Donna M.Orange traduzione Gianni Nebbiosi, Susanna Federici

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Donna M.Orange traduzione Gianni Nebbiosi, Susanna Federici
Donna M.Orange
IL TESTIMONE POST-CARTESIANO
E LA PROFESSIONE PSICOANALITICA
traduzione Gianni Nebbiosi, Susanna Federici
PAROLE CHIAVE
Abuso; Atwood, G.; Comprensione emotiva; Esperienza d’oggetto-sé; Ferenczi, S.;
Funzione d’oggetto-sé; Gadamer, H.G.; Intersoggettività; Memoria; Mente isolata;
Miller, Residui cartesiani; A.; Stolorow; R.D.; Testimone; Testimonianza; Trauma;
Rispecchiamento; Wittgenstein, L.
Stimolata dalla passione di Alice Miller (Miller, 1990), convinta dal mio lavoro
clinico, e preparata a forzare i limiti della psicologia del sé, in Emotional
Understanding (1995) ho affermato che la testimonianza è una funzione d’oggetto sé
e una forma di disponibilità emotiva. La capacità di avere disponibilità emotiva idea che ho preso in prestito dalla teoria dell’attaccamento - si adatta facilmente alla
mia visione intersoggettiva della psicologia del sé. Svolgere funzioni d’oggetto sé, o
fornire opportunità per esperienze d’oggetto sé, richiede disponibilità emotiva: una
capacità ed un atteggiamento indispensabili per la vocazione psicoanalitica. Una
forma di esperienza d’oggetto sé particolarmente importante nel trattamento di
coloro che sono sopravvissuti a traumi, è una capacità emotiva speciale, una
prontezza dell’analista o del terapeuta, ad essere testimone.
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La psicologia del sé, fin dal suo inizio, ha messo in evidenza il rispecchiamento
della grandiosità naturale - o espansività - del bambino come ingrediente essenziale
di uno sviluppo sano. Questo processo è stato chiamato responsività “d’oggetto sé”
per indicare che un bambino, o qualsiasi persona, può usare questo rispecchiamento
per costruire e mantenere un’esperienza di sé continua, coesa, e valutata in modo
positivo. Qui, tuttavia, prendiamo in considerazione un’altra esperienza d’oggetto sé
- strettamente connessa al rispecchiamento - che è particolarmente significativa nella
cura psicoanalitica. Per il momento propongo di convenire di chiamarla “esperienza
d’oggetto sé di testimonianza”. La testimonianza - una forma speciale di
partecipazione nel campo intersoggettivo - rende l’esperienza di sofferenza di una
persona, reale, valida, e importante per quella persona.
In La chiave accantonata (1990), Alice Miller - che oggi rifiuta in toto la professione
psicoanalitica perché crede che non possiamo o non vogliamo ascoltarla - afferma
che la differenza cruciale negli esiti di gravi abusi sui bambini dipende dalla presenza
di qualcuno, nella loro vita, che sia testimone, e che fornisca quindi al bambino la
capacità di fare esperienza del proprio dolore. Alice Miller ritiene che senza questa
testimonianza il bambino non possa fare esperienza dell’abuso come abuso. Senza la
testimonianza l’abuso rimane invece una tortura che bisogna sopportare. Il bambino
spesso sente di meritare quel trattamento che un osservatore considererebbe crudele e
indegno. In presenza di un qualche testimone che convalidi la sua esperienza - anche
in misura minima - il bambino può sentire l’abuso come maltrattamento e, di
conseguenza, trovare i modi di esprimerlo, magari nell’arte. Come dice la Miller:
«Spesso uomini cha fanno le più svariate professioni mi chiedono come mai
non sono diventati come Hitler, e sono invece dei più o meno pacifici medici,
avvocati, insegnanti, pur essendo stati anche loro, come Hitler, picchiati
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quotidianamente da bambini. Con questa domanda intendono argomentare
contro la mia tesi, secondo cui il trattamento brutale, spietato e decisamente
distruttivo del bambino, porta non casualmente, ma necessariamente, alla
produzione di mostri. Senonché ogni volta che mi è stato prospettato un caso
simile, mi sono poi anche informata più dettagliatamente sulla relativa infanzia
e, a un attento esame è emerso che in tutti i casi c’erano stati singoli testimoni
che avevano via via consentito al bambino di esprimere momenti di sensibilità.
