donne chiesa mondo - L`Osservatore Romano

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donne chiesa mondo
Sua madre confrontava
tutte queste cose nel suo cuore
L’OSSERVATORE ROMANO febbraio 2015 numero 32
«La mia opera racconta di come una singola
persona possa fare la differenza per sconfiggere la
povertà. La mia opera raffigura una donna che
conduce dei bambini piccoli fuori dall’oscurità,
portandoli verso una vita di dedizione, scelte e
lavoro» (Jennifer Cacaci, 2012).
La carezza di Dio
«Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati a essere
strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei
poveri» e «questo suppone che siamo docili e attenti ad
ascoltare il grido del povero e soccorrerlo». L’ha detto
Francesco nella Evangelii gaudium, la sua prima esortazione
apostolica. La Chiesa povera e per i poveri, al centro dei
pensieri e delle parole del Pontefice, è oggi soprattutto
femminile. Sono in gran parte donne le persone più povere, e
sono donne coloro che hanno scelto di dedicare la loro vita a
chi ha poco o nulla, a chi è diseredato, emarginato ed escluso.
Suore, laiche, missionarie hanno assunto, seguendo il Vangelo,
il più faticoso dei compiti. È al femminile la storia dei
comedores, le mense popolari di Villa El Salvador, periferia sud
di Lima, raccontata in queste pagine da Silvia Gusmano. È
una donna polacca, suor Małgorzata Chmielewska,
l’organizzatrice della comunità Pane della Vita la cui missione
consiste «nel vivere con i poveri» e che, in un’intervista a
Dorota Swat, racconta la sua esperienza. Le donne che
dedicano la loro vita agli ultimi, non possono certo eliminare
la povertà, spiega suor Małgorzata, ma possono intervenire
sulla infelicità da essa prodotta e persino scoprire una felicità
che la maggior parte di noi non riesce a trovare perché
occupata a cercarla altrove. È la felicità che non viene dalla
ricchezza o dal denaro, ma dalla solidarietà, dalla gioia di dare
e ricevere il bene, dall’amore degli altri e di Dio, dalla
speranza. Lo sapeva bene santa Chiara che, come racconta
Mario Sensi, particolarmente amava la povertà, «e non poté
mai essere indotta a ricevere possessione, né per lei, né per lo
monasterio». Non stupisce che ci siano le donne in prima fila
accanto ai poveri, che siano loro innanzitutto a dispensare «la
carezza di Dio». Per amare i poveri, soccorrerli, per avvicinarsi
all’infelicità della povertà e pensare di rovesciarla nel suo
contrario, per sconfiggere la miseria — che è diversa dalla
povertà — e per dare dignità bisogna conoscere, possedere o
riconoscere quell’amore incondizionato che viene
dall’esperienza materna. Come le madri amano i figli più
deboli, così la Chiesa delle donne cerca e predilige la vicinanza
dei poveri. (r.a.)
Povertà significa essere liberi
A colloquio con la polacca Małgorzata Chmielewska, superiora della comunità Pane della Vita
di D OROTA SWAT
Suor Małgorzata si occupa dei senzatetto
e dei poveri. È venuta a Roma solo per
qualche giorno. Quando la incontriamo, è
già stata alla messa celebrata dal Papa a
Santa Marta e ha incontrato monsignor
Konrad Krajewski. È raggiante e si vede.
Alle nostre domande risponde in modo
concreto ed esauriente e ogni tanto, come
per abitudine, ci chiede se veramente non
abbiamo fame.
giare con imbarazzo: volevano lavorare e
abbiamo cominciato a pensare come dargli
lavoro. Pian piano sono nati i laboratori e
le squadre di edili. Tra i senzatetto ci sono
molti malati che hanno bisogno di essere
curati da specialisti, abbiamo quindi aperto un ospizio per i malati. Le madri con
bimbi piccoli non potevano stare insieme
ad altre donne con problemi psichici o di
alcol: era necessario creare una casa appositamente per loro. È così che funziona.
Lavorate anche con i disabili?
Come ha conosciuto la comunità Pane della
Vita?
Per caso. Insieme alla mia amica, ancora ai tempi del comunismo, facevamo varie cose, allora meno legali, per gli emar-
La missione della comunità è vivere
con senzatetto, orfani e ragazze madri
intorno a Cristo nell’eucaristia
ginati. Cercavamo un luogo o una comunità adatta ai nostri bisogni, cioè che vivesse insieme a queste persone: qualcuno
mi ha dato l’indirizzo e siamo andate in
Francia.
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Oggi Pane della Vita ha in Polonia diverse
case, laboratori e perfino un negozio on line.
In Polonia la comunità esiste dal 1989
quando venne aperta la prima casa per i
senzatetto, organizzata da me, dalla mia
migliore amica e dall’attore Maciej Rayzacher. In poco tempo l’abbiamo inserita
nella comunità Pane della Vita. La sua
missione consiste nel vivere con i poveri
intorno a Cristo nell’eucaristia. Vogliamo
vivere con i poveri — non lavoriamo per
loro perché non sono nostri assistiti, bensì
fratelli e sorelle, il che ha un’importanza
essenziale nelle nostre reciproche relazioni
— e cerchiamo di indicare Cristo nell’eucaristia come Signore e salvatore, come
l’unico che può guarire le ferite, indicare
la via e dare amore. Non avevamo un piano: le persone che comparivano sulla nostra strada con i loro problemi rappresentavano per noi delle domande. E così è
tuttora. La prima casa è nata perché abbiamo incontrato delle senzatetto: a un
certo momento in campagna da noi venne
una ragazza per farsi prestare 50 złoty
(circa 12 euro) per il collegio scolastico, se
non pagava sarebbe stata espulsa ed era
l’anno del diploma. Le abbiamo dato i
soldi e abbiamo cominciato a occuparci di
altre persone con gli stessi problemi: è nato così un fondo di borse di studio che attualmente sostiene 600 giovani. Quando
venivano da noi, sempre lì in campagna,
erano disoccupati e ci chiedevano da man-
Esiste, specie in campagna, il grande
problema dei disabili, che vivono in condizioni terribili: se un allevatore tenesse
così i maiali verrebbe mandato in prigione. Così abbiamo cominciato a ristrutturare o costruire case per le famiglie in difficoltà in cui o i genitori o figli (o entrambi) presentano qualche forma di disabilità.
Sono molti anche i giovani disabili mentali non gravi: troppo intelligenti per avere
una pensione d’invalidità, ma troppo poco
abili per vivere autonomamente. Tutti vorrebbero comunque lavorare: nei nostri laboratori trovano una possibilità. Tra loro
spesso ci sono ragazzi cresciuti in orfanotrofio che non hanno mai avuto una vita
propria da adulti: vivono in stanze con altre persone, dipendono sempre da qualcuno, mentre con la nostra discreta assistenza potrebbero funzionare benissimo e magari avere una famiglia.
Crede che al di là delle dichiarazioni di principio la Chiesa accetti davvero la disabilità,
in particolare quella mentale?
No. Certo, ci sono luoghi,
comunità e sacerdoti che lavorano con i disabili mentali, ma
sono una piccola minoranza.
Ultimamente in una parrocchia
non si è voluto dare la comunione a un ragazzo disabile: un
nostro sacerdote è andato là e
gliel’ha data perché il ragazzo
stava per morire. Per me queste
persone sono i vip nel Regno di
Dio, eppure noi li emarginiamo.
Troviamo ai primi posti nella
nostra Chiesa i deboli, le donne
anziane, i disabili?
Come intende la povertà?
La povertà non è la miseria.
Faccio di tutto perché nelle nostre case, che sono molto modeste, le persone possano vivere
dignitosamente, perché ci sia la
pulizia, perché l’ambiente sia
gradevole, l’erba tagliata. La
povertà non è un concetto relativo perché riguarda miliardi di
persone in questo mondo ed è
una cosa reale e dolorosa. Significa l’incertezza del domani,
l’impotenza e l’angoscia per i
propri cari, l’impossibilità di soddisfare i
loro bisogni. La povertà ci insegna anche
la fiducia nella Provvidenza di Dio, perché in modo concreto sperimentiamo che
Dio c’è veramente. Nella nostra comunità
molto spesso rimaniamo senza niente e al-
Non sono nemmeno emarginati
perché per emarginare qualcuno
bisogna prima vederlo
Semplicemente
sono persone che non esistono
lora cominciamo a pregare: dopo un po’
qualcuno ci dà qualcosa, arriva qualcuno e
porta qualcosa. La povertà in pratica significa essere liberi.
Beati i poveri: sono felici qualche volta gli
abitanti delle vostre case?
