Evgenij Onegin

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Evgenij Onegin
ALEKSANDR S PUSKIN
Evgenij Onegin
Dedica a P.A.Pletnëv
Pétri de vanité, il avait encore plus de cette espèce d'orgueil qui fait avouer avec la même indifférence les bonnes
comme les mauvaises actions, suite d'un sentiment de supériorité, peut-être imaginaire.
Tiré d'une lettre particulière.
La società superba non penso a divertire,
Amo più l'attenzione per amicizia,
E ti avrei voluto offrire
Un pegno più degno di te,
Più degno dell'anima eletta
Tutta presa da un sacro sogno
Di poesia viva e netta,
D'alti pensieri e semplicità:
Ma anche così - con mano indulgente
Accogli i miei variopinti capitoli,
Semischerzosi, semiaccorati,
Alla buona, sofisticati,
Frutto incolto dei miei spassi,
Delle insonnie, dei facili estri,
Di anni acerbi e di anni non più in fiore,
Di fredde osservazioni della mente
E di meste note del cuore.
CAPITOLO PRIMO
E di vivere ha fretta,
e fretta di sensazioni.
Principe Vjazemskij
I
«Mio zio così preciso e retto,
Or che sul serio s'è ammalato,
Si è fatto portare rispetto
E proprio il meglio ha escogitato!
Il suo esempio sia di lezione:
Ma, Dio mio, quale afflizione
Notte e dì un malato vegliare
Mai un passo potendo fare!
E quale perfidia meschina
Già mezzomorto vezzeggiarlo,
Sui cuscini accomodarlo,
Dargli mesto la medicina,
Sospirando e pensando fra te:
Ti porti il diavolo con sé!»
II
Così pensava un giovin signore,
Volando in carrozza postale,
Dei suoi per volere di Giove
Unico erede universale.
Amici di Ljudmila e Ruslàn!
L'eroe del mio romanzo,
Senza preamboli, immantinenti,
Permettete che vi presenti:
Onieghin, un mio amico, nato
Sui bordi della Nievà,
Dove sei nato anche tu, chissà,
Mio lettore, o hai brillato;
Ci andavo anch'io a passeggiare:
Ma l'aria del nord mi fa male.(1)
III
Dopo un lodevole servizio,
Di debiti era campato
Suo padre, dava tre balli all'anno,
Si trovò infine rovinato.
Su Eugenio la sorte vegliava:
Prima Madame se ne occupava,
Poi Monsieur le subentrò.
Lui era vispo, e carino però.
Monsieur l'Abbé, francese tapino,
Perché il pargolo non soffrisse,
Giammai con prediche l'afflisse,
L'ammaestrava col trastullino:
Sgridava appena le sue scappate,
Lo portava al Giardino d'Estate.
IV
Per Eugenio giunsero gli anni
Dell'irrequieta gioventù,
Di speranze e teneri affanni,
E Monsieur non servì più.
All'ultima moda acconciato,
Come un dandy di Londra abbigliato,(2)
Il mio Eugenio fu in libertà:
Finalmente entrò in società.
In un francese perfetto
Sapeva scrivere e parlare,
La mazurka agilmente ballare
E fare un inchino corretto:
Volete di più? Per la gente
Era assai caro e intelligente.
V
Tutti qualcosa a poco a poco
In qualche modo abbiamo appreso,
Sicché brillare per cultura,
Grazie a Dio, non dà un gran peso.
Onieghin era, a parer di molti
(Giudici severi e accorti),
Ragazzo colto, ma svagato.
Aveva il dono fortunato
Di sfiorare in conversazione
Agevolmente ogni argomento,
Di stare zitto e tutto attento
In una seria discussione
E nelle dame destar sorrisi
Col tuoco d'epigrammi improvvisi.
VI
Non è più di moda il latino:
E dunque, per la precisione,
Lui ne sapeva quel tantino
Per decifrare un'iscrizione,
Per dir la sua su Giovenale,
Per apporre a una lettera il vale
E dell'Eneide un due o tre versi,
Pur con errori, ritenersi.
Nessuna voglia lo pungeva
Di rovistare in profondo
La polverosa storia del mondo;
Eppure a memoria sapeva
Certi aneddoti ormai perenti,
Da Romolo ai nostri tempi.
VII
Gran passione non sentiva
A tormentarsi per dei suoni,
Tra giambo e trocheo non riusciva
A stabilire distinzioni.
Teocrito e Omero derideva,
Ma Adam Smith però leggeva,
Era un profondo economista;
Come uno stato si arricchisca
Sapeva giudicare infine
E di che viva e anche perché
Necessario l'oro non è
Se vi sian materie prime.
Suo padre non lo comprendeva
E nuove ipoteche accendeva.
VIII
Non ho pazienza a spiegar tutto
Quello che sapeva Eugenio;
Ma in una scienza soprattutto
Egli era un autentico genio:
Quella che fin dalla puerizia
Gli fu sforzo e croce e delizia,
Che assorbiva ad ogni istante
La sua pigrizia angosciante,
Di passioni tenera scienza
Che Ovidio Nasone cantò
E a cui da martire immolò
La sua splendida, inquieta esistenza
In Moldavia tra la steppaglia,
Lontano dalla sua Italia.
IX
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X
Come ben seppe simulare
La non speranza, ingelosirsi,
Dare a credere, disingannare,
Spasimare e anche incupirsi,
Fare il duro e l'ossequiente,
Il premuroso e l'indifferente!
Con che languidezza taceva,
Di che eloquenza si accendeva!
Che epistolografo galante!
In ciò che amava e respirava
Tutto se stesso quasi obliava!
Che sguardo tenero e saettante,
Pudìco e ardito, e al tempo giusto
D'una pia lacrima anche il lustro!
XI
Come sapeva rinnovarsi,
L'innocenza con scherzi stupire,
Spaventare col disperarsi,
Con la lusinga divertire,
L'istante commosso sfruttare,
Con passione e cervello sventare
Certe fisime di giovinezza,
Cogliere al varco la carezza
Dichiarazioni riscuotendo,
Sentire un cuore al primo bàttito,
L'amore inseguire e d'un tratto
Strappare a lei un appuntamento
Segreto... E nell'intimità
Ammaestrarla in tranquillità!
XII
Come riusciva a conturbare
Di esperte civette il cuore,
E quando voleva annientare
I suoi rivali in amore
Con che veleno ne sparlava,
Quali trappole gli apprestava!
Ma voi, mariti beati,
Amici gli restavate:
Lo blandiva il coniuge astuto,
Antico allievo di Faublas,
E il sospettoso per età,
E anche il maestoso cornuto,
Sempre di sé soddisfatto,
Della moglie e del buon piatto.
XIII - XIV
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XV
Per lo più è ancora a letto quando
La posta gli viene portata.
Inviti? Lo stan reclamando
In tre case per la serata:
Là un ballo, qui d'un bimbo la festa.
Dove andrà il mio perditesta?
Da chi iniziare? È indifferente:
Non si può ovunque esser presente.
Intanto in abito da mattina,
Col suo ampio bolivàr,(3)
Scarrozza Onieghin sul boulevard
Per la sua passeggiatina:
Fin quando il Bréguet non gli annunzia
Che l'ora di pranzo è giunta.
XVI
Già è buio: siede nella slitta.
«Via!», il grido è riecheggiato;
Il suo bavero di pelliccia
Di gelo s'è inargentato.
E corre al Talòn in gran fretta,(4)
Kavièrin certo già l'aspetta.
È entrato - un tappo in alto schizza,
Della Cometa il vino sprizza.
Roast-beef al sangue è sul suo desco,
Tartufi - lusso di gioventù
E dei cibi di Francia il bijou,
Di Strasburgo il pâté ancor fresco,
Fra un Limburgo ben fermentato
E un ananas dorato.
XVII
Altri bicchieri reclama
Il grasso di ardenti bistecche,
Ma il trillo del Bréguet lo chiama
Alla prima di un balletto.
Severissimo intenditore,
Incostante adoratore
Di belle attrici e per riguardo
Cittadino del retropalco,
Eugenio è volato in teatro,
Dove licenza ognun si dà
Di applaudire un entrechat,
Di beccar Fedra e Cleopatra
E una Moìna di bissare
(Soltanto per farsi notare).
XVIII
Magico mondo! In altra età
Vi brillò Fonvìzin, signore
Della satira e di libertà
Amico, e Knjažnin l'imitatore;
Là con la giovane Semiònova
Ozièrov lo spontaneo dono
Di lacrime e applausi spartiva,
Là Katienin rinverdiva
Di Corneille il genio maestoso;
Là si cinse di gloria Didlot;
Là Šachovskoj liberò
Commedie in sciame rumoroso;
Là, nell'ombra delle coulisses,
La mia giovinezza fuggì.
XIX
Mie dee! Dove siete ora?
La mia triste voce ascoltate:
Siete voi ancora? O altre fanciulle
A voi si sono avvicendate?
Riudirò io i vostri cori?
Rivedrò, pieni d'anima, i voli
D'una Tersicore russa? O
Col mesto sguardo non scorgerò
Più i volti noti su una scena di noia,
E con la lorgnette puntata
Su una gente a me estraniata,
Indifferente alla baldoria,
Dovrò in silenzio sbadigliare
E il passato rievocare?
XX
Pieno è il teatro; lustreggiano
I palchi; la platea è in fervore;
In loggione già rumoreggiano;
S'alza il sipario con stridore.
Splendida, quasi evanescente,
Al magico archetto ubbidiente,
Da uno stuolo di ninfe attorniata,
La Istòmina s'è presentata.
Con un piede toccando il suolo,
Lento in cerchio portando l'altro,
Ecco che vola nel suo salto,
Come piuma al soffio d'Eòlo;
Ora si flette, ora s'addrizza,
Sulle sue svelte gambe guizza.
XXI
Tutti applaudono. Onieghin sta entrando:
Calpesta i piedi ai già seduti,
La lorgnette obliquo puntando
Sui palchi a dame sconosciute;
Il suo sguardo ogni fila ha scrutato,
Tutto ha visto: l'hanno lasciato
Scontento facce e vestiti;
Tutt'intorno ha già riveriti
Gli uomini, e passa ad osservare
La scena con distratto piglio,
Si rigira, fa uno sbadiglio
E dice: «Tutto da rifare;
Troppi balletti ho sopportato,
Anche Didlot m'ha annoiato.»(5)
XXII
Draghi, amorini e diavoletti
Ancora in scena si rincorrono;
Sulle pellicce i valletti
Stanchi nell'atrio ancora dormono;
Ancora applausi, fischi, soffiare
Di nasi, tossire, pestare;
Ancora, sia dentro che fuori,
Tutti accesi lumi e lampioni;
E al freddo ancora scalpitando
Stanno i cavalli bardati,
E i cocchieri al fuoco acquattati
Le mani sfregano imprecando
Ai padroni - ma Onieghin già è uscito;
Va a casa a cambiar vestito.
XXIII
Saprò darvi un quadro conforme
Del solitario studio dove
Si veste, sveste, riveste e dorme
Il bravo alunno delle mode?
Ogni sciccherìa capricciosa
In cui Londra traffica a iosa
E che il Baltico navigando
Di legno e lardo ci dà in cambio;
Tutto ciò che un gusto insaziato,
Parigina industriosità,
Per il lusso e la voluttà
E il diletto ha escogitato, In studio aveva tutto ciò
Il diciottenne philosophe.
XXIV
Pipe d'ambra di Tsaregràd,
Bronzetti, porcellanine,
Profumi in bocce di cristallo,
Delizia a sensi femminei;
Pettinini e d'acciaio limette,
Dritte e ricurve forbicette,
E spazzolini per i denti
E per le unghie più di venti.
Rousseau non si dava ragione
Che Grimm, uomo così importante,
Si nettasse le unghie davanti
A lui, bisbetico chiacchierone(6)
Il paladino del libero e giusto
Era in tal caso proprio ingiusto.
XXV
Si può essere uomo valente
E alle belle unghie pensare:
L'uso è despota fra la gente.
Perché il secolo contrastare?
Altro Èadáiev, per paura
Di qualche invidiosa censura,
Eugenio era molto pedante
Nell'abito - un ultraelegante.
Per tre ore almeno lui era
A guardarsi allo specchio vicino
E usciva dal suo camerino
Simile a Venere etèrea
Che andasse da uomo abbigliata
A una festa mascherata.
XXVI
Sulla toeletta ultimo grido
Il vostro interesse spingendo,
Colto pubblico, vi descrivo
Quasi quasi il suo vestimento;
Per quanto ardito sia il farlo,
Pure è mio compito illustrarlo:
Ma parola russa non c'è
Per pantalons, frac e gilet;
Me ne scuso, lo vedo io stesso,
Che anche così potrebbe avere
Meno parole forestiere
Il mio lessico dimesso,
Benché il dizionario in passato
Dell'Accademia io abbia guardato.
XXVII
Ma non è questo il nostro oggetto:
Meglio è che al ballo ci affrettiamo
Dove il mio Onieghin si è diretto
In carrozza a tutto spiano.
Davanti alle case abbuiate,
Su vie sonnolente schierate,
Doppi fanali di vetture
Spandono luci liete e pure,
Sulla neve un'iride fanno;
Di lampioncini luminosa
Splende la casa lussuosa;
E dietro i vetri le ombre vanno,
Teste e profili guizzanti,
Di dame e di bei stravaganti.
XXVIII
Il nostro eroe ecco al portone;
Oltre il portiere è già volato
Come freccia per lo scalone,
I capelli s'è ravviato.
Entra. La sala è gremita;
La musica s'è affievolita;
Da una mazurka la folla è presa;
Tutto intorno è chiasso e ressa;
Tinnano sproni di cavalieri;
Volan piedini di belle dame
Sulle cui orme seducenti
Volano sguardi ardenti,
E l'onda dei violini inchioda
Il cip-cip di mogli alla moda.
XXIX
Al tempo di gioie e passioni
Io per i balli andavo matto:
Per biglietti e dichiarazioni
Non esiste luogo più adatto.
O voi, riveriti consorti!
I miei servigi oso proporvi;
Prego, statemi a sentire:
Perché io vi voglio avvertire.
E voi, mammine, più zelanti
Sulle figliole vigilate:
La lorgnette ben dritta puntate:
Se no... se no, che Dio ne scampi!
E questo scrivo perché so
Che non pecco ormai da un bel po'.
XXX
Ahimè, in diverse stravaganze
Troppa mia vita ho dissipato!
Ma se non fosse per le usanze
I balli ancora avrei amato.
Amo la folle giovinezza,
E ressa, e fasto, e contentezza,
E di dame l'attento vestire,
I bei piedini: ma scoprire
Tre paia di gambe decenti
In Russia è un difficile affare!
Ah come non seppi scordare
Due belle gambe!... Triste e assente
Sempre le rammento e in sogno
Nel cuore inquieto le agogno.
XXXI
In che deserto, o dissennato,
Dove e quando, le scorderai?
Ah bei piedini! Su qual prato
Primaverile andate ormai?
Cresciuti a dolcezze orientali
Su tristi nevi boreali
Le vostre orme non lasciaste:
Molli tappeti meglio amaste
Sontuosamente sfiorare.
E io non obliai gran tempo fa
Per voi gloria e vanità,
Esilio e terra mia natale?
Svanì la gioia giovanile
Come la vostra orma gentile.
XXXII
Diana il seno, le guance Flora
Hanno leggiadri, o amici miei!
Ma io di Tersicore ancora
Più leggiadri i piedini direi.
Vaticinando al nostro sguardo
L'inestimabile traguardo,
Con la bellezza si attiran dietro
Dei desideri lo sciame inquieto.
Io li amo, o amica Elvina,
Sotto le mense apparecchiate,
A primavera sui verdi prati,
O d'inverno presso il camino,
Sul parquet a specchio delle sale
E sugli scogli in riva al mare.
XXXIII
Ah il mare, prima della tempesta!
Come invidiavo alle onde furiose
L'una sull'altra in resta
Quel giacersi ai suoi piedi amorose!
Con le labbra poterli sfiorare
Come bramavo insieme al mare!
No, mai nel tempo ardente
Della mia gioventù fremente
Bramai con simile martirio
Baciare bocche di belle Armide
O le rose di guance vive
O seni colmi di sospiri;
Delle passioni mai l'assalto
L'anima mia dilaniò tanto.
XXXIV
Di un altro tempo mi sovvengo:
Talvolta nei sogni arcani
Una staffa beata io tengo
E quel piedino ho nelle mani;
Riecco ferve l'immaginare,
Riecco a quel toccare
Arde il mio sangue nel fiacco cuore,
Di nuovo angoscia, di nuovo amore...
Ma basta omaggi a queste ingrate
Con la mia cetra chiacchierona:
Non meritano né passioni,
Né canzoni da loro ispirate;
Parole e occhiate di maliarde
Come i piedini... son bugiarde.
XXXV
E il mio Onieghin? Tutto assonnato
Ora a dormire se ne va;
E già i tamburi han ridestato
L'infaticabile città.
S'alza il mercante, va il merciaio,
Va al posteggio il fiaccheraio,
Scricchia la neve ove s'affretta
La popolana con la secchia.
Ritorna il gaio animamento,
S'apron le imposte, salgon su
Dai comignoli i fumi blu,
E il fornaio, tedesco attento ,
Con il suo bianco berrettino,
Già si è affacciato allo spioncino.
XXXVI
Ma dal ballo affaticato,
E rovesciando in notte il giorno,
Se la dorme nel buio beato
Il figlio di lussi e bagordi.
A mezzodì si sveglierà,
Fino a mattina pronti avrà
Vari e identici i suoi piaceri,
Domani sarà come ieri.
Ma era il mio Eugenio contento,
Libero, nell'età migliore,
Scintillante conquistatore,
Nel quotidiano godimento?
O solo aveva in tanta ebbrezza
Gran salute e poca saggezza?
XXXVII
No: i sentimenti si smorzavano;
Lo annoiava il mondo ciarliero;
Le belle più non occupavano
Assiduamente il suo pensiero:
Dai tradimenti disgustato,
Di amici e amicizia annoiato,
Egli non sempre poté
Innaffiare bistecche e pâté
Con un prelibato champagne
E lanciar battute alla lesta
Anche con tanto mal di testa;
E benché acceso litigante
Egli era stanco, in fondo in fondo,
Di sfide e sciabole e piombo.
XXXVIII
Un disagio, la causa del quale
Dovrebbe ormai sapersi già,
Al britannico spleen quasi uguale,
Insomma: la russa chandrà,
Lo prese a poco a poco; e in quella
A farsi saltar le cervella,
Grazie a Dio, nemmeno provò,
Ma freddo alla vita guardò;
Come Childe-Harold languido e tetro
Appariva ai ricevimenti,
Né il boston o i mondani commenti,
Caro sguardo o sospiro indiscreto,
Nulla ormai più lo smoveva,
Di niente più si accorgeva.
XXXIX - XL - XLI
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XLII
O eccentriche del gran mondo!
Prima di tutto voi lasciò.
Ed è ben vero che oggigiorno
Annoia alquanto il tono snob.
Anche se forse qualche dama
Say e Bentham oggi proclama,
È insoffribile il loro parlare
Benché sia quisquilia veniale.
Poi sono così intemerate,
Così solenni e giudiziose,
Così devote e rispettose,
Così prudenti ed oculate,
Così ardue alla conquista,
Che fan venire lo spleen a vista.(7)
XLIII
E voi, giovani bellezze,
Che al buio tempo notturno,
Trasporta l'ardito calesse
Sui lastrici di Pietroburgo,
Voi pure il mio Eugenio lasciò.
Le frenetiche gioie abiurò
Onieghin la casa sprangando,
Prese la penna sbadigliando,
E volle scrivere: ma odiosa
Tanta fatica gli riusciva;
Dalla penna niente veniva,
E non finì nella rissosa
Genìa che non giudicherò
Perché anch'io con loro sto.
XLIV
Di nuovo nell'ozio più vuoto,
Da un deserto d'anima afflitto,
Si diede al lodevole scopo
Di far del senno altrui profitto.
Di libri riempì una scansìa
E lesse... Tempo buttato via!
Là noia, qua inganno o demenza,
Mancava o il senso o la coscienza;
Legato ognuno ai suoi timori;
Troppo vecchia l'antichità
E arcaicizzante la novità...
Via anche i libri, dopo gli amori!
Sullo scaffale polveroso
Stese un lenzuolo luttuoso.
XLV
Scrollati gli obblighi sociali,
Io come lui, fuor dal trambusto,
Diventammo allora sodali.
Rispondevano in lui al mio gusto
Tratti, istintiva fantasia,
Inimitabile stramberia,
Intelletto freddo e acuto.
Io esacerbato, lui cupo.
A un gioco di passioni esperti,
Feriti entrambi dalla vita,
E ogni fiamma in cuore sopita,
Ci attendevano i colpi avversi
Del cieco Caso e della gente
Nel nostro mattino fiorente.
XLVI
Chi viva e pensi non potrà
Non spregiare in cuore la gente;
Chi abbia un sentire soffrirà
Lo spettro del tempo fuggente:
Per lui più nessuna malìa,
Ma il serpe della nostalgia
E il pentimento lo rimordono.
E spesso tutto questo apporta
Più attrattiva al conversare.
Così eloquente, mi sconcertò
Onieghin; poi mi abituò
Al suo caustico argomentare,
Alla battuta mezzofiele,
E al torvo epigramma crudele.
XLVII
Quante volte al tempo d'estate,
Che il cielo sulla Nievà(8)
Traspare chiaro nelle nottate,
E non specchia il volto di Diana
Delle acque il gaio vetro,
Riandando idillî d'anni addietro,
A un passato amore riandati,
Commossi, e ancora spensierati,
Ci inebbriava silenzioso
Il benigno notturno vento!
Come il forzato sonnolento
Dal carcere a un verde boscoso,
Così alla prima giovinezza
Noi trasportava quell'ebbrezza.
XLVIII
Con l'anima tutta rimpianto,
E appoggiandosi al granito,
Eugenio stava meditando,(9)
Come un poeta di sé ha scritto.
L'ora era tacita e deserta:
Solo un grido di guardie all'erta.
Dalla Miliònnaja veniva
Rumor di ruote; risaliva
Con sciacquìo di remi un battello
Il fiume calmo e appisolato;
E noi eravamo affascinati
Da un flauto, un audace stornello...
Ma più dolci son d'altri svaghi
Notturni del Tasso le ottave!
XLIX
Onde adriatiche, o Brenta!
Un giorno vedervi potrò
E, alla vostra magica voce,
La mia ispirazione riavrò.
È sacra alla stirpe di Febo;
L'altero britannico aedo
Di essa cantava ed io l'ho amata.
Nella notte d'oro stellata,
Godrò carezze a volontà
Dall'or loquace ora silente
Ragazza veneziana, mentre
Misteriosa la gondola va;
Da lei le mie labbra apprendendo
Del Petrarca e d'amore l'accento.
L
La libertà vedrò arrivare!
È tempo, è tempo! - a lei anelo;
Aspetto e aspetto, erro sul mare,
Faccio segno a ogni vela.
Sotto i nembi, contro i marosi,
Sui liberi spazi ondosi
Potrò io libero fuggire?
Di un elemento che m'è ostile
Tempo è ch'io lasci i tristi lidi
E in un mareggio meridiano,
Sotto un mio cielo africano,
La buia Russia io sospiri,
Dove ho amato, dove ho patito,
Dove il mio cuore ho seppellito.
LI
A visitare già decisi
Io e Onieghin, paesi lontani,
Ben presto restammo divisi
Dal destino un lungo tempo.
Morì allora il suo genitore.
L'avido sciame creditore
In casa sua fece raduno.
Da dir la sua aveva ognuno.
Eugenio che odiava le beghe,
Della sua sorte contento,
Per loro abdicò al testamento,
Non perdendoci poi gran che,
O prevedendo fin da adesso
Dell'anziano zio il decesso.
LII
D'un tratto infatti l'intendente
Gli scrisse per informarlo
Che lo zio era in letto morente
E avrebbe amato salutarlo.
Letta la triste ambasciata
Eugenio a quella chiamata
Di corsa si precipitò,
E in anticipo sbadigliò,
Disposto, in grazia del quattrino,
A sospiri, a noia e inganno
(Qui cominciavo il mio romanzo);
Ma giunto a volo nel paesino
Trovò su un'asse lo zio sdraiato,
Già per la fossa preparato.
LIII
Piena di servi era la corte;
All'estinto da tutti i punti,
Amatori dei dopomorte,
Amici e nemici eran giunti.
Fecero al morto il funerale,
Preti e ospiti a bere e a mangiare.
Poi ripartirono imponenti
Ostentando affari urgenti.
Ed ecco Eugenio campagnolo,
Di fabbriche e acque padrone
E boschi e terre, lui sprecone
E ostile all'ordine finora:
Contento di esser passato
Dal vecchio stile al nuovo stato.
LIV
Per due giorni gli parvero nuovi
Il fresco ombroso boschetto,
I campi solitari,
Del ruscello il murmure quieto.
Ma al terzo, bosco e colle e campo
Non gl'importavano più tanto;
Poi lo facevano dormire;
Poi lui stesso poté capire
Che era sempre la stessa noia
Anche in campagna, pur senza vie,
Palazzi, carte, balli, poesie.
Come una guardia la chandrà
Lo seguiva, era sempre alle soglie
Come un'ombra o una fida moglie.
LV
Nacqui per la vita in disparte,
In una pace campagnola:
Là son più vivi i sogni d'arte,
La cetra ha voce più sonora.
Dedito all'innocente svago,
Erro lungo il deserto lago
E il far niente è la mia norma.
Mi desto quando raggiorna
Al piacere e alla libertà:
Leggo poco, dormo molto,
Alla gloria non dò ascolto.
Non fu così che in altra età
Passai nell'ozio e ombrosa quiete
Le mie giornate più liete?
LVI
O fiori, amore, ozio, campi!
Con tutta l'anima io vi amo.
E son contento se risalti
Che io e Onieghin diversi siamo,
Affinché il beffardo lettore
Oppure un qualche editore
Di bizzarre malignità,
Confrontata la mia identità,
Che il mio ritratto ho qui schizzato,
Come Byron superbo poeta,
Perfidamente non ripeta:
Quasi che a noi non fosse dato
Scriver poemi che abbian nessi
Con altro, se non con noi stessi.
LVII
A proposito: tutti i poeti
Aman l'amore sognatore.
Di sognare volti diletti
M'è capitato ed il mio cuore
La loro effigie ha custodita
Cui la Musa poi dava vita:
Così dei monti potei cantare
La fanciulla, mio ideale,
Le prigioniere del Salghìr.
Adesso da voi mi si pone,
Miei cari amici, la questione:
«Per chi sospira la tua lira?
Fra tante fanciulle gelose,
A chi dedichi rime amorose?
LVIII
«Quale, sapendoti ispirare,
D'un tenero sguardo ha premiato
Il tuo pensoso cantare?
Quale il tuo verso ha angelicato»?
Nessuna, amici! Nessuna! Ahi,
Senza conforti sopportai
Il folle tormento d'amore.
Beato chi a esso un ardore
Di rime ha unito raddoppiando
La sacra febbre di poesia,
Del Petrarca lungo la via,
Le pene del cuore placando,
E alla gloria è pervenuto!