Invece nell’infanzia di Adolf Hitler la presenza di un simile testimone
“compensativo” manca del tutto. Ho ripetutamente paragonato la struttura della
sua famiglia a quella d’un regime totalitario in cui non esista possibilità
d’appello contro le decisioni della polizia.» (p.99)
Durante il trattamento psicoanalitico spesso possiamo scoprire che c’è stata una
persona che ha avuto la funzione di fornire testimonianza, per quanto in modo
occasionale e passeggero, anche a dispetto di contesti culturali che tollerano e danno
perfino sostegno alla violenza. In realtà l’esistenza di un testimone del genere nella
storia del paziente può essere una precondizione necessaria alla possibilità di cercare
un trattamento psicoanalitico, vale a dire alla speranza pur minima nella possibilità
che un essere umano o un contatto umano possano essere d’aiuto. Noi analisti
scopriamo, tuttavia, che molti pazienti con gravi disturbi del sé possono trovare nel
trattamento, apparentemente per la prima volta, proprio questa funzione di
testimonianza. La Miller, infatti, applica la sua teoria al trattamento dei bambini:
«Se vogliamo che i bambini maltrattati non diventino criminali o malati
mentali allora è essenziale che, almeno una volta nella vita, essi siano entrati in
contatto con una persona che sa - senza alcuna ombra di dubbio - che è
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l’ambiente intorno al babino ad avere colpa, e non il bambino stesso, così
abusato e privo d’aiuto… E proprio qui c’è la grande opportunità - offerta a
parenti, operatori sociali, terapeuti, insegnanti, dottori, psichiatri, pubblici
ufficiali, infermiere - di credere al bambino e di stare dalla sua parte»
Analogamente l’analista o il terapeuta che voglia comprendere cosa sia accaduto a
quel bambino che ora - da adulto - viene in trattamento, diventa il testimone che
rende possibile a quell’adulto di fare esperienza di tutto l’orrore della propria storia,
e quindi di cominciare a guarire. Ciò che frequentemente chiamiamo rifiuto, diniego,
o mancanza di consapevolezza, spesso può essere un’esperienza di cui non si è mai
veramente fatto esperienza (vedi Stolorow e Atwood, 1992). Essa può essere il dato
(l’evento bruto) di cui non possiamo fare (costruire, organizzare) niente. Quando i
pazienti ci dicono che nessuno li comprende eccetto l’analista, spesso vogliono dire
che solo ora stanno cominciando a conoscere la propria storia. Questi fenomeni
clinici mettono in evidenza il carattere ampiamente intersoggettivo del conoscere se
stessi.
Per cominciare con il tipo di situazione descritta da Alice Miller, consideriamo
la mia paziente Terry. La sua famiglia paterna ha una complessa storia incestuosa
violenta: membri della famiglia sono spesso imparentati sia come figli che come
fratelli. Il padre della paziente ha commesso un omicidio, e per molti anni ha
picchiato e violentato la moglie, le figlie e il figlio. Anche la famiglia della madre è
violenta e continua a dedicarsi a pratiche magiche vendicative. La paziente, intorno
ai venticinque anni, mostrava quelle gravi discontinuità nell’esperienza di sé, tipiche
delle personalità multiple. (Molti casi di discontinuità nell’esperienza di sé - in
psichiatria si chiamano fenomeni dissociativi - possono essere il risultato della
mancanza di un testimone convalidante in momenti cruciali della storia personale). I
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flashback che affliggevano Terry durante il trattamento - la maggior parte dei suoi
ricordi riemergevano nelle sedute - mi davano la possibilità di svolgere la funzione di
testimone e ciò, a sua volta, permetteva a Terry di stabilire la continuità nella sua
esperienza. La mia disponibilità emotiva, la cui forma e i cui limiti sono dovuti alla
mia esperienza di vita personale, spesso era stata necessaria per produrre in misura
sufficiente quel senso di sicurezza e di coesione del sé che rendeva possibile a Terry
ricordare il suo passato. Le continue disconferme di sua madre rendevano ancor più
difficile la lotta di Terry per riaffermare la propria storia, e quindi per trovare un
qualche senso coerente di se stessa.