A Varsavia recentemente è stato esaminato il livello di soddisfazione dei clienti
dei vari servizi, inclusi i clienti degli ospizi
per i poveri, perché in Polonia chi riceve
l’assistenza sociale è un “cliente”. E così
un giovane sondaggista è venuto da noi e
ha domandato a un senzatetto trentacinquenne malato di cancro: «Lei è soddisfatto?». Questo è naturalmente un’assurdità. La povertà in sé non dà la felicità:
direi che, al contrario, rende infelici. Gli
abitanti delle nostre case sono o persone
che erano benestanti e avevano una fami-
è possibile: nelle nostre case lavorano tutti
coloro che sono in grado di farlo. La prima cosa che facciamo perché un nuovo arrivato conservi la propria dignità è chiedergli di apparecchiare la tavola. I soldi e
le cose materiali che riceviamo sono naturalmente un dono della Provvidenza, ma
chiaramente ce le danno delle persone, e
spesso non sono persone benestanti! Un
giorno chiamò una signora: mi chiese se
volevo una macchina. Risposi di sì: era un
fuoristrada perfetto per la campagna, ma
in versione lussuosissima con sedili in pelle. Vi abbiamo subito messo sopra una
targa con scritto “dono”. In generale, però, per le persone ricche è più difficile
condividere perché dagli uffici eleganti
delle multinazionali nel centro di Varsavia,
Parigi, Londra o Roma è più difficile vedere chi sta in basso. Invece coloro che
giorno per giorno affrontano le difficoltà
della vita comprendono più facilmente.
Quando raggiungiamo un certo livello di
ricchezza, ci allontaniamo dalla fonte della
solidarietà umana, dalla misericordia e dai
legami con gli altri: è il pericolo che corrono le persone molto ricche. Ne conosco
qualcuna: sono piene di buona volontà
ma incapaci di capire “l’altro”. In questo
sta la loro povertà. Viviamo in una società
competitiva che insegna subito ai bambini
che devono essere migliori degli altri. Sono i figli dei poveri che vengono scelti per
dare il benvenuto al vescovo in parrocchia? Sono loro che declamano le poesie?
Cosa si può fare? Cambiare il sistema di assistenza sociale?
Sicuramente bisogna perfezionare il sistema di assistenza sociale, ma il problema
è che le persone più deboli, coloro che sono nati in condizioni di svantaggio, non
sono in grado di funzionare in un sistema
dove bisogna sapere fare molte cose, usare
il computer, riempire moduli in banca,
parlare un linguaggio che non conoscono.
Creando tali sistemi, li escludiamo. Non
sono nemmeno emarginati, perché per
emarginare qualcuno bisogna prima vederlo. Sono, semplicemente, persone che non
esistono. Il ruolo di noi cristiani deve essere quello di “vedere” il problema, perché
molte persone non lo vedono. Niente può
sostituire l’incontro dell’uomo con un altro uomo: la relazione, la condivisione, il
sostegno reciproco. Gli abitanti delle nostre case non prendono solamente: ci danno moltissimo. Si creano relazioni, scambi,
senza i quali non c’è amore, né rispetto.
Nessuno può essere assistito a vita, invece
è proprio quello che fanno i moderni si-
glia, o persone nate già svantaggiate, che
non hanno mai avuto niente: la vita nella
comunità e sentire che sono amati dà a
entrambi la felicità. Quindi penso che nella maggior parte loro sono felici, naturalmente nel senso molto profondo della parola. Nelle nostre case nonostante la grande sofferenza c’è la gioia, si ride, si scherza. Certo, questa benedizione funziona
quando l’uomo scopre che l’amore è veramente il valore più alto e che Dio ci ama
senza limiti, in modo acritico, come una
madre ama il figlio indipendentemente da
come esso è. Anzi, una madre ama di più
il figlio che soffre di più. Io ho cinque figli adottivi, uno, Artur, è autistico: anche
se è un ragazzo difficile, è il pupillo della
casa. Ama gli accendini, li raccoglie e li
infila nelle bottiglie vuote:
tutti a casa ne hanno in tasca uno per darglielo, così
Oggi ai deboli si offre solo l’assistenzialismo
che anche lui possa essere
felice per un momento. I
È molto più difficile mettere una persona
poveri scoprono quella feliin condizione di poter funzionare da sola
cità che noi non vediamo
perché occupati a cercarla
vivere dignitosamente e guadagnarsi il pane
altrove. Per loro, forse, è
più facile scoprire la vera
felicità: in questo consiste
stemi di assistenza. Agli esclusi si danno
la grandezza del povero.
le condizioni minime di sopravvivenza, ma
Per aiutare i poveri serve denaro. Tra coloro non si permette loro di reinserirsi nel sistema della normale vita economica, cultuche vi sostengono ci sono persone ricche?
rale, educativa e spirituale. È molto più
Margaret Thatcher ha detto che per es- difficile mettere una persona in condiziosere un buon samaritano bisogna avere i ne di poter funzionare da sola, vivere disoldi. Ciò è naturalmente vero. Cerchiamo gnitosamente, guadagnarsi la vita e mandi guadagnarci da soli il pane per quanto tenere la famiglia.
Suor Małgorzata
Chmielewska è la superiora
della comunità Pane della
Vita, fondata da una
coppia francese, Pascal e
Marie Pingault.
Convertitisi in età adulta,
nel 1971 con un gruppo di
amici hanno deciso di
vivere radicalmente il
Vangelo. Dopo tredici anni
è nata la comunità
riconosciuta dalla Chiesa
come associazione di fedeli
laici. I suoi membri, laici
consacrati, vivono insieme
ai poveri. In Polonia la
comunità gestisce case,
dormitori per i senzatetto,
i malati e le madri sole. La
sua fondazione Case della
comunità Pane della Vita
organizza il lavoro dei
malati e dei senzatetto
nelle manifatture e assegna
borse di studio ai bambini
delle campagne.
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Il romanzo
La Mennulara
di SILVIA GUSMANO
L
Lacrime di forza
Le donne dinnanzi alla povertà
di HILDE KIEBO OM
i saranno sempre
dei poveri in mezzo a voi» diceva
Gesù, certo non
perché ci rassegnassimo alla loro sorte, ma piuttosto
per avvertirci che, in qualsiasi luogo del
mondo e in qualsiasi periodo della storia umana, ci saranno sempre persone
più deboli, vulnerabili e bisognose che
inviteranno a vivere l’amore preferenziale per i poveri. Nessuno stato sociale,
neanche quello più avanzato, può fare a
meno dell’interdipendenza e della solidarietà tra gli uomini. Il fatto che il volto della povertà si femminilizzi in molte
città del mondo non è dovuto solo alla
«C
spiritualità nelle mentalità. La secolarizzazione dei cuori non ha alienato i nostri contemporanei solo da Dio, ma anche dalle loro famiglie e dai concittadini
più deboli: non s’impara a vivere con
loro, se ne ha paura, si cerca di evitarli.
Infine si ha paura della propria debolezza e si diviene sprovvisti e indeboliti
nell’ambito umano.
Non è dovuto al caso che nel Vangelo
le persone che accettano per prime il
cammino della debolezza sono delle
donne. Vedendo la sofferenza di Gesù,
capiscono di non avere alcuna capacità
di decisione, ma sono lì, e vegliano ai
piedi della croce. Quale potere rappresentano agli occhi della società? Le
donne hanno un carisma particolare per
quel che riguarda l’accettazione della
propria debolezza e della propria fragili-
Diaconia e spiritualità
Hilde Kieboom è nata il 7 maggio 1965 a Wilrijk (Anversa). Ha studiato
greco e latino, poi lingua e letteratura germanica all’università di Anversa e
teologia nel Centro Teologico e Pastorale di Anversa e all’università cattolica
di Lovanio. È sposata e ha due figli. Nel 1985 ha fondato nella sua città la
comunità di Sant’Egidio, che aveva conosciuto dieci anni prima a Roma. Il
21 luglio 2003 re Alberto II le ha attribuito il titolo di baronessa per il suo
impegno e due anni dopo l’università di Utrecht le ha conferito un
dottorato honoris causa, per il modo in cui ha messo in pratica la diaconia e
la spiritualità nella società moderna. Nel 2007 ha ricevuto dal patriarcato
della Chiesa russa ortodossa l’onorificenza dell’ordine di Santa Olga per i
suoi meriti nella Chiesa e nella società. Nel 2014 è diventata vice-presidente
della comunità di Sant’Egidio.
crisi economica, ma anche alla crisi della famiglia: quante donne si vedono obbligate a portare da sole il peso
dell’educazione dei figli?
L’individualismo della nostra società
fa aumentare il numero dei poveri. L’invecchiamento — fenomeno tipico del
ventunesimo secolo su scala mondiale,
fenomeno in gran parte femminile — che
in una visione biblica della vita dovrebbe essere concepito come una grazia e
un dono di Dio, è spesso percepito come un problema, che pesa sui bilanci
dove si dovrebbe risparmiare. Non più
produttivi, gli anziani vengono facilmente cacciati dalle famiglie, dai quartieri, dalle reti umane, per essere condannati a una vita anonima in un istituto, come se la vecchiaia fosse una malattia. Quanti anziani soli ci sono dietro i
muri delle case di riposo in Occidente?
La solitudine e la disperazione di molte
persone anziane diventano una nuova
forma di povertà nella nostra società
materialista.
