneazione sulle periferie considerate non solo come concentrati di criticità, ma come risorse strategiche per la
riqualificazione della città nel suo complesso attraverso il riposizionamento del loro ruolo nella complessiva
armatura urbana.
Il paper indaga nuove prospettive e sfide connesse ai progetti di trasformazione dei quartieri periferici,
interrogandosi sulla natura delle strategie da mettere in campo nei processi progettuali per meglio cogliere le
potenzialità delle periferie, intese quali frontiere del dinamismo urbano, “materiale” per la trasformazione
della città contemporanea e per il progetto del suo futuro.
1. Periferie urbane: da criticità a risorsa
I territori periferici sembrano un’ineluttabile necessità funzionale per gli agglomerati urbani nel loro complesso
che, gerarchizzandosi, hanno marginalizzato progressivamente questi spazi per mantenere, altrove, la città delle
funzioni istituzionali, del potere economico e politico e hanno allontanato dalle aree centrali pregiate funzioni
detrattrici di qualità, causa di degrado, marginalità e criticità.
Se sg uardi tropp o rav vicinati restitu iscono de lle aree p eriferiche un ’immagine p revalente d i p roblematicità,
mutando il punto di vista di osservazione, e allargando la prospettiva, invece, la natura ed il valore delle periferie
cambia.
Spostando il punto di osservazione sulle periferie da un’ottica locale ad un’ottica comunale e anche ad un’ottica
territoriale più ampia, deriva, da un lato, il riconoscimento di questi luoghi come aree meno sature con margini
più ampi alla trasformazione e, dall’altro, del loro ruolo come “centri” rispetto alle corone più esterne e alla
cintura metropolitana nonché spesso come “aree cerniera” rispetto alle grandi risorse ambientali che si sono
conservate ai margini della città o prossime al sistema delle infrastrutture territoriali di connessione (ferrovie,
autostrade, aeroporti, etc.).
Allargare lo sguardo ed il campo di riflessione implica pensare che i quartieri periferici si possano collocare in
un nuovo “centro” spaziale e funzionale, e diventare materiali del progetto giocando un ruolo strategico nella
riqualificazione complessiva dell città (Infussi, 2007).
In un’ottica pro-attiva è dunque possibile riconoscere la presenza nelle aree periferiche di un elevato potenziale
inespresso di trasformazione.
L’obiettivo di qualità u rbana, tragu ardato tanto attraverso l a m atrice della sosten ibilità ambientale, q uanto
attraverso quella dell’equità sociale o della qualità degli spazi pubblici e degli stili di vita degli abitanti, trova,
nelle periferie delle città, la sfida più importante e, al tempo stesso, una delle più importanti opportunità.
Le città del futuro, non potranno più contare solo sulla qualità che si irradia dal proprio centro, perdendo forza
progressivamente, man mano che ci si allontana da esso. La vera sfida e la vera opportunità sarà “fare centro dai
margini”, attivare nelle aree periferiche opportunità in grado di mettere in moto risorse ambientali, culturali e
opportunità economiche cap aci d i incidere profondamente su lla qualità deg li stili d i vita della città nel suo
insieme, capaci di generare una mixité non solo sociale e di funzioni, ma anche di forme, di configurazioni
spaziali, di tempi e di modi di vivere la città che consente di accrescere la varietà dell’esperienza della vita
cittadina (Carta, 2006).
Dinamiche ed evolutive, e con margini più ampi di trasformazione al confronto con parti della città più compatte
e consolidate, le peri ferie sono inv estite da pre ssanti din amiche di t rasformazione che le sottopongono a
“traiettorie diversificate di mutamento” (Jacquier, 2002) ed a tensioni trasformative alimentate da un processo
continuo di diversificazione delle attività e delle funzioni.
Barbara Lino
1
Mutare lo sguardo: le periferie da criticità a motori progettuali dell’innovazione urbana
Nelle periferie trovano una convergenza feconda non solo interventi di valorizzazione immobiliare e la nascita di
nuovi insediamenti commerciali o per il terziario, ma anche esperienze di sperimentazione di residenze ecosostenibili, nu ove prati che d’u so d ello sp azio pub blico dei q uartieri, nuo ve forme dell ’abitare ind ividuali e
collettive, politiche culturali, la creazione di nuove centralità urbane integrate attraverso la delocalizzazione di
funzioni urbane pregiate, etc.
Le periferie sono cioè i luoghi più idonei a sperimentare nuovi modelli insediativi o di fruizione della città capaci
di riduzione del tasso di mobilità, di elevamento della qualità urbana, di implementazione dell’offerta di città
attraverso forme più sostenibili e integrate di gestione, progettazione e politiche.
“Metafora concreta” di un modello evolutivo in atto, esse dunque si propongono come riserva di risorse preziose
(ecologiche, architettoniche ed immobiliari, sociali e culturali, luoghi abbandonati, aree industriali dismesse,
etc.), come campi di sperimentazione di pratiche e politiche e componenti attive di un nuovo “nuovo modello di
città”.
2. I quartieri Borgo Ulivia e Bonagia a Palermo
Le riflessioni del presente contributo prendono forma sia nell’ambito delle attività di ricerca del dottorato in
Pianificazione Urba na e T erritoriale1, ch e d el pr ogramma di r icerca di i nteresse naz ionale – La “città
pubblica”come laboratorio di progettualità. La produzione di linee guida per la riqualificazione sostenibile
delle periferie urbane – finanziata dal Ministero dell’università e della ricerca2.
Nell’ambito della ricerca sulla “città pubblica”, i temi di indagine e le considerazioni di carattere generale sui
temi della rigenerazione delle periferie si sono alimentate del confronto metodologico e sperimentale degli esiti
delle indagini effettuate sui diversi contesti locali, indagati nel vasto e differenziato scenario delle città italiane
coinvolte nella rete della ricerca3.
Le indagini effettuate a Palermo4 hanno restituito tra i casi locali più interessanti quello del sistema dei quartieri
ERP di Bonagia (fig. 1) e Borgo Ulivia (fig. 2) localizzati nella periferia sud della città. Questi quartieri possono
essere c onsiderati come s ineddoche di alcune im portanti q uestioni di c arattere g enerale s ul tema della
riqualificazione dei quartieri urbani periferici e sono stati scelti, sulla base del precipuo approccio dell’unità di
ricerca locale, non come esempi di quartieri periferici estremamente problematici e concentrati di criticità ma,
piuttosto, per l a presen za, pur in sit uazioni di m arginalità e degrado, di scintille di qualità, di riserve di
opportunità per il progetto di rigenerazione.
Collegati tra loro da una sola strada che supera soprelevandosi la cesura della circonvallazione, i quartieri, che
sorgono l’uno di fronte all’altro, sono costituiti prevalentemente da edilizia pubblica e sono caratterizzati da una
forte monofunzionalità, dalla carenza di servizi di base e da un diffuso livello di degrado sia degli spazi comuni
che delle un ità residenziali. Sebbene la strad a ad alta v elocità ga rantisca un bu on liv ello di connessione al
sistema della città centrale (anche se la mobilità è quasi interamente demandata al sistema di trasporto privato),
sia le condizioni orografiche dell’are a, che la presen za ste ssa de lla circ onvallazione c he separa i quartieri
determinano un forte isolamento e p ongono co me prim a istan za di pro getto l’i ntegrazione fun zionale e la
ricucitura fisica tra le due aree.
I due quartieri possono essere letti come enclaves residenziali intercluse tra emergenze del paesaggio che di fatto
ne definiscono confini fisici ben riconoscibili: la corona delle colline ed i campi coltivati che costituiscono il
limite a sud del quartiere Bonagia e l’ampia ansa del fiume Oreto che delimita a nord l’area di Borgo Ulivia.
1
Il contributo restituisce gli esiti della Tesi svolta nell’ambito del Dottorato in “Pianificazione Urbana e Territoriale” presso
il Dipartimento Città e Territorio dell’Università degli Studi di Palermo (XIX ciclo) dal titolo “Periferie in trasformazione.
Politiche, piani e progetti per la riqualificazione delle periferie urbane”.
2
Le considerazioni del contributo si sono alimentate della partecipazione di chi scrive alla Ricerca PRIN 2005 dal titolo “La
"città pubblica" come laboratorio di progettualità. La produzione di Linee guida per la riqualificazione sostenibile delle
periferie urbane” coordinata da Paola Di Biagi (Università di Trieste). Chi scrive è stata componente dell'Unità di Ricerca
locale “Processi e regole per la rigenerazione urbana: riqualificazione sostenibile dell'edilizia residenziale pubblica per la
centralizzazione e valorizzazione delle periferie” coordinata da Maurizio Carta (Università di Palermo).
3
Il programma di ricerca ha coinvolto sei sedi universitarie variamente dislocate sul territorio nazionale: Università di Napoli
“Federico II”, Palermo, “Sapienza” Roma e Trieste, Politecnici di Bari e Milano.
4
Dell’unità di ricerca di Palermo fanno parte, oltre all’autore: Maurizio Carta (coordinatore, prof. ordinario, Dip. Città e
Territorio), Alessandra Badami (ricercatore, Dip. Storia e Progetto), Daniele Ronsivalle (assegnista di ricerca, Dip. Città e
Territorio), Claudio Schifani (assegnista di ricerca, IUAV); per l’unità dei geografi, Giulia de Spuches (prof. associato, Dip.
di Beni Culturali, Università di Palermo), Marco Picone (ricercatore, Dip. di Beni Culturali), Angela Alaimo (Dip. di Beni
Culturali), Antonio Sciabica (dottorando in Pianificazione urbana e territoriale, Dip. Città e Territorio); infine, per gli esperti
di settore, Mario Milone (ricercatore, Dip. Città e Territorio); Sandro Scalia (fotografo, Accademia di Belle Arti di Palermo)
e Anita Giurato (fotografa, es perta in design del paesaggio); Salvatore La Rosa (ordinario di Controllo Stati stico della
Qualità, Dip. Contabilità Nazionale ed Analisi dei Processi Sociali), Silvana Curatolo (Dip. Contabilità Nazionale ed Analisi
dei Processi Sociali), Isabella Munda (Dip. Contabilità Nazionale ed Analisi dei Processi Sociali).
Barbara Lino
2
Mutare lo sguardo: le periferie da criticità a motori progettuali dell’innovazione urbana
Figura 1 Bonagia, bagli agricoli interclusi nel tessuto del quartiere (foto di Sandro Scalia)
Figura 2 Borgo Ulivia, i giardini e gli isolati residenziali (foto di Sandro Scalia)
Le analisi urbanistiche e lo studio dei processi di trasformazione in atto in queste aree hanno evidenziato oltre a
situazioni di problematicità e marginalità l’esistenza nei quartieri di risorse che possono porsi come materiale
prezioso per il progetto di rigenerazione.
Aree di contatto tra paesaggio urbano e periurbano, i quartieri sono prossimi ad importanti risorse ambientali e
sono i nvestiti, a llo stesso tem po, da alcu ne trasformazioni che p ossono r appresentare l’occasione pe r la
Barbara Lino
3
Mutare lo sguardo: le periferie da criticità a motori progettuali dell’innovazione urbana
costruzione di processi di rigenerazione urbana in grado di ridefinirne il ruolo nella complessiva struttura della
città.
La lettura delle trasformazioni in atto nei quartieri, in particolare, è stata articolata su due livelli, un livello
definito micro ed un livello definito macro, ognuno di essi intende restituire una scala differente di attenzione
caratterizzata da diversi attori in gioco nei processi.
Alla scala delle micro-trasformazioni è stato possibile evidenziare da parte degli abitanti alcune pratiche di
appropriazione degli “spazi” dei quartieri attraverso usi “impropri” delle aree: la trasformazione in orti privati di
alcune aree verdi pubbliche prospicienti le unità abitative ai piani terra degli edifici, la chiusura dei piani terra
porticati cond ominiali per so pperire alla mancanza di aree di p archeggio cu stodito e p er ev itare z one bu ie
insicure, o ancora la trasformazione di alcuni spazi comuni attraverso la creazione di luoghi di comunità in cui
gli abitanti si riuniscono in nome di una comune identità religiosa.
Gli abitanti che vivono i quartieri e ne usano quotidianamente gli spazi chiedono luoghi in cui esercitare pratiche
individuali e collettive (fig. 3).
Attraverso le analisi è stata inoltre evidenziata la nascita di forme di autogestione degli spazi comuni da parte
degli abitanti, come nel caso in cui a Borgo Ulivia i residenti hanno organizzato forme di gestione e cura degli
spazi verdi comuni.
Queste pratiche cosiddette “improprie” sono state considerate elementi di ricchezza per il progetto e non solo
pratiche “deviate” degli u si dello spazio p ubblico: in q uanto pra tiche sp ontanee esse e splicitano domande
inespresse, no n sod disfatte dalle destin azioni d’uso or iginarie assegn ate da i pro getti d ei qu artieri, sono
espressione di istanze della collettività a cui il progetto di trasformazione deve dare risposta.
Figura 3 Borgo Ulivia, le trasformazioni dei piani terra (foto di Sandro Scalia)
Alla scal a d elle macro-trasformazioni sono prev isti n ei quartieri al cuni interventi ch e, se me ssi a sistema,
potrebbero costituire un’importante occasione per ridefinire il ruolo di queste aree nelle più generali strategie
urbane e m igliorarne l e c ondizioni d i vi vibilità at traverso l ’immissione di n uove f unzioni. Tr a i p rogetti
nell’agenda politica in atto vi è il trasferimento in quest’area dei nuovi Mercati generali della città e la creazione
di una piastra commerciale e per il terziario che costituendo un ponte sulla circonvallazione ricuce fisicamente i
due quartieri: queste nuove funzioni potrebbero diventare l’occasione per delocalizzare attività oggi poste in aree
centrali (a loro vo lta “allegg erite” e d econgestionate) sfruttando la po sizione dei qu artieri in un’ area ch e
costituisce la porta sud della città per incanalare flussi ed economie sino ad oggi di puro attraversamento dalla
cintura metropolitana verso il centro della città.
Tra gli altri progetti previsti vi sono poi la creazione del parco fluviale de ll’Oreto e l’attuazione di alcuni
programmi co mplessi tr a cu i un C dQ2 che ricono sce ne lla dimensione am bientale ed eco logica la matrice
principale per la riqualificazione dei quartieri lavorando sul sistema delle piste ciclabili e pedonali e sul recupero
degli spazi verdi interni.
Le trasformazioni previste offrono la possibilità di ricollocare in modo nuovo Borgo Ulivia e Bonagia rispetto
all’attuale offerta di città, immettendo nuovi fl ussi nell’ area, nu ove opportunità eco nomiche, fav orendo la
creazione di nuove centralità e migliorando il livello di mixitè funzionale e della qualità degli spazi pubblici. La
creazione del parco urbano fluviale e le azioni messe in campo dal CdQ2 fanno del rapporto tra residenza, verde
e frammenti di paesaggio agricolo intercluso tra i tessuti residenziali, l’occasione per offrire un nuovo modello di
abitare sostenibile, preservando la bassa densità, migliorando il sistema della mobilità slow e collegando gli spazi
dei quartieri con il parco urbano fluviale attraverso la ricucitura del sistema degli spazi pubblici e delle aree verdi
presenti. La creazione di un sistema integrato tra residenza e verde potrebbe offrire in questo modo un modello
di qualità in cui sperimentare uno stile di vita alternativo rispetto ai quartieri della città centrale compatta.
Barbara Lino
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Mutare lo sguardo: le periferie da criticità a motori progettuali dell’innovazione urbana
3. Tra micro e macro, politiche locali e politiche di sistema: quali strategie
possibili per un’azione di riequilibrio e di integrazione delle periferie
urbane
La sf ida per cog liere l ’opportunità d elle pe riferie rim anda, dun que, ad un dup lice ord ine di qu estioni e d i
strategie conseguenti.
Un primo ordine, esito di una prospettiva di osservazione ampia ed “estroversa”, attribuisce alle aree periferiche
un ruolo strategico in quanto parti di un sistema urbano complesso e in quanto opportunità per contribuire ad un
suo riequilibrio. Questo approccio richiede un processo di forte integrazione, in cui la questione fondamentale
che si pone è quella di spostare il discorso dalle periferie alla città, sottrarle da un trattamento di cura localizzato
e sp ecialistico, p er rein serirle entro un’idea generale di sviluppo. Gli stru menti d i intervento su lle p eriferie
devono offrire indirizzi, metodi e provvedimenti in grado di intercettare, interpretare e trasformare l’intera città
facendo di esse una componente strutturale della stessa, e non più un elemento separato, altro rispetto ad una
città il cui valore e la cui identità si misura quasi esclusivamente sulla base della qualità del suo centro.
Da questo pu nto d i osservazione div entano fo ndamentali t anto un a stra tegia d i “r iconnessione” qu anto un a
strategia mirata ad uno “sviluppo policentrico” del sistema urbano che sostituisca progressivamente una città
fatta da un centro e molte periferie con una composta da molti centri e dagli spazi intermedi che ricevono
l’intersezione dei flussi.
La strategia della “riconnessione” va intesa nel senso di azioni in grado di elimininare le barriere (fisiche ma
anche culturali) tra i quartieri e la città e, evitandone l’isolamento, di connettere questi ai flussi di centralità
urbana (riconnessione quartiere-città). Un adeguato livello di accessibilità garantisce il raggiungimento di servizi
collocati all’esterno dei quartieri periferici e costituisce il principale motore d’incentivo per il miglioramento
della qualità della vita, incidendo sulla facilità di accesso ai servizi ma anche sulla qualità ambientale e sulla
sicurezza.
L’obiettivo di uno “sviluppo urbano policentrico”, invece, deve essere attuato attraverso la decentralizzazione
nei quartieri di funzioni molteplici ed integrate: servizi di rango metropolitano, funzioni ed attività d’eccellenza,
capaci di intercettare un sistema di flussi che transitano in dimensioni sovraurbane, in grado di ricollocare le
periferie nello sviluppo della città (attività sportive, commerciali, ludiche, direzionali, universitarie e di ricerca) e
di rafforzare i processi di equità e coesione sociale.
Un secondo ordine di questioni si addensa ad una dimensione più ravvicinata, “introversa”, micro, in cui la
periferia richiede innanzitutto un’azione di “complessificazione” dei quartieri, sensibilità spiccate del progetto e
della cura degli spazi pubblici e del vivere quotidiano, delle fragilità sociali ed economiche, delle minoranze e
delle identità culturali in essa presenti. Una tensione progettuale integrata, capace di attivare, attuare e alimentare
azioni congiunte che siano capaci di intervenire contemporaneamente sui diversi capitali (sociale, architettonico,
urbanistico ed ambientale).
Da un’ottica “interna” al quartiere assume un ruolo privilegiato lo spazio pubblico, in quanto “coagulatore”,
“addensatore” di qualità, principale attivatore di connessioni e legami. Il micro-tessuto connettivo degli spazi
collettivi è, infatti, il materiale principale di un progetto capace di risolvere la frammentazione esistente nei
quartieri, tessendo nuove relazioni tanto spaziali, quanto funzionali e identitarie.
Lo spazio pubblico dei quartieri è quello delle piazze, dell’aggregazione sociale e culturale, ma anche quello
delle strade, dei percorsi pedonali e ciclabili, della ricucitura; è quello delle aree verdi e degli orti comuni ma
anche quello dei piani terra degli edifici (utilizzabili attraverso la riconversione a nuovi usi per attività collettive
o per nuovi spazi commerciali) e degli spazi del commercio.
Tra le strategie possibili per orientare il progetto dello spazio pubblico nelle periferie vi è il riconoscimento di
vocazioni e istanze es presse dalle com unità locali anche att raverso usi “imprevisti” che si de positano i n
materiali a nche m inimali di trasformazione e ridisegno dello spazio e che si m anifestano attra verso
microtrasformazioni, ap propriazioni, forme di au togestione. U si ch e nascono n el rispondere a do mande ch e
insorgono nell e pratich e di vita q uotidiane e, quindi, che consentono di ri conoscere le do mande implicite
inespresse dalle comunità locali. Possibili strategie che si facciano carico di queste istanze, reinterpretandole e
traducendole in azioni sostenibili, potrebbero essere o l’affidamento in gestione a gruppi di abitanti degli spazi
aperti di pertinenza delle abitazioni ad esempio per realizzare e gestire orti e giardini, cioè pratiche che pongano
al centro dell’attenzione l’idea di cura degli spazi sottraendoli alle forme di fruizione non regolarizzate; o anche,
più in generale, la promozione di occasioni di confronto e riflessione o di nuove forme di welfare capaci di reinterpretare e immaginare modi e tempi d’uso sia degli spazi individuali sia di quelli collettivi.
Lavorare sullo spazio pubblico significa favorire nuovi stili di vita, sperimentare nuove forme dell’abitare sociale
attraverso la diversificazione dell’offerta in funzione delle diverse categorie di users (studenti, giovani coppie,
anziani, etc.), proporre forme di mobilità slow, occasioni per la fruizione “lenta” dei quartieri e la diffusione di
nuove forme di socialità, di differenziazione negli stili di vita che investono il rapporto con lo spazio esterno e
gli spazi di prossimità.
Il progetto di rigenerazione delle periferie urbane, per concludere, dunque, rimanda al principio di “integrazione”
inteso secondo le tre dimensioni prevalenti dell’integrazione di spazi, di funzioni e di strumenti. Esso richiede
Barbara Lino
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Mutare lo sguardo: le periferie da criticità a motori progettuali dell’innovazione urbana
una spiccata capacità di integrazione di livelli e strumenti, attori e interessi, nel senso di una transcalarità che sia
tanto verticale (tra scale di intervento), quanto orizzontale (tra settori e destinatari), capace di contaminare i
campi di intervento avviando fertili sinergie tra la dimensione delle politiche e quella del ri-disegno dello spazio
ampio e complesso dell’abitare.
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Barbara Lino
6
Dall’integrazione all’accoglienza: spazi aperti e valorizzazione delle diversità
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
Dall’integrazione all’accoglienza: spazi aperti e
valorizzazione delle diversità
Silvia Mantovani
DUPT (Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione Territoriale)
Università di Firenze, [email protected]
Tel/fax 055.495825
Abstract
La rivoluzione concettuale introdotta dalla Nuova Scienza ci aiuta a orientarci in situazioni di disordine e caos.
La sfida della complessità ci spinge così ad inventare nuove forme di pianificazione, capaci di imparare ad
organizzare la crisi, abbandonando le certezze, le semplificazioni e l’autismo disciplinare.
Gli spazi aperti diventano la base da cui partire, lo spazio della diversità, il piano del gioco su cui sperimentare
nuove forme di sviluppo e di paesaggio.
1. La complessità come presupposto
La città è sottoposta a domande contraddittorie.
Voler superare tale contraddittorietà è cattiva utopia. Occorre darle forma.
La città è il perenne esperimento di dare forma alla contraddizione.
Massimo Cacciari1
Integrazione è una d elle paro le ch e og gi m aggiormente co mpaiono ne i d iscorsi di p olitici, am ministratori,
giornalisti, i ntellettuali v ari, a s ottolineare la n ecessità, o q uanto m eno la v olontà di avvicinamento, di
riconciliazione tra diversi: cu lture l ocali e iden tità gl obale; sv iluppo e a mbiente; c ittà e n atura; p ubblico e
privato, e così via.
Integrare si gnifica letteralmente completare aggiungendo ciò che manca. Troppo spesso, però, questa azione
parte dal presupposto che ciò-che-viene-completato sia preponderante (come importanza, senso, valore) rispetto
a ciò-che-va-a-completare. C osì il c oncetto primario d i inserimento/ricomposizione di viene sinonimo di
assorbimento, di assimilazione. L’integrazione tanto auspicata, in molti casi, si trasforma quindi in alienazione
del diverso a ll’interno della maggioranza conforme, n el suo de potenziamento att raverso un a riduzione
unificante.
Inquietante è la vicinanza di questa parola con un'altra oggi molto di moda: integralismo. Condividendo la stessa
radice, i due termini fi niscono talvo lta per inseguire, an che se in modi d issimili, un o stesso fine: q uello
dell’annientamento del diverso attraverso la riduzione all ’unità; de l ragg iungimento dell’ordine, che è visto
come il bene supremo.
La chimera della nascita dell’ ordine dal Chaos originario che si trasforma in Cosmos, spazzando via una volta
per tutte ogni indeterminatezza, ogni dubbio e insicurezza, è un mito intramontabile.
Talvolta però l’ordine (o il suo eccesso), è nemico della libertà. Come sostiene infatti Lucien Kroll “l'ordine
monopolizza il potere d ecisionale e stru ttura in gerarch ie. Ap plicato all'u rbanistica e all'arch itettura diventa
avversario de ll'umanesimo e d ell'ospitalità e c onsente di m antenersi indifferenti ai disa stri p ortati
dall'inquinamento e dallo spreco. Non è un caso che l'Ordine sia sempre e solo singolare; più ordini confliggono
e quest o fa istantaneam ente di sordine. Ne c onsegue ch e è il d isordine a essere d iventato il naturale
rappresentante della gente” (Kroll, 2009).
Parallelamente, anche la ri voluzione concettuale i ntrodotta dal la N uova Scienza, ha ri valutato i l r uolo d el
disordine, sostituendo la complessità2 all’ordine lineare, ai modelli, a quei caratteri matematici, con cui fino ad
oggi ritenevamo essere stato scritto il grande libro della Natura.
Massimo Cacciari (2004), La città, Pazzini Editore, Rimini.
Il concetto di complessità è stato approfondito, tra gli altri, da Edgar Morin (Introduzione al pensiero compless/, Sperling & Kupfer,
Milano 1993); Mitchell Waldrop (Complessità. Uomini e idee al confine tra ordine e caos, Instar Libri, Torino 1995) e da Isabelle Stengers
e Ilya Prigogine (La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino 1999).
1
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Silvia Mantovani
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Dall’integrazione all’accoglienza: spazi aperti e valorizzazione delle diversità
L’idealizzazione di una realtà complicata, ma riducibile a sistemi semplici e stabili, si è scoperta infatti valida
solo per pochi casi limite, mentre la regola si è rivelata essere la caoticità dei sistemi dinamici, per i quali non
può essere fatta nessuna dettagliata previsione.
Nei momenti di crisi, inoltre, gli elementi di cambiamento, di discontinuità, non sono fenomeni al di fuori
dell'andamento regolare delle cose, ma sono parte di una evoluzione generale le cui logiche, a lungo termine, ci
sfuggono.
Questi momenti, però, non sono solo punti di rottura negativi, da contrastare, ma possono costituire il confine tra
due ordini diversi, il passaggio tra due fasi nel cammino del progresso (inteso come avanzamento della storia),
all'interno del quale è possibile agire in maniera creativa.
Ma se la Nuova Scienza ci ha mostrato che tutto è in movimento e in relazione, l’uomo continua a cercare di
imbrigliare la realtà in un equilibrio statico e rassicurante, di integrare il caos in un mondo newtoniano, fatto di
certezze e di incrollabile fede nell’esistenza di un ordine conoscibile e prevedibile.
In nom e di un riduzionismo sem plificante, promuoviamo anc ora una tra nquillizzante integrazione del
particolare, del singolare all’interno del generale, mentre la rivoluzione messa in atto dalla complessità ci spinge
ad i ntraprendere un pe rcorso aperto alle in novazioni, all ’accoglienza dell’eccezione, de lla ca sualità, de lla
deviazione.
Comunemente il termine accogliere, il cui significato originario è “raccogliere presso di sé”, presenta infatti
significati simili a quelli del verbo integrare. Ma ad essi aggiunge una sfumatura essenziale, che consiste nella
bene-volenza come presupposto dell’accettazione, dell’apertura al diverso, tipica di chi si pon e nei panni
dell’ospite, di “colui che sostenta o nutre i forestieri” senza fini di lucro, ma per sola umanità.
Accoglienza diviene quind i la pa rola ch iave di un n uovo umanesimo, d i un a ospitalità, che i n term ini
architettonici e urbanistici si traduce in accessibilità, in equità: ambientale, sociale, culturale.
All’onnipotenza tecnocratica si sostituisce la pratica della cura3, che sposta l’attenzione dal risultato al processo,
dalla l inearità d elle d ecisioni al la r ete de lle m ediazioni, e di viene i l p resupposto di un a ass unzione di
responsabilità che può nascere solo dall’ascolto e dalla relazione
La qualità, infine, supera la visione di una estetica formale basata su una statica armonia, su prescrizioni rigide
che definiscono usi, funzioni, forme e materiali, e che si trasforma in degrado e vandalismo ogni qual volta la
vita esce dagli schemi. Qualità diviene sinonimo di pluralità, a cui si affianca la capacità di prendersi cura, di
accogliere il diverso, l'inatteso. "The finished project has to be infused with life, and as time progresses, the built
design must start to lead a life of its own. The matter in hand is not to bring about a chosen aesthetics but to
carefully accompany the emergence of a new and often unexpected process (...)” (Brands, Loeff, 2002; p.69).
In quest’ottica la teoria del caos, allora, così come i concetti di auto-organizzazione, di sensibilità alle condizioni
iniziali, ecc…, acquistano “un significato paradigmatico che va al di là dei semplici confini dello specialismo
fisico” in quanto hanno un significato trasversale che “mostra come si possano ristrutturare i problemi della
spiegazione e della previsione. (...) Le leggi del caos sono una via per espandere il contesto scientifico, per poter
affrontare anch e i cam biamenti qu alitativi, le disco ntinuità, le i nstabilità, le si ngolarità, le p robabilità, le
irreversibilità, le novità, le emergenze...” (Ceruti, 1995; pp.14-15).
Sia a livello empirico che logico, si tratta quindi di accogliere e ridare valore all'incertezza, alle eccezioni, senza
negarle nella ricerca di una verità assoluta, di un ordine integralista.
La strada è quella tracciata dalla rivoluzione culturale della Nuova Scienza, ma ogni disciplina deve fare lo
sforzo di definire all'interno del proprio campo quella tensione sollevata dal pensiero della complessità, ch e
come è stato spesso sottolineato, non è la soluzione a tutti i problemi, ma è un nuovo problema a cui dare
soluzione.
2. Pianificare la crisi
Come m olte altre d iscipline, an che l a p ianificazione tradizionale si è sp esso po sta in una prospettiva
deterministica, lineare, che, attraverso l’applicazione di leggi generali, ha tentato di disegnare sulle carte una
volontà finalistica immobile, che escludeva ogni possibile evento non pianificato ed eliminava il tempo a favore
di un statica armonia.
In qu esto m odo, però, l 'ordine previsto non è stat o mai raggiunto, e si è persa l'o ccasione di sfruttare i
cambiamenti, di organizzare la crisi.
Come si è v isto, la r ivoluzione d ella N uova Sci enza, pr efigurando l a n ascita d i u na "t erza cul tura",
(contemporaneamente lontana da una scienza estranea all'uomo e da una irrazionale protesta antiscientifica),
"vale a dire un ambiente dove possa intrecciarsi l'indispensabile dialogo fra la procedura della modellizzazione
matematica e l'esperienza concettuale e pratica di quegli economisti, biologi, sociologi, demografi, medici, che
cercano di descrivere la società umana nella sua complessità" (Prigogine, Stengers 1999; p.35), ha indicato la via
da percorrere.
I tempi sono dunque maturi per iniziare ad impostare anche una terza pianificazione.
3
Il tema del lavoro di cura come modello esportabile nelle pratiche progettuali, è stato approfondito da Annalisa Marinelli nel saggio Etica
della cura e progetto, Liguori editore, Napoli 2002.
Silvia Mantovani
2
Dall’integrazione all’accoglienza: spazi aperti e valorizzazione delle diversità
Compreso infatti che qu ello ch e po ssiamo ragionevolmente d ire del fu turo è molto p oco, e molto spesso
destinato ad essere smentito dai fatti, l'unica possibilità è abbandonare la certezza del piano per accogliere,
interrogare, ed esplorare, ciò che Sun-Wu, il maestro della guerra, chiamerebbe il potenziale nascosto in ogni
situazione.
Di fronte al riproporsi continuo di eventi critici, le teorie della complessità ci mostrano infatti che esistono tre
diverse possibilità di scelta: arrendersi al caos, opporsi al caos, oppure riorganizzarsi.