Un’altra donna, Cheryl, è figlia di due genitori che non si sono mai sposati.
Entrambi soffrono di disturbi sia impulsivi che narcisistici. In apparenza Cheryl
sembra una persona con ogni tipo di privilegio: incredibilmente bella, molto
intelligente e assai ricca. Inizialmente Cheryl non riusciva a capire perché in lei ci
fossero tanta angoscia e tanta depressione. Dopo esserci impegnate in un lungo
lavoro per dare senso insieme alla sua esperienza soggettiva, Cheryl cominciò ad
essere empatica con la propria vita emotiva e a considerarla valida. Secondo le sue
parole: “Vedo che ci sono ragioni per i miei sentimenti”. Dopo aver scoperto che
poteva usare l’analista come testimone della propria storia dolorosa - il che la
metteva in grado di articolare e possedere la propria esperienza - cominciò a trovare
testimoni e compagni spirituali anche nelle opere letterarie. Poteva portarne degli
esempi all’interno del trattamento. “Ha mai letto L’uomo senza una patria?” chiese
una volta. “Mi sento proprio come la persona che non appartiene a nessuno e a
nessun luogo”. Successivamente trovò delle esperienze d’oggetto sé analoghe, e
quando si trasferì in un’altra area geografica poté nuovamente cercare un terapeuta.
In pazienti di questo tipo, la difesa e la resistenza hanno la funzione di
proteggere da una nuova traumatizzazione. Il ricordare è sentito come pericoloso
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anche perché in parte esso include il ricordo di essere soli con il problema di quel
momento, quale che fosse, senza il sostegno e la validazione di un testimone.
Fintantoché il legame con l’analista non sia divenuto forte, non ci si può arrischiare
ad avere dei ricordi troppo vividi, perché senza una sicura connessione, la paura che
questi ricordi possano essere schiaccianti e condurre alla psicosi, o all’autodistruzione, inibisce il loro emergere. Il legame con l’analista rende possibile
scoprire e sopravvivere al fatto di realizzare (rendere reale) tutto l’orrore di ciò che è
successo ad un bambino vulnerabile. Parte dell’orrore consisteva nell’essere soli.
L’esperienza clinica con i pazienti che hanno avuto un testimone mi ha portato a
questa conclusione: tanto più affidabile è stato il testimone nei confronti del
bambino, tanto prima diventa possibile, nel presente, quel legame con l’analista che
consente il ricordo. Diversamente da Terry, Sara - figlia di un padre alcolizzato e di
una madre affetta da psicosi depressiva - aveva avuto un’insegnante di scuola
elementare a casa della quale continuò ad andare con il fratello tutti i giorni, dopo la
scuola, per tutta la durata della loro carriera scolastica. La paziente non ricordava di
avere mai parlato con la sua insegnante delle violente sgridate, di quando veniva
chiusa in cantina, e tanto meno dell’incesto. Non era sicura che quella donna fosse a
conoscenza della situazione che c’era a casa sua. Eppure: “Non ci ha mai rimandato a
casa; non ci ha mai chiesto perché andassimo da lei tanto spesso”. Nel trattamento
questa paziente mostrava un grande “terrore di ripetere” (Ornstein, 1991). Questo
terrore si manifestava soprattutto in un’enorme attenzione, in un’enorme curiosità per
i miei pensieri, per le mie reazioni. Durante la sua infanzia una cautela e una
sintonizzazione del genere erano state l’indispensabile protezione dalla violenza.
Tuttavia, la prontezza ad utilizzare l’analista come testimone - dimostrata dalla
disponibilità precoce e stabile dei ricordi traumatici - poteva essere in relazione alla
funzione d’oggetto sé di testimonianza che le aveva fornito la sua insegnante.