Allo stesso tempo questa povertà rivela il deficit di cultura di vicinanza e di
Edward Hopper, «Young Women in a Studio» (1901-1902 circa)
tà. Là dove nel Vangelo, per la prima
volta, nasce una comunità attorno a Gesù, là ci sono le donne: sono ai piedi
della croce. Mentre tutti i discepoli sono fuggiti, loro trovano il coraggio di
restare accanto a Gesù: «C’erano anche
alcune donne, che stavano a osservare
da lontano, tra le quali Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, che lo seguivano e servivano quando era ancora in
Galilea, e molte altre che erano salite
con lui a Gerusalemme» (Marco, 15, 4042).
Ai piedi della croce nasce una famiglia nuova, che possiamo considerare
come la prima comunità cristiana. Là
dove non si evita la sofferenza, là dove
si accetta con fiducia la propria debolezza, là dove la fragilità e l’impotenza si
tramutano in preghiere al Signore, là
nascono energie insospettate.
Il grande filosofo e teologo ortodosso
russo Evdokimov nel suo libro La donna
e la salvezza del mondo dice: «Più interiorizzata, più legata alle radici, la donna si sente subito a proprio agio nei li-
miti del suo essere e si sforza di utilizzare i propri doni per creare una sinfonia
chiara e limpida della sua persona.
Riempie il mondo della sua presenza
dal di dentro. (...) L’uomo travalica il
suo essere, con il suo carisma di espansione. Aspira a raggiungere il massimo
della sua potenza della quale riempie il
mondo (...). L’istinto maschile di distruzione “padre della guerra” può essere
“accordato” dal femminile e sublimato
in istinto di vita, di costruzione della
cultura e del culto. (…) L’uomo di oggi
disumanizza il mondo in tutte le forme
di oggettivazione; ebbene, per l’istinto
materno, qualsiasi oggettivazione è organicamente impossibile. (…) La donna
umanizza e personalizza il mondo (…).
Difende sempre il primato dell’essere
sulla teoria».
Il ricco deve imparare nuovamente a
vivere con la propria debolezza, che esiste malgrado tutto ciò che fa per nasconderla. L’incontro con una persona
anziana o malata ci aiuta ad accettare la
nostra debolezza. Queste realtà ci costringono a interrogarci su ciò che siamo, su ciò che speriamo, su dove cerchiamo e troviamo la nostra gioia. L’incontro con il povero è un mistero che ci
apre a Dio.
«La guerra è la madre di ogni povertà» dice Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio. La pace,
questo bene prezioso dell’umanità, è minacciata da ogni lato, una parte importante del mondo è oggi in fiamme.
Quanti cuori non sono abitati da un capitale di odio e di vendetta che attendono di poter esplodere, seminando così
morte e distruzione? Oggi vediamo il
deficit di un mondo che non ha investito molto sul vivere insieme e che si è
abituato alla malattia della violenza e
della guerra. I cristiani, che pur hanno
ricevuto da Gesù la missione di essere
artefici di pace, si sentono spesso condannati a essere spettatori di un mondo
ingiusto e ingovernabile, e alla fine si
rassegnano al pessimismo.
Barbara Ehrenreich nel suo libro Riti
di sangue. All’origine della passione della
guerra precisa che la guerra è una delle
attività
più
apertamente
sessiste
dell’umanità, a causa dello stretto vincolo esistente tra guerra e virilità. Le donne, le madri, le spose, le figlie vedono il
dolore della guerra: la perdita delle persone care, le distruzioni. Le donne piangono durante la guerra; piangono perfino per quelli che non sono i loro figli;
anche la Chiesa piange durante le guerre. Nei tempi difficili di guerra, la Chiesa mostra, per antonomasia, la sua maternità, il suo lato materno, mentre gli
uomini si uccidono a vicenda. Durante
la guerra, la Chiesa mostra il suo profilo
di madre. Ama la pace perché è madre.
Maria è la figura materna che piange
durante la guerra. Maria piange durante
a storia dei comedores di Villa el
Salvador — periferia sud di Lima
— è una storia di resistenza e fratellanza, di emancipazione e lotta
alla fame, di coraggio e inventiva.
Tutta al femminile, o quasi. A raccontarcela,
infatti, è un uomo, un sacerdote che nel 1985,
«con un bel salto» passa da una parrocchia
alla periferia di Roma a una baracca sulla costa peruviana e vive in prima persona una rivoluzione da non dimenticare. Oggi don Gaspare Margottini abita e, instancabile, lavora
tra i poveri delle Ande, a 3500 metri, ma degli esordi della sua missione ricorda ogni dettaglio.
La Villa el Salvador, dove arriva trent’anni
fa e rimane sino al 1997, è un girone infernale
sull’oceano progettato a tavolino nel 1971 per
liberare alcuni terreni dall’occupazione abusiva dei più poveri tra i poveri, a vantaggio di
un pugno di ricchi. Dopo un’opposizione
dura e dolorosa che vede anche l’arresto di
monsignor Luis Bambarén, simbolo di quella
Chiesa che in America latina si è schierata
con forza al fianco degli ultimi, lo sfollamento diventa inevitabile. Migliaia di persone,
divise in settori da 384 famiglie, vengono trasferite nel deserto a sud di Lima, in un ammasso di baracche che sulla carta ha le sembianze di un quartiere moderno, ma di fatto
diventa una gigantesca bidonville. Le abitazioni restano precarie, l’acqua arriva solo una
volta a settimana, in molti punti mancano le
fogne e le scuole sono capanne spoglie dove
chi ne possiede uno si porta il banchetto da
casa.
Poche settimane dopo il trasferimento di
don Margottini, tuttavia, arriva provvidenziale la visita di Giovanni Paolo II. L’esclamazione del Papa alla vista dall’alto di Villa el
Salvador svela al mondo intero lo scandalo
di quell’ennesimo ghetto: «Come vive tutta
questa gente!». Più di due milioni di persone
accolgono il Pontefice il 5 febbraio 1985 e
quando lascia il suo discorso scritto per guardarle negli occhi e parlare a braccio, il loro
silenzio si scioglie in lacrime e applausi.
Hambre de Dios, sí. Hambre de pan, no, afferma con forza il Papa. Fame di Dio, sì; fame
di pane, no. Non si può accettare.
Una nuova linfa vitale inizia a scorrere sotto quella sabbia, la solidarietà diventa la prima arma della lotta alla miseria e la sua
espressione più alta sono i comedores, le men-
la guerra e risplende in tempi di pace. È
felice alla nascita del Salvatore e piange
ai piedi della croce. Le lacrime esprimono la sua disperazione, ma allo stesso
tempo la forza di questa donna fragile,
che è la madre di Dio. Le sue lacrime
mostrano che l’umanità non accetta la
guerra. Maria è venerata come la Regina della pace che rappresenta la speranza del nostro mondo.
Le lacrime, le grida di disperazione
diventano richiesta e preghiera. I singhiozzi sono una supplica di fronte alla
quale Dio non resta sordo. Nella preghiera affidiamo la nostra fragilità a Dio
che ci rende forti nella fede e nell’amore
al servizio degli altri. La preghiera è
l’arma dei deboli e dei poveri. Ci troviamo qui di fronte a un grande paradosso
della vita cristiana: la forza dei deboli e
la debolezza dei forti. Come dice san
Paolo, «quando sono debole, è allora
che sono forte» (2 Corinzi, 12, 10).
Essere presenti tra quanti soffrono è
preghiera, è ascolto. Come dice Gesù, è
Il fatto che il volto della povertà
si femminilizzi nel mondo
non è dovuto solo alla crisi economica
ma anche alla crisi della famiglia
Maria che si è scelta la parte migliore,
che non le sarà tolta: la presenza accanto a Gesù, l’ascolto della sua parola (cfr.
Luca, 10, 38-42). Il nostro mondo, che è
malato di violenza, di guerra e di solitudine, ha sete di amore, di conforto, di
pace, ha bisogno di donne forti, di donne di fede. Evdokimov scrive: «La donna salverà il mondo solo se proverà un
tremito dinanzi al mistero delle vergini
sagge della parabola evangelica, se, gratia plena, diventerà realmente, sull’esempio della Vergine, la porta del Regno».
Le vergini sagge hanno trovato la forza di mantenere le loro lampade accese:
avevano come provvista una grande fiducia nel Signore ed erano andate ad
attingere alla fonte della speranza. Queste donne mostrano il cammino, testimoniano che il Dio della tenerezza non
ha abbandonato il mondo. Le donne
presso il sepolcro diventano le prime testimoni di Gesù risorto, le prime testimoni della Buona Novella. Quelle donne che sono restate ai piedi del sofferente, che hanno vegliato restando presenti,
che non hanno eluso la debolezza, sono
forti. Vedono un cammino di speranza e
di resurrezione e lo comunicano agli altri. Alla scuola della sofferenza s’impara
a non aver più paura delle lacrime e
delle suppliche e ci si ritrova confortati
dallo scorgere il cammino della resurrezione, della speranza e della pace.