Il sistema urbano, ad esempio, può opporsi all’imprevedibiltà dei cambiamenti tentando di irrigidire le sue
norme, le forme e le funzioni, sclerotizzandole e rendendole incapaci di modificarsi senza essere distrutte. E’ la
strada che molto spesso ha privilegiato l’urbanistica razionalista, che, per sua intrinseca vocazione, ha tentato di
raggiungere l’ ordine prestabilito, co ntrastando ogni eleme nto e qua lsiasi eve nto c he si allontanasse o
contraddicesse l'equilibrio cercato.
In quest’ottica, l’autismo tecnico-amministrativo, non ha lasciato spazio né ha creato spazio: per l’integrazione,
la comunicazione, l’accoglienza.
Al co ntrario l ’organismo u rbano p uò arrendersi al dis ordine, m odificandosi incessantemente, i n maniera
imprevedibile e incontrollabile, senza produrre mai una immagine riconoscibile o una identità stabile. E’ la
strada, ad esempio, della deregulation, dove il mercato diviene l’unica legge, che si sostituisce al sapere tecnico
e all’interesse pubblico, in una deriva individualistica che, come in un gioco di specchi tra amministratori e
amministrati, incoraggia l’irresponsabilità e la prevaricazione. E’ questa una delle tante forme di resa al caos,
che h anno determinato form e urb ane di ffuse, sen za disegno né identità precisa, i mmerse i n un am biente
devastato da uno sfruttamento miope e predatorio.
La nuova scienza della complessità ci insegna però che tra i due estremi (opporsi o arrendersi) esiste una terza
via, che è quella che consiste nel variare spontaneamente i rapporti tra gli elementi costitutivi, per raggiungere
una struttura temporaneamente coerente e ordinata, che risponde ad una logica di minima resistenza (massimo
beneficio con il minimo sfor zo). Un modo per resistere al cao s, d unque, è quello d i adattarsi al disordine
riorganizzandosi, sviluppando cioè strutture ordinate da situazioni caotiche.
L'autorganizzazione, in a mbito urb ano, e siste da s empre, in forme che nascono generalmente a livello
spontaneo: un tempo attraverso la "sedimentazione di una miriade di scelte di 'minima resistenza' compiute in
risposta a un preciso e ristretto insieme di necessità abitative, produttive, relazionali ecc..." (Donato, Lucchi
Basili, 1996; p.135), oggi attraverso le mille forme di abusivismo e di auto-appropriazione dello spazio messe in
atto da chi, escluso o deluso dalla progettazione urbana ufficiale, non fa resistenza alle regole, ma le ignora,
inventando altre strade, altri linguaggi attraverso i quali esprimere la propria identità, adattare e adattarsi al
proprio ambiente.
Più il contesto urbano è rigido e uniforme,quindi, più si moltiplicano le situazioni conflittuali, le trasgressioni, le
opposizioni, non essendoci spazio per l'adattamento, per la creatività individuale, per l'espressione delle diverse
identità
Una terza pianificazione, capace di superare, parafrasando Stenger e Prigogine, sia una progettazione estranea
all'uomo che una irrazionale protesta anti-urbanistica, inizia oggi a diffondersi in ogni piano o progetto che
rinuncia all’arroganza e all’au tismo d isciplinare e decisi onale, a ccogliendo i princ ipi di adattatività e di
apprendimento, che sono alla base dei meccanismi di autoregolazione.
La pluralità esistente di forme e di pensieri non può più infatti essere ricomposta, neppure in ambito urbano,
attraverso l'imposizione di un ordine esterno, come decenni di piani urbanistici hanno tentato di fare, ma va
accolta sviluppandone le poten zialità, riconsiderando i rappo rti tr a ordine e disordine, tra uomo e natura, e
imparando dalle scienze dure a riconoscere che la lontananza dall'equilibrio non è soltanto disordine e caos, ma
anche autorganizzazione, evoluzione, partecipazione.
Il pi ano d iviene al lora il m omento intermedio tra l' idea e la sua realizzazi one, ri fiutando og ni imm agine
definitiva, ma assumendo una forma, come quella dell'acqua, flessibile e adattabile. Il tempo diventa artefice,
all'interno di u na co ntinuità progettuale, che è stata defi nita come un pr ocesso co ntinuo d i interactive
implementation4.
Infine, lo spostamento dell’attenzione dal fine al processo, dai singoli oggetti allo sfondo delle relazioni, porta
definitivamente in luce come la metropoli diffusa, spazzando via le divisioni tra città e campagna, tra urbano ed
extraurbano, tra città e p aesaggio, si presenta co me un sistem a ibrido, co mplesso, ch e n ecessita di nuovi
strumenti di pianificazione e gestione.
L’urbanistica non pu ò p iù d unque pr escindere dal pae saggio, e il paesagg io non può più esse re difeso
cristallizzandolo, rinchiudendolo in un vincolo, o scegliendo di non fare, ma solo impegnandosi a fare bene:
strade, abitazioni, ma anche cave e discariche che lo presuppongano e lo rispettino.
La pianificazione, urbana e paesistica, devono perciò fondersi per superare le divisioni, accogliere le diversità e
affrontare la casualità, per inventare una terza pianificazione che "inserisce la città nel contesto degli spazi
aperti" (Baldi, 1999; p.105).
4
I l concetto di interactive implementation riferito al processo di pianificazione è approfondito nel saggio di Pieter De Greef (a cura di)
(2005), Rotterdam Waterstad 2035, Episode Publisher, Rotterdam.
Silvia Mantovani
3
Dall’integrazione all’accoglienza: spazi aperti e valorizzazione delle diversità
Una Urbanistica Paesaggista5, che spinge verso un cambiamento che è prima di tutto culturale: "the semantic
shift in the concepts of both landscape and city is so significant that we can speak of a paradigm shift, a shift
that makes landscape and the city interchangeable on the widest variety of level" (Girot, 2004; p.42).
3. Piano e progetto degli spazi aperti come strumento di accoglienza e
valorizzazione delle diversità
Il progetto di paesaggio sembra costituirsi proprio come valore aggiunto dell'integrazione,
della trasversalità, della possibilità di interpretazioni molteplici. In questo senso ogni
progetto integrato si costituisce come potenziale progetto di paesaggio.
Lucina Caravaggi 6
Il paesaggismo è veramente olistico, e un'architettura (e un'urbanistica)
che su di esso si fondi, subito diviene strumento di civilizzazione.
Lucien Kroll7
I vuo ti, con trapposti ai p ieni dell ’edificato, o meglio g li spazi aperti, secondo una moderna e più efficace
terminologia, sono per definizione i luoghi dove “può ancora avere luogo la riproduzione della vita animale e
vegetale, sia spontanea che orientata” (Ferrara, Campioni, 1998; p.32) . Sono i luoghi delle opportunità, rispetto
alle decisioni già prese del costruito, dell’accoglienza della bio-varietà, nel senso più ampio e trasversale del
termine.
Oggi non è più il tempo della tolleranza o dell'integrazione, come sostiene Massimo Venturi Ferriolo: "oggi
bisogna accogliere" (Venturi Ferriolo, 2006; p.111). Non solo sopportare o assimilare il diverso, l'inatteso, ma
esaltarlo, valorizzandone le peculiarità.
E’ dalle possibilità, allora, più che dalle certezze che si deve ripartire: "al disegno degli spazi aperti il progetto
della città contemporanea affida i compiti un tempo affidati al giardino: essere il luogo ove si sperimentano e
mettono a punto nuove idee. Al loro insieme affida i compiti svolti dalla maglia stradale nella città moderna:
dare forma alla città temperandone la frammentarietà e l'accostamento paratattico. Svolgendo questo compito
l'insieme degli spazi aperti (...) assume l'importantissimo ruolo d'intermediario tra i differenti frammenti urbani
(...) organizzandoli in alcune grandi figure" (Secchi, 2000).
Cadono così le inutili classificazioni di aree verdi, spazi pubblici, e vuoti urbani; di parchi, piazze, giardini e
lungofiumi, per ricomporsi in una rete di opportunità su cui fondare una nuova politica integrata di qualità
urbana. Il paesaggio, nel suo senso più ampio, è "mobilitato" per accogliere e dare un senso al disordine ed alla
dinamicità, per dare spazio alla diversità e al tempo, per diventare seme, indicatore, catalizzatore di uno sviluppo
nuovo.
L'ordine costruito deve lasciare il posto al disordine delle possibilità, così che si inizi a trattare da vivente ciò che
è vivo, valorizzando il movimento, la trasformazione, la complessità, che sono il carattere dell'esistenza, che
danno vita alle regole, aggiungendo ad esse quel fondamentale attributo che spesso si è perso: il senso.
L'impossibilità di predire un futuro lontano, di definire una forma, di determinare una funzione certa, possono
essere allora assunte non come incertezza destabilizzante, ma come possibilità di ognuno di operare scelte, di
mettere in atto azioni che possono fare la differenza.
Gli spazi aperti diventano così i luoghi dell’accoglienza, dove sperimentare quello che Gilles Clement chiama
"spirito del non f are", così co me si impara q uello del far e; dove in iziare a incorporare nel pro getto anch e
l'indecisione, le riserve, le domande oltre che le risposte; dove valorizzare la non-organizzazione indicandola non
come disordine ma come una organizzazione diversa "attraversata dai lampi della vita" (Clement, 2005; p.59).
Accogliere la diversità, il disordine e l'incertezza per opporsi dunque ad una pianificazione integralista, ma
anche alla deriva estetizzante di certa odierna progettazione del paesaggio, che manovrata da politici e attori vari
in cerca di pubblico consenso, tende a trasformarsi sempre più in arte decorativa, confezionando con involucri
verdi i più disparati progetti, secondo una operazione di puro marketing (Brands, Loeff, 2002).
Quello che serve è una ibridazione disciplinare tra urb anistica, arch itettura e p ianificazione del p aesaggio,
trovando a ciascun a il g iusto ruo lo e le ne cessarie respon sabilità: "on ly wi th suc h co ncerned efforts and
collaboration b etween sep arate fields will we succeed in reco nciling a rchitects wi th na ture, people wi th
landscape, and ourselves with reality" (Girot, 2004; p.48).
Una Urbanistica Paesaggista, dunque, che si rivolga alla totalità contestuale di architettura e spazi aperti, di
città e pa esaggio, di ac coglienza at tiva e to lleranza re sponsabile, e c he sap pia i nventare un nu ovo ordine,
imparando dal caos.
5
Per approfondimenti sul concetto di urbanistica paesaggista vedi Silvia Mantovani (2009), Tra ordine e caos. Regole del gioco per una
urbanistica paesaggista, Alinea, Firenze.
6
Lucina Caravaggi (2002), Paesaggi di paesaggi, Meltemi, Roma.
7
Lucien Kroll L.(1999), Tutto è paesaggio, Testo e Immagine, Torino.
Silvia Mantovani
4
Dall’integrazione all’accoglienza: spazi aperti e valorizzazione delle diversità
Figura 1. Regole del gioco per una urbanistica paesaggista
Silvia Mantovani
5
Dall’integrazione all’accoglienza: spazi aperti e valorizzazione delle diversità
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Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
Silvia Mantovani
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L’insicurezza urbana e le forme di controllo degli spazi pubblici
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
L’insicurezza urbana e le forme di controllo degli spazi
pubblici
Angelino Mazza
Dottore di ricerca in Urbanistica e Pianificazione Territoriale
Centro Interdipartimentale di Ricerca L.U.P.T. (Laboratorio di Urbanistica e Pianificazione del Territorio)
Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
Il tema della sicurezza nelle città si è consolidato sullo sfondo di una crescente rilevanza della crisi del governo
urbano e delle di fficoltà de l pensiero urbanistico nel con frontarsi co n una do manda soci ale se mpre pi ù
differenziata ed esig ente. La città infatti, rapp resenta il cam po n aturale dov e la pau ra pe r la c riminalità si
diffonde e dove si dispiegano i suoi effetti; sotto questa spinta, la città sta cambiando profondamente nelle forme,
nelle modalità organizzative, nei comportamenti individuali e collettivi. L’uso differenziato degli spazi pubblici
è un dato rilevante che bisogna considerare sia nel disegno che nell’integrazione socioculturale e non solo in
termini di percezione securitaria. Il tema del rapporto tra la sensazione di paura (sentimento di insicurezza e
percezione del rischio) ed ambiente urbano (ove la sensazione viene frequentemente rapportata) può essere
affrontato da diversi punti di vista. Le nostre città infatti, sono più che mai attraversate da onde di disagio e
insicurezza, a volte addirittura da paura. Ciò non sempre si accompagna ad un effettivo aumento del rischio, o ad
un aumento delle probabilità di rimanere vittime di un reato. Anzi, l'andamento complessivo della criminalità e
la sua distribuzione territoriale, sembra avere una tendenza autonoma rispetto alla percezione collettiva della
sicurezza o dell’insicurezza di una città (Chiesi, 2005).
Se si confrontano i dati sulla criminalità con quelli sull'insicurezza percepita (Istat, 2007) ci si accorge della
distanza e sorprendente autonomia dell'andamento dei due fenomeni: l'uno calcolabile esattamente in termini
probabilistici (il rischio), l'altro (la percezione) stimabile attraverso lo strumento del sondaggio d'opinione su
larga scala. È anche giusto segnalare come al diminuire del rischio effettivo, l'insicurezza percepita resta stabile,
o addirittura aumenta. Una prospettiva del tutto diversa porta invece a focalizzare l’attenzione sui processi
sociali ch e favo riscono la d iffusione d i sentim enti so ggettivi di insi curezza, sp esso del tut to i ndipendenti
dall’andamento effettivo delle cause del rischio (Mela, 2005).
La domanda che ci si pone è quella di capire il perché (al di là di ciò che dimostrano i diversi indicatori
“oggettivi”) proprio la città contemporanea si presti bene a fornire uno sfondo credibile a preoccupazioni di varia
natura, uno scenario su cui i costruttori di paure (Mela, 2003) possono operare con particolare efficacia.
Del resto questo disagio percepito, che ha carattere peculiarmente urbano, si trasferisce ad una paura della
criminalità, ad una convinzione che lo spazio pubblico urbano sia più insicuro, che in esso siamo più vulnerabili
di prima.
Tra l'altro il senso di disagio e la relativa domanda di sicurezza hanno assunto proporzioni talmente rilevanti da
diventare pri orità nell 'agenda po litica, sop rattutto nel governo locale e pe rtanto ri sulta particolarmente
importante conoscerne le ragioni. I segni visivi di disordine sociale e fisico nello spazio pubblico hanno un
potente impatto sulle nostre percezioni riguardo alle comunità urbane in cui viviamo o che attraversiamo. Questi
segni di sono una sorta di presentazione di una città ed hanno un ruolo nella formazione della sua immagine
pubblica, contribuendo alla sua reputazione. Ma l'importanza del disordine urbano così inteso, non si limita a
contribuire alla costruzione sociale dell'immagine di una città: ha molte più conseguenze.
La p aura di ffusa è un seri o p roblema soc iale, è suf ficiente o sservare at tentamente i r isultati de lla p rima
imponente ricerca nazionale sulla vittimizzazione, condotta dall'Istat nel biennio 2005-07: ben 14 milioni e 224
mila italiani con 14 anni o più dicono di sentirsi “poco o per niente sicuri” quando camminano da soli nella zona
in cui vivono, quando è buio. E neanche lo spazio domestico, il più intimo e protetto, è risultato non immune da
preoccupazioni securitarie: addirittura 5 milioni e 813 mila persone dichiarano di sentirsi poco o per niente
sicure quando si trovano da sole in casa di sera.
Va an che ricordato ch e il tasso d i cri minalità del nos tro paese è ten denzialmente in au mento (an che se è
circoscritto) e l'Italia resta un paese con livelli di criminalità contenuti, più bassi ad esempio rispetto agli altri
paesi europei (Rapporto CENSIS, 2007). È dunque, un serio problema poich é la paura ha immed iati effetti
sociali: può portare ad una diminuzione dell'integrazione (gli ultimi eventi sono un segno tangibile di questo
disagio) ed a fenomeni di fuga e di migrazione interna; ancora, può portare ad una inibizione delle attività sociali
Angelino Mazza
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L’insicurezza urbana e le forme di controllo degli spazi pubblici
ed a comportamenti di ritiro dagli spazi pubblici e, per ultimo, all'aumento dei costi (individuali e sociali) relativi
alle spese pe r la sic urezza. Alcuni studi osi d ella questione a ffermano “come la vittimizzazione stessa, le
conseguenze della paura sono reali, misurabili, e potenzialmente severe, sia a livello individuale che sociale” 1,
altri, invece addirittura hanno concluso che la paura del crimine è un problema sociale più grave del crimine
stesso. Seguire queste premesse significa, come vedremo, porre anche l'attenzione non solo sulle politiche di
sicurezza ma altresì su quelle di rassicurazione che, in questo momento specifico, hanno la stessa rilevanza delle
prime.
1. La città come luogo-spazio delle paure, luogo-spazio del pericolo
La città dunque rappresenta il campo naturale dove la paura per la criminalità si diffonde e dove si dispiegano i
suoi effetti (Amendola, 200 3), so tto qu esta sp inta la cit tà sta ca mbiando p rofondamente n elle forme, n elle
modalità organizzative e nei comportamenti individuali e collettivi.
Nell’affrontare il tema della paura diffusa ed i suoi effetti sulla forma e sull’organizzazione della città è utile fare
preliminarmente alcune c onsiderazioni di m etodo per meglio defi nire i l campo di riflessione. Ciò c he s ta
cambiando, forse più pr ofondamente d i qua nto n on s i creda, no n è tanto il pericolo ra ppresentato d alla
criminalità, quanto la crescente e diffusa paura della popolazione.
L’ordine fisico che il movimento moderno si illudeva di ottenere con lo zoning attraverso la separazione delle
funzioni si è rilevato disordine sostanziale a cui spesso la popolazione reagisce con una accresciuta domanda di
sicurezza, con queste parole Jacobs (1969) sviluppava gran parte della sua critica alla così chiamata urbanistica
ortodossa affrontando il tema della sicurezza. Nella città contemporanea si vive a ridosso della diversità e, la
prossimità fisica, ci impone l’incontro con gli altri. L’imprevedibilità è la norma e può creare facilmente paura
che con il tempo cresce e si diffonde generando nuovi schemi di comportamento e di uso della città stessa
(Amendola, 200 3). I nu ovi “ luoghi” della città c ontemporanea s ono ca ratterizzati dalla loro capa cità di
autodifendersi (ad esempio gli aeroporti, shopping mall, etc.) e di generare autoesclusione, attraverso una sempre
più costante privatizzazione degli spazi pubblici in nome e sotto l’icona della paura e del rischio.
Alcuni lavori hanno tentato di proporre classificazioni di particolari elementi che compongono lo spazio urbano,
associando a determinati tipi (definiti in base alle loro caratteristiche morfologiche o in base alle modalità di
frequentazioni) potenziali stati di ansietà. Altro tema fondamentale è quello della distribuzione sociale dei fattori
si vulnerabilità che, associato ad una specifi ca tipologia di spaz i, contribuisce a far emergere una specifica
sensazione di insicurezza.
Tab. n. 1: alcune tipologie di spazi urbani che per pura configurazione morfologica e per le caratteristiche socio-culturali
attivano un processo di una sensazione di insicurezza legata alla loro frequentazione 2.
SPAZI
APERTI
VUOTI
Parcheggi, Parchi, etc.
CHIUSI
Sottopassi, passaggi coperti, etc.
AFFOLLATI
Mercati, Piazze, etc.
Stazioni Ferrov iarie e d ella metropolitan a, M ercati
coperti, Supermercati, etc.
Su questi argomenti esiste una letteratura molto ampia che, associata a vari studi teorici, ha fatto emergere alcune
considerazioni rilevanti sui fattori di vulnerabilità che possono essere connessi a variabili come il genere, l’età,
l’appartenenza sociale, la provenienza etnica, che associati alla vulnerabilità sociale3, rappresentano quei timori
relativi alla possibilità di essere vittime di episodi di microcriminalità propri dei gruppi svantaggiati (Mela,
2003).
Se i fattori di vulnerabilità sono connessi a caratteri socioeconomici, culturali o psicofisici dei soggetti, quindi
indipendenti dalla morfologia dei luoghi in cui essi vivono, è anche vero che alcuni aspetti collegati all’ambiente
possono influenzare positivamente o negativamente la capacità di controllo delle motivazioni, facendo emergere
quelle condizioni che favoriscono la sensazione di insicurezza.
In alcune zone della città frutto di sistemi di pianificazione efficaci (come ad esempio parchi, zone verdi, aree
attrezzate, etc.), nati come spazi di aggregazione ma allo stesso tempo con un inadeguato stato di manutenzione e
di dim ensione, ven gono per cepiti da lla popolazione co me sp azi incontrollati e d i scar sa af fidabilità, i n
particolare per quelle classi sociali più vulnerabili (anziani, donne, bambini). Lo stesso si può dire per alcuni
particolari spazi chiusi che, per la loro conformazione, non permettono alternative al passaggio; anche in questo
caso la sensazione di incuria si associa a quella dell’intrappolamento.
Tra gli altri: Amendola (2003), Belluati (2004), Bricocoli (2005), Pitch (2006).
Ns. Elaborazione da Mela A. (2003), “Le paure e gli spazi urbani”, in Amendola G. (a cura di), /Paure in città. Strategie ed
illusioni delle politiche per la sicurezza urbana/, Liguori Editore, Napoli.
3
Sui fattori di ineguaglianza relativi alla vulnerabilità sociale vedasi tra gli altri: Evans D., Fletcher M. (2002), “Fear of
crime: testing alternative hypotesis”, in /Applied Geography n. 20/, Elsevier, London.
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L’insicurezza urbana e le forme di controllo degli spazi pubblici
Tab. n. 2: aspetti delle sensazioni di insicurezza4.
SPAZI
APERTI
CHIUSI
VUOTI
Assenza di controllo, esperienza della “terra di
nessuno”
Assenza di vie di fuga, esperie nza
dell’intrappolamento
AFFOLLATI
Eccesso di stimoli “disorientamento”
Ingresso in zone controllate da gruppi specifici
Analogamente anche in spazi ad alta frequentazione possono emergere sensazioni legate alla percezione di
mancato controllo sociale derivante dalla disorganizzazione delle funzioni che espone soggetti (anche in questo
caso quelli appartenenti alla categorie più vulnerabili) a possibili minacce (in questo caso meglio definite come
“potenziali”).
Tuttavia, nella categoria degli spazi affollati al chiuso, si possono avere sensazioni non strettamente legate al
mancato controllo ma piuttosto ad un’appropriazione del territorio da parte di soggetti sociali estranei; una sorta
di privatizzazione degli spazi pubblici che può produrre effetti gravi (è il caso di terr itori controll ati dalla
criminalità organizzata). Bisogna notare che, ad esclusione dell’ultima ipotesi, vi è una percezione indistinta del
pericolo, legata a situazioni di “disordine” urbano, al degrado fisico ed ambientale di certi spazi pubblici che
sommata al disagio sociale diventano fattori di resistenza nei confronti di certi ambienti e spiegano la diffidenza
al loro uso di alcune categorie sociali.
2. Il conflitto e il declino degli spazi pubblici
In effetti, dobbiamo affrontare un persistente declino degli spazi pubblici nelle nostre città sebbene questi siano
stati da sempre privilegiati nella storia dell'urbanesimo e della urbanistica. In effetti, oggi essi subiscono una
influenza distruttiva, quasi un impatto mortale, e sembrerebbe proprio che la principale causa sia da attribuirsi
all'enorme espansione della popolazione urbana. Essa si concentra nelle aree in cui le qualità e i valori urbani
sono più elevati creando in tal modo una importante nuova domanda di centralità e di spazi pubblici. A fronte di
tale domanda è stato difficile (e comunque non è previsto e nemmeno programmato) avere una corrispondente
espansione di offerta delle stesse centralità e degli stessi spazi pubblici. Come conseguenza di tale squilibrato
rapporto fra domanda e offerta di spazi pubblici, si è prodotto un “sovraccarico” di quelli preesistenti, che li ha
deformati a causa di un eccessivo affollamento ed uso improprio.
Questa nuova condizione - crescita della popolazione urbana ed inadeguata presenza di spazi pubblici - viene
associata a due sotto-fattori: la persistenza del metodo urbanistico dello zoning e l'ingegneria del traffico.
Il primo sottofattore, rappresenta un metodo del tutto opportuno a certi livelli dimensionali della città ed entro
certi li velli di soglia dell'effetto-città. Ma dov e e qu ando certe dimensioni e sog lie mutano, qu esto metodo
aumenta gli squilibri fra domanda e offerta di spazi pubblici, perché tende a sovraccaricare i centri tradizionali.
Il secondo sotto-fattore, intrinsecamente connesso al primo, è il risultato finale della pianificazione del traffico.
Adottando una sorta di concezione “idraulica” della città (Lynch, 1990), con l'obiettivo di massimizzare gli
accessi e minimizzare i tempi, si sono i ntrodotti se nsi unic i, fa sce ve rdi, autostrade urba ne a direz ione
privilegiata e non-stop, “bretelle”, sotto-passaggi ed altre ideazioni infrastrutturali, che hanno ridotto le strade
della città a dei viadotti, a delle piste da corsa (indipendentemente, dalla velocità conseguita, generalmente assai
bassa), mentre le piazze a dei parcheggi o a dei vuoti simbolici. Lo stesso vale per lo spazio pubblico reale, che
perde la sua identità proponendosi sostanzialmente come un'estensione dello spazio commerciale o come un
semplice prolungamento di quello domestico. L'idea di spazio pubblico coincide oggi con quella di vuoto, ma
nello stesso tempo se ne distacca. Forse a causa di un certo consumo semantico sofferto dalla nozione di spazio
pubblico (Mazza L., 2005), attualmente capace solo di identificare una vocazione funzionale, l'idea di vuoto
riesce a comunicare meglio il senso non solo utilitario ma soprattutto estetico e simbolico che ogni luogo urbano
deve trasmettere.
3. Interpretazioni: modelli e ipotesi delle forme di insicurezza urbana
Una diffusa e condivisa domanda di sicurezza starebbe quindi inseguendo la diffusione della percezione di
degrado degli spazi urbani, in certa misura indipendentemente dagli andamenti della criminalità. Vorremmo
utilizzare alcuni schemi interpretativi, proponendo un’ipotesi collaterale che aiuti a spiegare alcune dissonanze,
anche in termini quantitativi, tra la percezione del degrado ed i comportamenti pubblici correlati. Partendo dalla
definizione di inciviltà, occorre quindi modificare la sequenza causale:
4
Ns. Elaborazione da Mela A. (2003), “Le paure e gli spazi urbani”, Amendola G. (a cura di), /Paure in città. Strategie ed illusioni delle
politiche per la sicurezza urbana/, Liguori Editore, Napoli.
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L’insicurezza urbana e le forme di controllo degli spazi pubblici
in una relazione più articolata, che tenga conto anche dei fenomeni d’inciviltà, cioè:
Esisterebbe allora una correlazione diretta fra crimine e paura dello stesso, il legame con le inciviltà è mediato
dall’accumulo del disagio, che è un ulteriore promotore della paura e della conseguente domanda di sicurezza. È
così dalla seconda metà degli anni ottanta che va consolidandosi il ruolo causale delle inciviltà rispetto alla
domanda di sicurezza5.
Al degrado (fisico) dello spazio pubblico corrisponde anche il degradarsi del tessuto sociale corrispondente. Il
noto modello di Wilson e Kelling introduce, infatti, nel circuito della paura il disordine sociale e la riduzione del
controllo sociale. Il disordine, il contrario dell’ordine, corrisponde cioè a momenti nella vita del tessuto sociale
in cui il sistema delle regole e dei comportamenti entra in crisi, in cui alcuni degli individui che ne fanno parte
rompono il patto ch e li leg a agli altri. Ciò adottando co mportamenti devianti risp etto all’ordine precedente
(incivilities sociali, q uali il m odo d i parlare e di co mportarsi, ad esempio ri spetto ai can oni d ella bu ona
educazione), comportamenti che possono comportare anche alterazioni fisiche dello spazio comune e delle cose
(incivilities fisiche, quali lo sporcare, il deturpare, eccetera).
Va da sé che tali “crisi”, in società in perenne transizione, ne diventano tratti pressoché costituenti. Secondo
Wilson e Kelling, i “segni” che le inciviltà lasciano in ch i le sub isce rinforzano la pau ra della criminalità,
implicando una (ulteriore) riduzione del controllo sociale e offrendo nuove occasioni alla criminalità. E così il
circuito si chiuderebbe.
Fig. n. 1: Il modello di Wilson e Kelling (1982). Ns. Elaborazione.
Già dagli anni settanta (Hunter, 1978) la letteratura della “disorganizzazione sociale” intuiva tale relazione fra
incivilities e paur a de lla crimi nalità, prop onendo u n m odello si milare che pon eva all’ origine de i feno meni
proprio la disorganizzazione sociale. Notiamo però come il modello di Hunter renda indipendenti le due forme di
devianza: la di sorganizzazione sociale da un lato produce m aleducazione, violazioni m inori, eccetera (le
incivilities), m entre d all’altro p roduce crim inalità. Inciv iltà e cr iminalità possono int eragire, m a,
indipendentemente, producono paura della criminalità. Potendo così attribuire “pesi” diversi ai due percorsi
causali, il modello potrebbe riuscire a spiegare situazioni caratterizzate da bassi tassi di criminalità a fronte di
elevati tassi di paura.
Fig. n. 2: Il modello di Hunter (1979). Ns. Elaborazione.
Un ult eriore e interessante contributo è qu ello dat o dal m odello pro posto da Tayl or e C ovington ( 1993),
confermato dai risultati di una lunga ricerca su quartieri che hanno vissuto un rapido cambiamento sociale. Il
5
Wilson J.Q., Kelling G.L. (1982), “Broken Windows. The Police and Neighborhood Safety”, in /The Atlantic Monthly/, New York, The
Atlantic Monthly Group; ma vedasi anche Hartcourt A. (2001), /Illusion of Order: The False Promise of Broken Windows Policing/,
University Press, Harvard.
Angelino Mazza
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L’insicurezza urbana e le forme di controllo degli spazi pubblici
“disordine” viene qui scomposto in fattori misurati di “cambiamento del precedente ordine sociale”. La mobilità
sociale e il sesso sono variabili che, indipendentemente dalle inciviltà, si annoverano tra i promotori della paura,
come nell’esempio di chi ha costruito un’azienda, elevando così il suo status patrimoniale, o di una donna sola di
notte in un parcheggio isolato.
Fig. n. 3: Il modello di Taylor e Covington (1983). Ns. Elaborazione.
Sono invece i com portamenti dei giovani e del le minoranze etniche che r ompono gl i equilibri s ociali (in
particolare quelli della composizione etnica, nella ricerca di Taylor e Covington) e disorganizzano il sistema di
regole che, fino a quel momento, governava la vita del quartiere. In tale dis-ordine, o nuovo ordine non-ordinato,
si evidenziano, indipendentemente, la paura della criminalità e le inciviltà (che, attraverso le bande, rinforzano
ulteriormente la prima). Tutti i contributi scientifici accolgono quindi le inciviltà all’interno dei propri modelli
esplicativi, interrelando gli elementi fisico-ambientali di degrado dello spazio pubblico con le forme del degrado
sociale. Questo, a sua volta, fungerebbe da moltiplicatore (o evidenziatore) dei segni d’inciviltà, avvitandosi il
tutto in un circolo vizioso che provoca ulteriori lesioni al tessuto sociale.
La permanenza del segno, dell’elemento degradato determina così, a lungo andare, profonde lesioni nel tessuto
sociale: vengono meno le reazioni spontanee di cura, d’intervento dei fruitori “normali” dello spazio e delle cose,
le loro reazioni spontanee ed immediate di protesta. A poco a poco viene meno il sentimento di appartenenza,
indebolito dall’indifferenza generalizzata all’inciviltà e dalla vaghezza della risposta istituzionale, quasi fosse un
“riconoscimento tacito dell’abuso” (Selmini, 2004).