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La nozione di “testimone emotivamente disponibile” ci permette di considerare
il contributo dell’analista al processo del ricordare, secondo il punto di vista
dell’intersoggettività. Ci permette, inoltre, di descrivere un processo d’oggetto sé in
cui una storia che prima non era disponibile diventa un’esperienza che, a sua volta,
contribuisce al consolidamento del sé. La storia diventa esperienza di sé, diventa “la
mia storia”, in presenza di un altro che in qualche modo afferma: “Tutto questo è
orribile, e non dovrebbe mai accadere a un bambino”.
In realtà la testimonianza è un sottosistema del rispecchiamento, se
rispecchiamento significa risposta di apprezzamento a ciò che è di valore nel
bambino. Essa dice in modo implicito alla persona: “Ti considero preziosa e degna di
essere trattata con rispetto. Non avevi alcun modo di conoscere l’orrore di ciò che ti
accadeva perché venivi trattata come se fossi indegna o cattiva”. Riflettere sulla
testimonianza ci aiuta a comprendere come l’umiliazione e la vergogna ci proteggano
dal conoscere l’orrore.
La testimonianza quindi è parte della validazione che rende possibile la fiducia
del bambino nella sua esperienza e nel suo senso di realtà. Questa concezione
ampiamente intersoggettiva ha come assunto che il bisogno dell’ “altro” sia la
condizione per la possibilità stessa di fare esperienza. Secondo Stolorow e Atwood
(1992) “l’esperienza conscia del bambino si articola progressivamente grazie alla
risposta convalidante dell’ambiente” (p. 42). Nella testimonianza sono implicite tanto
la responsività apprezzativa del rispecchiamento, quanto la responsività confermativa
della validazione. La specificità della testimonianza è il riconoscimento dell’orrore e
del dolore del maltrattamento, che altrimenti non possono diventare esperienza
consapevole in modo pieno. Il dolore può essere un’esperienza grossolana,
relativamente non organizzata. Il paziente, in altre parole, può sperimentare un
dolore nudo e crudo, ma ha bisogno di un’altra persona che sia responsiva per
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costruire il dolore, per capirne l’enormità e il significato. Insieme - analista e
paziente - danno senso al dolore.
Ricapitolando: testimonianza significa presenza di una persona responsiva che
rende possibile riconoscere a un bambino - o ad un paziente che è stato un bambino
traumatizzato - l’orrore di ciò che gli è accaduto e di provarne il giusto dolore. Essa
quindi smonta la dissociazione e permette ad una persona di stabilire la continuità di
una vita di cui sente il possesso. Essa smonta la vergogna e restaura la valutazione
positiva di sé. La testimonianza stabilisce e mantiene l’esperienza di sé, e merita
evidentemente di essere designata come una funzione di “oggetto sé”. Nei casi di
stress post-traumatici, la testimonianza è la forma che deve assumere la disponibilità
emotiva dell’analista.
Ulteriori riflessioni
Dato che questo aspetto della disponibilità emotiva in psicoanalisi ha raccolto
l’interesse di un buon numero dei miei lettori, e dato che è stato notato anche da altri
autori psicoanalitici (Thomas, 1998), aggiungerei ora alcune ulteriori riflessioni.
Nella mia concettualizzazione precedente l’intersoggettività della testimonianza era per certi aspetti - soltanto implicita: nel mio lavoro persistevano ancora tracce di una
mentalità cartesiana. Adesso, date le concezioni relazionali dei processi mentali che
sono state formulate nella letteratura psicoanalitica (Aron, 1996; Atwood e Stolorow,
1984; Atwood e Stolorow, 1993; Beebe et al., 1992; Brandchaft, 1994; Fosshage,
1994; Jacobs, 1995; Lichtenberg et al. 1992; Mitchell, 1993; Orange, et al., 1997;
Stolorow et al., 1987; Stolorow e Atwood, 1992; Sucharov, 1994), dovrebbe essere
possibile porci qualche altra domanda.