Solidarietà contro miseria
Le mense popolari delle donne di Villa el Salvador alla periferia di Lima
se popolari. Ogni settore ne ha una e grazie
all’aiuto della Caritas e della sua responsabile, suor Rosa Ballon, il comedor diventa punto di raccolta e riscossa delle donne di Villa
el Salvador. Con un’efficienza sorprendente,
madri, figlie, sorelle si dividono in comitati,
eleggono le proprie rappresentanti e contabili, si organizzano in turni e prendono in gestione gli aiuti della Caritas, essenzialmente
farina, olio e lenticchie. Poi, procurandosi il
resto con piccoli contributi familiari, iniziative di beneficenza e molto ingegno, riescono
Le mura domestiche si allargano
sino a circoscrivere
un unico grande spazio
dove pene e disgrazie
si distribuiscono sulle spalle di tutte
a mettere su ogni giorno la colazione per i
bambini e un pasto per tutti. Nelle fredde
mattine di nebbia che si susseguono a Lima
tra maggio e dicembre, i più piccoli sulla
strada per la scuola si fermano nei comedores,
dove — novità assoluta — trovano due panini
per ciascuno, avena e latte caldo. E lo stesso
al ritorno, quando insieme ai familiari mangiano riso, legumi o zuppa
di verdure, arricchita solo
nelle grandi occasioni con il
pollo. Don Gaspare ricorda
divertito una gita con i piccoli della sua parrocchia —
quelli del settore sei — e la
felicità di una bimba nello
scoprire al momento del
pranzo che la sua zuppa era
piena di pezzi di carne.
«Zio — gli disse secondo
l’usanza — qui il pollo c’è
veramente. Falla tutti i giorni così!».
Anima dei comedores sono
le riunioni del mercoledì,
iniziate
per
organizzare
mansioni e turni della cucina e proseguite per far fronte ai problemi sempre nuovi
della comunità. Le mura
domestiche di ogni donna si
allargano sino a circoscrivere un unico grande spazio
dove pene e disgrazie si distribuiscono sulle spalle di
tutte. Insieme si decidono
di volta in volta i casi sociali, ossia coloro che non posUna foto recente di don Gaspare Margottini, che oggi vive a Huancayo (Perù)
sono permettersi neanche il
piccolo contributo richiesto dalla mensa e
vengono aiutati dalla parrocchia. E insieme si
trovano soluzioni. «Le donne sapevano tutto» racconta don Gaspare. Se qualche padre
perde il lavoro, la sua famiglia ha diritto al
pasto gratuito. Se qualcuno è malato di tubercolosi, molto denutrito, incinta, riceve una
zuppa più sostanziosa e una razione in più
di lenticchie. Alle cinque, finita la riunione,
«tutte scappavano per aspettare il rientro del
marito, neanche fosse il re» ricorda il missionario, ma intanto nelle due ore precedenti
avevano dato una bella spallata al maschilismo che le opprimeva. Condividendo ingiustizie e umiliazioni — nell’85 per cento dei
casi la violenza era familiare — molte di loro
iniziano a rivendicare i propri diritti e imparano a difendere se stesse o le compagne davanti al giudice di pace.
I comedores diventano così il punto di partenza di un profondo percorso di emancipazione, una macchina da guerra per costruire
la pace che dà il meglio di sé nel frangente
più critico della storia del Perú. Mentre, a
partire dal 1987, l’economia precipita, l’inflazione e la fame raggiungono livelli mai immaginati, gli attentati di Sendero Luminoso
insanguinano il Paese e le sparizioni sono
all’ordine del giorno, i comedores di Villa el
Salvador si moltiplicano e si rafforzano. Dai
diamanti non nasce niente, cantava De Andrè. Sulla sabbia di Villa el Salvador nascono
i fiori. Anche se non sempre fila tutto liscio,
spiega don Margottini: «C’erano donne che
rubacchiavano o approfittavano del proprio
turno in cucina. Ed è importante dirlo, perché in realtà così estreme, le contraddizioni
sono inevitabili e non c’è da scandalizzarsi».
Ciò che conta è l’insieme, lo spirito di comunità che riesce in imprese altrove impossibili. Quando nel 1991 arriva l’epidemia di colera i morti di Villa el Salvador sono molti
meno rispetto alla media nazionale. «Venivano i medici a spiegarci le precauzioni necessarie. “Lavatevi continuamente le mani” dicevano. E noi che vedevamo l’acqua una volta
a settimana, sorridevamo. Eppure grazie a
una fitta e organizzata collaborazione tra le
donne dei comitati, i medici, gli infermieri, i
volontari si è evitata l’ecatombe». Certo, si
aggravò la disidratazione, un problema che
l’estate affliggeva soprattutto i bambini. «A
volte — racconta il sacerdote — mi chiamavano per un’estrema unzione e mi accorgevo
che non era tempo di morire ma solo di bere. Quante vite salvate con un litro d’acqua e
un po’ di sale e zucchero!».
Quando la povertà raggiunge l’apice, dal
1990 al 1992, Villa el Salvador, grazie alle sue
donne, si distingue ancora. Il Governo decide di concedere il cherosene gratuito a tutti i
comedores del Perú e la Caritas si trova davanti al grande problema di come distribuirlo
evitando furti e sprechi. Ancora don Gaspare
Margottini: «Ricordo una riunione molto tesa con Caritas nazionale. Al mio fianco, oltre
a suor Rosa, un rappresentante del popolo,
tanto robusto quanto sulla difensiva. In mano stringeva le chiavi dei quattro distributori
di cherosene di Villa el Salvador e quando
colse la diffidenza nei suoi confronti le tirò
sul tavolo proprio davanti al presidente di
Caritas. Come a dire: “Se non vi fidate, pensateci voi”. E alla fine ci pensammo tutti insieme, con un imponente lavoro di squadra.
In una settimana ci eravamo organizzati,
mentre nel resto del Paese ancora discutevano il problema. All’alba interminabili file di
donne attendevano la razione di cherosene
per il loro comedor. Io passavo a distribuire i
biglietti per il ritiro e alla mezza il pranzo
era pronto».
Così Villa el Salvador, con tenacia e dignità, tira avanti fino al 1992 quando l’economia
inizia molto lentamente a riprendersi e
l’emergenza fame si attenua, anche se la miseria resta e ancora oggi, quando quella periferia nel deserto conta quattrocentomila abitanti, affligge larga parte della popolazione. I comedores diminuiscono, pian piano chiudono,
ma alcuni vengono convertiti in ristorantini a
menù fisso, dove per un sol e mezzo la proprietaria offre un pasto completo e un’accoglienza gioiosa. Nel frattempo, le donne artefici del destino della comunità per oltre un
Finita la riunione tutte scappavano a casa
per aspettare il rientro dei mariti
Ma intanto nelle due ore precedenti
avevano dato una bella spallata
al maschilismo che le opprimeva
decennio, sono profondamente cambiate.
Molte di loro entrano in politica o continuano a lottare per un mondo più giusto. A ispirarle l’esempio di Maria Elena Moyano, cresciuta tra i fumi e i profumi dei comedores
dall’età di dodici anni, divenuta vicesindaco
di Villa el Salvador e fatta esplodere il 15 febbraio 1992 davanti ai suoi figli in un attentato
di Sendero Luminoso. Il giorno prima aveva
risposto allo sciopero armato dei guerriglieri
contro l’autonomia dei comedores, organizzando una marcia della pace. Il giorno dopo, ai
suoi funerali partecipano migliaia di persone.
«Noi donne — ha scritto — abbiamo molta
forza. Crediamo in quello che stiamo costruendo, non bisogna avere paura. Le cose
non sono facili, ma nemmeno impossibili».
La Mennulara è la raccoglitrice di
mandorle, la più povera delle povere. Di
lei — Maria Rosa Inzerillo — e della sua
vita nella Sicilia degli anni Sessanta
racconta il romanzo di Simonetta Agnello
Hornby, La Mennulara (Feltrinelli, 2002).
La Mennulara è una donna rude e ispida,
ma intelligente e dotata di una
straordinaria forza di volontà. L’autrice ne
scolpisce il suo ritratto nella pietra: Maria
Rosa non conosce debolezze, non si
permette sentimenti e, proprio per questo
suo carattere, riesce — lei umile e
semianalfabeta — a diventare prima
domestica, poi governante e infine
amministratrice di una facoltosa e nobile
famiglia siciliana. Anche in una vita che
sembra ridotta al lavoro, alla fatica,
all’abnegazione, che comprende solo
durezze, s’intravedono rapporti segreti,
sentimenti forti, disperazioni senza parole.
Con la sua morte il mistero sulla sua
persona s’infittisce. Perché la Mennulara
che ha governato i beni di una nobile e
ricca famiglia in vita riesce a farlo anche
dopo la sua morte, preservando proprietà,
terreni, rendite e futuro anche agli ultimi
eredi. La sua lotta contro la povertà non
ammette tregua. (@ritannaarmeni)
I saggi
Dorothy Day
«Quando avevo la vostra età e
frequentavo l’università dell’Illinois —
disse un giorno Dorothy Day (1897-1980)
a un gruppo di studenti — i poveri
potevano contare soltanto sulla carità dei
ricchi. Mi ricordo che una volta chiesi a
mia madre il perché di questa situazione;
perché per alcune persone le cose non
potevano andare meglio, perché alcuni
possedevano tanto e altri tanto poco o
nulla. Mi rispondeva sempre che non
esiste spiegazione per le ingiustizie: le
cose stanno così, semplicemente».