Io, amando, ero stupido e muto.
LIX
Passò l'amore, a riapparire
Torna la Musa, la buia mente
Si schiara, e ancora tento unire
Suoni, concetti e sentimenti:
Scrivo, e il cuore non soffre più;
La penna non traccia su e giù
A versi incompiuti vicini
Femminili volti e piedini;
Faville la cenere sopita
Non dà; né piango io, benché mesto;
E nel mio cuore molto presto
Sarà ogni tempesta finita:
Così potrò portare avanti
Un poema in venticinque canti.
LX
Il progetto l'ho già ordito,
Per l'eroe un nome ho già pensato;
Ma ecco che il primo capitolo
Del mio romanzo ho terminato;
L'ho rivisto accuratamente;
Ci sono molte incongruenze,
Ma io non le correggerò.
Scotto al censore pagherò,
E il frutto della mia scrittura
In pasto ai gazzettieri andrà.
Sui bordi della Nievà
Vola, o neonata creatura!
Di gloria recami una sorte:
Chiasso, ingiurie e glosse contorte!
[Note dell'autore]
(1) Scritto in Bessarabia;
(2) dandy, elegantone
(3) Cappello à la Bolivàr.
(4) Noto ristorante.
(5) Segno di entusiasmo raffreddato, degno di Childe Harold. I balletti del sig. Didlot sono pieni di vivace
immaginazione e di straordinario fascino. Uno dei nostri scrittori romantici ha trovato in essi molta più poesia che i
tutta la letteratura francese.
(6) Tout le monde sut qu'il mettait du blanc; et moi, qui n'en croyais rien, je commençais de le croire, non seulement
par lembellessiment de son teint et pour avoir trouvé des tasses de blanc sur sa toilette, ma sur ce qu'entrant un matin
dans sa chambre, je le trouvai brossant ses ongles avec uneepetite vergette faite exprès, ouvrage qu'il continua
fièrement devant moi. Je jugeai qu'un homme qui passe deux heures tous les matins à brosser ses ongles, peut bien
passer quelques instants à remplir de blanc les creux de sa peau. (Confessions de J. J. Rousseau). Grimm precedeva il
suo secolo: adesso in tutta l'Europa colta ci si pulisce le unghie con uno speciale spazzolino.
(7) Tutta questa storia ironica altro non è che una raffinata lode delle nostre connazionali. Allo stesso modo Boileau,
sotto forma di rimprovero, loda Luigi XIV. Le nostre dame uniscono la cultura alla gentilezza e una rigorosa illibatezza
di costumi a quel fascino orientale, che tanto affascinava Madame de Staël (V. Dix années d'exil).
(8) I lettori ricorderanno l'incantevole descrizione delle notti pietroburghesi nell'idillio di Gnediè:
«Ecco la notte: ma non si spengono le strisce dorate delle nuvole.
Senza stelle e senza luna tutta s'illumina l'immensità.
Sulla spiaggia in lontananza si vedono le vele inargentate
Di navi appena visibili, come librantisi nel cielo azzurro.
Di uno splendore senza ombre il notturno cielo risplende,
E la porpora dell'occidente si fonde con l'oro del levante:
Quasi che l'aurora dopo la sera porti
Un roseo mattino. - Era quella dorata stagione
Che i giorni estivi aboliscono la signoria della notte,
E lo sguardo del forestiero sul cielo del nord è affascinato
Da una magica fusione di ombra e di dolce luce,
Di cui mai non s'adorna un cielo meridionale;
Quella luminosità simile ai vezzi di una nordica fanciulla,
I cui occhi cerulei e le guance vermiglie
Appena adombrano dei riccioli biondi le onde.
Allora sulla Nievà e sulla opulenta Petropoli si vedono
La sera senza buio e rapide notti senza ombra:
Allora Filomela non riesce a terminare i canti di mezzanotte
Che altri canti incomincia, saluto al giorno che sorge.
Ma è tardi; si è levata la brezza sulle tundre della Nievà;
È scesa la rugiada....................................
Ecco mezzanotte: già sciabordante a sera di mille remi,
La Nievà più non si agita, se ne sono andati gli ospiti cittadini;
Non una voce sulle rive, né increspature sull'acqua, tutto tace;
Solo di rado un rimbombo dai ponti corre sull'acqua;
Solo un grido giunge prolungato dalla remota campagna,
Dove nella notte una scolta militare chiama altra scolta.
Tutto dorme.....................................
(9) Realmente la dea benevola - Scorge l'esaltato poeta, - Che trascorre una notte insonne, - Appoggiato al granito.
(Murav'ëv, Alla dea della Neva)
CAPITOLO SECONDO
O rus!
Hor.
I
Era un sito dei più ridenti
Dove si annoiava Eugenio;
L'amico di gioie innocenti
Ne avrebbe benedetto il cielo.
Dai venti al riparo, isolata,
Su un fiumicello situata
La casa padronale; e gli ampi
Prati intorno e i dorati campi
Eran tutta una fioritura;
Qua e là sui pascoli erravano
Le greggi; villaggi spuntavano;
E un gran giardino nell'incuria
Stendeva le sue dense ombre,
Asilo a Driadi meditabonde.
II
L'insigne dimora era fatta
Come va fatta una dimora:
Molto tranquilla e compatta,
Nel sano gusto di allora.
Dovunque ben alta ogni stanza,
Tappezzata la rappresentanza,
Quadri con facce d'imperatori,
Stufe in ceramica a colori.
Veramente non so il perché
Tutto pareva un po' muffito;
Anche se, d'altronde, al mio amico
Non gliene importava un gran che,
Tanto lui sbadigliava sempre,
Nuovo o vecchio che fosse l'ambiente.
III
E la sua stanza fu la stessa
Dello zio ch'era invecchiato
Litigando con la fantesca,
Schiacciando mosche o là affacciato.
Alla buona: di quercia l'assito,
Due armadi, un divano imbottito,
Un tavolo, ma in nessun posto
La minima macchia d'inchiostro.
Negli armadi trovò un brogliaccio
Di spese e poi rosolî in serie
E brocche d'acqua di mele,
Dell'anno otto un almanacco:
Quel vecchietto tanto occupato
Mai altri libri aveva sfogliato.
IV
Solo, nei suoi possedimenti,
Si mise Eugenio a meditare,
Benché solo per passatempo,
Qual nuovo ordine instaurare.
Nel solitario romitaggio
Con lievi tributi quel saggio
Le corvées sostituì:
La sorte il servo benedì.
Ma un suo vicino alquanto arcigno,
Cultore dell'economia,
Sentenziò ch'era una follia;
Un altro ridacchiò maligno,
E di lui fecero un ritratto
Da pericoloso bislacco.
V
L'andavan tutti a riverire
Da principio; e poi però
Che lui dal retrocortile
Sul suo stallone del Don
Tagliava lesto la corda
Udendo carrozze alla porta, Offeso per l'impertinenza
Cessò ognuno la sua frequenza.
«Che vicino matto e villano!
È un frammassone! Sempre a bere
Vino rosso al suo bicchiere!
E mai che faccia un baciamano;
Solo ( sì ) o ( no ) è il suo conversare.»
Era una voce generale.
VI
Proprio allora era là arrivato
Un altro nuovo possidente
Che aveva offerto al vicinato
Cause di critica pungente.
Vladìmir Lienskij si chiamava,
Anima in tutto gottinghiana,
Bello, nel fiore dell'età lieta,
Di Kant discepolo e poeta.
Dalla Germania nebbiosa
Frutti di scienza avea portati:
Di libertà sogni ispirati,
Indole strana e impetuosa,
Un sempre esaltato discorso
E neri riccioli fin sul dorso.
VII
Non guastato dalla freddezza
Della mondana corruzione,
Un'amicizia, una carezza,
Gli davano ancora emozione.
Di cuore tenero e inesperto
Alla speranza egli era aperto;
Un mondo nuovo e risplendente
Incantava la fresca mente;
Un dolce sogno gli riapriva
Al sorriso il cuore perplesso;
Di nostra vita il fine stesso
Come un mistero l'irretiva,
Il suo pensiero avvincendo
Nel sospetto di un portento.
VIII
Credeva all'anima sorella
A unirsi a lui predestinata
Che languendo lo aspettava
Di giorno in giorno sconsolata;
Ed in amici per lui pronti
A subire catene e affronti
E con mano senza tremore
A stroncare un calunniatore;
E in sacri eletti dal destino
Amici dell'umanità
La cui immortale società
Con raggio segreto e divino
Ci avrebbe un giorno illuminato,
Il mondo rendendo beato.
IX
Ben presto sdegno e pietà,
Un puro amore verso il bene,
Di gloria una dolce ansietà
Pulsarono nelle sue vene.
Con la sua cetra vagabondo
Di Schiller e Goethe nel mondo,
Il loro poetico ardore
Aveva infiammato il suo cuore;
Delle eccelse Muse i talenti,
Per fortuna, non offendeva,
Nei suoi canti alteri metteva
Sempre eccelsi sentimenti,
Di sogni verginali l'onda
E grazia semplice e profonda.
X
Cantava amore, d'amore servo,
E la sua canzone era pura
Come il pensiero d'una vergine,
Un sogno infantile o la luna,
Nei puri deserti del cielo
Dea di sospiri e del mistero.
Cantava gli addii, gli ahimé,
Le nebbiose distanze, i non-so-che,
E le romantiche rose;
Cantava contrade distanti
Dove a lungo i suoi vivi pianti
In grembo alla quiete depose;
Cantava i suoi giorni sfioriti
A diciott'anni non finiti.
XI
Nel deserto ove Eugenio soltanto
Poteva apprezzare i suoi doni,
Dei signorotti lì accanto
Non gradiva le imbandigioni
O le serate rumorose.
Quelle chiacchiere giudiziose
Sul foraggio, sulla vigna,
Sul canile e sulla famiglia,
Non brillavano per sentimento,
Né per poetica vivezza,
Né per acume o lepidezza,
Né per mondano avvedimento;
E i discorsi delle consorti
Non erano meno stolti.
XII
Ricco, bello, Lienskij dovunque
Era accolto da fidanzato;
In campagna è d'uso; chiunque
La figlia aveva destinato
A quel vicino mezzorusso;
Non appena egli entrava, il flusso
Del discorso era sviato
Sulla noia del celibato;
Al samovàr lo invitavano
E a Dunja che versava il tè
Bisbigliavano: «tienilo a te!»
E poi la chitarra portavano:
Sicché lei miagolava (oh dio!):
Vieni al bel castello mio!...(1)
XIII
Ma Lienskij, che ben si guardava
Dalla voglia di accasarsi,
Con Onieghin desiderava
Quanto prima presentarsi.
S'incontrarono. Onda e scoglio,
Versi e prosa, grano e loglio,
Non contrastavano così.
L'esser diversi lì per lì
Rese l'uno all'altro molesto;
Poi si piacquero; e tutti i giorni
Cavalcavano nei dintorni,
Inseparabili ben presto.
Così (e io per primo) la gente
Si fa amica dal non far niente.
XIV
Ma nemmeno più questa abbiamo
Amicizia fra noi, se qua
Tutti gli altri uno zero stimiamo
E noi stessi una rarità.
Ci sentiamo dei Napoleoni;
Creature bipedi a milioni
Per noi son solo uno strumento.
Selvaggio e buffo è il sentimento;
Eugenio, con più comprensione,
Benché conoscesse la gente
Sprezzandola generalmente, (Ogni regola fa un'eccezione)
Di alcuni, pur senza capire
Il senso, onorava il sentire.
XV
Sorridendo ascoltava Lienskij.
Del poeta il discorso alato
E i giudizi ancora un po' acerbi
E lo sguardo sempre ispirato, Tutto nuovo per lui era.
Così la frase che raggela
Cercava sul labbro frenare,
E pensava: è sciocco turbare
La sua fuggitiva illusione;
Senza di me verrà il momento;
E intanto lui viva contento
Credendo il mondo perfezione;
Scusiamo questa età febbrile,
Bollore e foga giovanile.
XVI
Fra loro tutto era dibattito
E li portava a meditare:
Delle passate genti i patti,
Di scienza i frutti, il bene e il male,
E i pregiudizi più consunti,
Della tomba gli arcani occulti,
E a lor volta la vita e il fato,
Tutto da essi era vagliato.
Il poeta dalla veemenza
Trasportare si lasciava,
Poemi russi declamava,
E Eugenio con condiscendenza,
Anche senza capirci molto,
Al ragazzo prestava ascolto.
XVII
Ma le passioni erano il punto
Più discusso dai miei solitari.
Affrancato dal loro tumulto,
Con sospiri involontari
Onieghin le andava evocando.
Beato chi già il loro assalto
Seppe e infine se n'è staccato;
Più beato chi mai l'ha provato,
Chi amore spegne andando via
E in malalingua l'ostilità,
Chi con gli amici e la metà
Sbadiglia senza gelosia,
Né al gioco infido va a fidare
Degli avi il fido capitale.
XVIII
Quando della saggia e beata
Quiete sotto l'ala saremo
E di passione sarà placata
La fiamma e buffi scopriremo
I suoi capricci e le bufere
E le sue tardive chimere,
In pace dopo guerra molta, Ameremo udire talvolta
La lingua dell'altrui passione
E il cuore ci commuoverà.
Tale un vecchio reduce dà
Orecchio con attenzione
Dei nuovi guerrieri alle gesta,
Negletto nella sua casetta.
XIX
Ma la bollente giovinezza
Non può nulla dissimulare.
Odio, amore, gioia e tristezza,
Tutto è pronta a confidare.
D'amore reduce, ora ascolta
Onieghin con la faccia assorta
Il poeta che si spassiona
Cuore in mano e di sé ragiona;
E mette a nudo con candore
La sua disarmata coscienza.
E viene così a conoscenza
Eugenio di un giovane amore,
Storia ricca di sentimenti
Per noi non nuovi e d'altri tempi.
XX
Ah egli amava, come in quest'epoca
Più non si ama; come sola
L'anima pazza d'un poeta
A amare è condannata ancora;
Sempre, ovunque, quel sogno uguale,
Unica brama abituale,
Una tristezza che non varia.
Né la lontananza che estrania.
Né del distacco gli anni e i mesi,
Né ore alle Muse votate,
Né studio o chiassose brigate,
Né bellezze di altri paesi,
Gli avevan l'anima mutata
Da un vergine fuoco scaldata.
XXI
Imberbe e di Olga già incantato,
Ignaro di pene del cuore,
Dei suoi primi giochi era stato
Il tenero spettatore;
Al riparo ombroso dei bei
Boschi aveva giocato con lei,
Mentre i padri, amici e vicini,
Sognavan sposi i due bambini.
Lei in disparte, quieta nell'ombra,
Fioriva di grazie innocenti,
Sotto gli sguardi dei parenti,
Qual mughetto che si nasconda
Nell'erba folta che non l'apre
Né alle farfalle né all'ape.
XXII
Lei aveva portato al poeta
Di gioventù il primo fermento;
Nel pensiero di lei la sua cetra
S'era tesa al primo lamento.
Addio, addio giochi dorati!
Egli amò boschetti intricati,
Star nel silenzio e con nessuno,
La notte e le stelle e la luna,
La luna, lampada del cielo,
Che s'ebbe da noi consacrate
Le nostre al buio passeggiate,
Lacrime d'intimo sollievo...
Ma che oramai vale purtroppo
Solo se c'è un lampione rotto!
XXIII
Sempre modesta, buona e quieta,
Come il mattino allegra ognora,
Semplice come un poeta,
Dolce qual bacio d'amore;
Gli occhi di cielo turchino,
Riccioli biondi come il lino,
Voce, sorriso, taglia, tratto,
In Olga tutto... Ma il ritratto
Già troverete contenuto
In qualunque romanzo: assai
Soave, e un tempo anch'io l'amai,
Ma troppo a noia m'è venuto.
Ora, mi scusi il mio lettore,
Passo alla sorella maggiore.
XXIV
Si chiamava Tatjana...(2)
Nome che noi volutamente
Di un romanzo nella pagina
Consacreremo primamente.
E dunque? Scorre, suona bene,
Anche se invero esso contiene
Un sentore d'antichità
E di serva. Ma si dovrà
Ammetterlo: poca fortuna
I nomi russi hanno fra noi
(Non parliamo dei versi, poi);
Non ci è arrivata la cultura,
E appena ne abbiamo quassù
Il tòno - ma niente di più.
XXV
Dunque Tatjana si chiama.
Ma né di Olga la bellezza
Su lei l'attenzione attirava,
Né del colore la vivezza.
Ritrosa, taciturna, mesta,
Come cerva della foresta,
Nel cerchio della sua famiglia
Sembrava quasi d'altri figlia.
Moìne non voleva fare
Con la mamma e col papà,
Né fra quelli della sua età
Bambina giocare e saltare.
E per giorni interi seduta
Alla finestra stava muta.
XXVI
Pensosità, sua compagna
Fin della culla dai giorni,
Lo scorrer dell'ozio in campagna
Le aveva adornato di sogni.
Le sue dita mai non toccavano
Gli aghi, mai non si chinava
Lei sul telaio a ricamare
Bianchi lini con sete rare.
Per desiderio di comando,
Con la bambola ogni bambina
Alla mondana disciplina
Già si prepara pur giocando,
E con sussiego a lei rifà
Le prescrizioni di mammà.
XXVII
Mai però che lei prendesse
In braccio in quegli anni trascorsi
Una bambola a cui ripetesse
Di mode e novità i discorsi.
Ogni puerile baldoria
Le era estranea; una buia storia
D'invernali notti d'orrore
Molto più le avvinceva il cuore.
Quando la njanja convocava
Nel vasto prato per Olga
Le piccole amiche a raccolta,
Lei a nascondino non giocava;
La annoiavano le risate,
Quel cicalìo da spensierate.
XXVIII
Sul balcone amava molto
L'aurora al nascere aspettare,
Quando di stelle un girotondo
Al calmo orizzonte scompare,
E chiaro il paese si fa,
Il vento, araldo del mattino, va
E a poco a poco il giorno spunta.
D'inverno, che l'ombra notturna
Su metà del mondo si stende
Più a lungo e nella quiete oziosa
Più a lungo sotto la nebbiosa
Luna riposa il pigro Oriente,
Già desta a ora mattiniera
Si alzava a lume di candela.
XXIX
Presto le piacquero i romanzi,
Eran per lei di tutto un po';
La ammaliavano gli inganni
Di Richardson e di Rousseau.
Suo padre era un tipo pacato,
Di un secolo almeno arretrato;
Ma non vedeva male alcuno
Nei libri; mai leggendone uno,
Li riteneva una quisquilia,
Né gli importava se quel tale
Tomo restava a pisolare
Sotto il guanciale della figlia.
Del resto la stessa sua sposa
Di Richardson era smaniosa.
XXX
E non perché letto lo avesse
Lei amava così Richardson,
E neanche perché anteponesse
A Lovelace Grandison.(3)
Ma la principessa Alina,
Sua moscovita cugina,
Gliene aveva una volta parlato.
Col marito ancor fidanzata,
Ma controvoglia, era a quel tempo;
Per un altro lei spasimava
Che assai di più l'attirava
Per intelletto e sentimento:
Un Grandison da stravedere,
Gran giocatore e corazziere.
XXXI
Come lui, lei pure abbigliata
Sempre alla moda era e a pennello;
Ma senza averla consultata
Le misero al dito l'anello.
E, per lenire lo sconforto,
La condusse il coniuge accorto
Nei suoi possessi dove lei,
Da chi attorniata non saprei,
Dapprima smaniava piangendo
E per poco non divorziò;
Poi alla casa si dedicò,
Si abituò, sembrò contenta.
L'abitudine per noi fa
Funzione di felicità.(4)
XXXII
Quell'abitudine addolcì
La pena nascosta e sofferta;
Del tutto poi la risarcì
Ben presto una grossa scoperta:
Tra ozi e brighe aveva capito
Il segreto di come il marito
Tiranneggiare a suo piacere.
Tutto andò allora a gonfie vele.
E lei sorvegliava i lavori,
Salava i funghi, tosava teste,
Amministrava, le fantesche
Picchiava a sfogo dei malumori
E al sabato faceva il bagno,
Giammai consultando il compagno.
XXXIII
Un tempo col sangue scriveva
Di dolci fanciulle negli album,
Praskovja in Pauline traduceva
E parlava cantilenando,
Ben stretto il corsetto portava
E la enne pronunciava
Col naso in francese perfetto.
Ma tutto cambiò: corsetto,
Album, principessa Alina,
Quaderno di versi scordò;
A chiamare ricominciò
Akùlka allora l'ex-Celina,
Restituendo a nuova vita,
Crestina e vestaglia imbottita.
XXXIV
Di cuore il marito l'amava,
Ai suoi capricci indulgendo,
A lei per tutto s'affidava,
In vestaglia mangiando e bevendo;
La sua vita in pace fluiva;
La sera a volte si riuniva
Di vicini una compagnia,
Amici senza smanceria,
Spettegolando a malignare,
A rider dell'uno o dell'altro.
Passa il tempo; dicono intanto
A Olga il tè di preparare;
Si cena; è tempo di dormire
E, per gli ospiti, di partire.
XXXV
Le loro usanze erano quelle
Del buon tempo tradizionale;
C'erano sempre le frittelle
In quella casa a carnevale.
Due volte all'anno digiunavano;
Ma in altalena anche ballavano
E gli piaceva strologare;
Nello sbadiglio generale
Al Te Deum della Trinità,
Tre lacrimette essi compunti
Versavano per i defunti;
E mai rinunciavano al kvas;
E se avevano ospiti a mensa
Per grado era la precedenza.
XXXVI
E così invecchiarono i due.
Finché del sepolcro le porte
Si aprirono davanti a lui
Che altra corona ebbe in sorte.
Morì un'ora prima di pranzo,
Da un suo vicino compianto,
Dalle figliole e dalla sposa,
Quant'altre mai pura e amorosa.
E dove di quel buon signore
La spoglia mortale è sepolta
Dice una scritta sulla tomba:
Dmitrij Larin, peccatore,
Brigadiere e servo verace
Di Dio, qui riposa in pace.
XXXVII
Ai suoi penati ritornando
Vladìmir Lienskij visitò
L'umile tomba del vicino
E un sospiro gli consacrò;
E a lungo nel cuore fu triste.
«Poor Yorick! - tutto mesto disse -(5)
In braccio mi aveva portato.
Da bambino quanto ho giocato
Con la sua medaglia al valore!
Destinandomi Olga allora
Si chiedeva: ci sarò ancora?...»
E, pieno di vero dolore,
Vladìmir si mise a vergare
Per lui un funebre madrigale.
XXXVIII
E anche il cenere patriarcale
Dei suoi genitori col pianto
E una scritta volle onorare...
Ahi! Frutto che passa d'incanto
È ogni nuova discendenza,
Per misteriosa provvidenza
Sboccia, matura e se ne va;
Un'altra ad essa seguirà...
Così la nostra stirpe al vento
Germoglia, turbina sobbalza
E alla tomba gli avi incalza.
Verrà, verrà anche il nostro tempo,
E i nipoti quando ora sia
Dal mondo ci manderan via!
XXXIX
Ma vi inebri in questo mentre
La lieve vita, o amici miei!
Mi rendo conto del suo niente,
Né son molto attaccato a lei;
Ho chiuso gli occhi a ogni miraggio,
Ma di speranza un tenue raggio
Ancora a volte inquieta il cuore:
E sarebbe per me un dolore
Non lasciar qui traccia alcuna.
Vivo, scrivo, non per orgoglio
Della lode, ma perché voglio
Far gloriosa la mia sfortuna,
Così che almeno un'eco resti,
Fedele amica, e di me attesti.
XL
E un cuore potrà intenerire:
E, dal destino conservata,
Il Lete non farà perire
La strofa da me ritmata;
Forse (allettante mia speranza!)
Qualcuno nella sua ignoranza
Il mio ritratto indicherà,
«Questi era un poeta» dirà.
Accogli il mio ringraziamento
Tu, delle Aonidi seguace,
Nel cui ricordo le mie alate
Creature avranno salvamento
E la cui mano un giorno sfiori
Benigna d'un vecchio gli allori!
[Note dell'autore]
(1) Dalla prima parte della Rusalka del Dnepr.
(2) Gli armoniosi nomi greci, come per es. Agafon, Filat, Fëdora, Fëkla ecc., si usano fra noi solo fra la gente semplice.
(3) Grandison e Lovelace, eroi di due famosi romanzi.
(4) Si j'avais la folie de croire encore au bonheur, je le chercherais dans l'habitude (Chateaubriand).
(5) «Pover Yorick!» - esclamazione di Amleto davanti al teschio del buffone (v. Shakespeare e Sterne).
CAPITOLO TERZO
Elle était fille, elle était amoureuse.
Malfilâtre
I
«Scappi? Uff, questi poeti!»
- Scusami, Onieghin, devo andare.
«Non ti trattengo; e dove ti rechi
La tua serata a passare?»
- Dai Larin. - «Questo è ben curioso.
Ma, scusa, non trovi penoso
Tutte le sere là intristire?»
- Niente affatto. - «Io non so capire.
Già mi vedo com'è la scena:
Anzitutto (non è così?)
Una brava famiglia di qui,
Per gli ospiti premura estrema,
Marmellata, gli eterni discorsi
Sulla pioggia, il bestiame, i raccolti...»
II
- E con ciò che male si fa? «La noia, amico, qui sta il male.»
- Detesto la gran società;
Mi piace un giro familiare,
Dove posso... - «Egloghe ancora!
Basta, ti prego, alla buon'ora!
Insomma? Tu vai là: peccato.
Ah, senti... Sarebbe vietato
Questa Filli vedere un po',
Di pensieri e penna oggetto
E lacrime e rime et cetera?
Presentami.» - Scherzi! - «Ma no.»
- Ben lieto. - «E quando?» - Due minuti.
Saremo più che benvenuti.
III
Andiamo. Al galoppo partiti,
Sono già apparsi; e a profusione
Li subissano con i riti
Dell'ospitale tradizione.
C'è un rito assai noto da noi:
Le marmellate nei vassoi
E tutte lustre poi le brocche
Con acqua di mirtilli rossi,
............................................
............................................
............................................
............................................
............................................
............................................
IV
Volano a casa a tutto spiano(1)
Per la via più corta; e noi
Di nascosto ora ascoltiamo
I discorsi dei nostri eroi:
-E allora, Onieghin? Tu sbadigli. «Sempre, Lienskij». - Quasi ti pigli
Più noia. - «È uguale, t'assicuro.
Ma sui campi si fa già scuro.
Dài, dài, Andrjuška, più in fretta!
Che posti stupidi! Sai: quella
Làrina è alquanto terra terra,
Ma un'assai gentile vecchietta;
Ahi: ho paura che quell'acqua
Di mirtilli fosse scialappa.
V
Dimmi: quale era Tatjana?»
- Era quella che è entrata mesta
E taciturna, come Svetlana,
Sedendosi poi alla finestra. «E dell'altra sei innamorato?»
- Beh?! - «Se un poeta fossi stato
La sorella io avrei preferita.
Nei tratti d'Olga non c'è vita.
È una madonna di Van Dyck,
La faccia bella e ben paffuta
Come questa luna stupida
Sul cielo stupido di qui.»
