capitolo i il cinema di paolo sorrentino

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capitolo i il cinema di paolo sorrentino
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PERUGIA
FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE
Corso di Laurea in
SCIENZE E TECNOLOGIE DELLA PRODUZIONE ARTISTICA
Sede di Terni
Tesi di Laurea
PAOLO SORRENTINO:
I FILM E LA CRITICA
Laureando
Relatore
Andrea SBARRETTI
Professor Francesco BONO
Anno Accademico 2005/2006
INDICE
Introduzione
pag. 3
Capitolo I: Il cinema di Paolo Sorrentino
1.1 Formazione ed esordi
1.2 Far parlare i personaggi con gli sguardi
1.3 I non-luoghi
pag. 6
pag. 7
pag. 10
Capitolo II: L’uomo in più
2.1
2.2
2.3
2.4
Il tema
Lo stile della regia
I personaggi
Pregi e difetti
pag. 12
pag. 21
pag. 26
pag. 30
Capitolo III: Le conseguenze dell’amore
3.1
3.2
3.3
3.4
3.5
Ogni uomo ha il suo segreto inconfessabile
Perfezione svizzera
Un uomo solo
La mafia
Gli uomini d’affari
pag. 32
pag. 35
pag. 38
pag. 40
pag. 42
Capitolo IV: L’amico di famiglia
4.1 Il disfacimento dei sentimenti
4.2 Il dramma con ironia
4.3 La rivincita dei brutti
4.4 Non confondere l’insolito con l’impossibile
4.5 Il rischio di osare
pag. 45
pag. 52
pag. 57
pag. 61
pag. 62
Capitolo V: Il muro del passato
5.1 La mia esperienza nel realizzare un film
5.2 Cenni critici
pag. 64
pag. 67
Conclusioni
pag. 70
Bibliografia
pag. 72
Riferimenti web
pag. 75
2
INTRODUZIONE
Uno dei giovani registi più promettenti del panorama italiano è Paolo Sorrentino.
Amato dalla critica e dal pubblico, sembra essere il degno erede del cinema
d’autore italiano; in questa tesi andremo ad analizzare i suoi film dal punto di
vista della critica.
L’approccio di Sorrentino con il mondo cinematografico, avviene attraverso la
scrittura di alcune sceneggiature. Il passaggio, se così lo vogliamo chiamare, dalla
sceneggiatura alla regia, c’è stato, quando, avendo scritto la sceneggiatura de
L’uomo in più e non avendo trovato nessuno a cui farlo girare, decide egli stesso
di cimentarsi dietro la macchina da presa. Ne nasce un film da molti definito
atipico, dove lui stesso dichiara di aver messo “un po’ di tutto”.
Il primo film che io ho visto di Sorrentino è stato Le conseguenze dell’amore,
ovvero la sua seconda opera, in ordine cronologico. Il trailer diceva: “La cosa
peggiore che può capitare ad un uomo che trascorre molto tempo da solo, è quella
di non avere immaginazione”. Mi ha subito colpito questa frase ed il modo
originale di concepire l’inquadratura. Ricordo benissimo che nel trailer, si vedeva
il protagonista girato di spalle mentre fumava. La frase che accompagnava il film
era molto intrigante: “Ogni uomo ha un suo segreto inconfessabile”. Come è
possibile non essere curiosi e non voler sapere qual è il segreto di questo uomo?
Studiando e cercando materiale sui tre film realizzati dall’autore, ho ripercorso la
sua ancora breve carriera, ma già ricca di riconoscimenti, soffermandomi sugli
3
aspetti che contraddistinguono il suo stile della regia ed il suo modo di scrivere, in
particolar modo i dialoghi. Come è facile intuire, guardando i suoi film,
Sorrentino usa un linguaggio molto ricercato. Nel suo ultimo film L’amico di
famiglia, non a caso costruisce un personaggio che fa degli aforismi il suo punto
di forza. E’ stato interessante capire quali sono stati i registi che hanno influenzato
Sorrentino: egli stesso dichiara che i suoi maestri appartengono alla commedia
italiana d’autore. Il cinema degli anni ’60 e degli anni ’70 ha avuto un peso
fondamentale nella formazione del regista. In Ettore Scola, Dino Risi, ci sono i
riferimenti più espliciti del suo modo di strutturare un film, partendo innanzitutto
dal personaggio. Sembra che la trama interessi in maniera minore, al giovane
regista partenopeo: quello che più conta è saper scavare nell’animo dei suoi
personaggi, raccontandoli dal loro interno.
Mi è sembrato quindi opportuno, parlare in modo approfondito dei protagonisti
dei film e di tutte le altre figure presenti, ognuna con una sua caratteristica ben
specifica. E’ raro, a mio parere, ritrovare nel cinema italiano e non solo, dei
personaggi costruiti così nel dettaglio. Sorrentino è molto attento ad entrare nelle
pieghe dell’animo, a cogliere quelle piccole cose, quei piccoli gesti che rendono
un personaggio veramente credibile.
L’ultimo capitolo della tesi, sarà invece dedicato al lungometraggio che ho
realizzato dal titolo Il muro del passato. Il film della durata di 86 minuti, è stato
girato nell’arco di nove mesi, da marzo a dicembre 2006. L’ho iniziato a scrivere
circa due anni fa. Prima di allora, avevo realizzato già alcuni cortometraggi e
documentari. Mi è sembrato fondamentale, per un’ evento della mia vita così
importante, cimentarmi in un lavoro più maturo, che avrebbe potuto rappresentare
4
un viatico per il passaggio dal mondo dello studio a quello del lavoro.
L’Università del resto, questo dovrebbe fare: introdurre lo studente in un contesto
lavorativo. Quindi quale occasione migliore per dimostrare ciò che ho imparato in
questi tre anni? Il muro del passato, pur essendo stato girato a costo zero
dovrebbe essere il mio biglietto da visita per un eventuale futuro in un campo
cinematografico. Senza mezzi e con attori senza esperienza e spesso svogliati, ho
costruito questo film. L’ho scritto, l’ho girato, l’ho montato e distribuito. Il
risultato è apprezzabile ed il merito che mi attribuisco, va in parte diviso con i
Professori che mi hanno insegnato e che mi hanno dato dei contenuti che ho
“riversato” in questo prodotto.
Essendo poi Sorrentino il mio regista preferito, è interessante mettere in relazione
Il muro del passato con i suoi lavori, con i dovuti paragoni, si intende.
5
CAPITOLO I
IL CINEMA DI PAOLO SORRENTINO
1.1 Formazione ed esordi
Paolo Sorrentino nato a Napoli il 31 maggio 1970 inizia (senza portarli a termine)
gli studi universitari di “Economia e Commercio”. Nel frattempo lavora come
assistente di Enzo De Caro e Maurizio Fiume in Drogheria (1995). Nel 1997
vince il premio “Solinas” per la sceneggiatura Dragoncelli di Fuoco . Prosegue la
sua carriera come sceneggiatore; il suo primo lavoro è il copione di Polvere di
Napoli (1998), scritto in collaborazione con il regista del film, Antonio Capuano.
Contemporaneamente, inizia a lavorare anche per la televisione, scrivendo alcuni
episodi della serie televisiva prodotta dalla RAI, La squadra.
Dopo tre cortometraggi, Un paradiso (1994), L'amore non ha confini (1998) e La
notte lunga (2001), debutta come regista nel 2001 sul grande schermo con
L'uomo in più, del quale è anche sceneggiatore. Presentato felicemente al Festival
di Venezia, L’uomo in più vinse vari premi, tra cui il Nastro d'Argento per il
"Miglior Regista Esordiente", il Ciak d'Oro per la "Miglior Sceneggiatura" e la
Grolla d'Oro riservata al protagonista Toni Servillo, oltre a tre candidature al
David di Donatello 2002. Lavora nuovamente con Servillo nel successivo Le
conseguenze dell'amore (2004), presentato al Festival di Cannes.
Il film ottiene un successo di più rilievo, rispetto al cortometraggio precedente, e
si aggiudica diversi premi, tra i quali cinque David di Donatello 2005: Miglior
Film, Miglior Regista, Migliore Sceneggiatura, Migliore Attore Protagonista e
Miglior Direttore della Fotografia; tre Nastri d'Argento: Migliore Attore
6
Protagonista, Migliore Attore Non Protagonista e Miglior Direttore della
Fotografia. Il lavoro successivo dietro la macchina da presa, L'amico di famiglia
(2006), viene nuovamente scelto per il Festival di Cannes. Lo stesso Paolo
Sorrentino dichiara di provenire dalla Scuola Napoletana. Con Antonio Capuano e
Mario Martone ha avuto un rapporto molto stretto, come testimoniano le sue
parole: “Loro stessi non credevano veramente a questa storia della Scuola
Napoletana…e io nemmeno”.1 I suoi maestri sono stati: Dino Risi, Mario
Monicelli e Ettore Scola: “Il film che mi ha più impressionato è stato C’eravamo
tanto amati , ma purtroppo l’ho visto solo alla televisione” 2.
1.2 Far parlare i personaggi con gli sguardi
La caratteristica del cinema di Sorrentino è proprio quella di riuscire a riportare le
sensazioni dei personaggi, attraverso l’uso degli sguardi, della mimica facciale.
Un solo gesto, una sola “smorfia” del viso riesce a “dare un’intensità equivalente
ad una detonazione”.3 “Volevo provare a far parlare gli sguardi, i silenzi. In
questo mi sento debitore verso un cinema francese che sa far parlare gli sguardi”.4
E’ il caso soprattutto di Titta Di Girolamo in Le conseguenze dell’amore.
Pochi
dialoghi,
un
personaggio
taciturno,
introverso,
che
sollevando
semplicemente lo sguardo è in grado di provocare la reazione di Sofia, seduttiva
barista dell’albergo. Come dichiara il direttore della fotografia, il film frequenta
1
Luisa Ceretto, Roberto Chiesi (a cura di), Una distanza estranea. Il cinema di Emanuele
Crialese, Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, Edizioni Cineforum, Torre Baldone (BG), 2006,
pag. 44.
2
Ibidem.
3
Mario Sesti , Commento critico sul dvd de Le conseguenze dell’amore, Fandango, 2004.
4
L.Ceretto, R. Chiesi (a cura di), Una distanza estranea. Il cinema di Emanuele Crialese, Matteo
Garrone e Paolo Sorrentino, cit., pag. 46.
7
l’oscurità e il silenzio. In un contesto tetro, dove succede poco o niente, è
essenziale fornire i personaggi di una carica magnetica, per poter risvegliare
continuamente l’interesse dello spettatore. Ma ugualmente colmi di introspezione
psicologica, sono i personaggi de L’uomo in più.
Il film benché appaia più gradevole dal punto di vista della storia e dello sviluppo
narrativo, a tratti ironico, grazie ai personaggi grotteschi (soprattutto il cantante),
propone però uno scenario di solitudine e di intrigante sviluppo emotivo.
Sorrentino riesce a farci capire i pensieri dei personaggi che inquadra. E lo fa
concentrandosi sui volti, spesso sui primissimi piani, che fanno trasparire il modo
in cui il protagonista vive e quello che il regista vuole farci comprendere. Spesso
notiamo che i suoi personaggi guardano attraverso le finestre un mondo, per certi
versi, lontano. Una speranza di cambiamento, la possibilità di essere diversi, ma
anche la necessità di ancorarsi alla società per sopravvivere.
Questo aspetto non è casuale, poiché altri autori da lui stesso citati, si pongono
questa prerogativa. Il cinema è pieno di inquadrature di finestre, un modo
manifesto di far vivere una vita riflessa: da Hitchock a Truffaut, da Bergman a
Kieslowsky. Anche ne L’amico di famiglia il ruolo della finestra appare chiaro. E’
l’unica fonte luminosa della buia e sporca camera da letto della madre di Geremia,
8
il protagonista anch’esso sudicio e brutto. Dalla finestra osserva le ragazze giocare
a pallavolo, con una evidente speranza e ricerca d’amore, celata e purtroppo
negata dal suo aspetto fisico. Ritorno al concetto del “parlare con gli sguardi”:
come non citare il tema de Le conseguenze dell’amore. Il tema si può ridurre, per
quello che compete questa trattazione, alla mafia. Sorrentino dice che “la mafia è
molto lenta nella sua esecuzione”5, per questo ha voluto che la scena
dell’interrogatorio di Titta avvenisse molto lentamente. Nell’ambiente della mafia
si deve parlare poco. Lo dice lo stesso Pippo D’Antò in una scena del film,
rivolgendosi allo sprovveduto commercialista: “nel nostro ambiente, una parola è
poco e due sono troppe”. Si parla evidentemente con gli sguardi: un cenno per far
capire cosa si vuole. “E’ forse casuale, ma emblematico, che in questi anni le
opere più significative, più caratterizzate sul piano tematico e stilistico, guardino
al mondo del sud , osservino lo sviluppo incontrastato della potenza mafiosa”6 .
Di sicuro Sorrentino è uno dei più promettenti giovani cineasti italiani. Ripudia la
retorica, piuttosto facile nel cinema italiano e non cade nel tranello di raccontare
cose ovvie con frasi demagogiche. Una storia, seppur banale, la si può raccontare
in mille modi diversi. Questo suo stile, non molto italiano di fare cinema, viene
infatti apprezzato soprattutto oltralpe. Bradshaw considera Le conseguenze
dell’amore il miglior film prodotto dall’industria cinematografica italiana, così
afflitto da “stucchevolezza e magniloquenza da molto tempo”7. Ciò che i
protagonisti dei suoi film vedono è forse ciò che il regista vorrebbe farci notare,
5
Paolo Sorrentino, intervista nei “Contenuti speciali” sul dvd de Le conseguenze dell’amore,
Fandango, 2004.
6
Gian Piero Brunetta. Cent’anni di cinema italiano. Dal 1945 ai giorni nostri. Editori Laterza,
Bari, 2006, pag 295.
7
Peter Bradshaw, The guardian, 27 maggio 2005, citato in La meglio gioventù - Nuovo Cinema
Italiano 2000-2006, (a cura di) Vito Zagarrio, Marsilio Editori, Venezia, 2006, pp. 176-177.
9
ma che noi, distrattamente, nella vita di tutti i giorni non cogliamo. Come lo
sguardo di Antonio Pisapia di fronte all’aereoporto: guarda il vuoto che è dentro
di lui, che è dentro di noi. “Di Girolamo è un uomo che guarda: guarda la bella
barista dell’albergo, la spia”8.
1.3 I non-luoghi
I luoghi o più precisamente i “non-luoghi” in cui Sorrentino gira i suoi tre film
hanno un’unica particolarità: sono indistinguibili. Partiamo dalla fine del primo
film: L’uomo in più. Tony Pisapia è in carcere, un non-luogo per eccellenza. Ma
ironia della sorte, proprio qui troverà conforto nell’amicizia solidale degli altri
detenuti. Per tutta la pellicola, lo vediamo aggirarsi tra il lusso della sua casa
glaciale, tra i night e i palcoscenici. Come se non bastasse, la trattoria “Salvatore
a’mmare” risulta essere il quarto non-luogo frequentato dal cantante, come del
resto lo sono la casa, il palcoscenico ed il night stesso, in cui si muove con
elegante familiarità.
Il suo doppio, Antonio Pisapia invece, vive recluso claustrofobicamente nella sua
villa,«tutto immerso nel mondo fittizio del calcio»9. La cittadinanza svizzera nella
quale è recluso Titta Di Girolamo sembra una prigione dorata, «un altro nonluogo, oltre all’albergo, alla banca, viene individuato a conclusione del film, lo
8
Roberto Nepoti, La meglio gioventù Nuovo Cinema Italiano 2000-2006, (a cura di) Vito
Zagarrio, Marsilio Editori,Venezia, 2006, pag. 78.
9
Pierpaolo Loffreda, Una distanza estranea. Il cinema di Emanuele Crialese, Matteo Garrone e
Paolo Sorrentino, (a cura di) L. Ceretto, R.Chiesi, cit., pag 37.