Tre sono quindi gli effetti al persistere dei segn i d’inciviltà: l’indebolimento interno, il senso di abb andono
dall’esterno e la destabilizzazione della comunità (Chiesi, 2004). I residenti vedono il proprio spazio segnato
dalle inciviltà e notano la mancanza di manutenzione, mettendo in relazione un po’ alla volta il degrado fisico
alla mancanza di sicurezza e diffondendo all’interno della propria comunità questa paura. Questo tipico effetto
sociale diffusivo favorisce il peggioramento delle d inamiche d i coesione sociale della comunità di vicinato
fortificando il relativo declino della vitalità urbana. Ciò, a sua volta, si accompagna ad un progressivo ritiro dagli
spazi pubblici: i propri luoghi sono meno attraenti, forse più pericolosi, di sicuro frequentati da chi non li
rispetta. I residenti si distaccano così fisicamente e sentimentalmente dal pro prio territorio, i leg ami sociali
s’indeboliscono come pure il senso di comunità. Diminuisce il controllo sociale sul proprio spazio e si diffonde
la paura della criminalità, vengono meno, quello che Jacobs (1969) ha definito come gli occhi sulla strada.
Angelino Mazza
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L’insicurezza urbana e le forme di controllo degli spazi pubblici
Schema 1: i persistenti effetti dei segni di inciviltà negli spazi urbani. Ns. Elaborazione.
4. La privatizzazione dello spazio pubblico e la “questione sicurezza”
Assistiamo di co nseguenza, a d iversi processi d i pri vatizzazione della città: g randi ce ntri co mmerciali che
tendono ad accum ulare di fferenti funzi oni urba ne, quarti eri resi denziali chiusi a d us o pubblico, s ervizi di
carattere pubblico privatizzati fino alla privatizzazione più imponente rappresentata dalle forze di sicurezza
pubblica. Questa tendenza alla privatizzazione mira a sostituire in certi campi la relazione oggettiva tra lo Stato
ed i cittadini (relazione securitaria in un contesto burocratico) con il confronto soggettivo tra gruppi sociali
(relazione opaca, imprevedibile, angustiante).
La privatizzazione dello spazio pubblico può significare una negazione del diritto alla cittadinanza e convertirsi
in un fattore di rottura del tessuto sociale, il problema è che lo spazio pubblico rappresenta il meccanismo
fondamentale per la socializzazione della vita urbana (Borja, 2003). I progetti e la gestione di questi spazi e delle
attrezzature connesse rappresentano un’opportunità per produrre cittadinanza ed una prova della propria crescita
sociale. La distri buzione, la conc ezione a rticolatrice o fra mmentaria del tessuto urba no, l ’accessibilità o la
potenziale centralità, il valore simbolico, la poliv alenza, l’intensità ed il ruolo sociale, la capacità di creare
occupazione, la capacità di fomentare nuovo “pubblico”, l’autostima e il riconoscimento sociale, il contributo nel
dare un “senso” alla vita urbana, sono e restano comunque opportunità che non si dovrebbe mai trascurare per
promuovere i diritti e le responsabilità politiche, sociali e civiche che costituiscono il diritto alla cittadinanza.
La negazione alla città rappresenta precisamente l’isolamento, l’esclusione dalla vita collettiva, la segregazione
(Donzelot, 2006), chi prioritariamente ha bisogno dello spazio pubblico, della sua qualità, della sua accessibilità
e della sua sicurezza sono generalmente coloro che hanno maggiori difficoltà di accessibilità o di uso: bambini,
donne, poveri, immigrati. Negli spazi pubblici si esprime la diversità, si produce l’intercambio, si apprende la
tolleranza (Amendola, 2000), rafforzando in particolare il concetto di cittadinanza.
La polivalenza, la centralità e la qualità generano sicuramente gli usi diversi che di conseguenza entrano in
conflitto (di tempo e di spazio, di rispetto o del non rispetto dell’arredo urbano, di stili culturali diversi, etc.) ma
che possono comunque essere un preambolo di educazione alla civiltà.
La crisi dello spazio pubblico sembra essere una “una cronaca di una crisi annunciata” (Virilio, 1992), di fronte
a un disinteresse ed incapacità da parte di alcune grandi città di risolvere i propri problemi socioeconomici e di
fronte alla continua sovraesposizione mediatica sulla pericolosità di coloro che vivono o occupano detti spazi, la
soluzione più prossima è stata quella di praticare un particolare “igienismo sociale” per risanare la città. La
soluzione consiste nel ripulire la città dagli altri, sostituendo gli spazi pubblici con aree privatizzate, considerate
come zone protette per alcuni ed escludenti per altri, in definitiva vengono proposti luoghi ipercontrollati dove
tutto sembra reale solo in apparenza.
Il grande rischio di questa attitudine e che si formi una società incapace di relazionarsi con gli “altri”, incapace di
reagire di fronte agli imprevisti della vita, incapace di decidere per se stessa, questo ci può portare a perdere gran
parte di quelle ricchezze urbane che si basano proprio sulla diversità. Il rischio, l’avventura sono così necessari
come la protezione e la sicurezza. Esiste una ricerca di sicurezza che porta a chiudere gli spazi pubblici cosi
come se fossero loro la causa dell’insicurezza e delle paure urbane.
Questa continua ricerca ha dei riflessi formali, ovvero il tentativo di recuperare un paradiso perduto, che sono un
collage frammentato ed aleatorio di immagini di un’architettura del passato. Il mito delle relazioni personali ed
intime con i vicini sono solo possibili se si ristabilisce uno strumento urbano controllato, sicuro e soprattutto
fittizio.
Angelino Mazza
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L’insicurezza urbana e le forme di controllo degli spazi pubblici
In questa nuova città le infrastrutture di comunicazione non creano centralità ne nodi solidi, ma segmentano o
fratturano maggiormente il territorio ed at omizzano le relazi oni sociali. I n uovi parchi tematici lud icocommerciali e scludenti crea no ri produzioni di c entri storici per classi s ociali m edio-alte, u na for ma di
manifestazione definita da molti autori di “agorafobia urbana”6.
Il circolo vizioso costituito dall’abbandono, dal moltiplicarsi delle paure e delle insicurezze nell’uso di questi
spazi va interrotto non solo attraverso le politiche di sicurezza (preventive, dissuasive, repressive) ma anche con
una politica di spazi pubblici ambiziosa che possa contare sulla sicurezza come elemento determinante.
Anche se oggi in molte città predomina la tendenza ad utilizzare una dialettica negativa tra lo spazio pubblico, la
sensazione di insicurezza diffusa e l’esclusione sociale giovanile, risulta indispensabile invertire questa tendenza
negativa attraverso una buona politica urbana. Questo lo può realizzare, infatti per una città la coesione sociale è
alla pari importante come il suo disegno, sono principi che condizionano la sua funzionalità. L’urbanistica non
può rinunciare a contribuire a rendere efficace in diritto alla sicurezza nella città, cioè al diritto all’uso degli
spazi pubblici protetti, per tutti e senza esclusione.
Capire questi fenomeni non impedirà reprimere o prevenire i comportamenti violenti che escludono ai cittadini
più o meno i ntegrati nella vita e ne lla cu ltura urban a, b isogna fare il necessar io p er garan tire la massima
concentrazione di usi collettivi differenti, “bisogna fare degli spazi pubblici luoghi di inclusione per gli esclusi”
(Sennett, 1999).
La diversità favorisce la multifunzionalità e diventa un elemento con forte potenzialità evolutiva (Borja, 2003).
Lo spazio quotidiano è quello dei giochi, delle relazioni casuali o abituali con gli “altri”, dei percorsi quotidiani
tra le diverse attività giornaliere e degli incontri, questo spazio coincide proprio con lo spazio pubblico della città
e p er qu esto ga rantire q ualità e stetica, s paziale e formale p ermette un u so da pa rte di tutti se nza al cuna
esclusione, questo senza dimenticare che alcuni gruppi sociali (vedi ad esempio i giovani di sera) hanno bisogno
di spazi propri.
5. L’uso della sorveglianza e del controllo per favorire l’esclusione
Il percorso della città, attraverso l’uso della sorveglianza, porta ad una serie di considerazioni sulle conseguenze
sul tessuto sociale urbano. Con il passagg io da un a società di produttori ad una società di consumatori, si
identificano con modalità differente i gruppi della società che sono inadatti all’inclusione. Invece delle classi
pericolose (rivoluzionarie), sono i “consumatori imperfetti” (Bauman, 2008), individui o categorie di individui
incapaci di agire per mancanza di risorse che sono proprio classificati come inadatti ad essere inclusi nella
società del consumo della città neoliberista.
Come già suggeriva M athiensen (1 997), l ’applicazione d ella strategia della d ominazione del “controllo
attraverso la sorveglianza” è passato in pochi anni dal “tutti guardano tutti” ai “pochi che guardano tutti”, per
giungere infine alla fase di “tutti guardano pochi”. La coercizione esercitata attraverso le pubbliche relazioni (di
persone in vista) ha sostituito il controllo generale da parte dei rappresentanti delle autorità.
Anche all’interno della parte più dura dell’ordine sociale, resta valido lo schema che oggi nelle città “pochi che
guardano molti”: questo nella modernità diventa più comprensibile, più sofisticato e tecnologicamente meglio
attrezzato che in passato ed ha fatto ulteriori progressi sulla strada che porta alla completa liberalizzazione e
privatizzazione.
La cosa più particolare è che questo schema è rivolto essenzialmente ad un obiettivo radicalmente differente, la
sua funzione principale è quella di mantenere fuori gli outsider (gli estranei), gli indesiderabili, piuttosto che
tenere dentro gli insider (coloro che si sanno comportare).
In d efinitiva, qu esta f orma d i c ontrollo h a c ontribuito all’esclusione ed al rit orno de gli “ esclusi” d i un a
moltitudine in rapida crescita di categorie: immigrati sgraditi (improbabili clienti del consumismo), mendicanti
invadenti, ospiti non invitati nelle nuove gates community con accesso controllato, abitanti di banlieue e di ghetti
urbani nei centri cittadini, persone che vivono di precarietà lavorativa e sociale, etc.
La funzione proprio della sorveglianza7 è quella di mantenere con costanza la linea che separa gli inadatti dagli
adatti (il cas o em blematico degli aeroporti). L a s orveglianza è destinata propri o a m antenere le entrate
inaccessibili è presentata, pubblicizzata e venduta all’opinione pubblica sotto l’etichetta della loro sicurezza. Il
fatto che il concetto stesso di sicurezza sia definito e si manifesti principalmente in compiti come l’esclusione di
tutti quelli ritenuti “inadatti” difficilmente viene pubblicizzato.
Gli oggetti di questa forma di sorveglianza onnipresente sono indotti a: accettare l’intimo collegamento tra
l’esclusione e sic urezza e di c onseguenza l a st rategia m essa in atto; a d acce ttare di essere s orvegliati
costantemente e infine ad accettare i benefici dell’esclusione, partecipando anche attivamente a fomentare le
strategie.
L' agorafobia urbana è una sensazione che crea un forte contrasto con lo stato d'animo del momento causando istanti di
trance e alienazione. Essa viene percepita in conseguenza alla visione fugace ed improvvisa di immagini di paesaggi urbani.
Una s orta di per cezione di disagio ch e non necessaria mente vien e r appresentato con la r iproduzione gr afica di re altà
territoriali che presentano caratteristiche di degrado. Viene ripreso di diversi autori a partire da Calvino (1996), Davis (1999),
Castel (2003), Bauman (2007).
7
Quella che Bauman, recentemente ha definito “Big Brother”, in Domus n. 195, giugno 2008.
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L’insicurezza urbana e le forme di controllo degli spazi pubblici
La sorveglianza quando diventa strumento di esclusione assegna contemporaneamente alla società il ruolo di
“vittime” e di “criminali”, la enorme presenza dei dispositivi di sorveglianza ha raggiunto la fase in cui essi si
auto-sostentano e si auto-riproducono. La quantità e la dimensione di questi dispositivi oltre che alla visibilità e
all’invadenza sono sufficienti a creare ed alimentare un’atmosfera da “fortezza assediata” (Bauman, 2008) ed
una costante idea di permanente emergenza che, a sua volta, alimenta la rapida diffusione di tali dispositivi. In
definitiva, cosi utilizzata la sorveglianza è un congegno che serve ad isolare gli indesiderabili (coloro che sono
gli “oggetti” della sorveglianza) da quelli che dovrebbero/potrebbero essere lasciati fuori.
Per concludere, possiamo assentire che sicuramente non esiste una crisi specifica della città e nemmeno la città è
generatrice di grandi problemi sociali come l’esclusione o la violenza. Il problema è che la città non mantiene le
aspettative attese questo dovuto sicuramente all’indebolimento delle centralità, all’insufficiente comunicazione e
visibilità delle diverse zone urbane, alla segregazione sociale diffusa nella società neoliberista ed alla elevata
specializzazione funzionale (contraria come abbiamo visto al principio della coesione sociale) e non ultimo al
degrado dei servizi e degli spazi pubblici. Questo, paradossalmente, porta ad un circuito perverso della sicurezza
che, con la fretta di ottenere risposte immediate, spinge verso la deriva degli interventi securitari di controllo dei
fenomeni (i nvestendo no tevolmente in t ecnologie d i con trollo e fav orendo la repressi one), ch e risu ltano
inefficaci sul piano della rassicurazione.
Allo stesso modo bisogna anche evidenziare come l’ esperienza delle politiche pubbliche attraverso i grandi
programmi co mplessi integrati a v alenza pubblica h a avuto esiti limitati. Anche se ha generato elementi di
centralità integrata non ha avuto la capacità di programmare l’insieme della città ne di fungere da elemento di
coesione globale per una popolazione che principalmente soffre di persistenti processi di esclusione.
Ci troviamo di fronte al problema della crisi della società nell’era della globalizzazione e la frammentazione che
contraddittoriamente gen era. È co sì predo minante l’e sclusione d a non rendere p ossibile av ere r elazioni con
ulteriori co llettivi so ciali e con l e isti tuzioni. L ’ambito l ocale ed i n p articolare l o spazio pubblico, può
rappresentare il luogo privilegiato per costruire nuovi processi di socializzazione capaci di opporsi a questo
fenomeno.
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Angelino Mazza
8
La progettazione partecipata nel Rione Monti: il caso dell’Angelo Mai
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
La progettazione partecipata nel Rione Monti: il caso
dell’Angelo Mai
Elena Mortola
DipSU
Università Roma Tre, [email protected]
0657339677
Abstract
Viene descritto un processo di progettazione partecipata relativo al recupero del Complesso dell’Angelo Mai
nel Rione Monti. Attualmente è in corso da parte del Comune di Roma il recupero del complesso scolastico e
dell’ex-cappella da destinare ad edificio multifunzionale. Deve ancora essere approvato il progetto di
progettazione partecipata del giardino ad uso del Rione.
1. Premessa
Il caso dell’Angelo Mai per molti aspetti può essere considerato un caso esemplare. Tutto è iniziato nel 2000
qundo è nata la Rete Sociale Monti. Quasi contemporaneamente è scoppiato il caso dell’A. Mai. Proposta di
cartolarizzazione da parte del Comune, uso pubblico secondo la Rete Monti. La Facoltà di Architettura di Roma
Tre è in qualche modo protagonista, impegna molto tempo alla causa dell’Angelo Mai. Alcuni docenti, un corso
post Laurea, Il Master PISM, per diversi anni prendono questo tema come oggetto di riflessione ed esercitazione
progettuale. All’inizio il rapporto con il I Municipio è proficuo, ogni settimana si svolgono incontri, corsi
destinati agli abitanti del Rione. I politici partecipano e sembrano molto interessati. Gli elaborati metodologici e
progettuali ven gono sp esso esposti al pubb lico in P.zza Mado nna dei Monti. Il cl ima è molto piacevole e
collaborativo. Non mancano gli scontri sul problema dell’emergenza casa, molti abitanti, soprattutto anziani,
proprio in questo periodo, vengono sfrattati per far posto a più facoltosi residenti. Anche questo tema viene
considerato da parte della Rete Monti.
La “Progettazione partecipata” sembra interessare molti, non solo i docenti e gli studenti di Roma Tre sembrano
interessati, anche gli abitanti partecipano agli incontri nei quali tutti esprimono i loro desiderata sotto la guida
metodologica dell’Università. Sembra ch e sia possibile arrivare a un progetto cond iviso utilizzando metodi
nuovi che potenziano il coinvolgimento anche emotivo di tutti gli interessati.
Questa esperienza esemplare viene però interrotta dai politici, che decidono per tutti; la scelta di destinare a
scuola l’A. Mai era una delle opzioni e forse non la migliore.
L’occupazione dell’A.Mai da parte di Action per circa un anno da’ il colpo di grazia al processo partecipativo
appena iniziato. Gli sforzi dell’Università non vengono capiti e in ogni modo repressi.
L’Università continua a lavorare, personalmente ero convinta che l’esperienza fosse positiva finchè riuscisse a
coinvolgere docenti e studenti, ma gli abitanti? L’idea di uno workshop, trasformato in concorso sul tema del
giardino dell’A.Mai è stato organizzato in collaborazione con l’Università di Weimar, l’erede della famosa
Bauhaus! Questa esperienza viene ancora ricordata dagli studenti di allora come un evento unico. Descritta sul
nostro sito (www.pism.uniroma3.it/category/workshop-amai/) viene ancora visitata da molte persone.
E’ difficile fare adesso un bilancio di questa esperienza, personalmente sono soddisfatta perchè con il prof.
Giangrande e al tri co llaboratori a bbiamo a pprofondito il metodo d i p rogettazione p artecipata c he a bbiamo
applicato in modo proficuo anche in altri contesti.
E’ dal 2000 che portiamo avanti questa metodologia ispirata dagli studi teorici di C. Alexander e J. Friend.
L’abbiamo sperimentata più volte in questo contesto e forse oggi è a uno stadio abbastanza soddisfacente.
Elena Mortola
1
La progettazione partecipata nel Rione Monti: il caso dell’Angelo Mai
La progettazione partecipata stravolge radicalmente il modo di progettare tradizionale basato principalmente sul
giudizio dell’architetto. Nella progettazione partecipata si studia un processo mettendo a punto procedure che
consentono d i fare i ntervenire gli abitanti i n m odo attivo, come p rotagonisti e l asciano a i progettisti l a
responsabilità metodologica e quella di dare “forma” al risultato del processo partecipativo.
2. Il Metodo utilizzato per il recupero dell’Angelo Mai
Il metodo utilizzato per il recupero dell’Angelo Mai si basa su un processo di progettazione partecipata, che ha
fatto uso di numerose procedure sperimentate dal 2002 ad oggi (2009).
L’approfondimento m etodologico h a pr oceduto co n i niziative vo lte a f ar partecipare il m aggior numero d i
soggetti del Rione Monti. Uno strumento importante è stato quello di indire Concorsi di progettazione rivolti a
studenti e cittadini, in un primo tempo, rivolti al riutilizzo dell’intero Angelo Mai e in un secondo momento,
quando la destinazione a scuola è stata definitivamente decisa a livello politico, accettata dai cittadini e iniziati i
lavori di recupero, al recupero del giardino dell’Angelo Mai, destinato prevalentemente agli abitanti del Rione.
I C oncorsi di progettazione, i l Maggio Monti, g li i ncontri d i progettazione p artecipata c on gl i a bitanti, le
manifestazioni in Piazza Madonna dei Monti sono stati gli eventi principali collettivi che hanno caratterizzato
l’attività della R ete S ociale M onti d ella quale l’Un iversità era un c omponente pa rticolarmente attivo e
impegnato.
Il metodo di Progettazione Partecipata si è andato precisando sulla base delle esperienze fatte.
Il metodo si basa su un processo ciclico basato su tre metodi VISIONING, STRATEGIC CHOICE,
PATTERN LANGUAGE
Una descrizione del metodo è illustrata nel sito del TIPUS al seguente indirizzo
http://www.tipus.uniroma3.it/ricerca/urr3_it/2_dinam/1process/00proces.html.
Nel 2004 è stato elaborato un dossier sulla attività della Rete Sociale Monti, che è stato distribuito agli abitanti in
occasione di un incontro pubblico e inserito sul sito del TIPUS
http://www.tipus.uniroma3.it/DCaad/dossier%20Monti.htm)
Successivamente è stato elaborato un rapporto intitolato L'Angelo Mai dalla sua fondazione ad oggi (a cura di L.
Angeloni e A. Giangrande)
http://www.tipus.uniroma3.it/Angelo%20Mai/cronaca%20rione.htm)
3. Concorsi e workshop sull’Angelo Mai indetti dal Master PISM
I concorsi e l’ultimo workshop sul tema del giardino dell’A. Mai:
•
•
•
•
1° Concorso sul recupero dell’Angelo Mai 10/5/03
2° Concorso sul recupero del giardino dell’Angelo Mai 15/1/05
Workshop 22-29 ottobre 2006 sul recupero del giardino dell’Angelo Mai
Concorso internazionale Roma-Weimar , febbraio 2007 (http://www.tipus.uniroma3.it/Angelo
%20Mai/partecipazione.html)
4. Un workshop sul giardino dell’A.Mai
4.1 Obiettivi del workshop
Nell’ottobre del 20 06 presso la sed e d ell’Argiletum della Fa coltà di Arch itettura si è svo lto u n wo rkshop
progettuale sull’Angelo Mai nell’ambito del laboratorio di progettazione 1 della laurea magistrale in Architettura
e delle at tività del Master PIS M.L’idea de ll’workshop è stata sv iluppata in collaborazione con Alessandro
Giangrande e con Dirk Donath della Bauhaus di Weimar e con l’aiuto di Gianfranco Moneta, Laura Martini,
Ilaria Vasdeki, Paolo Mirabelli, Luigi Ciotti, Katharina Richter, Cristian Bauriedel, Antonio Caperna, Viviana
Petrucci e Giulio Baiocco .
Elena Mortola
2
La progettazione partecipata nel Rione Monti: il caso dell’Angelo Mai
L’workshop è durato una settimana e si è concluso con una grande festa la domenica del 28 ottobre con la
partecipazione d i do centi, stud enti e ab itanti del qu artiere. I n p articolare hanno p artecipato al work sop 45
studenti di Roma Tre, 41 studenti Erasmus e 11 studenti provenienti dalla Bauhaus di Weimar.
L’idea portante del workshop era l’idea di un messaggio rivolto in particolare agli abitanti del rione Monti, una
forma particolare di comunicazione e co involgimento emotivo attrav erso la co struzione d i inst allazioni che
fossero in grado di evocare i nuovi spazi progettati del giardino dell’Angelo Mai.
L’idea di “centri” nel senso alexanderiano ha aiutato gli studenti a comprendere gli spazi da progettare che
rispondessero principalmente ai desiderata degli abitanti ma fossero coerenti tra di loro e con il contesto. I centri
principali individuati sono stati:
•
•
•
•
il “cuore” del giardino,
il caffè- libreria sul tetto-terrazza della palestra,
lo spazio multifunzionale dell’ex-cappella,
lo spazio underground della “memoria ” .
L’inizio della attività di workshop veniva preceduta ogni mattina da un’ora dedicata al “laboratorio percettivo”,
coordinato da Laura Martini e Ilaria Vasdeki.
4.2 I “centri” del giardino
“Pattern” e “centri” come strumenti per il riuso degli spazi dell’Angelo Mai; “centri reali” e “centri virtuali”;
spettacolo-azione per interpretare e utilizzare in modo innovativo i “centri” realizzati.
Alcuni “centri” vengono costruiti in termini “reali”; altri in termini “virtuali”.
Nel primo caso i partecipanti progettano (disegnano) i “centri”. A questo scopo utilizzano la procedura illustrata
da Alexander in A Pattern Language, aggregando in modo opportuno i “pattern” del repertorio più idonei a
realizzarli ; successivamente costruiscono un modello fisico dei “centri” stessi in scala 1:1 negli spazi della
Facoltà di Architettura.
Nel secondo caso gli studenti progettano i “centri” in modo analogo, ma in luogo di costruirne i modelli fisici ne
realizzano dei modelli “virtuali” (cioè digitali). Le immagini di questi “centri” sono quindi proiettate sulla pareti
delle zone che ospitano i modelli dei centri “reali”.
La realizzazione dei centri reali e virtuali si conclude con uno spettacolo-azione organizzato da un gruppo di
artisti costituiti in associazione culturale che organizza eventi diretti a sollecitare gli spettatori (in questo caso
docenti, studenti e ab itanti) ad o sservare, i nterpretare e v ivere gli sp azi real izzati (in qu esto caso gli sp azi
dell’Angelo Mai) in modo innovativo/trasgressivo.
I centri considerati sono quelli citati in 4.1
1.
2.
3.
4.
Il “cuore” del giardino
La metafora del cuore del giardino viene rappresentata nel cortile dell’Argiletum: grandi tende
trasparenti avvolgono le attività di musica , lettura delle poesie, l’incontro tra le persone, la
meditazione.
Il caffè - libreria sul tetto-terrazza della palestra
La terrazza della palestra diventa il luogo ideale per ospitare un piccolo caffè come luogo di incontro,
anche un posto dove scambiarsi i libri, dove ascoltare musica, sintetica e dal vivo, dove ascoltare
poesie. La terrazza dell’Argiletum, al secondo piano, sembra il posto ideale per evocare il luogo
progettato.
Lo spazio multifunzionale dell’ex-cappella
Lo spazio dell’altana nell’Argiletum evoca le attività che potranno svolgersi nell’ex-capella, che
diventerà spazio per rappresentazioni, per eventi artistici, per conferenze, per concerti, ecc.
Lo spazio underground della “memoria”
“Lo spazio ipotizzato si basa sul concetto di transizione tra spazio esterno ed interno: il sottosuolo,
posto che metaforicamente rappresenta l’oscurità e la morte, diventa invece uno spazio esterno, prende
vita e richiama l’attenzione della gente del quartiere. Si trasforma in un posto dove si concentrano
esibizioni-esposizioni, in uno spazio fruibile dove si sviluppano relazioni sociali tra le persone. Così…
attraverso le profondità dell’Angelo Mai riscopriamo la vita”.
(tratto dall’ipertesto “Visita l’oscurità per trovare la vita” degli studenti:Daniele Presutti, Giulia Rotelli,
Gregorio De Luca Comandini, Giovanni Romagnoli, Belèn Baladròn Ramos, Tobias Bloh, Pauline
Elena Mortola
3
La progettazione partecipata nel Rione Monti: il caso dell’Angelo Mai
Behr, Josè Martinez Arriaza, Tobias Schirmer, Thibault Machu, Bruno Lebeau).
1. Il progetto del giardino
Il progetto del giardino (fig.3) è il risultato del processo di progettazione incrementale che parte dalla mappa
della diagnosi/wholeness (fig.1) ed è strettamente correlato alla mappa della visione (fig.2) (eseguita da Elena
Mortola, Emanuela Di Felice ed Hector Silva Peralta).
Figura 1 La mappa della diagnosi/wholeness
Elena Mortola
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La progettazione partecipata nel Rione Monti: il caso dell’Angelo Mai
Figura 2 La mappa della visione
Elena Mortola
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La progettazione partecipata nel Rione Monti: il caso dell’Angelo Mai
Figura 3 Il progetto
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Elena Mortola
6
La progettazione partecipata nel Rione Monti: il caso dell’Angelo Mai
ALLEGATI
Allegato A - PROGRAMMA DEL WORKSHOP
A new “green public square” in the heart of Rome: a case study of Angelo Mai
domenica 22 ottobre
15.00 Welcome
Accoglienza dei docenti e degli studenti presso la Facoltà di Architettura dell’Università Roma Tre, in via
Madonna dei Monti 40, Lab TIPUS (2° piano). Presentazione dei docenti e dei tutor.
16.00 Visita guidata del rione Monti
18.00 Attività libere
lunedì 23 ottobre
10.00 12.30 Lectures
Prof. Elena Mortola: Inquadramento del workshop nell’ambito della META University e del programma
Erasmus. Obiettivi del workshop. Illustrazione di alcuni progetti di riqualificazione dell’Angelo Mai elaborati
dagli studenti della Facoltà di Architettura di Roma Tre negli anni passati.
Prof. Alessandro Giangrande: Il caso dell’Angelo Mai nel processo di trasformazione del rione Monti.
Prof. Dirk Donath : Pattern Language in virtual environment
14.00 18.00 Prof. Alessandro Giangrande: A Pattern Language e The Nature of Order di C. Alexander.
Illustrazione del “poema/vision” dei centri e dei pattern idonei a realizzarli, identificati nella prima fase del
workshop.
Dott. Luigi Ciotti: Il “ventre” archeologico dell’Angelo Mai.
Prof. Andrea Moneta: Architettura come Scenografia, Scenografia come Architettura
arch. Laura Martini (CRLS): L’esperienza del paesaggio attraverso l’arte: background e evoluzioni future e
arch. Ilaria Vasdeki (CRIQ): ): La rappresentazione dello spazio vissuto: introduzione e illustrazione del
metodo. La cartografia emotiva dell’Angelo Mai e del suo contesto: distribuzione e istruzioni per l’uso.
martedì 24 ottobre
9.00 10.00 Laboratorio di percezione
10.00 14.00 Camminare mappando
15.00 18.00 Progettare gli ambiti dell’Angelo Mai
Ogni gruppo di progettazione, costituito da 3-4 studenti ed un tutor, sceglie una “visione” ed un ambito del
giardino e ne progetta gli spazi con l’ausilio dei pattern e dei centri.
mercoledì 25 ottobre
9.00 10.00 Laboratorio di percezione
10.00 18.00 Progettare gli ambiti dell’Angelo Mai
Ogni gruppo di progettazione prosegue e completa l’attività progettuale disegnando una planimetria preliminare
dell’ambito e qualche schizzo su un foglio di formato A2 o 100×70 cm.
giovedì 26 ottobre
9.00 10.00 Laboratorio di percezioneLaboratorio di percezione
10.00 18.00 Progettare gli ambiti dell’Angelo Mai
La planimetria preliminare viene utilizzata dal gruppo come base per elaborare una
rappresentazione/interpretazione dell’ambito o di una sua parte
(i) mediante un ipertesto, oppure
(ii) mediante un’istallazione realizzata in scala 1:1.
Ogni gruppo è libero di scegliere se la rappresentazione dovrà essere realistica o metaforica: in entrambi i casi
dovrà essere fedele allo spirito della “visione”, anche nei dettagli.
venerdì 27 ottobre
9.00 10.00 Laboratorio di percezioneLaboratorio di percezione
10.00 18.00 Progettare gli ambiti dell’Angelo Mai Realizzazione degli ipertesti e delle installazioni (fase
conclusiva)
sabato 28 ottobre
9.00 12.30 Presentazione dei risultati ai docenti
I gruppi di lavoro illustrano ai docenti e a tutti gli altri soggetti interessati (abitanti del rione Monti, studenti della
Elena Mortola
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La progettazione partecipata nel Rione Monti: il caso dell’Angelo Mai
Facoltà ecc.) le elaborazioni multimediali e le installazioni realizzate.
12.30 18.00 Attività libere
18.00 24.00 “Luoghi singolari” e “Teatro città“
Lo scopo di questi eventi è sollecitare le persone a vivere in modo libero e creativo gli spazi delle istallazioni e
quelli prefigurati mediante tecniche digitali.
Dopo una passeggiata collettiva dall’Angelo Mai all’Argiletum, lungo un “percorso della memoria” i
partecipanti al workshop e gli abitanti sono invitati a visitare le istallazioni ed a discutere gli ipertesti che
vengono proiettati sulle pareti e su appositi schermi.
Party sull’altana con performance musicale del prof. Raynaldo Perugini su “Lo Spirito di Roma”.
Elena Mortola
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Welfare Space e diritto alla città
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
Welfare Space e diritto alla città
Stefano Munarin e Maria Chiara Tosi
Università IUAV di Venezia
[email protected]
[email protected]
Abstract
Questa r iflessione s ’inserisce all’interno di u n pi ù ar ticolato p rogramma di r icerca d edicato ai r apporti t ra
politiche del welfare e urbanistica. Una ricerca che stiamo sviluppando centrando l’attenzione soprattutto sulla
dimensione spaziale e sulle “ricadute fisiche” delle politiche di welfare1, sul ruolo che queste hanno avuto, hanno
e possono avere nella definizione dello spazio urbano.