Ebbene, concludeva l’attivista e giornalista
statunitense, «credo di aver speso la mia
vita tentando di far funzionare meglio le
cose». Non si può affrontare il tema di
donne e povertà senza ricordare gli scritti
di questa donna, vissuta radicalmente con
i poveri e per i poveri. «Non ci
schieravamo con la grande massa dei
cattolici che erano ben soddisfatti del
mondo contemporaneo» scrive nella sua
autobiografia Day ricordando i primi anni
del Catholic Worker Movement da lei
fondato: «Essi erano ben disposti a dare
ai poveri, ma non si sentivano chiamati a
lavorare per le cose di questa vita a favore
di altri». Day, invece, lo sentì. E la sua
vita e le sue pagine lo raccontano.
(@GiuliGaleotti)
Il film
The Inn of the Sixth
Happiness
Darà ai bambini poveri cinesi, molti dei
quali orfani, una ragione per vivere, dopo
tanta paura e sofferenza: è coronata da
successo la coraggiosa opera della
cameriera inglese
Gladys Aylward —
interpretata da una
straordinaria Ingrid
Bergman nel film,
del 1958, The Inn of
the Sixth Happiness,
tratto dal romanzo
di Alan Burgess —
che, durante la
prima guerra
mondiale, decide di
andare in Cina per
fare la missionaria
con l’obiettivo di
diffondere il
cristianesimo. In
patria si dovrà scontrare con il ruvido
scetticismo di chi la circonda. Non si
scoraggia, lavora instancabilmente per
guadagnare i soldi per il biglietto del
viaggio: salirà quindi su un treno che
attraversa anche la Siberia. Una tappa che
presenta gravi rischi ma che non scoraggia
la missionaria. Una volta in territorio
cinese, Gladys dovrà superare non poche
difficoltà per inserirsi nel nuovo scenario:
saprà, con pazienza e determinazione,
vincere la diffidenza della gente e delle
istituzioni locali. E dalla diffidenza si
passerà all’amore per questa intrepida
cameriera: un amore contraccambiato
anzitutto dai tanti bambini che ella si è
prodigata ad aiutare. (gabriele nicolò)
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MANUALI
PER LE MADRI JIHADISTE
Il ruolo delle donne nel jihad: è questo il titolo di un
manuale presentato di recente su internet dal gruppo
estremista dello Stato islamico che continua ad addestrare
bambini soldato. Il testo — che proibisce ai piccoli il
computer, il canto, il ballo, la televisione, mentre
incoraggia a dedicarsi a tutto ciò che possa essere utile in
un combattimento come le arti marziali, il nuoto,
il tiro con l’arco, l’equitazione, gli esercizi di
sopravvivenza — spiega alle donne jihadiste come
orientare gli ideali dei minori e la loro visione del mondo
affinché diventino buoni combattenti. Giacché all’età di 7
anni i piccoli sono già meno ricettivi, spiega il manuale,
la formazione e l’apprendimento di idee jihadiste deve
iniziare presto. Il manuale — descritto dall’Istituto di
ricerca dei media del Medio oriente — mette allo scoperto
crudeli metodi di reclutamento di minori: i figli dei
membri dello Stato islamico vengono mandati in campi
dove imparano a maneggiare le armi da fuoco e a
decapitare i nemici. Un piccolo eroe è stato di recente
celebrato: nel video circolato in rete a metà gennaio, si
vedeva un minore di non più di dieci anni “giustiziare”
con la pistola due spie adulte. Una tragedia nella
tragedia: alle vittime freddate, infatti, va sommata la
terza. Il bambino stesso.
INIZIATIVE
IMPRENDITORIALI IN
COSTA RICA
In Costa Rica l’ultimo censimento nazionale delle
famiglie conferma come il tasso di disoccupazione nel
Paese centroamericano sia molto più alto tra le donne
rispetto agli uomini. Tra le famiglie che vivono in
condizioni di povertà, il 43,3 per cento è guidato da una
donna, il 33 per cento delle quali è in condizione
vulnerabile. Per far fronte a questa situazione il
programma Ideas Productivas sta avviando diversi
progetti coinvolgendo circa 500 donne povere per dare
loro una formazione aziendale come imprenditrici,
favorendone la formazione e le capacità. I programmi
coinvolgono l’agricoltura, l’arte di riciclare materiali usati,
l’estetica, il disegno grafico, la toilettatura per cani, la
bigiotteria, come anche la conduzione di negozi.
UN
CENTRO A
D OSSO
PER D ONNE E BAMBINI
Nel tentativo di migliorare la copertura sanitaria della
regione di Dosso, nell’estremo sud-ovest del Niger, è nato
un progetto per la costruzione di un centro medicosociale al fine di garantire il benessere di donne e
bambini: un ospedale per le cure di base, con reparti di
maternità, pediatria e centro nutrizionale; un programma
di formazione per ostetriche, assistenti al parto a
domicilio (una per villaggio), pediatri e nutrizionisti. È
stato il Movimento per la lotta contro la fame nel mondo
ad attivare il piano, insieme alla diocesi di Lodi, la
Conferenza episcopale italiana, la diocesi e il ministero
della Salute pubblica nigerino. Il progetto interessa
innanzitutto le mamme, che verranno aiutate a partorire
in sicurezza presso il centro o a domicilio, ma coinvolgerà
più in generale tutto il personale che ruota attorno a
gravidanza e nascita. Ne saranno beneficiari i
cinquantamila abitanti della periferia di Dosso e i circa
quarantamila abitanti dei 56 villaggi che si trovano nel
raggio di trenta chilometri dal dispensario. Un totale,
dunque, di circa novantamila abitanti, il 52 per cento dei
quali sono donne. Tra gli obiettivi principali del progetto
la riduzione dei tassi di mortalità infantile e materna, che
in Niger sono tra i più alti al mondo, la facilitazione
nell’accesso alle cure anche per le fasce più svantaggiate
e, infine, la prevenzione della malnutrizione infantile.
CONTRO
Diceva Madre Teresa, che ha
dedicato la sua vita ai poveri e
agli ultimi: «Non permettere mai
che qualcuno venga a te e vada
via senza essere migliore e più
contento. Sii l’espressione della
bontà di Dio. Bontà sul tuo
volto e nei tuoi occhi, bontà nel
tuo sorriso e nel tuo saluto. Ai
bambini, ai poveri, a tutti coloro
che soffrono nella carne e nello
spirito offri sempre un sorriso
gioioso».
INSEGNANTI
IL DILAGARE DEI PARTI CESAREI
«In quanto medico, docente e ricercatore nel campo della
politica sanitaria, credevo di essere alquanto esperta circa
lo stato dell’assistenza sanitaria negli Stati Uniti. Eppure
nulla mi aveva preparata all’esperienza di partorire». È
dura, precisa e circostanziata la denuncia che Carla C.
Keirns ha affidato alle colonne del «Washington Post».
«Come puerpera, mi sentivo come si sentono tutte le
mamme: responsabile per la creatura che stavo portando
alla vita e desiderosa di fare tutto ciò che era nelle mie
possibilità affinché mio figlio nascesse in salute». Allo
stesso tempo però, confida la donna, «ero anche
preoccupata: non volevo che, in nome della salvaguardia
mia e del piccolo, la tecnologia medica e i dottori
finissero per sottopormi a interventi non necessari». Il
racconto è, di fatto, quello di un braccio di ferro:
consapevole di come il parto sia «un’intricata danza di
ormoni, muscoli ed emozioni», Keirns riesce a tener testa
a medici, ostetrici e infermieri che le stanno attorno,
partorendo il suo primo figlio per via naturale. Ma vi
riesce con difficoltà. Le sue parole vibrano di sdegno, e
rabbia, nel denunciare la realtà statunitense: 32 per cento
di parti cesarei, contro quel 15 per cento che secondo
l’Organizzazione mondiale della sanità sarebbe invece
obiettivamente accettabile.
L’OSSERVATORE ROMANO febbraio 2015 numero 32
Inserto mensile a cura di RITANNA ARMENI e LUCETTA SCARAFFIA, in redazione GIULIA GALEOTTI
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STUPRATE E UCCISE IN
MYANMAR
L’esercito del Myanmar ha torturato, stuprato e ucciso
Maran Lu Ra (20 anni) e Tangbau Hkawn Nan Tsin (21
anni), insegnanti volontarie cristiane, appartenenti alla
Kachin Baptist Convention (Kbc); la violenza è avvenuta
il 19 gennaio nel villaggio di Shabuk-Kaunghka, nella
cittadina di Mungbaw, nel nord-est del Myanmar. Le due
donne, che provengono dallo Stato settentrionale
(Kachin) dove continua l’esodo di migliaia di sfollati in
fuga dalle violenze, sono state oggetto di attacco per la
loro appartenenza etnica. I soldati hanno torturato e
violentato a più riprese le due insegnanti volontarie
cristiane, prima di ucciderle. Le ragazze — ha scritto
Francis Khoo Thwe di Asia News — erano state inviate
dai vertici della Kbc in quella zona remota per fornire
istruzione ai bambini dei villaggi. In molte aree abitate da
minoranze etniche, infatti, gli insegnanti statali
scarseggiano e vengono sostituiti dall’instancabile opera
di volontari appartenenti, nella maggior parte dei casi, ad
associazioni cristiane. Centinaia di persone si sono riunite
in preghiera, per un ultimo saluto alle due vittime.
