Sulle ipotesi di riforma del sistema di giustizia amministrativa

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Sulle ipotesi di riforma del sistema di giustizia amministrativa
Sulle ipotesi di riforma del sistema di giustizia amministrativa
Francesco Volpe
Padova, 28 aprile 2014
1. - Si affaccia l’idea di por mano al sistema di giustizia amministrativa.
La nostra Associazione di professori del diritto amministrativo, sul punto,
sta dimostrando, per mano del suo Presidente, grande intelligenza, nell’aprire una discussione generale su una questione tanto importante. In effetti, un
tempo, una riforma del genere sarebbe passata per le Università, prima di approdare in Parlamento: così si fece ad esempio con i codici civile e di procedura
civile. Ma erano altri tempi e oggi, nonostante non vi sia più un Regime e non
vi sia più una guerra alle porte, non si usa più così.
Giusto, dunque, che se le Università non vengono interpellate, siano le
Università a pretendere di esserlo.
Per quel che vale, ecco il mio pensiero.
2. - Il punto centrale, a mio modo di vedere, è questo.
Quale che sia la soluzione verso la quale ci si debba indirizzare, l’obiettivo
deve rimanere immutato. Dalla riforma del sistema di giustizia amministrativa
non debbono uscire limitazioni alla tutela spettante al cittadino nei confronti
dell’agire contra legem dell’apparato pubblico.
Anzi, sia che rimangano i tribunali amministrativi, sia che si vada verso un
giudice unico, le tutele debbono essere fortemente e, concretamente, ampliate,
ché ve ne è bisogno, per quello che richiamerò dappresso.
3. - Che tale sia la mia impostazione, credo che nessuno possa dubitare,
potendomi arrogare il merito (o la colpa, come qualcuno ha allora suggerito)
di avere a suo tempo promosso una presa di posizione dell’Associazione contro
l’impennarsi del contributo unificato.
Analogamente, assai di recente, e in forma pubblica, ho contestato quelle
tendenze che (evidentemente in vista di una riforma costituzionale) vorrebbero
limitare l’impugnazione di determinate categorie di provvedimenti – significati1
vamente quelli in materia di opere pubbliche e di evidenza pubblica – o, quanto
meno, vorrebbero precludere la tutela cautelare contro gli stessi.
A costo di essere pedante, lo ripeterò.
Non mi vedrete schierato tra coloro che pensano che il contenzioso amministrativo sia eccessivo o tra coloro che stigmatizzano il fatto che esistano più
avvocati che muratori.
La mia personale opinione, anzi, è questa: reputo che l’esistenza di un
elevato contenzioso di diritto pubblico sia uno specifico sintomo di salute per
una democrazia. Esso, infatti, rivela una diffusa fiducia, nei cittadini, circa
l’esistenza di efficaci rimedi istituzionali; di rimedi davvero utili a comporre i
conflitti contro l’agire illegittimo degli enti pubblici.
Ridurre o eliminare la tutela contro l’Amministrazione pubblica significa,
in effetti, retrocedere da uno Stato di diritto a favore di uno Stato di polizia;
significa snaturare l’essenza stessa della parola «cittadino», se, con la stessa,
intendiamo riferirci ad un soggetto che è titolare (uso per il momento la parola
in senso atecnico) di «diritti pubblici soggettivi», a loro volta figli, da un lato,
dell’Illuminismo, dall’altro della dommatica tedesca.
Per questi stessi motivi, mi vedrete, invece, opposto a coloro che ritengono
che il contenzioso amministrativo sia un fardello di cui gli enti pubblici dovrebbero essere alleggeriti e mi vedrete opposto a chi ritiene che i giudici non
dovrebbero annullare gli atti amministrativi per banali e innocue violazioni di
legge.
Quanto a quest’ultimo rilievo (già pesantemente affermato dall’art. 21 octies della legge sul procedimento, al quale la Corte costituzionale dovrebbe,
infine, dedicare attenzione), mi pare, anzi, di cogliere una forma di dissociazione mentale. Constato, infatti, che a lamentarsi di questi «scrupolosi» annullamenti siano proprio coloro che, direttamente o indirettamente, incarnano
il Potere legislativo. L’atto amministrativo, però, viene annullato se è illegittimo. Ed esso è illegittimo se viola la legge. Pertanto, come può proprio colui
che ha stabilito una legge, o che la mantiene in vigore, lamentarsi poi del fatto
che il giudice la applichi?
4. - Tanto premesso, sono dell’opinione che non esista un sistema di
giustizia amministrativa che possa dirsi aprioristicamente ottimo.
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Operiamo in ordinamenti di diritto positivo e i sistemi giuridici vanno
continuamente adattati alle esigenze del singolo momento.
Tutti noi abbiamo letto le parole che pronunciò P.S. Mancini, in occasione dei lavori parlamentari che condussero, al termine di un iter non breve,
all’abolizione del contenzioso amministrativo.
Fu allora che si pose, per la prima volta, il problema del giudice unico o del
giudice speciale. A favore di quest’ultimo, era il modello francese: così vicino e,
del resto, attuato nella quasi totalità degli Stati preunitari. Mancini, nel 1865,
si schierò apertamente a favore del giudice unico ricordando che in Francia il
giudice speciale fu fermamente voluto da Napoleone al solo scopo di avere un
apparato di giustizia contro l’Amministrazione che fosse da lui «governabile» e
tale da non rivelarsi un indesiderato ostacolo con i suoi propositi di espansione
militare. Non si volle, in altri termini, che la Grande Armée fosse frenata
da un giudice che annullasse le aggiudicazioni dei contratti di fornitura dei
moschetti o si opponesse alla espropriazione dei beni necessari a costruire le
strade su cui sarebbero transitate le truppe.
