donne chiesa mondo - L`Osservatore Romano
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donne chiesa mondo Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore L’OSSERVATORE ROMANO febbraio 2015 numero 32 «La mia opera racconta di come una singola persona possa fare la differenza per sconfiggere la povertà. La mia opera raffigura una donna che conduce dei bambini piccoli fuori dall’oscurità, portandoli verso una vita di dedizione, scelte e lavoro» (Jennifer Cacaci, 2012). La carezza di Dio «Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati a essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri» e «questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e soccorrerlo». L’ha detto Francesco nella Evangelii gaudium, la sua prima esortazione apostolica. La Chiesa povera e per i poveri, al centro dei pensieri e delle parole del Pontefice, è oggi soprattutto femminile. Sono in gran parte donne le persone più povere, e sono donne coloro che hanno scelto di dedicare la loro vita a chi ha poco o nulla, a chi è diseredato, emarginato ed escluso. Suore, laiche, missionarie hanno assunto, seguendo il Vangelo, il più faticoso dei compiti. È al femminile la storia dei comedores, le mense popolari di Villa El Salvador, periferia sud di Lima, raccontata in queste pagine da Silvia Gusmano. È una donna polacca, suor Małgorzata Chmielewska, l’organizzatrice della comunità Pane della Vita la cui missione consiste «nel vivere con i poveri» e che, in un’intervista a Dorota Swat, racconta la sua esperienza. Le donne che dedicano la loro vita agli ultimi, non possono certo eliminare la povertà, spiega suor Małgorzata, ma possono intervenire sulla infelicità da essa prodotta e persino scoprire una felicità che la maggior parte di noi non riesce a trovare perché occupata a cercarla altrove. È la felicità che non viene dalla ricchezza o dal denaro, ma dalla solidarietà, dalla gioia di dare e ricevere il bene, dall’amore degli altri e di Dio, dalla speranza. Lo sapeva bene santa Chiara che, come racconta Mario Sensi, particolarmente amava la povertà, «e non poté mai essere indotta a ricevere possessione, né per lei, né per lo monasterio». Non stupisce che ci siano le donne in prima fila accanto ai poveri, che siano loro innanzitutto a dispensare «la carezza di Dio». Per amare i poveri, soccorrerli, per avvicinarsi all’infelicità della povertà e pensare di rovesciarla nel suo contrario, per sconfiggere la miseria — che è diversa dalla povertà — e per dare dignità bisogna conoscere, possedere o riconoscere quell’amore incondizionato che viene dall’esperienza materna. Come le madri amano i figli più deboli, così la Chiesa delle donne cerca e predilige la vicinanza dei poveri. (r.a.) Povertà significa essere liberi A colloquio con la polacca Małgorzata Chmielewska, superiora della comunità Pane della Vita di D OROTA SWAT Suor Małgorzata si occupa dei senzatetto e dei poveri. È venuta a Roma solo per qualche giorno. Quando la incontriamo, è già stata alla messa celebrata dal Papa a Santa Marta e ha incontrato monsignor Konrad Krajewski. È raggiante e si vede. Alle nostre domande risponde in modo concreto ed esauriente e ogni tanto, come per abitudine, ci chiede se veramente non abbiamo fame. giare con imbarazzo: volevano lavorare e abbiamo cominciato a pensare come dargli lavoro. Pian piano sono nati i laboratori e le squadre di edili. Tra i senzatetto ci sono molti malati che hanno bisogno di essere curati da specialisti, abbiamo quindi aperto un ospizio per i malati. Le madri con bimbi piccoli non potevano stare insieme ad altre donne con problemi psichici o di alcol: era necessario creare una casa appositamente per loro. È così che funziona. Lavorate anche con i disabili? Come ha conosciuto la comunità Pane della Vita? Per caso. Insieme alla mia amica, ancora ai tempi del comunismo, facevamo varie cose, allora meno legali, per gli emar- La missione della comunità è vivere con senzatetto, orfani e ragazze madri intorno a Cristo nell’eucaristia ginati. Cercavamo un luogo o una comunità adatta ai nostri bisogni, cioè che vivesse insieme a queste persone: qualcuno mi ha dato l’indirizzo e siamo andate in Francia. donne chiesa mondo Oggi Pane della Vita ha in Polonia diverse case, laboratori e perfino un negozio on line. In Polonia la comunità esiste dal 1989 quando venne aperta la prima casa per i senzatetto, organizzata da me, dalla mia migliore amica e dall’attore Maciej Rayzacher. In poco tempo l’abbiamo inserita nella comunità Pane della Vita. La sua missione consiste nel vivere con i poveri intorno a Cristo nell’eucaristia. Vogliamo vivere con i poveri — non lavoriamo per loro perché non sono nostri assistiti, bensì fratelli e sorelle, il che ha un’importanza essenziale nelle nostre reciproche relazioni — e cerchiamo di indicare Cristo nell’eucaristia come Signore e salvatore, come l’unico che può guarire le ferite, indicare la via e dare amore. Non avevamo un piano: le persone che comparivano sulla nostra strada con i loro problemi rappresentavano per noi delle domande. E così è tuttora. La prima casa è nata perché abbiamo incontrato delle senzatetto: a un certo momento in campagna da noi venne una ragazza per farsi prestare 50 złoty (circa 12 euro) per il collegio scolastico, se non pagava sarebbe stata espulsa ed era l’anno del diploma. Le abbiamo dato i soldi e abbiamo cominciato a occuparci di altre persone con gli stessi problemi: è nato così un fondo di borse di studio che attualmente sostiene 600 giovani. Quando venivano da noi, sempre lì in campagna, erano disoccupati e ci chiedevano da man- Esiste, specie in campagna, il grande problema dei disabili, che vivono in condizioni terribili: se un allevatore tenesse così i maiali verrebbe mandato in prigione. Così abbiamo cominciato a ristrutturare o costruire case per le famiglie in difficoltà in cui o i genitori o figli (o entrambi) presentano qualche forma di disabilità. Sono molti anche i giovani disabili mentali non gravi: troppo intelligenti per avere una pensione d’invalidità, ma troppo poco abili per vivere autonomamente. Tutti vorrebbero comunque lavorare: nei nostri laboratori trovano una possibilità. Tra loro spesso ci sono ragazzi cresciuti in orfanotrofio che non hanno mai avuto una vita propria da adulti: vivono in stanze con altre persone, dipendono sempre da qualcuno, mentre con la nostra discreta assistenza potrebbero funzionare benissimo e magari avere una famiglia. Crede che al di là delle dichiarazioni di principio la Chiesa accetti davvero la disabilità, in particolare quella mentale? No. Certo, ci sono luoghi, comunità e sacerdoti che lavorano con i disabili mentali, ma sono una piccola minoranza. Ultimamente in una parrocchia non si è voluto dare la comunione a un ragazzo disabile: un nostro sacerdote è andato là e gliel’ha data perché il ragazzo stava per morire. Per me queste persone sono i vip nel Regno di Dio, eppure noi li emarginiamo. Troviamo ai primi posti nella nostra Chiesa i deboli, le donne anziane, i disabili? Come intende la povertà? La povertà non è la miseria. Faccio di tutto perché nelle nostre case, che sono molto modeste, le persone possano vivere dignitosamente, perché ci sia la pulizia, perché l’ambiente sia gradevole, l’erba tagliata. La povertà non è un concetto relativo perché riguarda miliardi di persone in questo mondo ed è una cosa reale e dolorosa. Significa l’incertezza del domani, l’impotenza e l’angoscia per i propri cari, l’impossibilità di soddisfare i loro bisogni. La povertà ci insegna anche la fiducia nella Provvidenza di Dio, perché in modo concreto sperimentiamo che Dio c’è veramente. Nella nostra comunità molto spesso rimaniamo senza niente e al- Non sono nemmeno emarginati perché per emarginare qualcuno bisogna prima vederlo Semplicemente sono persone che non esistono lora cominciamo a pregare: dopo un po’ qualcuno ci dà qualcosa, arriva qualcuno e porta qualcosa. La povertà in pratica significa essere liberi. Beati i poveri: sono felici qualche volta gli abitanti delle vostre case? A Varsavia recentemente è stato esaminato il livello di soddisfazione dei clienti dei vari servizi, inclusi i clienti degli ospizi per i poveri, perché in Polonia chi riceve l’assistenza sociale è un “cliente”. E così un giovane sondaggista è venuto da noi e ha domandato a un senzatetto trentacinquenne malato di cancro: «Lei è soddisfatto?». Questo è naturalmente un’assurdità. La povertà in sé non dà la felicità: direi che, al contrario, rende infelici. Gli abitanti delle nostre case sono o persone che erano benestanti e avevano una fami- è possibile: nelle nostre case lavorano tutti coloro che sono in grado di farlo. La prima cosa che facciamo