Testimoni oculari hanno riferito che l’esercito minacciava
gli abitanti, intimando loro di non diffondere la notizia.
Fonti cristiane Kachin, interpellate da AsiaNews dietro
garanzia di anonimato, hanno ricordato il lavoro delle
confessioni cristiane birmane a favore dell’istruzione fin
dall’Ottocento: i volontari cristiani «non rifiutano mai di
andare nelle zone remote, fra i più emarginati», comprese
le aree teatro di guerre civili. «In molti hanno sacrificato
la propria vita per la missione, ma non si era mai
verificato finora che due insegnanti fossero stuprate e
uccise». Il Myanmar è composto da oltre 135 etnie, che
hanno sempre faticato a convivere in maniera pacifica, in
particolare con il Governo centrale e la sua componente
di maggioranza birmana.
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Anima affamata
Ludovica Albertoni raccontata da Franco Scaglia
gnuno
dovrebbe
muoversi nella direzione segnata dai
battiti del proprio
cuore» diceva Paul
Klee e credo che queste dolci, profonde,
significative parole siano perfette per definire l’esistenza di Ludovica Albertoni che
visse a Roma tra il 1474 e il 1533. Per capire a fondo il tema della sua santità e delle
numerose testimonianze che su di lei ci
vengono proposte, potremmo dire che la
sua vita terrena riflette la verità affermata
da san Paolo: «Non sono più io che vivo
ma Cristo vive in me».
Ludovica si conquistò la capacità di entrare in contatto diretto con Gesù attraverso un’intensa esperienza religiosa, fino a
raggiungere l’estasi: uno stato nel quale,
sospesa ogni comunicazione con l’esterno,
si viene trasportati in un “territorio” riservato e privilegiato. La vita di Ludovica è
piena di coraggio e molti sono i risultati
positivi ottenuti attraverso l’opera di assistenza a sostegno dei poveri, dei diseredati, degli ammalati. Soprattutto durante il
sacco di Roma, nel 1527 da parte dei lanzichenecchi.
Ludovica proveniva da due nobili famiglie. Il padre, Stefano, patrizio romano,
morì quando lei era ancora molto giovane.
La madre, Lucrezia Tebaldi, prese di nuovo marito e affidò l’educazione di Ludovica dapprima alla nonna e poi a due zie.
Ludovica sentiva la necessità di consacrare
la sua vita al Signore. Ma la sua esistenza
doveva percorrere altre strade, non certo
scelte da lei e dal suo cuore.
Infatti la famiglia, obbedendo a regole
e tradizioni consolidate, aveva deciso di
darla in sposa al nobiluomo Giacomo della Cetara. Non si può dire che Ludovica
fosse felice di quella decisione non sua. Le
nozze avrebbero rappresentato un ostacolo
al proprio intento di consacrare la propria
vita a Gesù: tuttavia rispettò la volontà
della famiglia.
Il matrimonio si rivelò felice. Giacomo
era un’ottima persona, di buon carattere,
animato da profondo rispetto nei confronti della moglie. Ebbero tre figlie e Ludovica amò devotamente Giacomo fino alla
sua morte prematura avvenuta nel 1506.
Ludovica aveva trentadue anni e nessuna
intenzione di riprendere marito.
La sua vocazione, negli anni del matrimonio, invece di affievolirsi, si era come
«O
Simone Martini, «Santa Chiara» (1322—1326)
Chiara di Assisi e la povertà evangelica
Tra le pieghe
del suo mantello
di MARIO SENSI
hiara predilesse «attentissimamente lo Privilegio della Povertà» testimoniano le sorelle che vissero con lei a San
Damiano, perché «particolarmente amava la povertà, e
non poté mai essere indotta a ricevere possessione, né per lei, né
per lo monasterio». Ma non fu facile per lei, strettamente legata
a Francesco da una intensa amicizia spirituale, far accettare questo principio: nel 1219 il cardinale Ugolino dei conti di Segni, legato pontificio per l’Italia centro-settentrionale, scrisse per loro
una formula vitae dove l’accento è messo sulla clausura, anziché
sulla povertà. Per il cardinale era di interesse primario, infatti, la
salvaguardia della castità: da qui l’obbligo della clausura e la necessità di dotare i singoli monasteri di beni stabili, pena la loro
estinzione quando fosse venuta a mancare la quotidiana elemosina, per evitare che le monache uscissero per questuare.
Il movimento, di cui inizialmente fecero parte le seguaci di
santa Chiara, di impronta prevalentemente urbana, costituito da
laiche che però vivevano da monache, rientra nel quadro di quel
più vasto movimento religioso che, sullo scorcio di quel secolo,
aveva pervaso l’intera Europa: oltralpe il movimento viene detto
beghinale, dall’appellativo di beghina dato alle semireligiose della Renania, dell’Alsazia e dei Paesi Bassi (Fiandre e Brabanza).
Si tratta di donne che si proponevano di vivere devotamente e
castamente, avendo come comune denominatore la vita penitenziale, modulata però secondo un ventaglio di vocazioni che le
portava a privilegiare la reclusione, o il servizio caritativo. Erano
eremite “irregolari” della città, contagiate tutte dall’ideale di rinuncia e di povertà mendicante.
Ugolino dei conti di Segni, divenuto nel 1227 Papa Gregorio
IX, convogliò gran parte del movimento penitenziale femminile
nell’Ordine delle damianite, assegnando loro una regola, quella
benedettina, e imponendo la clausura.
San Damiano, poco fuori della città d’Assisi, era il monastero
dove dimorava sorella Chiara, «prima pianticella» di quella religiosa famiglia di cui Francesco era stato sostegno e piantatore. Il
17 settembre 1228 Gregorio IX aveva rinnovato personalmente a
donna Chiara e alla sua comunità il privilegium paupertatis — la
garanzia concessale nel 1216 da Innocenzo III, la cui autenticità è
attestata dal codice del monastero clariano di Montevergine a
Messina — che le avrebbe permesso, nonostante la formula vitae
ugoliniana, di continuare a osservare la povertà assoluta, senza
proventi, né rendite. La fedeltà alla povertà francescana era infatti permessa, ma non imposta dalla regola di Ugolino che, occorre ribadirlo, era stata estesa a tutto l’Ordine oggi comunemente
indicato con gli appellativi di damianite, clarisse. Il che lentamente distanziò il monastero di San Damiano — e gli altri pochi
che ebbero il coraggio di seguire Chiara — dal resto dell’alveo
monastico damianita che pertanto, da allora, fino al 1263, ricevette altre quattro regole, senza contare le permissioni concesse a
singoli monasteri. L'ultima, quella di Urbano IV (1263), stabiliva
possedimenti e rendite come normale mezzo di sussistenza. Queste permissioni della regola di Urbano IV, detta Regola II, avevano in un certo senso mortificato la specificità della forma vitae
voluta da Chiara, diversa da quella ugoliniana e riconosciuta da
Innocenzo IV allorché, con bolla Solet annuere, il 9 agosto 1253
approvò la regola da lei scritta, la cosiddetta Regola I. Chiara ebbe la gioia di baciare questa regola: Hanc beata Clara tetigit et obsculata est pro devotione pluribus et pluribus vicibus; è quanto appunto annotò una mano coeva sul dorso della bolla originale.
Due giorni dopo Chiara moriva, stringendo tra le mani questa
stessa bolla di cui però, in mancanza di una guida carismatica,
non era difficile immaginare il destino.
Non erano infatti ancora passati quattro anni dalla morte di
Chiara e già le sue figlie spirituali residenti a San Damiano, abbandonato il «santuario della fedeltà», si erano trasferite nel
nuovo monastero, intitolato alla santa. Qui, per ordine di Alessandro IV, il 3 ottobre 1260, presenti i vescovi di Perugia, Spoleto
e Assisi, fu anche traslato il corpo di Chiara, che era stato sepolto provvisoriamente nella piccola chiesa di San Giorgio. Il suo
corpo, deposto sotto l’altare maggiore, alla profondità di circa tre
metri, in un’urna di pietra collocata entro una grotta scavata nella roccia, fu ricercato, rinvenuto ed esposto ai fedeli soltanto nel
1850, su interessamento delle clarisse d’Italia e di Francia, e in
particolare di quelle del monastero di Marsiglia. Qualcosa di simile capitò anche alla regola scritta da Chiara e approvata da Innocenzo IV. Questo testo — detto Regola I, la cosa più preziosa
per Chiara — fu in un certo modo a lungo sepolto come Chiara.
La bolla originale era stata infatti collocata tra le reliquie e cucita
all’interno del mantello della medesima santa e con il tempo se
ne era così persa la memoria. Fu “scoperta” solo nel 1893, dietro
le insistenze delle clarisse di Lione.