10
spazio aperto fra le montagne nel quale l’amico di Titta, sospeso in aria, sarà forse
il solo uomo a ricordarlo»10.
Ne L’amico di famiglia, scrive Gianni Sorrentino (un parente?), “riecheggiano
geometrie alla De Chirico, metafisiche per chi le ammira, squadrate e destroidi
per chi non le sopporta”11. La ricerca di dare una forma estetica alla sofferenza, o
al piacere, è evidente nella scelta dell’illuminazione, ad opera del direttore della
fotografia Luca Bigazzi: interni bui che si contrappongono ad esterni fortemente
illuminati. Sorrentino ha usato la luce artificiale anche per illuminare gli esterni.
“D’altronde, la predilezione del regista per i luoghi strani, appare ormai
evidente”12. L’Agro Pontino è una terra bonificata dalle paludi, in cui rinasce
un’edilizia falsa e squadrata, segno di un passato fascista. Gli ambienti sono stati
volutamente privati di comparse, con poche auto e pochi segnali stradali, come
appunto in un quadro alla De Chirico.
10
Ibidem.
Gianni Sorrentino, “Paolo Sorrentino: il regista in più”, L’acchiappafilm, febbraio 2006, pp. 2627.
12
Alberto Morsiani, Una distanza estranea. Il cinema di Emanuele Crialese, Matteo Garrone e
Paolo Sorrentino, (a cura di) L. Ceretto, R.Chiesi, cit., pag. 41.
11
11
CAPITOLO II
L’UOMO IN PIU’
2.1 Il tema
Corre l’anno 1980, Napoli. Antonio Pisapia è capitano di una squadra di calcio di
serie A, ha appena segnato il goal della sua vita con una rovesciata in area di
rigore. Sono anni in cui nel calcio domina il catenaccio, per un difensore è
impensabile arrivare fino in area di rigore della squadra rivale, figuriamoci fare un
gol in rovesciata. Lui stesso lo dice “e chi ci pensava a fare goal… io i goal ho
sempre cercato di non farli fare…”. Nel frattempo Tony Pisapia ha appena
concluso il suo più bel concerto e decide di festeggiarlo a modo suo: una
avvenente spettatrice lo va a trovare nel camerino. Paolo Sorrentino ci delizia fin
dall’inizio dimostrando quello che lentamente ci farà vedere durante tutto il film e
in tutti i suoi film, ovvero “l’ironia sorniona”13, come la giudica Mario Sesti, sul
commento critico del dvd Le conseguenze dell’amore. Tony rivolgendosi alla
donna dice “questo vestito è bellissimo…”, complimento sempre molto gradito
dal gentil sesso, ma poi prosegue “… ci starebbe benissimo sulla sedia della mia
camera da letto”.
Luisa Ceretto, coautrice del volume dedicato a Sorrentino, Crialese e Garrone,
coglie subito la contrapposizione tra i due protagonisti: “Per esordire nel
lungometraggio, Paolo Sorrentino sceglie il tema del doppio e ne propone
un’interessante lettura, un raffronto tra due omonimi, un calciatore ed un cantante
ed i loro diversi stili di vita. Un tema non nuovo che il regista riesce ad affrontare
13
Mario Sesti nei “Contenuti speciali” del dvd de Le conseguenze dell’amore, Fandango, 2004.
12
con buona consapevolezza, adottando un registro linguistico che privilegia la
fluidità del racconto ai virtuosismi stilistici, senza però rinunciare alle suggestioni
evocative che certe immagini possono suscitare”14. Stefano Coccia fa riferimento
a questo sentimento “misogino” del regista, che possiamo ritrovare in tutto il suo
percorso cinematografico, ovvero il tema delle donne che annientano l’uomo.
“L'opera prima di Sorrentino tradisce, pur penalizzata da una visione plumbea
dell'esistenza che una diffusa misoginia non aiuta a dissipare, la mano di un autore
di cui si sentirà ancora parlare”15. Il film, dopo i titoli di testa, si apre con una
scritta in sopraimpressione “1980” e una porta bianca che lentamente si spalanca,
lasciando entrare un uomo dallo sguardo torvo. Questi estrae dalle tasche della sua
giacca un mazzo di chiavi, un accendino e l’orologio che posa su un tavolo in
metallo. Un ragazzo si mangia nervosamente le unghie della mano. La prima
domanda che gli spettatori si pongono è: “Dove ci troviamo?”. Il regista indugia a
dare spiegazioni, aspetta. Solo poco dopo tutto appare chiaro. Si tratta di uno
spogliatoio di una squadra di calcio: possiamo notare che, metaforicamente,
l’uomo dallo sguardo torvo, che altri non è che l’allenatore, si spoglia della sua
divisa (si toglie la giacca) ed inizia a insultare i calciatori, dandogli rigorosamente
del “lei” e appellandoli con qualifiche offensive, non ripetibili.
Terminata la sequenza del campo di calcio, attraverso la tecnica del montaggio
parallelo, usata in tutto il film, il regista stacca su un palcoscenico. Un pubblico
delirante acclama un uomo in giacca bianca, inquadrato di spalle ( le inquadrature
di spalle sono frequentissime nel cinema di Sorrentino). Le prime parole che
14
L. Ceretto, R.Chiesi (a cura di), Una distanza estranea. Il cinema di Emanuele Crialese, Matteo
Garrone e Paolo Sorrentino, cit., pag 67.
15
Stefano Coccia, “L’uomo in più, di Paolo Sorrentino”, Cinemasessanta, maggio 2001, n.5, pag.
54.
13
ascoltiamo di Tony Pisapia, sono di particolare effetto: “Vorrei lasciarvi con la
cosa che mi è più cara al mondo : la notte”.
Per un uomo che fa della sregolatezza e dei vizi la sua fonte di vita, vivere la
notte e dormire di giorno, diventa cosa normale. Nel film lo vediamo spesso in
casa; la mia impressione, quello che io percepisco dalle immagini, è che i suoi
orari diurni sono spesso sfasati. Pranza molto tardi, poiché si sveglia tardi. Non
c’è un riferimento particolare da parte del regista a questo aspetto di “sfasamento”
morale e di abitudini, si tratta solo di una mia impressione, suffragata
dall’abbigliamento di Tony in casa: sempre in vestaglia.
E proprio la canzone intitolata La notte cantata da Tony, ci introduce alla scena
successiva, quando Antonio Pisapia torna a casa con la moglie. E’ notte difatti.
Due losche figure, minacciose, lo affiancano in moto. La moglie gli dice di
partire, ma il semaforo è rosso. Anche in questo episodio, ho rinvenuto una vena
d’ironia nel tono della risposta in napoletano stretto del calciatore– per fortuna
non minacciosa – alla domanda dei due individui.
14
“Storie di due uomini che portano lo stesso nome, Antonio Pisapia. Uno gioca a
calcio in serie A, non accetta compromessi, ha fatto del pallone la ragione della
sua vita; l'altro è un cantante sulla cresta dell'onda, penalizzato dalla vita
sregolata. Il tutto ambientato nei primi anni 80, quando la catastrofe antropologica
italiana stava imboccando la china definitiva” 16.
Siamo a Napoli, Italia. Il giardino delle bellezze in mano ai trafficanti, il buon
gusto fatto a pezzi, il senso morale sbeffeggiato, ritenuto uno strumento obsoleto
da lasciare a chi si è fatto definitivamente sorpassare dalla storia. Al Pisapia
numero uno, tanto per capirci. Chiusa la carriera a causa di un grave infortunio
(un compagno lo colpisce per non avere partecipato a un giro sporco di
scommesse), diventa allenatore. Nessuno, però, lo vuole assumere: è troppo serio,
troppo ingenuo, non ha capito bene dove va il mondo. E il cantante? Anche per lui
le cose si mettono di traverso. Roberto Escobar coglie come Luigi Piani, il
degrado antropologico a cui va incontro l’Italia in quegli anni: “Antonio Pisapia e
Antonio Pisapia, come in uno specchio: è questo il cuore de L'Uomo in più, questo
rispecchiamento antropologico e morale” 17.
Due sconfitti, due specchi in cui si riflette la stessa sorte; Guido Mignone traccia
il punto sull’incapacità dei due di adattarsi alla vita: “Attraverso due personaggi
tragici incapaci di crearsi una autonomia dalla sorte, il regista, e sceneggiatore,
unisce il tema del doppio con quello degli sconfitti, e costruisce un film spesso
acre e sarcastico”18.
16
Marco Curatolo, L’uomo in più, “Rivista del cinematografo”, ottobre 2001, n.10, pag. 69.
Roberto Escobar, I1 Sole 24 0re, 9 settembre 2001.
18
Guido Mignone, Letture , 9 gennaio 2002.
17
15
Paolo Sorrentino racconta di aver scelto proprio gli anni ’80 “in primo luogo
proprio perché anch’io li reputo difficili, in seconda istanza perché, che mi piaccia
o no, sono stati i miei anni, li ho conosciuti, li ho vissuti”19.
Sarà proprio la vita sregolata che porterà il cantante, per la seconda volta, in
prigione. La prima volta è nel 1970, per spaccio di droga. E’ alla figlia che
confessa che in quell’occasione fu arrestato per sbaglio: spaccio di droga… ma
quale droga doveva spacciare lui, che faceva soldi a palate con il suo brano in
vetta alle classifiche Sensazioni d’amore...? L’incontro sessuale con una donna,
una minorenne, comporterà una denuncia per violenza che lo allontanerà per
sempre dai palcoscenici. Sarà poi prosciolto dall’accusa, ma l’opinione pubblica
non accetterà mai il fatto che lui “se la potesse fare” con una ragazzina. E’
costante in Sorrentino la presenza della “donna Lolita”, che seduce l’uomo adulto,
facendolo cadere in rovina. In tutti e tre i suoi film avviene la stessa cosa. La
ragazzina che compie un atto sessuale con il cantante, darà inizio alla sfortunata
discesa che ne L’uomo in più segna la desolata fine di un mito, di una star. Fin
troppo evidente l’analogia ne Le conseguenze dell’amore.
Il titolo stesso lo dice: le conseguenze dell’amore, per un uomo disabituato ai
rituali di questo sentimento, diventano fatali, soprattutto se come esca dall’altra
parte abbiamo una seducente barista, che lo provoca, mostrandosi col seno nudo,
attraverso uno specchio. Anche la trama de L’amico di famiglia ci consegna un
usuraio, abile a trarre sempre il massimo dal minimo, che cade in rovina, perché
attratto dalla bellissima figlia di un suo cliente. Tutti temi cari a Sorrentino, in cui
i personaggi soffrono di una evidente crisi di ideali. Egli narra di personaggi
19
Paolo Sorrentino, intervista (a cura
www.cineclick.it/recensioni/archiv/sorrentino.
di)
Claudia
Russo,
10
marzo
2002,
su:
16
scomodi, antipatici che, nella loro antipatia, diventano simpatici, umani. Come
potrebbe risultare simpatico un calciatore arricchitosi velocemente che non ha
nemmeno la terza media e che se sta sempre rinchiuso in casa a progettare schemi
di gioco? Oppure un commercialista, anch’esso apatico ed introverso?
Il malessere di cui sono intrisi i personaggi de L’uomo in più si instilla
maledettamente nella cultura di quegli anni. Mentre il cinema del Neorealismo
ancora raccontava sentimenti veri delle persone abituate a soffrire per ottenere il
giusto, l’attualità ci porta - inevitabilmente direi – alla condizione dell’uomo che
vuole prevalere sull’altro, anche con mezzi illeciti. Per questo motivo, nel film
troviamo dei giocatori che, a fine carriera, vendono le partite per guadagnare
qualche soldo, visto che, una volta smesso di giocare, non sanno fare altro.
Oppure troviamo un ricco manager, quello di Tony Pisapia, che molla il suo
interessato non appena capisce che lui non gli farà più guadagnare “la grana”.
Vito Zagarrio afferma che: “Il cinema contemporaneo riprende come modello una
società indifferente e superficiale, incapace di affrontare le problematiche di un
sistema politico-economico. I temi più ricorrenti riguardano l’uso della droga (Le
conseguenze dell’amore) soprattutto tra i giovani – annoiati e vanesi i borghesi,
tristi e sconsolati i diseredati del sotto proletariato urbano – la separazione o il
divorzio di un elevato numero di coppie”20. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone
il commento di Enzo Natta sulla rivista “Famiglia Cristiana” : “Già nel titolo,
L'uomo in più esprime tutto il contrasto fra il desiderio di distinguersi, di elevarsi
sugli altri e l'esclusione da una società che espelle chi cade in disgrazia”21. Le
20
Vito Zagarrio, La meglio gioventù - Nuovo Cinema Italiano 2000-2006, Marsilio Editori,
Venezia, 2006, pp. 176-177.
21
Enzo Natta, “L’uomo escluso”, Famiglia Cristiana, 14 ottobre 2001.
17
coppie si disgregano: è un fenomeno che ha avuto il suo inizio proprio negli anni
’80, a seguito della legge sul divorzio. Ne L’uomo in più di coppie che muoiono
ce ne sono in quantità. Tony Pisapia viene beccato dalla moglie e dalla madre
nudo a fare l’amore con la minorenne. Successivamente si fidanzerà con
l’ammiratrice conosciuta alla fine del suo concerto, che lo lascerà: scena tagliata
che si può vedere nel dvd tra i Contenuti Speciali.
Questa scena tagliata è molto bella. Durante l’atto sessuale Monica (questo il
nome dell’ammiratrice) gli dice in faccia che fare sesso con lui la annoia. E così lo
lascia. Lo stesso Antonio Pisapia viene abbandonato dalla moglie, che non
sopporta più di vivere reclusa in casa e senza un lavoro che permetta loro di non
spendere i soldi in banca, accumulati durante la carriera calcistica. In una scena
vediamo Antonio che scopre la moglie mentre di notte parla al telefono, ma la sua
ingenuità, unita all’ossessivo pensiero del calcio, non gli fa capire, che lei stava
parlando con l’amante. Anche Titta Di Girolamo ne Le conseguenze dell’amore è
stato lasciato dalla moglie. Una crisi coniugale – possiamo chiederci – quella che
vede Sorrentino? Un disfarsi del matrimonio?
Vorrei citare un aspetto simile anche nel film che ho realizzato. In questo caso io
ho visto nella fine del matrimonio che continua a rimanere in piedi, l’espressione
della paura di rimanere da soli. Infatti a proposito dei matrimoni falliti si parla
sempre di tradimenti, della volontà di frequentare posti perversi e poi del ritorno
all’abitudine, accanto ai propri partners.
Se il cinema è lo specchio della società, come non trattare un argomento così
attuale? La coppia come rifugio, che protegge dallo squallore moderno, ma anche
come costrizione e inganno, da cui si cerca di evadere non appena se ne ha la
18
possibilità. Gioco di tradimenti, come Alberto Zanetti testimonia: “Stanze fredde,
stanze morte, abitate da un'alta borghesia diabolicamente superficiale e
prepotente. Tutti cercano di fregarsi, tramando e nascondendosi. I due protagonisti
sono circondati da tradimenti e corruzione”22. La fine della famiglia forse? O forse
l’inizio di un suo lento recupero. Una scena che testimonia il naufragare dei
valori, di cui invece un tempo la famiglia si faceva portavoce, è quella della morte
del padre di Tony.
Lui non va al suo funerale e alla domanda della figlia che chiede il motivo di
questa assenza, egli risponde con straordinaria naturalezza : “Mi sono svegliato
tardi”. Trattare un tema così difficile con un’ironia del genere è stato un vero
azzardo per Sorrentino, che ne è comunque uscito vincitore. Torniamo ora alla
sottile ironia del regista fatta di piccole battute, davvero efficaci. L’ironia si
percepisce anche quando il direttore sportivo della ex squadra di Antonio Pisapia,
fa ripetutamente riferimento alla situazione “apodittica” in cui versa la società.