perché un nuovo arrivato conservi la propria dignità è chiedergli di apparecchiare la tavola. I soldi e le cose materiali che riceviamo sono naturalmente un dono della Provvidenza, ma chiaramente ce le danno delle persone, e spesso non sono persone benestanti! Un giorno chiamò una signora: mi chiese se volevo una macchina. Risposi di sì: era un fuoristrada perfetto per la campagna, ma in versione lussuosissima con sedili in pelle. Vi abbiamo subito messo sopra una targa con scritto “dono”. In generale, però, per le persone ricche è più difficile condividere perché dagli uffici eleganti delle multinazionali nel centro di Varsavia, Parigi, Londra o Roma è più difficile vedere chi sta in basso. Invece coloro che giorno per giorno affrontano le difficoltà della vita comprendono più facilmente. Quando raggiungiamo un certo livello di ricchezza, ci allontaniamo dalla fonte della solidarietà umana, dalla misericordia e dai legami con gli altri: è il pericolo che corrono le persone molto ricche. Ne conosco qualcuna: sono piene di buona volontà ma incapaci di capire “l’altro”. In questo sta la loro povertà. Viviamo in una società competitiva che insegna subito ai bambini che devono essere migliori degli altri. Sono i figli dei poveri che vengono scelti per dare il benvenuto al vescovo in parrocchia? Sono loro che declamano le poesie? Cosa si può fare? Cambiare il sistema di assistenza sociale? Sicuramente bisogna perfezionare il sistema di assistenza sociale, ma il problema è che le persone più deboli, coloro che sono nati in condizioni di svantaggio, non sono in grado di funzionare in un sistema dove bisogna sapere fare molte cose, usare il computer, riempire moduli in banca, parlare un linguaggio che non conoscono. Creando tali sistemi, li escludiamo. Non sono nemmeno emarginati, perché per emarginare qualcuno bisogna prima vederlo. Sono, semplicemente, persone che non esistono. Il ruolo di noi cristiani deve essere quello di “vedere” il problema, perché molte persone non lo vedono. Niente può sostituire l’incontro dell’uomo con un altro uomo: la relazione, la condivisione, il sostegno reciproco. Gli abitanti delle nostre case non prendono solamente: ci danno moltissimo. Si creano relazioni, scambi, senza i quali non c’è amore, né rispetto. Nessuno può essere assistito a vita, invece è proprio quello che fanno i moderni si- glia, o persone nate già svantaggiate, che non hanno mai avuto niente: la vita nella comunità e sentire che sono amati dà a entrambi la felicità. Quindi penso che nella maggior parte loro sono felici, naturalmente nel senso molto profondo della parola. Nelle nostre case nonostante la grande sofferenza c’è la gioia, si ride, si scherza. Certo, questa benedizione funziona quando l’uomo scopre che l’amore è veramente il valore più alto e che Dio ci ama senza limiti, in modo acritico, come una madre ama il figlio indipendentemente da come esso è. Anzi, una madre ama di più il figlio che soffre di più. Io ho cinque figli adottivi, uno, Artur, è autistico: anche se è un ragazzo difficile, è il pupillo della casa. Ama gli accendini, li raccoglie e li infila nelle bottiglie vuote: tutti a casa ne hanno in tasca uno per darglielo, così Oggi ai deboli si offre solo l’assistenzialismo che anche lui possa essere felice per un momento. I È molto più difficile mettere una persona poveri scoprono quella feliin condizione di poter funzionare da sola cità che noi non vediamo perché occupati a cercarla vivere dignitosamente e guadagnarsi il pane altrove. Per loro, forse, è più facile scoprire la vera felicità: in questo consiste stemi di assistenza. Agli esclusi si danno la grandezza del povero. le condizioni minime di sopravvivenza, ma Per aiutare i poveri serve denaro. Tra coloro non si permette loro di reinserirsi nel sistema della normale vita economica, cultuche vi sostengono ci sono persone ricche? rale, educativa e spirituale. È molto più Margaret Thatcher ha detto che per es- difficile mettere una persona in condiziosere un buon samaritano bisogna avere i ne di poter funzionare da sola, vivere disoldi. Ciò è naturalmente vero. Cerchiamo gnitosamente, guadagnarsi la vita e mandi guadagnarci da soli il pane per quanto tenere la famiglia. Suor Małgorzata Chmielewska è la superiora della comunità Pane della Vita, fondata da una coppia francese, Pascal e Marie Pingault. Convertitisi in età adulta, nel 1971 con un gruppo di amici hanno deciso di vivere radicalmente il Vangelo. Dopo tredici anni è nata la comunità riconosciuta dalla Chiesa come associazione di fedeli laici. I suoi membri, laici consacrati, vivono insieme ai poveri. In Polonia la comunità gestisce case, dormitori per i senzatetto, i malati e le madri sole. La sua fondazione Case della comunità Pane della Vita organizza il lavoro dei malati e dei senzatetto nelle manifatture e assegna borse di studio ai bambini delle campagne. donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo Il romanzo La Mennulara di SILVIA GUSMANO L Lacrime di forza Le donne dinnanzi alla povertà di HILDE KIEBO OM i saranno sempre dei poveri in mezzo a voi» diceva Gesù, certo non perché ci rassegnassimo alla loro sorte, ma piuttosto per avvertirci che, in qualsiasi luogo del mondo e in qualsiasi periodo della storia umana, ci saranno sempre persone più deboli, vulnerabili e bisognose che inviteranno a vivere l’amore preferenziale per i poveri. Nessuno stato sociale, neanche quello più avanzato, può fare a meno dell’interdipendenza e della solidarietà tra gli uomini. Il fatto che il volto della povertà si femminilizzi in molte città del mondo non è dovuto solo alla «C spiritualità nelle mentalità. La secolarizzazione dei cuori non ha alienato i nostri contemporanei solo da Dio, ma anche dalle loro famiglie e dai concittadini più deboli: non s’impara a vivere con loro, se ne ha paura, si cerca di evitarli. Infine si ha paura della propria debolezza e si diviene sprovvisti e indeboliti nell’ambito umano. Non è dovuto al caso che nel Vangelo le persone che accettano per prime il cammino della debolezza sono delle donne. Vedendo la sofferenza di Gesù, capiscono di non avere alcuna capacità di decisione, ma sono lì, e vegliano ai piedi della croce. Quale potere rappresentano agli occhi della società? Le donne hanno un carisma particolare per quel che riguarda l’accettazione della propria debolezza e della propria fragili- Diaconia e spiritualità Hilde Kieboom è nata il 7 maggio 1965 a Wilrijk (Anversa). Ha studiato greco e latino, poi lingua e letteratura germanica all’università di Anversa e teologia nel Centro Teologico e Pastorale di Anversa e all’università cattolica di Lovanio. È sposata e ha due figli. Nel 1985 ha fondato nella sua città la comunità di Sant’Egidio, che aveva conosciuto dieci anni prima a Roma. Il 21 luglio 2003 re Alberto II le ha attribuito il titolo di baronessa per il suo impegno e due anni dopo l’università di Utrecht le ha conferito un dottorato honoris causa, per il modo in cui ha messo in pratica la diaconia e la spiritualità nella società moderna. Nel 2007 ha ricevuto dal patriarcato della Chiesa russa ortodossa l’onorificenza dell’ordine di Santa Olga per i suoi meriti nella Chiesa e nella società. Nel 2014 è diventata vice-presidente della comunità di Sant’Egidio. crisi economica, ma anche alla crisi della famiglia: quante donne si vedono obbligate a portare da sole il peso dell’educazione dei figli? L’individualismo della nostra società fa aumentare il numero dei poveri. L’invecchiamento — fenomeno tipico del ventunesimo secolo su scala mondiale, fenomeno in gran parte femminile — che in una visione biblica della vita dovrebbe essere concepito come una grazia e un dono di Dio, è spesso percepito come un problema, che pesa sui bilanci dove si dovrebbe risparmiare. Non più produttivi, gli anziani vengono facilmente cacciati dalle famiglie, dai quartieri, dalle reti umane, per essere condannati a una vita anonima in un istituto, come se la vecchiaia fosse una malattia. Quanti anziani soli ci sono dietro i muri delle case di riposo in Occidente? La solitudine e la disperazione di molte persone anziane diventano una nuova forma di povertà nella nostra società materialista. Allo stesso tempo questa povertà rivela il deficit di cultura di vicinanza e di Edward Hopper, «Young Women in a Studio» (1901-1902 circa) tà. Là dove nel Vangelo, per la prima volta, nasce una comunità attorno a Gesù, là ci sono le donne: sono ai piedi della croce. Mentre tutti i discepoli sono fuggiti, loro trovano il coraggio di restare accanto a Gesù: «C’erano anche alcune donne, che stavano a osservare da lontano, tra le quali Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, che lo seguivano