Si ignora quando e perché le clarisse del proto-monastero presero la decisione di occultare la bolla tra le pieghe del mantello
della santa. Di certo, almeno dal secolo XVII, questa bolla era
stata inutilmente cercata in Assisi e fuori. Esistevano tuttavia copie che circolavano in monasteri clariani di stretta osservanza, come quella conservata nel monastero di Montevergine di Messina
fondato da Eustochia Calafato.
C
È il 1527
i lanzichenecchi impazzano per Roma
Lei è piena di coraggio
nel sostenere poveri
diseredati e ammalati
rafforzata. Era sempre più convinta della
necessità di seguire la legge e la volontà
del Signore. Aveva ben capito come lo
scopo della vita fosse lo sviluppo di noi
stessi. Era stata moglie felice e una buona
madre: ora poteva osare. E fare dunque
ciò che non le era stato permesso. La sua
anima era affamata. Lei sapeva che se una
persona, uomo o donna avesse potuto vivere pienamente la propria avventura terrena con abnegazione, fede, spiritualità,
ne sarebbe venuto fuori un impulso di
gioia tale da sopportare ogni dolore terreno.
Vedova, Ludovica vestì l’abito del
terz’ordine francescano e offrì a chi aveva
bisogno il suo patrimonio. Rimase solo
con la sua tunica e la famiglia dovette
provvedere, anche con qualche mugugno,
alla sua sopravvivenza. Ludovica si dedicò
alla preghiera, alla meditazione, alla penitenza. Accanto a questo lavoro dello spirito ne svolse altri, mostrando grande praticità e intervenendo a sostegno di chi aveva bisogno. Costruì le doti per le ragazze
povere che, altrimenti, non si sarebbero
potute sposare, e curò gli ammalati di cui
nessuno voleva occuparsi. Ebbe il dono
dell’estasi e le si attribuirono anche episodi di levitazione e visioni. Si racconta che
il solo pensiero della Passione di Gesù le
provocasse lunghe crisi di pianto. Quando
morì, nel 1533, era già un simbolo di santità ed era circondata da profonda e autentica devozione. Il 28 gennaio 1671 Clemente X rese ufficiale il suo culto.
A Ludovica il Bernini dedicò, tre anni
dopo, uno dei suoi lavori più intensi e di
totale sua attribuzione. La scolpì immaginando una sua manifestazione d’estasi.
Bernini aveva ormai settant’anni e questo
particolare non va tralasciato nella lettura
dell’opera. Si sente, in ogni tratto scultoreo, l’amore e il rispetto dell’artista per
quella donna così dolce e forte dalla vita
Scrittore e
giornalista, Franco
Scaglia (Camogli,
1944) è autore di
numerosi romanzi e
saggi tradotti in
vari Paesi europei.
Tra gli altri
ricordiamo, L’erede
del tempo (2014), Il
giardino di Dio:
Mediterraneo, storie
di uomini e pesci
(2013), Luce degli
occhi miei (2010), Il
Custode dell’acqua
(2002). Dirigente
Rai (Radio
televisione italiana)
per quarant’anni,
ha vinto numerosi
premi tra cui il
Premio Flaiano per
la televisione e il
Premio Campiello.
Gian Lorenzo Bernini, «Estasi della beata Ludovica Albertoni» (1671-1674)
piena, moglie, madre, terziaria francescana, la quale —
dopo aver trascorso parte della sua vita nel lusso e
aver ottemperato ai suoi obblighi mondani — con la
stessa naturalezza si dedicò a chi aveva bisogno di lei
e della sua fede.
La vita, lo sappiamo, è corta. E a volte difficilmente sopportabile. Ludovica ci ha mostrato un modo
per allungarla con il suo insegnamento di mirabile
equilibrio tra fede e carità. Con la certezza che la verità cammina sempre su piedi delicati e commossi.
Lladró, «Natività» (Valencia)
di ANTONELLA LUMINI
donne chiesa mondo
febbraio 2015
Nell’intarsio dei legami
né figli, il suo amore si dilata verso tutta
l’umanità. Costituisce una rottura con la
tradizione veterotestamentaria in cui la
generazione biologica, la posterità, i vincoli di
sangue, hanno un ruolo centrale. Il Figlio
conosce di essere generato da Dio, la sua
missione riguarda la trasmissione della vita
divina. Questo è il salto di livello, il
cambiamento di mente necessario. «Ecco mia
madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque
fa la volontà del Padre mio che è nei cieli,
questi è per me fratello, sorella e madre»
(Matteo, 12, 49-50). Gesù segna il passaggio
dalla consuetudine della famiglia fondata sui
vincoli di sangue alla novità di una
comunione nello Spirito. La rivelazione
evangelica costituisce una forza dinamica che
spinge la coscienza verso un immenso
passaggio: la dimensione psicofisica è
chiamata a convergere verso il piano
spirituale. Le fasi che precedono questa
pienezza implicano contraddizione. Forme
relazionali che includono errori, cadute, ma in
cui l’amore cresce. Opposizioni, conflitti,
fallimenti, vanno posti su quel solco che
unisce origine e compimento, innocenza e
coscienza. Ogni stato di lontananza, di
peccato è dentro quel solco, non fuori. Ogni
tappa, con i suoi avanzamenti e arretramenti,
è funzionale a quella tensione che spinge
avanti la storia della salvezza. La famiglia
attraversa i marosi psichici che investono la
sfera emotiva, affettiva, sessuale, ma il
sacramento del matrimonio mantiene vivo
nell’anima il germe dello spirito. La relazione
coniugale, seppure conflittuale, va sempre
considerata in rapporto alle sue potenzialità
di amore. Non si può però porre al primo
posto la salvaguardia della coppia, ma la
dignità e la crescita della persona umana. Il
sacramento accompagna, non abbandona
nella prova, neppure nei fallimenti, ma
nessuno conosce quali tappe siano necessarie
a sciogliere la durezza dei cuori. «Quello che
Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi»
(Matteo, 19, 6; Luca, 10, 9). Dio unisce
attraverso l’amore; dove non c’è amore, ma
oppressione, sopraffazione, violenza, non è
Dio a unire, è l’ego che tiene il comando.
L’amore unisce, non lega, dona la libertà dei
figli di Dio. «Dove due o tre sono uniti nel
mio nome io sono in mezzo a loro» (Matteo,
18, 20). La presenza di Gesù è amore
incarnato, fiorisce nell’umanità, si espande. Il
comandamento è uno solo: «Ama Dio e il
prossimo tuo come te stesso». Il piano
spirituale che opera in verticale, più riconcilia
l’essere umano a Dio e a se stesso, più opera
in orizzontale favorendo rapporti di
comunione. Al centro va posta la comunione
di ognuno con la fonte dell’amore che è
Cristo. La grazia opera nell’intarsio dei
legami per sciogliere le catene, i nodi psichici
della possessività, delle dipendenze e così via.
Il sacramento sancisce l’unione dell’uomo e
della donna in Cristo, ma diviene mezzo di
profonda trasformazione psichica e spirituale
attraverso chi accetta di cedere a se stesso, di
affidarsi: «Chi avrà trovato la sua vita la
perderà e chi avrà perduto la sua vita per
causa mia la troverà» (Matteo, 10, 38). I
sacramenti sono aiuti, strumenti di
conversione che agiscono nell’oscurità
dell’anima, la Chiesa li amministra, ma la
salvezza è operata misteriosamente dallo
Spirito Santo. Non richiedono particolari
condizioni, ma la sincerità di cuore, il sentirsi
bisognosi: «Venite a me, voi tutti, che siete
affaticati e oppressi, e io vi ristorerò» (Matteo,
11, 28). A Gesù non interessano i sette mariti
Da oltre trent’anni un forte richiamo al silenzio e alla solitudine ha spinto Antonella Lumini (Firenze, 1952) a condurre una vita di nascondimento nel mondo. La sua unica regola consiste nel perseguimento di un equilibrio fra ricerca interiore e immersione
nella realtà. Dopo una formazione filosofica, si è dedicata
allo studio della Scrittura e di
testi spirituali. Lavora a tempo
parziale alla Biblioteca Nazionale di Firenze, dove è responsabile del Settore dei libri antichi. Tiene incontri di spiritualità e meditazione. Tra i suoi
libri più recenti, Dio è madre
(2013), Memoria profonda e
risveglio (2008).
l’autrice
U
na riflessione sulla
famiglia, in questo tempo
in cui la Chiesa si sta
interrogando, è
un’occasione importante,
ma non certo facile, vista
la fase storica che stiamo
attraversando. È
necessario sottoporre
ogni contingenza a uno
sguardo spirituale che
sappia coglierne la
dinamica di salvezza. La
rivelazione evangelica
porta luce nell’oscurità del tempo, smaschera,
scardina per liberare, purificare. Non guarda
alla forma, ma alla sostanza. Non chiede
osservanza, ma conversione. Anche la
tematica così delicata della famiglia non può
sottrarsi a questo punto di vista, pertanto
bisogna innanzitutto guardare al matrimonio
cristiano come «scuola di umanità» e di
trasformazione interiore. A partire dalla
Genesi, la coppia uomo donna è considerata
nella sua unicità dinamica. «L’uomo lascerà
suo padre e sua madre e si unirà alla sua
donna e saranno un solo essere» (Genesi, 2,
24). Il termine ebraico bassàr, carne, si
riferisce all’essere vivente nel suo insieme.