“Apodittica non significa niente…” - dice Antonio all’amico Molosso – “Ho
guardato sul vocabolario”. Non è certamente un’ironia a buon mercato, ma molto
più sottile, ricercata. Rilevante in questo discorso è anche la scena in cui Tony,
appena concluso il concerto d’addio, in uno sperduto paesino in Abruzzo, si
ritrova nel ristorante del paese : vuoto.
Lui unico cliente. Il proprietario asserisce di essere suo grande fan e si giustifica
dicendo che non era andato al concerto, in quanto impegnato al ristorante. Ma
quale impegno avrà avuto mai, visto che non c’erano clienti? E’ ironico anche il
travestimento di Antonio, che ad una festa si presenta vestito con la casacca della
22
Alberto Zanetti, “I segreti di Sorrentino”, Cineforum, n. 409, dicembre 2001, pag. 63.
19
Juventus. Ma non era una festa in maschera! Gli altri invitati erano tutti vestiti con
la classica giacca e cravatta. Il regista ci fa immaginare cosa sarebbe successo se
lo avessero visto così.
L’uomo in più ha un suo significato profondo, come spiega Sorrentino. Tutto
nasce da un modulo con cui un allenatore di calcio di una squadra di serie C1 fa
realmente giocare la sua squadra.”La formula dell'uomo in più è precisamente la
condizione dell'italiano contemporaneo. L'uomo in più rispetto allo schema delle
cose come stanno”23. Per Flavio De Bernardinis il film prende a cuore questa
figura in modo limpido, senza alibi.
L’allenatore è Glerean e adotta un sistema innovativo, fatto da quattro punte. Nel
calcio è assurdo giocare con quattro punte, poiché troppo scoperti nella fase
difensiva, ma attraverso questo sistema, è possibile non sbilanciarsi. Difatti i
quattro attaccanti sono disposti a rombo e si interscambiano tra loro, di modo che,
il fantasista dietro le tre punte vicine, dà la possibilità di fraseggi veloci, capaci di
eludere le retroguardie avversarie. Inoltre dietro le quattro punte ci sono tre
mediani che coprono la difesa. Nel film è proprio Tony calciatore a spiegare al
Molosso (allenatore) questo sistema. Bisogna correre, gli dice. E bisogna allenarsi
in un certo modo. Ovvero facendo le “ripetute”, cioè dei scatti continui intervallati
a corsa leggera. Più che allenare il corpo, bisogna allenare il cuore e la testa. In
questa maniera, con questo modulo, si ha un uomo in più a centrocampo.
Enzo Natta, riporta le parole di Sorrentino: “L'uomo in più esprime la condizione
esistenziale di entrambi i protagonisti del film, che dall'apoteosi del successo nel
1980 sprofondano in un baratro di disperata solitudine nel 1984. Tutti e due
23
Flavio De Bernardinis, “La formula dell’uomo in più”, Segnocinema , n. 113, gennaio/ febbraio
2002, pag. 22.
20
diventano, di colpo, uomini in più, estromessi dal mondo nel quale fino a poco
prima erano stelle”24.
2.2 Lo stile della regia
Paolo Sorrentino esordisce con questo film e dimostra subito di avere grandi doti
da regista. Egli dichiara che i suoi modelli cinematografici, sono i registi come
Ettore Scola, Bernardo Bertolucci, Dino Risi: il film che più rappresenta il suo
modo di fare cinema è, per l’appunto, C’eravamo tanto amati di Scola. Ed in
effetti vedendo i tre film del giovane regista partenopeo, notiamo questa vena
ironica, già più volte citata, unita ad uno stile, possiamo definire “impegnato”,
profondo, in cui si dimostra abilissimo a scavare in profondità nell’animo dei suoi
personaggi. La commedia all’italiana che nel Neorealismo ha reso celebri i suoi
autori e l’Italia tutta. Sono molte le frasi del film che a mio avviso vanno citate,
come simbolo di un’abilità psicoanalitica del regista.
Guido Mignone scrive: “II pareggio non esiste: la storica frase di Pelé, piazzata
sui titoli di testa, avverte lo spettatore. Che lì per lì non capisce, ma poi ne intuirà
il senso. Non tanto perché il film s'inoltra nel mondo del calcio, quanto perché lo
scorrere parallelo delle due vicende umane si presta a un ideale confronto
psicologico”25. “E' nulla di folkloristico, il suo racconto è un'analisi sugli indizi che
la vita lascia dietro ogni giorno,come fosse un libro di Gombrowicz o un film di
Kieslowski”26. Pillole di saggezza che il regista ci instilla durante tutta la
24
E. Natta, “L’uomo escluso”, Famiglia Cristiana, cit.,14 ottobre 2001.
G. Mignone, Letture , cit., 9 gennaio 2002.
26
Maurizio Porro, Il Corriere della Sera , 5 agosto 2005.
25
21
pellicola. La sceneggiatura scritta da lui stesso è un vero capolavoro, un’opera
letteraria, che mai appare banale.
Ogni frase detta è ben pesata, anche quelle più frivole e banali, sono lì per
dimostrare che stiamo di fronte ad un vero talento. La superficialità è l’estrema
raffinatezza dell’intelligenza e Sorrentino stupisce anche in questo, ad apparire a
volte così banale nelle parole che mette in bocca ai suoi personaggi, tanto da
renderli così straordinariamente veri. Nessuna altra frase, magari più di contenuto,
in certi frangenti, sarebbe stata più appropriata di quella frase buttata lì, senza
pensarci tanto, solo con l’intento di dire qualcosa. Nella vita spesso si parla giusto
per dire qualcosa, per non stare zitti ed è questo che Sorrentino mette in pratica.
Come quando durante la cena a casa di Tony Pisapia con il suo ex agente, si parla
di orate e di come si cucinano. “Lo sai dove ho imparato a cucinare l’orata?”.
chiede Tony “In carcere.. nel ‘70. In carcere ha imparato una cosa”. Tutti si
aspettano una confidenza di un certo spessore umano, di una certa sensibilità, del
resto stare in carcere aiuta a riflettere. Invece la risposta disorienta: “Ho imparato
che in carcere c’è sempre qualcuno che sa cucinare l’orata meglio di te”.
Frasi stupide, ma che riescono a dare una forte intensità al racconto. Frasi stupide
o meglio frasi leggere, contrapposte o, ancora meglio, giustapposte a frasi dure.
Nella scena in cui Tony viene scoperto dalla madre e dalla moglie con la
minorenne, la madre gli dice in faccia, senza reticenze, che in fondo al mare
sarebbe stato meglio se ci fosse morto lui, al posto di suo fratello.
Per Michele Anselmi L'uomo in più è un film atipico, a partire dall'ambientazione:
i primi anni Ottanta, per l'esattezza il 1980 e il 1984, “riproposti con tutto il loro
22
corredo di cattivo gusto, voracità, rimozioni e ferocia sociale”27. Un azzardo che
Sorrentino conosce benissimo, al punto da premettere sulle note di regia che il
kitsch è un'arma a doppia taglio, da un lato è divertente e stimolante, dall'altro
rischia di diventare protagonista assoluto del film, facendo scivolare in secondo
piano i personaggi. Ciò nonostante la sfida appare in larga parte vinta: per
l'intreccio dei piani narrativi, per la ruvidezza mai consolatoria dello sguardo, per
il messaggio vitalistico - se tale vogliamo definirlo - consegnato nel finale al
pubblico. Anche Fabio De Girolamo Marini punta sul mondo effimero della
musica: “Amaro, anche qui, il ritratto dell'ambiente della pop music, capace di
consumare i propri mestieranti nel breve volgere di una stagione e di rigettarli nel
limbo di un totale anonimato”28.
Bisogna riconoscere che Tony Servillo (il cantante) e Andrea Renzi (il calciatore)
aderiscono con notevole convinzione ai rispettivi personaggi: sbruffone e
appassionato il primo, rassegnato e triste il secondo. Quando si sfiorano, si
vorrebbe vederli ricomposti in un'unica figura. Ma il regista ha deciso altrimenti.
Come i grandi registi sanno fare, anche Paolo Sorrentino inserisce delle
caratteristiche ai suoi personaggi. Il cantante fuma ossessivamente, come farà poi
ne Le conseguenze dell’amore lo stesso Tony Servillo. Una tematica simbolica
che vorrei segnalare è quella dell’acquario. La star di successo nomina sempre i
frutti del mare, orate, spigole; ogni qualvolta che lo vediamo a mangiare, nel suo
piatto c’è del pesce. Questa isotopia, il richiamo continuo al mare, si affianca
anche al desiderio del protagonista di possedere un acquario. All’agente dice di
voler un acquario nel camerino: poi un acquario lo vediamo a casa sua, inquadrato
27
Michele Anselmi, Vivilcinema, 9 dicembre 2001.
Fabio De Girolamo Marini, “Un cantante ed un calciatore”, Film, n.10, novembre 2001, pag. 6.
28
Alberto Zanetti, Cineforum, luglio 2001.
28
23
più volte. “Tony non ha percezione psicologica di sé, mangia pesce, si droga e
fuma. E' attratto dal mare, ma non per fuggire. Per lui è come una vasca, o meglio,
un acquario come del resto la casa o la città. Il suo duplice gesto (il monologo in
tv e il tuffo) implica la fusione definitiva con l'ambiente. Diviene uno qualunque,
un detenuto...”29 Sia Zanetti che Milesi colgono la fusione tra i due Antonio, e tra
questi e l’ambiente della Napoli degradata.“Due facce di un'identica precarietà nei
rispettivi percorsi verso la rovina”30.
La televisione ha un aspetto fondamentale nel film. Attraverso lo schermo il
cantante subisce la metamorfosi, da passivo uomo sull’orlo di una crisi ad attivo e
freddo killer. E’ in casa e vede il suo omonimo parlare in un programma
televisivo. Lo ascolta, lo riconosce. E’ il compagno con cui suo fratello si
immerse durante la spedizione in mare in cui poi morì.
E’ l’uomo che al mercato rivede, forse dopo anni. La scena è ricca di significato:
le due vite parallele dei due Antonio Pisapia, per un istante si sfiorano. Il
montaggio parallelo, per un attimo converge nella stessa scena. Si ha
l’impressione che possa accadere qualcosa, che i due si parlino, ma tutto scivola
via senza che possa accadere nulla.
Mauro Gervasini nota che: “Il regista sceglie un pedinamento intenso, entra nei
personaggi, li assale con sguardo partecipe e lascia che si sciolgano nel dramma:
da brivido il monologo di Servillo in Tv”31. Il carrello che compie un
avvicinamento lentissimo al volto scultoreo di Tony (attore ed interprete) durante
la scena descritta da Gervasini, è veramente apprezzabile. In un certo senso anche
Roberto Nepoti illustra la parabola riflessiva da uomo frivolo ad uomo ormai
29
Alberto Zanetti, Cineforum, n.49, dicembre 2001, pag. 63.
Mario Milesi, Il Giornale di Bergamo, 11 settembre 2001.
31
Mauro Gervasini, Film TV , 16 ottobre 2001.
30
24
maturo e saggio: “Il cantante vive invece sull'onda della popolarità, tra donne e
coca, ma si ritrova all'improvviso fuori dal giro e a quel punto comincia a
riflettere sul vuoto della vita”32.
L’influenza del cinema d’autore degli anni ’60 è chiaramente presente nella
visione di Sorrentino, lo si nota anche per il fatto che egli sceglie in questo suo
primo film due co-protagonisti. Seguendo questa linea, Sorrentino stesso indica i
film da lui preferiti: La grande guerra di Mario Monicelli, con l’accoppiata
Alberto Sordi-Vittorio Gassman. Oppure I mostri, sempre di Monicelli, stavolta
con Vittorio Gassman-Ugo Tognazzi. Oppure Il sorpasso di Dino Risi, con ancora
Gassman e questa volta Jean Louis Trintignan. Non è certamente un caso se
Sorrentino adotta questo sistema, caro ai maestri della commedia all’italiana. Ne
trae lo spunto per evidenziare lo sviluppo e la performance dei personaggi. Gian
Piero Brunetta, in Cent’anni di cinema italiano descrive in poche parole lo stile di
Gassman: “Gassman si serve di una recitazione sempre un po’ sopra le righe,
esalta e nobilita quelli che in genere sono considerati i vizi peggiori della
recitazione: gli eccessi verbali, gestuali, e solo in anni recenti ha cominciato a
distillare i gesti, le parole dei suoi personaggi, a lavorare di sottrazione, di effetti,
invece che di intensificazione ed accentuazione”33.
Siamo in grado di rivedere forse nel Gassman più maturo un Tony Servillo-Tony
Pisapia de L’uomo in più? Difficile da dirsi, ma io credo che un’influenza ci sia
stata. È evidente che lo stile della regia di Sorrentino non può non subire
contaminazioni, considerando che egli è cresciuto ed ha apprezzato il modo di fare
cinema di questi grandi autori.
32
33
Roberto Nepoti, “L’usuraio che sogna Bunuel”, La Repubblica , 10 agosto 2005.
G.P. Brunetta, Cent’anni di cinema italiano 2- Dal 1945 ad oggi. cit., pp. 294-295.
25
2.3 I personaggi
Paolo Sorrentino in un’intervista di Claudia Russo parla così dei suoi due
personaggi: “Tony Servillo è un vero professionista, capace di calarsi
perfettamente nei personaggi senza pericolo di sbavature o confusioni di ruolo.
Proviene dal teatro ed ha una presenza scenica formidabile. Cattura la
telecamera… Avevo bisogno di un tipo come lui da contrapporre alla timidezza
del personaggio interpretato da Andrea Renzi, che invece la telecamera tende a
sfuggirla”34. “Non è diffìcile – scrive Enzo Natta - trovare in cantanti come
Franco Califano, Fred Bongusto o Peppino Gagliardi e in calciatori come
Agostino Di Bartolomei, morto suicida a 44 anni, i modelli dei due personaggi”35.
Sorrentino, da appassionato di calcio come molti italiani, parte da un punto reale,
ovvero due personaggi esistiti e che esistono veramente. “Il punto di partenza –
dice il regista – era reale, c’era un calciatore della Roma negli anni ottanta che si
chiamava Agostino di Bartolomei, che smise di giocare poi si suicidò. Mi colpì,
era un fatto insolito. Effettuando delle ricerche mi accorsi che il suicidio era molto
raro nell’ambito degli sportivi professionisti”36.
“Chiusa la carriera a causa di un grave infortunio (un compagno lo colpisce per
non avere partecipato a un giro sporco di scommesse), diventa allenatore.
Nessuno, però, lo vuole assumere: è troppo serio, troppo ingenuo, non ha capito
34
Paolo Sorrentino, intervista (a cura di) Claudia Russo, 10 marzo 2002, cit., su:
www.cineclick.it/recensioni/archiv/sorrentino.
35
E. Natta,”L’uomo escluso”, Famiglia Cristiana , cit., 14 ottobre 2001.
36
Paolo Sorrentino, intervista (a cura di) L. Ceretto, R. Chiesi, Una distanza estranea. Il cinema di
Emanuele Crialese, Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, cit., pag. 44.
26
bene dove va il mondo”37, scrive Luigi Pani. E il cantante? Tony Servillo, giunto
alla maturità, essendosi quasi completamente disinteressato del cinema, interpreta
il suo omonimo Tony Pisapia: un cantante di successo. Nel film vediamo l’attore
cantare in due concerti. Quello di apertura, straordinario, con il teatro colmo di
persone estasiate e quello di addio, in una piazza di un paesino abruzzese,
sperduto tra le montagne. Lo stesso cantante, rivolgendosi al padrone del
ristorante, lo definirà “il più bel concerto della sua carriera”, malgrado il pubblico
disinteressato ridotto a poche unità. Le canzoni cantate in play back, tra l’altro
veramente belle, ci consegnano un Tony Servillo particolarmente abile ad
interpretare questo personaggio spocchioso ed antipatico, pieno di sé e del suo
talento. Tratta male i suoi musicisti, li minaccia di mandarli a suonare con Fred
Buongusto, se non fanno ciò che egli desidera. Ad esempio obbliga il batterista ad
andare a cena con tutta la band, benché lui abbia il figlioletto a casa con la febbre.