Nel 1865, si ritenne che questa fosse la soluzione migliore e, coerentemente,
si operò.
5. - Il tempo dimostrò che il sistema del giudice unico era insufficiente,
privo, come quegli era, del potere di annullamento.
A dimostrarlo, soprattutto, furono le circostanze di fatto, giacché - come
ricordò Spaventa - i limitati poteri del giudice ordinario furono insufficienti rispetto a quello che allora venne inteso come un periodo di eccezionale malaffare
nella conduzione della cosa pubblica.
Di qui l’istituzione di un’autorità con poteri di annullamento, volta a dare tutela agli «interessi» e non ai veri e propri diritti; autorità tuttavia distinta dal giudice, in ossequio al principio della divisione dei Poteri. Juger
l’administration c’est aussi administrer diceva il Portalis: il potere di annullare gli atti dell’Amministrazione non doveva essere affidato ad un vero
e proprio giudice, ma ad una autorità che, in qualche modo, fosse parte essa
stessa dell’Amministrazione, sia pure agendo con le garanzie di una autorità
giurisdizionale.
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6. - Tali sono state le origini della legge Crispi e chiedo venia ai Colleghi
se ho ripetuto cose a tutti note e se le ho qui troppo semplificate.
Il sistema dualistico, nonostante le incertezze che inevitabilmente affiorarono nei primi tempi e fino al «Concordato», dimostrò di funzionare egregiamente. Ma se il sistema funzionò, si deve riconoscere, a posteriori, che il merito va
ascritto, in primo luogo, a chi incarnò concretamente il Consiglio di Stato nei
primi decenni dopo l’istituzione della Quarta Sezione. Dallo stesso Spaventa
sino a Santi Romano.
7. - Nel dopoguerra, il Consiglio di Stato non venne meno alla sua fama e
si conservò giudice di meritata stima, nonostante i problemi congeniti relativi
alla sua composizione (in larga parte governativa) e nonostante il fatto che allo
stesso si potesse accedere solo dopo avere esaurito la defatigante catena dei
ricorsi amministrativi o delle impugnazioni davanti alle Giunte provinciali.
Lo stesso si deve affermare anche con riguardo al periodo che sopravvenne
alla istituzione dei tribunali amministrativi.
Lo stesso non si può affermare oggi, per le ragioni che avrò cura di indicare.
8. - Lo dico in via preliminare, allo scopo di rendere subito chiaro quale
sia il mio pensiero.
Non sono affatto contrario alla abolizione del giudice amministrativo (portate le modifiche necessarie alla Costituzione); non sono contrario alla istituzione presso il giudice ordinario di sezioni specializzate, a cui affidare tutti i
poteri che competono oggi al Consiglio di Stato e, se possibile, anche poteri
maggiori.
Illustrerò in seguito le ragioni più puntuali che mi inducono a ritenere che
questa sia una buona soluzione.
Per il momento, ritengo utile porre la seguente premessa, su cui si regge
tutto il mio pensiero.
Come fu buona cosa la previsione di un giudice unico nel 1865 e come
lo fu, nel 1889, quella del diverso sistema dualistico, allo stesso modo non è
affatto detto che il sistema dualistico sia necessariamente il sistema di giustizia
amministrativa migliore per i nostri tempi.
Non solo perché i tempi sono appunto cambiati, ma perché sono cambiati
gli uomini che preposti alle Istituzioni. Sì che non si può contare su un grado
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di affidabilità pari a quello, davvero eccelso, dei tempi di Santi Romano e dei
suoi collaboratori.
Il tutto ha fatto sì che attualmente la tutela giurisdizionale, quale è data
dal giudice amministrativo, soffra di evidenti limiti. Essi, di per sé, non discendono da una cattiva costruzione dell’impianto (ancorché lo stesso possa essere
perfezionato), ma sono conseguenza del fatto che quanto previsto nella legge
non è quello che poi si tramuta nella realtà applicata.
Sicché l’ammontare del contenzioso - nel quale, per quanto ho detto, va
ravvisato un sintomo di salute dello stesso Stato - è oggi grandemente diminuito, perché assai pochi ricorsi vengono introdotti rispetto solo a qualche anno
fa.
Tutto ciò non è solo una conseguenza della crisi economica e degli elevati costi della giustizia amministrativa. È piuttosto conseguenza di una generale e diffusa m a n c a n z a d i f i d u c i a del cittadino verso il giudice
amministrativo, inteso quale strumento di risoluzione dei conflitti.
9. - Quali i mali odierni della giustizia amministrativa?
I tempi del giudizio, innanzi tutto.
Sia chiaro: anche i processi davanti al giudice ordinario non sono affatto
celeri. Tuttavia, essendo quei processi instaurati, per lo più, con la citazione
ad udienza fissa, il loro progredire, pur lentissimo, è sempre noto alle parti.