Vladìmir secco replicò
E di lì in poi muto restò.
VI
Ma di Onieghin l'apparizione
Dai Larin aveva destato
Grande scalpore, l'attenzione
Attirando del vicinato.
Si misero a congetturare
E di soppiatto a commentare,
Scherzando e giudizi trinciando
E Tatjana già fidanzando;
Altri poi davano la nuova
Che le nozze eran già intese,
Ma per il momento sospese,
Mancando gli anelli alla moda.
Le nozze di Lienskij, si sa,
Da un pezzo decise eran già.
VII
Tatjana irritata ascoltava
Le dicerie; ma tra sé e sé
Senza volere ci pensava
Con un suadente nonsoché;
E un pensiero filtrò in quel cuore;
Giunta era l'ora dell'amore.
Così un chicco nel solco gettato
Al sol d'aprile è ravvivato.
Da tempo la sua fantasia
Di dolce tristezza bruciava,
A un cibo fatale anelava
Ed in cuore una nostalgia
Il giovane petto opprimeva;
L'anima... qualcuno attendeva,
VIII
E finalmente... Aperti gli occhi,
Poteva dire: è lui, presente!
Ahimé che adesso e giorni e notti
E il solitario sonno ardente
Di lui son pieni; ed ogni cosa
Di lui con forza misteriosa
Le parla. E lei trova noiosi
I discorsi affettuosi,
Le cure della servitù.
Nella sua mestizia avvolta,
Nemmeno più gli ospiti ascolta
E il loro oziare maledice,
I loro arrivi inaspettati,
Il loro restar lì piantati.
IX
Adesso con quanta attenzione
Legge un patetico romanzo,
Con quale viva seduzione
Ne beve il fascinoso inganno!
Da un fantasticante potere
Quelle creature rese vere,
L'amante di Julie Wolmàr,
Malek-Adhèl e de Linàr,
E Werther, ribelle infelice
E il senzapari Grandison,(2)
Che invece a noi fa venir sonno,
Per la tenera sognatrice
Eran tutti un'immagine sola,
Tutti Onieghin, sempre e ancora.
X
Pensandosi un'eroina
Dei suoi autori prediletti,
O Clarissa o Giulia o Delfina,
Tatjana in placidi boschetti
Col libro galeotto va
Sola e vi cerca e troverà
I suoi sogni e il segreto ardore,
I frutti del suo colmo cuore,
Sospira e poi, propria fingendo
D'estasi o pena un'altrui storia,
Assorta mormora a memoria
Una lettera all'eroe caro...
Ma il nostro eroe per alcun verso
Non era un Grandison di certo.
XI
Stile solenne usava avere
Il fervido autore d'un tempo,
Nel suo eroe facendo vedere
Di perfezione un esempio.
Dava al soggetto beneamato,
Sempre a torto perseguitato,
Nobili sensi e gran cervello
E un viso sempre molto bello.
Scaldato a una pura passione,
Era sempre spumeggiante
L'eroe all'olocausto anelante,
Finché verso la conclusione
Il vizio era sempre punito
E il bene di palma insignito.
XII
Ma è nella nebbia oggi ogni mente,
Fa venir sonno la morale,
Anche il vizio risulta attraente
Nei romanzi e impera trionfale.
La Musa inglese coi suoi spettri
Turba i sonni alle giovinette,
E loro idolo diventa
O il Vampiro che pensa e pensa,
O Melmoth, vagabondo cupo,
O l'ebreo errante, o il Corsaro,
O l'enigmatico Sbogàro.(3)
Bell'idea Lord Byron ha avuto
Vestendo di romanticismo
Anche il disperato egoismo.
XIII
Amici miei, che senso c'è?
Forse, per un celeste bando,
Smetterò d'essere un poeta,
Un nuovo dèmone in me entrando:
L'ira di Febo sfiderò
E alla prosa mi abbasserò;
Del mio lieto occaso fatica,
Scriverò un romanzo all'antica.
Di segrete infamie discussa
La tregenda non vi sarà,
Ma dirò con semplicità
Cose d'una famiglia russa,
I sogni d'amore incantati
E gli usi dei tempi passati.
XIV
Narrerò i semplici commenti
Del padre o di un vecchio zio,
E i fanciulleschi appuntamenti
Sotto i tigli, lungo il rio;
Di gelosia funeste pene,
Lasciarsi, rivolersi bene,
Nuovo litigio, e nel finale
Li porterò proprio all'altare.
Rivivrò accenti appassionati,
Di un amore che si arrovella
Le parole che ai piedi della
Mia bellissima in giorni andati
Erano in me moltitudine
E ora ne ho perso l'abitudine.
XV
Tatjana, soave Tatjana!
Con te io piango, ti sto vicino;
Hai affidato in mano a un tiranno
Alla moda il tuo destino.
Perirai, cara; ma accecata
Dalla speranza avrai invocata
Un'oscura felicità,
La vita ti accarezzerà,
Berrai il veleno dei desideri,
Dai sogni inseguita sarai:
Ovunque tu immaginerai
Di beati incontri i sentieri;
Ovunque, ovunque avrai nel cuore
Il tuo fatale tentatore.
XVI
Mal d'amore Tatjana affligge,
E va in giardino a sospirare,
Ma tutt'a un tratto gli occhi figge
A terra e oltre non sa andare.
Ha un nodo in petto e le sue gote
Un'improvvisa vampa copre,
Muore il respiro, un tramestìo
Ha negli orecchi, un luccichìo
Agli occhi... È notte; la luna va
Di ronda in cielo; e l'usignolo
Spande il suo canto sonoro
Dei boschi nell'oscurità.
Nel buio non dorme Tatjana
E bisbiglia con la sua njanja::
XVII
«Non dormo, njanja: che afa! Apri
La finestra e con me rimani.»
- Tanja, cos'hai? - «Sono annoiata,
Parlami dei tempi lontani.»
- Ma di che? Una volta a memoria
Sapevo molte vecchie storie,
Alcune vere, altre inventate,
Di brutti spiriti e ragazze;
Ma adesso tutto è buio, Tanja:
Quel che sapevo l'ho scordato.
Anche il mio turno è ormai arrivato!
È finita... - «Ma dimmi, njanja,
Della vostra vita trascorsa:
Fosti innamorata una volta?»
XVIII
- Oh Tanja! Alla tua età l'amore
Non sapevo nemmen che fosse;
Mia suocera, Dio l'abbia in gloria,
Mi avrebbe finita di bòtte. «Com'hai fatto a sposarti, njanja?»
- Mah! Così Iddio volle. Il mio Vanja
Era più giovane di me,
Stellina mia, che avevo treDicianni quando la comare
Due settimane andò e venì
Finché mio padre mi benedì.
E piansi di paura amare
Lacrime quando mi disfarono
La treccia e in chiesa mi portarono.
XIX
Ed ecco in casa d'altri entrando...
Ma tu non mi stai più a sentire... «Ah njanja, njanja, io soffro tanto,
Mi sento tutta illanguidire:
Vorrei piangere, singhiozzare!...»
- Bambina mia, ma tu stai male;
Abbia Iddio pietà di te!
Quello che vuoi, dimmelo a me...
Ti dò un po' d'acqua benedetta,
Bruci tutta... - «Non son malata:
Io... njanja... sono... innamorata.»
- Bambina mia, Dio ti protegga! E la vecchia sulla ragazza
Un segno di croce ora traccia.
XX
«Innamorata» sussurra ancora
Alla vecchietta lei disperata.
- Ma tu stai male, o mio tesoro. «Ma no: io sono innamorata.»
E intanto la luna brillava,
Col languido raggio irradiava
Il leggiadro pallido volto
Di Tatjana e i capelli sciolti;
Scorreva il pianto, e la vecchina
Col fazzoletto sulla bianca
Testa sedeva sulla panca
Presso la giovane eroina;
E tutto in silenzio dormiva
Sotto la luna suggestiva.
XXI
E Tatjana alla luna affisa
Viaggiava col cuore lontana...
Ma in lei c'è un'idea improvvisa...
«Voglio restare sola, njanja.
Dammi carta e penna, un momento
Fa' in qua il tavolo, poi m'addormento;
Vai.» E da sola eccola sta,
Tutto tace, chiaro le fa
La luna e lei appoggiata scrive,
E sempre Eugenio ha nella mente,
E in quella lettera irrompente
Il verginale amore vive.
Pronta è la lettera, e piegata.
Ma a chi, o Tatjana, è destinata?
XXII
So di bellezze inaccessibili,
Come l'inverno pure e algenti,
Inflessibili, incorruttibili,
Inesplicabili alla mente.
Mi stordiva la loro albagía
Alla moda e la ritrosia,
E ne fuggivo con sgomento
Sui loro cigli leggendo
O voi lasciate ogni speranza,(4)
Scritta d'inferno. Ispirare
Amore è per loro un gran male,
Spaventare gli dà esultanza.
E sui bordi della Nievà
Ben più d'una ce ne sarà.
XXIII
Tra ammiratori reverenti
Altre bizzarre ho conosciute
Superbamente indifferenti
Ai sospiri e alle lodi avute.
Cosa ho scoperto con stupore?
Scoraggiato il timido amore
Col loro contegno esemplare,
Lo tornavano a accalappiare,
Se non altro con la pietà,
Se non altro con le parole
D'un più accattivante tenore.
E con cieca credulità
Di nuovo quel giovane ardente
Correva dietro al dolce niente.
XXIV
Qual è lo sbaglio di Tatjana?
Forse la cara semplicità
Per cui sotterfugi non trama?
Al suo sogno la fedeltà?
Il suo amare senza raggiri
Sulla spinta dei suoi sospiri?
Una fiducia così assoluta?
L'aver dal cielo ricevuta
L'indocile sua fantasia,
Mente vivace e puntigliosa
E quella testa capricciosa
E un cuore di dolce follìa?
Ma non merita indulgenza
La sua appassionata imprudenza?
XXV
Calcola a freddo la civetta,
Tatjana ama veramente,
A un amore da bambinetta
Cede incondizionatamente.
E lei non dice: rimandiamo
E dell'amore il prezzo alziamo,
Lui meglio in trappola cadrà;
Stuzzichiamo la vanità
Con la speranza e altalenando
Esasperiamo il cuore e dopo
Di gelosia diamogli un fuoco;
Perché se no, di gioie stanco,
L'astuto schiavo là per là
Delle catene si disferà.
XXVI
Altri problemi ora prevedo:
Perché il patrio onore viva,
Senza dubbio tradurre io devo
Di Tatjana la missiva.
Il russo non troppo sapeva,
Riviste nostre non leggeva,
E si esprimeva alquanto male
Nella sua lingua nazionale:
Così scriveva in francese...
Che farci! Lo ripeto ancora:
L'amore in russo finora
Le dame non rendon palese,
Né l'altera lingua nostra
Si piega a una prosa di posta.
XXVII
Si voglion le dame obbligare
A legger russo: è orripilante!
Come le posso immaginare
Con tra le mani «Il benpensante?»(5)
Ditelo voi, o miei poeti:
Le muse dei vostri segreti
Versi a cui nei vostri errori
Voi consacravate i cuori,
Non hanno forse soavemente
La lingua russa un po' straziata,
Da esse padroneggiata
A malapena e malamente,
Eleggendosi a lingua madre
La lingua di altra contrada?
XXVIII
Dio non voglia che incontri a un ballo
O andando via sulla loggetta
Seminaristi in scialle giallo
O accademici in berretta!
Bella bocca non sorridente
Non amo e il russo mi sa di niente
Senza errori di ortoepìa.
Magari, per disgrazia mia,
Le nuove beltà cederanno
Delle riviste all'istanza,
Dell'abbiccì l'osservanza
E dei versi la voga imporranno.
Ma io... Che cosa me ne importa?
Resterò quello d'una volta.
XXIX
Uno scomposto cinguettare
E una pronuncia non ortodossa
Mi faran sempre palpitare
Il cuore in petto a più non posso;
Provarne rimorso non so,
I gallicismi cari avrò
Come le giovani follie,
Di Bogdanòviè le poesie
Ma basta. Adesso dovrei passare
Alla lettera della mia bella;
La mia promessa era ben quella,
Quasi starei per rinunciare...
La penna del dolce Parny
Non è di moda ai nostri dì.
XXX
Se tu fossi qui, mio poeta(6)
Di Festini e languori mesti,
Con una preghiera indiscreta
Ti disturberei: che volgessi
Nella tua armonia fatata
Della fanciulla appassionata
Queste parole forestiere.
Dove sei? Vieni: cederò
Il passo, a te m'inchinerò...
Ma fra i sassi di tristi luoghi,
Disavvezzo il cuore alle lodi,
Solo, su un finnico orizzonte,
Egli va errando, né ha sentore
L'anima sua del mio dolore.
XXXI
Di Tatjana m'è qui davanti
La lettera; devotamente
La serbo e tra segreti pianti
La rileggo continuamente.
Chi mai una tale tenerezza
E tanta effusa gentilezza
E le temerarie parole
Le ispirava nel folle cuore
E tante dolci assurdità?
Non saprei dire. Eccole come
Son nella fiacca traduzione,
Scialba copia della realtà
D'un quadro o un Freischütz eseguito
Da scolarette d'incerte dita.
LETTERA DI TATJANA A ONIEGHIN
Vi scrivo - e che altro di più adesso?
Cosa ancora io dire potrò?
Castigarmi con il disprezzo
Sarà a voler vostro, lo so.
Ma se una goccia di pietà
Per la mia triste sorte avrete,
Forse non mi abbandonerete.
Dapprima volevo tacervi,
E non l'avreste mai saputa,
La mia vergogna, se avessi avuta
Una speranza di vedervi
Dalle nostre parti una volta
Alla settimana o talvolta,
Per sentirvi parlare soltanto,
Per sussurrarvi una parola,
Sempre ad un nuovo incontro ancora
Per giorni e notti poi pensando.
Ma dicono che siete schivo;
E questo deserto vi annoia,
E noi... davvero non brilliamo
Pur se vedervi ci dà gioia.
Perché da noi siete venuto?
In questo villaggio spento,
Io non avrei mai conosciuto
Né voi né il mio aspro tormento.
E poi calmato il turbamento
Dell'inesperta anima mia
Col tempo avrei trovato forse
Un compagno, e fida consorte
Sarei stata e madre anch'io.
Un altro!... No, non avrei dato
Il mio cuore a nessuno al mondo!
Così lassù fu decretato...
Lo vuole il cielo: io sono tua;
L'intera mia vita era pegno
Del sicuro incontro con te;
Dio ti mandò per suo disegno,
Fino alla tomba a vegliar me...
Nel mio sonno mi visitavi,
Non visto già caro ti avevo,
Ai tuoi begli occhi mi struggevo,
Nell'anima mi riecheggiavi
Da tempo... No, non era stato
Un sogno! Entrasti e sull'istante
Ti riconobbi, trepidante
Pensando: eccolo, è arrivato!
Non è così? Ti avevo tante
Volte sentito in me, segreta
Voce, se un povero aiutavo
O se pregando confortavo
Le pene di un'anima inquieta!
E in questo momento stesso,
Dolce visione, non sei tu adesso
Nel trasparente buio passato,
E chino al mio letto parole
Di speranza con gioia e amore
Non mi hai in silenzio sussurrato?
Chi sei? Il mio angelo custode
O il mio perfido tentatore?
Toglimi tu dal mio dilemma.
O forse tutto vano è stato
Inganno dell'anima ingenua!
E altrimenti fu decretato...
Ma così sia! D'ora in avanti
Il mio destino è in mano a te,
Davanti a te verso i miei pianti,
Ti chiedo aiuto per me...
Pensami: sono qui sola,
E nessuno che mi comprende,
E già vacilla la mia mente,
Perirò senza una parola.
Ti aspetto: rianima d'un solo
Sguardo nel cuore la speranza
O, ahimé, con giusta rimostranza
Spezza questo mio brutto sogno.
Basta! A rileggere ho terrore...
Muoio di vergogna e paura...
Ma garante mi è il vostro onore
E a esso mi affido sicura...
XXXII
Tatjana è tutta sospirante;
Le trema in mano la lettera;
E sulla sua lingua bruciante
Il roseo sigillo dissecca.
Sulla spalla la testa reclina.
Scivolando, la camicina
Scoperta ha la spalla graziosa...
Ma ecco la luna luminosa
Si spegne. Laggiù la dolina
Tra i fumi emerge. Argenta il giorno
Il torrente; a un suon di corno
Sveglia il pastore il contadino.
È mattina: si alza la gente,
Tutto a Tatjana è indifferente.
XXXIII
All'aurora nessuna attenzione
Rivolge, siede, china il capo
E sulla lettera non pone
Il suggello già ritagliato.
Ma pian piano la porta ha schiusa
La Filìpievna canuta
Su un vassoio recando il tè:
«Sveglia, bambina mia, che è
Ora! Bellezza, sei già vestita?
Ah uccellino mio mattiniero!
Che paura m'hai fatto iersera!
Ma grazie a Dio sei rifiorita!
Di tanta pena non c'è traccia,
È un papavero la tua faccia.»
XXXIV
- Fammi un favore, njanja! - «Ecco,
Cara, non hai che comandare.»
- Non penserai... ma sì... un sospetto...
Capisci... Ah, non rifiutare! «Giuro su Dio che lo farò.»
- Zitta, zitta, manda da O...
Da lui... da quel vicino... presto
Il tuo nipotino con questo
Biglietto, ma niente non dica
E nemmeno che sono io... «Ma da chi, tesoro mio?
Ormai son proprio rimbambita.
Di vicini ce n'è tanti;
Contarli non so tutti quanti.»
XXXV
- Oh come non capisci, njanja! «Eh, sono vecchia, cara stella;
Il mio cervello è ottuso, Tanja;
Ma una volta ero più sveglia,
Dei padroni agli ordini pronta...»
- Ma che c'entra, njanja, che importa?
Non serve il tuo cervello adesso,
Io devo mandare un biglietto
A Onieghin. - «Oh sì, certamente.
Anima mia, non t'arrabbiare,
Sai che son tarda ad afferrare...
Ma perché sbianchi nuovamente?»
- Oh nulla, cosa vuoi che sia!
Spediscilo subito via. XXXVI
Ma passa un giorno e non si vede
Risposta. Un altro: e non c'è niente.
Pallida, fin dall'alba in piedi:
- Quando? - si chiede Tanja... E attende.
Di Olga arriva l'adoratore,
E la signora domanda: «Dove
Il vostro amico si è cacciato?»
«Di noi si è forse già scordato?»
Trema Tatjana, e si fa rossa.
- Promesso aveva di venire
Oggi, - si affretta Lienskij a dire.
- Forse ha da fare con la posta. Tatjana abbassa lo sguardo,
Quasi a un rimprovero beffardo.
XXXVII
Imbruniva; luceva ronzando
Il samovàr nel suo bollore,
La teiera di Cina scaldando,
Tra spire di lieve vapore.
Nelle tazze da Olga versato
Già scorreva il tè profumato,
Vena di cupa sorgiva.
Un garzone la panna serviva;
Ai freddi vetri col suo fiato
Tatjana alla finestra stava,
Tutta in se stessa, anima cara,
Assorta, e sul vetro appannato
Col suo bel ditino tracciò
La sospirata sigla E. O.
XXXVIII
E intanto la sua anima langue,
Agli occhi ha di lacrime un velo.
Ma ecco, le blocca il sangue
Un trepestío... un galoppo!... Eugenio
Nella corte! «Ah!» - e lieve ombra
Tatjana sguscia all'altra porta,
Alla loggia, al cortile, al giardino.
Vola, vola; né sul cammino
Si volta, d'un fiato varcando
Ponticelli, aiole, boschetto,
Prato e sentiero del laghetto,
Dei lillà i rami scompigliando:
Corre al ruscello, finché stanca
E trafelata su una panca
XXXIX
Cade...
«Eccolo! Sì, Eugenio
È qui! Dio! Cosa avrà pensato!»
Nel cuore, di tormento pieno,
Di speranza un sogno è restato;
Trema, di febbre tutta ardente;
«Mi troverà?» Ma non sente
Che in giardino serve fanciulle
Colgono bacche dai cespugli,
Cantando, come è prescrizione,
In coro (la norma era quella
Affinché alla chetichella
Non mangiasse i frutti al padrone
La bugiarda bocca occupata:
Oh villica astuta trovata!)
CANTO DELLE RAGAZZE
Ragazze, bellezze,
Dolcezze, compagne,
Giocate, ragazze,
Spassatevi, dilette!
Intonate la canzone,
La canzone preferita,
Il bel giovane attirate
Nel nostro girotondo.
E quando attirato l'avremo
E da lontano sbirciato,
Noi ce la fileremo,
Ciliege gli getteremo,
Ciliege, fragolette,
E ribes rosso rosso.
Non venire a spiare
La canzone più segreta,
Non venire a curiosare
In giochi da ragazze.
XL
Cantano e, distrattamente
Le voci ascoltando sonore,
Tatjana aspetta impaziente
Che si calmi il batticuore,
Che passi la vampa alle gote.
Ma anche il petto un tremito scuote,
Né il rossore se ne parte,
Ma con più fuoco ancor più arde...
Tale la povera farfalla
Brilla e sbatte l'ala iridata,
Dal monellaccio catturata;
Tale sussulta tra la paglia
La lepre che appostato avvista
Il cacciatore sulla sua pista.
XLI
Ma alla fine sospirando
Si rialza dalla sua panca:
S'avvia, ma appena sta imboccando
Il viale in faccia le si pianta,
Lo sguardo in fiamme, Eugenio come
Una paurosa apparizione...
E quasi avvolta da un falò
Subito il passo lei fermò.
Ma di questo inatteso incontro
Il seguito, o amici cari,
Non ho oggi forza di narrare;
Dopo un così lungo discorso
Prendo fiato, passeggerò:
Come che sia, poi finirò.
[Note dell'autore]
(1) Nell'edizione precedente, invece di volano a casa [in russo, domoj letjat] era stampato per errore volano d'inverno
[in russo: zimoj letjat] che non aveva senso alcuno. I critici, non avendo compreso ciò, vi trovarono un anacronismo
con le strofe successive. Ci permettiamo di assicurare che nel nostro romanzo il tempo è calcolato secondo il nostro
calendario.
(2) Julie Wolmar: La nuova Eloisa. Malek-Adhel: protagonista di un mediocre romanzo di M.me Cottin. Gustave de
Linar protagonista di un incantevole racconto della baronessa Krüdner.
(3) Il vampiro: racconto erroneamente attribuito a Lord Byron. Melmoth: la geniale opera di Maturin. Jean Sbogar:
noto romanzo di Charles Nodier.
(4) Lasciate ogni speranza voi ch'entrate [sic]. Il nostro modesto autore ha tradotto soltanto la prima metà del celebre
verso.
(5) Rivista un tempo pubblicata alquanto irregolarmente dal defunto A. Izmàjlov'. L'editore si scusò una volta col
pubblico stampando che nei giorni di festa era andato a spasso.
(6) E. A. Baratynskij.
CAPITOLO QUARTO
La morale est dans la nature des choses.
Necker
I - II - III - IV - V - VI
VII
Quanto meno una donna amiamo
Tanto più facile è piacergli,
Tanto meglio l'intrappoliamo
Di seduzione nei cerchi.
Il sanguefreddo dissoluto
Genio in amore era tenuto:
Di se stesso ovunque trionfando,
Se la godeva non amando.
Ma questa procerva baldoria
È ormai roba da babbuini,
Da tempi dei nostri nonnini;
Di Lovelace vetusta è la gloria,
Come i tacchi di rosso tinti
E i parrucconi superspinti.
VIII
Fare l'ipocrita, rifriggere
Sempre una cosa in varia salsa,
Adoperarsi per convincere
Di quel che ognuno sa e n'avanza;
Sentir sempre quelle obiezioni,
Confutare viete opinioni
Che non esiston più nemmeno
Fra le tredicenni: che pena!
Chi non è stufo di minacce,
Di suppliche, di finti affanni,
Di lunghe epistole, di inganni,
Di anelli, lacrime e linguacce,
Mamme e zie guardiane, e mariti
Troppo amici maldigeriti!
IX
Così la pensava il mio Eugenio.
In preda a errori turbolenti
Ed a passioni senza freno
Trascorsi aveva gli anni verdi.
Dalle abitudini viziato,
Da questo o quello affascinato
E poi deluso in un momento,
Di brama struggendosi lento
O a successi senza durata,
Nel silenzio e in mezzo al rumore,
Dell'anima attento al fervore,
Nascondendo nella risata
Lo sbadiglio, aveva distrutto
Otto begli anni senza frutto.
X
Delle belle non più innamorato,
Alla stanca le corteggiava,
A un «no» subito rassegnato;
Se lo tradivano, respirava.
Ne andava in caccia senza ebbrezza,
Le lasciava senza tristezza
Scordando amore e crudeltà.
Proprio come un ospite va
Indifferente a un whist serale,
Si siede, tira là a finire,
E poi uscendo dal cortile
Ritorna a casa a riposare:
Senza che sappia lui stesso
Dove sarà la sera appresso.
XI
Ma, avuto di Tanja il messaggio,
Eugenio ne fu assai commosso;
Del virgineo sogno il linguaggio
Tanti pensieri aveva smosso;
Ricordando la luce e l'aspetto
Di Tatjana pallido e mesto,
In un sogno soave e terso
Si era con l'anima immerso.
Forse dei sensi il vecchio ardore
Per un attimo lo riprendeva;
Ma ingannare lui non voleva
Di un'anima pura il candore.
E adesso al giardino voliamo
Dove s'incontran lui e Tatjana.
XII
Per un po' restarono zitti,
Poi Onieghin le si avvicinò
Dicendo: «Mi avete scritto,
Non negatelo. A lungo ho
Letto lo sfogo confidente
Del vostro amore innocente;
Mi è caro il vostro candore
Che ha rimesso in moto nel cuore
Sopiti a lungo sentimenti;
Io di lodarvene non penso,
Ma vi posso offrire in compenso
Franchezza senza infingimenti;
La mia confessione accettate:
Di me voi stessa giudicate.
XIII
«Se la mia vita a una famiglia
Avessi inteso riservare;
Se mi avesse una sorte benigna
Destinato a marito e padre;
Se di un domestico quadretto
Mi avesse incantato l'aspetto, Non avrei, tranne voi, cercata
Nessun'altra fidanzata.
Senza orpelli madrigaleschi
Dirò: avrei il mio antico ideale
Solo in voi voluto cercare,
La compagna ai miei giorni mesti,
Di beltà il pegno, e sarei stato
Felice - per quel che ci è dato.
XIV
«Ma non per la felicità
Son fatto; l'anima gli è estranea;
Le vostre belle qualità
Non le merito, sono vane.
Sarebbe (vi dico in coscienza)
La nostra unione una sofferenza;
E subito tutto il mio amore
Si muterebbe in disamore;
Dalle vostre lacrime poi
Non sarebbe il mio cuore toccato,
Ma anzi ancora più irritato.
Giudicate adesso voi
Quali rose, e chissà per quanto,
Ci appresterebbe Imeneo intanto.