e servivano quando era ancora in Galilea, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme» (Marco, 15, 4042). Ai piedi della croce nasce una famiglia nuova, che possiamo considerare come la prima comunità cristiana. Là dove non si evita la sofferenza, là dove si accetta con fiducia la propria debolezza, là dove la fragilità e l’impotenza si tramutano in preghiere al Signore, là nascono energie insospettate. Il grande filosofo e teologo ortodosso russo Evdokimov nel suo libro La donna e la salvezza del mondo dice: «Più interiorizzata, più legata alle radici, la donna si sente subito a proprio agio nei li- miti del suo essere e si sforza di utilizzare i propri doni per creare una sinfonia chiara e limpida della sua persona. Riempie il mondo della sua presenza dal di dentro. (...) L’uomo travalica il suo essere, con il suo carisma di espansione. Aspira a raggiungere il massimo della sua potenza della quale riempie il mondo (...). L’istinto maschile di distruzione “padre della guerra” può essere “accordato” dal femminile e sublimato in istinto di vita, di costruzione della cultura e del culto. (…) L’uomo di oggi disumanizza il mondo in tutte le forme di oggettivazione; ebbene, per l’istinto materno, qualsiasi oggettivazione è organicamente impossibile. (…) La donna umanizza e personalizza il mondo (…). Difende sempre il primato dell’essere sulla teoria». Il ricco deve imparare nuovamente a vivere con la propria debolezza, che esiste malgrado tutto ciò che fa per nasconderla. L’incontro con una persona anziana o malata ci aiuta ad accettare la nostra debolezza. Queste realtà ci costringono a interrogarci su ciò che siamo, su ciò che speriamo, su dove cerchiamo e troviamo la nostra gioia. L’incontro con il povero è un mistero che ci apre a Dio. «La guerra è la madre di ogni povertà» dice Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio. La pace, questo bene prezioso dell’umanità, è minacciata da ogni lato, una parte importante del mondo è oggi in fiamme. Quanti cuori non sono abitati da un capitale di odio e di vendetta che attendono di poter esplodere, seminando così morte e distruzione? Oggi vediamo il deficit di un mondo che non ha investito molto sul vivere insieme e che si è abituato alla malattia della violenza e della guerra. I cristiani, che pur hanno ricevuto da Gesù la missione di essere artefici di pace, si sentono spesso condannati a essere spettatori di un mondo ingiusto e ingovernabile, e alla fine si rassegnano al pessimismo. Barbara Ehrenreich nel suo libro Riti di sangue. All’origine della passione della guerra precisa che la guerra è una delle attività più apertamente sessiste dell’umanità, a causa dello stretto vincolo esistente tra guerra e virilità. Le donne, le madri, le spose, le figlie vedono il dolore della guerra: la perdita delle persone care, le distruzioni. Le donne piangono durante la guerra; piangono perfino per quelli che non sono i loro figli; anche la Chiesa piange durante le guerre. Nei tempi difficili di guerra, la Chiesa mostra, per antonomasia, la sua maternità, il suo lato materno, mentre gli uomini si uccidono a vicenda. Durante la guerra, la Chiesa mostra il suo profilo di madre. Ama la pace perché è madre. Maria è la figura materna che piange durante la guerra. Maria piange durante a storia dei comedores di Villa el Salvador — periferia sud di Lima — è una storia di resistenza e fratellanza, di emancipazione e lotta alla fame, di coraggio e inventiva. Tutta al femminile, o quasi. A raccontarcela, infatti, è un uomo, un sacerdote che nel 1985, «con un bel salto» passa da una parrocchia alla periferia di Roma a una baracca sulla costa peruviana e vive in prima persona una rivoluzione da non dimenticare. Oggi don Gaspare Margottini abita e, instancabile, lavora tra i poveri delle Ande, a 3500 metri, ma degli esordi della sua missione ricorda ogni dettaglio. La Villa el Salvador, dove arriva trent’anni fa e rimane sino al 1997, è un girone infernale sull’oceano progettato a tavolino nel 1971 per liberare alcuni terreni dall’occupazione abusiva dei più poveri tra i poveri, a vantaggio di un pugno di ricchi. Dopo un’opposizione dura e dolorosa che vede anche l’arresto di monsignor Luis Bambarén, simbolo di quella Chiesa che in America latina si è schierata con forza al fianco degli ultimi, lo sfollamento diventa inevitabile. Migliaia di persone, divise in settori da 384 famiglie, vengono trasferite nel deserto a sud di Lima, in un ammasso di baracche che sulla carta ha le sembianze di un quartiere moderno, ma di fatto diventa una gigantesca bidonville. Le abitazioni restano precarie, l’acqua arriva solo una volta a settimana, in molti punti mancano le fogne e le scuole sono capanne spoglie dove chi ne possiede uno si porta il banchetto da casa. Poche settimane dopo il trasferimento di don Margottini, tuttavia, arriva provvidenziale la visita di Giovanni Paolo II. L’esclamazione del Papa alla vista dall’alto di Villa el Salvador svela al mondo intero lo scandalo di quell’ennesimo ghetto: «Come vive tutta questa gente!». Più di due milioni di persone accolgono il Pontefice il 5 febbraio 1985 e quando lascia il suo discorso scritto per guardarle negli occhi e parlare a braccio, il loro silenzio si scioglie in lacrime e applausi. Hambre de Dios, sí. Hambre de pan, no, afferma con forza il Papa. Fame di Dio, sì; fame di pane, no. Non si può accettare. Una nuova linfa vitale inizia a scorrere sotto quella sabbia, la solidarietà diventa la prima arma della lotta alla miseria e la sua espressione più alta sono i comedores, le men- la guerra e risplende in tempi di pace. È felice alla nascita del Salvatore e piange ai piedi della croce. Le lacrime esprimono la sua disperazione, ma allo stesso tempo la forza di questa donna fragile, che è la madre di Dio. Le sue lacrime mostrano che l’umanità non accetta la guerra. Maria è venerata come la Regina della pace che rappresenta la speranza del nostro mondo. Le lacrime, le grida di disperazione diventano richiesta e preghiera. I singhiozzi sono una supplica di fronte alla quale Dio non resta sordo. Nella preghiera affidiamo la nostra fragilità a Dio che ci rende forti nella fede e nell’amore al servizio degli altri. La preghiera è l’arma dei deboli e dei poveri. Ci troviamo qui di fronte a un grande paradosso della vita cristiana: la forza dei deboli e la debolezza dei forti. Come dice san Paolo, «quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Corinzi, 12, 10). Essere presenti tra quanti soffrono è preghiera, è ascolto. Come dice Gesù, è Il fatto che il volto della povertà si femminilizzi nel mondo non è dovuto solo alla crisi economica ma anche alla crisi della famiglia Maria che si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta: la presenza accanto a Gesù, l’ascolto della sua parola (cfr. Luca, 10, 38-42). Il nostro mondo, che è malato di violenza, di guerra e di solitudine, ha sete di amore, di conforto, di pace, ha bisogno di donne forti, di donne di fede. Evdokimov scrive: «La donna salverà il mondo solo se proverà un tremito dinanzi al mistero delle vergini sagge della parabola evangelica, se, gratia plena, diventerà realmente, sull’esempio della Vergine, la porta del Regno». Le vergini sagge hanno trovato la forza di mantenere le loro lampade accese: avevano come provvista una grande fiducia nel Signore ed erano andate ad attingere alla fonte della speranza. Queste donne mostrano il cammino, testimoniano che il Dio della tenerezza non ha abbandonato il mondo. Le donne presso il sepolcro diventano le prime testimoni di Gesù risorto, le prime testimoni della Buona Novella. Quelle donne che sono restate ai piedi del sofferente, che hanno vegliato restando presenti, che non hanno eluso la debolezza, sono forti. Vedono un cammino di speranza e di resurrezione e lo comunicano agli altri. Alla scuola della sofferenza s’impara a non aver più paura delle lacrime e delle suppliche e ci si ritrova confortati dallo scorgere il cammino della resurrezione, della speranza e della pace. Solidarietà contro miseria Le mense popolari delle donne di Villa el Salvador alla periferia di Lima se popolari. Ogni settore ne ha una e grazie all’aiuto della Caritas e della sua responsabile, suor Rosa Ballon, il comedor diventa punto di raccolta e riscossa delle donne di Villa el Salvador. Con un’efficienza sorprendente, madri, figlie, sorelle si dividono in comitati, eleggono le proprie rappresentanti e contabili, si organizzano in turni e prendono in gestione gli aiuti della Caritas, essenzialmente farina, olio e lenticchie. Poi, procurandosi il resto con piccoli contributi familiari, iniziative di beneficenza e molto ingegno, riescono Le mura domestiche si