All’interno di questo programma, con questo paper proponiamo una riflessione sull’idea di diritti di
cittadinanza/diritti alla città, a partire dall’analisi critica di alcuni recenti “documenti urbanistici” (piani,
visions, studi) redatti a New York, Copenhagen, Londra e Los Angeles. Infine, a partire da tale lettura critica
indichiamo alcuni punti di riflessione: ritrovare forme e modalità di relazione tra politiche sociali e progetto
urbano, riprendere la ricerca progettuale sugli spazi del welfare, sviluppare progetti esplorativi che si
confrontino con la città esistente.
1. Diritti di cittadinanza, diritto alla città e giustizia spaziale.
Nelle riflessioni attorno al tema della costituzione di diritti di cittadinanza la prevalenza di un atteggiamento
orientato al sociale ha portato assai di frequente ad interrogarsi, in primo luogo, sui soggetti alla ricerca o in lotta
per l’affermazione di t ali diri tti. Si tratta pr incipalmente di minoranze (homeless, femministe, ambientalisti,
giovani, immigrati, ecc.) che nel presidiare quasi completamente la scena sociale, hanno teso a rivendicare una
pluralità di diritti: al lavoro, all’istruzione, all’educazione, alla salute, alla procreazione, all’abitazione, al tempo
libero e alla vita.
Ciò che qui ci interessa sottolineare e discutere è l’emergere, segnatamente sul finire degli anni ’60, di un filone
di pensiero e di pratiche che configurano una sorta di lento scivolamento verso la rivendicazione di diritti allo
spazio, allo spazio pubblico, alla città 2, tanto che anche il diritto a parlare stando in uno spazio pubblico, oggetto
di tante aspre rivendicazioni, lentamente tende a trasformarsi in diritto a controllare specifici spazi3.
Seguendo questo movimento apparentemente lento e lieve, ma che si rivela assai più dirompente e veloce «the
long-accepted treatment of space (or territory) as fixed, unproblematic and inconsequential» (Bromberg et al.,
2007: 2), viene meno provocando una forte sollecitazione a porre l’accento sul dove e come si affermano i diritti,
sospingendo ad interrogarsi su quale sia lo spazio in cui si formano i diritti alla città, i diritti di cittadinanza 4.
Anche la ricerca di giustizia allora semp re p iù chiede d i co mprendere ed investigare n on so lo le relazioni
dialettiche tra le condizioni sociali ed economiche dei diversi gruppi, ma anche la geografia dell’ingiustizia,
come cioè la produzione sociale dello spazio influisca sui gruppi sociali e sulle loro opportunità di sviluppo.
Giustizia territoriale (Davies, 1968), giustizia spaziale (Reynaud, 1981) o giustizia socio-spaziale (Pirie, 1983),
sono i termini con cui si è cercato di sottolineare questo mutamento, e nonostante «there are tendencies among
geographers and planners to avoid the explicit use of the adjective “spatial” in describing the search for justice
1
In una prima fase della ricerca abbiamo avviato la comparazione di alcune esperienze europee (Norvegia, Francia, Spagna, Germania,
Romania), posto il concetto di welfare space in relazione a quelli di comfort, salubrità e sicurezza e infine, anche utilizzando il progetto come
strumento esplorativo, proposto alcune riflessioni e suggestioni sul ruolo svolto dagli spazi del welfare nell’attivazione di “capi tale di
reciprocità”/“beni relazionali”. Cfr.: (Munarin et al. 2009a); (Munarin et al. 2009b); (Munarin, 2010); (Tosi, 2009a); (Tosi, 2009b).
2
«In condizioni difficili, in seno a questa società che non può completamente opporvisi e tuttavia sbarra loro la via, si fanno strada diritti che
definiscono la civiltà (nella ma spesso contro la società – per mezzo ma spesso contro la cultura). Questi diritti mal riconosciuti diventano a
poco a poco un costume prima di iscriversi in un codice formalizzato. Essi cambieranno la realtà se entreranno nella pratica sociale: diritto al
lavoro, all’istruzione, all’educazione, alla salute, all’abitazione, al tempo libero, alla vita. Tra questi diritti in formazione figura il diritto alla
città (non alla città antica, ma alla vita urbana, alla centralità rinnovata, ai luoghi d’incontro e di scambio, a ritmi di vita e impieghi di tempo
che permettano l’uso pieno e intero di questi momenti e luoghi, ecc.)». (Lefebvre, 1968: 159).
3
Quella del People’s Park movement a Berkeley è sicuramente una vicenda interessante capace di illustrare in modo assai eloquente questo
spostamento. Sul passaggio dal Free Speech al People’s Park a Berkeley vedi: (Mitchell, 2003), in particolare il cap. 3.
4
Alcuni testi più di altri hanno sottolineato con forza la necessità di questo cambiamento: (Harvey, 1973); (Lefebvre, 1974); (Soja, 1989).
Stefano Munarin e Maria Chiara Tosi
1
Welfare Space e diritto alla città
and democracy in contemporary societies» (Soja, 2009), è proprio questo spostamento concettuale a rendere
urgente l’attenzione alla dimensione spaziale delle politiche di welfare state, che possono essere intese come
strumenti per la costruzione di diritti di cittadinanza 5, considerando le importanti ricadute sulla città fisica di
queste politiche, e la necessità di rendere virtuoso il rapporto tra di esse e la città, affinché sia quest’ultima il
terreno su cui misurare non solo le geografie dell’ingiustizia e le strutture spaziali del privilegio ma anche il
senso e l’efficacia delle politiche di welfare.
Così come affermato sopra, se lo spazio non può essere più considerato come semplice supporto inerte delle
politiche di welfare, esso allora diviene terreno dove possono affermarsi nuovi e vecchi diritti di cittadinanza,
strumento ed ambito di riflessione per lo sviluppo del benessere e dei diritti sociali.
Perché è proprio questa la q uestione che ci p reme so ttolineare: la ri levanza ch e la forma d ella città e
l’organizzazione spaziale dell’insieme di servizi ed attrezzature prodotti dalle politiche di welfare esercita sulla
qualità della vita quotidiana, sulla crescita delle diseguaglianze, sul degrado dell’ambiente, sulle possibilità di
convivenza tra diversità, e quindi sull’affermazione dei diritti di cittadinanza.
Anche pensando che la libertà di fare e rifare le nostre città, producendo e riproducendo lo spazio, è «one of the
most precious yet most neglected of our human rights» (Harvey, 2008).
2. “10 minutes walk”. Equità, diversità e democrazia spaziale in alcuni
recenti documenti che si occupano del futuro della città.
Alcuni recenti documenti espressi in forme assai diverse quali piani urbanistici, visions, studi, forum sociali,
mostre, ecc. hanno posto al centro della propria attenzione la città fisica e la sua capacità, se opportunamente
stimolata dal progetto, di produrre opportunità di miglioramento della vita quotidiana nella direzione di maggior
benessere, sicurezza, salubrità e giustizia.
Pur muovendo da p rospettive e approcci assai differenti ed ot tenendo risultati pi ù o meno ap prezzabili e
condivisibili proprio in termini di maggiore equità, diversità e democrazia spaziale6, alcune recenti esperienze
sviluppate in particolare a New York, Los Angeles, Londra e Copenhagen riconoscono l’urgenza di trasformare
lo sp azio fi sico7 e di gen erare nuov o sp azio c ollettivo co n la conv inzione ch e i d iversi m ateriali d i cu i
quest’ultimo co nsta, quali parchi, giard ini, marciapiedi, a ree verd i, ban chine fluviali o marine debbano
necessariamente intendersi come luoghi «where the rules of public life and citizenship are tested and formed» 8.
In questo senso quindi la produzione di spazio collettivo è stata assunta come modo attraverso il quale si può non
solo migliorare il benessere della popolazione9, ma anche formare e rafforzare diritti.
In questi documenti, le pr ocedure attr averso cu i si è cerc ato d i dare f orma a nuov o spazio c ollettivo sono
molteplici. Ci interessa qui soffermarci solamente su una di queste: la costruzione di “reti” formate da servizi,
attrezzature, spazi aperti, percorsi, ecc. che devono essere facilmente accessibili, tanto da stabilire che dal luogo
di residenza o di lavoro siano raggiungibili in 10-15 minuti a piedi.
«We have developed three main approaches to ensure that nearly every New Yorker lives within a 10-minute
walk of a park by 2030. First, we will upgrade land already designated as play space or parkland and make it
available to new audiences. Second, we will expand usable hours at our current, high-quality sites. And third, we
propose re-conceptualizing our streets and sidewalks as public spaces that can foster the connections that create
vibrant communities» (The City of New York, 2008: 31).
«We know that busy city-dwellers do not have much spare time in their daily lives. Today, every Copenhagener
spends on average one hour in a park every other day. Today 60% of Copenhageners live within 15 minutes
walk of green or blue areas.This is good but it can be improve. The initiative will cover the creation of new
parks, beaches and sea swimming-pools as well as good, safe, green connections through town so i twill easier to
reach the blue and green areas. We are not necessarily talking about large areas. Even small parks of about 2.000
square meters, about fifth the size of a football pitch, are large enough for many activities and experiences…
Goal for 2015. 90% of Copenhageners must be able to walk to a park , a beach or a sea swimming-pool in less
than 15 minutes» (Municipality of Copenhagen, 2007).
5
«by the mid-twentieth century a series of basic services were at least partly removed from the reach of capitalism and the market because
their provision was considered too important and universal. As T.H. Marshall (1963) memorably argued, people acquired right to these goods
and services, mainly the latter, by virtue of their status as citizens, and not because they were able to by them in the market», (Crouch, 2004:
81)
6
Una riflessione sui criteri per valutare i contenuti di equità, diversità e democrazia degli strumenti di piano è contenuta in: (Fainstein, 2009).
7
«Here we have focused on the physical cit y, and i ts possibilities to unleash oppo rtunity. We h ave exa mined the tangible barriers to
improving our daily lives: housing that is too often out of reach, neighborhoods without enough playgrounds, the aging water and power
systems in need of up grades, congested roads and subways. All are challenges that, if left unadressed, will inevitably under mine our
economy and our quality of life». (The City of New York, 2008: 3).
8
Il testo continua così: «In this sense they are not just about improving the phisical health and well-being of people as they go about their
daily lives, but about creating more reciprocal forms of social life as well. There is no sustainable future without them». (Thompson et al.,
2007: 20).
9
«human beings have always aspired to mould the landscape in order to create a pleasant environment that satisfies their material needs but
also to be a sourc of well being». Y. Lungingbul, «Landscape, well-being and quality of life», in (Aa.Vv. 2008).
Stefano Munarin e Maria Chiara Tosi
2
Welfare Space e diritto alla città
«London's open spaces include green spaces, such as parks, allotments, commons, woodlands, natural habitats,
recreation groun ds, play ing fields, agricultur al land , burial grounds, am enity sp ace, c hildren’s play are as,
including h ard surfaced playgrounds, and accessible countryside in the urban fringe. Civic spac es, such as
squares, piazzas and market squares also form part of the open space network. The variety and richness of
London's open spaces contribute hugely to its distinctive and relatively open character. Open spaces provide a
valuable resource and focus for local communities, can have a positive effect on the image and vitality of areas
and can en courage i nvestment. T hey p rovide a respi te fro m t he bu ilt en vironment o r an oppo rtunity fo r
recreation. Th ey promote health , wel lbeing and qu ality of life. Th ey are also v ital facilities fo r developing
children's play, exercise and social skills» (Major of London, 2004: 142).
Per molti aspetti assai diversi l’uno dall’altro, questi tre strumenti concordano però sul fatto che «accessible,
good-quality, we ll m antained g reen sp aces an d p laygrounds, m odern tr ansport system a nd sa fe, walk able
neighborhoods that encourage physical activity and social interactions are key constituents of urban quality of
life» (Aa. Vv., 2009b: 13).
I 10-15 minutes walk, ma più in generale l’accessibilità pedonale ai servizi ed alle attrezzature, viene utilizzata in
queste esperi enze come st rumento, insieme di dispositivi at traverso cui misurare il li vello di “democrazia
spaziale” e di “equità” della città, oltre che la loro capacità inclusiva e di accoglimento delle diversità10.
Analogamente ai tre esempi riportati sopra, ma introducendo un piccolo scarto, a Los Angeles la riflessione sui
temi dell’accessibilità ai servizi ed alle attrezzature si arricchisce incorporando le modalità di organizzazione del
trasporto pubblico. «Transportation access is a critical human rights issue. If someone doesn’t have access to
public transit, the system is in essence denying them basic human rights: access to education and healthy food;
access to jobs; access to healthcare; and the pursuit of goals beyond mere survival. In a city like Los Angeles,
with its many social and economic extremes, transportation denial further en-trenches neighborhood and racial
segregation» (Clarke, 2009).
Il progetto come sollecitazione di pratiche e politiche, mediante il quale costruire condizioni di maggiore, ma
soprattutto più facile e diffusa accessibilità agli spazi collettivi, così come il riconoscimento della necessità di
una pi ù co mpleta mappatura d ei serv izi e delle att rezzature co llettive esi stenti d istribuite lun go la rete de i
trasporti pubblici hanno assunto in questi documenti un ruolo essenziale. E’ come se una stessa domanda rivolta
ai cittadini fosse collocata come incipit a questi lavori: «Is there a park within walking distance of your house,
work or school?»11.
Ovviamente ciò che qui ci interessa è l’uso del progetto come prefigurazione che oltre ad unire la lettura del
presente all’esp lorazione di un fu turo p ossibile in centiva l a mobilitazione so ciale e politica, ma so prattutto
consente di riconcettualizzare e delineare nuovi campi d’applicazione delle politiche di welfare, ad esempio,
provando ad integrare le politiche dei servizi sociali con quelle urbanistiche e ambientali, ma anche con quelle
della mobilità.
Niente di nuovo sotto il sole si potrebbe facilmente dire, basta ricordare come anche solo qualche decennio fa la
riflessione su servizi e attrezzature avesse indotto alcuni autori a riconoscere nell’integrazione tra approcci e
nella messa in rete di segmenti e frammenti di progetti e politiche la via per dare forma ad un’infrastruttura
collettiva capace di tenere assieme pratiche e spazi.12
Tuttavia, un approccio come quello proposto dai lavori sopra riportati ci sembra contribuire ad una riabilitazione
del concetto di welfare - espressione che non solo ha perso la propria carica utopica 13, ma in molti paesi «è
caduta in disuso o, nel m igliore dei casi, ( risulta) p ortatrice d i sign ificati corrosi» (Aa.Vv. 2009a : 5) consentendoci oltremodo di riconoscere utili best practices di riferimento.
3. Stare bene, oggi.
«Ciò che è comune alla massima quantità di individui riceve la minima cura» 14. E’ rispetto alle condizioni dello
stare bene, welfare e well-being, che vorremmo venissero declinate le parole di Aristotele.
E’ indubbio, infatti, che ci si trovi oggi di fronte ad una «crescente domanda pubblica di salute e benessere nei
contesti urbani contemporanei» (Bellaviti, 2009: 65)15. Se l’idea di benessere che pensiamo sia fertile e utile
veicolare è quella di «possibilità e libertà degli abitanti di un territorio di “stare bene” nel proprio spazio di vita»
oltre che della «capacità delle comunità a “stare bene” sul territorio» (Bellaviti, 2009: 67), ci sembra importante
aggiungere che il pro getto urb ano/urbanistico pu ò e de ve s orreggere q uesta ca pacità 16, e deve fare ciò
10
Sul ruolo del marciapiede nella costruzione di reti di spazi collettivi e come dispositivo attraverso cui dare forma a diritti alla città vedi:
(Loukaitou-Sideris, et al., 2009)
11
E’ la domanda che ci si pone a Los Angeles nell’ambito della mostra Just Space(s) organizzata da UCLA. www.justspaces.org
12
Su questo tema è interessante la rilettura degli studi di Carlo Aymonino sul rapporto attrezzature-servizi e città compiuta di recente da
Ilaria Valente. I. Valente, “Servizi, attrezzature, infrastrutture: tre parole chiave per l’architettura degli spazi pubblici”, in (Pomilio, 2009).
13
«La malattia più grave che forse oggi affligge il welfare è la sua perdita di legittimità, derivante dalla delegittimazione del suo nucleo
utopico». (Habermas, 1998).
14
Aristotele, Politica, Libro II cap. 3, cit. in (Ostrom, 1990: 13).
15
Più diffusamente vedi: (Bellaviti, 2005); (Capolongo, 2009).
Stefano Munarin e Maria Chiara Tosi
3
Welfare Space e diritto alla città
principalmente attraverso una precisa e attenta sollecitazione dei luoghi dove si sta “in pubblico” e si svolgono le
pratiche collettive di cittadinanza.
Tra le più rilevanti esperienze di relazione tra politiche del welfare e città si colloca ovviamente l’esperienza
olandese degli anni Sessanta e Settanta, che ha immaginato e forzato la città a diventare una sorta di «integration
machine», capace di «encouraging distinct communities and group to settle, interact and estabilish dynamic
relationships ( entro più g enerali) “massive bo ttom-up emancipation polizie» (V anstiphout et al., 2009 : 86 ).
Maakbaarheid è il termine (criticamente ironico) con il quale viene indicato questo massiccio intervento dello
Stato, oggetto di una recente rivisitazione critica, nell’ambito di “Open City” - 4th International Architecture
Biennale Rotterdam 20 0917, da parte degli storici del gruppo Crimson. Una critica sviluppata attraverso alcuni
progetti la cui qualità radicale sta nel comprendere e lavorare con le possibilità esistenti anche per immaginare
nuove forme (materiali, politiche, processi) di welfare. Per i Crimson «creating a series of projects that share an
ethos of straightforwardness and realism is surely more effective in meeting the city’s needs than another out-ofthe-box alternative, or a spectacular transformational vision» (Vanstiphout et al., 2009: 91).
Su posizioni analoghe ci sembra si collochi (almeno parzialmente) il lavoro che da anni sta conducendo Liane
Lefaivre. Occuparsi del s uolo, d el l ivello d ella strada, d egli s pazi p er il gi oco è a nche i n qu esto caso un
“progetto”, un’ipotesi trasformativa che prende spunto dall e condizioni e dalle pratiche esistenti. Si tratta di
un’attività bottom-up, o g round-up, co me vien e d efinita d alla st essa Lefaiv re, attrav erso cui mig liorare le
condizioni della vita in città. Passando anche attraverso la costruzione di spazio pubblico «dispersed, distributed
and polycentric…bringing people together and opening up the neighborhood to the outside» (Lefaivre, 2007:
24).
Assieme ad altri quindi, stiamo dicendo che «we are in need of New Forms of Welfare: new forms of coherence
and synthesism that are able to frame private interest within a shared social, political and cultural project for the
city» (van Toorn, 2009: 5).
Tale bisogno, da tempo sollecita ed interroga la ricerca a fornire ipotesi. Il progetto non si sottrae a questo
compito, ed anzi ci sembra che alcuni diversi tentativi, di cui abbiamo cercato di rendere sommariamente conto,
stiano prova ndo a m isurarsi con quest o im pegno, a vendo c hiare le im plicazioni della costruzione e
modificazione dello spazio nel processo di sviluppo dei “diritti alla città”.
4. Conclusioni
In conclusione ci sembra utile segnalare brevemente alcuni aspetti interessanti di queste (e altre) esperienze,
alcuni punti che sollecitano ulteriori ricerche e riflessioni.
1.
2.
3.
4.
Cercano di rimettere in relazione politiche sociali (dai servizi alla persona all’organizzazione delle reti
delle attrezzature) e progetto urbano/urbanistico. Cosa questa apparentemente ovvia e facile, ma che in
realtà è rara da trovare, anche perché richiede una forte condivisione e coesione (pratica e ideale) tra i
molti soggetti e settori coinvolti.
Se l’en fasi p osta sug li sp azi collettiv i an che m inuti (marciap iedi, playgrounds, gi ardini e o rti d i
vicinato, cortili, ecc.) riporta alla nostra attenzione temi che ricorrono periodicamente nella tradizione
della c ultura u rbanistica (ad e sempio, l’idea d i “ unità d i vicinato”), tuttavia q uesti documenti non
indicano un nostalgico e acquietante ritor no al passato, quanto piuttosto il tentativo di fare i conti,
confrontandosi apertamente, con le condizioni poste dalla città contemporanea. Possiamo forse dire che
suggeriscono un ritorno al passato in termini però più radicali, perché riprendono e aggiornano l’idea
che la cu ltura u rbanistica po ssa n uovamente svolgere u n ruolo attivo e trai nante nell’ideazione d i
inedite forme e spazi del welfare.18
In questo senso co stituiscono a no stro avv iso (o alm eno così no i li co nsideriamo) d elle forme di
progetto esplorativo, tentativi che mostrano delle possibilità senza prefigurare la necessità di una città
“altra” (quartieri modello, città di fondazione, ecc.), ma lavorando tra gli “interstizi” (fisici ma anche
politici e sociali) della città esistente.
Ovviamente ci presentano ipotesi, non soluzioni, altrimenti dovremmo pensare che la ricerca è finita,
che sappiamo cosa è il welfare urbano og gi. M a così no n è, siamo in cammino, e qu esti p rogetti
segnalano semplicemente delle strade (forse semplicemente dei sentieri) possibili.
16
Capacità che è doppia, come ci ricorda Attilio Belli: «Una capacità sociale, attenta ad innescare relazioni complesse con il contesto e gli
attori, ri volta ad u n m utuo ap prendimento, de nsa di responsa bilità, l eggera, ch e s i disp one a d ave r cura de lle c ose e a m anifestare
sollecitudine per gli altri. Una capacità istituzionale, fatta di competenza istituzionale, di capacità tecnica, di promozione di processi inclusivi
e di ricerca dal ‘locale’ di collegamenti con i quadri delle politiche nazionali» (Belli, 2005: 5).
17
www.biennalerotterdam.nl
18
Sapendo che in altri momenti: «la ricerca paziente delle dimensioni fisiche e concrete del benessere individuale e collettivo… ha lasciato
nella città il deposito più stabile del ventesimo secolo». (Secchi 2005: 108-110)
Stefano Munarin e Maria Chiara Tosi
4
Welfare Space e diritto alla città
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5
Stefano Munarin e Maria Chiara Tosi
Spazi di partecipazione e pianificazione:dilemmi e conflitti nell’esperienza toscana
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
Spazi di partecipazione e pianificazione:
dilemmi e conflitti nell’esperienza toscana
Giancarlo Paba
Dipartimento di Urbanistica e pianificazione del territorio
Università di Firenze, [email protected]
Tel 0552756476/fax 0552756484
Camilla Perrone
Dipartimento di Urbanistica e pianificazione del territorio
Università di Firenze, [email protected]
Tel 0552756469/fax 0552756484
Abstract
La sperimentazione della costruzione partecipata dei piani urbanistici si è fortemente diffusa in Italia. In
Toscana una specifica legislazione regionale di promozione della partecipazione nel governo del territorio ne
ha incoraggiato la sperimentazione, in particolare a livello comunale. Dall’analisi delle esperienze derivano
nuovi dilemmi sul rapporto tra partecipazione e pianificazione, e la necessità di considerare rischi e
opportunità del coinvolgimento dei cittadini nell’elaborazione degli strumenti urbanistici. In questo scritto,
dopo alcune considerazioni generali, viene analizzata l’articolazione tra partecipazione e processi di
elaborazione tecnica del piano strutturale del comune di Prato.
1. Premessa
1
Una p arte dei progetti finanziati d alla Regione Toscana in base a lla leg ge sul la partecipazione ri guarda la
costruzione partecipata di piani comunali. Molte esperienze sono in corso e non è possibile una valutazione
complessiva. In questo scritto sono con tenute alcun e considerazioni sui pro cessi partec ipativi ch e han no
accompagnato il piano strutturale di Prato, coordinati da un gruppo di lavoro dell’Università di Firenze. Non è
2
qui possibile una descrizione analitica del processo (la documentazione è consultabile nel sito del comune ). Ci
limiteremo quindi a un primo bilancio dei risultati e dei dilemmi che ne sono derivati.
L’incorporazione nell’o ssatura della leg islazione toscana del principio secondo il qu ale la dem ocrazia
partecipativa de ve di ventare la forma o rdinaria di gove rno mette i n primo pi ano l’int reccio t ra proc essi di
elaborazione dei piani urbanistici e territoriali e percorsi partecipativi/deliberativi. Le due leggi regionali toscane
sul governo del territorio e sulla promozione della partecipazione impongono di risolvere i nodi imposti da
questo intreccio. È intorno a questa articolazione che verrà esaminato il caso di Prato, dopo una breve messa a
punto dei problemi che affliggono in questi anni la città.
2. La crisi e i problemi del comune di Prato
La città di Prato sta attraversando una profonda crisi economica, divenuta drammatica negli ultimi anni. La crisi
3
ha investito i fondamenti economici e sociali della comunità . Il peso del settore tessile è diminuito e la sua
organizzazione interna è profondamente cambiata. Molte attività sono scomparse, con una perdita complessiva di
1
Si tratta della legge regionale toscana n. 69 del 27 dicembre 2007, “Norme sulla promozione della partecipazione alla elaborazione delle
politiche regionali e locali”. Per due diversi commenti vedi A. Magnaghi, “La proposta di legge sulla partecipazione in Toscana”, Contesti.
Città, territorio, progetti, n. 2, 2007, 104-106; A. Floridia, “Democrazia deliberativa e processi decisionali: la legge della Regione Toscana
sulla partecipazione”, in Stato e mercato, 82, 2008, 83-110.
2
I materiali citati sono disponibili al seguente indirizzo web http://partecipazione.comune.prato.it/
3
G. Dei Ottati, P. Birindelli, Le prospettive economiche di Prato e del suo territorio, Laboratorio di Economie Applicate, Polo Universitario
di Prato, 2006; G. Dei Ottati, Sintesi interpretativa delle ricerche sulle prospettive economiche: Prato da distretto tessile a distretto della
new economy, Università di Firenze, 2007; G. Dei Ottati, An Industrial District Facing the Challenges of Globalisation: Prato Today,
Università di Firenze, 2008; Aa.Vv., Picture: Promoting Innovative Clusters Through Urban Regeneration, District, Interreg IIIC, Rapporto
finale, Prato 2008.
Giancarlo Paba, Camilla Perrone
1
Spazi di partecipazione e pianificazione:dilemmi e conflitti nell’esperienza toscana
posti di lavoro e di competitività. I processi di diversificazione non si sono dimostrati in grado di rivitalizzare il
sistema produttivo locale.
Alcune di queste trasformazioni hanno portato al più rilevante fenomeno di immigrazione cinese in Italia, con
effetti importanti sulla struttura del distretto che sono al centro della preoccupazione dei cittadini pratesi (e degli
stessi cittadini di origine straniera). La crisi ha alterato il metabolismo della città: si è modificato il ruolo dei
legami interni all’imprenditoria locale; si è indebolita la funzione delle famiglie; si è inceppato il sistema tacito
di trasmissione delle conoscenze che ha consentito nel passato al distretto di proteggere la sua performance; si è
allentato il rapporto tra sistema produttivo e sistema formativo; si è alterato il rapporto tra rendita e profitto, a
favore della prim a; si è i ndebolita quella cap acità d i i ntegrazione d ei citt adini provenienti da lo ntano ch e
Becattini aveva chiamato “pratesizzazione” (Becattini, 2000).
I mutamenti socio-economici hanno cambiato l’organizzazione spaziale e funzionale della città. La rendita ha
esercitato un r uolo im portante, che gl i st rumenti ur banistici non sono stati i n gr ado d i a ddomesticare, in
particolare nelle operazioni di ristrutturazione che hanno interessato gli stabilimenti manifatturieri dimessi e
nell’erosione d i margini di t erritorio no n edificati. Alcune o perazioni di t rasformazione u rbana che ha nno
preceduto l’ elaborazione de l p iano s trutturale h anno a limentato la d iscussione tra i citt adini, m ettendo i n
evidenza l’esistenza di contrasti e visioni diverse.
Alla crisi sociale si è acco mpagnata la crisi degli equilibri politici locali, con il fallimento traumatico della
storica esperienza amministrava della sinistra. Questi fattori di natura politica e sociale hanno reso turbolento il
processo di partecipazione, ed è in questa condizione di incertezza e di conflitto che si è svolto il processo
partecipativo e di elaborazione del piano.
3. Partecipazione e elaborazione tecnica del piano strutturale
Il processo partecipativo che ha accompagnato la redazione del piano di Prato si è confrontato con due rilevanti
condizioni di contesto: la prima è legata alla natura dell’oggetto della partecipazione (lo statuto del territorio del
piano strutturale); la seconda è legata alla congiuntura sociale di Prato sulla quale ci siamo già soffermati. Viene
ora analizzata la prima condizione di contesto.
Il piano strutturale di una città importante e di grandi dimensioni, mette al lavoro una vasta comunità di persone,
ciascuna con un ruolo specifico, dai tecnici agli amministratori, dai rappresentanti politici ai consulenti, dagli
enti ai quali la l egislazione affida un ru olo attiv o ai livelli di am ministrazione implicati nel pro cesso. La
legislazione tos cana ha progressivamente elaborato m eccanismi di reciproc o controllo, a ga ranzia della
democraticità e della trasparenza del processo: le funzioni del Garante della comunicazione, la collaborazione tra
gli enti territoriali (che si traduce in un processo di co-pianificazione), le verifiche della valutazione integrata, i
meccanismi d i c ontrollo esercitati dalle arti colazioni della m acchina amministrativa com unale. Un ru olo
essenziale co ntinuano ad avere gli strumenti “fo rmali” a disposizione d ei cittadini, ch e o perano a v alle del
processo, attraverso la possibilità di presentare osservazioni e il diritto di ottenere una risposta.
Il piano urbanistico è u n “sistem a conc reto d i i nterazione mu ltipla” ( Crosta, 1990 ), ap erto al g ioco d elle
valutazioni tecniche, delle competenze specialistiche, del dialogo multidisciplinare, del confronto degli interessi
e delle strategie dei diversi attori sociali. Negli ultimi anni è emersa la consapevolezza che nel “gioco del piano”
le g aranzie istituzionali non siano sufficienti ad assicu rare l a capacità de lla macchina di pian ificazione di
interpretare i bisogni sempre più stratificati e complessi dei cittadini, e di tenere conto della loro molteplicità di
interessi e aspirazioni. È inoltre necessario considerare l’estrema varietà di problemi e argomenti che fanno parte
dell’elaborazione di un piano: dalla casa al territorio, dall’ambiente alla mobilità, dai problemi del centro storico
a quelli della periferia, dallo spazio pubblico alla disciplina degli interventi dei privati, dalla perequazione alla
tutela del paesaggio.
Indagare, o so lo racco gliere, le o pinioni di t utti i cittad ini di u na grande città sug li arg omenti co nnessi
all’elaborazione di un piano strutturale è quindi un compito impossibile (appartenendo semmai al dominio della
democrazia rapprese ntativa). L a dem ocrazia partecipativa si pro pone u n obiettivo dif ferente: no n qu ello di
contare le opinioni di tutti i cittadini, ma quello di ricavare, attraverso strumenti specializzati, molte (il maggior
numero possibile) delle opinioni significative presenti nella città, che siano rilevanti in relazione ai problemi di
cui si discute, mettendole a confronto interattivo, in modo che le posizioni possano evolvere nel corso del
processo.