XV
«Cosa di peggio immaginare
Di una famiglia dove sempre
La moglie è sola e sopportare
Deve un marito indisponente
E stufo che, pur apprezzando
Le sue doti, vada imprecando
Al destino - muto, ombroso,
Collerico e a freddo geloso!
Così io sarei. E cercavate
Questo, voi ardente di purezza,
Quando a me con tanta schiettezza
E intelligenza scrivevate?
Questa sorte triste davvero
Vi ha serbato il destino severo?
XVI
«Non c'è ritorno ai sogni e agi anni,
Non rinnoverò cuore e mente...
Da fratello io sento d'amarvi,
Forse anche più teneramente...
Non adiratevi, ascoltate:
Spesso voi fanciulle mutate
I sogni in altri lievi sogni,
Come a primavera le foglie
L'alberello usa cambiare.
Così, si vede, è volontà
Del cielo. Riamerete: ma...
Sappiatevi ben dominare;
Forse altri non vi capirebbe,
L'inesperienza vi nuocerebbe.»
XVII
Di Eugenio questa paternale
Con lo sguardo tutto velato
Di lacrime, senza fiatare,
Tatjana aveva ascoltato.
Lui porse il braccio: tristemente
(Altri dirà: macchinalmente)
Tatjana tacita si appoggiò,
E languida il capo chinò;
Li videro insieme rientrare
In casa girando per l'orto,
Ma non gliene fecero un torto:
Perché la libertà rurale
I suoi bei diritti conserva,
Come anche i suoi Mosca superba.
XVIII
Lettore, anche tu hai constatato
Che con gentilezza molta
Si è il nostro amico comportato;
Né era quella la prima volta
Che un nobile cuore mostrava,
Benché in nulla lui risparmiava
Il malanimo della gente;
E nemici e amici ugualmente
(Che forse fan le stesse parti)
L'offendevan di qua e di là.
Nemici ognuno al mondo ne ha,
Ma dagli amici Iddio ci guardi!
Amici, amici, proprio così:
E non per nulla lo scrivo qui!
XIX
E allora? Mah! Ogni nero e vuoto
Mio sogno metterò a dormire;
E tra parentesi lo noto
Che non c'è calunnia vile,
Da un vespaio di bugie nata
E dalla feccia fomentata
Della migliore società,
Né epigramma, né assurdità,
Che un tuo amico non diffonda
In una cerchia perbenista
Cento volte come per svista,
Ridendo, senza astio né onta;
Del resto per te è tutto ardente:
Ti vuol bene... come a un parente!
XX
Eh, eh! Lettore mio bennato,
I tuoi parenti stanno bene?
Permetti; vuoi il significato
Adesso tu da me sapere
Di questa parola? Ecco qui.
I parenti son gente così:
È nostro dovere blandirli,
Volergli bene, riverirli;
E secondo l'uso corrente
Per Natale visitarli
O per posta gli auguri fargli,
Così che per il rimanente
Dell'anno si scordin di noi...
E che Dio li conservi, poi!
XXI
Mentre l'amore delle belle
È meglio che parenti e amici:
Alle più agitate procelle
Resistono i vostri diritti.
Eh sì. Ma della moda il vento,
Ma il capriccioso mutamento,
Ma le chiacchiere, il pettegolezzo...
Come una piuma è il gentil sesso.
E poi la moglie virtuosa
Del marito dovrebbe ossequiare
Perfino il modo di pensare;
Così la vostra fida sposa
Può dar di smanie tutt'a un tratto:
In amore il diavolo è matto.
XXII
Chi dunque amare? Di chi fidarsi?
Chi una trappola non ci tende?
Chi in atti e parole adeguarsi
A grado nostro vorrà sempre?
Chi su di noi non spargerà
Calunnie? Chi ci blandirà?
Chi al nostro vizio perdonare
Saprà e non farci mai annoiare?
Tu, di fantasmi inseguitore,
Non sprecare più sforzi adesso,
Ma unicamente ama te stesso
O mio spettabile lettore!
È un degno oggetto: non ce n'è
Uno più amabile di te.
XXXIII
Dell'incontro le conseguenze
Ahimé è facile immaginare:
D'amore folli sofferenze
Non cessarono di agitare
Quell'assetata di dolore
Anima: anzi con più ardore
La povera Tanja si strugge;
E dal suo letto il sonno fugge;
La salute, fiore di vita,
Il sorriso, la serenità,
Tutto, in un fiato, se ne va,
La sua gioventù è appassita:
Tale di tempesta scende
Un nembo sul giorno nascente.
XXIV
Ahimé, Tatjana sfiorisce,
Taciturna nel suo pallore
Si spegne! Niente la invaghisce,
Niente muove più il suo cuore.
Gravemente scuotendo il capo
Mormorano nel vicinato:
Sarebbe ora che gli si dia
Marito!... Oh basta. Più allegria
Reclama l'immaginazione:
Un amore di latte e miele.
E io, cari miei, senza volere
Ho ceduto alla compassione;
Scusatemi: troppo la amo
La mia carissima Tatjana!
XXV
Dunque Vladìmir, sempre più
Dalla bella Olga incantato,
A quella dolce schiavitù
Con tutta l'anima si è dato.
Sempre è da lei. Siedono insieme
Nella sua stanza se il buio viene.
O a mani avvinte nel mattino
Passeggiano per il giardino;
Eh già. Ma solo qualche volta
Egli osa, inebbriato d'amore,
Scosso da un tenero pudore,
Ma incoraggiato un po' da Olga,
Con un ricciolo sciolto scherzare
O la sua veste baciare.
XXVI
O di un romanzo educativo
Egli a Olga dà lettura,
Il cui autore è più erudito
Di Chateaubriand sulla natura;
Ma due o tre pagine qua e là
(Vane chimere, irrealtà
Nocive al verginale cuore)
Tuttavia salta, con rossore.
O anche, da tutti rifuggendo,
Siedono al gioco degli scacchi,
Puntati i gomiti sul tavolo,
Meditabondi riflettendo.
E Lienskij poi per distrazione
Scambia la torre con un pedone.
XXVII
Pur se rincasa, gli è davanti
Sempre di Olga la presenza.
Di album foglietti volanti
Orna per lei con diligenza:
Disegna qui lira e colomba,
Di Cipride un tempio, di tomba
Una stele o un rustico posto,
Un po' a colori e con l'inchiostro;
O nella parte promemoria,
Dopo gli autografi di chissà
Chi altri, un verso lascerà
D'un sogno tenera memoria,
Lunga traccia d'un balenante
Pensiero anni perdurante.
XXVIII
Avrete voi certo osservato
L'album di qualche signorina
Provinciale, scarabocchiato
Dalle amiche d'in fondo in cima:
E lì, in barba all'ortografia,
Quei versi senza prosodia
Profusi per eterno affetto,
Qual troppo lungo o troppo stretto.
Ci troverai in apertura
Qu'écrirez-vous sur ces tablettes;
E la firma: t. à. v. Annette;
Mentre puoi leggervi in chiusura:
«Se c'è chi ti ama di più
Scriva pure di qui in giù.»
XXIX
Due cuori, fiaccola e ghirlanda
Scoprirete lì indubbiamente;
D'amore dum vivam et ultra
Rileggerete i giuramenti;
E l'uffiziale rimaiolo
Che ha scritto un verso un po' mariolo.
In un album così, o amici miei,
Confesso, anch'io ci scriverei
In tutta l'anima tranquillo
Che ogni mia fervida scemenza
Sarà vista con indulgenza,
E che sorridendo maligno
Nessuno vorrà stabilire
Se abbia saputo o no mentire.
XXX
Ma voi, o tomi scompagnati
Di diaboliche biblioteche,
Album sfarzosi e raffinati,
Supplizio di moda ai poeti,
Voi, resi illustri sul momento
Da un Tolstoj pittore portento
O dalla penna di Baratynskij,
Dio vi fulmini e incenerisca!
Quando una lustreggiante dama
Mi si presenta col suo in-quarto,
Tremo di rabbia tutto e ardo
Che già mi sento l'epigramma
In fondo al cuore pronto e vivo:
Ma un madrigale poi le scrivo!
XXXI
Lienskij non scrive madrigali
Nell'album della giovane Olga;
La sua penna fa respirare
D'amore, acutezze non sfoggia;
Ciò che di Olga nota o sente
Lui lo scrive immediatamente:
Piena di viva verità
L'elegia come un fiume va.
Così tu, Jazykov estroso,
Che negli impeti del cuore
Canti Dio sa di quale amore,
E un giorno un libro prezioso
Di elegie tutto il cammino
Ti svelerà del tuo destino.
XXXII
Ma zitto! Senti? Ci comanda
Un critico di gettar via
Dell'elegia la ghirlanda
E alla poetica consorteria
Austero grida: «Basta coi pianti
Nostalgici, gracidanti
Monotoni il tempo che fu:
Cantate d'altro!» - «Eh certo, tu
Hai ragione, tu che ci esorti
A tromba e maschera e pugnale
E ordini di resuscitare
Un capitale di già morti
Pensieri. Eh, amico?» - «Oh, tutte storie!
Scrivete odi, o miei signori,
XXXIII
Come scrivevano ai bei tempi,
Come usava alla grande età...»
- «Solo le odi più eloquenti!
Suvvia, che differenza fa?
Rammenta il detto del satirico!
Del ( pro d'altrui ) lo scaltro lirico
Meno noioso riterresti
Dei nostri menestrelli mesti?» «Ma non è una cosa seria
L'elegia, approda a poco,
Mentre l'ode ha un sublime scopo...»
E qui ci sarebbe materia
Da discutere, ma sto zitto:
Due secoli porrei a conflitto.
XXXIV
Di gloria e di libertà
Seguace, Vladìmir potrebbe
Anche scrivere odi; ma
Olga non le leggerebbe.
Dunque i poeti lacrimanti
Declamano i loro canti
Alle amate? Si dice che
Miglior premio al mondo non c'è,
E in realtà beato chi legge
Umile i sogni del suo cuore
A un oggetto di versi e amore,
Alla bella tutta in giulebbe!
Beato lui... benché poi lei
A che altro pensi non saprei.
XXXV
Ma i frutti delle mie visioni,
Dell'armoniosa stravaganza,
Io li leggo alla vecchia njanja,
Compagna della mia infanzia.
O dopo un pranzo annoiato
Al vicino che da me entrato
Afferro per la giacca e blocco
Con una tragedia in salotto.
O (no, non scherzo) penando
D'angoscia e rime quando vado
Errante lungo il mio lago
E spavento di anatre un branco,
Che al suono della mia poesia
Dalle rive volano via.
XXXVI - XXXVII
E Onieghin? Ah giusto, fratelli!
Vi prego, un po' di pazienza:
I suoi quotidiani fardelli
Descriverò con diligenza.
Da anacoreta egli viveva:
La sveglia alle sette metteva
D'estate e, abbigliato in costume
Da bagno, era subito al fiume;
Di Gulnàra il vate imitando
L'Ellesponto lui pure a nuoto
Varcava e riviste dappoco
Poi scorreva, il caffè sorseggiando,
E si vestiva...
XXXVIII - XXXIX
Gite, letture, sonni interi,
Boschi, rivi mormoranti,
Di una bella dagli occhi neri
I baci giovani e fragranti,
Un cavallo docile e ardente
Un pranzo dal menu esigente,
Una bottiglia di chiaretto
E starsene in pace soletto:
Di Onieghin la vita beata
È questa e lui si lascia andare
Senza più i giorni contare
Della sua estate spensierata,
Gli amici obliando e la città,
Le tediose formalità.
XL
Ma l'estate settentrionale,
D'inverni al sud caricatura,
Benché non si ammetta, è il brillare
Di un attimo che non dura.
Ecco che il cielo già respira
Autunno e il sole obliquo mira,
Il giorno diventa più breve,
L'ombra dei boschi con un lieve
Triste fruscìo s'è spogliata,
Si spande la nebbia sui campi,
La teoria delle oche gridanti
Verso il sud si è dispiegata:
Ecco ormai l'uggiosa stagione;
Novembre sta dietro il portone.
XLI
Sorge nella fredda foschìa
L'alba, la campagna è muta;
Il lupo è in caccia sulla via
Con la sua affamata lupa.
Lo annusa il cavallo di posta,
Soffia, s'inerpica alla costa
Il viandante col fiato in gola;
E le mucche di buon'ora
Fuori di stalla più non manda
Il mandriano, né a mezzogiorno
Le aduna al suono del suo corno;
Nella casupola fila e canta
La fanciulla e scricchiano i ciocchi
Al fuoco, amico delle sue notti.(1)
XLII
E scricchiola anche il gelo
E per i campi s'inargenta...
(Qui si aspetta una rima in cielo
Il lettore; beh, se la tenga!)
Più lustro di un parquet elegante
Veste il fiume un ghiaccio brillante.
Pattinando fra lieti schiamazzi(2)
Solcano il ghiaccio i ragazzi;
Con le rosse zampe panciuta
L'oca credendo di nuotare
Si trova a dover arrancare
Sul ghiaccio, scivola, è caduta;
La prima neve turbina, arriva,
Cala giù a stelle sulla riva.
XLIII
Che fare? Una passeggiata
Solitaria e in questa stagione?
La campagna tutta spogliata
Già a guardarla dà irritazione.
Nella steppa galoppare?
Ma il cavallo non può graffiare
Il ghiaccio, liscia è la ferratura,
Che cada c'è da aver paura.
Stai nella casa abbandonata.
Leggi: un Walter Scott, un Pradt.
Controlla i conti. O non ti va?
Bevi o infùriati: la serata
Passerà e domani altrettanto.
E sbarcherai l'inverno intanto.
XLIV
Nella pensosa accidia è entrato
Come Childe-Harold anche Eugenio:
Bagno nel ghiaccio appena alzato
E quindi in casa il giorno intero.
Tutto immerso nel conteggio,
Con una stecca alla meno peggio,
Fin dal mattino gioca adesso
A biliardo con se stesso.
Ma poi la sera sopraggiunge:
Piantati lì biliardo e stecca,
Già apparecchiato, Eugenio aspetta
Al caminetto: ed ecco giunge
Lienskij su una trojka di tre
Cavalli grigi; a pranzo, alè!
XLV
Subito il vino benedetto
Della Veuve Clicquot o di Moët
Per il poeta viene messo
Ghiacciato in tavola. È
Un Ippocrene scintillante;
Con la sua spuma frizzante
(Che fa pensare a tutto un po')
Mi affascinava: per lui ho
Spesso l'ultimo mio spicciolo
Dato via. Vi ricordate,
Amici? Ah, ne ha combinate
Di follìe il suo magico sprizzo!
E quanti scherzi, anche, e poesie,
Baruffe e allegre fantasie!
XLVI
Ma la sua spuma frusciante
Ora il mio stomaco tradisce,
E io il Bordeaux più benpensante
A esso dunque preferisco.
Non son più fatto per l'Ay;(3)
L'Ay è come un'amante, così
Sfavillante, viva, sventata
E capricciosa e svuotata...
Ma tu, Bordeaux, sei l'amico
Che nel dolore e nell'affanno,
Dovunque e sempre buon compagno,
È pronto a renderci servizio
O a spartire un tranquillo ozio.
Viva il Bordeaux amico nostro!
XLVII
Il fuoco è spento; un velo di cenere
Copre appena le braci d'oro;
Un filo appena percettibile
Di vapore sale; e un tepore
Sfiata il camino. Di pipe va
Su per la cappa un fumo. Là
Sul tavolo frizza lucente
Un calice. Il buio scende...
(Mi è caro il bel calice rosso,
Caro mi è il lume della bugia,
In quell'ora che a mezza via
Tra lupo e cane un vecchio motto
Chiama, chissà per qual ragione.)
Fanno ora i due conversazione:
XLVIII
«Beh, e le vicine? E Tatjana?
E la tua Olga vivacissima?»
- Mezzo bicchiere ancora... Piano...
Basta così... Stanno benissimo
Tutti e ti mandano i saluti.
Che belle spalle ha messo su
Olga, sapessi, e che bel seno!
E che anima! Un giorno ci andremo,
Per loro sarà un gran piacere;
Del resto capire lo puoi
Tu stesso: due visite e poi
Non ti sei fatto più vedere.
Ma giusto... Son proprio svanito!
Fra una settimana hai un invito. XLIX
«Io?» - Sì, sabato è il nome
Di Tatjana. Olga e la madre
T'invitano; non c'è ragione
Perché tu non debba accettare. «Ma chissà che mucchio di gente,
Che accozzaglia...» - No, niente
Di tutto ciò, sono sicuro!
La famiglia e basta, ti giuro!
Suvvía, mi fai questo piacere? «Va bene, vengo.» - Oh che gentile! Lui tracannava in questo dire
Per la vicina il suo bicchiere,
E poi a parlare proseguì
Di Olga: l'amore è così!
L
Era felice. Mancavano
Due settimane al fausto evento.
Del letto nuziale l'arcano,
Al dolce amore scioglimento,
Le sue estasi già aspettava.
E nemmeno se li sognava
Di Imene i guai e gli scompigli
E il freddo turno degli sbadigli.
Ma per noi che Imene aborriamo
La vita matrimoniale
È una specie di funerale,
Un romanzo lafontainiano...(4)
Il mio Lienskij con tutto il cuore
Era per questo grigiore.
LI
Era amato... O almeno così
Pensava ed era contento.
Cento volte beato chi
Fa tacere il ragionamento,
Si affida al tenero suo cuore
Come l'ebbro viaggiatore
All'albergo o anche una lieve
Farfalla al fiore cui s'imbeve.
Ma infelice chi sa già tutto
E non si fa girar la testa,
Chi ogni moto e parola detesta
Nel loro reale costrutto,
Chi raggelato dall'esperienza
Proibisce al cuore ogni demenza!
[Note dell'autore]
(1) Nelle riviste ci si è meravigliati del come sia stato possibile chiamare fanciulla una semplice contadina, mentre,
poco più avanti, delle signorine di buona famiglia vengono chiamate ragazze!
(2) «Ciò significa - osserva uno dei nostri critici - che i ragazzini vanno sui pattini.» Giusto.
(3) Ai miei begli anni - Il poetico Ay - Mi piaceva per la frizzante schiuma, - Per questa immagine dell'amore - O della
folle gioventù ecc. (Epistola a L. P.)
(4) Auguste Lafontaine, autore di numerosi romanzi per famiglia.
CAPITOLO QUINTO
Oh, via da te questi paurosi
Sogni, o mia Svetlana!
Žukovskij
I
Quell'anno il tempo autunnale
Nella corte a lungo indugiò,
L'inverno dovette aspettare,
Solo a gennaio nevicò:
Il tre, la notte. Tatjana, desta
Di buon mattino, dalla finestra
Vide la corte imbiancata,
Le aiole, i tetti, la staccionata,
Sui vetri ricami a perline,
Inargentati gli alberi, allegre
Nella corte le gazze e lieve
Posato sopra le colline
Un manto invernale lucente.
Tutto bianco, tutto splendente.
II
L'inverno!... Esulta il contadino
In slitta la pista provando;
Tenta il trotto il suo cavallino
Incerto, la neve fiutando;
Tracciando strisce vellutate
Vola la kibìtka audace;
Cintura rossa e impellicciato,
Sta il conducente in serpa issato.
Corre uno scapestratello
Trainando sullo slittino
(Lui fa il cavallo) il cagnolino;
Un dito già gli si congela:
Ahi, ahi, che male, benché rida,
E mamma affacciata lo sgrida...
III
Ma temo che da una tal fatta
Di quadri non siate attirati;
Sono di natura bassa
E non molto sofisticati.
Da divina fiamma sospinto,
Altro poeta ci ha dipinto(1)
La prima neve e le invernali
Gioie con stile senza pari;
Vi incanta, lo potrei giurare,
Quando descrive in versi ardenti
Slitte e segreti appuntamenti;
Ma non voglio con lui gareggiare,
Né con te, o cantore cortese(2)
Della giovane finlandese.
IV
Russa nell'anima, Tatjana,
Non sapendo il perché lei stessa,
L'inverno russo ama
Nella sua gelida bellezza:
La brina al sole che s'indora,
Le slitte, sul far dell'aurora
Riflessi di nevi rosate,
Di Epifanìa buie serate.
In casa sua le festeggiavano
All'uso antico: e la sorte
Le serve di tutta la corte
Alle signorine dettavano,
Ogni anno con la predizione
Di un marito di guarnigione.
V
Tanja credeva alle tradizioni
Del tempo antico popolare,
Alle carte, a sogni e visioni,
E all'oroscopo lunare.
La inquietava il minimo segno,
Un misterioso disegno
In ogni oggetto lei scorgeva
E di presagi si struggeva.
Sulla stufa un micetto intento
A far le fusa e a lustrarsi
Per lei era da interpretarsi
Ospiti certi. E vedendo
A sinistra improvvisamente
La bicorne luna crescente
VI
Lei tutta pallida tremava.
O quando una stella cadente
Nel cupo cielo precipitava
Poi perdendosi - immediatamente
Tatjana con trepidazione,
Perdurando l'apparizione,
Mormorava il desiderio
Del suo cuore. O se un frate nero
Incontrava per avventura,
O una svelta lepre nei campi
Le tagliava il cammino davanti,
Interita dalla paura,
Aspettava ormai rassegnata
La disgrazia così annunciata.
VII
Eh sì. Per l'orrido attrazione
Lei provava addirittura:
Tanto inclini a contraddizione
Ci ha creati la natura.
È già Natale! Che bellezza!
Scruta oroscopi la giovinezza
Che non ha rimpianto di niente
E alla vita si protende
Verso un tempo infinito e terso;
Sull'orlo della fossa scruta
Oroscopi la vecchiaia occhialuta
Che tutto per sempre ha perso;
Ma anche per essa sa mentire
La speranza, balbetta infantile.
VIII
Tatjana fissa con impegno
La cera che affonda accagliando
E a lei nel suo strano disegno
Qualcosa di strano annunciando;
Colma d'acqua c'è una scodella,
Ne estraggono a turno gli anelli;
Ed ecco il suo che è capitato
Con la canzone di un tempo andato:
«Ogni bifolco là è un signore
Con oro e argento a volontà;
A chi gli tocca, prosperità!»
Ma è un'aria triste, porta dolore
Per le ragazze la canzoncina;
Gli piace di più «La gattina».(3)
IX
Notte di gelo e cielo splendido;
Volge quieto e concorde
Degli astri il coro stupendo...
Tatjana nella vasta corte
Esce in abito leggero,
Uno specchietto mostra al cielo;
Ma nel buio specchio soltanto
Trema una luna tutta pianto...
Ssss!... La neve scricchiola... Un uomo!
In un soffio lei gli è vicina,
Gli parla con la sua vocina
Che ha di zampogna il dolce suono:
Ditemi il vostro nome! Un po'(4)
Lui la squadra e risponde: Agafòn.
X
Per consiglio della njanja
Tatjana vuole strologare
Di notte e per due nella banja
Ha ordinato di apparecchiare;
Ma ad un tratto ha avuto paura...
E - pensando a Svetlana - io pure
Qui m'impaurisco. Ebbene, sia:
E basta con l'astrologia.
La cintura di seta già
Si è tolta, si sveste, s'infila
In letto. Aleggia su lei Cupìdo,
Sotto il cuscino di piume sta
Lo specchietto. E intorno ogni cosa
È silenzio. Tatjana riposa.
XI
Tatjana sogna un sogno strano
Sognandosi come se stesse
Andando su un nevoso piano
Fra tenebre tristi e spesse.
Neve a mucchi le sta davanti,
Con i suoi gorghi turbinanti
C'è un cupo torrente agitato
Che l'inverno non ha incatenato;
Due assi tenute un poco
Dal ghiaccio su quel fiumicello
Fanno un precario ponticello;
E sul rumoreggiante vuoto
Tutta perplessa e impressionata
La ragazza si è fermata.
XII
E se la prende col torrente,
Dispettosa barriera;
Nessuno una mano a tenderle
Sull'altra sponda c'era.
Ma ecco un cumulo si smotta
E chi mai esce di là sotto?
Un orso arruffato e grande;
Ah! - fa Tatjana, ma lui rugliante
Una zampa di artigli aguzzi
Porge a lei che alquanto schiva
E assai tremante ci si affida;
E con timidi passettuzzi
Varca il torrente e va... Ma adesso
Che c'è? L'orso le sta appresso!
XIII
Lei non osa indietro voltarsi,
Accelera il passo trepido;
Ma in nessun modo può sganciarsi
Dal suo irsuto lacchè;
E l'orso arranca, il seccatore;
C'è il bosco; nel cupo splendore
I pini immobili e greve
Sui rami sta a zolle la neve;
E fra le cime di betulle,
Di trèmule, di nudi tigli,
Gli astri della notte brillano;
Nessun sentiero; erte e cespugli
La tormenta ha cancellati
E nella neve sprofondati.
XIV
Tanja è nel bosco e con lei l'orso;
La neve al ginocchio le arriva;
E ora un lungo sterpo al collo
L'aggancia o dagli orecchi a viva
Forza i pendenti d'oro strappa;
O dal bel piede via le sguazza
Dentro la neve una scarpetta;
Ora le cade il fazzoletto;
Non lo raccoglie: del ronfante
Orso che incalza ha terrore,
Né della gonna per pudore
Alza un lembo la mano tremante;
Lei corre e quello le sta su,
E a correr non ce la fa più.
XV
Nella neve cade, immediataMente l'orso l'ha ghermita;
Lei non si muove più, non fiata,
Gli si abbandona tramortita.
E nel bosco cammina e cammina,
Finché trovano una capannina
Nella macchia fitta e deserta,
Di neve intorno ricoperta:
Ma alla finestra luce di smalto
E dentro chiasso e gran parlare;
L'orso annunzia: «Qui è il mio compare.
Qui troverai un po' di caldo!»
E infila diritto il portone,
Sul limitare la depone.
XVI
Rinviene, apre gli occhi Tatjana:
L'orso non c'è; dal limitare
Sente uno sbicchierìo, una buriana
Da festino di funerale;
Non capisce che cosa sia,
E attraverso un buco spia,
E cosa vede? Mostri seduti,
Tutti a un tavolo convenuti:
Muso di cane e corna ha quello,
L'altro ha di gallo la testina,
C'è una strega con barba caprina
E uno scheletro che fa il bello,
Qui un nano col codino e in giù
Un mezzo gatto e mezza gru.
XVII
E, più orribile e più grottesco,
C'è un gambero a un ragno in sella,
Su un collo d'oca ruota un teschio
Con un suo rosso cappello;
E c'è un mulino che la prisjadka
Balla e stride e le ali sbatte:
E abbaiamenti, risa, bòtti,
Bla-bla di voci, chlop di zoccoli!(5)
Ma figuratevi Tatjana
Quando, fra gli ospiti del pranzo,
L'eroe del nostro romanzo
Scorge, colui che teme ed ama!
Onieghin se ne sta a sedere,
Guarda all'uscio senza parere.
XVIII
Basta un suo cenno - e ognuno scatta;
Lui beve - e ognuno beve e smòccola;
Lui ride - e ognuno sghignazza;
Si acciglia - e tutti acqua in bocca;
Nessun dubbio che è lui il padrone;
Per Tanja è una consolazione
E dunque per curiosità
Quell'uscio un poco ha schiuso già...