Nel caso del giudizio amministrativo, invece, dopo il deposito del ricorso si
perdono le tracce. Nella più parte dei casi, di esso si torna ad avere notizia
solo con la comunicazione di segreteria che annuncia il decorso del termine
quinquennale di perenzione: istituto assurdo, che consente al giudice amministrativo, proprio in virtù del suo inadempimento, di sottrarsi al dovere di
pronuncia costituito dall’esercizio del potere d’azione.
Qualche anno fa, un autorevole magistrato amministrativo volle affermare che il giudice amministrativo si era trasformato nel giudice dell’economia.
L’espressione forse non fu felicissima, perché del giudice amministrativo non
hanno bisogno solo gli imprenditori, ma tutti i cittadini.
Tuttavia, prendiamo per buona la tesi secondo la quale il giudice amministrativo sarebbe il giudice dei rapporti economici. Del resto, essa non è priva
di verità: l’attività imprenditoriale, rispetto allo Stato liberale e di diritto, è
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oggi sottoposta a controlli diffusi e preventivi (o similpreventivi, se pensiamo
alle segnalazioni certificate o al silenzio-assenso): controlli tali da impedire
l’avvio o il proseguimento dell’attività stessa d’impresa. E tutti noi sappiamo
quanto l’impresa debba essere, in questo difficile momento della Storia patria,
considerata; quanto anche l’impresa straniera debba essere invitata a investire
nei settori a noi interni della produzione.
Ebbene, davvero si pensa che un imprenditore possa attendere anni per
sapere se egli potrà avviare la sua impresa o ampliarla?
Un imprenditore che così facesse sarebbe destinato a sicuro fallimento, perché, mentre il suo ricorso giace muto e apatico negli archivi del tribunale amministrativo, egli deve nel frattempo pagare stipendi e sostenere oneri finanziari.
Pertanto, di fronte a questa prospettiva, l’imprenditore non promuoverà il ricorso. Se riuscirà, egli investirà le proprie risorse altrove; se non potrà non le
investirà affatto e terrà inutilizzati il proprio capitale e le proprie energie (con
danno per la società, la quale non potrà così avvalersi delle ricadute in termini
di occupazione e diffusione della ricchezza). Salvo che egli non opti per metodologie di risoluzione dei conflitti con l’Amministrazione meno appariscenti,
ma assai più rapide. Alludo, per chi esitasse a cogliere la perifrasi, proprio alla corruzione che mai come in questo momento sembra essere endemicamente
diffusa.
10. - Si dice, tuttavia, che il giudice amministrativo assicura una sollecita
tutela cautelare.
Anche sul punto si sfatino alcuni miti.
In primo luogo, forse che il giudice ordinario non assicura, nelle controversie
civili, una tutela cautelare altrettanto sollecita? La tutela cautelare è, di per
sé, sollecita.
In secondo luogo, l’eccessivo rilievo dato alla fase della tutela cautelare
(specie se raffrontata agli sproporzionati tempi per la definizione del processo) finisce per concentrare nella Camera di consiglio l’essenza del giudizio
amministrativo.
Il che è sbagliato, sia perché in quella sede il giudice non esamina funditus
la questione di diritto, limitandosi al mero fumus, sia perché nella decisione
cautelare interviene un fattore di valutazione esogeno rispetto alla questione
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di diritto.
Esso è dato, come ben sappiamo, dal periculum in mora.
Ma quel che non si scrive sempre, nei manuali del processo amministrativo,
è che il danno grave e irreparabile è valutato dal giudice non solo guardando alla posizione del ricorrente, ma anche a quella dell’Amministrazione. Cosicché
non di rado il giudice opera una comparazione tra i due interessi in conflitto: quello dell’Amministrazione resistente e quello del privato ricorrente. Si
trascuri il fatto, statisticamente dimostrabile, che, nel pensiero applicato del
giudice amministrativo, tale comparazione si risolve quasi sempre a vantaggio
dell’Amministrazione. Il vero motivo per cui ci si dovrebbe dolere di tale modo di operare è che una comparazione di interessi esprime né più né meno che
una valutazione sul merito amministrativo. È dunque ad una valutazione di
merito, e non ad una valutazione di stretta legittimità, che la lite affida spesso
le sue sorti.
11. - Quanto ai tempi del giudizio, altri osservano che la creazione di sezioni
specializzate davanti al giudice unico non risolverebbe i problemi. La cartina
al tornasole sarebbe data dalle controversie sul pubblico impiego. Una volta
transitate alla giurisdizione ordinaria, esse si sarebbero dimostrate ad esito
lento.
Sul punto, obietto che le medesime controversie, quando erano di spettanza
del giudice amministrativo, subivano una sorte ancora più lenta.
Poiché si trattava spesso di questioni aventi uno sfondo patrimoniale, la
tutela cautelare veniva assai raramente concessa: la motivazione del diniego,
per lo più, consisteva nel fatto che i crediti vantati sarebbero stati riconosciuti
al ricorrente all’esito del giudizio, opportunamente rivalutati o integrati degli
interessi di legge.
Inoltre, nella realtà, le medesime controversie erano quelle che più di tutte
non venivano chiamate all’udienza pubblica, proprio perché ritenute dal giudice
amministrativo di carattere ancillare e perché oggettivamente assai complesse.
Chi ha esperienza di quegli anni ricorderà come esse fossero indiscutibilmente
in fondo alla scala delle priorità, quanto alla loro elezione ai fini della decisione.