La natura dell’oggetto della partecipazione (lo statuto del territorio del piano strutturale) ha condizionato la
definizione del modello adottato a Prato. Ci si è mossi su un terreno sperimentale, almeno in Italia. Esistono
infatti tecniche consolidate e affidabili di trattamento interattivo di progetti semplici e/o definiti. Nel caso di
obiettivi della partecipazione circoscritti da un punto di vista territoriale o tematico è possibile utilizzare una
delle tecniche contenute nella cassetta degli attrezzi degli esperti di pianificazione interattiva. Non esiste al
contrario un modello standard di piano urbanistico partecipato di una città di grandi dimensioni. Negli ultimi
anni molti comuni hanno accompagnato la redazione dei piani urbanistici con iniziative d i consultazione e
coinvolgimento della popolazione e delle organizzazioni sociali, con risultati anche interessanti, e tuttavia a
nostro a vviso sem pre pa rziali. Le pr atiche pi ù f requenti ri guardano l a co nsultazione de gli at tori s ociali
Giancarlo Paba, Camilla Perrone
2
Spazi di partecipazione e pianificazione:dilemmi e conflitti nell’esperienza toscana
4
significativi d ella città ( stakeholders) attraverso ‘tavoli’, forum e meccanismi della stessa natura . Insomma
“deliberare” la sistemazione di una piazza è una cosa, “d eliberare” un piano regolatore è un’altra cosa, più
complicata e difficile.
Figura 1. Schema metodologico di un processo di piano strutturale (dal Quaderno del piano strutturale di Prato.
Conoscenze, strategie, partecipazione, a cura di G. Gorelli, G. Paba, C. Perrone, marzo 2009).
Un secondo problema è costituito dal fatto che molti processi partecipativi che accompagnano la redazione dei
piani si svolgono in un percorso separato e sghembo rispetto al processo di elaborazione tecnica dello strumento
urbanistico. Tecnici e progettisti del piano lavorano su un tavolo diverso da quello delle pratiche interattive
messe in campo dalle organizzazioni specializzate nella gestione della partecipazione. I risultati del processo
partecipativo – che spesso precede l’elaborazione vera e propria del piano urbanistico – assumono perciò un
valore autonomo e vengono alla fine consegnati al committente e ai tecnici. La traduzione dei risultati della
partecipazione nei d ocumenti de l p iano è estern a a l pro cesso d i i nterazione. Spesso que sta t raduzione non
avviene, e i m ateriali e laborati insieme ai cittad ini rest ano come un (p ur importante) ba gaglio di
raccomandazioni, le quali possono avere qualche effetto sulle scelte di piano, in modo tuttavia indiretto e non
programmato. Ci sono aspetti positivi e negativi in questo modo di procedere (come avviene in tutti i modelli
partecipativi/deliberativi, i quali per definizione non puntano alla perfezione, ma al conseguimento di un set
circoscritto di obbiettivi, che spesso è possibile raggiungere solo se si rinuncia a raggiungerne degli altri).
Nel definire il modello di interazione per il piano strutturale di Prato si è cercato di dare una risposta nuova ai
due problemi sui quali ci siamo appena soffermati. La scelta compiuta è stata quella di suddividere il processo
partecipativo in due fasi distinte per finalità, modalità organizzative e strumenti utilizzati:
1. una prima fase di ascolto attivo della città e di “costruzione interattiva delle conoscenze del piano” che
si è svolta da aprile a dicembre 2008;
2. una seconda fase, specificamente “deliberativa”, di discussione dei principi dello statuto del territorio,
che si è conclusa con il Town Meeting che si è tenuto il 28 marzo del 2009.
4
L. Bobbio, a cura di, A più voci. Amministrazioni pubbliche, imprese, associazioni e cittadini nei processi decisionali inclusivi, Edizioni
Scientifiche Italia ne, Napoli , 2 004; J. Gastil, P . L evine, eds., The Deliberative Democracy Handbook: Strategies for Effective Civic
Engagement in the 21st Century, Jossey-Bass, San Francisco, 2005; R. Chambers, Participatory Workshops: A Sourcebook of 21 Set of
Ideas & Activities, Earthscan, London, 2002; S. Kumar, Methods for Community Participation: A Complete Guide for Practitioners, ITDG
Publishing, London, 2002; N. Wates, The Community Planning, Earthscan, London, 2000.
Giancarlo Paba, Camilla Perrone
3
Spazi di partecipazione e pianificazione:dilemmi e conflitti nell’esperienza toscana
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Rinunciando alla ricostruzione dettagliata delle due fasi, segnaliamo gli obiettiv i che il modello di
lavoro da noi scelto si proponeva di colpire in modo integrato:
La prima fase del processo partecipativo – di “asco lto attivo ” e di co struzione in terattiva della
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conoscenza (Sclavi, 2000; Forester, 1999) – aveva lo scopo di ricostruire la molteplicità dei punti di
vista esistenti in città su un vasto campo di argomenti, con particolare attenzione alla rilevazione dei
bisogni e delle proposte provenienti dai gruppi sociali più trascurati e marginali, da quelle componenti
sociali non organizzate che non vengono ascoltate nei processi di piano (mentre le forze politiche o
sociali strutturate, e le stesse organizzazioni di protesta urbana, sanno come occupare la scena pubblica
della città, e i portatori di interesse sanno come rappresentare i propri interessi nella scena pubblica e
nelle quinte più nascoste dei processi decisionali).
La seconda fase del processo partecipativo – di “deliberazione” dei principi dello statuto del territorio –
aveva lo scopo di affidare lo scioglimento di alcuni dilemmi del piano a strumenti codificati e “neutrali”
di discussione e di “deliberazione”, in modo che gli esiti del processo fossero alla fine condivisi da un
campione rappresentativo della popolazione di Prato.
Infine, uno degli obiettivi più importanti e a nostro parere innovativo, del modello adottato è stato
quello di costruire un quadro strutturato e esplicito di relazioni tra processi interattivi e elaborazione
tecnica del piano. Lo scopo è stato quello di garantire l’autonomia dei due processi e nello stesso tempo
di raggiungere il loro positivo coordinamento: l’ufficio di piano ha condotto il proprio lavoro in base ai
tradizionali pri ncipi di co rrettezza prof essionale e di c ompetenza esperta; il grupp o dell’università
incaricato del processo interattivo ha organizzato liberamente gli appuntamenti interattivi; una terza
figura implicata sia nel processo partecipativo sia nell’ufficio di piano ha svolto un ruolo di interfaccia
tra i due processi, consentendo la traduzione in tempo reale dei risultati della partecipazione negli
elaborati del piano (i n p articolare n ella co struzione d el quadro conoscitivo e n ell’indagine sul
patrimonio territ oriale). In q uesto modo la collaborazione tra c onoscenza esperta e c onoscenza
interattiva ha potuto assu mere u n c arattere co ncreto e i nfluire su lla formazione d ello strumento
urbanistico. I risultati del lavoro interattivo sui quali esistevano contrasti tra i settori di popolazione
coinvolti avrebbero viceversa nutrito la fase successiva della partecipazione, nei laboratori territoriali e
nel town meeting conclusivo.
Figura 2. Schema del progetto della prima (la costruzione interattiva delle conoscenze del piano) e della seconda
fase (deliberare lo statuto del territorio) del processo partecipativo del piano strutturale di Prato.
4. Riflessione intorno ai dilemmi della partecipazione
È nostra intenzione ritornare su questi argomenti con maggiore attenzione in futuro; qui di seguito proponiamo
6
un primo elen co d i “d ilemmi d ella p artecipazione e d ella d eliberazione”(Pellizzoni, 200 5; Bobb io, 2006)
5
Sul tema dell’ascolto “attivo” e della conoscenza interattiva ci si riferisce, tra i molti possibili, a M. Sclavi, L’arte di ascoltare e i mondi
possibili, Le Vespe, Milano, 2000; J. Forester, Planning in the Face of Power, University of California Press, Berkeley, 1988; F. Fischer,
Citizens, Experts, and the Environment: The Politics of Local Knowledge, Duke University Press, Duhram/London, 2000; P.L. Crosta,
Politiche. Quale conoscenza per l’azione territoriale, Angeli, Milano, 1988.
6
Di seguito si elenc ano alcuni rif erimenti bibliograf ici sul tema: J. Elster, ed., Deliberative Democracy, Cambridge University Press,
Cambridge, 1998; C. Mouffe, ed., Dimensions of Radical Democracy, Verso, New York, 1992; D. Trend, ed., Radical Democracy: Identity,
Citizenship and the State, Routledge, New York, 1996; J. Gastil, P. Levine, eds., The Deliberative Democracy Handbook: Strategies for
Effective Civic Engagement in the 21st Century, Jossey-Bass, San Francisco, 2005; L. Susskind, S. McKearnan, J. Thomas-Larmer, eds.,
Consensus Building Handbook: A Comprehensive Guide to Reaching Agreement, Sage, Thousand Oaks, CA, 1999; J.L. Creighton, The
Public Participation Handbook: Making Better Decisions Through Citizen Involvement, John Wiley & Sons, San Francisco, 2005. In italiano
(anche oltre le tecniche deliberative) vedi L. Bobbio, a cura di, A più voci. Amministrazioni pubbliche, imprese, associazioni e cittadini nei
Giancarlo Paba, Camilla Perrone
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Spazi di partecipazione e pianificazione:dilemmi e conflitti nell’esperienza toscana
(relativamente ai processi di elaborazione dei piani urbanistici) che ci è sembrato utile ricavare dalla valutazione
del caso di Prato (e di altre esperienze toscane a nostra conoscenza; vedi Paba et al. 2009):
 uno dei limiti più rilevanti deriva dalla mancata o imprecisa definizione della posta in gioco all’inizio
del processo, dall’assenza di empowerment e di una forse circoscritta ma certa “cessione di sovranità”
da parte d elle amministrazioni, o da ll’assenza d i una reale di sponibilità a ri mettere i n d iscussione
posizioni decise a l ivello politico o i n se de di conce rtazione co n i soggetti ist ituzionali e gl i
stakeholders;
 mancata comprensione del carattere positivo di un accordo eventualmente raggiunto; permanenza tra gli
amministratori di u na c oncezione d ella deliberazione come retorica del co involgimento, la
partecipazione c ome volontà astratta di dialogo, e no n come scelta di u na m odalità effic ace di
scioglimento d i problemi complessi (un a sp ecie di ‘p artecipazione ril uttante’: si a ccetta il
coinvolgimento dei cittadini ma si riserva alle amministrazioni il diritto di accoglierne eventualmente i
risultati);
 una for te e di ffusa resisten za delle macch ine am ministrative a d acc ompagnare i p rocessi
partecipativi/deliberativi e a contribuire al loro svolgimento e alla gestione dei risultati;
 la r esistenza dei tecn ici, d egli esp erti, dei co nsulenti s cientifici o professionali a d ac cettare
condizionamenti al proprio lavoro e a mettere a disposizione la propria competenza;
 la mancanza di una vera e propria cultura della deliberazione; anche in questo caso si può parlare di
‘partecipazione riluttante’: sono desiderati e rivendicati contesti nei quali sia possibile far valere le
proprie idee, mentre c’è meno disponibilità a considerare rilevanti le idee degli altri;
 il ruolo contraddittorio dei comitati cittadini e delle associazioni, lacerati tra la richiesta in astratto di
maggiore partecipazione e la diffidenza nei confronti delle amministrazioni che conduce alcune reti ad
assumere un ruolo di contestazione dei processi partecipativi e a rinchiudersi in attività di denuncia (o
anche di proposta) tanto preziose, quanto spesso unilaterali e auto-referenziali;
 la difficoltà di elaborare politiche integrate, multi-settoriali, trasversali;
 la d ifficoltà d i i ncludere nel p rocesso p rogettuale il m aggior n umero possibi le di pun ti di vista,
7
creandone di nuovi nel corso dell’azione, valorizzando il contributo degli abitanti (mentre è più facile
per le amministrazioni affidarsi al conforto di meccanismi maggioritari nell’inseguimento del consenso
attorno ad un unico punto di vista);
 l’eccessiva fi ducia ne ll’efficacia degli strumenti de lla partecipazione ( town meeting, ost , congegni
deliberativi) condiziona fortemente il processo nella fase di costruzione dei problemi, alimentando la
confusione tra pubblicità, consultazione e partecipazione, ovvero quelle che Fareri definisce come le
“tre famiglie di strumenti partecipativi (o meglio che vengono definitivi partecipativi dai soggetti che se
fanno promotori)” (F areri, 2009, 219); non è il ricorso a uno strumento p iuttosto ch e a un altro a
distinguere la partecipazione vera da quella falsa, quanto piuttosto la comprensione dei diversi livelli di
efficacia dei vari approcci e degli strumenti che gli sono più propri;
 la difficoltà di assumere una visione larga e integrata della partecipazione come occasione di inclusione
delle differenze (in qualunque forma esse si manifestino, da quelle sociali a quelle politiche), la cui
efficacia di pende dal modo i n c ui tutti i fatt ori di scussi co-a giscono e c o-determinano il process o
(Sandercock, 1998, Forester, 2009);
 la strumentalizzazione del conflitto come occasione di disegno delle politiche (policy making) innesca
spesso meccanismi di paralisi decisionale e di asservimento delle politiche pubbliche alle oscillazioni di
piccole componenti della società o a episodici eventi pubblici; il conflitto vien e spesso considerato
come il responsabile del fallimento del processo partecipativo, sebbene, in un’ottica di analisi delle
politiche, le ragioni dei fallimenti dei processi non possano essere ricercate direttamente o unicamente
nel conflitto (Fareri, 2009; Forester, 2009);
 è difficile trasformare il processo partecipativo (in particolare quello promosso dalle istituzioni) in un
evento capace di coinvolgere in modo esteso la comunità locale; per questo motivo la costruzione
processi decisionali inclusivi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2004; L. Pellizzoni, a cura di, La deliberazione pubblica, Meltemi,
Roma, 2005. Un manuale problematico e aperto è quello curato da Mirella di Giovine, Micol Ayuso, Giada Saint Amour di Chanaz, Anna
Lisa Pecoriello, Francesca Rispoli, come esito finale del progetto europeo Urbact/Partecipando coordinato dal comune di Roma: European
Handbook for Participation: Participation of Inhabitants in Integrated Urban Regeneration Programmes as a Key to Improve Social
Cohesion, Roma, 2006.
7
Sul tema del rapporto tra conoscenza esperta e conoscenza esperienziale esiste una generosissima letteratura. Di seguito si elencano alcuni
dei riferimenti bibliografici considerati come seminali: J. Friedmann, Retraking America, a Theory of Transactive Planning , Anchor Press,
New York, 1973; D. Schon, The Reflexive Practicioner, Basic Books, New York, 1983; J. Forester, Planning in the face of Power, The
regent of the University of California, 1989; J. Forester, The Deliberative Practicioner, Encouraging Participatory Planning Processes, The
MIT Press, Cambridge, Massachussetts, 2000; P. L. Crosta, Politiche. Quale conoscenza per l’azione, Franco Angeli, 1998, Milano. Per una
ricostruzione completa della bibliografia sul tema si veda: C. Perrone, “Conoscenza, pianificazione e città delle differenze: percorsi di lettura
e di riflessione”, in A. Balducci, V. Fedeli, a cura di, I territori della città in trasformazione. Tattiche e percorsi di ricerca, Franco Angeli,
Milano, 200 7; C. Pe rrone, DiverCity. Conoscenza, pianificazione e città delle differenze, Fr anco An geli, M ilano, 2 009, in co rso d i
pubblicazione.
Giancarlo Paba, Camilla Perrone
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Spazi di partecipazione e pianificazione:dilemmi e conflitti nell’esperienza toscana

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sociale di un evento locale costituisce un passaggio importante e imprescindibile rispetto all’efficacia
della partecipazione e del suo utilizzo come policy instrument (Fareri, 2009, 231).
è difficile trovare un giusto equilibrio tra pratiche della democrazia partecipativa e dispositivi della
democrazia deliberativa (Gastil, Levine, 2005; Susskind et al.1999); sono frequenti i casi in cui la scelta
si orienta unicamente verso uno dei due ambiti o si confondono i due ambiti di interattività, mentre sono
più rari i casi di combinazione virtuosa delle due sfere che caratterizzano le pratiche interattive; la
consapevolezza della necessità di una combinazione delle due modalità è già un esito del processo
partecipativo, ma soprattutto è un indicatore della consapevolezza istituzionale e della concretezza della
posta in gioco;
manca spesso una connessione certa, affidabile, tra progettazione partecipata e realizzazione; e sono
molto rare le attività di monitoraggio e valutazione dei processi e dei risultati eventualmente raggiunti.
Bibliografia
Giacomo Becattini, G. (2000), Il bruco e la farfalla. Prato: una storia esemplare dell’Italia dei distretti, Firenze,
Le Monnier.
Bobbio, L. (2006), “Dilemmi della democrazia partecipativa”, /Democrazia e diritto/, 4.
Pier Luigi Crosta, (1990), La politica del piano, Milano, Franco Angeli.
Gastil, J., Levine, P. (2 005), ed s., /The Del iberative De mocracy Han dbook: Strategies for Eff ective Civic
Engagement in the 21st Century/, Jossey-Bass, San Francisco.
Paolo Fareri (2009), Rallentare.Il disegno delle politiche urbane, a cura di M. Giraudi, Milano, Franco Angeli.
John Forester, (1999), The Deliberative Practitioner, Encouraging Participatory Planning Processes,
Cambridge, Massachussetts, The MIT Press.
John Forester, (2009), Dealing with Differences. Dramas of Mediating Public Disputes, Oxford, New York,
Oxford University Press.
Giancarlo Paba, Anna Lisa Pecoriello, Camilla Perrone, Francesca Rispoli, (2009), Partecipazione in Toscana.
Interpretazioni e racconti, Firenze, Fup.
Giancarlo Paba, (2010), Corpi urbani. Differenze, interazioni, politiche, Milano, FrancoAngeli.
Perrone, C. (2007), “Conoscenza, pianificazione e città delle differenze: percorsi di lettura e di riflessione”, in
Balducci A., Fedeli V. (a cura di), /I territori della città in trasformazione. Tattiche e percorsi di ricerca/ Franco
Angeli, Milano.
Pellizzoni, L. (2005), (a cura di), La deliberazione pubblica, Roma, Meltemi.
Giancarlo Paba, Camilla Perrone
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Territori dell’urbano. Spazi, processi, politiche, nella costruzione della città pubblica
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
Territori dell’urbano. Spazi, processi, politiche, nella
costruzione della città pubblica
Anna Laura Palazzo, Lucio Giecillo
Abstract
Partendo dalla fibrillazione della coppia urbano-città, il presente contributo intende esplorare la
correlazione tra le mutazioni dello scenario economico globale e l’emergere di pattern socio-spaziali
afferenti ad un’accezione dell’“urbano” altra dalla forma-città tradizionale. Accogliendo alcune suggestioni
emergenti all’interno del dibattito nazionale ed internazionale il paper ragiona intorno a due scenari di
contrasto (quello della “densificazione” e quello della “intensificazione”), per approdare alla lettura di una
porzione di territorio romano, caratterizzata dall’emergere di dinamiche che segnano una discontinuità forte
con gli esempi europei ma anche con alcune significative esperienze nordamericane.
1. L’ipotesi della densificazione
La d ensità rapp resenta un elem ento di prim aria im portanza n ella costru zione dell ’immaginario della citt à
moderna. I sociologi della Scuola di Chicago, che per primi compresero l’importanza della città come laboratorio
avanzato di convivenza umana, giunsero quasi subito a sostenere come una delle caratteristiche più autentiche
della vita urbana consistesse, oltre che nella diversità tra gli individui (eterogeneità) e nel numero degli stessi
(dimensione), proprio nella loro densità (Wirth, 1938). Di conseguenza l’urbanism venne definito come il modello
di vita dato dall’interazione tra un elevato numero di persone diverse per cultura e provenienza in uno spazio
relativamente ristretto, ovvero all’interno di in un contesto urbano caratterizzato dalla compattezza dei tessuti
edilizi e da una elevata densità demografica.
Con il process o di s uburbanizzazione la percezione del problema c ambia ra dicalmente. L e di stanze t ra gli
elementi della scena urbana si dilatano, mentre i livelli crescenti di mobilità consentono una dislocazione sempre
più ampia delle attività umane nello spazio. Alla città dei grattacieli, delle core areas congestionate dal traffico e
brulicanti di at tività e di vita, si a ffianca prima n egli U sa e poi i n E uropa, u n p aesaggio a b assa de nsità
caratterizzato dall’assenza dei tratti distintivi dell’urbanità tradizionale (compattezza dei tessuti edilizi, continuità
dei fronti urbani, equilibrio tra costruito e spazio aperto, ecc.).
L’America è forse il contesto dove la contrapposizione tra città e anti-città, tra urbano e suburbano, ha trovato il
modo di manifestarsi in anticipo e con maggiore intensità rispetto al resto del mondo occidentale. Proprio
dall’esperienza americana son o gi unte in anni recenti alcune im portanti ipotesi di lav oro su l tem a della
densificazione come risposta ai problemi legati allo sviluppo ineguale del suburbio e allo sprawl com e sua
espressione p iù p roblematica. A l di là di una cert a ingenuità di pa rtenza l egata al cl ima d i f orte t ensione
ideologica che animava il dibattito pubblico nell’America del dopoguerra, negli anni l’analisi dello sprawl è
progressivamente approdata a formulazioni più articolate del rapporto tra consumo di suolo e costi (economici e
sociali) del paradigma della crescita. Smart Growth e New Urbanism, pur nelle differenze di prospettiva che
caratterizzano i due movimenti culturali, hanno condotto una lunga campagna di sensibilizzazione sui temi della
densità, della mixité, della pedonalità, come criteri da osservare per il raggiungimento di più elevati standard di
qualità urbana e contenere gli effetti negativi dello sprawl.
Sul versante degli approcci spaziali le sollecitazioni mirano alla realizzazione di quartieri dotati di una propria
autonomia formale, di un elevato grado di accessibilità pubblica, e di una ampia rete di percorsi pedonali. Le
differenze tra New U rbanism e Sm art G rowth riguardano sostanzialmente i nuovi i nsediamenti, c he pe r i
sostenitori d ella Sm art Gro wth d ovrebbero pr ivilegiare i co siddetti greyfields, l e aree a bbandonate o
sottoutilizzate, secondo la logica del completamento (in-fill). Gli esempi sono molteplici e disegnano un quadro
articolato di prassi operative; come ad esempio il noto principio del Transit Oriented Development (TOD), un
modello di organizzazione del territorio urbano tendente a stabilire una forte integrazione tra la pianificazione
territoriale e il sistema della mobilità. Intorno alle stazioni del sistema di trasporto regionale il TOD prevede la
realizzazione di nuclei edilizi densi e la qualificazione delle aree libere residue, destinate ad attività agricole o ai
servizi di quartiere. La densità, unita ad altri dispositivi di incremento della mixité funzionale e tipologica, al
Anna Laura Palazzo, Lucio Giecillo
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Territori dell’urbano. Spazi, processi, politiche, nella costruzione della città pubblica
disegno dello spazio aperto, diviene uno strumento di contenimento della crescita urbana e di controllo della
forma urbis. Attraverso l’applicazione di tali modelli urbani si immagina di modificare anche i territori a bassa
densità, attraverso la predisposizione di assi commerciali ad alta densità, in grado di innervare un territorio
ampio attorno ad ogni singolo nodo e a creare dei sistemi di riferimento anche al di fuori dei nodi di scambio.
Sullo sfond o rimane i l problema d el governo dell’intera fil iera della prod uzione dello spazio: si a nella
prospettiva di un rafforzamento del coordinamento regionale (una cabina di regia forte a livello metropolitano)
come suggerito dai sostenitori della prospettiva neo-regionalista, che all’ipotesi di una maggiore competizione
amministrativa tra gli en ti l ocali. Second o la public choice theory sono i nfatti l e am ministrazioni a do ver
competere per offrire un ambiente di vita più confortevole ad un costo più contenuto per i cittadini (Henig,
2002). La competizione è poi alla base dell’innovazione territoriale nella misura in cui sollecita l’azione delle
istituzioni locali nell’intraprendere processi di modificazione dall’interno dei modelli di governance.
Occorre aggiungere che in assenza di un quadro amministrativo coerente, gli approcci basati sul controllo della
dimensione spaziale sono destinati ad incontrare difficoltà enormi nel passaggio dal piano teorico a quello delle
sperimentazioni concrete. E’ evidente infatti la difficoltà che un’applicazione estesa degli approcci regolativi
comporta in assenza di unna visione strategica complessiva, ad esempio in materia di trasporti, in materia fiscale
e di una reale integrazione tra le diverse politiche di sviluppo.
Riferendo quanto sopra accennato all’area romana, ci si rende ad esempio conto di come l’assenza di una rete di
trasporto efficiente renda particolarmente problematica l’idea di una forte integrazione tra le polarità territoriali.
Lo stesso policentrismo, che è stato un banco di prova per le grandi metropoli europee, sembra minato nel caso
in questione da una condizione “strutturale” della città che in passato ha già decretato il fallimento di diversi
tentativi di pattern lineari: la codificazione di Roma come città radiocentrica - “tutte le vie portano a Roma” continua a condizionare gli sviluppi insediativi.
2. L’ipotesi della intensificazione
L’affermazione su larga scala della velocità-movimento si è accompagnata allo spostamento progressivo del
baricentro delle relazioni economiche, sociali e di potere a monte e a valle della coppia urbano-città: a monte
verso la dimensione sovra locale (dove si registra la transizione delle relazioni economiche all’interno della sfera
globale); e a valle, verso la dimensione micro-spaziale, dove si assiste ad una generale perdita di senso delle
categorie in terpretative tr adizionali in f avore d i u n mo dello i nsediativo “ debole”, an archico n ei c riteri
organizzativi, e a-gerarchico negli esiti spaziali.
All’interno di tale scenario si consuma la dicotomia tra lo “spazio dei flussi” (il sistema degli scambi economici,
produttivi, finanziari, ecc.) e la geografia dei luoghi, caratterizzata dal prevalere delle relazioni simboliche ed
affettive (Castells, 2003). L’attenzione di studiosi ed esperti per gli aspetti dinamici (di flusso, appunto) ha
privilegiato n el t empo l’analisi d elle re lazioni v erticali, all udendo con q uesto ad una pro gressiva
smaterializzazione dei rapporti tra gli elementi della scena urbana. Va da sé come questa prospettiva ha favorito
il consolidarsi di una visione della problematica urbana sbilanciata sui temi della connettività, dell’integrazione,
della rete, seco ndo una l ogica di ti po econo micistico, a discapito d i as petti le gati ad esem pio alla
multidimensionalità dei contesti (Smith, 2001). Insomma, al di là della tendenza a considerare lo spazio dei flussi
in continuità con il sistema dei luoghi od in opposizione ad esso, l’irruzione della velocità-movimento nella vita
e nell’esperienza quotidiana ha operato alcune profonde trasformazioni nel modo comune di intendere lo spazio
e il tempo. La relazione che tiene assieme tutti gli oggetti della scena urbana si basa su un’idea del tempo che
non è più Chronos, il tempo lin eare e cr onologico d ella storia, e n eanche Aion, il tempo immutabile della
divinità, ma è un tempo mutante, un tempo che si trasforma attraverso processi di smaterializzazione dello spazio
per mezzo dell’accelerazione.
La ci ttà co me unità di vicinanza risulta fo rtemente co ndizionata d all’irruzione della v elocità n ella n ostra
esperienza. La sua simbologia non può essere più affidata ai quadri prospettici delle vie commerciali e ai teatri
naturali delle piazze, ma si trasferisce nella bidimensionalità delle comunicazione a distanza. Si assiste così ad
una progressiva smaterializzazione degli elementi costitutivi della vita urbana, ovverosia al loro transito nel
regno dell’invisibile, determinato dalla fibrillazione dei loro nessi spaziali (Virilio, 1998).
Quanto sopra richiamato colloca il progetto al centro di un ampio processo di revisione dei canoni di riferimento
nell’organizzazione fisica e simbolica dello s pazio u rbano. L’ac celerazione im posta dai processi di
smaterializzazione dell’economia, della produzione, del lavoro, implica inoltre una riformulazione delle nozioni
di “estensione” e di “durata”. Il qui ed ora della comunicazione veloce si sostituisce alla durata dello spazio
euclideo, rendendo ogni luogo ed ogni tempo accessibile alla telepresenza e dilatandolo indefinitamente. Il
prodotto dell’accelerazione è i nfatti un a spazialità che c oincide co n la fi ne della forma-metropoli e c on
l’emergere di un o rdine s ociale e s paziale radicalmente d iverso dal passato. E ’ n oto infatti che u na delle
contraddizioni fondamentali del capitalismo moderno stia proprio nella dialettica tra fixity e motion, ovvero nel
conflitto tra la tendenza all’accumulazione (alla creazione cioè di capitale fisso) e bisogno di rinnovamento,
ovvero di una “distruzione creativa” dell’esistente e della sua sostituzione con qualcosa di radicalmente diverso
(Harvey, 1981).
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Anna Laura Palazzo, Lucio Giecillo
Territori dell’urbano. Spazi, processi, politiche, nella costruzione della città pubblica
Il capitalismo tende quindi a costituire limiti e barriere con l’obiettivo di rendere più efficiente il funzionamento
della macchina produttiva, ma predispone anche una serie di strutture (ed infrastrutture) destinate al superamento
degli impedimenti fisici stessi e alla realizzazione di una più fluida circolazione di beni e servizi. Va da sé come
la di ffusione su sca la g lobale d ella co municazione v eloce rend a o bsolete anche le r esidue tendenze
all’accumulazione, inaugurando una fase nuova per il capitalismo: un mondo ad “accumulazione zero”, in cui
tutto è in movimento e dove la materia stessa tende a cedere il posto all’immaterialità dell’informazione (Virilio,
2000). Ne consegue che anche la smaterializzazione della realtà fisica si ripercuote sulle strutture della formametropoli, aprendo il campo a molteplici declinazioni del rapporto tra spazio abitato e tempo-movimento. Al
tempo universale, cronologico della storia si sostituisce il tempo dei molteplici racconti-spostamenti individuali,
che si at tivano a r idosso de l p rocesso di g lobalizzazione dell’economia, d ella f inanza, d ella produzione.
L’incontro nella Babele delle temporalità urbane, suburbane e super-urbane, della pluralità delle soggettivitàtraiettorie in movimento, definisce una “seconda realtà”, che segna il superamento dei dualismi della tradizione
occidentale. Così anche l’“abitare”, il lavoro e il tempo libero lungi dall’essere concettualizzati in funzione
dell’opposizione t ra se dentarietà e m ovimento, divengono l ’esito di p iù art icolate c orrelazioni tra f orme d i
accessibilità immateriale e nuovi nomadismi, tra Hoestia ed Hermes.
Questa rappresentazione della città senza centro né periferia, orizzonte spaziale di territorialità liquide, dominio
del posturbano, chiede oggi di essere indagata con strumenti differenti rispetto alla staticità della prospettiva
tradizionale. Se la tradizione dell’analisi urbana è interamente centrata sull’idea di una corrispondenza senza
residuo tra “forma” ed “urbano”, ovvero tra morfologia fisica e modi dell’organizzazione sociale, il mondo ad
“accumulazione zero” invoca l’assunzione di parametri di analisi in grado di catturare la fluidità dei processi di
trasformazione dello spazio sociale (Dear, 2000; Soja, 1989). La chiave dell’intensità apre in tal senso scenari
inediti, organizza ndo una percezione de ll’urbano c ome dispositivo di relaz ione tra tem poralità di verse (sia
rispetto alla do minante d el movimento, ch e dell’evento, o vvero dell’avvicendamento n ello spazio d i episodi
diversi). In altre pa role, l’in tensità è u na d imensione in grado di registrare l’oscillazione d i sens o che si
determina nel passaggio dal piano della visione areale, statica, euclidea a quello della visione discorsiva, legata
alle traiettorie di spostamento (individuali e collettive).
Stante la crescente d isponibilità delle persone al movimento, l’in tensità d iviene un pa rametro sem pre più
importante p er co mprendere le tr asformazioni dei si stemi urbani. L a velo cità e la simultaneità che si
accompagnano al la di mensione di namica nei p rocessi di p roduzione d ello s pazio sembra i noltre rafforzare
un’idea de ll’urbano c ome pura forma (Lefebvre, 1973) . U n’idea d ell’urbano com e i ncontro, a ssemblea,
simultaneità che assume configurazioni fisiche (forme) coerenti con le pratiche sociali che in esso hanno luogo:
“questa forma non ha uno specifico contenuto, ma è un centro di attrazione e di vita. E’ un’astrazione ma, a
differenza delle entità metafisiche, l’urbano è un’astrazione concreta, associata alla pratica. Le creature viventi, i
prodotti dell’i ndustria, la tecnologia e la ricchezza, le ope ra di cultura, i m odelli di vita, l e situ azioni, le
modulazioni e le rotture della quotidianità – l’urbano accumula tutti questi contenuti”.