allargano sino a circoscrivere un unico grande spazio dove pene e disgrazie si distribuiscono sulle spalle di tutte a mettere su ogni giorno la colazione per i bambini e un pasto per tutti. Nelle fredde mattine di nebbia che si susseguono a Lima tra maggio e dicembre, i più piccoli sulla strada per la scuola si fermano nei comedores, dove — novità assoluta — trovano due panini per ciascuno, avena e latte caldo. E lo stesso al ritorno, quando insieme ai familiari mangiano riso, legumi o zuppa di verdure, arricchita solo nelle grandi occasioni con il pollo. Don Gaspare ricorda divertito una gita con i piccoli della sua parrocchia — quelli del settore sei — e la felicità di una bimba nello scoprire al momento del pranzo che la sua zuppa era piena di pezzi di carne. «Zio — gli disse secondo l’usanza — qui il pollo c’è veramente. Falla tutti i giorni così!». Anima dei comedores sono le riunioni del mercoledì, iniziate per organizzare mansioni e turni della cucina e proseguite per far fronte ai problemi sempre nuovi della comunità. Le mura domestiche di ogni donna si allargano sino a circoscrivere un unico grande spazio dove pene e disgrazie si distribuiscono sulle spalle di tutte. Insieme si decidono di volta in volta i casi sociali, ossia coloro che non posUna foto recente di don Gaspare Margottini, che oggi vive a Huancayo (Perù) sono permettersi neanche il piccolo contributo richiesto dalla mensa e vengono aiutati dalla parrocchia. E insieme si trovano soluzioni. «Le donne sapevano tutto» racconta don Gaspare. Se qualche padre perde il lavoro, la sua famiglia ha diritto al pasto gratuito. Se qualcuno è malato di tubercolosi, molto denutrito, incinta, riceve una zuppa più sostanziosa e una razione in più di lenticchie. Alle cinque, finita la riunione, «tutte scappavano per aspettare il rientro del marito, neanche fosse il re» ricorda il missionario, ma intanto nelle due ore precedenti avevano dato una bella spallata al maschilismo che le opprimeva. Condividendo ingiustizie e umiliazioni — nell’85 per cento dei casi la violenza era familiare — molte di loro iniziano a rivendicare i propri diritti e imparano a difendere se stesse o le compagne davanti al giudice di pace. I comedores diventano così il punto di partenza di un profondo percorso di emancipazione, una macchina da guerra per costruire la pace che dà il meglio di sé nel frangente più critico della storia del Perú. Mentre, a partire dal 1987, l’economia precipita, l’inflazione e la fame raggiungono livelli mai immaginati, gli attentati di Sendero Luminoso insanguinano il Paese e le sparizioni sono all’ordine del giorno, i comedores di Villa el Salvador si moltiplicano e si rafforzano. Dai diamanti non nasce niente, cantava De Andrè. Sulla sabbia di Villa el Salvador nascono i fiori. Anche se non sempre fila tutto liscio, spiega don Margottini: «C’erano donne che rubacchiavano o approfittavano del proprio turno in cucina. Ed è importante dirlo, perché in realtà così estreme, le contraddizioni sono inevitabili e non c’è da scandalizzarsi». Ciò che conta è l’insieme, lo spirito di comunità che riesce in imprese altrove impossibili. Quando nel 1991 arriva l’epidemia di colera i morti di Villa el Salvador sono molti meno rispetto alla media nazionale. «Venivano i medici a spiegarci le precauzioni necessarie. “Lavatevi continuamente le mani” dicevano. E noi che vedevamo l’acqua una volta a settimana, sorridevamo. Eppure grazie a una fitta e organizzata collaborazione tra le donne dei comitati, i medici, gli infermieri, i volontari si è evitata l’ecatombe». Certo, si aggravò la disidratazione, un problema che l’estate affliggeva soprattutto i bambini. «A volte — racconta il sacerdote — mi chiamavano per un’estrema unzione e mi accorgevo che non era tempo di morire ma solo di bere. Quante vite salvate con un litro d’acqua e un po’ di sale e zucchero!». Quando la povertà raggiunge l’apice, dal 1990 al 1992, Villa el Salvador, grazie alle sue donne, si distingue ancora. Il Governo decide di concedere il cherosene gratuito a tutti i comedores del Perú e la Caritas si trova davanti al grande problema di come distribuirlo evitando furti e sprechi. Ancora don Gaspare Margottini: «Ricordo una riunione molto tesa con Caritas nazionale. Al mio fianco, oltre a suor Rosa, un rappresentante del popolo, tanto robusto quanto sulla difensiva. In mano stringeva le chiavi dei quattro distributori di cherosene di Villa el Salvador e quando colse la diffidenza nei suoi confronti le tirò sul tavolo proprio davanti al presidente di Caritas. Come a dire: “Se non vi fidate, pensateci voi”. E alla fine ci pensammo tutti insieme, con un imponente lavoro di squadra. In una settimana ci eravamo organizzati, mentre nel resto del Paese ancora discutevano il problema. All’alba interminabili file di donne attendevano la razione di cherosene per il loro comedor. Io passavo a distribuire i biglietti per il ritiro e alla mezza il pranzo era pronto». Così Villa el Salvador, con tenacia e dignità, tira avanti fino al 1992 quando l’economia inizia molto lentamente a riprendersi e l’emergenza fame si attenua, anche se la miseria resta e ancora oggi, quando quella periferia nel deserto conta quattrocentomila abitanti, affligge larga parte della popolazione. I comedores diminuiscono, pian piano chiudono, ma alcuni vengono convertiti in ristorantini a menù fisso, dove per un sol e mezzo la proprietaria offre un pasto completo e un’accoglienza gioiosa. Nel frattempo, le donne artefici del destino della comunità per oltre un Finita la riunione tutte scappavano a casa per aspettare il rientro dei mariti Ma intanto nelle due ore precedenti avevano dato una bella spallata al maschilismo che le opprimeva decennio, sono profondamente cambiate. Molte di loro entrano in politica o continuano a lottare per un mondo più giusto. A ispirarle l’esempio di Maria Elena Moyano, cresciuta tra i fumi e i profumi dei comedores dall’età di dodici anni, divenuta vicesindaco di Villa el Salvador e fatta esplodere il 15 febbraio 1992 davanti ai suoi figli in un attentato di Sendero Luminoso. Il giorno prima aveva risposto allo sciopero armato dei guerriglieri contro l’autonomia dei comedores, organizzando una marcia della pace. Il giorno dopo, ai suoi funerali partecipano migliaia di persone. «Noi donne — ha scritto — abbiamo molta forza. Crediamo in quello che stiamo costruendo, non bisogna avere paura. Le cose non sono facili, ma nemmeno impossibili». La Mennulara è la raccoglitrice di mandorle, la più povera delle povere. Di lei — Maria Rosa Inzerillo — e della sua vita nella Sicilia degli anni Sessanta racconta il romanzo di Simonetta Agnello Hornby, La Mennulara (Feltrinelli, 2002). La Mennulara è una donna rude e ispida, ma intelligente e dotata di una straordinaria forza di volontà. L’autrice ne scolpisce il suo ritratto nella pietra: Maria Rosa non conosce debolezze, non si permette sentimenti e, proprio per questo suo carattere, riesce — lei umile e semianalfabeta — a diventare prima domestica, poi governante e infine amministratrice di una facoltosa e nobile famiglia siciliana. Anche in una vita che sembra ridotta al lavoro, alla fatica, all’abnegazione, che comprende solo durezze, s’intravedono rapporti segreti, sentimenti forti, disperazioni senza parole. Con la sua morte il mistero sulla sua persona s’infittisce. Perché la Mennulara che ha governato i beni di una nobile e ricca famiglia in vita riesce a farlo anche dopo la sua morte, preservando proprietà, terreni, rendite e futuro anche agli ultimi eredi. La sua lotta contro la povertà non ammette tregua. (@ritannaarmeni) I saggi Dorothy Day «Quando avevo la vostra età e frequentavo l’università dell’Illinois — disse un giorno Dorothy Day (1897-1980) a un gruppo di studenti — i poveri potevano contare soltanto sulla carità dei ricchi. Mi ricordo che una volta chiesi a mia madre il perché di questa situazione; perché per alcune persone le cose non potevano andare meglio, perché alcuni possedevano tanto e altri tanto poco o nulla. Mi rispondeva sempre che non esiste spiegazione per le ingiustizie: le cose stanno così, semplicemente». Ebbene, concludeva l’attivista e giornalista statunitense, «credo di aver speso la mia vita tentando di far funzionare meglio le cose». Non si può affrontare il tema di donne e povertà senza ricordare gli scritti di questa donna, vissuta radicalmente con i poveri e per i poveri. «Non ci schieravamo con la grande massa dei cattolici che erano ben soddisfatti del mondo contemporaneo» scrive nella sua autobiografia Day ricordando i primi anni del Catholic Worker Movement da lei fondato: «Essi erano ben disposti a dare ai poveri, ma non si sentivano chiamati a