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Per esempio: cosa sono questi “residui cartesiani”? In sintesi con questa
espressione intendo il continuo fare riferimento a un pensiero fondato sulla “mente
isolata” (pur se in modo non evidente), a concezioni oggettiviste della mente e della
realtà, a ideali morali e psicologici che implicano una fiducia assoluta in se stessi, e a
rigide dicotomie fra la cosiddetta esperienza interiore e la realtà esterna; e così via.
Una critica ampia e approfondita di questo tipo di pensiero cartesiano - anche
all’interno delle comunità psicoanalitiche che più si dedicano a trascenderlo - è
estremamente importante, ma travalica gli scopi di questo articolo. Per ora ciò che è
necessario è esaminare il mio lavoro su questi residui.
Prima di tutto, la testimonianza potrebbe facilmente essere fraintesa in questo
modo: un analista onniscente e tutto chiuso in se stesso fornisce conferma
all’esperienza di un’altra mente isolata - quella del bambino o del paziente - da una
prospettiva del tipo “l’occhio di Dio”. Dato che un’impressione del genere sarebbe
comprensibile, ciò rende evidente quanto sia necessario - a rischio di dover mettere
da parte quest’idea - sviluppare una concezione contestuale e dialogica della
testimonianza. L’idea di testimonianza, comunque, sembra cogliere qualcosa di
molto potente sia nella vita quotidiana che nel trattamento; dobbiamo quindi
confrontarci con il compito di formularla con il minor numero di assunti filosofici
pericolosi.
Queste mie considerazioni potrebbero anche essere lette, secondo la vecchia
modalità oggettivante, come un’incapacità di distinguere fra realtà ed esistenza. Ma
questa distinzione è indispensabile per il lavoro analitico con persone sopravvissute a
traumi molto grandi. Parlando di quanto la testimonianza abbia l’effetto di produrre
consapevolezza nei sopravvissuti all’olocausto, Felman e Laub (1992) affermano
che:
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«Un trauma molto grande rende impossibile il proprio ricordo: i meccanismi di
osservazione e registrazione della mente umana sono temporaneamente messi
fuori combattimento. […] Il racconto della vittima, il processo reale di fornire
la testimonianza ad un trauma tanto grande, comincia proprio con qualcuno che
fa da testimone ad un’assenza, ad un evento che ancora non è giunto
all’esistenza, a dispetto della natura soverchiante e convincente della realtà del
suo esser avvenuto» (p. 57).
Come possiamo comprendere l’atto di condurre all’esistenza ciò che è già
orribilmente reale? Stiamo semplicemente parlando di verbalizzare quello che è
rimasto del contenuto di una singola mente inconscia? Oppure facendo così
confondiamo l’esperienza dell’isolamento traumatico con l’esistenza di mondi privati
di linguaggi privati? Dove possiamo trovare concetti veramente relazionali per
descrivere la testimonianza e l’onere del testimoniare?
Una delle risorse che abbiamo a disposizione è il lavoro del filosofo Hans Georg
Gadamer. Il suo concetto di progetto ermeneutico che ha come fine il comprendere
attraverso un dialogo giocoso, sempre contenuto dall’orizzonte del “die Sache” [la
cosa, la circostanza, la situazione], è vicino alla nostra idea di campo intersoggettivo.
Nelle sue parole, che non mi stanco mai di leggere:
«La persona capace di comprensione non conosce e giudica come uno che se
ne stia da una parte senza venire influenzato; ma piuttosto - come uno che sia
unito all’altro da un legame specifico - pensa con l’altro, e attraversa la
situazione con lui»
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Nella visione ermeneutica del comprendere di Gadamer, il dialogo fra prospettive
tradizionali rende possibile un tipo di comprensione che nessuna persona potrebbe
raggiungere da sola.
Possiamo consultare anche il lavoro di Wittgenstein (1953): con il suo concetto
più famoso, lo Sprachspiel, o gioco linguistico, egli voleva intendere che il
significato si può trovare solo all’interno di un contesto. Gli eventi hanno significato,
o forse per dirla più precisamente, diventano esperienza, in quel processo dialogico
che è sempre più inscritto nelle forme del vivere. La sua critica della distinzione
interno-esterno (sotto la denominazione di “linguaggio privato”) era incessante. Egli
insisteva che il significato poteva scaturire solamente all’interno di una comunità
reale che usa il linguaggio.