12. - Sempre dal passaggio del pubblico impiego alla giurisdizione ordinaria,
i fautori della conservazione del sistema dualistico traggono ulteriore argomento
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per osservare come il diritto amministrativo applicato in quella nuova sede, ad
opera di un giudice diverso da quello amministrativo, sia cosa diversa dal diritto
amministrativo «classico».
Questo rilievo è senza dubbio corretto.
Tuttavia, oppongo che l’applicazione di criteri interpretativi diversi, di per
sè, non significa che si tratti anche di criteri necessariamente sbagliati.
Soprattutto, però, si trascura che la materia del pubblico impiego ha subito,
in questi anni, una notevole modificazione anche sotto il profilo del regime
sostanziale, avvicinandosi assai a quella del diritto del lavoro privatistico. È
dunque naturale che il giudice ordinario del lavoro sindachi le controversie di
impiego pubblico secondo canoni non più strettamente giuspubblicistici.
Non è affatto detto, però, che, nel caso in cui il giudice ordinario fosse investito delle tradizionali questioni sulla legittimità amministrativa, si assisterebbe
ad una eccessiva «privatizzazione» del diritto amministrativo.
13. - Il tema appena sfiorato consente di prendere in esame un’ulteriore
obiezione al passaggio alla giurisdizione unica. Essa è quella di chi teme la
dispersione di un patrimonio tecnico oggi accumulatosi in capo ai magistrati amministrativi e la devoluzione della decisione delle liti a dei magistrati
tecnicamente impreparati.
L’argomento non è nuovo, giacché allo stesso fece riferimento persino Federico Cammeo, allorché egli si schierò, esclusivamente in virtù di questo motivo,
a favore del sistema dualistico. Auspicando, tuttavia, che una raggiunta maggiore perizia, nel diritto amministrativo, in capo ai giudici ordinari avrebbe
potuto favorire, in un futuro, il passaggio ad un più ordinato sistema improntato su un’unica forma di giurisdizione. Cammeo scrisse tutto ciò nel 1911: da
allora sono passati centotré anni. Centotré anni sono troppo pochi per pensare
che la conoscenza del diritto amministrativo non possa aver raggiunto o non
possa raggiungere anche i magistrati ordinari?
Il difetto di novità della tesi qui riportata non vale, in ogni caso, a privarla
di pregio.
Tuttavia, il rilievo è forse eccessivamente valutato.
In definitiva, nessun tecnico è titolare di scienza infusa e anche i magistrati amministrativi, allorché accedono ai ruoli, debbono, in un certo senso,
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«imparare il mestiere».
Certo, per loro tale fase di apprendistato è facilitata perché vengono inseriti
in un’organizzazione già avviata e alla quale partecipano colleghi anziani, i
quali sono in grado di orientare l’attività dei neofiti.
Ma questo non significa, in assoluto, che anche i magistrati ordinari non
possano in tempi ragionevolmente brevi assumere quell’insieme di attitudini
tecniche necessarie a ben decidere le controversie.
Tanto più che rimarrebbe un fattore invariato: vale a dire il Foro, composto sia dai patroni di chi introdurrebbe l’azione sia dai patroni di coloro che
sosterrebbero la parte resistente (o convenuta).
Sarebbe, così, il linguaggio tecnico del Foro (a cui molti di noi partecipano)
a introdurre le questioni secondo i criteri consolidati del diritto amministrativo
classico e a delimitare l’ambito degli argomenti valutabili.
14. - Ritengo, invece, che l’attuale sistema presenti non pochi limiti, derivanti, come tengo a sottolineare, non dalla conformazione dello stesso, ma dal
modo con cui lo stesso è stato concretamente applicato.
In effetti, non è solo la lentezza dei processi a creare malumore.
Vi è, in primo luogo, un problema di indipendenza e di imparzialità del
personale giudicante.
Non ne faccio una questione di modalità di selezione dei magistrati. Se è
vero che ancor oggi gran parte dei Consiglieri di Stato non accedono al ruolo
per concorso, paradossalmente questo non significa di per sé parzialità. Nei
tempi che furono, a regole invariate, non si avvertì un tale limite.
Gli aspetti più critici derivano invece dalla partecipazione dei titolari delle funzioni giudicanti ad attività extragiudiziali che li mettono in posizione
di grave conflittualità di interessi. Essi, quali che siano le forze politiche al
Governo, si alternano nei più alti uffici ministeriali e al vertice delle Autorità
indipendenti. Ugualmente a loro è spesso affidata la redazione dei disegni di
legge che poi il Governo presenterà alla Camere.
In linea di fatto, molti magistrati amministrativi rivestono contemporaneamente la toga del giudice, quella del legislatore e quella del grand commis
d’Etat, se non addirittura quella del Ministro.
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La divisione dei Poteri che è alla base della stessa scienza moderna del
diritto amministrativo viene così ad essere pericolosamente compromessa.
15. - Il pregiudizio non sembra essere solo astratto, perché, in questi tempi,
è avvertito anzi come attuale. Esso, per di più, è avvertito (a mio modo di
vedere non sempre infondatamente) secondo una inclinazione del giudice amministrativo a vedere con miglior favore le sorti dell’Amministrazione resistente
nel giudizio.
Alcuni comportamenti del giudicante possono essere considerati, anzi, del
tutto consolidati.