lavorare per le cose di questa vita a favore di altri». Day, invece, lo sentì. E la sua vita e le sue pagine lo raccontano. (@GiuliGaleotti) Il film The Inn of the Sixth Happiness Darà ai bambini poveri cinesi, molti dei quali orfani, una ragione per vivere, dopo tanta paura e sofferenza: è coronata da successo la coraggiosa opera della cameriera inglese Gladys Aylward — interpretata da una straordinaria Ingrid Bergman nel film, del 1958, The Inn of the Sixth Happiness, tratto dal romanzo di Alan Burgess — che, durante la prima guerra mondiale, decide di andare in Cina per fare la missionaria con l’obiettivo di diffondere il cristianesimo. In patria si dovrà scontrare con il ruvido scetticismo di chi la circonda. Non si scoraggia, lavora instancabilmente per guadagnare i soldi per il biglietto del viaggio: salirà quindi su un treno che attraversa anche la Siberia. Una tappa che presenta gravi rischi ma che non scoraggia la missionaria. Una volta in territorio cinese, Gladys dovrà superare non poche difficoltà per inserirsi nel nuovo scenario: saprà, con pazienza e determinazione, vincere la diffidenza della gente e delle istituzioni locali. E dalla diffidenza si passerà all’amore per questa intrepida cameriera: un amore contraccambiato anzitutto dai tanti bambini che ella si è prodigata ad aiutare. (gabriele nicolò) women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women MANUALI PER LE MADRI JIHADISTE Il ruolo delle donne nel jihad: è questo il titolo di un manuale presentato di recente su internet dal gruppo estremista dello Stato islamico che continua ad addestrare bambini soldato. Il testo — che proibisce ai piccoli il computer, il canto, il ballo, la televisione, mentre incoraggia a dedicarsi a tutto ciò che possa essere utile in un combattimento come le arti marziali, il nuoto, il tiro con l’arco, l’equitazione, gli esercizi di sopravvivenza — spiega alle donne jihadiste come orientare gli ideali dei minori e la loro visione del mondo affinché diventino buoni combattenti. Giacché all’età di 7 anni i piccoli sono già meno ricettivi, spiega il manuale, la formazione e l’apprendimento di idee jihadiste deve iniziare presto. Il manuale — descritto dall’Istituto di ricerca dei media del Medio oriente — mette allo scoperto crudeli metodi di reclutamento di minori: i figli dei membri dello Stato islamico vengono mandati in campi dove imparano a maneggiare le armi da fuoco e a decapitare i nemici. Un piccolo eroe è stato di recente celebrato: nel video circolato in rete a metà gennaio, si vedeva un minore di non più di dieci anni “giustiziare” con la pistola due spie adulte. Una tragedia nella tragedia: alle vittime freddate, infatti, va sommata la terza. Il bambino stesso. INIZIATIVE IMPRENDITORIALI IN COSTA RICA In Costa Rica l’ultimo censimento nazionale delle famiglie conferma come il tasso di disoccupazione nel Paese centroamericano sia molto più alto tra le donne rispetto agli uomini. Tra le famiglie che vivono in condizioni di povertà, il 43,3 per cento è guidato da una donna, il 33 per cento delle quali è in condizione vulnerabile. Per far fronte a questa situazione il programma Ideas Productivas sta avviando diversi progetti coinvolgendo circa 500 donne povere per dare loro una formazione aziendale come imprenditrici, favorendone la formazione e le capacità. I programmi coinvolgono l’agricoltura, l’arte di riciclare materiali usati, l’estetica, il disegno grafico, la toilettatura per cani, la bigiotteria, come anche la conduzione di negozi. UN CENTRO A D OSSO PER D ONNE E BAMBINI Nel tentativo di migliorare la copertura sanitaria della regione di Dosso, nell’estremo sud-ovest del Niger, è nato un progetto per la costruzione di un centro medicosociale al fine di garantire il benessere di donne e bambini: un ospedale per le cure di base, con reparti di maternità, pediatria e centro nutrizionale; un programma di formazione per ostetriche, assistenti al parto a domicilio (una per villaggio), pediatri e nutrizionisti. È stato il Movimento per la lotta contro la fame nel mondo ad attivare il piano, insieme alla diocesi di Lodi, la Conferenza episcopale italiana, la diocesi e il ministero della Salute pubblica nigerino. Il progetto interessa innanzitutto le mamme, che verranno aiutate a partorire in sicurezza presso il centro o a domicilio, ma coinvolgerà più in generale tutto il personale che ruota attorno a gravidanza e nascita. Ne saranno beneficiari i cinquantamila abitanti della periferia di Dosso e i circa quarantamila abitanti dei 56 villaggi che si trovano nel raggio di trenta chilometri dal dispensario. Un totale, dunque, di circa novantamila abitanti, il 52 per cento dei quali sono donne. Tra gli obiettivi principali del progetto la riduzione dei tassi di mortalità infantile e materna, che in Niger sono tra i più alti al mondo, la facilitazione nell’accesso alle cure anche per le fasce più svantaggiate e, infine, la prevenzione della malnutrizione infantile. CONTRO Diceva Madre Teresa, che ha dedicato la sua vita ai poveri e agli ultimi: «Non permettere mai che qualcuno venga a te e vada via senza essere migliore e più contento. Sii l’espressione della bontà di Dio. Bontà sul tuo volto e nei tuoi occhi, bontà nel tuo sorriso e nel tuo saluto. Ai bambini, ai poveri, a tutti coloro che soffrono nella carne e nello spirito offri sempre un sorriso gioioso». INSEGNANTI IL DILAGARE DEI PARTI CESAREI «In quanto medico, docente e ricercatore nel campo della politica sanitaria, credevo di essere alquanto esperta circa lo stato dell’assistenza sanitaria negli Stati Uniti. Eppure nulla mi aveva preparata all’esperienza di partorire». È dura, precisa e circostanziata la denuncia che Carla C. Keirns ha affidato alle colonne del «Washington Post». «Come puerpera, mi sentivo come si sentono tutte le mamme: responsabile per la creatura che stavo portando alla vita e desiderosa di fare tutto ciò che era nelle mie possibilità affinché mio figlio nascesse in salute». Allo stesso tempo però, confida la donna, «ero anche preoccupata: non volevo che, in nome della salvaguardia mia e del piccolo, la tecnologia medica e i dottori finissero per sottopormi a interventi non necessari». Il racconto è, di fatto, quello di un braccio di ferro: consapevole di come il parto sia «un’intricata danza di ormoni, muscoli ed emozioni», Keirns riesce a tener testa a medici, ostetrici e infermieri che le stanno attorno, partorendo il suo primo figlio per via naturale. Ma vi riesce con difficoltà. Le sue parole vibrano di sdegno, e rabbia, nel denunciare la realtà statunitense: 32 per cento di parti cesarei, contro quel 15 per cento che secondo l’Organizzazione mondiale della sanità sarebbe invece obiettivamente accettabile. L’OSSERVATORE ROMANO febbraio 2015 numero 32 Inserto mensile a cura di RITANNA ARMENI e LUCETTA SCARAFFIA, in redazione GIULIA GALEOTTI www.osservatoreromano.va - per abbonamenti: [email protected] STUPRATE E UCCISE IN MYANMAR L’esercito del Myanmar ha torturato, stuprato e ucciso Maran Lu Ra (20 anni) e Tangbau Hkawn Nan Tsin (21 anni), insegnanti volontarie cristiane, appartenenti alla Kachin Baptist Convention (Kbc); la violenza è avvenuta il 19 gennaio nel villaggio di Shabuk-Kaunghka, nella cittadina di Mungbaw, nel nord-est del Myanmar. Le due donne, che provengono dallo Stato settentrionale (Kachin) dove continua l’esodo di migliaia di sfollati in fuga dalle violenze, sono state oggetto di attacco per la loro appartenenza etnica. I soldati hanno torturato e violentato a più riprese le due insegnanti volontarie cristiane, prima di ucciderle. Le ragazze — ha scritto Francis Khoo Thwe di Asia News — erano state inviate dai vertici della Kbc in quella zona remota per fornire istruzione ai bambini dei villaggi. In molte aree abitate da minoranze etniche, infatti, gli insegnanti statali scarseggiano e vengono sostituiti dall’instancabile opera di volontari appartenenti, nella maggior parte dei casi, ad associazioni cristiane. Centinaia di persone si sono riunite in preghiera, per un ultimo saluto alle due vittime. Testimoni oculari hanno riferito che l’esercito minacciava gli abitanti, intimando loro di non diffondere la notizia. Fonti cristiane Kachin, interpellate da AsiaNews dietro garanzia di anonimato, hanno ricordato il lavoro delle confessioni cristiane birmane a favore dell’istruzione fin dall’Ottocento: i volontari cristiani «non rifiutano mai di andare nelle zone remote, fra i più emarginati», comprese le aree teatro di guerre civili. «In molti hanno sacrificato la propria vita per la missione, ma non si era mai verificato finora che due insegnanti fossero stuprate e uccise». Il Myanmar è composto da oltre 135 etnie, che hanno