Ma una folata di vento
Fa spegnere ogni lucerna,
La banda spettrale costerna;
E negli occhi scintille ardendo
In piedi Onieghin con trambusto
Balza (e con lui gli altri) e va all'uscio.
XIX
E Tatjana ha paura, tenta
Inutilmente di scappare:
Impossibile; con impazienza
Si agita, cerca di gridare:
Non ce la fa; Eugenio ha aperto
La porta e agli spettri d'inferno
La ragazza è apparsa, fra scrosci
Di selvagge risa. E proboscidi
Di quei mostri, zampe unghiute,
Code a cresta, zanne, denti,
Baffi, lingue sanguinolenti,
Occhi, corna e dita nocchiute
Si vanno su di lei puntando:
È mia! È mia! - tutti gridando.
XX
È mia! - Eugenio taglia corto,
E già la banda si è dileguata;
In quella tenebra di gelo
Sola con lui Tanja è restata.
E Onieghin verso un angolino(6)
La sospinge pian pianino,
Su una panca che traballa,
Le posa il capo sulla spalla;
Ma in quel mentre entra Olga
Con Lienskij; si accende una luce;
Onieghin fa un gesto e truce
Roteando gli occhi si adonta
Con gli intrusi; riversa sta
Tatjana più di là che di qua.
XXI
La zuffa cresce; Eugenio a un tratto
Prende un coltello e in un istante
Lienskij è a terra; il buio si è fatto
Atroce; da un grido straziante
La capanna è come squassata...
Tanja si sveglia spaventata...
Nella stanza è ormai giorno: brilla
Sui vetri ghiacci la scintilla
Del primo sole. Ed ecco vede
La porta schiudersi, Olga entrare,
Purpurea aurora boreale
E di una rondine più lieve;
Vola da lei, l'ha interrogata:
«Dimmi, chi ti sei sognata?»
XXII
Ma lei, per nulla badando
Alla sorella, se ne sta ancora
A letto un libro compulsando
Senza profferir parola.
Benché non sveli quel volume
Di poeti dolcezze, o lume
Di sapienti, o figure, non c'è
Seneca, Byron, Virgilio, né
Scott o Racine, né rivista
Di mode che più di esso
Abbia avuto mai successo;
È Martyn Zadièka, analista(7)
Di sogni e mago, amici miei,
E capo dei savi caldèi.
XXIII
Quell'opera così importante
Un giorno l'aveva portata
In quel deserto un ambulante
E a Tatjana l'aveva lasciata:
Per rubli tre e cinquanta esatti,
Con una Malvina tutta strappi
E in più, tutto in una volta,
Di storielle una raccolta,
Due Petrìadi, un manualetto
Di grammatica, il tomo tre
Di Marmontèl. Da allora è
Martyn Zadièka il prediletto
Di Tanja, suo conforto in ogni
Pena e compagno dei suoi sonni.
XXIV
Quel sogno adesso la tormenta;
Tatjana non sa capire
E della visione tremenda
Il senso cerca di scoprire.
L'indice è molto sintetico;
Lei scorre in ordine alfabetico
Le parole: bosco, bufera,
Neve, orso, ponte, strega, sera
E così via. Martyn Zadièka
I dubbi non fa dileguare:
Ma presagi di cose amare
A lei il maligno sogno reca.
E per parecchi giorni ancora
Ci pensava col cuore in gola.
XXV
Ma ecco con purpuree dita(8)
L'aurora che insieme al sole
Da mattutine valli invita
Alla gaia festa del nome.
Casa Larin fin dal mattino
Rigurgita: ogni vicino
Con famiglia al completo in kibìtka
È arrivato, in brièka, in slitta.
Ressa all'entrata; nel salotto
Presentazioni e sbaciucchiarsi
Di ragazze, tutti a pigiarsi,
Botoli urlanti, risa, un sottoSopra, inchini, piedi struscianti,
Strilli di balie e di poppanti.
XXVI
Con la sposa monumentale
Ecco Pustjàkov il grassone;
Gvozdín, padrone esemplare
Di un contadiname straccione;
Gli Skotinìn, coppia matura
Con figli d'ogni età e misura
Fra i trent'anni e i due; Petuškòv,
Gagà paesano; Bujanòv,(9)
Quel personaggio ultrapeloso
A voi noto, col berrettino
A visiera, che mi è cugino;
E Fljanòv, consigliere a riposo,
Pettegolo, vecchio briccone,
Grassatore, ingordo e burlone;
XXVII
Con la famiglia Charlikòv
Anche Monsieur Triquet è venuto,
Spiritosone di Tambòv,
In parrucca fulva e occhialuto.
Da francese che si rispetta
Porta a Tatjana una strofetta
Sull'aria nota che fa così:
Réveillez vous, belle endormie.
Quella strofetta, stampata
In un almanacco vecchissimo,
Triquet poeta ingegnosissimo
Dalla polvere ha riesumata,
E ha messo al posto di belle Ninà
Con somma audacia belle Tatianà.
XXVIII
Da signorine un po' tardone
Idolatrato alla follìa
E delle mamme consolazione,
C'è un comandante di compagnia;
Eccolo... È sensazionale!
E la banda reggimentale
Ci sarà, ordine del colonnello!
Avremo un ballo: oh che bello!
Saltano già le ragazzette;(10)
Ma è pronto in tavola; le coppie
S'avviano; in faccia ai giovanotti,
Le signorine son già strette
A Tanja; e tutto è un gran ronzìo,
Segni di croce e trepestìo.
XXIX
Nel masticare indaffarate
Tutte le bocche ammutoliscono.
Sbattono i piatti e le posate
E i bicchieri tinniscono.
Poi in un crescendo graduale
Riesplode il chiasso generale.
Nessuno ascolta, tutti gridano,
Ridono, discutono e pigolano.
Ma ecco la porta si spalanca
E con Onieghin Lienskij arriva.
«Ah, finalmente! Deo gratias !» grida
La padrona. E ogni ospite scansa
Sedie e posate per far posto
All'uno e all'altro amico nostro.
XXX
Il posto è proprio a Tanja in faccia.
Più bianca di una luna all'alba,
Più trepida di una cerbiatta,
Lei ha un velo agli occhi, non li alza:
L'avvampa tempestoso un fuoco
Di passione; sta male, soffoca:
E dei due il saluto non sente;
Già le spuntano prepotenti
Lacrime agli occhi; la poveretta
Quasi per svenire sta;
Ma ragione e volontà
Vincono, e lei mormora in fretta
Due parole tra i denti a stento,
Però a tavola rimanendo.
XXXI
Scene tragico-neurotiche,
Donzelleschi deliqui, pianti
Non sopporta ormai da un bel po'
Eugenio: ne ha visti tanti.
Già irritato, lui così strambo,
Dal gran festino, ora notando
Di Tatjana il trepido spunto
Abbassa gli occhi con disappunto,
Tutto sdegnato, mette il broncio,
E giura di vendicarsi
Costringendo Lienskij a arrabbiarsi.
Poi, pregustando il suo trionfo,
Tutti gli ospiti si raffigura
Tra sé e sé in caricatura.
XXXII
Di Tatjana il turbamento
Non solo Eugenio l'ha notato;
Ma occhi e pareri in quel momento
Eran tutti su uno sformato
(Un po' troppo salato, ahimé);
Poi, fra arrosto e blanc-manger,
Portano in tavola in bottiglia
Un vinello tipo famiglia;
E bicchieri lunghi e stretti
Proprio come il tuo vitino,
Zizì, mio sogno cristallino,
Tu, di miei versi ingenui oggetto,
Fiala d'amore affascinante
E per me anche ubriacante.
XXXIII
Via il tappo umido, schiocca
La bottiglia; frizza il vino;
E Triquet con grave mossa,
Da un bel pezzo sulle spine,
Ecco si alza nel profondo
Silenzio di tutto il mondo.
Tanja è più morta che viva; e
Col foglietto in mano Triquet
Canta stonando in quel contesto
Plaudente. E lei per convenienza
Deve fargli la riverenza.
Il poeta, grande e modesto,
A lei per primo brinderà
E la strofetta consegnerà.
XXXIV
Eccoci agli auguri, ai saluti;
Tatjana ringrazia. E quando
Il turno di Eugenio è venuto
Della fanciulla il viso languido,
La sua stanca perplessità,
Gli danno un senso di pietà:
Lui s'inchina tacitamente
E ha uno sguardo stranamente
Dolce. Forse per la ragione
Che davvero è commosso, ossia
Scherza un po' per civetteria,
Spontaneo o con buona intenzione;
Ma lo sguardo è di tenerezza:
E il cuore di Tanja accarezza.
XXXV
Rintronano sedie spostate;
La folla irrompe nel salotto
Come al prato un ronzante sciame
Vola dal suo alveare ghiotto.
Ben pasciuto dal gran pranzo,
Russa un vicino accanto all'altro;
Le dame siedono al camino;
Le ragazze, in un angolino;
Chi è giocatore arrabbiato
I tavoli verdi aspettano,
Col boston e il lomber dei vecchi
E il whist tuttora assai quotato:
Quell'uniforme famiglia
Che dell'avida noia è figlia.
XXXVI
Hanno già fatto otto partite
Gli eroi del whist; per otto volte
Le posizioni hanno invertite;
E siamo al tè. Mi piace molto
Marcare il tempo con le parole
Pranzo, tè, cena. Non ci vuole
Molto in campagna a dir che ora è:
Lo stomaco è il nostro Bréguet.
Fra parentesi qui mi accorgo
Che il discorso delle mie stanze
Su banchetti e varie pietanze
E turaccioli spesso io porto:
Come te, Omero immortale,
Di trenta secoli compare.
XXXVII - XXXVIII - XXXIX
Ma ecco il tè: con compunzione
Le ragazze hanno appena alzato
I piattini e già dal salone
Flauto e fagotto han risonato.
Dalla musica messo su,
Abbandonando un tè col rum,
Vero Paride di provincia,
A Olga Petùškov s'appropinqua;
Lienskij a Tatjana; e la Charlikòv,
D'anni maturi fidanzata,
Di Tambòv al poeta è toccata;
La Pustjàkova è per Bujanòv.
E tutti si spandono in sala.
E il ballo ferve nella sua gala.
XL
Di un ballo di Pietroburgo
Offrire una descrizione
Alla maniera dell'Albani
Era in principio mia intenzione.
Ma, da un miraggio posseduto
Di belle gambe conosciute,
Mi abbandonavo al ricordare.
Oh, bei piedini, basta errare
Dietro alla vostra orma sottile!
Mi ha tradito la giovinezza,
È tempo di maggior saggezza,
Di correggere atti e stile:
Nel capitolo quinto perciò
Le digressioni abolirò.
XLI
Come il vortice della vita
Da giovani, folle e uguale,
Vortica il valzer tumultuoso,
Tutto è di coppie un balenare.
La vendetta si sta avvicinando;
Onieghin, tra sé sogghignando,
Invita Olga. Rapidamente
Con lei volteggia fra la gente,
La riaccompagna poi al suo posto,
Chiaccherando del più e del meno;
Ma dopo due minuti appena
Con lei nel valzer riecco il Nostro.
Tutti allibiscono. Lienskij stesso
Non crede ai suoi occhi, adesso.
XLII
C'è una mazurka. Un tempo, quando
Una mazurka risonava
Nella gran sala rintronando,
Sotto i tacchi il parquet scricchiolava,
Tremava tutto il finestrame;
Ora no: anche noi, come dame,
Scivoliamo su lisce assicelle.
Ma in provincia, nei paeselli,
La mazurka ha conservati
I suoi primitivi fasti:
I salterelli, i tacchi, i baffi
Di sempre. Non li ha mutati
La bieca moda, nostro tiranno,
Dei moderni russi malanno!
XLIII - XLIV
Bujànov, mio bel cuginetto,
Dal nostro eroe ha accompagnato
Tatjana e Olga; e lesto lesto
Con Olga Onieghin si è lanciato;
La guida, sguscia con destrezza,
Si china e con svenevolezza,
La sua manina rinserrando,
Sussurra un madrigale esecrando:
Lei gongola, sempre più accesa
In volto. Lienskij ha visto tutto:
È in fiamme, fuor di sé, distrutto.
E nella sua gelosia offesa
Aspetta e, a mazurka finita,
Olga al côtillon invita.
XLV
Ma lei non può. Non può? Davvero?
Eh no, perché lo ha già promesso
A Onieghin. O Dio del cielo!
Cosa mai sente! E si è permessa...
Ma possibile? Bambinetta
Ancora, e già così civetta!
Già fa la furba, già
Ha imparato l'infedeltà!
Lienskij non regge a quel dolore;
Alla donnesca diavoleria
Impreca, chiede un cavallo, e via
Al galoppo! Due pistole,
Due pallottole - basteranno La sua sorte decideranno.
[Note dell'autore]
(1) Si veda La prima Neve, poesia del principe Vjazemskij.
(2) V. la descrizione dell'inverno finlandese nell'Edda di Barataynskij.
(3) Chiama il gatto la gattina - A dormire sulla stufetta.
(4) In questo modo vengono a conoscere il nome del futuro fidanzato.
(5) Nelle riviste hanno criticato le parole: chlop, molv' e top come un'innovazione sbagliata. Sono parole di origine
russa. «Uscì Bova dalla tenda a prender fresco e udì nell'aperta campagna voci (molv') umane e scalpitare (top) di
cavalli» (Fiaba del principe Bova). Chlop si adopera nel parlato in
luogo di chlopanie, come šip (sibilo) in luogo di šipenija: «Egli emise un sibilo, come un serpente» (Antichi versi
russi). Non si deve togliere libertà alla nostra ricca e bellissima lingua.
(6) Un nostro critico, sembra, trova in questi versi per noi una incomprensibile sconvenienza.
(7) I libri della fortuna vengono pubblicati da noi sotto il nome di Martyn Zadèka, onorata persona che non ha mai
scritto libri della fortuna, come osserva B. M. Fëdorov.
(8) Parodìa dei noti versi di Lomonosov: L'alba dalla mano di porpora - Da calme acque mattutine - Esce col sole che la
segue ecc.
(9) Bujànov, mio vicino... - È venuto da me ieri con i baffi non rasati, - Spettinato, peloso, col berretto a visiera...(Il
vicino pericoloso).
(10) I nostri critici, fedeli ammiratori del bel sesso, hanno giudicato sconveniente questo verso.
CAPITOLO SESTO
Là, sotto i giorni nubilosi e brevi,
Nasce una gente a cui 'l morir non dole.
Petrarca
I
Sparito Vladìmir, Onieghin
Rieccolo alla noia in preda:
Vicino a Olga, i suoi pensieri
Rùmina, pago di vendetta.
E anche Olga con lui sbadigliava,
Con lo sguardo Lienskij cercava,
E il côtillon interminabile
Era un incubo insopportabile.
Ma è finito. Si va a cenare.
Poi fanno i letti. Gli invitati
Dovunque alla meglio accampati
Stanno. Han bisogno di riposare
Tranquilli. Onieghin soltanto
A dormire a casa sta andando.
II
Tutto ora tace: nel salotto
Russa il greve Pustjakòv
Con la sua greve metà.
Gvozdìn, Bujànov, Petuškòv
E Fljànov, non troppo in stampa,
Delle sedie han fatto branda;
Monsieur Triquet per terra stracco
Giace in flanella e colbacco.
Nella stanza di Olga e Tatjana
Le ragazze dormono. Mesta
Veglia accanto alla finestra,
Al lume del raggio di Diana,
La povera Tanja soltanto,
La buia campagna fissando.
III
Del suo apparire d'un momento,
Agli occhi istantanea dolcezza,
Del suo strano comportamento
Con Olga, è tutta oppressa
Nell'anima; in nessun modo
Può capire Eugenio; un nodo
Di gelosia la strazia strano
Come se una fredda mano
Le stringa il cuore o un precipizio
Le si spalanchi buio e vano...
«Perirò - dice Tatjana Da lui mi è caro anche il supplizio;
Non me ne dolgo: a che lagnarmi?
Felicità lui non può darmi».
IV
Avanti, avanti, o mia storia!
Un nuovo volto ci arride.
A cinque verste da Krasnogorie,
Il villaggio di Lienskij, vive
Ancor oggi sano e contento,
In filosofico isolamento,
Zarietskij, atamàn una volta
Di giocatori, di un'accolta
Da osteria capo eloquente,
Ora però savio e tranquillo
Scapolo padre di famiglia,
Sicuro amico, possidente
E uomo onesto per di più:
Tanto ci si emenda quaggiù.
V
Un tempo aveva avuto fama
Lusinghiera di gran bravaccio:
Da ben venti braccia centrava
Con la pistola anche un asso.
E pare anche che in battaglia
Compisse gesta di vaglia
Nel fango buttandosi a tuffo
Dal suo cavallo calmucco,
Ciucco sfatto e subito preso
Dai francesi: prezioso pegno!
Di un Attilio Regolo degno,
Era pronto a ridarsi al peso
Dei ceppi, per bersi ogni dì
Tre litri a credito da Véry.(1)
VI
Un tempo era un gran prendingiro,
Sapeva burlare uno sciocco
E beffare un cervello fino,
A viso aperto o sotto sotto,
Benché in più di un'occasione
A lui toccasse la lezione
E si facesse abbindolare
Come chi in zucca ha poco sale.
Sapeva allegro cimentarsi,
Dare acconcia o fiacca risposta,
Star zitto a volte a bella posta
O a bella posta bisticciarsi,
E fra amici metter veleno
Fino a portarli sul terreno,
VII
Oppure rappacificarli
Per pranzare insieme, lui terzo,
E alle spalle poi diffamarli
Con una fandonia o uno scherzo.
Sed alia tempora! L'ardire
Passa col tempo giovanile
(Come l'amore, altro giochetto).
Il mio Zarietskij, l'ho già detto,
Proprio come un saggio or vive,
All'ombra di viburni e acace
Trovata infine la sua pace,
Come Orazio verze coltiva,
Oche e anatre allevando,
L'abbiccì ai bambini insegnando.
VIII
Non era sciocco; e i sentimenti
Se in lui Eugenio non stimava,
Pure i sensati argomenti
E il bello spirito ne amava.
Con piacere di quando in quando
Soleva incontrarlo, e pertanto
Non fu una sorpresa per lui
La mattina vederlo. E costui,
Dopo il primo saluto, di netto
Troncò il discorso all'inizio,
E a Onieghin, con un largo ammicco,
Del poeta porse un biglietto.
Alla finestra si diresse
Onieghin e in disparte lo lesse.
IX
Era una nobile, corretta,
Breve sfida, ossia un cartello:
Cortese, con fredda chiarezza,
Lienskij chiama l'amico a duello.
Onieghin, nella prima urgenza,
Al commesso dell'incombenza,
Senza troppe parole rivolto,
Dichiarò ch'era sempre pronto.
Si alzò Zarietskij, senza un cenno
Di spiegazione, né restare
Volle, avendo molto da fare,
E uscì subito; ma Eugenio,
Con la sua anima a tu per tu,
Di se stesso scontento fu.
X
E con ragione: a ben vedere,
Quasi se stesso processando,
Le imputazioni eran severe:
Primo, aveva sbagliato quando
Si era la sera divertito
A un amore dolce e spaurito.
E poi: poteva anche sbagliare
Il poeta; si può scusare
A diciott'anni. Mentre Eugenio,
Per il bene che gli voleva,
Mostrarsi così non doveva
Di pregiudizi gonfio e pieno,
Né un ragazzo tutto bollore,
Ma uomo assennato e d'onore.
XI
Poteva il suo animo aprire
E non drizzare come una bestia
Il pelo; doveva ammansire
Il giovane cuore. «Ma adesso
È tardi; il tempo è già volato...
E poi - egli pensa - c'è anche entrato
Di mezzo quel vecchio duellista,
Verboso, pettegolo e tristo...
Le sue parole da buffone
Dovrei col disprezzo pagare,
Ma le voci, ma il ridacchiare...»
Eh già, la pubblica opinione!(2)
Il nostro onore, idolo eterno!
Eccolo qua del mondo il perno!
XII
Fremendo di odio impaziente
Il poeta è a casa in attesa
Di risposta; e il magniloquente
Vicino in gran pompa or l'ha resa.
Che festa per quel gelosone!
Temeva proprio che il briccone
La mettesse in scherzo, un pretesto
Escogitando e il proprio petto
Alla pistola rifiutando.
Più nessun dubbio ormai: al mulino
Domani prima del mattino
Dovranno essere, innescando
L'un contro l'altro l'arma e poscia
Mirando alla tempia o alla coscia.
XIII
Quella civetta di Olga! A odiarla
Deciso, Lienskij non vuole
Prima del duello incontrarla,
Consulta l'ora, guarda il sole,
Poi ci ripensa alla fin fine E càpita dalle vicine.
Si aspettava una Olga smarrita
E dal suo arrivo sbalordita;
Ma no: di corsa Olienka balza
Come sempre dalla loggetta
Incontro al povero poeta,
Aerea come la speranza,
Vispa, allegra, spensierata,
Tale e quale era sempre stata.
XIV
«Perché iersera sei sparito
Così presto?» gli domandò.
E Lienskij tutto ammutolito
E confuso si rattristò.
La gelosa rabbia sbolliva
Davanti a quell'anima viva,
Davanti a tanta limpidezza
Di sguardo e semplice dolcezza!
La scruta, commosso e buono,
E ben si avvede: è ancora amato;
Dal pentimento ormai toccato,
È pronto a chiederle perdono,
Non trova le parole, trema,
È felice, riprende lena...
XV - XVI - XVII
E di nuovo i miei pensieri
Davanti alla sua cara Olga,
Di ricordarle il giorno di ieri
Vladìmir non ha la forza;
Pensa: «Sarò il suo salvatore,
Non lascerò che il corruttore,
A un fuoco di lodi e sospiri,
Quel giovane cuore raggiri;
Che roda lo stelo liliale
Il verme velenoso e vile;
Che quel fiore di due mattine
Appassisca nello sbocciare.»
Voleva dire tutto ciò:
Col mio amico mi batterò.
XVIII
Se lui sapesse che ferita
Brucia alla mia Tatjana il cuore!
Se fosse Tatjana avvertita,
Se potesse avere sentore
Che Lienskij e Eugenio nello scontro
Si disputeranno il sepolcro;
Ah il suo amore indurrebbe, può darsi,
I due amici a riconciliarsi!
Ma nessuno, pur casualmente,
Di quella passione ha saputo.
Onieghin ha tutto taciuto;
Tanja langue segretamente;
Potrebbe soltanto scoprirla
La njanja, ma è dura a capirla.
XIX
Un po' allegro e poi a bocca chiusa
Di nuovo, Lienskij fu svagato
Quella sera; ma della Musa
L'alunno è sempre così; accigliato
Egli sedeva al clavicordio
E ne traeva qualche accordo,
O su Olga gli sguardi puntava,
«Non son forse felice?» pensava.
Ma è tardi, è già l'ora. Da tanta
Angoscia il suo cuore è assediato
Che nel momento del commiato
Da lei quasi gli si schianta.
«Che avete?» Olga lo fissa in viso.
- Oh così, niente. - E via, deciso.
XX
Rientrato a casa, le pistole
Ispeziona, poi le richiude
Nell'astuccio, si sveste e, a un chiarore
Di candela, Schiller schiude;
Ma in lui è un pensiero solamente;
Insonne è il suo cuore dolente:
Di un'indicibile beltà
Davanti agli occhi Olga gli sta.
Vladìmir lascia il libro; prende
La penna; e giù rime stipate
Di amorose baggianate
Fluiscono sonoramente.
Lui le declama infervorato
Come a un pranzo Delvig ubriaco.
XXI
Per caso si son conservati
Quei versi; ed eccoli qui ora:
«Dove, dove, siete volati,
Primaverili miei giorni d'oro?
Cosa mi appresta il nuovo giorno?
Lo scruto invano tutt'intorno;
Sta chiuso in tenebre profonde.
Non importa; è giusta la sorte.
Cada io trafitto dallo strale
O mi sorvoli passando via,
Ben venga: arriverà la mia
Ora del sonno o del vegliare;
E benedette anche le pene,
Benedetto il buio che viene!
XXII
«Brillerà la stella diana
Domani e il giorno ferverà,
Ma io dentro l'ombra arcana
Della tomba sarò di già.
E sarà del poeta il ricordo
Inghiottito dal Lete torpido,
Il mondo mi oblierà; ma se
Tu una lacrima su di me
Versassi all'urna prematura,
E pensassi: egli mi amò
E l'alba triste consacrò
A me d'una convulsa vita!...
O mia brama, o amica del cuore,
Vieni: io sono il tuo amore!...
XXIII
Così scriveva oscuro e fievole
(Romanticismo lo chiamiamo,
Anche se niente io ci vedo
Di romantico; ma andiamo!)
E finalmente verso l'alba
Reclinando la testa stanca
Su ideale, parola di moda,
Pian piano nel sonno s'inchioda;
Ma appena sotto quell'incanto
Si è assopito che già il vicino
Entra nel quieto studiettino
E scuote Lienskij vociando:
«Sveglia! Le sette sono già.
Onieghin certo aspetterà.»
XXIV
Ma si sbagliava: Eugenio ancora
Dormiva come una talpa.
L'ombra notturna ormai s'invola
E il gallo a Espero canta.
Onieghin dorme come un ghiro.
Già alto è il sole nel suo giro.
E un nevischio un po' folletto
Brilla e turbina; dal letto
Eugenio ancora non si sposta,
Dal sonno è ancora sorvolato.
Ma finalmente si è svegliato
E le tendine adesso scosta;
Guarda - e deve constatare
Che da un pezzo è ora d'andare.
XXV
Sùbito suona. Accorre
Il servo francese Guillot,
Veste e pantofole gli porge
E la biancheria gli dà.
Si affretta Onieghin ad abbigliarsi,
Ordina al servo di apprestarsi
A uscir con lui, portando anche
Il suo astuccio da duellante.
La slitta è pronta. Vi sale
Eugenio, al mulino volando.
Arriva. E al servo dà comando
Di seguir lui con le fatali
Lépage(3) e ai cavalli di spostarsi
Là fra due querce a ripararsi.
XXVI
Lienskij, appoggiato a una spalletta,
Impaziente sta a aspettare;
E sulla màcina discetta
Zarietskij, tecnico rurale.
Onieghin arriva scusandosi.
Ma Zarietskij meravigliandosi
Gli dice: «E il padrino dov'è?»
Nei duelli è un classico, è
Un gran cultore della forma
E non tollera che una persona
Venga stesa così alla buona,
Bensì con la dovuta norma,
Secondo il vecchio rituale
(Il che in lui è da lodare).
XXVII
«Il mio padrino? - fa Eugenio. Ecco: il mio amico, monsieur Guillot.
E a che mi assista sul terreno
Proteste non ammetterò.
È un ragazzo d'onore, benché
Conosciuto non sia gran che.»
Si morde le labbra Zarietskij
E Onieghin domanda a Lienskij:
«Si comincia?» - «Sì, per favore,» Dice Vladìmir. Con lui va
Dietro il mulino. Un po' più in là
Zarietskij e il ragazzo d'onore
Hanno preso accordi importanti.
Gli avversari si stan davanti.
XXVIII
Avversari! Una sete di sangue
Li ha divisi appena da ieri!