Possiamo anche esaminare la storia della psicoanalisi per trovare concetti che
illuminino l’esperienza della testimonianza. Tanto per cominciare, Freud ci ha
lasciato il concetto di Nachträlichkeit, l’idea che gli shock o le perdite traumatiche
possono essere assorbiti nell’organizzazione dell’esperienza solo gradualmente
(Freud, 1914), e diventare ricordi. Nel frattempo il trauma viene ripetutamente
rielaborato e reinterpretato “nachträglich”, vale a dire nella posteriorità. Freud,
ancora giovane, scrisse a Fliess: “Come sai, sto lavorando all’ipotesi che il nostro
meccanismo psichico si sia formato mediante un processo di stratificazione: il
materiale di tracce mnestiche esistente è di tanto in tanto sottoposto a una
risistemazione in base a nuove relazioni, a una riscrittura” (Freud, 1896, lettera 112
p.236). Lavorando con Breuer, Freud aveva trovato che, visti in retrospettiva, gli
eventi venivano sperimentati come traumatici. Dobbiamo a Freud - a dispetto della
sua visione del mondo meccanicistica - il fatto di aver compreso che la vita
psicologica si organizza sia secondo un tempo irreversibile che secondo un tempo
reversibile, e che quest’ultimo è un processo attivo e non-lineare. La memoria non è
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un video-registratore. Ciò che Freud - ancora invischiato nelle concezioni cartesiane
della “mente isolata” - non ha realizzato, o per lo meno non ha sufficientemente
sottolineato,
è
che
questa
continua
rielaborazione,
riorganizzazione
e
reinterpretazione, di fatto non viene mai realizzata da una persona sola. Anche il
dialogo interiore è il lavoro di una comunità che dialoga all’interno della quale
conversiamo con noi stessi.
La concezione intersoggettiva della memoria in psicoanalisi forse ha le sue
radici negli studi di Ferenczi sullo sviluppo del senso di realtà nel bambino
(Ferenczi, 1909). Sicuramente l’ultimo lavoro di Ferenczi era orientato verso una
concezione intersoggettiva della Nachträglichkeit. Il suo lavoro con persone
sopravvissute all’incesto (1933) anticipava in modo significativo il modo in cui i
clinici di oggi (Horowitz, 1986; Herman, 1992) leggono lo stress post-traumatico.
Egli riconosceva che le esperienze di confusione e vergogna potevano continuare a
sussistere. Per esempio Ferenczi (1929) scoprì che un bambino odiato può codificare
questa esperienza relazionale precoce in un desiderio di morire o in un ridotto
desiderio di vivere che dura poi tutta la vita. Egli notò che convinzioni del genere,
codificate in modo profondamente emotivo, erano inaccessibili ad una terapia
fondata esclusivamente sul dialogo, e si interrogava su quale potesse essere un’altra
forma di aiuto.
Ferenczi pensava che gli adulti hanno due sistemi di memoria: la memoria
soggettiva (emotiva e corporea) e la memoria oggettiva (degli eventi esterni). I
bambini piccoli, al contrario, hanno sensazioni e risposte solamente soggettive e
corporee, e quindi hanno solo la memoria soggettiva. Ferenczi riteneva che la
memoria soggettiva continua ad essere predominante per i primi tre o quattro anni di
vita. Tuttavia nei momenti traumatici, le persone di tutte le età registrano
l’esperienza in questo modo. “La ‘memoria’ rimane fissata nel corpo e solo lì può
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essere risvegliata” (pp. 260-261). Ferenczi pensava che non ci si può aspettare che le
persone vogliano ricordare con immediatezza e consapevolezza esperienze o traumi
del genere che sono registrati a livello corporeo. Al contrario, durante l’analisi i
pazienti fanno nuovamente esperienza del trauma: lo ricordano in modo soggettivo.