sempre faticato a convivere in maniera pacifica, in particolare con il Governo centrale e la sua componente di maggioranza birmana. donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne Anima affamata Ludovica Albertoni raccontata da Franco Scaglia gnuno dovrebbe muoversi nella direzione segnata dai battiti del proprio cuore» diceva Paul Klee e credo che queste dolci, profonde, significative parole siano perfette per definire l’esistenza di Ludovica Albertoni che visse a Roma tra il 1474 e il 1533. Per capire a fondo il tema della sua santità e delle numerose testimonianze che su di lei ci vengono proposte, potremmo dire che la sua vita terrena riflette la verità affermata da san Paolo: «Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me». Ludovica si conquistò la capacità di entrare in contatto diretto con Gesù attraverso un’intensa esperienza religiosa, fino a raggiungere l’estasi: uno stato nel quale, sospesa ogni comunicazione con l’esterno, si viene trasportati in un “territorio” riservato e privilegiato. La vita di Ludovica è piena di coraggio e molti sono i risultati positivi ottenuti attraverso l’opera di assistenza a sostegno dei poveri, dei diseredati, degli ammalati. Soprattutto durante il sacco di Roma, nel 1527 da parte dei lanzichenecchi. Ludovica proveniva da due nobili famiglie. Il padre, Stefano, patrizio romano, morì quando lei era ancora molto giovane. La madre, Lucrezia Tebaldi, prese di nuovo marito e affidò l’educazione di Ludovica dapprima alla nonna e poi a due zie. Ludovica sentiva la necessità di consacrare la sua vita al Signore. Ma la sua esistenza doveva percorrere altre strade, non certo scelte da lei e dal suo cuore. Infatti la famiglia, obbedendo a regole e tradizioni consolidate, aveva deciso di darla in sposa al nobiluomo Giacomo della Cetara. Non si può dire che Ludovica fosse felice di quella decisione non sua. Le nozze avrebbero rappresentato un ostacolo al proprio intento di consacrare la propria vita a Gesù: tuttavia rispettò la volontà della famiglia. Il matrimonio si rivelò felice. Giacomo era un’ottima persona, di buon carattere, animato da profondo rispetto nei confronti della moglie. Ebbero tre figlie e Ludovica amò devotamente Giacomo fino alla sua morte prematura avvenuta nel 1506. Ludovica aveva trentadue anni e nessuna intenzione di riprendere marito. La sua vocazione, negli anni del matrimonio, invece di affievolirsi, si era come «O Simone Martini, «Santa Chiara» (1322—1326) Chiara di Assisi e la povertà evangelica Tra le pieghe del suo mantello di MARIO SENSI hiara predilesse «attentissimamente lo Privilegio della Povertà» testimoniano le sorelle che vissero con lei a San Damiano, perché «particolarmente amava la povertà, e non poté mai essere indotta a ricevere possessione, né per lei, né per lo monasterio». Ma non fu facile per lei, strettamente legata a Francesco da una intensa amicizia spirituale, far accettare questo principio: nel 1219 il cardinale Ugolino dei conti di Segni, legato pontificio per l’Italia centro-settentrionale, scrisse per loro una formula vitae dove l’accento è messo sulla clausura, anziché sulla povertà. Per il cardinale era di interesse primario, infatti, la salvaguardia della castità: da qui l’obbligo della clausura e la necessità di dotare i singoli monasteri di beni stabili, pena la loro estinzione quando fosse venuta a mancare la quotidiana elemosina, per evitare che le monache uscissero per questuare. Il movimento, di cui inizialmente fecero parte le seguaci di santa Chiara, di impronta prevalentemente urbana, costituito da laiche che però vivevano da monache, rientra nel quadro di quel più vasto movimento religioso che, sullo scorcio di quel secolo, aveva pervaso l’intera Europa: oltralpe il movimento viene detto beghinale, dall’appellativo di beghina dato alle semireligiose della Renania, dell’Alsazia e dei Paesi Bassi (Fiandre e Brabanza). Si tratta di donne che si proponevano di vivere devotamente e castamente, avendo come comune denominatore la vita penitenziale, modulata però secondo un ventaglio di vocazioni che le portava a privilegiare la reclusione, o il servizio caritativo. Erano eremite “irregolari” della città, contagiate tutte dall’ideale di rinuncia e di povertà mendicante. Ugolino dei conti di Segni, divenuto nel 1227 Papa Gregorio IX, convogliò gran parte del movimento penitenziale femminile nell’Ordine delle damianite, assegnando loro una regola, quella benedettina, e imponendo la clausura. San Damiano, poco fuori della città d’Assisi, era il monastero dove dimorava sorella Chiara, «prima pianticella» di quella religiosa famiglia di cui Francesco era stato sostegno e piantatore. Il 17 settembre 1228 Gregorio IX aveva rinnovato personalmente a donna Chiara e alla sua comunità il privilegium paupertatis — la garanzia concessale nel 1216 da Innocenzo III, la cui autenticità è attestata dal codice del monastero clariano di Montevergine a Messina — che le avrebbe permesso, nonostante la formula vitae ugoliniana, di continuare a osservare la povertà assoluta, senza proventi, né rendite. La fedeltà alla povertà francescana era infatti permessa, ma non imposta dalla regola di Ugolino che, occorre ribadirlo, era stata estesa a tutto l’Ordine oggi comunemente indicato con gli appellativi di damianite, clarisse. Il che lentamente distanziò il monastero di San Damiano — e gli altri pochi che ebbero il coraggio di seguire Chiara — dal resto dell’alveo monastico damianita che pertanto, da allora, fino al 1263, ricevette altre quattro regole, senza contare le permissioni concesse a singoli monasteri. L'ultima, quella di Urbano IV (1263), stabiliva possedimenti e rendite come normale mezzo di sussistenza. Queste permissioni della regola di Urbano IV, detta Regola II, avevano in un certo senso mortificato la specificità della forma vitae voluta da Chiara, diversa da quella ugoliniana e riconosciuta da Innocenzo IV allorché, con bolla Solet annuere, il 9 agosto 1253 approvò la regola da lei scritta, la cosiddetta Regola I. Chiara ebbe la gioia di baciare questa regola: Hanc beata Clara tetigit et obsculata est pro devotione pluribus et pluribus vicibus; è quanto appunto annotò una mano coeva sul dorso della bolla originale. Due giorni dopo Chiara moriva, stringendo tra le mani questa stessa bolla di cui però, in mancanza di una guida carismatica, non era difficile immaginare il destino. Non erano infatti ancora passati quattro anni dalla morte di Chiara e già le sue figlie spirituali residenti a San Damiano, abbandonato il «santuario della fedeltà», si erano trasferite nel nuovo monastero, intitolato alla santa. Qui, per ordine di Alessandro IV, il 3 ottobre 1260, presenti i vescovi di Perugia, Spoleto e Assisi, fu anche traslato il corpo di Chiara, che era stato sepolto provvisoriamente nella piccola chiesa di San Giorgio. Il suo corpo, deposto sotto l’altare maggiore, alla profondità di circa tre metri, in un’urna di pietra collocata entro una grotta scavata nella roccia, fu ricercato, rinvenuto ed esposto ai fedeli soltanto nel 1850, su interessamento delle clarisse d’Italia e di Francia, e in particolare di quelle del monastero di Marsiglia. Qualcosa di simile capitò anche alla regola scritta da Chiara e approvata da Innocenzo IV. Questo testo — detto Regola I, la cosa più preziosa per Chiara — fu in un certo modo a lungo sepolto come Chiara. La bolla originale era stata infatti collocata tra le reliquie e cucita all’interno del mantello della medesima santa e con il tempo se ne era così persa la memoria. Fu “scoperta” solo nel 1893, dietro le insistenze delle clarisse di Lione. Si ignora quando e perché le clarisse del proto-monastero presero la decisione di occultare la bolla tra le pieghe del mantello della santa. Di certo, almeno dal secolo XVII, questa bolla era stata inutilmente cercata in Assisi e fuori. Esistevano tuttavia copie che circolavano in monasteri clariani di stretta osservanza, come quella conservata nel monastero di Montevergine di Messina fondato da Eustochia Calafato. C È il 1527 i lanzichenecchi impazzano per Roma Lei è piena di coraggio nel sostenere poveri diseredati e ammalati rafforzata. Era sempre più convinta della necessità di seguire la legge e la volontà del Signore. Aveva ben capito come lo scopo della vita fosse lo sviluppo di noi stessi. Era stata moglie felice e una buona madre: ora poteva osare. E fare dunque ciò che non le era stato permesso. La sua anima era affamata. Lei sapeva che se una persona, uomo o donna avesse potuto vivere pienamente la propria avventura terrena con abnegazione, fede, spiritualità, ne sarebbe venuto fuori un impulso di gioia tale da sopportare ogni dolore terreno. Vedova, Ludovica