Solo da ieri non spartiscono
Ozio, mensa, azioni e pensieri
In amicizia! Ora con astio,
Quasi da atàvico contrasto,
In un cupo sogno sfuggente,
Muti, l'un l'altro freddamente
Sono lì, morte a giurarsi...
Ah ci vorrebbe una risata
Mentre ancora non è insanguinata
La mano e in pace salutarsi!...
Ma l'odio mondano ha un terrore
Pazzesco del falso pudore.
XXIX
Ecco le pistole lucenti.
Si sente già picchiettare
La bacchetta, i piombi che entrano
In canna e il cane scattare.
Grigiastro rivolo, scende
Nel fondello la polvere, mentre
L'acciarino avvitato stretto
Rialzano. Lì dietro un ceppo
Si apposta Guillot spaventato.
Gettano via il mantello i due
Duellanti. Esatti trentadue
Passi Zarietskij ha misurato;
Sulle orme estreme manda ora
Gli amici, armati di pistola.
XXX
«Adesso avanti.»
Freddamente,
Senza mirare, i due avversari
Di quattro passi, tranquillamente
Decisi avanzano, regolari:
Quattro gradini alla morte. Allora
Eugenio la sua pistola,
Senza smetter di camminare,
Comincia per primo ad alzare.
Cinque altri passi hanno avanzato.
L'occhio sinistro socchiudendo
Mira anche Lienskij - e in quel momento
Onieghin spara... Ecco del fato
L'ora è scoccata: non trattiene
L'arma il poeta, muto preme
XXXI
Con la mano un poco il petto
E cade: non di sofferenza,
Ma di morte il suo sguardo è specchio.
Lenta così su una pendenza
Di monte, al sole scintillando,
Una slavina va franando.
Preso da un subitaneo gelo,
Verso il giovane accorre Eugenio,
Lo fissa, lo chiama... Ma invano:
Non è già più. L'adolescente
Poeta è morto immaturamente!
Splendido fiore all'uragano
Appassito nel tempo aurorale!
Fuoco spento sopra l'altare!...
XXXII
Giaceva; e in fronte una strana
Pace gli errava languida;
Dalla piaga che trapassava
Il suo petto scorreva il sangue.
In quel cuore fino a un momento
Prima c'erano il talento,
L'odio, l'amore, la speranza,
La vita e il sangue in una danza,Tutto è buio e silenzio adesso
Come una casa abbandonata;
Esso è muto per sempre. È sbarrata
La finestra, imbiancata col gesso.
La padrona non c'è. È fuggita
Chissà dove. Anche l'orma è sparita.
XXXIII
Bello, cogliere al varco
Con un epigramma un rivale;
Gustarselo mentre, testardo,
Preparandosi ad incornare,
Si guarda per caso allo specchio
Riconoscendo se stesso
Con vergogna; e, amici, è più bello
Se lo sciocco grida: io son quello!
Più bello ancora è un'onoranza
Funebre per lui apprestare
E alla bianca fronte mirare
Da una magnanima distanza;
Ma spedirlo al mondo di là
Tanto bello non vi parrà.
XXXIV
Se poi dalla vostra pistola
Un giovane amico è colpito
Che vi abbia con una parola
O con lo sguardo insolentito
O in altro, essendo un po' bevuto,
O che abbia all'ira ceduto
Sfidandovi a combattimento,
Ditemi: quale sentimento
Di voi allora s'impadronisce
Che esanime a terra di colpo
Lui è lì, con la morte in volto,
E pian piano s'irrigidisce,
E sordo e muto è diventato
Al vostro appello disperato?
XXXV
Stringendo in pugno la pistola,
Dai rimorsi del cuore angosciato,
A Lienskij Eugenio guarda ora.
Zarietskij dice: «L'hai ammazzato.»
Ammazzato!... Al responso tremendo
Scosso, Eugenio rabbrividendo
Va a chiamar gente. Con precauzione
Sulla slitta l'altro depone
La salma ormai fredda; un tremendo
Carico a casa riporta.
I cavalli fiutando il morto
Sbuffano inquieti, inumidendo
Di bianca schiuma il morso e intanto
Come saette via volando.
XXXVI
Del poeta, o amici, vi duole:
Non avverò le giovanili
Liete speranze in pieno fiore,
In vesti quasi ancor puerili
Appassì! Dov'è il fermento
Ardente, il nobile intento
Dei suoi sentimenti e pensieri
Coraggiosi, teneri e alteri?
Dove le brame d'amore inquiete,
La sete di scienza e lavoro,
La sua paura del disdoro?
Dove siete o visioni segrete,
Voi, spettri di vita che sia
Nel cielo, sogni di poesia!
XXXVII
Forse per il bene del mondo
O per la gloria egli era nato;
Nei secoli un suono profondo
La sua cetra avrebbe portato,
E adesso tace. O lo aspettava
Un alto grado nella scala
Sociale, forse. O via per sempre
Forse la sua ombra dolente
Con sé ha portato un suo sublime
Segreto ed è per noi perita
Una voce che dava vita;
E della tomba oltre il confine
Non verrà a lui l'inno dei tempi
Benedizione delle genti.
XXXVIII - XXXIX
O al poeta sarebbe toccata
Forse anche una sorte incolore.
Si sarebbe spento, passata
La giovinezza, il suo fervore.
Cambiato in molto, pianterebbe
Le Muse e si ammoglierebbe,
Cornuto e contento in campagna
Nella sua trapunta vestaglia;
Imparando a vivere, essendo
A quarant'anni già gottoso,
Ben pasciuto, annoiato, adiposo
E nel suo letto poi infrollendo,
Per morire tra familiari,
Comari in lacrime e speziali.
XL
Ma così è andata, o lettore:
Ahimé il giovane innamorato,
Il poeta, il sognatore,
Una mano amica ha ammazzato!
Stanno a sinistra di quel sito
Dove lui fu d'estro nutrito
Due pini dalla concrescente
Radice e serpeggia il torrente
Di una valle poco distante.
L'aratore ama lì riposarsi
E acqua vengono a procurarsi
Mietitrici con brocche sonanti;
Là al torrente nell'ombra spessa
Una lapide è stata messa.
XLI
Là un pastore, se una pioggerella
Comincia a gocciare sui campi,
Intrecciando la sua pianella
Canta canzoni di briganti;
E una ragazza di città
Che l'estate in campagna va,
Quando in sella a tutta lena
Sola nei campi si scatena,
Là il suo cavallo fa fermare
Tirando con le briglie il freno
E, sul cappello alzando il velo,
Legge con rapido guardare
La semplice scritta di tomba E una lacrima il suo sguardo adombra.
XLII
Nel sogno assorta, lentamente
Va poi per la campagna immensa;
E a lungo e irresistibilmente
Al destino di Lienskij pensa;
Si domanda: «Di Olga che è stato?
Il suo cuore a lungo ha penato
O passò il suo pianto ben presto?
E sua sorella dov'è adesso?
Dov'è quello che dalla gente
Fuggiva, lo snob spregiatore
Di bene snob, matto uccisore
Del poeta adolescente?»
Datemi tempo e vi darò
Conto esatto di tutto ciò,
XLIII
Ma non ora. Cordialmente
Amo il mio protagonista
E a lui tornerò certamente,
Ma al momento non l'ho in vista.
L'età volge all'austera prosa,
L'età scaccia la rima estrosa
E io - lo ammetto con un sospiro Sono più pigro a farle il filo.
La penna su fogli volanti
Non scarabocchia più poesie;
Altre, fredde fantasie,
Altri affanni, più assillanti
E nel silenzio e nel clamore
Turbano i sonni del mio cuore.
XLIV
La voce di altri desideri
E un nuovo dolore ho provato;
Nei primi adesso più non spero
E del vecchio dolore ho pietà.
Dov'è, miei sogni, la dolcezza,
Rima eterna di giovinezza?
Davvero è appassita, è appassita
La ghirlanda della mia vita?
Ma è proprio passata in un lampo
Senza fronzoli d'elegìa
Quella primavera mia,
Come usavo dire scherzando?
Davvero non tornano gli anni?
Davvero presto avrò trent'anni?
XLV
Dunque il mio meriggio è giunto.
Devo ammetterlo: lo so.
O giovinezza, a questo punto,
Da amico ti saluterò.
Ti rendo grazie dei godimenti,
Le tristezze, i dolci tormenti,
Le risse, le feste, i frastuoni
E tutti, tutti i tuoi doni.
Ti rendo grazie. Di te sempre,
Nella calma e nell'inquietezza,
Io ho goduto - e con pienezza;
Basta! Con chiarità di mente,
Un nuovo sentiero ho imboccato
Per riposarmi del passato.
XLVI
Mi volto. E vi dico addio, ombrosi
Recessi ove trascorsi un tempo
Giorni di sogni miei pensosi,
Di accidia e di inebriamento.
Ma tu, giovane ispirazione,
Muovi la mia immaginazione,
Rianima il cuore sonnolento,
Vola al poeta più sovente,
Che tu non lasci raggelare
L'anima mia, né inacerbarsi,
Né infine pietrificarsi
In questa sbornia mortale
Del gorgo, dove sono immerso
Anch'io, cari amici, e perso!(4)
[Note dell'autore]
(1) Ristorante parigino.
(2) Verso di Griboedov.
(3) Famoso maestro armaiolo.
(4) Nella prima edizione il sesto capitolo terminava nel modo seguente:
XLVI
Ma tu, giovane ispirazione,
Muovi la mia immaginazione,
Rianima il cuore sonnolento,
Vola più spesso al mio angolino,
Non lasciar raffreddare l'anima del poeta,
Né incrudelirsi, né indurirsi
E infine pietrificarsi
Nella mortale sbornia del mondo,
Tra superbi senza cuore,
Tra brillanti stupidi,
XLVII
Tra figli astuti, pusillanimi,
Forsennati, viziati,
Malfattori ridicoli e noiosi,
Giudici ottusi e cavillosi,
Tra civette bigotte,
Tra servi volontari,
Tra quotidiane scene alla moda,
Cortesi e affabili tradimenti,
Tra i gelidi verdetti
Della crudele vanità,
Tra la spiacevole vacuità
Dei calcoli, dei pensieri e dei discorsi,
In quel gorgo dove con voi io
Mi bagno, cari amici.
CAPITOLO SETTIMO
Mosca, della Russia figlia diletta,
Dove trovare una come te?
Dmitrev
Mosca natìa, come non amarla?
Baratynskij
Prendersela con Mosca!
Che vuol dire vedere il mondo!
E dov'è meglio?
Dove non siamo.
Griboedov
I
Ai raggi primaverili,
Le nevi già dalle montagne
Sono scese in torbidi rivi
Sulle allagate campagne.
Al mattino dell'anno pura
Sorride incontro la natura;
S'inazzurrano i cieli splendenti.
Quasi di piume, trasparenti
Inverdiscono i boschi. L'ape
Dalla sua celletta di cera
Vola, al dono dei campi anela.
Per valli asciutte e variegate
Mugghiano mandre; e l'usignolo
Nelle notti canta il suo assolo.
II
Com'è triste per me il tuo apparire,
Primavera! Tempo d'amore!
Quanto agitato languire
Nel mio sangue, nel mio cuore!
E da che commozione oppresso
Godo il tuo alito sommesso
Quando respiri sul mio volto,
Nell'agreste quiete, raccolto!
O forse estranea m'è ogni gioia
E tutto che rallegra e vive,
Tutto ciò che brilla e ride,
Porta solo tormento e noia
Alla mia anima ormai spenta,
Che tutto tenebra gli sembra?
III
O il nuovo stormire dei boschi
Non ci annuncia un gioioso ritorno
Di foglie morte, ma piuttosto
Di amara perdita è un ricordo;
O la natura che rifiorisce
Ci richiama all'anima triste
La nostra declinante età
Che mai più ritornerà?
O forse anche ci fa pensare
Alla poetica atmosfera
Di un'altra, antica primavera
E il nostro cuore fa tremare
A un sogno di terre lontane,
Di luna, di notti arcane...
IV
Ecco il tempo: o cari indolenti,
Saggi epicurei tranquilli,
O voi, beati indifferenti
Della scuola di Lievšin pupilli,(1)
O voi, Priami paesani
E sensibilissime dame,
Primavera in campagna v'invita,
La stagione calda e fiorita
Di poetiche passeggiate
E di notti ammaliatrici.
Presto, presto! Ai campi, o amici:
In carrozze stracaricate,
Di posta o di proprietà,
Correte via dalla città!
V
E tu, o benigno lettore,
Nel tuo calesse verniciato,
Della città lascia il clamore,
Dove l'inverno ti ha spassato;
Con la mia Musa vieni a sentire
Anche tu i boschi stormire,
Sul fiumicello che non dico,
Dove il mio Eugenio da romito
Nullafacente e un po' infelice
Passato ha un inverno in campagna
Negli stessi paraggi di Tanja,
La mia cara sognatrice,
E dove da che se n'è andato
Un'orma triste egli ha lasciato.
VI
Tra le colline in semicerchio,
Là andremo dove un ruscelletto
Serpeggiando nel prato verde
Corre al fiume per un boschetto;
E canta, amante primaverile,
L'usignolo di notte; e fiorire
Vedi la rosa, senti un fonte
Mormorare - e una pietra di tomba
È là, sotto un pino antico.
L'iscrizione dice così:
«Vladìmir Lienskij giace qui,
Della morte dei forti perito,
All'età di... nell'anno tale.
O poeta, ora puoi riposare!»
VII
Dai rami del pino ricurvo,
Il venticello mattinale
Un tempo sull'umile urna
Misteriosa faceva oscillare
Una ghirlanda. E qui venendo
Due amiche di sera piangendo
Sulla tomba indugiavano al raggio
Della luna in un lungo abbraccio.
Ma adesso... È dimenticato
Quel mesto ricordo; s'è perso
Anche il sentiero e nessun serto
È sui rami; vecchio e malato,
Solo il pastore ancora canta,
La sua pianella intrecciando.
VIII - IX - X
Povero Lienskij! Disperata,
Lei non lo pianse troppo tempo.
Ahimé! La giovane fidanzata
Non fu fedele al suo tormento.
La sua attenzione ora incatena
Un altro che la sua gran pena
Con dolci vezzi ha addormentata,
Da un ulano è affascinata,
Un ulano è il suo amore di adesso...
Ma eccola già con lui all'altare
Sotto la corona nuziale,
Pudìca e col capo dimesso,
Col fuoco nello sguardo chino
E sulle labbra un sorrisino.
XI
Povero Lienskij! Oltre il sepolcro,
Là nella cieca eternità,
Mesto poeta, ti ha sconvolto
Questa fatale infedeltà?
O, nel Lete addormentato,
Del tuo non sentire beato,
Tu non ti turbi più di niente
E il mondo ti è chiuso per sempre?
Proprio così! Un oblìo si prepara
Indifferente nell'aldilà.
Di amanti, amici, nemici sarà
Muta ogni voce. Ma la cagnara
Degli eredi indecorosa
Litigherà per ogni cosa.
XII
Presto dai Larin tacque il forte
Di Olga sonoro accento.
L'ulano, schiavo della sua sorte,
Con lei raggiunse il reggimento.
Lacrime amare versava,
Nel lasciare la figlia sembrava
La madre più morta che viva;
Ma Tanja a pianger non riusciva;
Soltanto un pallore mortale
Il suo viso triste coprì.
E poi, quando ognuno uscì
Sulla loggetta a salutare
Agitandosi intorno al landò,
Tanja i due sposi accompagnò.
XIII
E come in una nebbia lontana
Li seguì con lo sguardo intento...
Ecco è sola, è sola, Tatjana!
Ahi, la compagna di tanto tempo,
La sua giovane colombella,
La sua confidente e sorella,
Dal destino via le è strappata,
Per sempre da lei separata.
Ombra senza mèta adesso
Va, guarda il deserto orto...
Ma in nessun posto alcun conforto
Né sollievo al pianto represso
Lei può trovare così errando,
E in due si spezza il cuore infranto.
XIV
E nel crudele isolamento
La sua passione più la morde
E di Onieghin assente
Il cuore le parla più forte.
Mai più lo potrà incontrare;
In lui dovrà per sempre odiare
Di un suo fratello l'uccisore;
Il poeta è morto... Ma ora
Chi lo ricorda? È sposa a un altro
La sua stessa fidanzata.
La sua memoria è dileguata,
Fumo nel blu del cielo alto.
Restano forse a sospirare
Per lui due cuori... Ma a che vale?
XV
Era sera, buio, le fonti
Fluivano placide, ronzava
Lo scarabeo, i girotondi
Finiti, un falò bruciava
Di pescatori. Nel campo immenso,
Della luna al raggio d'argento,
Tatjana aveva fantasticato
A lungo e sola vagabondato.
E andava, andava. E dalla cima
Del colle vide al suo cospetto
La villa, le case, il boschetto
E sul chiaro fiume il giardino.
Lei guardava - e il suo cuore adesso
Batteva più forte e più spesso.
XVI
Nell'incertezza ora si angoscia:
«Vado avanti, ritorno indietro?
Lui non c'è, non mi conoscono...
Dò un'occhiata alla casa, al frutteto.»
E scende il colle palpitando
Tatjana e, intorno a sé guardando,
Piena di perplessità
Nella deserta corte va.
Abbaiando si sono avventati
I cani: lei strilla paurosa.
Ma accorrendo in schiera chiassosa
Dei servi i figli li han cacciati
Non senza zuffa ed hanno offerto
A madamina il loro usbergo.
XVII
Tanja chiese: «Si può visitare
La villa?» - e quasi al tempo stesso
Da Anisja corsero a farsi dare
Quelli le chiavi dell'ingresso.
Anisja subito si presentò
E il portone a lei spalancò,
E Tanja nella casa entrava
Dove il nostro eroe abitava.
Guarda: e sul biliardo vede
Quella stecca alla meno peggio
E un frustino da maneggio
Sul divano sdrucito. E procede.
La vecchia spiega: «Qui è il caminetto
Dove il padrone stava soletto.
XVIII
«Qui con lui pranzava spesso
Lienskij buon'anima, il vicino.
Prego, seguitemi dappresso.
Qui, lo studio del signorino;
Qui riposava, il caffè sorbiva,
Del fattore i rapporti sentiva,
Un libro al mattino leggeva...
E qui il vecchio padrone viveva;
Con me, vicino alla finestra,
La festa, gli occhiali sugli occhi,
Si degnava giocare a tarocchi.
Che Iddio gli conceda salvezza
E pace alle ossa nella tomba
Nella madreterra profonda.»
XIX
Tanja il suo sguardo emozionato
Su tutto quel che è intorno volge,
Tutto le appare inestimato
E l'anima mesta sconvolge
Una gioia quasi tormento:
E il tavolo col lume spento,
E i libri e il letto vicino
Alla finestra col coltroncino,
E fuori la luna in penombra,
E quel semichiaro un po' fiacco,
E di Lord Byron il ritratto.
La statuetta sulla colonna
Col cappello a lucerna, la faccia
Severa e conserte le braccia.
XX
Tatjana indugia affascinata
In quella cella alla moda.
Ma è tardi. Buia è la vallata.
Il vento è freddo. Già riposa
Sul nebbioso fiume il bosco;
Il colle la luna ha nascosto,
E per la giovane pellegrina
L'ora di casa s'avvicina.
E la sua emozione celando,
E non senza sospirare,
Tanja s'avvia per ritornare,
Il permesso però domandando
Di rivisitar la dimora
Per legger certi libri da sola.
XXI
Tanja salutò la fattora
Sul portone. Ma il giorno dopo
Ricomparve già di buon'ora
Nell'androne deserto e vuoto.
E dello studio nel profondo
Silenzio obliando tutto al mondo
Rimase sola finalmente
E lì pianse lungamente.
Quindi rivolta l'attenzione
Sui libri, prima un po' distratta
Ma notando alquanto bislacca
La scelta, Tanja con passione
Alla lettura si abbandonò
Che un altro mondo le spalancò.
XXII
Da un pezzo, si sa, la lettura
Per Eugenio era in disuso,
Ma una certa letteratura
Dal suo rifiuto aveva escluso:
Del giaùrro e Don Juan il poeta
E due o tre romanzi che l'epoca
Rispecchiavano, descrivendo
L'uomo del nostro tempo
In modo più che somigliante,
Con l'anima d'immoralista
Inaridito ed egoista,
Sempre troppo fantasticante,
Con la sua mente di arrabbiato
A vani effetti infervorato.
XXIII
In molte pagine restava
Dell'unghia il segno tagliente:
La fanciulla su esse appuntava
L'attento sguardo più vivamente.
Tatjana trepidante scopre
Da quali pensieri o note
Eugenio è stato più colpito
O in che, tacendo, ha consentito.
E su quei margini lei cerca
Della sua matita i segni.
Dovunque l'anima di Onieghin
Senza volere le si è aperta:
Con una croce o un breve appunto
O d'interrogazione un punto.
XXIV
E incomincia gradualmente
La mia Tatjana a decifrare,
Grazie a Dio più chiaramente,
L'uomo per cui a sospirare
Condannata l'ha il destino:
Un bislacco triste e infido,
Figlio dei cieli o dell'inferno,
Angelo o diavolo protervo Cos'è? Non forse un vacuo spettro
D'imitazione o un moscovita
Da Childe-Harold travestito,
Per quel lessico leziosetto
E la stramba esterofilìa?
O non sarà una parodìa?
XXV
Dunque l'enigma aveva sciolto?
Trovato la parola ad hoc?
Le ore volano; lei scorda
Che a casa aspettano da un po'.
Là due vicini stanno intanto
Di lei con la madre parlando.
«Eh sì, non è una ragazzetta
Tanja» sospira la vecchietta.
«Olga era più giovane. È tempo
Che si sistemi, in verità,
La ragazza; ma come si fa?
Si rifiuta: non acconsento,
Dice a tutti. E sempre si accora
E va per i boschi da sola.»
XXVI
«Che sia innamorata?» - E di chi?
Bujanòv l'ha chiesta: scartato.
Per Petuškòv, idem così.
L'ussaro Pychtin fu invitato;
Per Tanja come si struggeva,
Quante moìne le faceva!
Io pensavo: stavolta va.
Ma niente! Ancora un patatràc. «Dunque! Non c'è da pensar molto!
A Mosca, sagra di fidanzate,
Presto! E un partito glielo trovate!»
- Ah signor mio! Siamo un po' a corto. «Ma vi bastano, per svernare:
E poi ve li posso prestare.»
XXVII
Mamma Larina condivise
Quella saggia e santa proposta;
E fatti i suoi conti decise
Di recarsi l'inverno a Mosca.
Tanja è informata: all'esigente
Tribunale della gran gente
I chiari tratti presentare
Della schiettezza provinciale,
E i suoi abiti in ritardo,
Le sue antiquate locuzioni;
Di maghe Circi e elegantoni
Subire l'ironico sguardo!
Oh spavento! No, piuttosto
Lei rimarrebbe in fondo al bosco.
XXVIII
Desta al primo spuntar del giorno,
Ora si affretta verso i campi
E gli occhi commossi intorno
Volge e dice rimirandoli:
«Addio, o valli tranquille,
E voi, conosciute colline,
E boschi dove spesso io ero,
Addio, bellezza del mio cielo,
Addio, o natura ridente;
Addio anche a te, mia libertà!
Per frastornanti vanità
Dò in cambio il mio quieto presente!
Dove e perché tanto affannarmi?
Dalla sorte che posso aspettarmi?
XXIX
Si prolunga ogni sua passeggiata.
Ora è un poggio, ora un ruscello,
Dal cui incanto è attirata
Tatjana, senza volerlo.
Quasi ad amici prediletti,
A quei suoi prati, ai suoi boschetti,
Lei si affretta a parlare ancora.
Ma l'estate rapida vola.
È giunto il dorato autunno.
La natura è tremante e smorta,
Come una vittima adorna...
Ecco il nord che nubi aduna,
Soffia, ulula - ed ecco eterno
Ritorna pure il mago Inverno.
XXX
Arriva, si sparpaglia; appeso
In fiocchi ai rami dei querceti,
Tra i campi, intorno ai colli steso
In ondulati tappeti;
Eguaglia come velo di piume
Gli argini e il ghiaccio del fiume;
Riluce il gelo; e noi gioiamo
Del babbo Inverno ridanciano.
Ma non gioisce il cuore a Tanja.
Lei non gli va incontro festosa,
Né aspira il gelo vaporoso,
Né con la neve sulla banja
Le spalle e il viso si laverà:
Quel viaggio paura le fa.
XXXI
Della partenza prefissata
Il momento ormai è giunto:
La vettura, dimenticata
Da tanto, hanno rimesso a punto.
Come al solito, tre kibìtke
Trasportano le masserizie,
Bauli, seggiole, barattoli,
Casseruole, materassi,
Galli in gabbia, piumini, conserve,
Bacili, brocche, et ceterà,
Di tutto una gran quantità.
Ed ecco nell'izbà dei servi
Dell'addio il pianto s'è levato:
Diciotto rozze hanno attaccato
XXXII
All'equipaggio signorile,
Portano il pasto i cucinieri,
Si imbarca roba a non finire,
Sbraitano femmine e cocchieri.
Su una rozza irsuta e magra
Sta il barbuto battistrada.
I servi corrono al portone
A salutare le padrone:
Ed ecco che il convoglio egregio
Slittante oltre la soglia è già.
«Addio, miei luoghi, serenità,
Solitudine, mio privilegio!
Vi rivedrò?...» E un rivo di pianto
Scorre agli occhi di Tanja intanto.
XXXIII
Quando amplieremo gli orizzonti
Dell'istruzione santa e bella,
Col tempo (ossia, stando ai conti
Di filosofiche tabelle,
Cinquecent'anni) le strade qui
Cambieran da così a così.
Vie massicciate in ogni senso
Solcheranno il paese immenso.
Ponti di ferro a gran campate
Sui fiumi russi lanceremo,
Sventreremo i monti, oseremo
Gallerie sott'acqua scavate,
E una trattoria metterà
A ogni posta la Cristianità.
XXXIV
Ma ora in grame condizioni(2)
Son le strade e i ponti si sfasciano;
Cimici e pulci nelle stazioni
Di sonno un minuto non lasciano;
Trattorie niente. Nell'izbà
Pomposa e famelica sta
Di cibi un'inutile lista,
Che offende l'appetito a vista,
Mentre che villici ciclòpi
D'Europa il ferro manufatto
Con un martello russo trattano
Ai loro alquanto lenti fuochi,
Le carraie del patrio suolo
E i fossi ringraziando in coro.
XXXV
Nel freddo inverno tuttavia
È grato e agevole il viaggiare.
Va liscia come una poesia
Alla moda la strada invernale.
Gli automedonti sono abili,
Le nostre trojke infaticabili,
E agli occhi le aste miliari(3)
Guizzano via come filari.
Ma trovando caro il pedaggio
Non aveva cavalli di posta,
Ma suoi propri, la Làrina nostra;
E la noia di tutto il viaggio
La ragazza così si sorbì:
Per sette notti e sette dì.
XXXVI
Ma ecco: ormai davanti a loro
È Mosca, di pietre bianca;
Un fulgore di croci d'oro
Sulle antiche cupole avvampa.