In questo modo il ricordo traumatico diventa accessibile. In presenza di - e in dialogo
con - un’altro che comprende, un certo evento può finalmente essere sentito come
un’aggressione. Si può giungere ad un nuovo modo di comprendere un evento che
merita pienamente il nome di ricordo. La testimonianza è più di una funzione
d’oggetto sé; è un processo intersoggettivo di realizzazione - un “rendersi conto” che permette l’emergere di nuovi tipi di esperienza di sé.
Nella conversazione cresce la percezione del significato del trauma e
dell’esistenza traumatica. Invece di una ferita aperta, di una terribile cicatrice, oppure
di un silenzio tormentato e sempre più amaro, insieme troviamo le possibilità di
attraversare il dolore e di curare. In un’altra formulazione (di cui sono debitrice a
George Atwood): nel contesto di una testimonianza recettiva e convalidante, il
trauma improvvisamente viene allo scoperto e non viene più rivissuto e ripetuto
come nelle coppie madre-bambino della Fraiberg in “Ghosts in the Nursery”
(Fraiberg et al., 1975). Ora, anche se certi fantasmi non possono mai riposare in pace
come antenati (Loewald, 1960), le realtà insopportabili della tortura, dello stupro, di
perdite che annientano, e così via, possono esistere per la coppia analitica, e quindi
possono essere integrate e incluse nella totalità della vita.
Infine, la presenza del trauma insidia il nostro senso ordinario della vita
professionale. Il vero testimone è colui che dà testimonianza, colui che testimonia al,
e con il, paziente l’esperienza di essere in presenza di ciò che è brutalmente inumano.
La testimonianza porta alla memoria, all’esistenza, ciò che prima era solo reale. La
neutralità di fronte all’orrore è non solo impossibile, ma inumana. Abbiamo bisogno
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di un’altra concezione della nostra professione che sia più adeguata, o più in grado di
misurarsi con i crimini contro l’umanità, inclusi quelli contro i bambini. Chi non è
capace di lavorare con il trauma produce un campo intersoggettivo che a sua volta
riproduce quell’esperienza in cui i “grandi” (che siano persone sopravvissute al
trauma, o persone che l’hanno perpetrato o semplici presenze mute) restano
silenziosi.
La funzione di testimonianza dell’analisi, naturalmente, implica qualcosa di più
ampio del solo trauma. Implica il tentativo di partecipare a dare significato ad
un’intera vita. Tutto ciò non è riducibile a una pura co-costruzione, ad una
collaborazione nel costruire una storia o un’interessante narrazione alternativa. Al
contrario, la testimonianza rispetta la brutalità e/o il vuoto dei “dati” di una vita: un
genitore morto, un genitore schizofrenico o suicida, la tortura, l’incesto, e così via; la
testimonianza cerca di trovare significato in ciò che è brutalmente assurdo, come
pure nella graduale distruzione dell’esperienza personale. In altre parole una persona,
in un nuovo contesto relazionale, ha una seconda opportunità evolutiva di trovare e
creare un mondo personale di significati.
D’altra parte anche noi analisti abbiamo le nostre storie dove forse non sono mai
stati riconosciuti davvero i traumi e le mancanze di validazione. Ciò vuol dire che ci
sarà sempre un piccolo numero di pazienti che non tutti noi possiamo prendere in
trattamento, e che di questo non c’è da farne colpa a nessuno. Ma io credo - come
George Atwood che ha dedicato la sua vita a studiare le esperienze più estreme di
devastazione e perdita di sé - che tutte le esperienze umane siano comprensibili da
qualcuno. E quando so, da qualche parte dentro di me, che il tormento di questo
paziente è qualcosa con la quale posso lavorare, pur se ad un costo altissimo per me,
allora ho bisogno del coraggio di farlo e del sostegno di una comunità psicoanalitica.
Il paziente dice: “Non voglio andare là, non posso permettermi di conoscere queste
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cose”. L’analista dice con paura e tremore: “Possiamo andarci insieme”. Auguro agli
analisti di trovare sia il coraggio che la comunità analitica di cui abbiamo bisogno
per il nostro lavoro.
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