vestì l’abito del terz’ordine francescano e offrì a chi aveva bisogno il suo patrimonio. Rimase solo con la sua tunica e la famiglia dovette provvedere, anche con qualche mugugno, alla sua sopravvivenza. Ludovica si dedicò alla preghiera, alla meditazione, alla penitenza. Accanto a questo lavoro dello spirito ne svolse altri, mostrando grande praticità e intervenendo a sostegno di chi aveva bisogno. Costruì le doti per le ragazze povere che, altrimenti, non si sarebbero potute sposare, e curò gli ammalati di cui nessuno voleva occuparsi. Ebbe il dono dell’estasi e le si attribuirono anche episodi di levitazione e visioni. Si racconta che il solo pensiero della Passione di Gesù le provocasse lunghe crisi di pianto. Quando morì, nel 1533, era già un simbolo di santità ed era circondata da profonda e autentica devozione. Il 28 gennaio 1671 Clemente X rese ufficiale il suo culto. A Ludovica il Bernini dedicò, tre anni dopo, uno dei suoi lavori più intensi e di totale sua attribuzione. La scolpì immaginando una sua manifestazione d’estasi. Bernini aveva ormai settant’anni e questo particolare non va tralasciato nella lettura dell’opera. Si sente, in ogni tratto scultoreo, l’amore e il rispetto dell’artista per quella donna così dolce e forte dalla vita Scrittore e giornalista, Franco Scaglia (Camogli, 1944) è autore di numerosi romanzi e saggi tradotti in vari Paesi europei. Tra gli altri ricordiamo, L’erede del tempo (2014), Il giardino di Dio: Mediterraneo, storie di uomini e pesci (2013), Luce degli occhi miei (2010), Il Custode dell’acqua (2002). Dirigente Rai (Radio televisione italiana) per quarant’anni, ha vinto numerosi premi tra cui il Premio Flaiano per la televisione e il Premio Campiello. Gian Lorenzo Bernini, «Estasi della beata Ludovica Albertoni» (1671-1674) piena, moglie, madre, terziaria francescana, la quale — dopo aver trascorso parte della sua vita nel lusso e aver ottemperato ai suoi obblighi mondani — con la stessa naturalezza si dedicò a chi aveva bisogno di lei e della sua fede. La vita, lo sappiamo, è corta. E a volte difficilmente sopportabile. Ludovica ci ha mostrato un modo per allungarla con il suo insegnamento di mirabile equilibrio tra fede e carità. Con la certezza che la verità cammina sempre su piedi delicati e commossi. Lladró, «Natività» (Valencia) di ANTONELLA LUMINI donne chiesa mondo febbraio 2015 Nell’intarsio dei legami né figli, il suo amore si dilata verso tutta l’umanità. Costituisce una rottura con la tradizione veterotestamentaria in cui la generazione biologica, la posterità, i vincoli di sangue, hanno un ruolo centrale. Il Figlio conosce di essere generato da Dio, la sua missione riguarda la trasmissione della vita divina. Questo è il salto di livello, il cambiamento di mente necessario. «Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre» (Matteo, 12, 49-50). Gesù segna il passaggio dalla consuetudine della famiglia fondata sui vincoli di sangue alla novità di una comunione nello Spirito. La rivelazione evangelica costituisce una forza dinamica che spinge la coscienza verso un immenso passaggio: la dimensione psicofisica è chiamata a convergere verso il piano spirituale. Le fasi che precedono questa pienezza implicano contraddizione. Forme relazionali che includono errori, cadute, ma in cui l’amore cresce. Opposizioni, conflitti, fallimenti, vanno posti su quel solco che unisce origine e compimento, innocenza e coscienza. Ogni stato di lontananza, di peccato è dentro quel solco, non fuori. Ogni tappa, con i suoi avanzamenti e arretramenti, è funzionale a quella tensione che spinge avanti la storia della salvezza. La famiglia attraversa i marosi psichici che investono la sfera emotiva, affettiva, sessuale, ma il sacramento del matrimonio mantiene vivo nell’anima il germe dello spirito. La relazione coniugale, seppure conflittuale, va sempre considerata in rapporto alle sue potenzialità di amore. Non si può però porre al primo posto la salvaguardia della coppia, ma la dignità e la crescita della persona umana. Il sacramento accompagna, non abbandona nella prova, neppure nei fallimenti, ma nessuno conosce quali tappe siano necessarie a sciogliere la durezza dei cuori. «Quello che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi» (Matteo, 19, 6; Luca, 10, 9). Dio unisce attraverso l’amore; dove non c’è amore, ma oppressione, sopraffazione, violenza, non è Dio a unire, è l’ego che tiene il comando. L’amore unisce, non lega, dona la libertà dei figli di Dio. «Dove due o tre sono uniti nel mio nome io sono in mezzo a loro» (Matteo, 18, 20). La presenza di Gesù è amore incarnato, fiorisce nell’umanità, si espande. Il comandamento è uno solo: «Ama Dio e il prossimo tuo come te stesso». Il piano spirituale che opera in verticale, più riconcilia l’essere umano a Dio e a se stesso, più opera in orizzontale favorendo rapporti di comunione. Al centro va posta la comunione di ognuno con la fonte dell’amore che è Cristo. La grazia opera nell’intarsio dei legami per sciogliere le catene, i nodi psichici della possessività, delle dipendenze e così via. Il sacramento sancisce l’unione dell’uomo e della donna in Cristo, ma diviene mezzo di profonda trasformazione psichica e spirituale attraverso chi accetta di cedere a se stesso, di affidarsi: «Chi avrà trovato la sua vita la perderà e chi avrà perduto la sua vita per causa mia la troverà» (Matteo, 10, 38). I sacramenti sono aiuti, strumenti di conversione che agiscono nell’oscurità dell’anima, la Chiesa li amministra, ma la salvezza è operata misteriosamente dallo Spirito Santo. Non richiedono particolari condizioni, ma la sincerità di cuore, il sentirsi bisognosi: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò» (Matteo, 11, 28). A Gesù non interessano i sette mariti Da oltre trent’anni un forte richiamo al silenzio e alla solitudine ha spinto Antonella Lumini (Firenze, 1952) a condurre una vita di nascondimento nel mondo. La sua unica regola consiste nel perseguimento di un equilibrio fra ricerca interiore e immersione nella realtà. Dopo una formazione filosofica, si è dedicata allo studio della Scrittura e di testi spirituali. Lavora a tempo parziale alla Biblioteca Nazionale di Firenze, dove è responsabile del Settore dei libri antichi. Tiene incontri di spiritualità e meditazione. Tra i suoi libri più recenti, Dio è madre (2013), Memoria profonda e risveglio (2008). l’autrice U na riflessione sulla famiglia, in questo tempo in cui la Chiesa si sta interrogando, è un’occasione importante, ma non certo facile, vista la fase storica che stiamo attraversando. È necessario sottoporre ogni contingenza a uno sguardo spirituale che sappia coglierne la dinamica di salvezza. La rivelazione evangelica porta luce nell’oscurità del tempo, smaschera, scardina per liberare, purificare. Non guarda alla forma, ma alla sostanza. Non chiede osservanza, ma conversione. Anche la tematica così delicata della famiglia non può sottrarsi a questo punto di vista, pertanto bisogna innanzitutto guardare al matrimonio cristiano come «scuola di umanità» e di trasformazione interiore. A partire dalla Genesi, la coppia uomo donna è considerata nella sua unicità dinamica. «L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e saranno un solo essere» (Genesi, 2, 24). Il termine ebraico bassàr, carne, si riferisce all’essere vivente nel suo insieme. L’uomo e la donna esprimono una complementarità che investe ogni aspetto umano: fisico, psichico, spirituale. La Genesi allude a una unità originaria che precede la divisione sessuale. Dio è Uno, l’uomo creato a immagine di Dio è uno: «A immagine di Dio lo creò». Ma poi puntualizza: «Maschio e femmina li creò» (Genesi, 1, 27). Dio imprime nell’uomo il principio maschile e il principio femminile che ha in sé. Divide per dare distinzione e permettere la relazione. Anche il racconto della creazione della donna allude a una originaria unità. Il termine ebraico tzelà significa una tra due parti accostate, come i battenti di una porta. Nel latino, costa, ha il significato di fianco. Il costato è costituito da due parti simmetriche accostate. Il vir (ish) e la donna (ishà) sono le due parti dell’uomo originario che è uno in se stesso. Adamo, rinvia a terra (adamà), a sangue (dam), ma ish e ishà rinviano al fuoco (esh), sono potenze divine. Questa unità originaria riaffiorerà nel compimento: «Alla resurrezione non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo» (Matteo, 22, 30). Sesso etimologicamente significa taglio: il senso della divisione sessuale rimanda quindi alla relazionalità. L’anelito profondo di ogni essere umano è di riunificare in se stesso questi principi ma il percorso di integrazione e armonizzazione