“E che sei un’aspirina?” gli chiede, come per sottolineare il fatto che la sua
presenza a casa, non guarirà di certo il figlio.
Oppure in discoteca, quando la manda a prendere “un ballantines” al bar, ed in
confidenza, gli dice di darci dentro con quella batteria, perché negli ultimi tempi è
fiacco. Tony Servillo in realtà conosce bene l’ambito musicale, poiché suo fratello
Giuseppe Servillo è il cantante del famoso gruppo, gli Avion Travel. Da notare la
somiglianza tra i due. Sicuramente, per avvicinarsi a questo personaggio, avrà
studiato bene lo stile del fratello. Io noto soprattutto nella mimica facciale dei due
– il cantante degli Avion Travel ed il cantante Tony – una spiccata uguaglianza,
soprattutto nel modo di ridere durante i concerti. Nella scena in cui tutta la band
37
Luigi Paini, Il Sole 24 0re, 9 settembre 2001.
27
viaggia in macchina alla volta della discoteca, ho notato una vera e propria
maschera sul viso di Servillo, quando una risata clamorosamente marcata e
vistosa, si stampa sul suo volto. La risata dura molti secondi, sembra quasi un
fermo immagine.
Il suo omonimo, interpretato da Andrea Renzi, è un calciatore che non ha
nemmeno la terza media, nativo di Narni Scalo. Nella realtà, Andrea Renzi è
veramente nato a Narni e questo gli ha suggerito di dare al personaggio la
caratteristica “umbra”, con la cadenza tipica di chi è nato da quelle parti.
Indimenticabile l’intercalare del calciatore quando si rivolge ai suoi due compagni
che gli propongono di truccare una partita: “Io fra qualche anno sarò un allenatore
famoso.. ce senti?”. L’idea, spiega Sorrentino nel backstage, è venuta proprio a
Renzi ed è stata subito accettata volentieri da lui.
“L’idea del doppio – spiega Sorrentino – è un tema complesso che mi affascina
ma che non sono in grado di sfruttare completamente. Mi ricordo di avere visto
parecchie volte La doppia vita di Veronica di Kieslowsky che mi aveva molto
28
impressionato”38. Maurizio Porro si chiede “ che rapporti ci sono tra i due? E'
impossibile trarre una morale: c'è uno stile, un senso della sorpresa e voglia di
esprimersi che sono straordinari, così come la performance dei due attori”39.
“In comune hanno il nome, la data di nascita e un destino segnato da una
irresistibile ascesa. Vite parallele, che divergono soltanto nel carattere dei due
personaggi”40. “Il cantante è il prodotto umano d'un tempo, d'un gusto, d'una
cultura in cui trionfa la volgarità, e che niente rispettano che non sia teso al
successo, alla voracità di prelevare nonostante e contro qualunque norma giuridica
e coerenza morale. Il calciatore è la vittima di quello stesso tempo, gusto, cultura:
una sorta di capro espiatorio o fusibile sociale, il punto debole di un mondo che
tutto perdona,fuorché l'onestà intellettuale e la trasparenza spirituale”41. Un tema,
quello della società malata, dei personaggi con grossi conflitti interiori, che mi
piace paragonare al modo di vedere il cinema da parte di Luchino Visconti:
“Quello che mi ha sempre interessato è l’analisi di una società malata”42.
Per quanto riguarda le attrici non protagoniste, si sottolineano la moglie del
calciatore, con un ruolo non particolarmente incisivo, e soprattutto Angela
Goodwin. “E' bello rivedere Angela Goodwin sul grande schermo”43.
38
Paolo Sorrentino, intervista (a cura di) L. Ceretto, R. Chiesi, Una distanza estranea. Il cinema di
Emanuele Crialese, Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, cit., pag. 44.
39
Maurizio Porro, “Paolo Sorrentino: basta dittatura del bello, voglio rabilitare il brutto”, Il
Corriere della Sera , 21 aprile 2006.
40
E. Natta , “L’uomo escluso”, Famiglia Cristiana, cit., 14 ottobre 2001.
41
R. Escobar, 11 Sole 240re, cit., 9 settembre 2001.
42
Luchino Visconti, dichiarazione su: Avant-scene du Cinèma- n. 159, 13 giugno 1975 citata in,
Una distanza estranea. Il cinema di Emanuele Crialese, Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, (a
cura di) L., R. Chiesi cit., pag. 44.
43
Mauro Gervasini, Film TV , 21 dicembre 2001.
29
2.4 Pregi e difetti
Il rischio era quello di cadere nella retorica, visto il tema non nuovo. Luisa Ceretto
scrive così sul volume dedicato a Sorrentino, Crialese e Garrone. “… adottando
un registro linguistico che privilegia la fluidità del racconto, ai virtuosismi
stilistici, senza però rinunciare alle suggestioni evocative che certe immagini
possono suscitare”44. Un film estremamente concreto, sembra essere il giudizio
anche di Ezio Alberane, quando scrive: “Sorrentino, che si concede solo qualche
vezzo nelle sequenze oniriche, è sicuramente un nome da tenere d'occhio”45.
Diversamente da quello che farà ne Le conseguenze dell’amore sono pochi, per
l’appunto, i virtuosismi ed i movimenti della macchina da presa.
I personaggi vengono ripresi sempre di fronte, tranne qualche volta - come già
citato - in cui li riprende di spalle, ad altezza d’uomo. Sembra quasi che sia un
film d’altri tempi, quando ancora i mezzi tecnici erano meno sviluppati e le
inquadrature potevano essere fatte quasi esclusivamente da cavalletto. Ma
nonostante ciò, lo stile della regia di Sorrentino appare per certi versi innovativo.
Il taglio delle inquadrature fa registrare un gusto estetico, non tipicamente
italiano. E’ Marco Bellocchio a parlare di estetica nel cinema: “Bisogna
ricominciare a parlare di bellezza delle immagini”46. E’ una tesi, quella di
Bellocchio che ritroviamo esplicita ne L’uomo in più e lo sarà ancora più
sorprendentemente ne Le conseguenze dell’amore. Per Fabio de Girolamo Marini,
“Il principale pregio del film consiste nella attenta e sfaccettata analisi delle due
44
L.Ceretto, R. Chiesi, Una distanza estranea. Il cinema di Emanuele Crialese, Matteo Garrone e
Paolo Sorrentino, cit., pag. 67.
45
Ezio Alberione, “ Sorrentino, le vie del cinema”, Nostro Cinema , n.6, 1 giugno 2002, pag. 5.
46
Marco Bellocchio, dichiarazione su: Il cinema della transazione, (a cura di) Vito Zagarrio,
Marsilio Editori, Venezia, 2000, intervista di Sandro Bernardi, pag. 344.
30
figure principali e nella loro messa in relazione coi rispettivi ambienti”47. Anche
Ezio Alberone, si sofferma sulla “capacità di tracciare ritratti ricchi di sfumature e
di umanità, andando oltre alla tipizzazione o al rischio della macchietta che i due
personaggi rischiavano di avere”48.
Per Roberto Nipoti “al giovane autore (che all’epoca del film aveva 30 anni) va
riconosciuta l'originalità dell'argomento scelto e della collocazione storica: è un
film da recuperare, comunque, se non altro per conoscere meglio uno dei più
promettenti registi italiani”.49 “Qualche smagliatura nel momento dell'incontro dei
due estranei. C'è denuncia, infine, di meccanismi che umiliano capacità e
sensibilità, ma c'è anche qualche compiacimento di troppo, soprattutto nella figura
di Tony, mai in realtà pentito dei propri gesti, pronto a compromessi e, nel finale,
tutt'altro che sconfitto”50. Qualcuno paga, qualcun'altro no, sembra dire il regista.
Una sorta di fatalismo aleggia sulle vicende. “Dal punto di vista pastorale, sembra
opportuno valutare il film come discutibile, evidenziandone una certa
ambiguità”51.
47
Fabio de Girolamo Marini, Film, ottobre 2001.
E. Alberione, “ Sorrentino, le vie del cinema”, Nostro Cinema , cit., pag. 5.
49
R. Nepoti, “L’usuraio che sogna Bunuel”, La Repubblica , cit., 10 agosto 2005.
50
Marco Massimi, “La regola del doppio”, su: www.cinefile.biz/luomoinpiu/htm.
51
R. Nepoti, “L’usuraio che sogna Bunuel”, La Repubblica , cit., 10 agosto 2005.
48
31
CAPITOLO III
LE CONSEGUENZE DELL’AMORE
3.1 Ogni uomo ha un suo segreto inconfessabile
“La cosa peggiore che può capitare ad un uomo che trascorre molto tempo da
solo, è quella di non avere immaginazione”, recita la voce fuori campo in apertura
del film. Titta Di Girolamo è “un uomo invisibile” per gli altri e per sé stesso, per
mascherare la consegna del non-vivere si rifugia nella fissità iconica e nella paresi
facciale. Questa immobilità incrociando il trambusto delle piccole cose (una
partita a carte, una donna dietro il bancone) ricorda che dopotutto la vita non è
finita; o forse è finita per davvero, e quello di Titta Di Girolamo è l’ultimo spasmo
del cadavere prima del “rigor mortis”.
“Per individuare i crimini di Cosa nostra, il napoletano Paolo Sorrentino, sceglie
la metafora, rifiutando le facili panie della cronaca.”52 Il regista marchia su
pellicola uno stile personalissimo e riconoscibile nonostante il solido tessuto di
citazioni. Nonostante tutto, il protagonista, vive di vita propria: per lungo tempo
52
Gregorio Napoli, Il Giornale di Sicilia, 27 settembre 2004.
32
non succede splendidamente nulla, il film è una natura morta da godere appieno
nelle sue sfaccettature. Il regista sa infondere il soffio attraverso improvvise
geometrie (i quadranti della porta ove si spiano conversazioni altrui, il flusso
avvolgente delle scale), maneggia la fisicità in maniera affatto scontata
(impercettibili sono i cambiamenti nel volto di Titta) e si riserva sconcertanti
esplosioni di sentimento senza silenziatore (la memoria del migliore amico).
La voce fuori campo accompagna realmente la vicenda, lancia infinite suggestioni
imbevute di grottesco (l’insonnia, la droga), restituisce una cifra di sincera
desolazione spacciandola falsamente per indifferenza: nello squarcio rivelatorio,
Di Girolamo recita la sua verità “Cosa devo dire? Io sono un commercialista”,
infondendo l’illuminazione di un uomo che non è schivo né timido, ma
semplicemente non ha nulla da trasmettere. Tìtta è un fallito, parente prossimo de
L'Uomo in più, ma già a un passo successivo, perché rischia di salvarsi e in parte
ci riesce, grazie all'amore per una donna. “La linea temporale può apparire
identica a sé, aggravata dalla collocazione in un altrove indefinibile, ma subisce
continue variazioni nel tripudio dei dettagli; dunque la trovata stilistica, di
bruciante originalità, non è mai ombelicale né onanista, ma illumina il dipinto
filmico da angolazioni sempre nuove”53. L’inquadratura del protagonista
rovesciato è quasi filosofica, dove egli giace all’incontrario proprio come la sua
esistenza. “La mano di Sorrentino si ritrova nel piglio nudo e genuino, senza
arroganza autoriale, miracoloso nel controllare la m.d.p. ed inchinarla al senso del
racconto: e quando approda nel pieno del narrare trasforma gli sterzanti piani
sequenza della tavolata, accarezzando volti giacche legno, nello stato grezzo della
53
Simone Arcagni, Film, dicembre 2004, n. 71, pag. 60.
33
rappresentazione, cinema personale che rifiuta ogni filtro”54. Senza astenersi dallo
strizzare l’occhio alla platea: l’elucubrazione metafilmica “ Progetti per il futuro:
non sottovalutare le conseguenze dell’amore”, è talmente piana ed evidente da
strappare un sorriso divertito. E poi via in picchiata verso la conclusione:
nonostante l’archetipo della malavita ed un espediente immediato come l’omissis
narrativo da recuperarsi in flashback (il ritorno della valigia), questa con pochi
ingredienti (un’esecuzione, un milione di dollari, una vetta innevata) chiude
sublimamente un sentiero interiore sottotraccia sino a colpire al cuore.
Dopo soltanto il silenzio nei titoli di coda, il tramonto ed il crepuscolo, Le
conseguenze dell’amore,( titolo di sottile ambiguità), presentato ed ignorato al
Festival Cannes, ci riconcilia finalmente con il nostro cinema parlando del noir
nell’epoca della paralisi, “del Caso sullo sfondo del razionale e, ancora,
dell’Uomo nell’automatismo del cosmo: polverizzando i vari Amelio, Chiesa,
Placido, osserva un animale ingabbiato nella malinconia del vissuto, pigiando il
tasto dell’annullamento contro ogni frenesia della messinscena”55. Maiuscola
prova di Toni Servillo, straripante di magnetico talento, che ti inchioda al suo
sguardo fino alla fine del film ma anche del (suo) mondo.
54
55
Claudio Villa, Filmcronache, aprile 2004.
Natalino Buzzone, Il Secolo XIX, 24 settembre 2004.
34
3.2 Perfezione svizzera
C'e' una cosa che colpisce subito nell'opera seconda di Paolo Sorrentino (ma che
era già evidente nel felice debutto L'uomo in più) ed è il modo sinuoso attraverso
cui il giovane regista muove la macchina da presa. E' proprio l'eleganza, la
precisione, l'efficacia, in una parola il dinamismo dei movimenti, che rende il
lungometraggio un'esperienza coinvolgente e abbastanza atipica nel panorama
italiano. Una perfezione svizzera nei movimenti di macchina; non a caso il film
riesce a restituire quell’atmosfera ovattata, tipica del Canton Ticino. “In Svizzera
tutto è più silenzioso, anche le automobili sono di grossa cilindrata e perciò con
motori più silenziosi.”56
All'ampio respiro della pellicola contribuiscono anche il montaggio fluido e mai
scontato di Giogiò Franchini e le felici scelte musicali, un insieme di fattori che
immerge il film in un' atmosfera pregnante in cui gli interrogativi si moltiplicano,
l'occhio gode e la tensione verso i personaggi e il loro destino cresce. Come
spesso accade, però, la inevitabile resa dei conti interrompe la magia e finisce per
banalizzare le premesse. La prima parte ha un impatto molto forte: si entra nella
routine di un uomo che sembra sprecare le sue giornate in una grigia monotonia di
ore sempre uguali e sempre vuote. Non succede nulla, eppure ci arriva tutta la sua
frustrazione, il dolore per una vita che ha il peso di una presenza e la rabbia per un
errore che non ha vie d'uscita se non la rassegnazione. Sorrentino riesce a filmare
l'assenza e a dare spessore agli sguardi e ai silenzi dei personaggi. Poi, quando si
obbligano dialoghi e fatti a dare corpo alla suggestione, il film ha un cedimento,
56
Paolo Sorrentino nei “Contenuti speciali” del dvd de Le conseguenze dell’amore, cit.
35
soprattutto nella scena dell’ uccisione dell’uomo da parte dei due sicari siciliani.
Imperdonabile appare l’affidare per l'ennesima volta ad un incidente la
determinante svolta narrativa: un auto corre su un rettilineo, un annaffiatoio
automatico bagna i campi e scansiona con il suo ticchettare ritmato la tensione
della scena, fino all'inspiegabile uscita di strada. Ecco, anche a livello visivo, e
non solo di discutibile stratagemma risolutivo, la sequenza ha l'appeal e la forza di
uno spot pubblicitario. Ambiguità narrative a parte, il film ha un impatto potente,
grazie anche allo spessore degli interpreti. Toni Servillo, con la carica che ha
dimostrato ne L’ uomo in più, dispiace vederlo in un ruolo dove deve per forza
contenere la sua contagiosa vitalità; ma anche nella sottrazione, pur con l'enfasi di
certi passaggi, non perde in espressività. Olivia Magnani, occhi che bucano lo
schermo e presenza di rilievo, regge il confronto. Ma forse e' il suo personaggio
ad essere troppo letterario e in difficoltà nel passaggio dal mondo immaginato
sulla carta a quello in cui movimenti, parole e gesti perdono la consistenza sottile
della pagina scritta.