Che gioia, fratelli, allorché
Si spalancava davanti a me
La sua chiostra di campanili,
Di chiese, magioni e giardini!
Quante volte in un addio mesto,
Dal mio destino sbalestrato,
O Mosca a te io ho pensato!
Mosca... quante cose in questo
Suono un cuore russo sente!
Quante cose rievoca sempre!
XXXVII
Ecco, recinto dal suo bosco,
Di Pietro il castello. Una gloria
Non antica ostenta fosco.
Ebbro dell'ultima vittoria,
Invano attese Napoleone
Di Mosca qui l'umiliazione,
E le chiavi del vecchio Cremlino.
Al suo cospetto a capo chino
Non andò Mosca penitente;
Né feste o doni essa apprestava,
Ma un incendio presentava
Al condottiero impaziente.
E di qui assorto egli guardò
Nei suoi pensieri il gran falò.
XXXVIII
Salve, o castello testimone
Di glorie cadute. Ma avanti!
Già i pilastri dei bastioni
Biancheggiano, ecco sguizzanti
Dal convoglio che fila sui borri
Della Tvièrskaja garitte, torri,
Conventi, giardini, palazzi,
Botteghe, comari, ragazzi,
Mercanti, stamberghe, orti,
Lampioni, slitte, farmacie,
Buchariani, modisterie,
Boulevards, leoni battiporte,
Cosacchi, balconi, omiciattoli
E sulle croci tante cornacchie.
XXXIX - XL
La massacrante passeggiata
Dura due ore e in Caritone,
Nel vicolo, si è fermata
La vettura ad un portone
Di casa. Da una vecchia zia
Da quattro anni in etisìa
Sono giunte. Gli ha spalancato
Il portone uno sbrindellato,
Con la calza in mano e occhialuto,
Calmucco. E stesa sul sofà
Del salotto uno strillo ora dà
La principessa per saluto.
Le due vecchie in pianto si abbracciano
E di esclamazioni si annaffiano.
XLI
«Mon ange!» -«Pachette!» - «Alina!»
«Che sorpresa!» - «Ah quanto tempo!»
«Vi fermate?» - «Cara cugina!»
«Siedi, ti prego: oh qual portento!
Mio Dio! A un romanzo assomiglia...»
«E questa è Tatjana, mia figlia.»
«Ah Tanja, vieni che ti vedo Sembra un sogno, quasi non credo...
E ti ricordi l'elegantone
Grandisòn, cugina?» - «E chi è?
Ah sì, Grandisòn! Ma dov'è?»
«Qui a Mosca, sta a San Simeone;
Venne a trovarmi per Natale;
Suo figlio ora ha fatto ammogliare.
XLII
«E quel... Ma dopo ci diremo
Tutto, è vero? Domani intanto
Tanja ai parenti presenteremo.
Non posso più girare tanto;
Mi reggo appena sulle gambe.
Ma del viaggio siete stanche;
Andiamo insieme a riposare...
Ahimé... Non riesco a respirare...
Anche la gioia, oltre al dolore,
Mi è un peso adesso, anima mia...
Non son più buona a niente io...
Viver così, vecchi, è un orrore...»
E lì, sfinita da morire,
Si mise a piangere e a tossire.
XLIII
L'inferma, con quel suo affetto
Festoso Tatjana commuove;
Ma lei, avvezza al suo angoletto,
Non ama quelle mura nuove.
Sotto la cortina di seta,
Nel nuovo letto lei non quieta,
E lo scampanìo mattiniero,
Di diurne fatiche foriero,
Dal letto la costringe giù.
Alla finestra va a sedere.
Si schiara il buio; ma vedere
I campi Tanja non può più:
Ha davanti un cortile ignorato,
Scuderia, cucina e steccato.
XLIV
E così a un pranzo parentale
Condotta è quotidianamente,
A nonne e nonni per mostrare
La sua accidia indifferente.
Per la parente forestiera
L'accoglienza è lusinghiera,
Pane e sale, cordialità.
«Come sei grande! È tanto già
Che a battesimo ti ho portato!
E io che in braccio ti cullavo!
Io che le orecchie ti tiravo!
Io ti mantenni a panpepato!»
E tutta la nonninerìa
Fa in coro: «Gli anni volan via!»
XLV
Loro però sono gli stessi;
Tutto è immutato da allora:
La zia Elena principessa
Cuffie di tulle porta ancora;
Si imbelletta Lukierja Lvòvna,
Dice bugie Ljubòv' Petrovna,
Sempre Ivan Petroviè è sciocco
E Semiòn Petròviè pitocco;
Pelaghiéja Nikòlavna ha sempre
Monsieur Finemouche per amico,
Stesso spitz, stesso marito
Che, del club socio diligente,
Sempre pacioso è, sempre sordo,
Sempre per due beone e ingordo.
XLVI
Le loro figlie Tanja abbracciano.
Le giovani grazie di Mosca
Dalla testa ai piedi setacciano
Silenziose Tatjana in mostra;
La trovano alquanto strana,
Manierata e un po' paesana,
Un po' magretta e pallidina,
Ma tuttavia quasi carina;
E poi, dall'indole portate,
Si fanno amiche, a sé attirandola,
E alla moda anche arricciandola,
Con baci e le mani intrecciate,
E le confidano cantilenose
Del cuore le segrete cose,
XLVII
Le loro ed altrui conquiste,
Speranze, sogni e birbonate.
Le ingenue chiacchiere fluiscono
Di lievi calunnie agghindate.
Poi, in cambio di quel cicalare,
Cercan di indurla a confessare
Quello che lei nel cuore sente.
Ma Tanja ascolta quasi assente,
Come in un sogno, e di quei loro
Discorsi non comprende nulla;
E il suo segreto di fanciulla,
Di gioia e lacrime tesoro,
In silenzio lei custodisce
E con nessuna lo spartisce.
XLVIII
Alla comune conversazione
Tanja amerebbe stare attenta;
Ma qui si presta attenzione
Solo all'assurdo, a quanto sembra;
Tutto è insensato e banale;
Noioso anche il calunniare;
Discorsi aridi e senza frutto,
Domande, storie, ciarle, tutto
Notti e giorni senza un bagliore
Di idee, nemmeno casualmente;
Mai non sorride la fiacca mente,
Neanche per scherzo freme il cuore.
Neanche una buffa amenità
Ci offri, o vacua società.
XLIX
Squadrano Tanja i giovanotti
Degli Archivi con sufficienza
E ne parlan nei loro crocchi
Senza alcuna benevolenza.
Un malinconico giullare
La trova un tipo ideale:
Di una porta fa scrivania
E le compone un'elegia.
Da una noiosa zia incontrandola,
Vjaziemskij un po' con lei restò
E la sua anima affascinò.
Quindi, vicino a lui notandola,
Rassettandosi il parrucchino,
Di lei s'informò un vecchiettino.
L
Ma là dove il grido riecheggia
Di Melpomene esagitata
Che i suoi orpelli lustreggia
Su una folla distaccata,
Dove Talia sonnecchia senza
Badare a applausi di convenienza,
Dove Tersicore solamente
Scuote un po' la giovane gente
(Succedevan le stesse cose
Anche ai tempi vostri e miei),
Non si voltano verso di lei
Né di dame lorgnettes gelose,
Né binocoli di intenditori
Dai palchi e dai posti migliori.
LI
Anche al Sobranie la conducono.
Ressa eccitata, gran caldo,
Musica, lumi che rilucono,
Guizzare di coppie nel ballo,
Monili di belle signore,
Folla in coro multicolore,
Di fidanzate la vasta accolta Rintontiscono in una volta.
Gli elegantoni di successo
Sfoggiano qui facce e gilè
E le loro sfrontate lorgnettes,
E qui gli ussari in permesso
Rumorose comparse fanno,
Brillano, incantano e se ne vanno.
LII
Tante stelle ha la notte quante
Bellezze ha Mosca. Ma la più
Fra le sue compagne smagliante
È la luna sul cielo blu.
E quella che non voglio osare
Con la mia cetra disturbare
Come la luna rifulgente
Fra le donne unica splende.
Con quale orgoglio celestiale
Questa terra lei sfiora appena!
Di che delizie in petto è piena!
Com'è dolce il suo bel guardare!...
Ma basta, basta: alla follìa
Ho già pagato la parte mia.
LIII
Chiasso, risa corse, inchino,
Mazurka, valzer... Sta impalata
Fra le due zie e un colonnino
Tanja da tutti trascurata;
Guarda e non vede, detesta
La mondanità della festa;
Non respira... Col sogno vola
Alla sua vita campagnola,
Al villaggio, ai suoi abitanti,
Al suo solitario angoletto,
A quel limpido ruscelletto,
Ai suoi fiori, ai suoi romanzi,
E al vialetto dei tigli in cui
Nell'ombra le apparve lui.
LIV
Lungi col pensiero va errando,
Scorda quel ballo frastornante;
Le sta addosso con gli occhi intanto
Un tal generale importante.
Le zie ammiccano, hanno toccato
Tanja al gomito e bisbigliato
Entrambe quasi al tempo stesso:
«Guarda lì a sinistra, presto!»
«A sinistra? Dove? Che c'è?»
«Insomma, guarda, t'abbiam detto!
Più avanti... Vedi? In quel gruppetto
Dove in divisa sono in tre...
Quello... sì... ecco... ha fatto un passo..
«Chi? Quel generale grasso?»
LV
Ma qui auguri per la conquista
Alla mia Tatjana, e voltiamo
I passi su un'altra pista,
Colui che io canto non scordiamo...
E due parole su lui dico:
Canto un mio giovane amico
E la sua molta bizzarria.
Tu, Musa epica, alla mia
Lunga fatica benedici!
E dammi una sicura guida
Perché io non sbandi alla deriva
Mi sono tolto un peso, o amici!
Del classicismo ho gran riguardo:
E questo è un proemio, benché tardo.
[Note dell'autore]
(1) Levšin, autore di molte opere in parte di economia.
(2) Le nostre strade sono un giardino per gli occhi:
Gli alberi, il ciglio erboso, i fossi;
Molto lavoro, molta gloria
Ma, peccato, talvolta non ci si passa.
Dagli alberi che stanno come di sentinella,
Ai viandanti viene scarso vantaggio;
La strada, dirai, è buona E ti verrà in mente il verso: per i passeggeri!
In Russia si viaggia liberamente
Solo in due casi: quando
Il nostro Mac Adàm o Mac Eva,
Ossia l'inverno, scricchiolando di rabbia,
Compie l'assalto devastatore,
Incatena la strada col ferro del suo ghiaccio,
E la prima neve ricopre
La sua traccia con una sabbia piumosa.
O quando penetra i campi
Una tale torrida siccità,
Che una pozzanghera riesce a guardare
A occhi chiusi perfino una mosca.
(Principe Vjazemskij. Stanze)
(3) Paragone tolto a prestito da K..., assai noto per la sua scherzosa immaginazione.K... raccontava che una volta,
essendo stato inviato dal principe Potëmkin all'imperatrice in qualità di corriere, aveva viaggiato con rapidità tale che la
sua sciabola, la cui punta sporgeva dalla carrozza, batteva sulle aste militari come se formassero tutta una palizzata.
CAPITOLO OTTAVO
Fare thee well, and if for ever
Still for ever fare thee well.
Byron
I
Quando ai giardini di Liceo
Serenamente io crescevo
E amavo leggere Apuleio,
Ma Cicerone non leggevo,
In certe valli un po' segrete,
Su acque rilucenti e quiete,
In primavera, dei cigni al canto,
La Musa mi appariva intanto.
Tutta luce fu la mia stanza
Di scolaro: la Musa un convito
Vi aprì di fantasie imbandito,
Cantò le gioie dell'infanzia,
Gloria dei nostri vecchi tempi
E del cuore i sogni frementi.
II
Le arrise il mondo, il successo
Dell'esordio ci imbaldanzì;
Di noi s'accorse Deržavin vecchio,
Prossimo a morte ci benedì.
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III
E io, per sola norma avendo
L'arbitrio delle passioni,
Dei più spartendo il sentimento,
La mia Musa portai a riunioni
Festose e di risse al clamore
Di notturne ronde terrore:
E per folli feste passò
E i suoi doni lei vi recò,
Folleggiò come una baccante,
Cantò brindisi agli invitati:
La gioventù di tempi andati
Le correva dietro galante,
E io fra gli amici andavo fiero
Della compagna mia leggera.
IV
Ma poi lasciai le loro accolte,
Fuggii lontano... Lei mi seguì.
Musa gentile, quante volte
Quel muto andare mi addolcì
Con l'arcano di una sua storia!
Quante volte, come Leonora,
Per balze caucasiche, sotto
La luna, fu con me al galoppo!
E quante notti ad ascoltare
Con lei in Tauride fui io
Delle Nereidi il mormorio
Al buio rumore del mare,
Eterno coro delle onde,
Inno al padre dei mondi.
V
E la metropoli e il giocondo
Brillìo dei festini scordando,
Della triste Moldavia al fondo
Umili tende visitando
Di genti nomadi, così
Fra loro s'inselvatichì
E obliò degli dei l'eloquio
Per idiomi strani e dappoco
Melodie di steppa e lei care...
Poi tutto ancora cambiò intorno
Ed eccola nel mio orto
Qual damigella provinciale,
Con un mesto pensiero negli occhi
E un libro francese sui ginocchi.
VI
E adesso a un rout mondano(1)
Questa Musa accompagnerò;
Alla sua grazia rusticana
Geloso e cauto guarderò.
Tra una folla di aristocratici,
Bei militari, diplomatici
E altere dame è scivolata,
Zitta zitta siede, estasiata
Quel gran trambusto osserva ora,
Vesti e discorsi scintillanti,
Gli ospiti a turno omaggianti
La giovanissima signora,
E cornici d'uomini scure
Chiuder le dame come pitture.
VII
Le piace l'ordine composto
Di oligarchici conversari,
Quel certo sussiego discosto,
Età e gradi così vari.
Ma chi è quello che se ne sta
Cupo e taciturno là?
Sembra un estraneo, quei guizzanti
Visi gli passano davanti,
Spettri molesti su un proscenio.
È un'albagìa dolente o spleen
Che gli sta in volto? Perché è qui?
Chi è mai? Non sarà mica Eugenio?
Lui proprio? Certo, esattamente.
- Ma è arrivato di recente?
VIII
È sempre uguale o si è calmato?
O fa sempre lo stravagante?
Ditemi: come è ritornato?
E in che veste si va presentando?
Come un Melmoth vagabondo?
Patriota? Cittadino del mondo?
Childe-Harold, bigotto, quàcchero?
O sotto qualche altro ritratto?
O magari un tipo alla buona
Come noi tutti è diventato?
Così io l'avevo consigliato:
Smettila di seguir la moda.
Abbastanza il mondo burlò...
- Lo conoscete? - Sì e no.
IX
- Perché con tal severità
Di lui dovete parlare?
Forse perché in continuità
Vogliamo tutti giudicare?
Perché l'incauto spirito ardente
Muove al ridere oppure offende
La nullità che se ne adonta?
O troppa intelligenza ingombra?
O perché a scambiare parole
Per fatti si è tanto proclivi?
Perché gli sciocchi son cattivi?
Perché chi conta dà valore
Alle inezie e a noi si adatta
Solo la media mezzatacca?
X
Beato chi da giovane è stato
Giovane e chi maturare
Seppe a tempo, chi ha imparato
La fredda vita a sopportare;
Chi non subì fantasie strane,
Né evitò marmaglie mondane,
Chi a vent'anni fu bello e ardito
E a trenta sposò un buon partito;
Chi a cinquant'anni i suoi privati
E altri debiti avrà assolti,
Chi la gloria, il grado e i soldi
Si sia tranquillo guadagnati,
E di cui ripeta la gente:
N.N. è un uomo eccellente.
XI
Ma triste è pensare che invano
La giovinezza ci fu data,
Che sempre tradita l'abbiamo
E che essa ci ha ingannato;
Che le migliori aspirazioni,
Le nostre più fresche visioni,
Come foglie sono marcite
In un autunno infracidite.
Qual prospettiva una sfilata
Di soli pranzi e quale noia,
In una vita-cerimonia
Dietro a una folla ammanierata,
Con cui non si abbia a spartire
Né il pensare, né il sentire!
XII
Ne converrete, è insopportabile
Sentirsi ovunque criticare,
E alla gente rispettabile
Un finto bislacco sembrare;
O un melanconico nervoso,
O un satanasso mostruoso,
Magari il mio Dèmone stesso.
Onieghin (stiamogli dappresso),
Ucciso in duello il suo amico,
A ventisei anni era arrivato
Abulico e sfaticato,
In un ozio inerte infiacchito:
Senza moglie, senza servizio,
Né di lavoro alcun indizio.
XIII
Gli prese come un'ansietà,
La voglia di cambiare aria
(Che è un'angustiante qualità,
Di alcuni croce volontaria).
Così lasciò quel suo villaggio,
Di boschi e prati il romitaggio,
Dove un'ombra insanguinata
Assillava ogni sua giornata,
E cominciò a vagabondare,
Sospinto da un unico intento;
Ma, come tutto, a un bel momento
Gli venne a noia anche il viaggiare;
E ritornò, sbarcando come
Catskij nel pieno d'un veglione.
XIV
Ma ecco tutti animarsi
Nel salone, un gran bisbigliare,
E alla padrona avvicinarsi
Una dama con un generale.
Lei non sembrava frettolosa,
Né glaciale, né verbosa,
Senza sicumèra in volto,
Senza pretese di far colpo,
Senza il solito smorfieggiare,
Senza pose e eccentricità,
Tutta serena semplicità,
Era il ritratto tale e quale
Du comme il faut... (Scusa, Šiškòv:
Come tradurre io non so).
XV
Le signore le si accostavano;
Le vecchiette le sorridevano;
Dei suoi occhi lo sguardo cercavano
Gli uomini e più si profondevano
Nell'inchino, e le debuttanti
Passavan più caute davanti.
E più di tutti s'impettiva
Il generale che la seguiva.
Bellissima probabilmente
Non si poteva definire;
Ma nulla in lei dava a scoprire
Quel che una moda prepotente
A Londra nella società
Chiama vulgar. (Come si fa...
XVI
Mi piace assai questa parola,
Ma a tradurla non riesco;
Essa è nuova da noi per ora,
Difficilmente avrà successo.
Forse forse in un epigramma...)
Ma torniamo alla nostra dama.
Dolce nel suo spontaneo incanto,
Lei sedeva a tavola accanto
Alla Vorònskaja, uno splendore,
La Cleopatra della Nievà;
Ma siate certi che in verità,
Pur con tutto il suo fulgore,
La marmorea beltà di Nina
Non oscurava la vicina.
XVII
«Ma è proprio lei?» pensa Eugenio:
«Che sia davvero?... Ma no... questa...
Da quella steppa? Dal paesello?...»
E la sua lorgnette molesta
Egli punta continuamente
Su colei che vagamente
Un volto obliato gli ridà.
«Chi è, principe, quella là
Che parla con l'ambasciatore
Di Spagna, in cappello bordò?»
Il principe lo guarda un po'.
«Ahà! È un pezzo che sei fuori.
Aspetta, ti presento io.»
«Ma chi è?» «Mia moglie, vivaddio.»
XVIII
«Ti sei sposato! Ah questa è strana!
E da molto?» «Da un paio d'anni.»
«E chi?» «Una Làrina.» «Tatjana!»
«Ti conosce?» «Siam confinanti.»
«Oh, andiamo!» E il principe s'avvia
Verso sua moglie in compagnia
Dell'amico e parente alla larga.
La principessa ora lo guarda...
Ma qual che fosse il turbamento
Dell'anima, benché stupita
Lei si sentisse e sbalordita,
Non trasparì il suo sentimento:
Immutato lei conservò
Il tono e calma s'inchinò.
XIX
Eh sì! Non solo non fremette,
Né arrossì o si fece pallida...
Ma nemmeno ciglio batté,
Nemmeno si morse le labbra.
Per quanto la scrutasse intento,
Della Tatjana di un tempo
Eugenio traccia non trovò.
Volle con lei parlare un po',
Ma... non riusciva. Se lui fosse
Lì da molto lei gli chiese
E se veniva dal paese.
Quindi verso il marito mosse
Lo sguardo stanco e via partì...
Eugenio immobile restò lì.
XX
Ma è proprio lei quella Tatjana,
Cui da solo a solo parlando,
In una contrada lontana,
Al principio del nostro romanzo,
Beatamente infervorato
Egli un sermone ha recitato,
Della quale una lettera tiene
Dove il cuore parla e geme,
Dove tutto è scritto e sincero,
Quella fanciulla?... O è solo più
Un sogno?... Lei con cui egli fu
Nella sua bassa sorte altero,
Lei proprio è stata veramente
Così ferma, così indifferente?
XXI
Lascia anche lui la riunione,
Sovrappensiero a casa andando:
Gli agitano il sonno visioni,
Ora dolenti, ora d'incanto.
Si sveglia; gli vien recata
Una lettera: per la serata
Il principe N lo aspetta.
«Dio! Da lei! Ma corro!» - e in fretta
Scrive una risposta ossequiosa.
Che cosa è in lui? Uno strano sogno?
Che cosa ha smosso nel profondo
L'anima fredda e neghittosa?
Dispetto? Vanità? O ancora
Il giovanile affanno - amore?
XXII
Le ore Onieghin conta e riconta,
Mai finire il giorno gli sembra
Ma le dieci scoccano; e pronto
Va, vola, è all'ingresso, entra
Da Tatjana col cuore in gola:
La principessa è là, sola
Restano un poco a tu per tu,
Ma a Onieghin non vengono più
Parole alla bocca. È impacciato,
Cupo, risponde a malapena
A lei, la mente tutta piena
Di un pensiero suo ostinato.
Ostinato guarda: e a sua volta
Lei siede calma e disinvolta.
XXIII
Arriva il marito, sbloccando
Quel tête-à-tête che non va;
Con Onieghin poi rievocando
Scherzi e burle di anni fa.
Ridono. Gli ospiti ecco entrare.
Di mondana malizia un sale
Un po' grosso i discorsi avvia.
Guizzano senza smanceria
Lievi battute, da altri temi
Inframmezzate più intelligenti,
Senza triviali argomenti
E senza massimi sistemi,
Con una briosa vivezza
Che però i timpani non spezza.
XXIV
Ma c'era il fiore della città,
Campioni di moda, notabili,
Facce che ognuno ovunque va
Incontra, e gli sciocchi immancabili;
C'erano signore annose
Dall'aria perfida, in cuffia e rose;
E anche ragazze sul cui viso
Giammai appariva un sorriso;
C'era un ambasciatore
Che trattava affari di stato;
Tutto bel bianco e profumato
C'era un vecchietto motteggiatore,
Con quella fine arguzia antica
Che oggi sembra un po' ridicola.
XXV
C'era uno che aveva fame
Di epigrammi, un tizio furioso
Per tutto: per le sciocche dame,
I mariti, il tè zuccheroso,
Un romanzo un po' oscuro, i giornali
Bugiardi, i fatti militari,
Due sorelline ammesse a corte,
La neve e la propria consorte.
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XXVI
C'era Prolàsov, noto qui,
Come anima bassa e prava,
Che su tanti album, Saint-Priest,
Le tue matite consumava;
Un dittatore di balli c'era
Quasi stampato su una portiera,
Roseo come un angioletto
In palme, fermo, muto e stretto;
E un viaggiatore transitante,
Un impudente inamidato,
Moveva al riso ogni invitato
Col suo voler sembrar prestante
E ogni ammicco interpretare
Come un giudizio universale.
XXVII
Ma il mio Onieghin nella serata
Aveva occhi per la sola
Tatjana; non l'innamorata,
Timida e semplice figliola,
Ma principessa imperturbabile,
Ma oramai inarrivabile,
Dea della Nievà regale.
Uomini! Ognuno di voi è uguale
A Eva che l'ha generato:
Quel che gli è dato non gli va;
E all'albero arcano sarà
Dal serpente sempre tentato:
Pretende il frutto proibito,
Se no il paradiso è finito.
XXVIII
Come è cambiata Tatjana!
Come ha penetrato il ruolo
E i modi della gran dama
Costretta nel suo decoro!
Chi mai la tenera bambina
Rivedrebbe in questa divina
Che detta legge nel bel mondo?
E lui che le aveva sconvolto
Il cuore! Per lui nelle notti,
Quando Morfeo non arrivava,
Lei al pianto si abbandonava,
Mesti alla luna alzando gli occhi,
Sognando la serena via
Di una vita in sua compagnia!
XXIX
D'ogni età è amore; ma i suoi assalti
Al giovin cuore salutari
Sono come per i campi
A primavera i temporali:
Sotto una pioggia di passione
Cresce nuovo a maturazione E un dolce frutto dal bel fiore
La vita dà con più vigore.
Ma nell'età del declinare,
Negli anni sterili, è tristezza
L'orma di una mortale ebbrezza:
Fredda tempesta autunnale,
Trasforma in palude il prato
E il bosco intorno ne è spogliato.
XXX
Eugenio (ahimé, è proprio vero!)
Come un bambino è innamorato
Di Tatjana: da quel pensiero
Notte e giorno è tormentato.
Ai rimbrotti della ragione
Sordo, davanti al suo verone
Di cristallo ogni giorno sta;
Come un'ombra dietro le va;
Felice se a lei può deporre
Un boa di piume sulle spalle,
O ardentemente sfiorarle
La mano o una schiera scomporre
Di livree per aprirle il cammino,
O raccoglierle il fazzolettino.
XXXI
Ma, neanche a morire, lei niente,
Nessun peso quasi gli dà.
Lo accoglie in casa normalmente,
Gli parla appena in società;
Ora s'inchina se l'incontra,
Passa diritta un'altra volta:
Ma senza arie di civetta Vietate dall'alta etichetta.
Comincia Onieghin a impallidire:
A lei non rincresce o non pare;
Lui dimagrisce - è da pensare
Che soffra già di mal sottile.
«Va' dal dottore» gli fan premura
E «vada alle acque» è la cura.
XXXII
Ma non ci va, sembra anzi pronto
A raggiunger gli avi da adesso;
Pure, di ciò non fa alcun conto
Tatjana (tale è il loro sesso);
E lui, ostinato a non mollare,
Spera sempre, si dà da fare;
Malato più audace d'un sano,
Scrive a lei con debole mano
Una missiva appassionata,
Anche se era persuaso
Che le lettere non fanno al caso;
Ma la sua pena era arrivata
A un punto da non sopportare.
Ecco la lettera tale e quale.
LETTERA DI ONIEGHIN A TATJANA
Lo prevedo: vi offenderà
Che un triste segreto dichiaro.
Chissà che disdegno amaro
Il vostro sguardo specchierà.
Che cosa voglio? A quale scopo
Vi apro l'anima mia?
Forse mi presterò al gioco
Di una malvagia allegria!
Una scintilla in voi notando
Di tenerezza un giorno, quando
Io vi conobbi, non osai
Crederci: né a dover mutare
Abitudini o sacrificare
La libertà mi rassegnai.
E altro poi ci separava...
Lo sventurato Lienskij ucciso...
Da tutto ciò che il cuore amava
Io stesso il cuore ebbi diviso;
Solitario, a nulla legato,
Pensavo: ho quiete e libertà
In cambio di felicità.