3. Né città né campagna. La dimensione della compiutezza
Densità e intensità, in quanto ingredienti di una complessità che l’urbanità sembra ricercare per dispiegarsi al
meglio, non incontrano una facile accoglienza nel caso romano, dove lo statuto di “Città eterna” condizionata da
una risorsa archeologica da preservare ad ogni costo, così come l’espansione a macchia d’olio hanno del tutto
scoraggiato quell’intenso ciclo infrastrutturale che costituisce ogg i il portato d ella “modernità” in altre città
europee e d’oltre oceano. Qui, l’estrema rarefazione insediativa suggerisce piuttosto di portare l’attenzione a un
target di qualità urbana che non porti in dote improbabili fattori di richiamo per attività che si pretendono centrali
e ad alto valore aggiunto, lavorando con cautela e “giudizio” su riconversioni nella chiave di un’apertura allo
“spazio co mune” di modelli in troversi gener almente i ncentrati su lla dimensi one r esidenziale. I l pe rcorso d i
“compiutezza” che abbiamo provato a sperimentare riguarda un luogo tra i tanti dell’estrema periferia romana,
Isola Sacra, fortemente radicato nell’immaginario letterario e progettuale per le memorie del passato (come
paesaggio naturale del delta del Tevere, ridotto a bonifica nel secolo scorso). Il “désenclavement” non è opzione
affrontabile nel tempo breve, i costi di riconversione sarebbero spropositati e il fattore “distanza” si combina
perversamente con quello “inaccessibilità”.
Isola Sacra è oggi espressione emblematica del conflitto tra città e campagna. L’espansione urbana contende
spazio alle diverse ragioni del territorio aperto - regimi di tutela, attività ricreative e produttive - che a loro volta
si manifestano con significative interferenze e conflitti: tra questioni di “forma” (come aspetto del paesaggio
visibile e sensibile), q uestioni di “ struttura” (come st ruttura dell’economia a graria, che re gola gl i assetti
produttivi e determina le convenienze degli operatori), e questioni di “funzionalità” (in chiave ecologica e di
sostenibilità ambientale, ma anche della fruizione pubblica).
I valori attivi della natura e della storia - i tratti di paesaggio fluviale meno compromessi, le caratteristiche trame
dei poderi e dei canali della bonifica novecentesca, i segni più cospicui e le tracce minori di insediamenti antichi
-, i ntercettano i n chiave conflittuale v alori ed aspetti d ella modernità fondamentalmente i ncentrati su
problematiche forme di abitare - la “campagna urbana” con il suo ibrido statuto -, e su varie formulazioni del
3
Anna Laura Palazzo, Lucio Giecillo
Territori dell’urbano. Spazi, processi, politiche, nella costruzione della città pubblica
produrre, che riguardano le zone artigianali e, soprattutto, alcune forme del loisir relative alla nautica da diporto
che recapita in corrispondenza dell’isola estesi rimessaggi di barche e cantieri navali in piena attività, con la
privatizzazione d elle sp onde fluviali e occupazione d elle r esidue aree g olenali. Fanno d a s fondo al le
trasformazioni in atto regimi di pianificazione sempre più articolati e complessi. La messa a fuoco di vocazioni e
potenzialità condivise dalle strumentazioni in essere (la salvaguardia di lembi residuali di naturalità insospettata
utili per attiv are co nnessioni ecologiche t ra R oma e il m are, la t utela de lle trame a gricole d ella b onifica
novecentesca, la valorizzazione delle risorse archeologiche) non può prescindere da una considerazione specifica
delle attitudini e aspettative di accessibilità, sostenibilità e partecipazione alle scelte da parte della cittadinanza
legate al tempo presente, ampiamente declinate a diverse scale e con riferimento a distinte categorie di utenti.
La popolazione di Isola Sacra è stimata in 25400 abitanti (dati al 2006), con poco meno di 10000 nuclei familiari
(9875). Facendo realisticamente i conti con la popolazione attualmente insediata (per una densità di circa 20
ab/ha), lo scenario di sviluppo perseguito dal Piano Regolatore afferma un principio di densificazione isotropa
che prevede il completamento diffuso del territorio dell’isola. Una saturazione dello spazio edificabile residuo
che non modifica sostanzialmente il principio insediativo precedente e che interagisce con iniziative concentrate
di forte momento a condizioni di mobilità sostanzialmente invariata.
Questo pattern insediativo che propone una progressiva densificazione delle aree già avviate all’urbanizzazione,
secondo sequenze de l t ipo d isperso-diffuso-consolidato, non ra ggiungerà mai soglie tali da no n comportare
problemi in termini di attrezzature e servizi. Tali condizioni di “campagna urbana”, diffuse nell’area romana,
sono probabilmente quelle a più alto rischio: rischio di obsolescenza di un modello insediativo difficilmente
“correggibile”, ma assai meno stabile all’usura della città compatta, in quanto incrementi di densità o innesti di
nuove funzioni costituiscono opzioni difficilmente praticabili, con costi elevati per tutti.
La questione va piuttosto posta nei termini di una governance della filiera della produzione urbana, che tenga
conto tanto delle ragioni della “complessità”, che di quelle della “compiutezza” (la città deve riprodurre forme di
convivenza e d i u rbanità a ccettabili). Ciò ri chiede prima di t utto u n ap profondimento d ei pa ttern d i
trasformazione dello spazio insediativo del territorio in questione. Detti pattern non devono naturalmente essere
intesi come semplici perimetri spaziali, texture bidimensionali, entità areali misurabili zenitalmente. Si tratta
piuttosto di sistemi socio-spaziali multidimensionali, af ferenti a m odi complessi di o rganizzazione d ella
produzione, del lavoro e del tempo libero emersi con la fibrillazione della coppia urbano-città: dall’emergere ad
esempio di pattern socio-spaziali legati alla dimensione culturale e ricreativa connessa all’agricoltura periurbana,
alla difesa e alla valorizzazione dei serbatoi residui di naturalità, al nuovo ruolo della mobilità e dei collegamenti
con i g randi serv izi territ oriali, alla ri fondazione d ello spaz io de l welfare , ai m odi attraverso cui si va
riposizionando in questi ambiti la questione abitativa, e così via.
Del resto, chi vive a Isola Sacra, pur perseguendo stili di vita decisamente urbani, si trova in un contesto che
trattiene, accanto a lembi di natura naturans del paesaggio del Tevere, elementi e relitti di ruralità da recuperare
(trame agricole, vivai, orti urbani adiacenti ai fossi o in aree di risulta, “aree in attesa”). Una suggestione, sul lato
della costruzione della “città pubblica”, proviene da alcune esperienze di multifunzionalità agricola, che ammette
varie formule a partire da un principio fondamentale: l’agricoltura svolge ormai da diversi anni un ruolo non più
identificabile soltanto nella sua funzione di produzione di beni di prima necessità, ma lega la sua sopravvivenza
all’assolvimento di altre funzioni (paesaggistiche, turistico-ricreative, culturali, didattico-educative, terapeutiche,
riabilitative, ecc.), che peraltro svolgono una funzione di presidio del territorio oltre che di contrasto al declino
delle attività agricole residue e alla diminuzione dell’occupazione di settore. Un’idea di welfare verde praticato
soprattutto nel nord Europa in alcune modalità risorgenti di agri-civismo (Ingersoll, 2004), legate ai bisogni
civici di educazione, ricreazione e mantenimento del verde periurbano e infraurbano, è poi possibile immaginare
e sviluppare forme di imprenditoria locale an che attraverso la concessione dei terreni demaniali per attività
vivaistiche, già parzialmente presenti; strutture ricreative (maneggi, fattorie didattiche, agriturismo…); utilizzo di
tecniche di riqualificazione paesaggistica (land art), con il fine di preservare o rivitalizzare a fini turistici le
numerose aree ricadenti nel vincolo archeologico e di connettere i due capisaldi territoriali di Isola Sacra e Ostia
Antica.
Sul versante del modello insediativo, è difficile immaginare in tempi brevi una inversione del pattern insediativo
dominante. Bisogna avere il coraggio di operare su scenari di lungo periodo, accettando il fatto che si tratta di
paesaggi “recenti”, passibili dunque di ulteriori cicli di trasformazione. Occorre quindi un atteggiamento teso a
contemperare ob iettivi di qua lità am bientale ad o perazioni di manutenzione del te ssuto u rbano. Ciò si può
tradurre, in termini di forma urbis, in “ giudiziose” o perazioni di compattamento urbano, s postando p esi
insediativi in aree strategiche, con pattern insediativi ad una dimensione conforme di vicinato – la grana delle
“cuadras” che ancora oggi si rileggono come esito dell’appoderamento – operando al loro interno destinando i
“vuoti” a funzioni e forme che favoriscano la socialità nel quadro di un rinnovato patto con il paesaggio.
Anna Laura Palazzo, Lucio Giecillo
4
Territori dell’urbano. Spazi, processi, politiche, nella costruzione della città pubblica
Bibliografia
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Anna Laura Palazzo, Lucio Giecillo
5
Percezione dello spazio pubblico per costruire scenari di progetto. Le Greenway della città di Potenza.
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
Percezione dello spazio pubblico per costruire scenari di
progetto. Le Greenway della città di Potenza.
Rocco Pastore
Dottore di Ricerca in Rappresentazione dell’Architettura e dell’Ambiente
presso il Politecnico di Bari,
Dipartimento di Architettura e Urbanistica.
Abstract
La percezione degli spazi urbani supporta il progetto di riqualificazione. Interventi strutturali e scenografie
mutevoli mirano a stimolare processi di riappropriazione degli spazi della città da parte degli utenti, che la
fruiscono come un ipertesto, fatto di materiali naturali, agricoli e artificiali, risolvendo in tal modo criticità e
conflitti.
La tesi è sviluppata attraverso un progetto di sistema ambientale per Potenza connesso per mezzo delle
GREENway (GWP), vie-verdi che portano il paesaggio nella città, costituendosi esse stesse come elementi di
connotazione paesaggistica. Si fornisce un metodo possibile per progettare gli spazi aperti urbani e sub-urbani
migliorando convivenza e coesione in luoghi eterogenei e complessi con la doppia attenzione ecologica e
percettiva.
Negli ultimi anni la città sta ripensando se stessa attraverso continui programmi di riqualificazione. Spesso però
ci si preoccupa della piccola scala del quartiere piuttosto che del sistema-città nel suo complesso, trascurandone
la st ruttura generale e p rocedendo pe r p arti “ autonome”. N ei p rogetti è ne cessario p untare s ull’idea d i u n
linguaggio co mune per riscop rire un ’identità u rbana un itaria, so stenere la con tinuità delle tra sformazioni e
preservare la leggibilità dell’insieme.
A tal fine, nella presente ricerca applicata alle vie verdi per la città di Potenza, si sostiene la tesi secondo cui la
percezione dello spazio pubblico e la sua successiva “trascrizione” grafica forniscono uno strumento d’indagine
e d’azione in grado di ridare unitarietà al contesto urbano caotico.
Il progetto delle GREENway1 (GWP), paesaggio che penetra nella città, nasce dalla necessità di risolvere il
problema dello scollamento tra tessuto edilizio e strada attraverso un processo di riqualificazione diffuso a scala
urbana e peri-urbana. L’obiettivo è quello di consolidare nell’immaginario collettivo un’idea di città unitaria,
fondata sulla sua interpretazione identitaria e riformata da interventi di qualificazione ecologica e dotazione di
servizi co nformi ag li stand ard con temporanei d i spazi pubb lici. I l rinnovato sistema ambientale d i Poten za,
costituito da n odi, gli spazi a perti urbani e sub-urban i, c onnessi per m ezzo delle vie verdi, elem enti d i
connotazione paesaggistica, interpreta quindi la sua vocazione di città-natura.
La ri cerca si co lloca nell’am bito scien tifico dell a rap presentazione, con appo rti d isciplinari d a parte
dell’architettura del paesaggio, dell’ecologia del paesaggio e dell’urbanistica2.
Un c ontributo im portante al la definizione d el metodo d ’indagine è da to da gli studi co ntemporanei sulla
percezione urbana, che hanno come precursore K. Lynch3. Ricercatore e progettista, egli ha rintracciato la natura
delle relazion i contraddittorie e conflittuali tra forma d ell'ambiente f isico e strutture so ciali ed economiche,
rimarcando la convinzione che la forma di uno spazio abbia influenza sui comportamenti sociali, economici e
morali delle persone, che possa migliorarli e peggiorarli e che quindi molti dei problemi della società urbana
possano essere risolti per mezzo della variabile estetica. Il background formato per le riflessioni a base del
L’acronimo G WP (GreenWay per Potenza) è del progetto attuato d al Diparti mento di Architettura, Pianificazione e Inf rastrutture di
Trasporto dell’Università degli Studi della Basilicata e dal Comune di Potenza dal titolo VIE VERDI per la città-natura di POTENZA
proposta di un sistema di GREENway (GWP) – Resp. scientifico prof. A. Sichenze
2
L’Urb anistica “rappresentata come ciò che pone fine a un inesorabile processo di peggioramento delle condizioni della città e del
territorio presi in esame e come inizio di un virtuoso processo del loro miglioramento” (Secchi)
3
Kevin Lynch (1918-1984) concentra la sua attività di ricerca nello studio della percezione del paesaggio urbano da parte delle persone. I
suoi contributi scientifici, oltre a rappresentare un punto di svolta per la teoria urbanistica, spaziano in un vasto campo concettuale, dalla
psicologia ambientale alla geografia della percezione.
1
Rocco Pastore
1
Percezione dello spazio pubblico per costruire scenari di progetto. Le Greenway della città di Potenza.
progetto contempla anche gli studi condotti da E. T. Hall (1968)4 e G. Cullen (1989)5 e le sperimentazioni
italiane (De Carlo, 1968)6.
Gli strumenti della rappresentazione utilizzati per l’indagine e il progetto paesaggistico a scala urbana sono stati
il disegno a mano libera, per appuntare le impressioni visive, fornendo un supporto per la definizione di progetti
e scenari, la cartografia, per ottenere mappe astratte e schematiche dei conflitti e delle convivenze negli spazi
pubblici, il foto-realismo, per la comprensione presso un target di utenti allargato. Se da un lato, infatti, il
progetto urbano di tipo percettivo ha bisogno del continuo supporto del disegno, per imprimere istintivamente le
sensazioni visive suscitate dai luoghi urbani e costruire gli eidotipi su cui riflettere e tecnicizzare le proposte,
dall’altro la razionalizzazione delle sensazioni percettive spaziali e temporali necessita di simulazioni della realtà
effettuate con metodi geometrici.
L’attuale interesse dell’u rbanistica p er i co nflitti so ttesi ag li sp azi p ubblici, ev idenziati dalle tra sformazioni
urbane, ha stimolato quindi l’approccio interdisciplinare nella progettazione, integrandola anche con ricerche
sociologiche e di psicologia comportamentale, che cercano di agire sul legame tra la percezione di un ambiente
urbano e il comportamento sociale7.
Potenza è un città diffusa, sviluppata per “recinti tematici” - spazi commerciali, centri terziari direzionali – e
interventi disegnati di quartieri-tipo molto diversi tra loro e privi di un concetto unitario di città. Gli spazi che
separano questi “recinti”, residui di standard mai realizzati, lacerti di natura o campagna semi-abbandonata, pur
assumendo spesso la funzione di canale trasportatore, non strutturano la forma urbana, ma generano caos. Gli
spazi urbani di Potenza sono affetti, inoltre, dai due problemi dell’indifferenziazione e dello scollamento delle
strade dal tessuto edilizio.
Nel primo caso le aree aperte della città tendono ad assomigliarsi, per la dilatazione degli spazi legata alle
condizioni orografiche, al disordine edilizio, alla presenza di vegetazione abbondante ma residuale, e quindi
anch’essa disordinata. La conseguente percezione di omogeneità diffusa da un lato ha abituato la popolazione a
convivere con l’idea di una città verde, ma senza entusiasmo, dall’altro genera disorientamento da parte dei
visitatori occasionali. La rappresentazione dell’identità collettiva, che si manifestava in passato nella piazza, è
assente, perché m anca l’og getto stesso d ella r appresentazione, ovvero u n Landmark, un elem ento d i
qualificazione spaziale, e la m emoria no n è s ufficiente da s ola a so ddisfare i bi sogni di i dentità di una
popolazione che convive in situazioni frammentarie, in recinti vicini ma separati.
Nella seconda situazione, invece, si percorrono strade in soprelevata o sottoposte al tessuto edilizio semicentrale
e periferico, sempre a causa della morfologia tormentata del sito, rendendo difficoltosi i collegamenti tra i vari
“recinti” e dimessi i grandi spazi residuali. Si verifica, quindi, l’abbandono di questi vuoti tutti uguali e senza
qualità o la forzatura della convivenza con essi, dal momento che non possono essere occupati né da edifici, né
da standard urbani da realizzare “con poco sforzo”.
Una prima proposta di soluzione alle criticità urbane evidenziate è data dal progetto ecologico. Si è elaborato un
modello di tipo “ecosistemico” per realizzare politiche di sviluppo sostenibile applicate alla città. La sostenibilità
a cui ci si riferisce è di tipo spaziale e sociale, piuttosto che energetica o ecocompatibile. Il progetto di tipo
ecologico prevede la classificazione dei percorsi delle Greenway, in base all’interpretazione vocazionale, in
naturali, agricoli e artificiali. Nei tratti naturali i materiali di progetto sono le specie arboree, sempreverdi o a
foglie caduche, in base alle necessità di occultamento/visibilità e al fine di armonizzare gli interventi su percorsi
e spazi con specie autoctone a bassa manutenzione e idro-esigenza. Nei brani di percorso agricoli il progetto ha
avuto l ’obiettivo d i ri appropriazione v isiva d egli s pazi degradati del la ca mpagna, ri vitalizzando l e c olture
agricole con forme di conduzione sociale e produzioni competitive, recuperando i manufatti rurali esistenti e
ripensando le recinzioni per renderle piacevoli e permeabili allo sguardo. Questi parchi agricoli in miniatura
rinnovano l ’immagine de lla città e offrono la d oppia possibilità d i frui zione prod uttiva e m icro-turistica o
didattica. Nel terzo caso, infine, quello dei percorsi artificiali, il progetto è soprattutto di tipo percettivo e la
natura viene completamente addomesticata per diventare installazione artistica: le specie autoctone si mescolano
a quelle esotiche, come in una sorta di giardino, alle sculture, e gli stessi alberi o cespugli possono essere
ricoperti o reinterpretati per divenire un mutevole elemento artistico che anima il percorso. Poiché quella di
vivere la strada è una componente propria della cultura mediterranea, in particolare del Sud d’Italia, in tal modo
si offrono agli utenti urbani occasioni per ri-viverla, riappropriandosene. Gli spazi aperti diventano centro della
vita sociale degli abitanti, cosa che dovrebbe implicare l’esistenza di una costante e continua manutenzione,
adeguamento e rinnovamento.
Il progetto del circuito delle Greenway è rafforzato da un punto di vista ecologico dal collegamento al sistema
extra-urbano di flussi di naturalità, dato il contesto territoriale di grande biopotenzialità in cui si colloca Potenza,
4
Edward T. Hall (1914-2009) antropologo e ricercatore multidisciplinare statunitense.
Gordon Cullen, (1914-1994) urbanista britannico legato al mondo dell’urban-design.
6
Giancarlo De Carlo (1919-2005) architetto genovese, è stato tra i primi a sperimentare ed applicare in architettura la partecipazione da parte
degli utenti nelle fasi di progettazione.
7
Negli anni sessanta queste ricerche erano assolutamente agli albori anche da noi e i segmenti più avanzati della cultura urbanistica italiana –
come la ricerca ispirata da Adriano Olivetti e travasate nell'IRES e nell'ILSES - facevano più o meno riferimento agli stessi autori, alle stesse
linee di ricerca della sociologia, dell'antropologia e dell'economia americane, inglesi, francesi.
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Rocco Pastore
2
Percezione dello spazio pubblico per costruire scenari di progetto. Le Greenway della città di Potenza.
e da un punto di vista funzionale dalla possibilità offerta agli utenti di fruire della natura riportata visibilmente
all’interno della città.
Per risolvere, invece, le criticità delle immagini ambientali8 conflittuali degli spazi pubblici, sono state utilizzate
le categorie percettive della leggibilità e della figurabilità (Lynch, 1960). La prima è definita come la chiarezza
apparente del paesaggio urbano. Quanto più in una città è possibile identificare chiaramente quartieri, riferimenti
e percorsi e ricondurli ad un sistema unitario, tanto più tale città sarà leggibile. La seconda è la qualità che
conferisce ad un oggetto fisico un'elevata probabilità di evocare in ogni osservatore un’immagine vigorosa, in
particolare se gli spazi pubblici hanno una forma e dei contenuti tali da facilitare la formazione di immagini
ambientali vi vidamente d eterminate, potentemente st rutturate, altamente f unzionali. Quanto pi ù u na ci ttà si
presenta ben conformata, distinta, notevole, tanto più essa è “figurabile”, “visibile”.
Gli spazi pubblici di Potenza, per le criticità evidenziate, presentano bassi livelli di leggibilità e figurabilità. Il
progetto, mettendo a sistema i n odi d ella città, prevede i nnanzitutto l a differenziazione nell’uso e nella
conseguente forma dei luoghi interconnessi, fornendo una maggior comprensione e un miglior orientamento
urbano. All’attività del progettista, ch e manipola tecnicamente gli spazi, seguirà quella degli abitanti, che li
manipolano in maniera simbolico-relazionale. L’apparente conflitto in realtà risolve il problema della percezione
indifferenziata del paesaggio urbano. La valorizzazione percettiva di questi luoghi interconnessi dai percorsi
consegue, qu indi, l’ob iettivo d i po tenziamento de lla fruizione v isiva “st atica” e panoramica d ella città,
permeabile al paesaggio.
Allo stesso modo, il progetto di riqualificazione percettiva dei percorsi consente agli abitanti e ai visitatori di
imprimere nella mente un’immagine riconoscibile dinamica, composta da sequenze di visioni comuni (tessuto
edilizio di base, spazi sen za qualità, lacerti di natura) e visioni singolari (architettura storica specialistica o
contemporanea di qualità, ville, giardini urbani). Assegnare un valore anche alle visioni comuni è il presupposto
per la ricucitura delle periferie con la città e tra di esse: con la città, eliminando l’isolamento e la sensazione di
“altro” do vuta alla d istanza e alle diffico ltà d’acc esso, tra di esse per c ompattarle e po tenziarne il valore
ambientale.
Il progetto di uno spazio ricco di stimoli sensoriali e potenzialità interattive diventa, quindi, l’elemento di base
della nuova urbanità contemporanea di Potenza e genera nuovi luoghi, attuali e non più cristallizzati negli usi
culturali e sociali. Il progetto percettivo considera tre tipi di visibilità possibili per le vie verdi: la visibilità
interna, la v isibilità da ll’interno all ’esterno e la v isibilità da ll’esterno. La visibilità interna, ch e r iguarda il
percorso stesso e le eventuali pertinenze, delimitate da quinte urbane, facciate di edifici e recinzioni, permette di
individuare gli spazi urbani residuali, naturali, rurali o artificiali, oggetto d’intervento. In questi casi il progetto
di paesaggio riconsidera questi spazi abbandonati nel circuito urbano come spazi pubblici attrezzati. La visibilità
dall’interno all’esterno considera i secondi piani e gli squarci che improvvisamente si aprono allo sguardo di un
osservatore che percorre i relativi tratti di percorso, cogliendo il paesaggio esterno naturale o rurale. Tali squarci
sono oggetto di azioni di conservazione e valorizzazione oppure sono ricavati ex-novo. La visibilità dall’esterno,
invece, ispira il progetto di rafforzamento e consolidamento dell’immagine dell’anello verde inserito nella città,
mediante Landmark che segnalano i percorsi e il recupero dei punti di vista panoramici. I nuovi spazi diventano,
così, interattivi, perché fanno sorgere i significati urbani dagli usi dei cittadini, strutturando gli spazi pubblici in
maniera naturalmente differenziata, processo fondamentale per lo sviluppo urbano sostenibile.
Per risolvere il problema di leggibilità degli spazi urbani, si sono utilizzati in gran parte elementi fissi, come
pavimentazioni, sistemi d i i lluminazione, al berature, pi ccole a rchitetture, m uri, ecc., che co nsentono d i
qualificare e distinguere con chiarezza i luoghi. L’interpretazione di queste scene, chiare ma malleabili, da parte
degli uten ti, vo gliono in crementare il pro tagonismo singolare e co llettivo ne ll’uso e n ella co struzione
dell’immagine urbana. Poiché la città è una costruzione fisica di scala enorme, che l’uomo può percepire soltanto
in lunghi periodi di tempo, il disegno urbano vuole configurarsi come un'arte temporale con sequenze invertite,
interrotte, abbandonate o intersecate.
Nel progetto del percorso, invece, si è adottata la strategia di valorizzazione dell'immagine ambientale, nel
tentativo di soddisfare il bisogno di riconoscere e strutturare l’intorno. Alberi, pavimentazioni, illuminazione,
installazioni, ecc., definiscono un'immagine chiara e consentono di muoversi agevolmente e velocemente. Il
nuovo ordine può funzionare come un ampio sistema di riferimento, organizzando le attività, le opinioni, la
conoscenza, e come uno schema, che assegna una facoltà di scelta.
La scena visiva vivida e integrata delle vie verdi può offrire la materia prima per ricostruire simboli e memorie
collettive della comunicazione di gruppo, dando un senso di sicurezza emotiva perché consente la relazione
armoniosa con gli scenari urbani.
Il concetto di figurabilità, invece, come definito da Lynch, non denota spazi urbani fissi, limitati o regolarmente
ordinati, benché queste qualità possano talvolta accompagnarla, né ovvi o schietti, tant’è che le immagini ovvie
vengono ben presto a noia. Il progetto del nuovo paesaggio urbano delle Greenway cerca di organizzare la
complessità degli spazi collettivi, preservando alcune contraddizioni per potenziarne la dinamicità, riassegnando
8
Secondo la definizione di Lynch “L’immagine ambientale è il risultato di un processo reciproco tra l’osservatore ed il suo ambiente.
(…)L’immagine (…)viene messa alla prova rispetto alla percezione, filtrata in un processo di costante interazione”. (Lynch, 1960)
Rocco Pastore
3
Percezione dello spazio pubblico per costruire scenari di progetto. Le Greenway della città di Potenza.
loro nuovi significati o espressività e fornendo agli utenti stimoli sensoriali e possibilità di scelta. Gli elementi
mobili, come le installazioni artist iche, i parchi d elle scu lture, le ar chitetture temporanee, la v egetazione
trasportata, le gigantografie, rinnovano continuamente tali spazi in base ad esigenze funzionali mutevoli nel
tempo, pur mantenendone la leggibilità di base, strutturano la p ercezione per la conservazione dell’identità,
stimolano continuamente l’interesse per quel luogo con quinte sceniche continuamente rinnovate.
Un primo risultato di questa ricerca applicata consiste nel tipo di progetto urbano elaborato, che utilizza codici,
espressioni e linguaggi dell’architettura del paesaggio, nella doppia veste ecologica e puro-visibilista – si direbbe
rappresentativo-percettiva. All a c ittà è offe rta l’occasione d i ri qualificare gli s pazi coll ettivi con m ateriali
“strutturali”, con l’eco sistema n aturale che diventa ora natura p rimordiale, ora la natura ad domesticata
dell’agricoltura e della ruralità, ora la natura artificiale del giardino e dell’arte. È soddisfatta, inoltre, la crescente
esigenza dell’occhio contemporaneo di “divorare” nuove immagini, lasciando inalterata la struttura dello spazio,
per mezzo degli elementi leggeri, che consentono alla città, prodotto di innumerevoli operatori che per motivi
specifici cercano di mutarla costantemente, di rimanere sempre viva, adattandosi continuamente a funzioni,
richieste, e sigenze, m ode. In tal modo g li s pazi u rbani d i Potenza, b enché n ei grandi l ineamenti possano
mantenersi stabili per qualche tempo, potranno mutare senza posa nei dettagli. Non vi è, quindi, un risultato
finale, ma ci si pone in una successione continua di fasi, cercando la soluzione migliore per i conflitti e la
convivenza urbana. L’iperpaesaggio della città trova, dunque, nel dinamismo e nella multiscalarità della visione,
i link per la fruizione dei suoi luoghi, come avviene in un ipertesto.
Nel progetto paesaggistico delle Greenway per Potenza la percezione indirizza la pianificazione verso progetti
unitari di design di spazi pubblici che diano qualità e riconoscibilità ai diversi luoghi, innescando meccanismi di
valorizzazione spontanea, riappropriazione e riuso da parte degli abitanti e comprensione da parte di chi ne
fruisce per la prima volta. Si è, in ultima istanza, cercato di risolvere anche la preoccupazione, comune a molti
urbanisti italiani, di attribuire un ruolo decisivo e strutturale all’interesse dei cittadini al piano o al progetto
urbano, mediante la partecipazione al processo progettuale. Il progettista cerca di dare una forma, un indirizzo,
delle direttive per il progetto, attraverso delle sezioni-tipo, dei casi-studio, rappresentati per mezzo di immagini
verosimiglianti, come fotomontaggi e simili. Su di essi si confronta con i cittadini, esaminando le richieste, le
critiche, l e pr oposte. Le r appresentazioni c osì messe a p unto h anno co nsentito il r apido a dattamento d elle
proposte alle esigenze degli abitanti.
Il lavoro di ricerca fatto in questi decenni da studiosi di psicologia del comportamento, da riviste scientifiche
specializzate come Environment and Behaviour o Journal of Experimental Psychology e in moltissime comunità
urbane, conferma la rgamente i s uggerimenti di L ynch. Infatti g ran p arte delle grandi cit tà europee, c ome
Milano9, Copenhagen-Amager, Lisbona10, ecc., sono riuscite a realizzare progetti più attenti alla capacità dei loro
utenti di comprenderli e apprezzarli, mentre gli studi sulla qualità del public realm, sia esso fatto di piazze, aree
verdi o strade, hanno introdotto livelli di organizzazione e progettazione spaziale nettamente più alti. Il progetto
per Potenza è una delle vie che si possono seguire per attuare programmi di riqualificazione che si pongano
l’obiettivo di agire in maniera diffusa su un circuito di fibre del tessuto urbano, in questo caso a maglie larghe, e
sui nodi che lo disegnano, soprattutto nelle immagini mentali degli utenti.
9
Ad esempio con Citylife o il parco nell’area dell’ex Sieroterapico.
con Parque-Expo.
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Rocco Pastore
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Percezione dello spazio pubblico per costruire scenari di progetto. Le Greenway della città di Potenza.
Fig. 1: Il progetto paesaggistico di tipo percettivo delle Greenways di Potenza: mappa delle visibilità ed esempi
progettuali di spazi urbani riqualificati con elementi fissi e temporanei.
Fig. 2: Una sezione urbana aperta alla campagna: rilievo delle criticità e dei conflitti e progetto paesaggistico
percettivo ed ecologico
Rocco Pastore
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Percezione dello spazio pubblico per costruire scenari di progetto. Le Greenway della città di Potenza.
Fig. 3 e 4: Sezioni su spazi aperti urbani residuali: rilievo delle criticità e dei conflitti e progetto paesaggistico
percettivo ed ecologico
Rocco Pastore
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Percezione dello spazio pubblico per costruire scenari di progetto. Le Greenway della città di Potenza.
Bibliografia
Assunto, R. (1983), La città di Anfione e la città di Prometeo, Jaca Book, London.