Una sceneggiatura intelligente, un film quasi muto. Parole scelte con cura,
immagini bellissime, grazie alla scelta indiscutibile, precisa, incisiva del punto di
vista di Sorrentino e ad una fotografia che Luca Bigazzi ha reso davvero perfetta,
36
asettica, trasparente, immobile e pulita, come l’aria della Svizzera più cupa, più
oscura, più torbida. Ambientazioni splendide, arredamenti ineccepibili, abiti
armoniosamente inseriti nella nitida eleganza del tutto.
Lentezza sempre in bilico, sul baratro di una possibile noia che non si raggiunge
mai. Restare sulla linea di questo baratro senza mai valicarla, nell’arco di un
racconto di un’ora e quaranta minuti circa, è dimostrazione di sapienza. Prova
d’autore che, se non convince tutti gli spettatori, sicuramente entusiasma chi del
cinema controlla l’amore per l’immagine. “Poco amore in un film dove l’unica
cosa che resta, senza dirlo, dice: ogni singolo gesto, ogni azione umana, non può
essere priva di conseguenze. Ineluttabile verità. C’è chi fa del proprio cinema una
forma di demagogia personale”57. Ogni gesto umano ha conseguenze ineluttabili.
Sorrentino non ha certo fatto una scoperta, ma racconta questa banalità con grazia
e con pochissime parole. Troppo vuoto tra una battuta e l’altra? Il vuoto, la noia,
la nevrosi, la dipendenza, la solitudine, la legge, la delinquenza organizzatissima,
la puntualità dell’agire, gli errori, i ritardi e gli imprevisti tra un’azione e l’altra,
qualche volta la nascita di un amore che è uno tra gli eventi umani più sottomesso
al caso: negli intervalli, tra questo genere di eventi della vita, esistono silenzi assai
lunghi.
Tra i silenzi si realizzano le ineluttabili conseguenze. In silenzio. Di che parla Le
conseguenze dell'amore? Dell'amore, si direbbe. In realtà la risposta è giusta ma a
metà. Lo sguardo di Titta, quella sensazione claustrofobica della hall dell’albergo,
solo in un secondo momento si capisce: stanno in Svizzera, paese dai mille
57
Paolo Pizzuto, Cinemasessanta, n. 280, novembre 2004, pag.104.
37
sbadigli. Come al solito regna il caso, il Dio caso, facile colpevole di mille eventi.
É un perfetto ingranaggio di uno stile di vita perfetto. Mattino (siringa), caffè,
valigia, scacchi, assopigliatutto, insonnia. Si ricomincia: mattina (siringa), caffè,
valigia, scacchi, assopigliatutto, insonnia. Egli (non) vuole cambiamenti nella sua
vita. Ride delle persone frivole (in lui di frivolo c'è solo il nome). Non ha fantasia,
non vuole fantasia. Solo i fantasmi della famiglia ogni tanto lo tormentano. Ecco
il fratello: il suo opposto, il suo salvatore divino. L'indifferenza per gli altri a un
certo punto cade, sembra tutto più colorato.
C'è il pericolo (della mafia), la gelosia (per istruttori di guida). Il fratello è un deus
ex machina? No, è tutto un freddo caso. Il film è dunque freddo? No, Titta ha una
fiammata di vita, si oppone ai capi di cosa nostra, sfida l'autorità, uccide due
persone, e addirittura, si innamora. Dove sta la genialità del film? Lascia trionfare
l'altruismo del protagonista che muore in modo rocambolesco, come sempre
avrebbe voluto l'anziano suo vicino di albergo. Ci vuole coraggio per fare una
cosa del genere: Titta è cresciuto, ha dimostrato di poter vivere, ha lasciato che il
caso gli muovesse le carte in tavola (era indifferente a vederlo barare) e,
finalmente, ha affrontato la partita a scacchi, quella della bergmaniana esistenza.
Ha vinto? Diciamo che la partita dopo l'avrebbe vinta.
38
3.3 Un uomo solo
Titta Di Girolamo è un uomo solo; sofisticato, imperscrutabile e sfacciatamente
arrogante. Costretto da molti anni a fare una vita di completa clausura in un
albergo svizzero, tiene segreta a tutti la propria identità, il suo passato e la sua
professione. Ma quando il suo incontenibile bisogno di amicizia e d'amore faranno
scattare una scintilla, qualcosa dentro di lui si incrinerà per sempre e tutto d' un
tratto le gigantesche insicurezze e le paure che da sempre affliggono
profondamente il suo animo usciranno fuori con irruenza, conducendolo alla
svolta della sua vita. E tutto nel giorno del suo cinquantesimo compleanno.
Un noir d'alta classe che seduce lo spettatore con inquadrature che indugiano su
sguardi timidi, furtivi e appassionati; con primi piani sulla sfrontatezza e l'alienata
tenerezza delle espressioni del volto di Toni Servillo, il volto di un uomo cui è
stato rubata la gioia di vivere e che meccanicamente vive una vita che non gli
appartiene solo perché vittima di un ricatto.
Un film, questo di Sorrentino, che riesce davvero a sorprendere, per l'efficacia
delle immagini, per l’ armonioso susseguirsi di piani sequenza con i quali il
regista ci racconta la vita notturna di un uomo perennemente insonne che trova
mille cose da fare pur di non soffermarsi a pensare alla sua condizione. E poi la
voce fuori campo del protagonista che si racconta, e nei momenti di riflessione
sembra voler raccontare e spiegare se stesso a se stesso, più che a noi. Una
sceneggiatura fatta di poche ma essenziali battute.
I dialoghi sono talvolta buffi e strafottenti ma sempre cinicamente eloquenti sullo
stato d'animo in cui si trova il misterioso protagonista. Le musiche sono
straordinariamente ritmate, a rimarcare i pochi istanti di movimento della vita
39
lenta e noiosa del protagonista ma, fate attenzione, non vi è una colonna sonora
finale che accompagna i titoli di coda. Forse perché lo straordinario regista de Le
conseguenze dell'amore ha capito quanto la quiete sia importante, anzi
irrinunciabile, per godere appieno di un'opera d'arte. Oppure semplicemente
perché non c'è una colonna sonora in grado di colpire lo spettatore meglio della
mancanza assoluta di suono. E poi diciamola tutta: un film inconsueto e
bellissimo come questo, tutto costruito sull'introspezione di un uomo fragile le cui
paure sono un pò quelle che attanagliano tutti noi, può tranquillamente
concludersi senza musica e farsi ricordare per tutto il resto.
Per la prima volta mi è capitato di assistere a due spettacoli in una volta sola: le
circa quindici persone presenti in sala (parlo di 3 anni fa), hanno mantenuto per
tutta la durata del film un totale religioso silenzio ascoltando e guardando lo
schermo senza mai commentare o bisbigliare. E poi il film; l'atmosfera che questa
storia racchiude e trasmette con la sua vivace e stuzzicante anormalità è quanto di
più stimolante si possa trovare in giro per un appassionato di cinema. Titta Di
Girolamo ha cinquant' anni, vive da otto anni in un albergo di una cittadina del
Canton Ticino lontano dalla famiglia, apparentemente facoltoso ma senza alcuna
esibizione di ricchezza. È un uomo che nasconde un segreto che emergerà a poco
a poco anche grazie al progressivo innamoramento per la ragazza del bar
dell'hotel.
40
3.4 La mafia
“Che cosa compromette l'ovattata, monotona, glaciale esistenza da esule di lusso
del nostro segaligno amministratore”58? L'amore per la barista (Olivia Magnani)
dell'albergo (in realtà di Treviso) dove è girato quasi tutto il film. “Amore come
riscatto, dopo una vita sotto ricatto, perché l'esilio ticinese è cominciato per un
investimento sbagliato di denaro sporco, ingenuità di quando era un giovane
commercialista di Salerno”59, e termina con la sua morte, nel cemento a presa
rapida. Qual è il momento cruciale, in cui Titta perde la sua partita?
Probabilmente è il momento in cui, ironia della sorte, scopre il trucco di Carlo,
che ad assopigliatutto, vince regolarmente. “Ho smesso di perdere”. Dice Titta ai
due anziani coniugi, suoi sfidanti a carte. E’ da quel momento che il Titta
monotono ha un sussulto, come quando ha il coraggio di andare a parlare,
finalmente, con la barista. Sembra una riscossa per l’apatico commercialista, ma
in realtà è l’inizio della sconfitta finale.
Difatti, proprio al suo ritorno in camera, dopo aver dialogato per la prima volta in
due anni con Sofia, trova i due mafiosi che lo stanno aspettando. E’ fin troppo
evidente il sorriso che si spegne dal viso di Titta. Saranno proprio i due mafiosi a
rubargli la valigia contenente 9 milioni di euro, da cui scaturiranno i suoi guai.
“Non che l'immaginazione sia indispensabile per fare il commercialista. Ma a un
commercialista che da otto anni vive solo recluso in un hotel svizzero seguendo
rituali immutabili, un poco di immaginazione non farebbe male”60. E
quell’immaginazione di cui parla in apertura del film, lui la trova. Non si perde
58
Maurizio Cabona, Il Giornale, 24 settembre 2004.
Ibidem
60
Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 24 settembre 2004.
59
41
d’animo, appena sottrattagli la valigia, esce dalla camera, blocca l’ascensore e
scende nel garage, dove verosimilmente sono diretti i due mafiosi.
Entra in macchina e li aspetta lì. Quando arrivano, ignari della sua presenza, li
sorprende, uccidendoli. Il montaggio parallelo, viene appunto alternato al suo
viaggio di non ritorno, verso la cava, dove sarà “seppellito” nel cemento. Mentre
il flash-back ci fa vedere che Titta è riuscito a recuperare la valigia, il presente dei
fatti ci conduce alla fine. Io ho notato un montaggio simile in Rocco e i suoi
Fratelli, di Luchino Visconti. In quell’occasione, il montaggio parallelo ci fa
vedere, da una parte Simone che uccide Nadia, la sua ex ragazza, nonché ex
ragazza di suo fratello Rocco e dall’altra parte, il trionfo sul ring dello stesso
Rocco. Morte e successo. E’ possibile un’analogia tra i due film? Io direi di si,
anche considerando il fatto che sia in Le conseguenze dell’amore, sia in Rocco e i
suoi fratelli, il montaggio parallelo avviene alla fine ed è decisivo. “ E’ una delle
più tipiche scene madri di Visconti. Tutti gli elementi sono estremizzati ed in essi
confluiscono, sovrapponendosi, eterogenee fonti teatrali e letterarie.”61
4.4 Gli uomini d’affari
Le partite a carte “in famiglia”, i pedinamenti amorosi di una ragazza un pò troppo
nelle nuvole e le rese dei conti mafioso. “In posizione eccentrica eppure nodale la
camera oscura di Titta che i rituali funerei (la scelta maniacale degli abiti con cura
sul letto, l'iniezione di droga, la Tv spenta che nasconde la pistola, l'insonnia, il
fenondoscopio appoggiato alla porta dei vicini) connotano come una sorta di bara:
non a caso quando Sofia ne violerà il segreto, entrando mentre ancora il laccio la
61
Alessandro Bencivenni, Luchino Visconti, Editrice Il Castoro, Milano, 1999, pag. 50.
42
siringa appoggiati sul letto, dovrà condividere con Titta, e seppellire in quel sito,
l'intera verità”62. Il film infatti doveva iniziare con la scena tagliata del funerale: il
funerale sarà solo “visto” da Titta attraverso la vetrata dell’Hotel. “Le
conseguenze dell’amore, è figlio dell’altro film L’Uomo in più”63 dichiara
l’autore che girando per i vari Festival promuovendo il suo primo film, era solito
frequentare molti alberghi. “Negli hotel mi hanno colpito questi uomini d’affari: li
ritrovavo a Stoccolma come in Brasile. Gente in giacca e cravatta, quando fuori
c’erano 40° e la gente è allo sbando.”64 Uomini profondamente misteriosi, come
lo testimonia la scena in cui alla domanda dell’altro uomo d’affari presente
nell’albergo, su che tipo di lavoro facesse Titta, lui gli risponde: “Lavoro per una
grossa società di intermediazione finanziaria”. “Caspita… e qual’è?” Chiede
l’altro. “La Moulinex”. Risponde Titta. Il tizio avverte nelle parole del suo
corrispondente qualcosa che non quadra: “Lei mi sta dicendo una bugia: la
Moulinex per quanto ne so, produce frullatori. Andiamo… lei non mi sta dicendo
la verità”. A questo punto infastidito dalla presenza dell’altro Titta, risponde quasi
seccato: “La verità, amico mio, è noiosa”.
Sorrentino ha messo appositamente questa scena, benché non sia importante
nell’economia del film, proprio in virtù di quello che ha vissuto ed ha visto negli
alberghi di mezzo mondo.“ Il film nasce dal desiderio di scavare nella vita di
questi uomini, di una di queste apparizioni temporanee e fugaci che io vedevo ai
bar degli hotel. Quando mi raccontavano delle storie, li trovavo molto ambigui.
Potevano essere dei tranquilli padri di famiglia di passaggio, oppure, ipotesi più
62
Adelina Preziosi, Segnocinema, 2004, n.130, pag. 44.
Paolo Sorrentino nei “Contenuti speciali” del dvd de Le conseguenze dell’amore, cit.
64
Paolo Sorrentino, Le conseguenze dell’amore, Fandango, Bologna, 2006, pag. 31.
63
43
mostruose, dei maniaci di prostitute minorenni”65.Vorrei citare una frase di Mario
Sesti che sintetizza meravigliosamente il film: “La nostra vita è una continua
navigazione a vista, tra l’eccesso di una attenzione degli altri che non desideriamo
e la crudeltà della loro indifferenza, tra il disinteresse che nutriamo per essi ed il
folle bisogno dell’amore di quei pochi, di cui non possiamo fare a meno”66.
65
66
Ibidem
Mario Sesti, nei “Contenuti Speciali” del dvd de Le conseguenze dell’amore, Fandango, 2006.
44
CAPITOLO IV
L’AMICO DI FAMIGLIA
4.1 Il disfacimento dei sentimenti
Un uomo vecchio, sporco, sordido e sgradevole, è il protagonista de L'amico di
famiglia. Come ne Le conseguenze dell’amore si parla di un uomo solo e infelice
che si perde per amore di una ragazza molto giovane. Mentre il precedente film
aveva uno stile asciutto, sobrio, controllato, il film attuale ha uno stile barocco,
enfatico, gonfio. Questa differenza incoraggia il sospetto di un artificio formale
separato dal resto. “L'amico di famiglia, molto curato nel linguaggio e poco
importante come soggetto, denuncia una certa presunzione e una forte ambizione
(è un pregio) che si spera di vedere soddisfatta”67.
Il film “inizia dove Le conseguenze dell’amore finiva, con una persona sepolta
fino al collo (là Titta di Girolamo immerso in una vasca di cemento, qui una suora
insabbiata)”68. Il regista ha detto che “non ama la bellezza convenzionale, ma
preferisce la bruttezza più umana, la sofferenza, la povertà che rendono cattivi”69.
Del resto anche i bambini amano i loro giocattoli mostruosi. Presentato al Festival
di Cannes, il film ha ottenuto una accoglienza tiepida. “La versione oggi nelle
sale differisce, soprattutto nel finale, da quella presentata a Cannes. Dobbiamo
sottolineare l'intelligenza di un regista che con umiltà si interroga fino all'ultimo
sul suo film e, forse accogliendo talune critiche rivolte alla sceneggiatura, ci mette
67
Lietta Tornabuoni, “Quell’amico un po’ presuntuoso”, La Stampa, 26 maggio 2006.