Porterò alcuni esempi, cominciando dal ricordare una particolare attitudine del giudice amministrativo a valorizzare questioni di rito laddove forse
potrebbero non essere colte. Mi riferisco, in particolare (ma non solo), alla
giurisprudenza sul ricorso paralizzante, in materia di evidenza pubblica: nonostante le indicazioni provenienti dalla Corte di Giustizia, la tendenza ad
esaminare in via logicamente preliminare l’impugnazione incidentale sembra
essere confermata anche dai più recenti arresti. Con la conseguenza che l’appalto può finire per essere aggiudicato a chi, al pari del ricorrente principale,
non avrebbe avuto diritto di partecipare alla gara pubblica.
In tempi meno recenti, quando cioè era ancora diffusa l’intrapresa di opere pubbliche, era prassi costante non concedere la sospensione cautelare delle
occupazioni preliminari d’urgenza in virtù della preminenza riconosciuta aprioristicamente all’esecuzione dell’opera. È su una prassi giurisprudenziale siffatta che, a mio modo di vedere, presero piede e si diffusero quei fenomeni di
occupazione acquisitiva che oggi è così problematico risolvere.
Non è trascurabile neppure il rilievo dato alla completezza della motivazione e al sindacato esterno sulla discrezionalità. Un tale sindacato, presso il
giudice amministrativo, non è affatto omogeneo e indipendente rispetto al tipo
di controversia introdotta. Se, talora, il giudice sembra propenso ad affrontare
addirittura un sindacato diretto sulla discrezionalità (basti pensare al contenzioso minore, in materia di abilitazione ai titoli professionali ovvero a quello in
materia di vincoli sui beni di interesse storico), in altri casi, quasi rifacendosi
alla teoria degli atti di alta amministrazione e in difformità dalla generale previsione dell’art. 3 della legge sul procedimento, il vizio sintomatico non viene
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quasi neppure considerato. Così in materia di strumenti urbanistici attuativi
in particolare.
Sempre restando in materia di urbanistica, non mi pare trascurabile l’avallo
dato dalla giurisprudenza a certe forme di perequazione, o meglio: di perequazione compensativa, le quali consentono agli enti territoriali di trattenere fino
al settantacinque del valore dell’operazione edilizia avviata. Si tratta di forme
di tassazione indiretta, che vanno a sommarsi agli ordinari oneri e costi già
previsti dalla legge e che si traducono in una forma di maggior costo capace di
incidere sui prezzi finali delle unità immobiliari.
Né passa inosservato il fenomeno, tuttora persistente, della mancata considerazione dei motivi fatti valere o dell’assorbimento dei motivi, in qualche
modo, anzi, legittimato dall’art. 101, comma II, del codice di rito.
Troppo frequente sembra essere la compensazione delle spese di giudizio, quando il ricorrente ottenga il favore della lite. Ciò indebolisce il privato economicamente e gli rende difficile reagire agli ulteriori comportamenti
amministrativi che mirino a violare o ad eludere il giudicato.
Ugualmente, sembra essere troppo frequente l’uso della sentenza in forma
semplificata, pur in mancanza di consolidati indirizzi giurisprudenziali tali da
legittimarlo, mentre comincia ad avere concreta applicazione l’art. 26, comma
II, c.p.a., con le sanzioni amministrative per le controversie ritenute dal giudice
«temerarie».
Non ritengo, poi, che debbano essere trascurate le iniziative, apparentemente di minor profilo sistematico, che tuttavia si traducono in gravi difficoltà
per le parti tutte; e per la parte ricorrente in particolare. Faccio riferimento
specifico alle «circolari», pronunziate dal Consiglio di Presidenza, che limitano
fortemente il carico di lavoro sostenibile da parte di ogni magistrato, a pena
di conseguenze disciplinari. Sì che vengono sanzionati proprio quei magistrati
che vorrebbero impegnarsi maggiormente. Delle stesse circolari è stata data,
talora, giustificazione adducendo che avrebbero lo scopo di impedire fenomeni
di «nonnismo» tra gli appartenenti all’ordine magistratuale. La giustificazione
non mi convince: non è riducendo il carico di lavoro dei più solerti che si può
convincere chi trascura i propri doveri a lavorare di più. A maggior ragione,
tali circolari mi sembrano controproducenti se raffrontate con le autorizzazioni
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a svolgere incarichi extraforanei; autorizzazioni che mi risultano essere rilasciate con non eccessiva ristrettezza; ugualmente sembra a me che dette circolari
siano parimenti in contrasto con le diffuse analoghe autorizzazioni a risiedere
fuori sede.
I «tetti» ai carichi di lavoro hanno comportato la diminuzione delle fissazioni delle discussioni di merito; hanno reso troppo spesso vane le istanze
di prelievo, pur quando la delicatezza della controversia esiga una definizione
sollecita.
In questa linea di pensiero – e per restare alle questioni di mero ordine
applicativo – vanno considerati i recenti limiti all’accesso ai servizi informatici della giustizia amministrativa, che si traducono in veri e propri ostacoli
all’esercizio dei diritti di difesa.
Ugualmente, non mi pare che possa essere trascurato il potere che attualmente è riservato al Presidente del Consiglio di Stato, cui spetta di individuare le sezioni giurisdizionali, di determinarne la composizione, ma anche di
concedere almeno alcune autorizzazioni agli incarichi extraforanei (una volta
diligentemente resi pubblici nel sito istituzionale e oggi oscurati).