Mio Dio! Che sbaglio! E l'ho pagato.
No. Vedervi ad ogni istante,
Per ogni dove seguitarvi,
Sorrisi, moti del sembiante,
Coglier con amorosi sguardi,
Prestarvi ascolto, aver coscienza
Di quanto foste perfetta,
Davanti a voi con sofferenza
Morire... La gioia era questa!
E io ne son privo: per voi ognora
Mi trascino di qua e di là;
So quanto vale un giorno, un'ora:
Ma in tediosa inanità
Dissipo i miei giorni restanti,
Che sono ormai così pesanti.
Lo so, il mio tempo ha una misura;
Ma per vivere ancora io devo
Ogni mattina esser sicuro
Che in quel giorno vi rivedo...
In questa preghiera dimessa
Temo che il vostro sguardo austero
Scorga ora un gioco di scaltrezza Sento il rimprovero severo.
Sapeste com'è tremendo
D'amorosa sete languire,
Ardere - e col ragionamento
Il sangue in tumulto lenire;
Volervi ai ginocchi abbracciare
E in un gran pianto irreprimibile
Ai vostri piedi confessare
Tutto, tutto l'esprimibile...
E invece dover freddamente
Mascherare sguardi e discorsi,
Un viso lieto per voi imporsi,
Conversare tranquillamente...
Ma così sia: ormai a me stesso
Resistere più non posso;
Tutto è deciso: in poter vostro
Sono e al destino mi affido adesso.
XXXIII
Non c'è risposta. Altra missiva.
Ma anche alla seconda e a una terza
Non c'è risposta. Poi lui arriva
In una festa... e appena entra
Lei gli è davanti: seria, muta,
Che nemmeno lo saluta!
Tutta chiusa in un totale
Cerchio di gelo epifaniale!
Come reprime l'ira a stento
La sua bocca tesa e ostinata!
Attento Onieghin l'ha fissata:
Dov'è quel commosso sgomento?
E le lacrime?... Neanche un segno!
Su quel viso c'è solo sdegno...
XXXIV
Sarà forse un segreto cruccio
Che il marito o altri non scopra
Quel suo debole, quel peccatuccio...
La storia al mio Onieghin ben nota...
Come sperarlo?! E lui va via
Maledicendo la sua pazzìa.
Nel pensiero di lei s'inabissa.
Di nuovo dal mondo si eclissa.
E nel suo studietto silente
Gli torna a memoria l'età
Che l'implacabile chandrà
Lo braccava anche in mezzo alla gente,
Gli era addosso, lo prendeva
Al collo, e al buio lo chiudeva.
XXXV
A disordinate letture
Si ridiede: Gibbon, Rousseau,
Herder, Chamfort, Manzoni, e pure
Madame de Staël, Bichat, Tissot;
Si lesse lo scettico Bayle,
Si lesse tutto Fontenelle,
Lesse qualche connazionale,
E senza nulla rifiutare:
E gli almanacchi, e le riviste
Che le prediche ci rifanno,
Che adesso contro me ce l'hanno,
E dove a volte mi son visto
Dedicati dei madrigali:
E sempre bene, signori cari.
XXXVI
E dunque? I suoi occhi leggevano,
Ma lungi erano i pensieri;
In fondo all'anima premevano
Visioni, affanni e desideri.
E fra le righe lì stampate
Leggeva altre righe, guardate
Con gli occhi della sua mente.
E ne era preso totalmente.
Erano arcane tradizioni
Di un caro oscuro passato,
Sogni senza significato,
Incubi, fole, predizioni;
Di lunghe storie il gaio nulla,
O le lettere d'una fanciulla.
XXXVII
E sensi e idee gli si addormentano,
Mentre l'immaginazione
I suoi colori gli presenta
Come carte di faraone.
E vede su una sfatta neve,
Giaciglio di un suo sonno greve,
Inerte un giovane sdraiato,
E ode una voce: l'hai ammazzato!
O vede obliati avversari,
Bene infedeli, codardi,
Calunniatori e bugiardi,
Masnada di vili compari;
O una rustica casa - e in quel mentre
Lei alla finestra... e lei sempre!
XXXVIII
Si perdeva a tal punto in ciò
Che quasi non uscì di mente
O poeta non diventò.
Gliene siam grati, francamente!
Eh sì: per via di magnetismo
Dei versi russi il meccanismo
Quasi quasi aveva afferrato
Il mio allievo dissennato.
Sembrava proprio un poeta:
Tutto solo nell'angolino
Stava al caldo del camino,
E canticchiava: Benedetta
O Idol mio, lasciando incendiare
Or la ciabatta ora il giornale.
XXXIX
Volano i giorni, è più tiepida
L'aria, l'inverno è ormai sciolto;
Lui non è diventato poeta,
Non è impazzito, non è morto.
Primavera gli dà baldanza:
Dalla sua tappata stanza,
Dove ha svernato da marmotta,
Focherello e vetrata doppia,
In un chiaro mattino evade
In slitta lungo la Nievà.
Su azzurre scie di ghiaccio già
Brilla il sole; e per le strade
Fango è la neve calpestata.
Dove mai di tanta volata
XL
Onieghin pròpera? In anticipo
L'indovinate, esattamente:
Da Tatjana, da lei, si precipita
Il mio bislacco impenitente.
Entra, bianco come un cadavere.
Neanche un'anima in anticamera.
Né in salone. Va oltre: lo stesso.
Apre una porta. Che cosa adesso
L'ha colpito con tal violenza?
La principessa è lì davanti,
Pallida, in casalinghi panni,
Legge una lettera, in silenzio
Di lacrime un fiume versando,
La guancia alla mano appoggiando.
XLI
E chi il suo segreto tormento
In quell'attimo non leggerebbe!
Chi la povera Tanja d'un tempo
Nella gran dama non scoprirebbe!
Folle d'angoscia e di rimpianti,
Eugenio è in ginocchio davanti
A lei, che ha sussultato e ora
Lo osserva senza una parola,
Senza stupore o sdegno, nulla...
Quello sguardo spento e sparuto,
Supplice rimprovero muto,
Le dice tutto... La fanciulla,
Coi sogni e il cuore d'una volta,
In lei nuovamente è risorta.
XLII
Lei non lo fa alzare, gli intenti
Occhi da lui non gira,
Né dalle sue labbra ardenti
La mano inerte ritira...
Di cosa va fantasticando?
Trascorre un silenzio, fin quando
Parla lei, tutta sommessa:
«Basta; alzatevi. Io stessa
Vi dovrò una spiegazione.
Onieghin, ricordate il giardino
Dove ci portò il destino,
Dove ascoltare una lezione
Da voi seppi con umiltà?
Il mio turno oggi sarà.
XLIII
«Onieghin, più giovane ero
In quel tempo e, forse, migliore,
E vi amavo; e che cosa, invero,
Io trovai nel vostro cuore?
Quale risposta? Severità.
Per voi non c'era novità
Nell'amore di una modesta
Ragazza... Ah, il sangue mi s'arresta
Se penso a quel vostro sermone,
Allo sguardo freddo... Ma colpa
Non ve ne faccio... Quella volta
Avevate voi ragione,
E agiste con me nobilmente.
Ve ne sono riconoscente...
XLIV
«In quel tempo, in quel deserto,
Lontano dal pettegolezzo,
Io non vi piacqui: questo è certo...
E dunque mi inseguite adesso?
Che cosa a voi mi pone in vista?
Non forse il fatto ch'io apparisca
Per il mio rango in società;
L'esser di ricca nobiltà;
O il marito che in guerra è stato
Ferito e alla corte è in favore?
Non forse che il mio disonore
Da tutti sarebbe osservato,
A voi nel bel mondo recando
Un lusinghevole vanto?
XLV
«Piango... Se non avete ancora
La vostra Tanja dimenticata,
Sappiatelo: l'aspra parola
Di quella fredda sgridata,
Se potessi, preferirei sempre
A una passione che mi offende,
A queste lacrime, a queste lettere.
Dei miei sogni di giovinetta
Voi aveste almeno pietà
E rispetto... Ma questa volta
Quale motivo mai vi porta
Ai miei piedi? Meschinità!
E il vostro cuore, il vostro intelletto,
Servono a un senso così gretto?
XLVI
«Ma, Onieghin, che me ne importa
Del lusso, l'esser brillante,
Vita odiosa d'orpelli avvolta,
Gran serate e casa elegante?
Di ridar via sarei beata
Questo ciarpame da mascherata,
Questo chiasso e fumo e lustro,
Per quei libri e il giardino rustico,
La nostra povera dimora,
I luoghi dove vidi voi
Per la prima volta e poi
Il cimitero dov'è ora
Una croce all'ombra dei rami
Sulla mia povera njanja...
XLVII
«Era possibile, era vicina
La felicità!... Ma ormai
È deciso il mio destino.
Forse un po' troppo mi affrettai:
Ma piangendo mi supplicava
Mia madre, mi scongiurava;
Qualsiasi via m'era lo stesso...
E andai sposa... Vi prego, adesso
Mi dovete lasciare. Lo so
Che ci sono nel vostro cuore
E fierezza e giusto onore.
Vi amo: non lo negherò.
Ma sono di un altro; e fedele
Sempre voglio a lui rimanere.»
XLVIII
Lei si allontana. Eugenio resta
Lì, quasi fulminato.
Da che sentimenti in tempesta
Il suo cuore è circondato!
Ma di speroni un tinnìto
Si sente: è comparso il marito
Di Tatjana. E qui, in un momento
Che è per lui di brutto vento,
O lettore, il mio eroe lasciamo
Per un bel po'... o per sempre... Molto
Abbiamo vagato nel mondo
Per seguirlo. A riva ormai siamo,
E scambiamoci un bell'urrà!
Da un pezzo era tempo, si sa!
XLIX
Benigno o no, lettore mio,
Come o quale tu sia stato,
Da amico voglio dirti addio.
Qualunque cosa abbia cercato
In queste strofe buttate là,
O di memorie un'ansietà,
O sollievo dalle fatiche,
Quadri vivi, parole ardite,
Qualche grammaticale errore,
Dio voglia che in questo libretto,
Per i tuoi sogni, per diletto,
Per recensioni, per il cuore,
Un granello abbia rinvenuto.
E qui ti lascio e ti saluto!
L
Addio, compagno strampalato,
Addio a te, vero ideale,
Addio, lavoro faticato...
Con voi ho potuto provare
Quel che un poeta invidia sempre:
Oblìo d'un mondo sconvolgente,
Cari colloqui. E molti giorni
Volarono senza ritorni
Da quando Onieghin e Tatjana
Alla mia confusa visione
Vennero e non sapevo come
Sarebbe finita la trama,
Che in un cristallo di magìa
Non distinguevo tuttavia.
LI
Ma quegli amici a cui, riuniti,Le prime strofe io leggevo
Sono morti o sono partiti,
Come un tempo Sa'adi diceva.
Così Onieghin va a terminare
Senza di loro. E il caro ideale
Di Tatjana colei che ispirò...
Molto il destino ci rubò!
Beato chi lasciò il festino
Della vita senza bere
Tutto il vino del bicchiere,
Non lesse il suo romanzo fino
In fondo e seppe dirle addio
D'un tratto, come a Onieghin io.
[Note dell'autore]
(1) Rout, serata mondana senza ballo; propriamente significa «folla».
FRAMMENTI DAL VIAGGIO DI ONIEGHIN
L'ultimo capitolo dell'Eugenio Onieghin fu pubblicato a parte, con la seguente premessa:
«Le strofe omesse hanno offerto ripetutamente motivo ad appunti e scherzi (del resto molto pertinenti e
spiritosi). L'autore ammette in tutta sincerità di aver estromesso dal suo romanzo un intero capitolo, nel quale era
descritto un viaggio di Onieghin attraverso la Russia. Egli avrebbe potuto contraddistinguere questo capitolo
estromesso con dei puntini o con un numero; ma a scanso di tentazioni ha ritenuto meglio segnare col numero otto,
anziché col nove, l'ultimo capitolo di Eugenio Onieghin e sacrificare una delle strofe conclusive:
È tempo: la penna chiede riposo;
Ho scritto nove canti;
Alla lieta riva porta
La mia barca la nona ondata Gloria a voi, nove Camene, ecc.»
P. A. Katienin (a cui uno splendido talento poetico non impedisce d'essere un critico acuto) ci fece notare che
tale esclusione, forse anche vantaggiosa per il lettore, nuoce tuttavia al piano complessivo dell'opera; perché a causa di
essa il passaggio dalla Tatjana signorina di provincia alla Tatjana nobildonna avviene in modo troppo inaspettato e
inspiegabile. - L'osservazione è rivelatrice di un artista esperto. L'autore stesso ne avvertì la legittimità, ma aveva
deciso di estromettere il capitolo per motivi importanti per lui, e non per il pubblico. Alcuni frammenti sono stati già
stampati; noi li riportiamo qui, con l'aggiunta di qualche altra strofa.
E. Onieghin va da Mosca a Nižnij Novgorod:
..........................................davanti a lui
Makariev invano si affaccenda,
Ribolle della sua dovizia.
Qui perle ha portato l'indiano,
Vini sofisticati l'europeo,
Un branco di cavalli di scarto
Ha condotto l'affarista delle steppe,
Il giocatore ha portato i suoi mazzi di carte
E una manciata di dadi compiacenti,
L'agrario - le sue mature figliole,
E loro - mode già vecchie di un anno.
Ognuno intrallazza, mente per due
E un'aria di traffico è dappertutto.
Angoscia!...
Onieghin si reca ad Astrachan e quindi nel Caucaso.
E vede: il Tierek capriccioso
Corrode le ripide sponde:
Davanti a lui si libra la potente aquila,
Ristà il cervo, chinando le corna;
Il cammello giace all'ombra della roccia,
Nei prati corre il cavallo circasso,
E intorno alle nomadi tende
Pascolano le pecore dei Calmucchi,
In lontananza - le moli caucàsiche.
La via a esse è aperta. Passò la battaglia
Oltre il loro naturale limite,
Attraverso le loro rischiose barriere;
Le sponde dell'Aràgva e della Kurà
Videro i russi attendamenti.
Già del deserto l'eterna sentinella,
Stretto dalle colline intorno,
Il Beštù dall'aguzza cima si erge,
E il verdeggiante Mašùk,
Il Mašùk portatore di curative sorgenti;
Intorno ai suoi portentosi ruscelli
Si accalca il pallido sciame dei malati;
Chi vittima dell'onore militare,
Chi di emorroidi, chi di Cipride;
Il sofferente pensa di rinforzare
Nei flutti prodigiosi il filo della vita,
La coquette di lasciare in quel fondo
L'oltraggio degli anni cattivi, e il vecchio
Di ringiovanire - sia pure per un attimo.
Nutrendosi di amare riflessioni,
In mezzo alla loro triste famiglia,
Onieghin con sguardo di compassione
Osserva le fumose sorgenti
E pensa, onnubilato di tristezza:
Perché non mi ha ferito al petto una pallottola?
Perché non sono un vecchietto malaticcio
Come questo povero appaltatore?
Perché non giaccio paralitico
Come quell'assessore di Tula?
Perché non sento alla spalla
Nemmeno un reumatismo? - Ah, Creatore!
Io sono giovane, la vita è in me vigorosa;
Cosa mi aspetta? Angoscia, angoscia!...
Onieghin visita poi la Tauride:
Paese sacro all'immaginazione:
Con l'Atride là ebbe contesa Pilade,
Là si pugnalò Mitridate,
Là cantò l'ispirato Mickiewicz
E tra gli scogli della riviera
La sua Lituania ricordò.
O voi bellissime, rive della Tauride,
Quando vi si avvista dal bastimento
Al raggio di Cipride mattutina,
Come vi vidi io la prima volta;
In uno splendore nuziale voi m'appariste:
Sotto un cielo azzurro e trasparente
Brillavano ammassati i vostri monti,
Di valli, alberi, villaggi un arabesco
Era disteso davanti a me.
E là, fra capanne di Tartari...
Quale ardore in me si destò!
Da quale magica angoscia
Fu premuto il mio petto ardente!
Ma scorda, o Musa, il passato.
I sentimenti che si celavano
In me allora - non ci son più:
Sono passati o sono mutati...
Pace a voi, affanni degli anni trascorsi!
In quel tempo mi apparivano necessari
I deserti, le creste perlacee delle onde,
E il rumore del mare, e le moli degli scogli,
E l'ideale d'una superba fanciulla,
E i patimenti senza nome...
Altri giorni, altri sogni;
Vi siete placate, o della mia Primavera
Alate visioni,
E nel bicchiere della poesia
Molta acqua io ho mescolato.
Di altri quadri ora ho bisogno:
Mi piace un pendìo sabbioso,
I due sorbi davanti alla casetta,
Il cancelletto, lo sconnesso steccato,
Le grige nuvole in cielo,
Davanti al granaio i mucchi di paglia
E lo stagno all'ombra dei folti salici,
Dove vanno in libertà le giovani anatre;
Adesso mi è cara la balalàjka
E l'ebbro scalpitare del triepàk
Sul limitare della taverna.
Il mio ideale di adesso è una padrona di casa,
La mia aspirazione è la quiete,
E una gran pentola di zuppa di cavoli.
In un giorno di pioggia tempo fa
Io, passando per il cortile delle stalle...
Uff! Prosaiche fantasticherie,
Di scuola fiamminga variopinto ciarpame!
Tale io fui forse nel mio fiorire?
Dillo, fontana di Bachèisaraj!
Tali pensieri nella mia mente forse
Il tuo mormorìo infinito portò,
Quando davanti a te in silenzio
Zariema mi figuravo...
In saloni sfarzosi e deserti,
Dopo tre anni, sulle mie orme,
Errando in quella stessa regione,
Onieghin si ricordò di me.
Vivevo allora nella polverosa Odessa...
Laggiù dura a lungo il cielo luminoso,
Là affaccendatamente un dovizioso mercato
Alza le sue vele;
Là tutto respira a un vento d'Europa,
Tutto risplende meridione e si variopinge
Di una viva molteplicità.
La lingua dell'Italia d'oro
Risuona per le vie allegra,
Dove passano lo slavo altero,
Il francese, lo spagnolo, l'armeno,
E il greco, e il greve moldavo,
E il figlio della terra egiziana,
Moro Alì, corsaro a riposo.
Odessa con versi sonanti
Il nostro amico Tumanskij ha descritto,
Ma con occhi non imparziali
A quel tempo lui la osservò.
Là arrivando, da vero poeta,
Se ne andò errando con la sua lorgnette
Da solo lungo il mare - e poi
Con la sua penna incantatrice
I giardini odessiti esaltò.
Tutto bene, ma il fatto si è che
Là intorno c'è la nuda steppa;
Qua e là recenti lavori hanno costretto
Giovani rami nei giorni torridi
A dare per forza un po' d'ombra.
Ma a che punto sei, o mio scucito racconto?
Nella polverosa Odessa, dicevo.
Avrei potuto dire: nella fangosa Odessa E non avrei detto una bugia.
Per cinque-sei settimane all'anno Odessa,
Per volere di Giove Pluvio,
È affogata, è sbarrata,
In un denso fango affondata.
Tutte le case sono imbrattate fin quasi a un metro,
Solo sui trampoli il pedone
Osa guardare la via;
Vetture, persone affondano, s'impantanano,
E nei calessi il bue, a corna abbassate,
Sostituisce il debole cavallo.
Ma già il martello spezzetta le pietre,
E presto di un selciato sonoro
Si coprirà la città salvata,
Quasi come di una forgiata corazza.
E però in questa umida Odessa
C'è un'altra grave mancanza;
E quale, voi pensereste? - L'acqua.
Occorrono grossi lavori...
E allora? È disgrazia da poco,
Tanto più se si pensi che il vino
Senza dazio viene importato.
Ma il sole del Sud, ma il mare...
Amici, cosa volete di più?
Oh paesi benedetti!
Di solito, appena dalla nave
Tuona il cannone dell'alba,
Dalla riva scoscesa correndo,
Io mi avviavo già verso il mare.
Poi, con la pipa arroventata,
Ristorato dalla salsedine,
Come un musulmano nel suo paradiso,
Bevevo il caffè col fondo alla turca.
Andavo a passeggio. Già il benevolo
Casino si apriva; di tazze un suono
Là si levava, sul balcone
Usciva il segnapunti insonnolito
Con una scopa tra le mani, e sulla loggetta
Già si incontravano due mercanti.
Guardi - e la piazza si è già colorata.
Tutto si rianima; qua e là
Corrono al fare e al non fare,
Ma più di tutto all'affare.
Figlio di calcolo e di ardire,
Va il mercante a guardare le bandiere,
A informarsi se il cielo gli ha mandato
Vele a lui note.
Quali nuove merci
Sono entrate ora in quarantena?
Sono arrivate le botti dei vini che si aspettavano?
E quali nuove della pèste? E dove ci sono incendi?
E niente carestie, guerre
O altre simili novità?
Ma noi, ragazzi senza tristezze,
In mezzo ai sèduli mercanti,
Solo noi aspettavamo le ostriche
Dalle sponde di Tsaregràd.
E le ostriche? Sono arrivate! Che gioia!
Vola la gioventù golosa
A trangugiare dai loro gusci marini
Le pingui e vive eremite,
Con una spruzzatina di limone.
Chiasso, baruffe - un leggero vino
Dalle cantine vien portato
Sui tavoli del confortevole Otòn;Le ore volano, e il conto minaccioso
Intanto cresce senza parere.
Ma già si ottenebra l'azzurra sera,
Dobbiamo andare all'opera in fretta:
Dànno l'inebriante Rossini,
D'Europa il beniamino - l'Orfeo.
Incurante della critica severa,
È sempre lui, è sempre nuovo,
E spande suoni - che ribollono,
Scorrono, ardono
Come baci giovani,
Tutti tenerezza e fiamma d'amore,
Come del frizzante Ay
Lo zampillo e gli spruzzi d'oro...
Ma, signori, è lecito forse
A un vino paragonare il do-re-mi-sol?
Ma solo lì stanno gli incanti?
E la lorgnette indagatrice?
E i convegni dietro le quinte?
E la prima donna? E il balletto?
E il palco dove, di beltà scintillante,
Una giovane mercantessa,
Tutta piena di sé e languida,
Da una torma di schiavi è attorniata?
E lei ascolta e non ascolta
La cavatina e le suppliche
E lo scherzo mischiato alla lusinga...
E il marito - in un angolo dietro di lei sonnecchia
Tra veglia e sonno grida «fora!»,
Sbadiglia e - a russare riprende.
Rimbomba il finale; si svuota la sala;
Rumoreggiando, tutti si affrettano a partire;
La folla si è riversata sulla piazza,
Al lume dei lampioni e delle stelle;
I figli dell'Ausonia felice
Lievemente canticchiano il motivo scherzoso,
Spontaneamente a memoria imparato,
Mentre noi mugoliamo il recitativo.
Ma è tardi. Placida dorme Odessa;
E senza un alito e calda
È la muta notte. La luna si è levata,
Un lieve-trasparente velo
Abbraccia il cielo. Tutto tace;
Solo il mar Nero mormora...
Dunque, io vivevo allora a Odessa...
CAPITOLO DECIMO
I
Un monarca fiacco e astuto,
Calvo bellimbusto, scansafatiche,
Per caso sfiorato dalla gloria,
Su di noi regnava allora.
............................................
II
L'avevamo conosciuto assai pacifico,
Quando cuochi non nostri
L'aquila a due teste spennarono
Presso la tenda di Bonaparte.
............................................
III
La burrasca dell'anno dodici
Arrivò - chi ci venne allora in aiuto?
La furia del popolo,
Barclay, l'inverno o il dio russo?
............................................
IV
Ma Dio ci soccorse - s'acquetò il fermento,
E presto per forza delle cose
Noi ci trovammo a Parigi,
E lo zar russo alla testa dei re.
............................................
V
E quanto più grasso, tanto più greve.
O stupido nostro popolo russo,
Dimmi perché tu veramente
............................................
VI
O Forse, o Scibbolet nazionale,
A te un'ode io dedicherei,
Ma un poetastro d'alta prosapia
È già arrivato prima di me
............................................
Il mare lasciarono a Albione
............................................
VII
Forse, dimenticando gli affitti
Il bigotto si chiuderà in convento,
Forse per un gesto di Nicola
Alle famiglie restituirà la Siberia
............................................
Forse le strade ci aggiusteranno
............................................
VIII
Quest'uomo del destino, questo ramingo guerriero,
Davanti al quale si umiliarono i re,
Questo cavaliere, dal papa incoronato,
Svanito come ombra di crepuscolo,
............................................
Tormentato dal supplizio della quiete
............................................
IX
Minacciosamente tremarono i Pirenei,
Il vulcano di Napoli eruttò,
Il monco principe agli amici di Morea
Da Kišiniov già ammiccò
............................................
Il pugnale di L
, l'ombra di B
............................................
X
Tutti io ridurrò al silenzio col mio popolo Il nostro zar al congresso dichiarò,
E di te niente affatto si cura,
Tu servo di Alessandro.
............................................
XI
Il reggimento-giocattolo di Pietro il Titano,
La guardia di vecchi baffoni,
Che un dì consegnarono il tiranno
Alla banda feroce dei carnefici.
............................................
XII
La Russia si pacificò nuovamente,
E ancor di più si diede lo zar alla baldoria,
Ma la scintilla di un'altra fiamma
Già da molto tempo, forse,
............................................
XIII
Da loro avvenivano le riunioni,
Chi davanti a una coppa di vino,
Chi a un bicchierino di vodka russa.
............................................
XIV
Famosi per tagliente eloquenza,
Si riunivano i membri di questa famiglia
Presso l'irrequieto Nikita,
Presso il prudente Iljà.
............................................
XV
Amico di Marte, di Bacco e di Venere,
Qui Lunin temerario proponeva
Le sue radicali misure
E ispiratamente borbottava.
I suoi Noël leggeva Puškin,
Il melanconico Jakuškin
Sembrava come in silenzio snudare
Un regicida pugnale.
La sola Russia vedendo al mondo,
Perseguendo un suo ideale,
Lo zoppo Turghieniev li ascoltava
E, odiando la frusta della schiavitù,
Antivedeva in quest'accolta di nobili
I liberatori dei contadini.
XVI
Questo avveniva sulla Nievà ghiacciata,
Ma là dove più presto primavera
Brilla sulla Kamienka ombrosa
E sui colli di Tul'èino,
Dove le schiere di Wittgenstein
Le pianure dal Dniepr bagnate
E le steppe del Bug coprirono,
Altri fatti già si compivano.
Là Pestiel' - contro i tiranni
Anche un esercito... raccoglieva,
Generale di sangue freddo,
E Muraviov, sottomettendolo a sé
E pieno di audacia e di forze,
Affrettava l'istante dell'esplosione.
XVII
In principio queste cospirazioni
Tra un Laffitte e un Clicquot
Erano state solo dispute fra amici,
E non instillavano profondamente
Nei cuori la scienza di ribellione,
Tutto ciò era soltanto noia,
Fannullaggine di menti giovanili,
Spasso di monelli adulti,
Sembrava.....................
Nuclei su nuclei...................
E a poco a poco di una rete segreta
La Russia.........................
Il nostro zar sonnecchiava................
...............................................