Maria Rosato, “Le conseguenze del cinema italiano”, su: www.glispietati/lamicodifamiglia.htm.
69
Alessandra Levatesi, La Stampa, 10 novembre 2006.
68
45
mano, migliorandolo di molto”70. Il regista racconta che si è ispirato a un fatto che
ha vissuto in prima persona. Durante un viaggio in Siberia, si trovava in un
autobus con trentotto di febbre. “L’autobus si è fermato nella tundra e una madre
anziana, con il figlio anch’esso anziano sono scesi per andare a fare una
passeggiata. Al loro ritorno nel pullman lui si è messo a parlare con un’altra
gitante. La madre, offesa, si è chiusa in un tetro risentimento: una mummia gelosa
e densa di rabbia. Stava pensando, ne sono sicuro, di aver perso in un solo colpo il
figlio ed il fidanzato”71. L’amico di famiglia parla per l’appunto di una madre e di
un figlio inseparabili, nella promiscuità della loro lercia casa. “Filo rosso che lo
lega a film precedenti, è la ricerca epica di un riscatto, che in questa società può
avvenire soltanto uccidendo o lasciandosi morire”72.
Sia Titta che Geremia, accomunati anche dal nome declinato al femminile, hanno
la predilezione per gli aforismi. Celebri già le frasi pleonastiche del vecchio
usuraio : “Lo svezzamento è l’anticamera del ristorante” e ancor di più quella
citata dal Reader’s Digest quando finge preoccupazione per i suoi clienti: “Il mio
ultimo pensiero sarà per voi”. Geremia è vittima e carnefice, sempre infelice.
“Miserabile e misogino, vive una relazione al limite dell’incesto con la madre in
un appartamento che trasuda corruzione come i suoi due abitanti”73. “Sporco,
vestito quasi di stracci, con un braccio ingessato mentre con l'altro regge sempre
un sacchetto da barbone, amico di famiglia con tutti, in realtà nemico di ciascuno,
anche di una specie di socio da cui, alla fine, verrà ricambiato con un fosco
70
Dario Zonta,” Cinema di oggi” L'Unità, 10 novembre 2006.
Paolo Sorrentino, dichiarazione su Una distanza estranea. Il cinema di Emanuele Crialese,
Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, (a cura di) L. Ceretto R. Chiesi, cit., pag. 72.
72
G. Sorrentino, ”Paolo Sorrentino: il regista in più”, L’acchiappafilm, cit., pp. 26-27.
73
Alberto Morsiani, Una distanza estranea. Il cinema di Emanuele Crialese, Matteo Garrone e
Paolo Sorrentino, ( cura di) L. Ceretto, R. Chiesi, cit., pag. 42.
71
46
tradimento”74. “Bestia cerca Bella per realizzare mito”75. Come non amarlo?
Infatti anche la Bella (Laura Chiatti) matura per lui, che egli ha costretto al
compromesso - proprio per anticipare le spese del suo matrimonio – “un orrore
sconfinante nell'amore”76.
“Se la Bella, che gli si era concessa una volta (per denaro), gli si darà ancora (per
sempre?), sarà perché innamorata o per aver colto, nella propria umiliazione, una
forma più intensa di piacere, quello cosi femminile di darsi a chi repelle?”77.
“È un film sul Male, e del resto è dai tempi di Shakespeare (Shylock, appunto)
che gli strozzini incarnano efficacemente la parte peggiore dell'uomo”78. Geremia
ci fa balenare davanti agli occhi tutto l'orrore che si può nascondere dietro il trantran della vita di provincia. È il secondo usuraio schifoso in questa stagione del
cinema italiano (il primo era il tremendo Sergio Rubini de La Terra, e qualcosa
vorrà pur dire. “Si delinea il ritratto d'un paese allo sbando, simile a quello
74
Gian Luigi Rondi, Il Tempo, 13 novembre 2006.
Maurizio Cabona, Il Giornale, 10 novembre 2006
76
Alberto Crespi, “Bella cerca bestia”, L'Unità , 26 maggio 2006.
77
Maurizio Cabona, Il Giornale, 10 novembre 2006.
78
Marco Luceri, “Corpi”, su: www.drammaturgia.it/recensioni/segnalazioni.php.
75
47
profetizzato da Fellini ne La voce della luna”79. Ma Geremia è anche una vittima,
perché è circondato da gente che può essere persino peggiore di lui. Giacomo
Rizzo, caratterista e attore teatrale che esordi in Operazione San Gennaro, lo
interpreta in modo a dir poco eroico: “è una performance perfida e meravigliosa
come quella di Ernesto Mahieux nel L'Imbalsamatore di Garrone, film del quale
L'amico di famiglia ricorda certe atmosfere quasi “alla Lynch”, Fabrizio
Bentivoglio fa il cowboy: ma lui, con quella faccia e quei riccioli grigi, può fare
ciò che vuole”80. Geremia è un sarto che mangia gianduiotti senza offrirne mai
uno, che gira con una busta di plastica raccogliendo monete e rubando nei
supermercati. “Paolo Sorrentino ha sempre mostrato di voler privilegiare dei
personaggi negativi, pronti a respingere qualunque simpatia”81.
Il film si apre con “una bella pallavolista in calzoncini salta per colpire la palla,
quindi cade al suolo sorridendo e contorcendosi, lentamente, voluttuosamente,
fino a dare a quel colpo vincente una connotazione quasi sessuale”82. E'
l'immagine che chiude i bei titoli di testa de L 'Amico di famiglia di Paolo
Sorrentino e che incarna uno dei due poli intorno a cui ruota il film: da una parte
la bellezza e il desiderio, dall’altra la mostruosità e la solitudine. Il regista “scava
tra le pieghe di una società che ha stravolto la scala dei valori morali”83. Prima
della pallavolista infatti è apparso un naso gigantesco, poi il volto di una suora
coperta dalla sabbia fino al collo. “Una suora sepolta su una spiaggia non è un bei
segnale, ma un paese in cui perfino le suore vanno dagli strozzini è anche peggio.
79
www.italica.it/sorrentinopaolo/lamicodifamiglia.htm.
Alberto Crespi, “Bella cerca bestia”, L'Unità , 26 maggio 2006.
81
Gian Luigi Rondi, Il Tempo, 13 novembre 2006.
82
Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 26 maggio 2006.
83
www.blogbuster.it/cinemaemusica.htm.
80
48
Il mondo surreale ma non troppo di Sorrentino è fatto cosi”.84 Tocchiamo perciò il
tema del sogno che si ripete durante tutto il film. Geremia esonerato dalla
schermaglia amorosa, per via della sua bruttezza, si rifugia nel sogno per
immaginare ciò che egli non può permettersi. Come non accostarlo, allora, a due
registi che il regista stesso indica importanti per il suo sviluppo cinematografico.
Luis Bunuel e Federico Fellini. “Sorrentino, non a caso, nelle dichiarazioni dal
festival di Cannes tira fuori come riferimento Federico Fellini ed Amarcord “85.
“Bunuel , - scrive Riccardo Dalle Luche – ha identificato l’immaginazione col
sogno e fatto interamente del suo cinema una trasposizione nella veglia della
dimensione
onirica”86.
In
Quell’oscuro
oggetto
del
desiderio
rimane
incomprensibile la linea di demarcazione tra la realtà ed il sogno, in cui due
donne, interpretano una sola parte femminile; a volte l’una a volte l’altra si
trovano in scena, ma entrambe interpretando lo stesso personaggio.
Anche nella scena d’apertura de L’amico di famiglia, la sequenza non dissipa il
dubbio se si tratta di realtà o sogno. “Stiamo spiando una partita di volley, dietro
le tende veneziane di una finestra. Forse in sogno: la partita si svolge, ancora al
ralenti, tra panni bianchi, stesi ad asciugare. Geremia (bambino?) spia dal ventre
materno una sessualità irraggiungibile, la bellezza di corpi femminili alti e sudati,
atletici e in salto”87.
La faccia “picassiana” di Geremia osserva il gioco. Ha la testa stretta da una fascia
di lino colma di fette di patate crude, antico rimedio contro il mal di testa.
84
L. Tornabuoni, “Quell’amico un po’ presuntuoso”, La stampa, cit., 26 maggio 2006.
www.revision.it/cinema/lamicodifamiglia.htm.
86
Riccardo dalle Luche,” La vida es sueno”, Eidos, cinema psiche ed arti visive”, n. 4, novembre
2005/febbraio 2006, pag. 35.
87
Luca Barnabé, Duellanti, novembre 2006.
85
49
Nell'intimità che l'uomo ha con Amanda, l'amica grassa, viene ricostruito
pateticamente quel gioco. Ci sono vecchi palloni da volley appesi al soffitto:
Geremia dice alla donna di colpirli in un ralenti immaginario. Le carni flaccide di
Amanda eseguono. Simulano, sgraziate, i movimenti dei corpi giovani e sodi già
visti. La madre di Geremia è nella stanza accanto e sente tutto.
Più tardi nell'unica sequenza in cui vediamo Geremia fare davvero sesso sopra a
una donna, accade che una delle patate della sua fascia cade sul volto della
ragazza, che lui tenta goffamente di amare. Le patate cadono sul bei viso di Laura
Chiatti. Lei si ferma. Dice che il braccio ingessato di lui le fa male. La verità è
un'altra. Stanno simulando qualcosa che non ha regole. Geremia 'cuore d'oro' può
simulare un gioco erotico, oppure affetto verso i 'clienti', può diventare assurdo
'amico di famiglia ', può fingere di essere un boss (ma il suo nome d'arte, nel
gioco delle truffe, è già presagio di sconfitta, a dispetto di quello del suo unico,
quasi invisibile, competitor: “il pirata”. Quando prova a giocare all'amore perde.
Non sa più bluffare, la situazione gli sfugge. Non è lui che può tenersi l'asso nella
manica. L'amore lo “frega” perché non ha regole. “Rizzo davvero vi striscia come
un vile Nosferatu, lavorando sulle parole, i gesti e le espressioni con una
raffinatezza tragicomica che evoca gli eterni leitmotiv”88.
Intorno al tema dell’usura, si muovono con elegante sincronia, un povero padre
che deve sposare una figlia troppo bella, ma anche troppo spregiudicata, un
bastardo che vuole comprare dei titoli nobiliari, una vecchia malata che gioca la
sua vita alla roulette del bingo. La vita appesa a un numero, o a un colore. Il rosso
o il nero. E poi un giovane imprenditore che vuole costruire migliaia di bagni e un
88
V. Caprara, Il Mattino, cit., 26 maggio 2006.
50
vecchio cowboy (un Fabrizio Bentivoglio dal curioso accento veneto) dal passato
oscuro che sogna di andare in Tennessee, perché “è lontano”. Ma l’uomo da un
milione di dollari resta sempre lui, Geremia, che si aggira tra le spettrali strade di
una Latina metafisica, “piacentiniana”, alienante palcoscenico per figure oscure e
miserevoli, tra concorsi come Miss Agro Pontino, improbabili locali di country
music e rigurgiti del ventennio.
In questo scenario in cui interni e esterni si confondono, si compenetrano grazie
alla fotografia del superlativo (ancora una volta) Luca Bigazzi. “Il paesaggio,
urbano e non, ha lo stesso ruolo che spesso detiene nei film di Ciprì e Maresco
(anche essi, nemmeno a farlo apposta, hanno una proficua collaborazione con
Bigazzi)”89. Sono i corpi che si disfano i veri protagonisti del film. Fisici
incancreniti, cadaveri ambulanti, in cui la pesantezza del fisico diventa metafora
esterna di una morte interiore. Senza più gioia, senza un barlume di dignità, tutti i
personaggi vivono la putrefazione della loro carne, trasformandosi, appunto, in
“mostri, imperscrutabili figure di una degenerazione collettiva, di una miseria
morale che diventa il cancro di una città, di una provincia, di un tempo che
sembra immobile e stanco”90.
Geremia è in realtà il volto di tutti loro, il corpo di un’intera comunità e in questo
si avvicina alle tante figure di corpi anomali o pesantemente segnati che popolano
il nostro cinema di oggi (una tendenza iniziata con Ciprì e Maresco, proseguita
con la Torre, fino ai "mostri" de L’imbalsamatore, di Primo amore, di Arrivederci
amore ciao, de La sconosciuta): egli lo sa benissimo, e lo ribadisce in quella che è
forse la scena memorabile del film. Chiuso dentro l’oscura e sudicia stanza della
89
90
www.indieforbunnies.it/lamicodifamiglia.htm.
www.italica.it/sorrentinopaolo/lamicodifamiglia.htm.
51
sua casa, egli guarda una vecchia e grassa prostituta da quattro soldi costretta a
mimare con la sua flaccida pesantezza il gioco della pallavolo, quello che Geremia
guarda ogni giorno dalla sua finestra, quello fatto da tante giovani e belle ragazze
che a lui non apparterranno mai. Due mondi che vivono la distanza di una rampa
di scale, una distanza profonda come un abisso.
Non c’è posto nel film di Sorrentino per l’innocenza e la gioventù “io non sono né
vergine, né bambina” dice la giovane promessa sposa al padre seduto su un cesso,
se non come fantasma che condanna tutti alla legge del desiderio più sfrenato e
incontrollabile. Ma anche i desideri si comprano. Come il corpo di Rossana, che
imputridendo dentro conserva fuori la dolce bellezza di una condanna inaspettata.
Il topo di fogna trova la sua preda, ma la sua preda, beffardamente, prepara il
castigo. «Il mio ultimo pensiero sarà per te» recita la nenia funebre per i
condannati. Ma stavolta sembra alla rovescia.
4.2 Il dramma con ironia
Sorrentino ci regala dunque un ritratto spietato della provincia italiana annus
domini 2006. E c’è poco da stare allegri, se non fosse per quello stile a suo modo
inconfondibile, quella sua maniera divertente di usare tutti i trucchi del mestiere:
le sue inquadrature ricercate e pittoriche, i suoi virtuosi movimenti di macchina
verticali, le sue battute taglienti e definitive, la sua musica incalzante, dalla techno
alle malinconie del blues e del country, i suoi luoghi perennemente fuori posto, i
suoi toni surreali e grotteschi, le sue scenografie decadenti, i suoi personaggi
giganteschi. Attrazioni insomma, maniera allo stato puro. Ma resta il tratto
essenziale, che è poi quello che conta veramente, di una regia a suo modo unica e
52
originale nel panorama del cinema italiano di oggi. “Uno stile che è un’aperta
dichiarazione d’intenti, una staffilata crudele al falso costume di un’ Italia triste e
ripiegata su se stessa”91. Come anche Roberto Nepoti scrive : “Sorrentino mostra
di possedere uno stile originale e riconoscibile; accurata la composizione
dell’immagine, attenzione ai dettagli della scenografia”.92
La scena che chiude il film, in cui Geremia parla ad un padre dimenticato come se
parlasse a se stesso è la traccia più evidente di questo smarrimento. "Noi siamo
stati dalla parte dei cattivi perché dall’altra parte non c’era posto" sibila il vecchio
usuraio immergendo la testa nell’acqua di una fontana. E’ il nuovo battesimo.
Quello che non redime. Quello che non lava proprio niente. Quello di chi le colpe,
in fondo, non le vuole rinnegare. Perché ci vorrebbe troppo coraggio. E’ per
questo che "Non bisogna mai confondere l’insolito con l’impossibile".93
Sorrentino non ama le storie lineari. L'amico di famiglia parte in modo
impressionistico (la sequenza dei titoli è un'ouverture che annuncia, per flash
misteriosi, tutti i temi del film) e procede per frammenti che spesso sembrano
puro surrealismo, salvo poi rivelarsi funzionali alla trama - ma a volte tocca
aspettare minuti, e stare molto attenti. “È un film balenante, che sorprende di
continuo e scoperchia buchi fetidi della realtà in cui non vorremmo curiosare.”94
Di una cosa si può subito dare atto a Sorrentino, che “non ha paura di scontentare
91
M. Luceri, “Corpi”, cit., su: www.drammaturgia.it/recensioni/segnalazioni.php
Roberto Nepoti . La meglio gioventù Nuovo Cinema Italiano 2000-2006, (a cura di) Vito
Zagarrio, cit., pag.78.