In tal modo, si concentra nel Presidente un potere di indirizzo eccessivo,
giacché egli potrebbe servirsene per negare ai magistrati riottosi le suddette
autorizzazioni o per assegnarli a incarichi consultivi, di fatto limitando la possibilità di assumere, nella decisione delle controversie, posizioni in contrasto
con le indicazioni date.
Per tornare a problemi di maggior respiro, lo stesso codice di rito, la cui
ispirazione da parte del giudice amministrativo è a tutti nota, lascia non pochi
dubbi quanto alle effettive possibilità di difesa del cittadino.
Innanzi tutto, sotto il profilo probatorio, dal momento che sembra essersi
assai attenuato quel metodo acquisitivo un tempo vigente, volto a compensare
il non facile accesso alla documentazione in capo ai privati.
Considerazioni simili vanno rivolte ai provvedimenti cautelari di cui all’art.
55, comma X: essi, nel consentire al giudice, quale misura cautelare in sé, di
fissare l’udienza di merito, permettono allo stesso, sostanzialmente, di sottrarsi
all’obbligo di rispondere sulla domanda interinale.
Lo stesso istituto dell’ottemperanza di chiarimenti, fortunatamente sinora
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non troppo utilizzato, appare un rimedio volto, nei casi di necessità, ad attenuare gli obblighi conformativi, attraverso una sorta di interpretazione autentica
dagli esiti potenzialmente modificativi della cosa giudicata.
Dall’art. 34, comma III, c.p.a., il giudice ha infine tratto spunto per limitare
gli stessi effetti dell’annullamento, del quale si postula oggi la graduabilità
anche con riferimento alla sua estensione nel tempo.
Infine, là dove ritengo che il giudice amministrativo abbia più palesemente
mancato ai propri compiti è stato nel trattamento delle questioni risarcitorie.
Dopo l’ordinanza n. 500 del 1999, la giurisdizione sul risarcimento dell’interesse legittimo era propria del giudice ordinario. Il Consiglio di Stato – mercé
la riforma dell’art. 7, legge T.A.R. (da lui stesso suscitata) e in virtù di alcune
prime pronunce della Plenaria – volle tuttavia appropriarsi della materia, salvo
anestetizzarla con l’introduzione della c.d. pregiudiziale. Né il compromesso
raggiunto, in sede di redazione del Codice, appare soddisfacente. L’estensione
- distorta - dell’art. 1227 c.c. alle controversie risarcitorie, di fatto le vanifica,
giacché il risarcimento introdotto in via autonoma conduce per lo più ad un
danno potenzialmente esistente nell’an, concretamente inesistente nel quantum.
Viceversa, il risarcimento chiesto in via dipendente è troppo prossimo ad una
forma di risarcimento dei tradizionali «diritti patrimoniali consequenziali» per
potere essere definito un vero e proprio risarcimento dell’interesse legittimo.
16. - Questi miei rilievi potranno apparire al lettore convincenti o anche
no: molti sono tratti, prima ancora che dalla mia valutazione scientifica, dall’osservazione empirica di quanto avviene nelle aule giudiziarie e dal raffronto
con il cittadino che a me, come ad altri Colleghi, viene a chiedere ausilio nella
sua ricerca di tutela.
All’esito di un colloquio chiarificativo sui tempi, sulle incertezze e sulle
vie d’uscita che il processo offre alle parti resistenti (oltre che sui costi della
lite, circa i quali l’onorario del patrono non è più, in molti casi, la voce più
consistente), la sensazione di sfiducia è assai diffusa e il cittadino rinuncia a
far valere quello che egli ritiene essere il proprio buon diritto.
Noterà, inoltre, quel lettore che mi sono limitato ad esporre solo questioni,
per così dire, tecniche, trascurando quei fatti di cronaca che hanno talvolta
indotto a dubitare della fermezza morale di alcuni, singoli (e pur tuttavia non
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rarissimi), magistrati amministrativi. Sul punto non intendo affatto prendere
posizione, perché non posso parlare di fatti che personalmente non ho potuto verificare: tuttavia anche queste circostanze non hanno certo giovato ad
infondere fiducia nel cittadino che chiede giustizia.
Oggi il processo amministrativo attinge, perciò, sostanzialmente a due
grandi, e residue, voci di affluenza.
Da un lato quella relativa al contenzioso in materia di cittadini extracomunitari. Si tratta di un contenzioso assai importante (per gli interessi individuali
che sottostanno), ma, nello stesso tempo, estraneo al vero e proprio «diritto
amministrativo». Chi se ne occupa – difensori e magistrati – lo fa in modo assai
ripetitivo: detto contenzioso incide ormai quasi per il 40% delle controversie
in primo grado (salvo quasi mai raggiungere il secondo grado).
La seconda voce attiene alle controversie di rilevantissima importanza economica: sono quelle controversie i cui protagonisti possono affrontare spese
ingenti di lite e che, per la loro natura, godono di tempi di decisione più ristretti. Esse sono però anche quelle controversie in cui la «Ragion di Stato» si
fa sentire in modo più avvertito.
Il contenzioso amministrativo non può ridursi, però, a queste ultime controversie, perché nessun giudice deve essere il giudice di una élite, tanto più se
essa sia basata sul censo o sull’importanza economica della questione trattata.