Cassatella, C. (2001), Iperpaesaggi, Testo&Immagine, Torino
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Secchi, B. (1989), Un progetto per l’urbanistica, Einaudi, Torino
Secchi, B. (2005), La città nel ventesimo secolo, Laterza, Roma
Rocco Pastore
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Lo spazio pubblico bolognese: il caso di Piazza Verdi
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
Lo spazio pubblico bolognese: il caso di Piazza Verdi
Giuseppe Scandurra
Abstract
Oggetto di questo paper è lo spazio pubblico di Piazza Verdi, territorio del centro storico bolognese spesso
rappresentato, in questi ultimi anni, dai media locali e nazionali, come luogo simbolico del “degrado” che
caratterizza il capoluogo emiliano. A settembre 2007, insieme a due colleghi ricercatori, abbiamo iniziato uno
studio su quest’area urbana. Obiettivo generale della ricerca è stato riportare l’attenzione su tale contesto
indagando i reali motivi per cui si è andata via via producendo una rappresentazione che vede questa piazza
come luogo simbolo del degrado cittadino. Per far questo abbiamo condotto un’analisi delle problematiche, dei
bisogni e delle aspettative messi in evidenza dalla molteplicità degli attori sociali che frequentano Piazza Verdi.
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Oggetto di questo saggio è lo spazio pubblico di Piazza Verdi, territorio del centro storico bolognese spesso
rappresentato, in q uesti ultimi an ni, dai media lo cali e n azionali, come luogo si mbolico del “d egrado” che
caratterizza il capoluogo emiliano. A settembre 2007, insieme a due colleghi ricercatori, abbiamo iniziato uno
studio su quest’area urbana promosso dalla Direzione “Cultura e Comunicazione Istituzionale - Alma Mater”,
dal Dipartimento di Scienze dell’Educazione e dal Dipartimento di Sociologia dell’Università di Bologna.
Obiettivo generale della ricerca è stato riportare l’attenzione su tale contesto indagando i reali motivi per cui si è
andata via via producendo una rappresentazione che vede questa piazza come luogo simbolo d el degrado
cittadino. Per far questo abbiamo condotto un’analisi delle problematiche, dei bisogni e delle aspettative messi in
evidenza dalla molteplicità degli attori sociali che frequentano Piazza Verdi, le loro pratiche di vita quotidiana, le
rispettive modalità di fruizione del luogo, le differenti percezioni e rappresentazioni della piazza prodotte da
questi attori sociali.
Abbiamo inoltre cercato di riportare alla luce la memoria storica del luogo e come questa sia cambiata negli
ultimi anni, prendendo in analisi momenti significativi - come ad esempio il 1968, 1977 - in cui questo territorio
è stato determinante per la produzione di una identità cittadina e Piazza Verdi è divenuto uno dei luoghi simbolo
della “bolognesità” e del rapporto tra città e Università. (Rossini et al., 2009)
Piazza Verdi è frequentata da diversi attori sociali in orari diversi e con differenti modalità di utilizzo dello
spazio pubblico. Il primo obiettivo specifico che abbiamo perseguito durante il nostro studio è stato quello di
creare una mappa capace di rendere leggibili i diversi usi, percezioni e rappresentazioni del territorio e, allo
stesso tem po, p rodurre una quadro d ’insieme rel ativo a co me le diverse istitu zioni ch e operan o su qu esto
contesto - Un iversità, Quartiere, Comu ne, co mitati e asso ciazioni d el t erritorio, forze d ell’ordine - sono
intervenute negli ultimi anni, attraverso differenti progetti, per fare fronte alle problematiche della zona.
Tale area, in effetti, recentemente è stata sempre più oggetto di interesse da parte delle istituzioni e dei media
cittadini e nazionali. A fronte della molteplici iniziative promosse su Piazza Verdi al fine di risolvere il problema
“degrado”, la nostra ricerca piuttosto che produrre soluzioni, si è data come compito capire cosa si intende oggi,
a Bologna, per degrado e perché Piazza Verdi ne sia diventato un luogo-simbolo cittadino quando non nazionale.
Per questo abbiamo scelto di avvalerci di strumenti di indagine legati alla disciplina antropologica consapevoli
che P iazza V erdi rappresenti a tutti g li e ffetti u no s pazio p ubblico do ve consistente e si gnificativa è l a
convivenza, alle volte conflittuale, di diversi gruppi sociali che rivendicano il loro diritto a fruire del medesimo
spazio pubblico.
1. Il campo
Nel corso della ricerca abbiamo costruito rapporti di fiducia con diversi attori sociali presenti nel territorio e
abbiamo indagato le loro modalità di uso dello spazio pubblico attraverso interviste, raccolte di storie di vita e
osservazioni dirette della piazza. Nello specifico commercianti italiani e stranieri, studenti universitari, residenti,
“punkabestia”, turisti, persone che frequentano la piazza e la cui presenza viene spesso percepita dai media e da
buona parte dei cittadini come “illegittima” (Dal Lago et al., 2003) - studenti fuori sede, avventori dei locali,
persone senza fissa dimora e, più in generale, uomini e donne che hanno chiesto aiuto negli ultimi anni ai servizi
Giuseppe Scandurra
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Lo spazio pubblico bolognese: il caso di Piazza Verdi
sociali c omunali e che tras corrono le loro giornate sotto i portici de lla piazza; allo stesso tem po attori
istituzionali quali il Quartiere San Vitale, che comprende il territorio di Piazza Verdi, il Comune di Bologna, le
forze dell’ordine impegnate sul territorio sotto esame, l’Università, il Teatro Comunale che affaccia sulla piazza,
i c omitati e le asso ciazioni del t erritorio che sono pro liferati negl i ultim i anni per affrontare i l prob lema
“degrado”.
La prima fase della ricerca ha avuto come obiettivo quello di raccogliere e analizzare tutta la documentazione,
scientifica e n on, prodotta su Piazz a Verdi. La seco nda fase h a av uto come ob iettivo quello d i studiare
quest’area utilizzando strumenti di analisi socio-antropologica: abbiamo svolto attività di osservazione diretta al
fine di leggere nel miglior modo possibile la composizione sociale dell’area, le relazioni tra cittadini e spazio
pubblico e tra i vari attori sociali che la frequentano quotidianamente; abbiamo condotto numerose interviste
avvalendoci di informatori privilegiati e raccolte significative storie di vita.
Particolare rilevanza è stata data all’osservazione del territorio in momenti diversi della giornata costruendo un
diario di ricerca. Sono state individuate, così, le fasce orarie più significative nelle quali i diversi attori entrano in
relazione, si evi tano, configgono so ttolineando i d iversi usi dello spazio che d istinguono gli uni dag li altri.
Infine, abbiamo concentrato lo sguardo sulle attività previste all’interno dei diversi progetti di intervento sociale
e di mediazione che nella piazza e nelle zone strettamente limitrofe sono oggi attivi. (Rossini et al., 2009)
2. I residenti
Tra i compiti che ci siamo dati durante la ricerca c’è stato sicuramente quello di produrre una sintesi dei dati
demografici riguardanti la popolazione residente nell’area di Piazza Verdi e delle strade che l’attraversano. Tali
informazioni sono state fornite dal Settore Programmazione, Controlli e Statistica del Comune di Bologna e
hanno riguardato l’area geografica da noi presa sotto esame. Si deve tenere però presente che il quadro ottenuto
risulta carente delle informazioni riguardanti quella parte di popolazione che abita nella zona ma non ha lì la
propria residenza - ad esempio studenti universitari fuori sede - e che, di conseguenza, non risulta presente nei
dati forniti dal Comune. Complessivamente la popolazione residente nella zona interessata, tra il 1996 e il 2006,
è rimasta pressoché la stessa, crescendo solo di 16 unità, ovvero passando da 488 a 504 presenze. La classe d’età
numericamente più rappresentata nell’arco dei dieci anni è quella tra i 30 e i 44 anni, seguita da quella 45-64
anni. Si può affermare, dunque, che l’area di Piazza Verdi e dintorni presenta una popolazione residente più
giovane rispetto a quella del centro storico più esteso e, più in generale, di tutta la città.
La classe d’età minore, fino ai 14 anni, si è mantenuta costante nel corso dei dieci anni considerati. Da questo
dato abbiamo ipotizzato una contenuta presenza di famiglie residenti nella zona con figli di età compresa in
questa classe. L’andamento della classe anziana, invece, è nel corso dei dieci anni decrescente. Nonostante ciò,
tale classe d’età rimane la terza per importanza numerica nel territorio in questione.
Nella zona analizzata, la predominanza delle famiglie formate da un solo componente è un dato importante,
specchio no n so lo della si tuazione provinciale e cittad ina ma an che della gen erale ten denza n azionale. La
trasformazione delle tipologie familiari è un dato importante in quanto sta modificando profondamente le forme
di convivenza delle persone residenti a Bologna e cambiando quantitativamente e qualitativamente la domanda
di servizi rivolti alle persone e alle famiglie - anche le esigenze abitative sono profondamente influenzate da
queste trasformazioni.
Se all’elevata presenza di nuclei monopersonali si affiancano le classi d’età numericamente maggiori, quelle di
30-44 e 45-64 anni, si potrebbe ipotizzare che la maggior parte dei residenti ufficiali siano persone adulte, nel
pieno dell’età lavorativa, che abitano sole. Si potrebbe ipotizzare inoltre che, per motivi di impegno lavorativo –
tante ore al giorno fuori casa e la lontananza tra luogo di lavoro e abitazione -, tale categoria di individui viva
poco il territorio di residenza. (Rossini et al., 2009)
3. La piazza
L’obiettivo delle osservazioni dirette condotte in piazza è stato quello di descrivere come cambia l’area osservata
a seconda delle diverse ore del giorno e della notte e al variare dei giorni della settimana. Questo ci ha permesso
di costruire un disegno realistico dell’area durante il tempo dello studio. Tali informazioni sono state ricavate
durante un periodo di osservazioni effettuate in Piazza Verdi e nelle zone circostanti tra maggio 2007 e aprile
2008.
Dalla ricerca emerge come Piazza Verdi cambi caratteristiche e paesaggio a seconda delle stagioni. Durante i
mesi primaverili ed estivi - solo fino a metà luglio quando molti studenti fuori sede abbandonano la città per poi
ritornarvi con l’inizio dell’anno accademico -, e ancora settembre e ottobre, la piazza non è solo un passaggio,
ma anche un luogo dove sostare - per esempio mangiare a pranzo -, e nelle ore serali un ritrovo per studenti
universitari. Con l’inverno e il freddo la piazza in parte si svuota, anche se non del tutto - le visite in quest’area
registrano infatti la presenza fissa di alcuni senza dimora e piccoli gruppi di immigrati per lo più di origine
magrebina.
Giuseppe Scandurra
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Lo spazio pubblico bolognese: il caso di Piazza Verdi
Le osserv azioni, so prattutto qu elle di urne, restituiscono u n’immagine di Piazza V erdi co me un luogo di
passaggio. All’interno di esso però sono anche presenti persone che lo vivono per molte ore al giorno in modo
stanziale. Delle persone presenti in Piazza Verdi, abbiamo per esempio individuato, durante il nostro studio, un
gruppo stabile di per sone sen za fissa d imora; altre pre senze stab ili son o un gru ppo d i p unkabestia, i q uali
arrivano, si fermano, si spostano, tornano, in un andirivieni di cui è difficile individuare tragitti e modalità, anche
se, come è emerso, ci sono fasce orarie in cui sono maggiormente presenti. Si può affermare che, a parte le ore
serali e notturne, le persone che dimorano in Piazza Verdi e dintorni sono persone che afferiscono ai servizi
sociali cittadini.
La zona osservata è un piccolo bacino dove coesistono gruppi sociali diversi: studenti, senza fissa dimora,
commercianti prevalentemente immigrati, punkabestia, residenti storici, turisti, operatori del Teatro Comunale e
dipendenti dell’Università, oltre agli agenti delle forze dell’ordine che controllano la piazza durante il giorno e la
notte.
4. Che cosa è il degrado?
Durante le prime interviste condotte nell’autunno del 2007, la maggior parte delle persone alle quali abbiamo
chiesto cosa pensassero riguardo il degrado di Piazza Verdi ha accusato l’“altro” di essere il responsabile di
questo problema: così gli studenti spesso nei confronti dell’Amministrazione comunale, così i punkabestia nei
confronti delle forze dell’ordine presenti quotidianamente in piazza, così i comitati cittadini e molti residenti nei
confronti dei senza fissa dimora e degli spacciatori che bivaccano sotto i portici di via Zamboni.
Ascoltando la maggior parte delle persone che frequentano la piazza, il degrado sembra non essere legato alle
pratiche illegali agite in questo territorio riportate quotidianamente sui giornali locali, piuttosto alle differenti
rappresentazioni e fruizioni della piazza prodotte e agite dai suoi diversi frequentatori: il risultato, in sintesi,
della difficile convivenza di soggetti eterogenei che percepiscono differentemente l’identità della piazza e fanno
uso di questa in modi la cui coesistenza è vista come impossibile, alternando strategie di reciproco evitamento a
strategie di aperto conflitto.
Per tale motivo abbiamo preferito sottrarci al dibattito sulla “sicurezza” che ha trovato enorme spazio nei media
locali (Pavarini, 2006), così da muovere la nostra analisi sui processi relazionali che i diversi gruppi di cittadini
mettono in atto in questo territorio. Solo così facendo, infatti, ci è sembrato possibile comprendere perché le
istituzioni a cominciare dal Quartiere, dal Comune, dalle diverse associazioni e comitati del territorio denuncino
oggi il bisogno di ricostituire un l egame so ciale e id entitario ch e i n questi anni sembra essersi smarrito.
Ovviamente, questo non ha voluto dire, per noi ricercatori, negare che il diffondersi dell’allarme sociale tra i
residenti avesse a che fare con specifici problemi reali di insicurezza oggettiva, ma ci ha portato a lavorare
sull’unico filo rosso che unisce tutti gli intervistati, ovvero la percezione di vivere in uno spazio dove ci si sente
a disagio. (Rossini et al., 2009)
Ascoltando le parole dei frequentatori della piazza, facendo dialogare queste con i dati raccolti dall’osservazione
diretta di questo spazio pubblico e una letteratura scientifica di riferimento, abbiamo registrato in vasti strati
della popolazione bolognese un forte senso di insicurezza che è andato crescendo negli ultimi quindici anni a
leggere l e letter e e le pe tizioni ri volte anc he alle p assate ammin istrazioni co munali ( Barbagli, 1999 ). E’
convinzione di coloro che si rivolgono anche all’attuale Amministrazione che il numero dei reati e delle piccole
violazioni delle regole sia straordinariamente aumentato. Spesso, in questa direzione, emerge la contrapposizione
fra la Bologna isola felice del passato e la triste realtà di oggi. Del termine degrado la maggior parte dei cittadini
con i quali abbiamo parlato si servono come sinonimo di “deterioramento”, per descrivere le trasformazioni che
vi
sono state nel tessuto sociale della città. Ciò che turba i cittadini sono le violazioni delle norme riguardanti l’uso
degli spazi pubblici, dei luoghi dove vanno a lavorare, a fare acquisti, a divertirsi, dei luoghi collettivi (Barbagli,
1999). Per questo motivo siamo andati a rileggere lo spazio pubblico non partendo dal concetto di “rischio” ma
da quello di “contesa”, in modo da sottolineare i conflitti simbolici presenti nel territorio (Rossini et al.,2009).
5. Bologna
Bologna è sempre stata ricca di diverse cittadinanze: Bologna città universitaria, Bologna città mercato dei
comuni che la circondano, Bologna città delle fiere e del divertimento, Bologna città di immigrazione.
Dagli anni Ottanta, però, ognuno di questi attributi sembra conferire più caratteri specifici ai singoli gruppi che
non amalgamarli sulla base della condivisione di una residenza comune. (Callari Galli, 2004)
Lo scrittore Luigi Bernardi in un libro pubblicato nel 2002 parla di questa città come un insieme di frammenti
che sembrano essere tutti figli della stessa madre:
Giuseppe Scandurra
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Lo spazio pubblico bolognese: il caso di Piazza Verdi
Poi però le città sono fatte anche di persone, le famiglie si sfaldano, la disarmonia degli uomini può di più di
quella smussata dai secoli. (Bernardi, 2002)
Lo studioso Massimo Pavarini, concentrando il suo sguardo su Piazza Verdi, ipotizza, con un marcato
pessimismo, per quanto riguarda il futuro:
Una società come insieme di tribù, ognuna con i suoi riti, linguaggi, culture, ecc.. (Pavarini ,2006)
Il cent ro di B ologna h a una ca ratteristica p eculiare, derivante per c erti aspetti dalla s ua conformazione
urbanistico-architettonica, la presenza dei portici, che non è riscontrabile in altri centri, come per esempio i centri
museificati di Firenze o Roma (Giuliani et al., 2006). Questo aspetto fa sì che il centro di Bologna non sia
socialmente omogeneo: gli antichi edifici sono abitati da residenti, da una medio-alta borghesia, i quali sempre
più affittano stanze a studenti; ma è sotto i portici della piazza che Bologna si fa caleidoscopio della diversità.
Davanti alle vetrine delle attività commerciali, dei negozi, davanti l’ingresso del teatro comunale e delle chiese
sostano mendicanti, se nza ca sa, si ritrovano c entinaia di studenti f uori se de. I p ortici c he d anno un v olto
caratteristico a Piazza Verdi, in un certo senso, d iventano la loro dimora, mentre i residenti scorrono loro
accanto, così che mondi sociali diversissimi si sfiorano e coesistono senza che gli sguardi degli abitanti di un
mondo si soffermino sui frequentatori dell’altro. Piazza Verdi, la zona universitaria, è uno di questi spazi dove
questi mondi convivono, appunto, senza toccarsi.
La presenza sempre più significativa di immigrati, inoltre, rende più complessa la convivenza di attori così
differenti in uno s pazio così circ oscritto. Spesso la con tesa d i un o spazio pub blico av viene attra verso
l’attribuzione di un’ identità cittad ina che alcu ni g ruppi rivendicano o costruiscono a sc apito d i altri.
Etimologicamente degrado deriva da degradare, quindi denota un declino o un peggioramento rispetto a una
situazione passata, qualitativam ente m igliore. Si dim ostra qu indi un’e tichetta funzi onale alla creazione di
legittimità - nelle richieste e nei comportamenti - da parte di alcuni gruppi di attori che tentano di espellere altri
gruppi, svantaggiati in q uanto meno i nfluenti nel c ondizionare i pr ocessi de cisionali del l’Amministrazione
comunale. Resta il nodo problematico di chi detiene o tenta di raggiungere tale potere di definire quali aree e
pratiche sono da considerarsi degradate e degradanti e quindi quali provvedimenti assumere per la risoluzione
dei problemi. L’elevata polisemia non permette di trovare strade condivise e quindi gli attori che non hanno leve
sociali su cui fare forza non possono intervenire nel dibattito, trovandosi in qualche modo vittime di decisioni
che li riguardano, ma alla cui costruzione non possono, e in alcuni casi non vogliono partecipare come vedremo
in seguito.
6. Trasformazioni fisiche
Negli ultimi ven ti ann i l’assetto urb ano di qu esta citt à, a co minciare prop rio dal cen tro st orico, è stato
radicalmente trasformato. La necessità di tali cambiamenti rispondeva, del resto, a una trasformazione del tessuto
demografico: i n questi ultimi anni i l n umero de gli st udenti d ell’ateneo cittadino, p er esempio, è cresciuto
notevolmente - ha raggiunto le centomila unità alla fine del millennio.
E’ evidente, per esempio, come il centro storico negli ultimi anni si stia svuotando dalle funzioni amministrative
e propriamente urbane. In aggiunta, è possibile evidenziare il decentramento del polo “culturale” e di alcuni
dipartimenti universitari. Questi processi hanno determinato sentimenti di spaesamento, a sentire molti residenti,
che in parte aiutano comprendere il bisogno che molti di loro hanno esplicitato, registrabile negli ultimi anni, di
ricostruire un sen so d i iden tità terri toriale rein ventando p er esempio u n’identità co me la “petron ianità o la
“bolognesità”. (Addarii, 2004)
La bolognesità, però, costituisce un campo di lotta tra i diversi attori che vivono la piazza. La tranquillità e il
silenzio che auspicano molti cittadini (I Comitati e le Associazioni, 2005), per esempio, viene tradotto come
“vuoto”, “deserto”, “spento”, “morto” da parte dei molti studenti che si ritrovano in questo territorio dopo le
lezioni all’Università e qui trascorrono grande parte del loro tempo libero.
Laddove i comitati di Piazza Verdi identificano la “bolognesità” nel rispetto delle regole, ovvero immaginando
una piazza silenziosa, tranquilla, gli studenti rivendicano questa identificandola con la possibilità di creare in
questo territorio numerosi spazi di aggregazione giovanile gestiti dagli stessi iscritti all’Università. Se i residenti,
dunque, producono una rappresentazione nostalgica di Piazza Verdi - lamentandosi del fatto che questo territorio
non è vivibile come era un tempo - gli studenti che abbiamo intervistato più volte ci hanno spiegato come alla
base della loro scelta di iscriversi all’Università di questa città ci sia stata, nella maggior parte dei casi, l’idea che
proprio aree come Piazza Verdi permettessero loro, a differenza di altri luoghi, di muoversi con maggiore libertà.
Giuseppe Scandurra
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Lo spazio pubblico bolognese: il caso di Piazza Verdi
7. Conclusioni
Piazza Verdi è un territorio conflittuale e oggi rappresenta una scenografia ideale per la produzione di specifici
conflitti. Non solo contrasti tra associazioni, comitati, rappresentanti, immigrati, Comune, ma tra minoranze alle
volte costituite anche da sparuti gruppi di individui - gli studenti fuori sede che si aggregano, per esempio, in
nome di una provenienza comune, pochissimi senza fissa dimora che rivendicano la loro vita in piazza come
scelta, etc.: conflitti tipicamente urbani, guerriglie, atti di microcriminalità continua. Non sono pochi i turisti che
hanno pau ra d i passegg iare n ell’isola pedon ale in pien a n otte, e ogn i g iorno si assiste a un p rocesso d i
molecolarizzazione del co nflitto, al ra ggiungimento di o biettivi concreti e minimi, pr oveniente d ai diversi
soggetti so ciali. S e no stalgicamente molti cittadini ch e non abitano in zona o n ella stessa c ittà di Bo logna
pensano ancora a Piazza Verdi come a una realtà dove le lotte hanno sempre forti connotazioni solidaristiche e di
matrice politica, gli scontri che hanno avuto ultimamente per scenario questo quartiere esprimono soltanto il
bisogno individuale di controllare la qualità e la quantità del proprio, individuale spazio e tempo di vita.
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tesi di laurea in sociologia dello Sviluppo (avanzato), facoltà di Scienze Politiche.
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Comune nella
Giuseppe Scandurra
5
La piazza del mercato, uno spazio dell’opportunità?
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
La piazza del mercato, uno spazio dell’opportunità?
Raffaella Valente
Dipartimento Interateneo Territorio, Politecnico e Università di Torino
[email protected]
Abstract
Lo spazio pubblico oggi è anche altrove rispetto a dove ci aspettiamo che sia. Occuparsene implica cercare fra
tutte quelle pratiche che quotidianamente lo rendono pubblico e ne fanno uno spazio dell’opportunità.
L’indagine si concentra sulla città di Torino e si svolge a tre livelli, analizzando un luogo/evento, una pratica e
un oggetto. Centro della riflessione sono gli spazi dei mercati rionali, visti in relazione con la presenza attiva
degli immigrati. In che modo questi spazi possono considerasi laboratori di convivenza, luoghi di espressione di
una sfera pubblica alternativa e di una globalizzazione altra, in una parola pubblici?
La piazza del mercato, uno spazio dell’opportunità?
Lo spazio pubblico oggi è anche altrove rispetto a dove ci aspettiamo che sia. Occuparsene implica cercare fra
tutte quelle pratiche che quotidianamente lo rendono pubblico e ne fanno uno spazio dell’opportunità.
L’indagine si concentra sulla città di Torino e si svolge a tre livelli, analizzando un luogo/evento, una pratica e
un oggetto. Centro della riflessione sono gli spazi dei mercati rionali, visti in relazione con la presenza attiva
degli immigrati. In che modo questi spazi possono considerasi laboratori di convivenza, luoghi di espressione di
una sfera pubblica alternativa e di una globalizzazione altra, in una parola pubblici?
Struttura del testo:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
introduzione
Torino, città di accoglienza
Torino, città di mercati
indagine sul campo: un evento, una pratica, un oggetto
conclusioni
bibliografia
1. introduzione
L’insieme degli spazi pubblici costituisce la trama, l’ossatura sulla quale si intesse la città. Si potrebbe a questo
proposito ricorrere all’idea di infrastruttura: una struttura che sta nel tramite, ma che non si limita a connettere,
avendo un ruolo vitale per il funzionamento della macchina città e per la vita dei suoi abitanti.
Lo spazio pubblico rappresenta la dimensione pubblica dell’abitare umano, l’insieme dei dispositivi che accoglie
non solo le attività quotidiane della collettività ma anche e soprattutto simboli, relazioni, significati, poteri.
Nella tradizione urbana europea lo spazio pubblico riveste un ruolo fondamentale nello svolgimento di funzioni
disparate: incontrarsi, commerciare, celebrare, utilizzare servizi comuni (Salzano, 2009).
In letteratura si ritrovano numerosi allarmi circa il cattivo stato di salute (Sennett, 1982; Sorkin, 1992; Zukin,
1992) e in alcun i casi un a presun ta m orte (Don M itchell, 1995 ) dello spazio pu bblico. A ssumendo un a
prospettiva diversa, si colgono, invece, chiari segni di vitalità.
Il punto di vista cambia decisamente se se si intende lo spazio pubblico come prima ancora che un ambito
codificato, un insieme di comportamenti che si cristallizzano in un luogo che non ha necessariamente natura
giuridica pubblica anche se ha la capacità di offrire, ai suoi potenziali abitanti, lo sfondo per la condivisione
collettiva, anche se temporanea (La Varra, 2007; p.13). Il carattere di pubblico non inerisce ad un luogo per
decreto o prop rietà, bensì risulta pubblico uno spazio in quanto costruito dall’interazione sociale, a certe
condizioni: è un costrutto sociale non necessario,eventuale (Crosta, 2000; p. 42).
Lo spazio pubblico non è morto, è solo altrove rispetto ai posti dove si era abituati a cercarlo.
Raffaella Valente
1
La piazza del mercato, uno spazio dell’opportunità?
Osservarlo implica più che l’analisi di una tassonomia di tipologie spaziali predefinite, un’attenta considerazione
dell’interazione fra pratiche collettive e spazi fisici nei quali hanno luogo (Lanzani, 2003).
Queste pratiche collettive, spesso informali, rappresentano la concretizzazione della ricerca di opportunità.
Opportunità che possono essere tangibili (riposo, gioco, acquisti convenienti, sopravvivenza, tregua, sport) ma
anche immateriali e ugualmente fondate (incontro, scambio, conoscenza, informazione, espressione).
Tutte queste aspettative che si tramutano in pratiche fanno dello spazio pubblico uno spazio dell’opportunità.
In alcuni casi al le occa sioni pi ù minute e p ersonali si affiancano opport unità collettive, dan do vita a spazi
dell’opportunità, intesi come utili a scopi quali l’ espressione della sfera pubblica e la costruzione di una vera
convivenza.
Gli spazi pubblici della città contemporanea costituiscono alcuni fra i luoghi di elezione per esprimere e rendere
visibili occasioni di affermazione e di negazione di opportunità personali e collettive.
Spesso l’opportunità ha molto più a che vedere con la vita di uno spazio che con la sua forma.
Per questa ragione lo spazio del mercato risulta particolarmente interessante come terreno di indagine: si tratta,
infatti, di uno spazio che è uno spazio fisico (la piazza, la strada) ma che vive grazie ad un evento (il mercato).
Il lavoro si concentra su Torino, una città per la quale i mercati hanno un significato antico e profondo.
Lo sguardo considera la dimensione statica degli ambienti urbani (piazze, vie, palazzi) intrecciata alla realtà
dinamica ed evolutiva dell’evento che ogni giorno ha luogo in quegli spazi. E con essa si evolvono gli scenari e i
protagonisti. I l m ercato rappresenta u no spaz io di o pportunità: è l uogo di r icerca, di sca mbi, di r eti, d i
mediazione. La piazza del mercato è un luogo che si evolve lasciando spazio all’espressione di nuovi e vecchi
protagonisti della sfera pubblica cittadina. La tesi è sostenuta da un’argomentazione costruita sulla base di
un’indagine sul campo. L’analisi è condotta su tre livelli a diverse scale:
 un luogo/evento: il mercato
 una pratica: gli annunci affissi per strada
 un oggetto: una borsa di plastica (diversa da tutte le altre)
2. Torino, città di accoglienza
Trovare un piemontese a Torino non è impresa facile. Subito dopo la seconda guerra mondiale la città raddoppia
la sua popolazione, pur avendo una crescita demografica minima. Da 695.000 abitanti nel 1945 si passa a
1.202.846 nel 1974. Gli immigrati venuti dal Sud Italia per lavorare nell’industria hanno fatto di Torino quella
che è stata definita la terza città italiana meridionale . Nel 1961 si registra il maggior numero di arrivi (75.920
immigrati contro 22.628 emigrati).
E proprio in quegli anni Goffredo Fofi intraprende da dilettante uno studio sull’immigrazione meridionale a
Torino.. Questo studio appassionato restituisce l’immagine di un processo repentino, inatteso e spesso doloroso
per i più. Pur non trascurando le inevitabili difficoltà, tra le pa gine emergono racconti di speranza, di vita
migliore, di em ancipazione, di possi bilità. No nostante l’i niziale diffidenza d iffusa, il paternalismo d e “La
Stampa” e gli innumerevoli problemi concreti, la città ha accolto i tantissimi nuovi arrivati.
Intorno agli anni 70, quando ancora questo fenomeno er a in una fase che si potrebbe dire di assestamento,
Torino, come tutta l’Italia, comincia a diventare meta di immigrazione dall’estero. Negli anni 80 e 90 l’Italia
diviene l’orizzonte di vita di molti maghrebini, est europei, ma anche peruviani, nigeriani, egiziani.
Per Torino si tratta della seconda ondata; torna ad essere una città del Sud, questa volta città di molti Sud (Sacchi
e Viazzo, 2003). Considerando i dati Istat aggiornati al 2008, la popolazione della città è di 910.293 abitanti (si
registra un sensibile aumento rispetto al censimento del 2001). Il saldo positivo è ancora dovuto in maniera
rilevante alle migrazioni da altre parti d'Italia e, soprattutto, da Paesi dell'Est, del Maghreb e dell'Africa subsahariana. I cittadini stranieri residenti a Torino sono 115.800, pari al 13% della popolazione. I gruppi principali
(dati CENSIS, Rapporto 2008) sono co stituiti da Romeni (4 7.800), Maro cchini (17 .700), Peruviani (7 .100),
Albanesi (5.400) e Cinesi (4.500).
Per i nuovi torinesi, storie in comune con quelli arrivati dopo la guerra: traiettorie, speranze, ma in molti casi
anche difficoltà e problemi quotidiani. Per la città una nuova sfida, vecchia come il mondo: accogliere.
3. Torino, città di mercati
I mercati rappresentano molto nella cultura, nella memoria collettiva e nella vita quotidiana della città di Torino.
Il legame fra i torinesi e i mercati è confermato da una serie di dati consistenti, oltre che dalla quotidiana
animazione che si trova quotidianamente frequentando questi luoghi.
Da un’indagine condotta dalla Città nel 204 si evince che l’81% delle famiglie torinesi compra nei mercati
(Coppo, 2007;p.50). La città conta una cinquantina di mercati sparsi su tutto il suo territorio. Nell’immaginario
cittadino Porta Palazzo è il più grande mercato d’Europa co n i suo i 1000 opera tori e le sue circa 100.000
presenze al sabato; così come Corso Racconigi , un altro mercato rionale, è il più lungo d’Europa, occupando
circa un chilometro dell’omonimo viale.
Raffaella Valente
2
La piazza del mercato, uno spazio dell’opportunità?