93
E’ la frase di promozione che ritroviamo sul manifesto del film.
94
A. Crespi, “Bella cerca bestia”, L'Unità , cit., 26 maggio 2006.
92
53
il pubblico, né mai tenta di accattivarselo, dimostrando il coraggio di puntare al
cattivo gusto pur di incanalare il film secondo i suoi propositi artistici”95.
Non risparmiandoci nemmeno i più piccoli dettagli volti a umiliarlo e facendo
procedere l'azione a gradi, per sottolineare con precise indicazioni tutte le
abiezioni del personaggio , Sorrentino rimane sempre vicino con la macchina da
presa a Geremia, “avvolgendolo in luci scure e soffocanti evocandogli attorno
delle figure senza mai spiragli. Con un linguaggio che, anche negli esterni, ricerca
l'oppressione”.96
“La verità offende”97. Perciò il grosso pubblico difficilmente amerà L'amico di
famiglia, come non l'amerà la grossa critica, che, nell’ ideologia di Sorrentino,
avverte qualcosa di estraneo. “Paolo Sorrentino è solito presentarsi con colonne
sonore di sorprendente intensità e qualità, nelle musiche originali”.98 In questo suo
terzo film non delude. La colonna sonora appare di rilevanza, svariando dalla
tecnho alla melodia classica. Lui stesso afferma “In genere guardo molto il cinema
italiano e sposso mi colpisce per l’approssimazione nella scelta delle musiche. Io
ho deciso di dedicare molto tempo alla selezione dei brani che formano la colonna
sonora.”99 “Cantore della dignità degli sconfitti e della fantasia degli oppressori,
Sorrentino sceglie ancora una volta dei personaggi mirabolanti quanto
marginali”.100 E lo dice lui stesso nell’intervista alla stampa avvenuta appena
finite le riprese : “Credo che questa sia prima di tutto la missione del cinema, il
regno dell’eccezionale e che si dovrebbero raccontare anche le storie degli
95
www.indieforbunnies.it/lamicodifamigli.htm.
Gian Luigi Rondi,”L’usuraio buono”, Il Tempo, 13 novembre 2006.
97
Maurizio Cabona, Il Giornale, 26 maggio 2006.
98
Gabriele Spila, Vivilcinema, settembre 2006.
99
Paolo Sorrentino, intervista (a cura di) L. Ceretto, R. Chiesi, Una distanza estranea. Il cinema di
Emanuele Crialese, Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, cit., pag. 46.
100
Gianni Sorrentino, “Paolo Sorrentino: il regista in più”, L’acchiappafilm, cit., pp. 26-27.
96
54
emarginati o degli asociali. I santi lasciamoli alla televisione.”101 Un autore
completo, il trentasettenne regista napoletano, che riesce a coniugare alla meglio
contenuto e forma. “Alla vena comica che regala momenti di vera ilarità, a una
sperimentazione sul colore, le inquadrature e il montaggio che pochi autori italiani
osano”.102 Nei film precedenti, Paolo Sorrentino ricorreva sempre al gioco: quello
del calcio nell' Uomo in più, quello delle carte (assopigliatutto) ne Le conseguenze
dell'amore. Qui, sempre nei lunghi titoli di testa, intravediamo il corpo di
un'atleta. Prima ci sono inquadrature di dettagli del suo corpo semisvestito.
La versione di Cannes de L'amico di famiglia era diversa: più lunga, con meno
musica (le musiche originali sono di Teho Teardo) e con un finale diverso. C'era
molta più morte nei sottofinali. C'era anche una semimorte di Geremia, ucciso da
uno dei tanti sfruttati. E un funerale che pareva il suo. La nuova versione asciuga
molte pieghe oscure: toglie sangue, qualche frammento di nudo (il seno della
Chiatti 'molestato' più volte da Geremia), lascia un film barocco, onirico, sogno
del brutto, di vite sporcate.
Il nuovo finale, invece, inquietantemente realistico, non lascia speranza: il gioco
assurdo è finito e il 'brutto' Geremia De Geremei ha perso. Il suo sangue o la sua
morte sarebbero una via di fuga troppo comoda. Resta intrappolato nel corpo
sgraziato e in quel nome assurdo “frivolo” direbbe Titta. “Non resta nemmeno più
la patetica illusione dell'inizio della storia -siamo malati, Amanda, ma siamo
101
Paolo Sorrentino, intervista finite le riprese del film, riportata su: Una distanza estranea. Il
cinema di Emanuele Crialese, Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, (a cura di) L. Ceretto, R.
Chiesi cit., pag. 46.
102
Angela Prudenzi, “Geremia cuore d’oro”, Rivista del Cinematografo, n. 11, novembre 2006,
pag. 64.
55
bellissimi- . Geremia cuore d'oro, immerge la faccia nella fontana dì una piazza:
stavolta simula un suicidio o una resurrezione”?103
“Il congegno melodrammatico, incentrato sull'insorgere inaspettato di un
sentimento amoroso dentro un quadro di riferimento a dir poco disfunzionale e
orrorifico, è per Sorrentino un pretesto”104. L'amore, genericamente inteso come
passione dei sensi e riscoperta dell'incauto bisogno di libertà incondizionata, già
ne Le conseguenze dell'amore, prefigurando l'impostazione de L'amico di
famiglia, serviva a guastare il fragile equiìibrio. Determinando la fuoriuscita del
sé. Anche se a pagarne il prezzo maggiore non era l’uomo (ancora un volta in là
con gli anni) sempre interpretato da Toni Servillo), la cui improvvisa persuasione
si traduceva in una tragica e convinta .sfida a quel mondo cui aveva prestato la sua
professionalità ma non la sua persona, estraniandosi, alienandosi intimamente.
Scegliendo cioè la non-condivisione, mediante un atteggiamento di impassibilità
che lo metteva al riparo dalla passività (e, implicitamente, anche dalla passione).
A pagarne maggiormente lo scotto, con un incidente dovuto all'automobile
ricevuta in dono (frutto della transazione criminosa), era la ragazza. La ragazza
che emblematicamente coniugava l'elemento femminile e quello giovanile.
“I vecchi e i giovani, il bello e il brutto, il maschile e il femminile, la legalità e
l'illegalità, il lecito e l'illecito, il perbenismo e l'indecenza nell'universo visivo (e
visionario) di Sorrentino sono destinati a confrontarsi, a scontrarsi, a
contaminarsi vicendevolmente”105.
103
L. Barnabé, Duellanti, cit., 13 novembre 2006.
Anton Giulio Mancino, “L’amore al tempo dell’orrore”, Cineforum, novembre 2006, n. 459,
pag. 20.
105
Ibidem
104
56
4.3 La rivincita dei brutti
“L’amico di famiglia presenta un personaggio assai malsano, un usuraio che nella
sua scarsa grazia ricorda le deformazioni shakespeariane di un Riccardo III”.106
Geremia, il protagonista, all’apparenza è un anziano sarto dall’aspetto grottesco,
sgradevole e sporco, incapace di trovare moglie neppure affidandosi ad
un’agenzia matrimoniale e costretto a vivere in uno squallido appartamento con
una madre inferma e morbosa”107 E’ un usuraio, ma non ha nulla di terribile, si
presenta anzi come un benefattore o un amico dì famiglia e tratta i clienti con
soavità ironica. “Attore infinito, marionetta carnale, veramente capace di tutto
proveniente dal Decameron pasoliniano e poi transitato nel filone boccaccesco
della commedia italiana di serie B (grandissima!) con Edwige Fenech, e con
Mario Merola in Zappatore”108.
“I personaggi sono antieroi, mostruosi o almeno brutti, così brutti e deformi da
provocare immediatamente la repulsione, ma anche l'attrazione”109. “Non sono più
quelli grotteschi e in fondo benevoli di una volta (vedi I mostri di Dino Risi), ne
quelli sempre più brutti, sporchi e cattivi generati dalla commedia all'italiana in
fase terminale, ma figuri laidi, ripugnanti, spesso deformi o attratti dal
deforme”110. Una vecchia palandrana sbrindellata, un braccio sempre ingessato,
talvolta
una
bandana
che
copre
i
radi
capelli,
l'unghia
del mignolo lunga come si usava una volta, modi fintamente affabili e untuosi:
l'usuraio Geremia con la sua figura ripugnante non potrebbe fare altro mestiere.
106
www.indieforbunnies.it/lamicodifamigli.htm.
Ibidem
108
www.revision.it/cinema/lamicodiFamiglia.htm.
109
Ibidem
110
F. Ferzetti, Il Messaggero, cit., 26 maggio 2006.
107
57
Sorrentino riabilita il brutto; il bello appare quindi come qualcosa di vuoto, un
involucro con dentro niente. Basta alla dittatura del bello, oserei dire, che vediamo
capeggiare nella nostra società, grazie ai mass-media. Anche Brunetta, coglie
questo aspetto parlando per l’appunto dei nuovi mostri che i vari Gassman, Sordi
hanno portato sugli schermi. “E’ vero che nel loro gioco delle maschere, in
apparenza illimitato, prevalgono i ritratti al negativo, la mimesi raggiunge il suo
apice, nel far emergere gli aspetti più truci, di inettitudine, di opportunismo dei
personaggi, ma è anche vero che la scelta di passaggio di livello, dal comico al
tragico, o all’eroicomico, consente ai protagonisti di vivere il loro minuto da
leoni, [..] e di affermare una dignità proprio quando sembrerebbero aver dato via
libera a tutti i peggiori aspette del carattere nazionale.”111
Accanto al protagonista, troviamo gli altri personaggi; una madre sfatta e
rantolante tra le sudice lenzuola, l'amico grossolano cowboy da fiera paesana, una
ninfetta che disprezza se stessa e il proprio nucleo familiare, finanzieri da
avanspettacolo perfettamente in tono con l'assurdità di un tipico non-luogo
contemporaneo. In un campo dove i cavalli corrono al ralenti, vediamo per la
prima volta uno dei personaggi chiave del film: Gino-Fabrizio Bentivoglio. Il suo
profilo country è ritagliato sulle dolci note soul di My Lady Story di Antony and
Thè Johnsons. Cappello da texano, giacca con le frange alla Buffalo Bill, stivali
con la punta piantati nel fango. E' il bello del film. Parla con cadenza veneta, vive
in una vecchia roulotte ed è amico del brutto Geremia .
Nella frase che chiude il trailer, Gino ingenuamente, come fa un bambino
all’amico più grande di lui, chiede: “Geremia, siamo amici noi?” E Geremia
111
G.P. Brunetta, Cent’anni di cinema italiano 2- Dal 1945 ad oggi. cit., pag. 291.
58
risponde:“E' un'eventualità alla quale non avevo mai pensato” . Gino sembra
sempre pendere dalle labbra del suo capo, ma alla fine sarà proprio lui a tradirlo.
Guarda caso il bello. Sembra proprio che Sorrentino ce l’abbia con i belli. Anche
a giudicare dal fatto che l’altra cattiva del film, è la bellissima Laura Chiatti.
Rossana trasforma l'amore, che per Geremia è un fine (se non addirittura la fine,
l'anticamera della morte e dell'umiliazione estrema), in un mezzo. Il suo corpo
giovane è un mezzo. Le manca tuttavia un fine, perché è insofferente di tutto: del
ragazzo che ha sposato, dei genitori che si sono indebitali onde poter ostentare un
matrimonio convenzionale ( sebbene arrangiato e triste nella sua modestia rientra
nelle convenzioni), delle prostazioni sessuali con cui ha sciolto il debito
economico e dunque il vincolo di sangue. Trova sgradevole Geremia fino a
dichiararglielo ripetutamente, ma ci sta perché sente di non essere più nulla.
I giovani o ex-giovani di Sorrentino sono così, a giudicare da L’amico di famiglia:
sono come Rossana: avendo subito un torto, si sono estraniati dalla società, dalla
famiglia e da se stessi. Sono pronti a una indolente ritorsione. Verso un sistema di
cui sono però un ingranaggio. La disumanità distaccata e algida di Rossana
costituisce un passo indietro e non in avanti nella scala evolutiva rispetto alla subumanità di Geremia. Rossana va oltre la propria famiglia, i propri genitori e gli
ingombranti e presunti amici di famiglia. “Una volta svuotatisi, in mancanza di
tradizioni, legami di sangue, ricatti familiari biologicamente e culturalmente
coercitivi, i giovani di Sorrentino, sorretti esclusivamente dalla condizione
anagrafica e fisica momentanea, sono pronti a trasformare l'innocenza perduta in
negatività impietosa.”112
112
Anton Giulio Mancino, “Geremia e l’elogio della gerontologia”, Cineforum. n. 459, dicembre
2006, pag. 21.
59
Geremia (il cui nome rimanda già alla terza età), convinto peraltro della sua
bruttezza, temperata al più da una saggezza domestica e disingannata, e dall'uso
della parola che la veicola e che, a suo parere, la rende affascinante. Con il suo
retaggio parentale, delinquenziale e socioculturale (l'egoismo, l'avidità, il compito
di assistere una madre inferma e puzzolente rappresentano i maggiori
vincoli e punti di riferimento antropologici, arcaici e popolari) si sforza di reagire
alla modernità, alle lusinghe di una corporeità mercificata, ad una volgarità
contestuale, cui peraltro non riuscirà a resistere a lungo.
Eppure, nella sconfitta, è lui l'eroe di un mondo senza ideali, senza remore e senza
neppure l'istinto di sopravvivenza. La capacità, ridicola sì, ma non meno
grandiosa, di rimettersi in pista, tornare a desiderare le donne giovani e il denaro o
i simboli di una ricchezza materiale che comunque non può esibire (perché si
sente impossibilitato a corrispondere ai criteri minimi della bellezza esteriore
imposta dalla società dello spettacolo) fanno di Geremia un individuo resistente:
sebbene sia stato frodato, sebbene sua madre sia morta, sebbene la sua squallida
ma sostanziale sensibilità sia stata ferita, lo si rivede alla fine all'opera,
infaticabile, a recuperare crediti, a raccattare monete e monili nei cespugli o nella
sabbia. Dice Sorrentino :” Ho scritto il film già pensando a Rizzo, per il ruolo di
Geremia. Il film è stato costruito su di lui. E’ stato proprio il suo aspetto fisico, il
suo volto dalla geometria irregolare ad essere perfetto per il ruolo che avevo in
mente”.113
113
Paolo Sorrentino, “Usura, country e l’Agro Pontino”, intervista (a cura di) Franco Montini,
Vivilcinema, n.3, maggio/giugno 2006, pag. 25.
60
4.4 Non confondere l’insolito con l’impossibile
Indubbiamente a Paolo Sorrentino non può essere rimproverata la coerenza. “Il
suo terzo lungometraggio conferma la ferma intenzione di mettere in scena
soggetti dirompenti, irregolari. soprattutto impresentabili. una cornice improbabile
e inadeguata.”114
L’amico di famiglia, alterna momenti di straordinario pathos visionario e affondi
grotteschi all'acido muriatico a numerosi orpelli estetizzanti, passaggi oscuri e
irrisolti. L'aspetto migliore , cioè quello che ne promuove l'interesse sostanziale,
sta “nella sua indescrivibilità, nella sua audace estraneità, nel suo sofferto
andirivieni dall'estremo e dall'onirico al minimalistico e al prosaico.”115
Paolo Sorrentino conferma di essere dotato di un dna artistico fuori standard.
Grazie a Giacomo Rizzo che vi scolpisce un ritratto dalle sublimi tonalità
gogoliane Sorrentino gioca le sue carte fino allo snodo drammaturgico cruciale: la
bellezza dell'anima può annidarsi nei recessi più ripugnanti della carne, mentre
quella della poesia (cinematografica) è condannata a scegliere le soluzioni più
arbitrarie e arrischiate. “L'occhio dilatato della cinepresa non vuole limitarsi a
sbirciare tante brutture, ma si aguzza allo spasimo per filtrare lo sporco come un
mitile e trasformarlo in alimento, garanzia di sopravvivenza, luce di speranza.”