Per il singolo cittadino, poter contrastare la modesta espropriazione del suo
fondo o il diniego del permesso di ampliare la propria abitazione è cosa che ha
la stessa rilevanza e la stessa dignità che, per un grande imprenditore, ha il
poter contrastare l’esito di una importante gara ad evidenza pubblica.
17. - Alla luce di quanto ho sostenuto, pare a me che i debiti dell’attuale
sistema di giustizia amministrativa non debbano essere ravvisati, in sé, nel
modo con cui le norme sono costruite, ma nel modo con cui esse sono applicate.
È dunque più un problema di persone che di regole.
E, anche tra quelle persone, va riconosciuto che buona parte dei giudici
opera con coscienza, attenzione, attitudine e vera onestà: in ispecie quelli che
provengono da una precedente carriera nella magistratura ordinaria.
Tuttavia, è sufficiente una cospicua minoranza di operatori che non adempiano in maniera fedelissima ai propri compiti affinché tutto l’impianto sia
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destinato a cedere.
Se dunque è un problema di persone e non di Istituzioni, il modo più
semplice di porvi mano sembrerebbe essere quello di lasciare immutate le regole
e di sostituire gli operatori.
Sappiamo tutti, però, che questo non è possibile.
Di talché, a questo punto, se si vuole sottrarre il sistema della giustizia
amministrativa alle cattive prassi e ai cattivi usi in cui esso è ricaduto, l’unica
soluzione sembra essere quella di cambiare radicalmente il sistema stesso e di
abolire il giudice amministrativo.
Sì che, abolendo quella Istituzione, si possano sollevare dalle relative funzioni coloro che oggi se ne occupano.
18. - Nessuno può oggi affermare che l’idea di instaurare un giudice unico,
con sezioni specializzate dotate almeno degli stessi poteri di cui oggi è titolare
il giudice amministrativo, costituisca la certa soluzione ai mali della giustizia
amministrativa. A una tale tesi manca un riscontro empirico (fatto salvo quello, inaffidabile per i motivi che già ho esposto, delle controversie sull’impiego
pubblico). Del resto, le voci che provengono dal giardino del «vicino» non
inducono a pensare che l’erba colà seminata sia indiscutibilmente più verde.
Tuttavia, a tale considerazione obietto, in primo luogo, che ormai il grado
di soddisfazione reso dall’attuale sistema di giustizia amministrativa è talmente
basso che, difficilmente, una soluzione diversa potrà essere troppo peggiore di
quella esistente. Il drammatico diminuire del contenzioso ne è la più evidente
dimostrazione. Chi si preoccupa di salvare il diritto amministrativo classico
deve pensare anche che, venendo meno il contenzioso, quello stesso diritto
amministrativo cesserà semplicemente di esistere, assurgendo ad un valore –
quantitativamente inteso – non troppo più elevato di quello che oggi occupa il
diritto della navigazione o il diritto ecclesiastico.
In secondo luogo, il giudice unico contribuirebbe a risolvere non pochi
problemi.
Innanzi tutto verrebbero risolti, una volta per tutte, i secolari problemi
che ruotano attorno al riparto di giurisdizione. I correttivi, dati dal codice e
dalla sua legge delega, all’istituto della translatio iudicii (e, in particolare, la
necessità che l’azione abbia rispettato i termini di decadenza anche se introdot15
ta davanti al giudice giurisdizionalmente sbagliato e davanti al quale valgono i
diversi termini di prescrizione) hanno di fatto limitato la possibilità di riproposizione della controversia negli angusti limiti dell’errore scusabile. Ebbene, se il
giudice dovesse essere unico, non si porrebbe più un problema di giurisdizione,
ma solo, eventualmente, di semplice incompetenza funzionale.
Verrebbero poi risolte le annose dispute sulla figura dell’interesse legittimo,
che è prerogativa unica dell’ordinamento italiano.
Forse sull’utilità di questa enigmatica figura è bene che ci si fermi a riflettere, se è vero che la giustizia amministrativa è resa, in modo non peggiore
di quanto avviene da noi, anche in quegli ordinamenti che non conoscono l’interesse legittimo. Già è difficile definire cosa sia il diritto soggettivo; ancora
più difficile è definire l’interesse legittimo, come prova il fatto che ancor oggi
si disputa sulla sua natura e sul suo contenuto. A me pare che questa mai
risolta difficoltà costituisca un sintomo preoccupante del fatto che ci si trovi di
fronte ad una figura evanescente cosicché non si deve escludere che l’incapacità
di dare una puntuale definizione dell’interesse l. proceda, in realtà, da una sostanziale inconsistenza o, quanto meno, da una sostanziale disomogeneità del
concetto retrostante.
Inoltre, la concezione di interesse legittimo trascina seco una idea di «mediazione» tra la posizione dell’Amministrazione e quella del privato che spesso
rende incerto stabilire che cosa il cittadino possa pretendere e cosa non possa pretendere. Se di tutte le controversie con l’Amministrazione si occupasse,
invece, un unico giudice, verosimilmente gli interessi legittimi di oggi diverrebbero un domani veri e propri diritti soggettivi. Vale dire figure giuridiche
soggettive assai più in grado di definire fin dove le parti del rapporto abbiano ragione di spingersi con le proprie pretese e di stabilire anche là dove le
medesime parti debbano invece arrestarsi.