Il successo dei mercati è dovuto a diverse componenti: la convenienza, la possibilità di comprare molti prodotti
in uno stesso luogo, la facilità di reperimento di alcuni prodotti con specifiche provenienze. Ognuno di questi
fattori h a giocato in modo fo ndamentale n el costruire un ruolo sa ldo ai mercati in un a città con u na fo rte
componente operaia e immigrata. Ma i mercati hanno anche un’altra capacità molto importante: quella di creare
reti. Ogni mercato è di per sé una rete di ambulanti e molte reti attorno a questa si creano. Da sempre vi si cerca che si venga dal Sud d’Italia o da altrove - i prezzi più convenienti, i prodotti del proprio paese, ma anche
informazioni e vita sociale. I mercati, dunque, sono anche luoghi di socialità e di mediazione culturale.
Figura 1. Torino e i suoi numerosi mercati rionali.
4. indagine sul campo: un evento, una pratica, un oggetto
4.1 un evento: il mercato
Il mercato è per sua natura effimero e temporaneo. Tuttavia si svolge in uno spazio fisico, dal quale spesso
prende anche il nome. Lo svolgersi quotidiano di questo evento influisce profondamente sulla vita d el suo
intorno e sulle configurazioni dell’habitat urbano. La lettura che segue guarda ai mercati di Torino con una lente
particolare, quella della relazione fra questi luoghi/eventi e gli immigrati.
* Mercato e immigrati. Interferenze 1 (compere,scambio,socialità)
Il mercato è considerato luogo d’elezione per la spesa da molti gruppi etnici. È quindi, in primis, luogo di
compere. La preferenza ad altre forme di commercio ha diverse ragioni: risparmiare, trovare molti prodotti nello
stesso luogo, trovare prodotti del proprio paese di origine. Altri motivi di interesse riguardano il mercato come
luogo di scambio e di socialità. In questi luoghi si può facilmente incontrare gente della propria etnia, scambiare
informazioni , trovare ristoranti della propria gastronomia. Si possono, dunque, creare reti.
* Mercato e immigrati. Interferenze 2 (sovrapposizioni territoriali)
Dalla lettura delle mappe che evidenziano i quartieri più densamente abitati da immigrati 1 si evince che in molti
casi essi corrispondono con delle zone nelle quali sono localizzati alcuni fra i più grandi e conosciuti mercati
cittadini.
La zona di Porta Palazzo che ospita circa 5000 stranieri (in prevalenza maghrebini) è più conosciuta col nome di
Porta Palazzo, che è lo stesso del principale mercato cittadino. San Salvario, il quartiere noto per la sua anima
multietnica (circa 3000 residenti stranieri) è sede del mercato di Piazza Madama Cristina. Nel cuore di San
Paolo, borgo operaio oggi abitato da circa 4000 stranieri, in prevalenza Rumeni e Sudamericani, ha luogo il
mercato di Corso Racconigi.
* Mercato e immigrati. Interferenze 3 (opportunità di lavoro e possibilità per le donne)
1
dati al 31/12/2008; fonte: Ufficio di Statistica del Comune di Torino
Raffaella Valente
3
La piazza del mercato, uno spazio dell’opportunità?
Sempre più sovente gli immigrati trovano un ruolo attivo nei mercati come venditori. L’evidenza trova conferma
nei dati statistici: l’analisi per settori riguardante gli imprenditori stranieri a Torino registra un 28,2% nel settore
del commercio, con una prevalenza di provenienza africana (49,5%) ed asiatica (44,7%)2.
Questo accade da qualche tempo: è già accaduto per i meridionali, i maghrebini, i nigeriani e i cinesi. Non
ancora per i rumeni e gli est europei in generale. I commercianti stranieri vendono spesso prodotti della propria
terra, ma in alcuni casi gestiscono attività commerciali che poco hanno a che vedere con le proprie origini. Ad
ogni modo la loro presenza fra i venditori rappresenta un punto di riferimento per i concittadini e aiuta a
mantenere le reti.
É interessante sottolineare che quello del commercio nei mercati rappresenta una possibilità lavorativa anche per
le donne di molte etnie, impiegate anche autonomamente nella gestione dei banchi.
Figura 2. I mercatali stranieri. Un'opportunità anche per le donne.
4.2 una pratica: gli annunci per strada
La pratica in questione consiste nella consuetudine di affiggere per strada, su diversi supporti, dei biglietti di
carta recanti annunci di diverso genere. Si tratta di un mezzo utilizzato da diverse etnie, in particolare dai rumeni.
Viene di seguito descritta secondo le cinque W:
CHI. I rumeni immigrati a Torino nel 1999 erano 2.600, nel 2003 erano 14.500, nel 2009 51.200 3. La loro
presenza in città è aumentata di venti volte negli ultimi dieci anni. Ma anche altri gruppi etnici, in particolare
latino americani.
COSA. Il fenomeno consiste nell’appendere per strada biglietti scritti in lingua straniera che propongono diversi
servizi. In generale si tratta di informazioni che riguardano diversi servizi: il trasporto di merci e persone in
Romania, la vend ita e trasporto di mobili, il lavo ro, il traspo rto, l’allogg io, l e feste e g li ev enti con ospiti
dell’etnia interessata.
DOVE. Nella città di Torino, di preferenza nei pressi di luoghi come le stazioni e i mercati. Queste zone sono
considerate strategiche perché oltre ad essere abitate da molti stranieri. sono anche frequentate da immigrati che
abitano altrove. I supporti utilizzati sono pali della luce, cabine telefoniche, paline dei mezzi pubblici, cassette
gas, ….
PERCHE. Una delle ragioni è certamente la difficoltà nel reperire e utilizzare mezzi di comunicazione come
internet. Anche l a st ampa locale spess o non trasmette questo ti po di annunci. Si tratta, ino ltre, di una
comunicazione che elude i problemi con la lingua italiana.
QUANDO. Soprattutto nel corso degli ultimi 7 o 8 anni, da quando alcune comunità (come quella romena e
quella peruviana) sono diventate sempre più presenti in città
Questo f enomeno g enera q uello c he a m olti appare una p resenza c olorata e c uriosa l ungo al cuni percorsi
cittadini. Ma p er mol ti alt ri acquisisce u n sign ificato ben p iù profondo. La possibilità di co municare,
un’occasione d i pubblicizzare la propr ia attività l avorativa, l’e ventualità di t rovare un a ppartamento o
2
3
dati al 31/12/2008, fonte: Camera di Commercio di Torino
dati al 31/12/2009; fonte: Ufficio di Statistica del Comune di Torino
Raffaella Valente
4
La piazza del mercato, uno spazio dell’opportunità?
semplicemente degli amici fra i connazionali: sono solo alcune delle potenzialità di questo mezzo. In alcuni casi
si ricorre a questo strumento di comunicazione per discutere su temi importanti per gli immigrati: le espulsioni,
le nuove leggi in materia, le manifestazioni, i centri di permanenza temporanea. Una forma di sfera pubblica
alternativa4 nell’epoca di internet?
4.3 Un oggetto: una borsa di plastica (diversa da tutte le altre)
Ultimo tema di questa esplorazione è un oggetto. Si tratta di una borsa semirigida, a forma di parallelepipedo,
costruita con fibre plastiche intrecciate, dalle dimensioni e colori variabili.
Da qualche anno questa borsa è sempre più diffusa nei negozi e nei mercati, di Torino e di molte città europee. È
utilizzata con scopi molto diversi. La sua diffusione in paesi anche molto lontani tra loro la rendono un oggetto
globalizzato. Una borsa di plastica, ma non come tutte le altre! I principali utilizzatori di questo oggetto sono gli
immigrati. Lo utilizzano reinventandone costantemente gli usi: come borsa per la spesa, come sacco per la
biancheria da lavare alle lavanderie pubbliche, come valigia, come sacco per la spazzatura, come contenitore per
trasportare merci da vendere, etc. Ma perchè questa borsa è diversa dalle altre? Quali sono le caratteristiche che
hanno decretato il suo successo? Economica, pieghevole, leggera, solida, colorata, riutilizzabile: sono alcuni dei
requisiti che hanno fatto si che questo oggetto si sia diffuso in maniera capillare, dalle metropoli europee alle
città dell’Africa.
È interessante notare anche un altro fatto. A seguito delle politiche per la riduzione delle buste di plastica per la
spesa, m olte c atene di s upermercati hanno i ntrodotto delle bor se ri utilizzabili. Quelle di alcuni m archi
riprendono chiaramente il modello della borsa tanto vista nei circuiti informali.
Si può dunque parlare di un oggetto globalizzato che però ha seguito un percorso di diffusione lontano dai canali
classici di questo fenomeno (la pubblicità, il brand). Si è diffuso grazie a quei cittadini traslocali (Amin e Thrift,
2005;p.214) che disegnano territoires circulatoires (Tarrius, 1992) attraverso i continenti, divulgando usi ed
oggetti di un’altra globalizzazione.
Figura 3. Alcuni usi della borsa
5. conclusioni
Questo percorso, più che giungere a conclusioni vere e proprie, apre delle piste di riflessione.
Amin e Thrift (2005;p.217) riprendono, lungo un solco segnato da De Certeau, la necessità di identificare e
raccogliere le sfide che la città esprime, essendo ancora culla di invenzioni e creatività.
Leggere le pratiche in maniera sottile, identificare protagonisti ,indagare le origini e le ragioni può aiutare a
costruire riflessioni che sappiano andare oltre le facili retoriche.
È particolarmente interessante, poi, rivolgere queste attenzioni a certi tipi di spazi, riprendendo la riflessione
condotta nell’introduzione su dove cercare gli spazi pubblici. Spostando il centro di interesse dagli spazi aulici
del centro storico si trovano terreni fertili nei quali cercare alcuni degli elementi costitutivi dello spazio pubblico:
4
A questo proposito di veda la critica alla sfera pubblica habermassiana di Nancy Fraser e il concetto di counterpublic di Holston
Raffaella Valente
5
La piazza del mercato, uno spazio dell’opportunità?
la serendipity, l’incontro col diverso, la possibilità (Bagnasco, 1994; Cremaschi, 2009; Hannerz, 1980;La Varra,
2007).
Uno dei pun ti, r iguarda qu indi qu ali sp azi gu ardare. Esiston o nu merosi ten tativi ( seppur co n pr emesse e
prospettive d iverse) di mettere sot to i riflettori qu egli sp azi o rdinari, b anali e sp esso trascu rati anche nelle
ricerche: l’everyday urban space di M. Crawford, i temporary urban space di Haydn e Temel, la città imprevista
di Cottino, i lieux communs di Krulic, la Post-it city del CCB, le Urban Action del CCA, e tanti altri.
Lo studio d i questi spazi, mette in l uce un asp etto molto importante: proprio qui , sp esso si verif icano l e
condizioni, non tanto per scopi utopici e magniloquenti (lo spazio democratico, l’integrazione ), quanto per
quelle co nvergenze ch e possono app arire m inime e second arie, m a che n o lo so no af fatto. Si p ensi alla
comunicazione, alla tolleranza, al contatto con l’altro. Gli spazi nei quali queste condizioni si verificano sono per
Amin (2006;p.1019) una componente essenziale della cultura pubblica urbana e un importante filtro attraverso
il quale la vita urbana è considerata un bene collettivo5.
Considerare queste dinamiche, senza preconcetti, è fondamentale per la costruzione di politiche urbane (e non
solo) capaci di ascoltare le opportunità espresse dalla vita degli spazi.
L’esempio di Torino, oggetto dell’analisi, ci aiuta ad evidenziare alcune criticità esportabili. Il caso analizzato
apre la questione della proposta: come rielaborare in senso propositivo quel che si raccoglie in fase di indagine?
Confrontarsi co n q uesta antropologia del movimento (Tosi, 1998 ;p.16) p one dei g rossi in terrogativi nella
costruzione di interventi di regolazione, siano essi politiche, progetti, programmi. La Cecla nota che le città
vengono trasformate da questi nuovi accessi, ma non è facile capire come strumenti amministrativi e di piano
potrebbero regolarne l’insediamento. Principalmente perché i tempi di questi strumenti non corrispondono ai
tempi molto più veloci dell’immigrazione. (La Cecla, 1998;p. 45)
Se si pen sa lo sp azio p ubblico come co stituito tan to d alla su a componente fisica, qu anto dalla vi ta ch e lo
attraversa, il problema re sta a perto, a nche discostan dosi d alla sp ecifica q uestione dell ’immigrazione. C ome
intervenire sullo spazio pubblico, tenendo conto delle pratiche, sapendo che gli interventi arrivano sul campo
quando i processi sono ancora attuali o, in alcuni casi, superati?
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5
La traduzione è mia
Raffaella Valente
6
La piazza del mercato, uno spazio dell’opportunità?
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Raffaella Valente
7
Nuovi spazi pubblici? Forme e usi dei luoghi “del pubblico” nella città contemporanea
Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti
Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza
Roma, 25-27 febbraio 2010
Planum - The European Journal of Planning on-line
ISSN 1723-0993
Nuovi spazi pubblici? Forme e usi dei luoghi “del pubblico”
nella città contemporanea
Nicola Vazzoler
Dipartimento di progettazione architettonica e urbana
Università degli Studi di Trieste, [email protected]
Abstract
Attraverso una descrizione che investe il territorio e le abitudini dell’individuo contemporaneo, possiamo
restituire una nuova mappa di spazi pubblici che difficilmente avremmo percepito come tali: la dicotomia
pubblico- privato sembra diventare ambigua e trasforma gli spazi di natura privata in spazi della
socializzazione; l’esigenza collettiva o del singolo trasforma spazi inermi e/o vaghi o destinati ad altro, in spazi
personali o collettivi dove si raccolgono nuove pratiche; ecc… Studiare queste realtà, i tipi di utenti che le
frequentano e le differenti pratiche che all’interno si sedimentano, permette di comprendere le necessità della
società che vive nell’arcipelago contemporaneo, fatto di frammenti funzionali e spazi fra le cose, e le nuove e
diverse definizioni di spazio pubblico che sembrano rapportarsi con un pubblico multiplo e specializzato.
0. Uno spazio di frontiera
Per comprendere la forma e il ruolo che oggi assume lo spazio pubblico si rende necessario tornare a descrivere
la società e il territorio in cui vive, non solo sfruttando l’interdisciplinarietà propria della nostra disciplina, ma
attraverso una lettura di quella parte di territorio in trasformazione, in movimento, incerto, ovvero quelle parti di
territorio che si configurano come aree di “frontiera”, dove le cose sembrano cambiare, dove i così detti tessuti
consolidati si sfrangiano i n filam enti o coaguli, ap rendosi al terri torio, alla m obilità e ad un’altra scala,
restituendo un punto di vista interessante sull’uso dello spazio da parte della società che la abita.
Ed è per l’appunto in un’area di frangia della città di Udine che si concentra l’attenzione di questo studio (Figura
1), diverse interpretazioni di un’area periferica a nor d-ovest della conurbazione, che propone al suo interno
differenti tessuti urbani giustapposti (pattern composti di villini recintati, esperimenti dell’architettura moderna e
sociale, …), nuclei periferici e satellitari con i propri centri consolidati, i grandi contenitori di servizi (il centro
commerciale Fiera, lo stadio Friuli, il parco del Cormor, la sede periferica dell’Università, …), la trama agricola
che pe netra fra i t essuti fr ammentandosi, l ’intelaiatura i nfrastrutturale c he d etermina un si stema c ontinuo
(l’autostrada A23) e il serbatoio di naturalità del torrente Cormor.
Diversi materiali e spazi che si giustappongono a formare un collage, in cui l’individuo si muove alla ricerca di
determinati riferimenti come in un arcipelago, un alternarsi di frammenti di differente natura che riflettono:
“l’organizzarsi della nost ra società per sottosistemi, per m inoranze c he opera no c ome m icrocosmi
autopoietici (la famiglia, i clan etnici e professionali, le associazioni legate al consumo e al tempo libero).”
(Boeri, 2003; p.443)
1. Pubblico- Privato: una dicotomia ambigua
La prima interpretazione dell’area in esame individua molte delle realtà che stanno in rapporto diretto con il
pubblico, i nteso c ome u n g ruppo di i ndividui che usa e si muove all’interno di un determinato spazi o; si
determinano qui ndi, ind iscriminatamente, “sp azi pubblici” e “sp azi per pubblici”, ovv ero spazi di nat ura
giuridica pubblica e spazi di natura privata ad uso collettivo, disegnando “costellazioni” di materiali differenti:
città pubblica, servizi, spazi aperti nei centri consolidati, centri commerciali locali e a scala territoriale, parchi
urbani ed extraurbani, ecc… (Figura 2).
La convivenza, felice o meno, di questi materiali sul territorio, sembra proporre da un lato una nuova visione di
pubblico, non unico e stanziale ma multiplo, nomade e specializzato, un pubblico che si muove sul territorio alla
ricerca d i uno spazio in gr ado di definirlo, dall’altro lato è evidente come la dicotomia Pubblico/Privato si
dimostri ambigua, con un limite fra i due termini che si fa labile: la socializzazione che nasce da un incontro può
materializzarsi in una realtà aperta connotata da valenza simbolica e all’interno di un contesto urbano o in uno
Nicola Vazzoler
1
Nuovi spazi pubblici? Forme e usi dei luoghi “del pubblico” nella città contemporanea
spazio in terno semipubblico, o completamente privato, nonostante questo sp azio sembri pred iligere pub blici
“distratti” e “selezionati” all’origine.
Figura 1 (Area di “frangia” della città di Udine)
Queste interpretazioni trovano conferma nelle riletture di quegli autori che hanno evidenziato un problema di
definizione a più livelli della sfera pubblica: secondo Stephen Kern, nel tempo la dicotomia pubblico-privato
Nicola Vazzoler
2
Nuovi spazi pubblici? Forme e usi dei luoghi “del pubblico” nella città contemporanea
sembra aver subito continue ridefinizioni dei propri limiti ma l’intensificazione della sfera intima (Kern, 1995),
che ha visto nel XIX sec. una sorta di morte dello spazio pubblico in virtù di un sovraccarico emotivo della vita
Figura 2 (“Spazi per un pubblico”)
intima, sembra aver abbattuto la dicotomia stessa, portando a quella che Innerarity definisce sfera intima totale
(Innerarity, 2 008) nella qu ale semb ra d ifficile far e una distin zione fr a p ubblico e pr ivato, am biti ch e o ggi
Nicola Vazzoler
3
Nuovi spazi pubblici? Forme e usi dei luoghi “del pubblico” nella città contemporanea
sembrano contaminarsi e sovrapporsi. Tralasciando il mondo della politica e/o della televisione in cui pubblico e
privato sembrano ormai fondersi, sul territorio l’individuo è portato a muoversi e a raggiungere mete differenti,
sparse e specializzate, proponendo assieme ad altri un pubblico nomade e specializzato che si “accende” e
“spegne”: è possibile quindi proporre un’idea di “spazio pubblico” che si amplia, quella di “spazio per un
pubblico”
Anche la scelta della propria nicchia residenziale determina la comparsa sul territorio di ambiti più o meno
permeabili: la segregazione sociale è in grado di coagulare diversi individui in gruppi che si riconoscono per
reddito, stile di vita, e/o razza, sembra scontato che l’individuo più “mobile” sia anche quello più avvantaggiato
nella decisione del proprio “ambiente residenziale” determinando vistosi scompensi fra i diversi individui, c’è
chi p uò e c hi n on p uò scegliere l a p ropria i sola. A seconda d ella p ermeabilità, e quindi de l l ivello di
privatizzazione dell’isola residenziale, è possibile considerare l’esistenza di differenti tipi di pubblici che usano
gli spazi presenti in queste realtà, esiste quindi anche una sorta di privatizzazione dello spazio aperto.
Nel caso studio sono presenti diversi quartieri di edilizia economica popolare, pattern compatti di villini isolati e
recintati e, in costruzione, un nuovo villaggio protetto con recinzione e guardiano, realtà che possono presentare
all’interno delle isole, forme di segregazione sociale, potenzialmente negata sui perimetri, dove le parti vengono
a contatto fra loro e con spazi aperti di altra natura.
La segregazione (funzionale e sociale), che ha scomposto e sparso sul territorio il modello urbano, e la relativa
libertà di cui gode l’individuo contemporaneo, permettendone il movimento nello spazio, sembrano incentivare
un cambiamento nell’uso dello spazio pubblico, determinando una sorta di scomparsa dello “spazio pubblico”.
“Da una parte abbiamo i quartieri marginali e senza legge; dall’altra, gli spazi commerciali o di svago
protetti da ac cessi se lettivi, le c omunità recintate con i loro sistemi di s orveglianza e di sicurezza.”
(Innerarity, 2008; p.130)
2. Vuoto continuo
È necessario a questo punto comprendere la natura dello spazio che sta fra i frammenti, fra i pacchetti funzionali,
rendendolo parte attiva di questo discorso o, come direbbe Stephen Kern, concentrare l’attenzione sullo “spazio
positivo negativo”, sottolineando l’importanza che lo “sfondo” sembra aver guadagnato negli ultimi due secoli.
Lo spazio aperto ha guadagnato oggi un ruolo relativamente importante, non si limita a cingere gli oggetti ma
penetra all’interno delle conurbazioni urbane determinando una frammentazione del costruito nelle periferie ed
una dispersione urbana sul territorio. In effetti, facendo un confronto fra tessuti urbani di diversa natura si evince
come in un centro storico è preponderante la presenza dei pieni mentre nelle aree di frangia il pieno sembra
galleggiare sul vuoto, “la città si è trasformata da solido continuo a vuoto continuo” (Viganò, 1999; p.127).
Nel caso di Udine prendere in considerazione lo “spazio positivo negativo” (Figura 3) ha messo in evidenza il
comportamento del vuoto, dello spazio aperto, che perimetra o penetra all’interno delle “cose”: cinge gli oggetti
di na tura p rivata o sem icollettica (centri co mmerciali, uni versità, edifici rel igiosi, ci miteri…); s’insinu a
all’interno delle città pubbliche, dei parchi, dei lotti incolti o in attesa di destinazione, formando così sequenze di
spazi aperti variabili; travalica i recinti dei villini isolati su lotto privati, da un lato perché all’interno si possono
ritrovare diverse attività di socializzazione (Viganò, 1999), dall’altro perché la permeabilità visiva concorre a
creare una continuità con l’esterno e quindi con lo spazio aperto di natura pubblica (Schab, 1999).
Questo spa zio ch e sta fr a le co se o vi penetra all’ interno, si configura come un vuoto continuo pi uttosto
complesso, a tratti ben definito e in altri indeterminato, un unicum spaziale che contiene al suo interno realtà
diverse, spazialità complesse, spazi dentro uno spazio, distinguibili a differenti scale di lettura e che è in grado di
contaminare i frammenti stessi.
Al di là dei processi di segregazione funzionale e d’inversione nel rapporto figura/sfondo che appartengono alla
storia della nostra disciplina e hanno avuto un ruolo importante per la trasformazione dello spazio aperto, è
interessane notare come proprio negli ultimi decenni questo sia divenuto tema di dominio pubblico, un diritto da
rivendicare e/o tutelare. L’attenzione particolare dedicata all’individuo e alla sua cura, e la generale tendenza
ambientalista contemporanea, n ata d al relativo b enessere sv iluppatosi nel secondo d opoguerra, sem brano
sostenere il modello di una città più verde e in cui sembra esserci sempre più bisogno di spazio aperto, dirigendo
il progetto contemporaneo verso un’ulteriore svalutazione del costruito: ad ogni ipotesi di trasformazione del
territorio di grande portata è facile imbattersi in un’opposizione da parte di gruppi di liberi cittadini (n.i.m.b.y. o
b.a.n.a.n.a.).
Sembra quindi che lo spazio aperto si sia dilatato determinando alla grande scala un vuoto continuo che risente
delle differenti scelte progettuali adottate alla piccola scala: verdi dalle diverse consistenze fisiche e giuridiche,
aree di rispetto, infrastrutture e parcheggi di diversa natura e grado, spazi di risulta, ecc... Ora, se lo spazio aperto
si è dilatato, aumentando cioè la quantità di spazio dedicato ad accogliere il possibile movimento e lo stare e se a
questo associamo la relativa mobilità e libertà dell’individuo contemporaneo, possiamo affermare che in questo
vuoto continuo possano svilupparsi con una certa casualità nuovi usi dello spazio da parte di una nuova utenza?
Nicola Vazzoler
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Nuovi spazi pubblici? Forme e usi dei luoghi “del pubblico” nella città contemporanea
Figura 3 (“Spazio positivo negativo”)
Nicola Vazzoler
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Nuovi spazi pubblici? Forme e usi dei luoghi “del pubblico” nella città contemporanea
3. Lo “spazio pubblico potenziale”
Il vuoto continuo può quindi essere rappresentato come un grande ambiente vitale in cui gli individui possono
scegliere dove stare o in quale direzione muoversi.
Per esempio, Bas Princen può esserci utile per parlare di questo nomadismo contemporaneo e della nascita di un
nuovo sp azio pu bblico a ttraverso la su a r icerca Artificial Arcadia: nel su o studio p er il ter ritorio olandese,
Princen individua tribù nomadi che non si muovono alla ricerca di un pacchetto specializzato o tematizzato ma di
spazi aperti dove investire il proprio tempo libero. Questi spazi, solitamente destinati ad altro (in alcuni casi
dimenticati), vengono anche solo temporaneamente ad ospitare nuovi usi e pratiche appartenenti a gruppi di
individui, diventando così spazi pubblici “effimeri” e “clandestini” che si materializzano nel momento in cui
l’individuo o il gruppo di individui ne sentono la necessità.
Accanto a queste realtà, che propongono una sorta di appropriazione “debole” dello spazio, al quale cioè si
sovrappongono e si adattano nuovi usi e pratiche, si possono individuare forme di appropriazione dello spazio
più “radicali” in grado cioè di trasformare lo spazio trovato col fine ultimo di costruire uno spazio pubblico,
unico nel contesto, per esempio, i diversi movimenti di “guerrilla gardening” si comportano come pubblici alla
ricerca di un proprio spazio, confrontandosi con i confini della legalità, trasformando fisicamente uno spazio
altro per superare i vuoti della pianificazione della città contemporanea e venendo incontro alle richieste della
comunità. La differenza sostanziale n ei casi pr oposti sta pro babilmente nella scala con cu i si ri leggono l e
questioni: Princen si attesta ad una scala che evidenzia la dispersione territoriale di diverse forme di pubblico, i
fenomeni di “guerrilla gardening” evidenziano invece questioni proprie di una realtà urbana.
Entrambi i casi però suggeriscono l’idea di un nuovo spazio pubblico inteso come appropriazione personale del
territorio e che trasforma il vuoto continuo in una piattaforma potenziale per attività individuali e collettive, uno
“spazio pubblico potenziale” perché si compone delle scelte individuali o collettive potenziali e che impongono a
porzioni sparse, o ad un inanellarsi di spazialità, nuovi usi e pratiche.
È difficile fare un elenco preciso degli usi propri e/o impropri degli spazi che compongono l’area di frangia in
esame, stiamo parlando infatti di usi personali o di un ristretto gruppo di persone che possono rimanere celati (la
passeggiata o la chiacchierata nel parcheggio dello stadio, la corsa o la sosta nei campi coltivati, e via dicendo).
Sono certo però, che le osservazioni sul campo, oltre che testimoniare gli usi altri dello spazio, siano in grado di
testimoniare un cambiamento di tendenza nella concezione di uso dello spazio da parte dell’utenza, tra l’altro
forse sempre esistita, e che tende a modificare il concetto stesso di spazio pubblico.
4. In conclusione?
Oggi non sembra essere la definizione giuridica a definire il corretto funzionamento di uno “spazio pubblico”.
Come si è visto, uno spazio pubblico, di qualsiasi natura esso sia, sembra funzionare quando è in grado di
raccogliere al suo interno un proprio “pubblico”, un soggetto collettivo che usa lo spazio, che se ne appropria, se
il “pubblico” non usa lo spazio, questo è forse destinato a morire: i centri commerciali verranno abbandonati, gli
spazi potenziali perderanno pian piano le proprie potenzialità, gli spazi pubblici tradizionali, con una natura
giuridica per l’appunto pubblica, sono forse gli unici destinati a presentare questioni non eludibili.
Infatti alcuni progetti che oggi interessano gli spazi pubblici tradizionali, sembrano prendere in considerazione il
rapporto che s’instaura con l’utenza: superare l’idea di spazio simbolico e rappresentativo per giungere ad uno
spazio attivo e relazionale in cui l’utente diventa elemento programmatico del progetto stesso ed è in grado di
modificare la re altà in cu i si m uove secondo le proprie esigenze. La lib ertà di m ovimento e d i sc elta
dell’individuo nello spazio fisico non sono che riflessi minuti di processi di trasformazione anche più ampia, per
esempio di quegli spazi virtuali infiniti che vengono considerati ormai pubblici, e in cui i navigatori partecipano
alla creazione di un nuovo mondo, apportando le proprie modifiche sostanziali (modello web2.0).
Nella realtà fisica un’opera d’arte o un evento temporanei possono diventare momento di partecipazione con il
pubblico, al quale viene chiesto di reinterpretare le diverse trasformazioni temporanee dello spazio pubblico, altri
progetti si basano invece su un rapporto di scambio e di partecipazione proponendo un certo grado di flessibilità,
capace di t rasformare la fisicità e la pe rcezione dello s pazio i n r elazione a lle d iverse p ratiche: si poss ono
annoverare installazioni d’arte, orti urbani, o tutti quei progetti che trasformano lo spazio in una piattaforma di
opportunità (le opere dell’artista J. Gerz, i progetti degli studi NuvolaB, MA0, NL Architects, Topoteck che
propongono un rapporto diretto con il pubblico).
L’attenzione ricade sul diverso tipo di “pubblico”, in quanto fenomeno autogenerativo, e su quello che cerca,
definendo così differenti tipi di spazio.
Pubblico non è sempre facilmente rappresentabile, riconoscibile, è un’entità non classificabile in partenza ma
che lascia sul territorio tracce del proprio passaggio e delle proprie esigenze.
Il coagulare di un pubblico nella realtà fisica sembra poter avvenire in maniera artificiale, ovvero attraverso
trasformazioni che coinvolgono lo spazio o attraverso l’impiego di strumenti in grado di richiamare l’attenzione,
Nicola Vazzoler
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Nuovi spazi pubblici? Forme e usi dei luoghi “del pubblico” nella città contemporanea
oppure in maniera del tutto spontanea determinando, in entrambi i casi, lo svilupparsi di “pubblici” di diversa
natura e grado.
Differenti tipi di spazio assecondano il coagularsi di differenti tipi di “pubblico”, dalle forme che dettano regole
ben precise, a quegli sp azi ch e si adattano alle nuove pratiche, ed inf ine gli spa zi pubblici tradizionali ch e
perdono il proprio valore simbolico per assecondare un pubblico mobile ed interattivo.
In sostanza si tratta di coaguli di individui sparsi sul territorio e dalla natura mutevole, che si “accendono” e
“spengono”, ad intermittenza, per poi muoversi, fondersi, e frammentarsi nuovamente all’interno di determinati
spazi, limitati o meno e che noi riconosciamo a volte come veri e propri spazi per pubblici, altre volte come spazi
aperti e come tali permeabili e fruibili.
Scoprendo le diverse storie che sul territorio si sovrappongono, sezionando i movimenti dei diversi pubblici,
comprendendo usi, attività, luoghi, persone, è possibile creare una nuova figura per il territorio preso in esame,
una figura fino a quel momento invisibile e che ora ci svela relazioni importanti e uno “spazio pubblico totale”
perché comprende al suo interno la totalità degli spazi “usati” dagli abitanti e raccoglie già in se le future scelte
del progetto urbanistico per il territorio stesso.
Bibliografia
Libri:
Boeri S. (2003), USE, Skira, Milano.
Innerarity D. (2008), Il nuovo spazio pubblico, Meltemi, Roma.
Kern, S. (1995), Il tempo e lo spazio, il Mulino, Bologna.
Princen B.(2004), Artificial arcadia, 010 Publishers, Rotterdam.
Trasi M., & Zabiello A. (2009), Guerrilla Gardening, Kowalski, Milano.
Viganò P. (1999), La città elementare, Skira, Milano.
Articoli:
Schab J. (1999), Aspetti dell’abitazione unifamiliare, Lotus, n.22,16-23.
Nicola Vazzoler
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