116
Dagli imprevedibili incroci di montaggio alle spiazzanti angolature visuali e ai
dialoghi spesso in contropiede all'azione, affiora, cosi, il senso ultimo di questo
humour tenebroso e disperato: profanazione ed eversione fanno parte
114
Anton Giulio Mancino, “L’amore al tempo dell’orrore”, Cineforum, n. 459, novembre 2006,
pag. 20.
115
V. Caprara, Il Mattino, cit., 26 maggio 2006.
116
Valerio Caprara, Il Mattino , 11 novembre 2006.
61
dell'irriducibile legge demonica della natura, delle forze perpetuamente all'opera
al di sotto e al di là delle convenzioni sociali. Il cinema, per suo conto, non è mai
semplice composizione, è un rito che rimette ordine nella realtà. Ma l'ordine non è
necessariamente giusto, benevolo o bello e può, anzi, risultare infetto, duro,
crudele. Basta il fulmineo primo piano di Geremia profuso d'amore, che lo rende
all'improvviso bellissimo come un eroe hollywoodiano, a far capire allo spettatore
quanto il talento di Paolo Sorrentino gli sia necessario.
"L'amico di famiglia è un film ambizioso, straordinariamente curato dal
punto di vista dei dialoghi e degli sviluppi narrativi, ricercato sotto il profilo
dell'architettura delle inquadrature e della magnificenza della fotografia.”117
4.5 Il rischio di osare
“Quello che ci sembra superfluo è il tentativo di aggiungere sempre qualcosa,
dagli incroci temporali del montaggio alle angolature sghembe, dai dialoghi in
controsenso all'azione agli inizi e finali che sembrano moltiplicarsi in sequenza
esponenziale.”118 C'è qualcosa che impaccia il film, lo fa girare su stesso e lo fa
troppo avvicinare a Le conseguenze dell'amore o, addirittura, all'humour
tenebroso e disperato de L'imbalsamatore di Garrone La miseria umana di
Geremia
non
porta
a
compassione
per
lui.
Rimane
una
bestia,
capace di fremere solo quando guarda giovani ragazze. “Sorrentino ha scelto una
chiave interessante, ma troppo rischiosa. Facile scivolare con un film del genere e
117
118
Angela Prudenzi, Rivista del Cinematografo, novembre 2006.
V. Caprara, Il Mattino, cit., 26 maggio 2006.
62
quando il grottesco si stempera nel banale cominciano le montagne russe di un
racconto che procede per sussulti improvvisi e per derive centrifughe.”119
Il film è stato presentato a Cannes, dove non ha avuto una buona stampa,
soprattutto da parte dei critici stranieri, ai quali l'esperimento un po' ardito e
antinarrativo di Sorrentino deve essere risultato ostico. Come è infatti, perché si
ha l'impressione che il giovane regista abbia preteso molto dal suo L’Amico di
famiglia “dalle sue capacità ancora un pò acerbe e incerte nel dominare una
struttura insolita per un film che vuole essere una sorta di ritratto al vetriolo di un
usuraio, dipinto con un solo colore.”120
119
120
Antonello Batacchio, Il Manifesto, 14 novembre 2006.
Vittorio Attolini, La Gazzetta del Mezzogiorno, 12 novembre 2006.
63
CAPITOLO V
IL MURO DEL PASSATO
5.1 La mia esperienza nel realizzare un film
In effetti raccontare storie attraverso immagini, suoni, parole è l’esperienza più
affascinante che esista. L’inquadratura, la ricerca della prospettiva. La sola
inquadratura parla. Dice mille cose: la posizione degli attori. Venti centimetri più
a destra, cambiano totalmente il significato di quel momento.
Cosa significa fare un film senza soldi? Di base occorre l’ingrediente principale:
l’idea, l’esperienza di qualche anno di prove, di cortometraggi venuti più o meno
bene, di montaggi vari, di riprese fatte con gli amici, giusto per provare la
telecamera e vedere come la puoi spingere. Come una macchina: devi testarla,
devi capire se in curva tiene bene la strada, se col bagnato rimane ben salda sul
fondo stradale. devi capire quando puoi spingere e dove puoi spingere, in quale
condizione. Amici stressati da continue riprese, dai primi piani che evidenziano la
loro incredibile spontaneità , tanto da farmi credere che i migliori attori sono la
gente comune. Pasolini insegna. Ma e’ facile essere attori quando non c’e’ una
parte da recitare.
Io ho una telecamera, la Sony PD 170, una bella telecamera per la televisione,
meno adatta per il cinema, ma settata al meglio , con la giusta illuminazione, dona
un look simile a quello cinematografico. Un aumento del contrasto con il software
di montaggio (indispensabile per le Sony che non hanno la gradazione del nero)
ed ecco fatto. Siamo pronti a fare la nostra parte di piccoli cineasti che vogliono
64
emulare i grandi registi, quelli che mettono dentro un film tante di quelle cose che
a parlarne non basterebbe una settimana. Eccoci qua, con tante idee, tanto studio,
affiancati da una mini troupe a volte interessata, a volte stanca. affiancati da attori
con i loro problemi, con la voglia di fare, con le loro facce strane. eh si, adoro gli
attori con visi particolari. Basta ai belli nel cinema: sono insignificanti. evviva il
brutto, ci verrebbe da dire come dice Sorrentino. Non che siano brutti i miei attori.
tutt’altro. Vedi un po’ Mauro, il bello e dannato del mio film. Vedi Maurizio, con
il suo codino lunghissimo… io nemmeno a 10 anni avevo tutti quei capelli.
La cosa interessante e che nessuno sa, è che io ho iniziato a girare il film, senza
conoscerne il finale. Dirò di più; quando l’ho iniziato a girare, avevo scritto metà
sceneggiatura. La mia è stata una scelta ben precisa, poiché lavorando con persone
che non fanno gli attori di mestiere, avevo paura che qualcuno di essi, potesse
abbandonare, visto l’impegno rilevante, lasciandomi nell’impossibilità di
terminare il lavoro. La mia paura era anche quella di trovarmi degli attori non
all’altezza, per cui, con una sceneggiatura aperta, avrei potuto togliere scene a
quelli meno bravi, per darle a quelli più interessanti. In ogni caso siamo stati
sull’orlo della crisi diverse volte.
Difatti questo stratagemma, finii con il diventare un’arma a doppio taglio: difatti
dovetti fermare le riprese (ad un certo punto), per continuare a scrivere la
sceneggiatura. Non sono l’unico a pensarla così, visto che ho trovato un
documento importante che testimonia che nel film Dogma 95, ci si è comportati
nella stessa maniera. “Tuttavia la sceneggiatura non poteva che essere un ‘work in
progress’ che veniva terminato insieme alle riprese del film, perché essa poteva
lasciare uno spazio importante al caso, che qui può essere gestito in modo
65
completamente diverso.”121 Infatti così facendo, si ha il vantaggio di aggiustare le
scene che verranno, a seconda dello sviluppo del film. Le riprese essendo fatte
cronologicamente, dalla prima scena a seguire, davano la possibilità di montare il
prodotto strada facendo e correggere eventuali errori, magari rigirando una
eventuale scena venuta male. Ma il problema è che le idee non vengono su
richiesta. Se manca l’ispirazione ci si blocca e così a me è successo. Ci furono poi
altri problemi che hanno bloccato e messo in serio dubbio la riuscita finale,
problemi che poi alla fine, sono stati risolti.
Io penso una cosa: un film deve essere bello tutto e se vogliamo essere
anticonformisti, diremo che il finale, deve essere spento, finire come e’ iniziato:
senza sussulti. Diffido dei finali con colpi di scena. mi danno l’impressione come
se il film
quando finisce, finisse la vita. La vita continua. Lentamente,
distrattamente ma continua. Perciò il finale deve essere lieve, con la possibilità di
far immaginare allo spettatore cosa succederà dopo. I protagonisti cosa faranno
una volta finito il film? questo lo spettatore deve chiederselo. il protagonista
continua a vivere, al di fuori del film. nessuno sa cosa farà, ma continua a vivere.
Come noi. viviamo ma nessuno sa cosa facciamo. Tranne gli amici e le persone
che ci stanno vicine. Così loro. Continuano a vivere lontano dagli schermi. un po’
come la vita dopo la morte. si continua a vivere, ma non sotto i riflettori. da
un’altra parte.
121
Marco Dinoi, Girare in digitale, Dino Audino Editore, Roma, 2002.
66
5.2 Cenni critici
Il muro del passato rappresenta cosa c’e’ aldilà della vita; se c’e’ qualcosa. Il
muro del passato quindi, rappresenta la morte. Chi oltrepassa il muro, muore.
“Un film drammatico che dà spazio alla vita di tutti i giorni: un noir che lascia più
vie di fuga, libera interpretazione allo spettatore.”122 L’emblema di tutto il film è
Maddalena Forleo, la donna che amò in gioventù il protagonista Alfredo
Malpighi. Si parla di lei, ma non si vedrà mai in età adulta. Si vede solo da
ragazza, quando con Alfredo bambino si reca al muro, quello che diventerà “il
loro posto segreto”. Maddelena è morta e l’unico modo per rivederla, per Alfredo,
è quello di morire anche lui e sperare che Dio esista e che ci sia una vita
ultraterrena. Ma per un ateo come lui, risulta difficile, credere che un giorno, da
qualche parte, possa rivedere la sua donna. Nel film ci sono continui ritorni.
Ritorna ogni personaggio quando sembra aver finito il suo ciclo e quando sembra
non servire più all’economia del racconto. Ad esempio Denise Rossetti, la ragazza
che si vede in apertura scendendo dal treno e che riappare quasi alla fine del film.
Inaspettato il suo ritorno poiché vedendosi nella scena iniziale e seguendo il film,
un iter tutto diverso, viene dimenticata. Ritorna alla fine del film (ultimissima
scena) il figlio di Alfredo: Sante. Chi se lo aspettava un suo ritorno? Ritorna in
apertura Alfredo stesso, dopo essere stato 20 anni lontano dall’Italia. E’ il passato
che ritorna. Come non sottolineare il momento in cui il protagonista incontra
Marzia e scopre che è sua figlia? E’ lo stesso momento in cui avrà la certezza che
Maddalena è morta. Metafora della vita: gioia e dolore. Trova una figlia, perde per
sempre la donna che ha amato. Il film non chiarirà mai cosa ha fatto Alfredo
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Roberto Falasca, “Il cinema che racconta la vita”, Il corriere dell’Umbria, 16 marzo 2007.
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Malpighi durante la sua assenza. Lascio una porta aperta all’immaginazione. E’
importante non dire tutto allo spettatore. E’ giusto che ci sia la possibilità di
intuire una parte dei significati. Come il finale. Lo lascio aperto. Alfredo riprende
il treno e se ne va . Dove andrà? Tornerà da dove è venuto? A seconda della
propria sensibilità, a seconda dei propri stati d’animo, lo spettatore è giusto che
interpreti soggettivamente il finale. Del resto ognuno in quella situazione avrebbe
reagito in maniera differente. Ritrovando una figlia, c’è chi sarebbe restato.
Accertandosi invece della morta della sua donna lui se ne va di nuovo. Come
biasimarlo? Per quale motivo sarebbe dovuto restare qua? E’ una figlia, che
seppur legata dal sangue, non conosce. Ha avuto la sua vita, a volte sbagliata (vedi
frequentazione della fabbrica dove avvenivano incontri sessuali), ha fatto le sue
esperienze senza un padre vicino. A cosa servirebbe lui, adesso? Casomai la sua
presenza sarebbe stata necessaria per far crescere la ragazza.
Alfredo Malpighi è un uomo solo. Come Titta Di Girolamo. Come Geremia De
Geremei. Come i due Antonio Pisapia. Il cerchio si chiude. Epopea di un tragitto
che mi ha fatto intraprendere un confronto tra il cinema di Sorrentino e quello che
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piacerebbe fare a me, con la speranza, un giorno, di eguagliare, in piccolissima
parte, quello che il regista napoletano è riuscito a fare.
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CONCLUSIONI
Giunto alla fine di questa straordinaria avventura che è stata il corso di Laurea di
Scienze e Tecnologie della Produzione Artistica, voglio ripercorrere tutto quello
che ho vissuto, tutto le paure, le gioie e le soddisfazioni avute in questi tre anni e
mezzo. Tornare a mettersi sui libri, dopo 12 anni che ci si è diplomati è stata
impresa ardua. L’inizio è stato duro. Si era persa l’abitudine, il metodo, la facoltà
di stare ore con un libro in mano. Ho ancora vivo il ricordo dei primi giorni di
lezione in cui vedevo i miei compagni prendere appunti durante le lezioni. Io non
ce la facevo. Ci ho provato, ma mi perdevo. Credevo di non potercela fare mai, di
dover abbandonare. E poi il primo esame. Guarda caso Regia: la mia materia
preferita. Trenta e lode. Una grande gioia. Me lo ricordo benissimo. Mi sembrava
di stare già a buon punto. Mancavano ancora 36 esami, ma è come se un pezzo di
strada già l’avessi fatta. Altri esami: 22, 26, voti non eccezionali, ma che mi
consentivano di proseguire. Di tanto in tanto qualche altro 30, 27, 25. A luglio
avevo fatto 11 esami. Me ne mancavano 3 per chiudere il primo anno. Li avrei
dati a settembre, in piena regola con l’anno accademico. Ero uno di quelli che
aveva dato più esami. Chi lo avrebbe mai detto? Con il metodo, con l’esperienza
maggiore dei miei colleghi più giovani di me, ero riuscito a procedere ad un ritmo
incalzante. Poi c’è stato il blocco. Un anno di crisi. Non avevo più energie
necessarie a studiare. Capita. Chi ha fatto l’Università, sa bene che può succedere.
Volevo smettere. Chi ce l’avrebbe fatta a dare altri 26 esami? In un anno ero
riuscito a dare solo 5 esami, i più facili. Quelli pratici. Disegno: Photoshop (che
usavo regolarmente), biennalizzazione di regia, portando un cortometraggio.
Insomma esami dati senza studiare, visto che non ero più in grado di prendere un
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libro in mano. Andavo agli appelli controvoglia: “ che ci vado a fare? Tanto
smetto” dicevo. Iniziavo ad avere un ritardo di circa 10-12 esami rispetto alla
tabella di marcia. Irrecuperabili. Poi la svolta. Furono aboliti 3 esami: i più ostici
per me. Feci un calcolo. Me ne mancavano una decina: se nella sessione di
settembre ne riuscivo a dare 4-5, mi sarei ritrovato con un ritardo di 5 esami.
Avevo tutta l’estate per studiare. Ci provai. Tutti i pomeriggi me ne andavo in
mezzo ad un prato e lì studiavo mentre prendevo il sole. Diventai
abbronzantissimo e a settembre riuscii a dare 5 esami che mi riportarono in corsa.
Ripresi il ritmo. L’anno dopo (settembre 2006) avevo terminato gli esami.
Sono stati proprio quei 5 esami dati controvoglia, con la forza della disperazione,
che mi hanno permesso di restare aggrappato e di non perdere il treno. Ed ora che
sento finalmente di poter dire di avercela fatta, vedo come in un film (guarda
caso) come in tutti fermi immagine, la mia esperienza universitaria. I miei
compagni, i professori, mi rivedo io uscire dal lavoro alle 14 e correre in Facoltà
per essere presente alle lezioni del pomeriggio. Mi rivedo tornare a casa alle 20,
stanco, senza voglia di fare altro che sdraiarmi sul letto. Mi rivedo il sabato sera a
casa, per recuperare il sonno perso. Rivedo la mia ex ragazza stanca della mia
stanchezza. Ma malgrado tutto, malgrado i sacrifici fatti, mi ritengo ora, molto più
ricco di allora e posso dire con il sorriso sul volto: “ne è valsa proprio la pena”.
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