è lungo e implica la trasformazione dell’èros in agàpe. Il fuoco della passione è mosso dalla mancanza, brucia, consuma. L’agàpe invece espande la radiosità della pienezza che scaturisce dall’innesto nell’origine. Il punto di arrivo e di compiutezza è l’incarnazione. Gesù è il compimento, è l’essere umano in cui maschile e femminile si armonizzano nell’amore. Si presenta da solo, senza moglie, della samaritana, ma la sua infinita sete di amore. Nel discorso finale di Papa Francesco al sinodo, colpisce il suo richiamo alle tentazioni, soprattutto «alla tentazione di trasformare il pane in pietra e scagliarla contro i peccatori, i deboli, i malati». Bisogna distinguere tra dono ed efficacia. Il dono è per tutti, l’efficacia dipende dalla risposta all’azione della grazia. Lo stesso battesimo è come un seme gettato, non sempre è fecondo. Sappiamo bene quante resistenze e ostacoli si frappongono e solo la misteriosa economia divina conosce i tempi e i modi del cedimento: «A tutti deve giungere la consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue cadute» (Evangelii gaudium, 44). La Chiesa giustamente si propone di «realizzare percorsi che accompagnino la persona e la coppia» (Relazione, 36), ma il più grande aiuto per favorire l’azione dello Spirito Santo nell’anima rimane l’ascolto, la cura animarum. Il documento conclusivo del sinodo invita a guardare alla Sacra famiglia, è importante però cercare di individuare i messaggi profondi che stanno dietro alla semplicità della vita di Nazaret. La Sacra famiglia è costituita da una vergine madre e da un padre putativo. Due messaggi straordinari che stanno alla base della svolta evangelica. C’è un nesso teologico che collega la vergine fanciulla di Nazaret alla vergine figlia di Sion evocata dai profeti. Gerusalemme non risponde all’amore, tradisce Dio con gli idoli. La figura profetica della vergine figlia di Sion, allude invece alla fedeltà all’alleanza: Maria realizza l’attesa profetica. La verginità richiama innanzitutto la virginitas cordis, l’assoluta fedeltà all’amore divino che purifica il cuore. La vergine madre, incarnata da Maria, esprime il passaggio da una maternità psichica, dominata dai meccanismi egoici della possessività, alla realtà di una maternità spirituale che richiede un’umanità purificata da concupiscenze e seduzioni, umile, aperta all’azione della grazia. Maria ascolta, accoglie la maternità immacolata in lei concepita dallo Spirito Santo, tace, custodisce nel cuore il mistero. Il padre putativo, a sua volta, costituisce una vera e propria rottura con il contesto culturale patriarcale in quanto esprime la rinuncia a quella forma di potere maschile identificata con il potere generativo. Rinuncia al diritto di proprietà sulla moglie, sulla prole, guida, protegge. La famiglia di Nazaret non si fonda sui vincoli di sangue, ma sull’azione dello Spirito Santo. La discesa dello Spirito su Maria è il primo battesimo di fuoco. Il concepimento spirituale che investe la vita biologica richiede cuori purificati. La Sacra famiglia, attraverso la vita umana, trasmette la vita divina: i figli non sono una proprietà, sono figli di Dio. Mettere al centro la Sacra famiglia richiede di partecipare di una dinamica familiare nuova, in cui il valore supremo diviene quello di far fiorire, attraverso la vita biologica, la vita spirituale. La vergine madre e il padre putativo devono essere assimilati a livello simbolico per aprirsi varchi nella realtà psichica, crescere in essa per potersi incarnare. Il matrimonio cristiano non può intendersi che in termini di evoluzione spirituale. Il Vangelo parla alla persona umana, per ognuno ha una sua chiave di accesso e oggi, per le contraddizioni e i pericoli che il nostro mondo sta attraversando, come afferma Papa Francesco, è richiesta un’azione che si apra verso le periferie dell’umanità. È tempo di espansione dell’amore. Proprio perché la sofferenza è grande e i vecchi equilibri stanno crollando, la spinta ad andare oltre è più forte. Le «sfide pastorali sulla famiglia» poste alla cristianità consistono dunque nell’aiutare a interiorizzare modelli spirituali di maternità e paternità affinché diventino attivi nella psiche. La famiglia, così come era costituita, sta attraversando una crisi irreversibile, non si può rimanere aggrappati a vecchi assetti che pure poggiano su contraddizioni e ipocrisie. Le condizioni socio-economiche sono cambiate, ma la psiche è ancora puntellata a modelli forgiati sul diritto patriarcale e sul consenso silenzioso delle donne. L’emancipazione femminile ha rotto questo schema proprio in culture cristiane mettendo in luce come l’attuale modello di sviluppo sia divenuto inadeguato alla crescita umana. L’azione salvifica matura, scardinando. In questo vuoto emergono lacerazioni e pericoli, c’è paura e diffidenza fra i sessi. Si creano circoli virtuosi di genere per ritrovare identità. Le donne hanno dato inizio a questo fenomeno sentendo la necessità di conoscere se stesse, riconoscersi nell’altra, parlare una lingua comune, riscoprire la sacralità del corpo espropriato da una cultura mercificante. Ne è emersa una nuova soggettività con la quale tutto il tessuto sociale, compresa la Chiesa, è obbligato a confrontarsi. Questo ha comportato una reazione fortemente aggressiva da parte di uomini che si sono visti espropriati di un diritto acquisito e considerato naturale: gli uomini accettano con difficoltà di mettersi in discussione, di elaborare la propria identità profonda. C’è un modello evangelico straordinario, il padre del figliol prodigo, immagine per eccellenza dell’amore e della misericordia divina. Seppure abbiamo tanti esempi, anche fra i giovani, di belle famiglie in cui emergono rapporti armoniosi visibilmente amorevoli, paritari, privi di sopraffazioni, le difficoltà relazionali familiari, anche in ambito cristiano, sono sempre più ardue e complesse come attestano i frequenti casi di separazione e divorzio. Conflitti di coppia, figli disorientati, disagi economici, possono divenire causa di chiusure a volte irreversibili. In primo luogo è in crisi il desiderio di maternità. Lo sradicamento dalla natura, i modelli proposti dai media, le condizioni socio-economiche, stanno espropriando del senso materno, quasi ne fosse stata interrotta la trasmissione da madre in figlia. Molte giovani sono smarrite, sole, hanno timore della maternità. L’apertura alla vita implica una dilatazione a tutto tondo, non può riguardare solo la fecondità biologica. Implica uno sguardo capace di scorgere bellezza, di avere fiducia. Ma se questo manca prevale la paura che chiude. Il materno si sviluppa nell’intimità, all’interno di uno spazio custodito che accoglie, protegge. Implica ascolto, cura, tenerezza. Ma nelle case vuote dove i figli si arrangiano e i genitori rientrano stanchi, dove più non si desidera parlare, come può crescere il senso materno? La cultura che massifica spinge sempre all’esterno provocando gravi ricadute a livello psichico e spirituale. D ispersione, alienazione, perdita del senso del sacro. La famiglia è in crisi perché l’essere umano è in crisi. Ma è proprio a questo punto di smarrimento che si apre la via Agnolo Bronzino, «Sacra Famiglia Panciatichi» spirituale attraverso (1541, circa) cui può attivarsi una rigenerazione. Gesù dona all’umanità il Consolatore. Lo Spirito Santo è la divina maternità che deve emergere sulle tenebre del mondo. La Vergine Madre che Maria incarna chiede di incarnarsi in ogni donna. Amore in atto fortemente dinamico in chi cede e si apre. Interviene in ogni bisogno, la sua opera materna non viene mai meno. È la potenza stessa del battesimo di fuoco che trasforma in nuove creature. Chiede solo di lasciarsi amare dall’amore. Attraverso percorsi interiori che scavino in questi gorghi di dolore e purifichino immense sacche di oscurità e di egoismo, sarà possibile quel salto di qualità a cui il Vangelo richiama. Proprio quando tutto vacilla lo spirito dà ancoraggio perché conduce intimamente a Cristo. Preghiera e silenzio sono sempre più necessari. Dove un membro della famiglia si apre, diviene canale di quest’opera di santificazione. Non può accadere a tutti insieme. Le donne sono maggiormente investite perché, più sensibili, consapevoli, ricettive, hanno accettato di rompere gli ingranaggi di connaturate consuetudini. Più assumono coscienza, più la fermezza interiore, spirituale, le renderà disponibili ad aiutare gli uomini ad aprirsi, a mettersi in cammino. Insieme dovranno ritrovare fiducia. Anche la Chiesa dovrebbe ascoltare di più le donne, chiamarle a portare la loro esperienza in situazioni decisionali. Proprio per la sua funzione materna ha bisogno della voce femminile.