Ancora, la riconduzione delle controversie davanti ad un unico apparato
consentirebbe di godere di un giudice della nomofilachia parimenti unico, a
vantaggio, almeno in tesi, di una maggiore certezza del diritto. Oggi un tale
risultato non è affatto raggiunto, giacché il diritto civile applicato dal giudice
amministrativo nelle liti di giurisdizione esclusiva o nelle liti risarcitorie segue
interpretazioni assai difformi da quelle rese, con riguardo agli stessi istituti del
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diritto sostanziale, dalla Corte di cassazione.
A me pare, infine, che un ulteriore elemento favorevole alla giurisdizione
unica vada ravvisato nella diversa sensibilità con cui il giudice ordinario, già
avvezzo a trattare le questioni risarcitorie, potrebbe affrontare il tema del
risarcimento dell’interesse legittimo. Si assisterebbe, probabilmente, ad una
rivitalizzazione della questione risarcitoria, con ampliamento della tutela per
il cittadino.
19. - Se, viceversa, si ritenesse prevalente l’opinione di conservare il sistema della doppia giurisdizione, ritengo ugualmente utile che vengano apportati
alcuni correttivi, volti, se possibile, a ridurre i limiti di cui la tutela giudiziaria
amministrativa oggi soffre.
In coerenza a quanto ho rilevato e secondo la mia personale opinione, le
possibili riforme da assumere (alcune anche di rilievo costituzionale) potrebbero
essere le seguenti:
a) riduzione, se non addirittura abolizione (sull’esempio di quanto avvenuto
in Francia), del contributo unificato; nel caso di suo mantenimento, devoluzione
dei relativi cespiti a vantaggio del funzionamento dell’apparato giurisdizionale
amministrativo e coerente sottrazione dei medesimi cespiti dal fondo di incentivazione dei magistrati e del personale di segreteria, al quale sono attualmente,
in parte, destinati;
b) incompatibilità della posizione di giudice amministrativo con qualsiasi
incarico extraforaneo: tanto quelli presso amministrazioni pubbliche o governative, quanto quelli arbitrali o di consulenza;
c) abolizione delle circolari che fissano tetti di lavoro per i magistrati
amministrativi;
d) incremento dell’organico dei giudici amministrativi;
e) accesso ai ruoli della magistratura amministrativa esclusivamente per
concorso;
f) riconoscimento, in via generale, di un effetto sospensivo all’atto introduttivo del giudizio, similmente a quanto avviene, in Germania, per la generalità
delle controversie. Coerente riconoscimento alla parte resistente o alla parte
controinteressata del potere di impedire l’effetto sospensivo solo a seguito di
apposita richiesta di tutela cautelare;
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g) trasformazione della natura dell’atto introduttivo del giudizio da quella
di ricorso a quella di citazione ad udienza fissa;
h) abolizione dell’istituto della perenzione quinquennale;
i) attivazione delle sezioni stralcio, giacché è preferibile una causa decisa
male ad una casa non mai decisa o perenta. In tal caso, tuttavia, le sezioni stralcio non dovrebbero essere composte da magistrati amministrativi attualmente
in servizio, onde evitare che essi siano sottratti alle loro funzioni ordinarie;
l) nelle controversie risarcitorie, eliminazione dell’onere per il ricorrente di
chiedere l’annullamento del provvedimento a pena di vedere ridotta la quantificazione del danno. Se mai, si potrebbe ipotizzare di costruire l’azione risarcitoria in termini di effettiva alternatività (e non di semplice autonomia) rispetto
all’azione di annullamento, eventualmente affidando la prima al giudice ordinario; ipotizzando altresì che all’Amministrazione sia consentito di sottrarsi
all’obbligo di risarcire il danno per mezzo dell’autoannullamento del provvedimento. In tal caso spetterebbe all’Amministrazione valutare se conservare gli
effetti del provvedimento illegittimo (ma esponendosi così al rischio di dover
risarcire) o se rinunziare agli effetti del provvedimento e porsi al riparo dal
dovere risarcitorio;
m) ampliamento del sindacato della Corte di cassazione sulle pronunce del
giudice amministrativo, sì da consentire un sindacato anche sulla violazione o
sulla falsa applicazione delle norme di diritto, almeno per quanto attiene alle
controversie di natura esclusiva o risarcitoria.
20. - Feliciano Benvenuti, negli scritti in memoria di Guicciardi, auspicò
l’avvento di una Amministrazione posta in condizioni di parità con il cittadino.
Mi chiedo quanto questo obiettivo possa dirsi realistico, se guardiamo alle
fattispecie di diritto sostanziale.
È imperativo, invece, che esso si attui nel regime processuale, perché in
quella sede le armi debbono essere necessariamente pari: solo attraverso il
processo al cittadino è dato di reagire contro l’atto autoritativo dell’Amministrazione. Ma, allora, occorre che, nel processo, al cittadino sia consentito di
non essere in una situazione, giuridica o fattuale, di soggezione rispetto alla
controparte.
Chi sostenesse il contrario dimenticherebbe qual è la funzione principale del
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giudizio: ne cives ad arma veniant. L’assenza o l’insufficienza di una effettiva
tutela giurisdizionale potrebbe dunque aprire scenari a cui nessuno di noi ha
il coraggio e la volontà di assistere.
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