L’uomo e la donna esprimono una
complementarità che investe ogni aspetto
umano: fisico, psichico, spirituale. La Genesi
allude a una unità originaria che precede la
divisione sessuale. Dio è Uno, l’uomo creato
a immagine di Dio è uno: «A immagine di
Dio lo creò». Ma poi puntualizza: «Maschio
e femmina li creò» (Genesi, 1, 27). Dio
imprime nell’uomo il principio maschile e il
principio femminile che ha in sé. Divide per
dare distinzione e permettere la relazione.
Anche il racconto della creazione della donna
allude a una originaria unità. Il termine
ebraico tzelà significa una tra due parti
accostate, come i battenti di una porta. Nel
latino, costa, ha il significato di fianco. Il
costato è costituito da due parti simmetriche
accostate. Il vir (ish) e la donna (ishà) sono le
due parti dell’uomo originario che è uno in se
stesso. Adamo, rinvia a terra (adamà), a
sangue (dam), ma ish e ishà rinviano al fuoco
(esh), sono potenze divine. Questa unità
originaria riaffiorerà nel compimento: «Alla
resurrezione non si prende né moglie né
marito, ma si è come angeli nel cielo»
(Matteo, 22, 30). Sesso etimologicamente
significa taglio: il senso della divisione
sessuale rimanda quindi alla relazionalità.
L’anelito profondo di ogni essere umano è di
riunificare in se stesso questi principi ma il
percorso di integrazione e armonizzazione è
lungo e implica la trasformazione dell’èros in
agàpe. Il fuoco della passione è mosso dalla
mancanza, brucia, consuma. L’agàpe invece
espande la radiosità della pienezza che
scaturisce dall’innesto nell’origine. Il punto di
arrivo e di compiutezza è l’incarnazione. Gesù
è il compimento, è l’essere umano in cui
maschile e femminile si armonizzano
nell’amore. Si presenta da solo, senza moglie,
della samaritana, ma la sua infinita sete di
amore. Nel discorso finale di Papa Francesco
al sinodo, colpisce il suo richiamo alle
tentazioni, soprattutto «alla tentazione di
trasformare il pane in pietra e scagliarla
contro i peccatori, i deboli, i malati». Bisogna
distinguere tra dono ed efficacia. Il dono è
per tutti, l’efficacia dipende dalla risposta
all’azione della grazia. Lo stesso battesimo è
come un seme gettato, non sempre è fecondo.
Sappiamo bene quante resistenze e ostacoli si
frappongono e solo la misteriosa economia
divina conosce i tempi e i modi del
cedimento: «A tutti deve giungere la
consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico
di Dio, che opera misteriosamente in ogni
persona, al di là dei suoi difetti e delle sue
cadute» (Evangelii gaudium, 44). La Chiesa
giustamente si propone di «realizzare percorsi
che accompagnino la persona e la coppia»
(Relazione, 36), ma il più grande aiuto per
favorire l’azione dello Spirito Santo
nell’anima rimane l’ascolto, la cura animarum.
Il documento conclusivo del sinodo invita a
guardare alla Sacra famiglia, è importante
però cercare di individuare i messaggi
profondi che stanno dietro alla semplicità
della vita di Nazaret. La Sacra famiglia è
costituita da una vergine madre e da un padre
putativo. Due messaggi straordinari che
stanno alla base della svolta evangelica. C’è
un nesso teologico che collega la vergine
fanciulla di Nazaret alla vergine figlia di Sion
evocata dai profeti. Gerusalemme non
risponde all’amore, tradisce Dio con gli idoli.
La figura profetica della vergine figlia di Sion,
allude invece alla fedeltà all’alleanza: Maria
realizza l’attesa profetica. La verginità
richiama innanzitutto la virginitas cordis,
l’assoluta fedeltà all’amore divino che purifica
il cuore. La vergine madre, incarnata da
Maria, esprime il passaggio da una maternità
psichica, dominata dai meccanismi egoici
della possessività, alla realtà di una maternità
spirituale che richiede un’umanità purificata
da concupiscenze e seduzioni, umile, aperta
all’azione della grazia. Maria ascolta, accoglie
la maternità immacolata in lei concepita dallo
Spirito Santo, tace, custodisce nel cuore il
mistero. Il padre putativo, a sua volta,
costituisce una vera e propria rottura con il
contesto culturale patriarcale in quanto
esprime la rinuncia a quella forma di potere
maschile identificata con il potere generativo.
Rinuncia al diritto di proprietà sulla moglie,
sulla prole, guida, protegge. La famiglia di
Nazaret non si fonda sui vincoli di sangue,
ma sull’azione dello Spirito Santo. La discesa
dello Spirito su Maria è il primo battesimo di
fuoco. Il concepimento spirituale che investe
la vita biologica richiede cuori purificati. La
Sacra famiglia, attraverso la vita umana,
trasmette la vita divina: i figli non sono una
proprietà, sono figli di Dio. Mettere al centro
la Sacra famiglia richiede di partecipare di
una dinamica familiare nuova, in cui il valore
supremo diviene quello di far fiorire,
attraverso la vita biologica, la vita spirituale.
La vergine madre e il padre putativo devono
essere assimilati a livello simbolico per aprirsi
varchi nella realtà psichica, crescere in essa
per potersi incarnare. Il matrimonio cristiano
non può intendersi che in termini di
evoluzione spirituale. Il Vangelo parla alla
persona umana, per ognuno ha una sua
chiave di accesso e oggi, per le contraddizioni
e i pericoli che il nostro mondo sta
attraversando, come afferma Papa Francesco,
è richiesta un’azione che si apra verso le
periferie dell’umanità. È tempo di espansione
dell’amore. Proprio perché la sofferenza è
grande e i vecchi equilibri stanno crollando,
la spinta ad andare oltre è più forte. Le «sfide
pastorali sulla famiglia» poste alla cristianità
consistono dunque nell’aiutare a interiorizzare
modelli spirituali di maternità e paternità
affinché diventino attivi nella psiche. La
famiglia, così come era costituita, sta
attraversando una crisi irreversibile, non si
può rimanere aggrappati a vecchi assetti che
pure poggiano su contraddizioni e ipocrisie.
Le condizioni socio-economiche sono
cambiate, ma la psiche è ancora puntellata a
modelli forgiati sul diritto patriarcale e sul
consenso silenzioso delle donne.
L’emancipazione femminile ha rotto questo
schema proprio in culture cristiane mettendo
in luce come l’attuale modello di sviluppo sia
divenuto inadeguato alla crescita umana.
L’azione salvifica matura, scardinando. In
questo vuoto emergono lacerazioni e pericoli,
c’è paura e diffidenza fra i sessi. Si creano
circoli virtuosi di genere per ritrovare identità.
Le donne hanno dato inizio a questo
fenomeno sentendo la necessità di conoscere
se stesse, riconoscersi nell’altra, parlare una
lingua comune, riscoprire la sacralità del
corpo espropriato da una cultura mercificante.
Ne è emersa una nuova soggettività con la
quale tutto il tessuto sociale, compresa la
Chiesa, è obbligato a confrontarsi. Questo ha
comportato una reazione fortemente
aggressiva da parte di uomini che si sono visti
espropriati di un diritto acquisito e
considerato naturale: gli uomini accettano con
difficoltà di mettersi in discussione, di
elaborare la propria identità profonda. C’è un
modello evangelico straordinario, il padre del
figliol prodigo, immagine per eccellenza
dell’amore e della misericordia divina.
Seppure abbiamo tanti esempi, anche fra i
giovani, di belle famiglie in cui emergono
rapporti armoniosi visibilmente amorevoli,
paritari, privi di sopraffazioni, le difficoltà
relazionali familiari, anche in ambito cristiano,
sono sempre più ardue e complesse come
attestano i frequenti casi di separazione e
divorzio. Conflitti di coppia, figli disorientati,
disagi economici, possono divenire causa di
chiusure a volte irreversibili. In primo luogo è
in crisi il desiderio di maternità. Lo
sradicamento dalla natura, i modelli proposti
dai media, le condizioni socio-economiche,
stanno espropriando del senso materno, quasi
ne fosse stata interrotta la trasmissione da
madre in figlia. Molte giovani sono smarrite,
sole, hanno timore della maternità. L’apertura
alla vita implica una dilatazione a tutto
tondo, non può riguardare solo la fecondità
biologica. Implica uno sguardo capace di
scorgere bellezza, di avere fiducia. Ma se
questo manca prevale la paura che chiude. Il
materno si sviluppa nell’intimità, all’interno di
uno spazio custodito che accoglie, protegge.
Implica ascolto, cura,
tenerezza. Ma nelle
case vuote dove i figli
si arrangiano e i
genitori rientrano
stanchi, dove più non
si desidera parlare,
come può crescere il
senso materno? La
cultura che massifica
spinge sempre
all’esterno provocando
gravi ricadute a livello
psichico e spirituale.
D ispersione,
alienazione, perdita
del senso del sacro. La
famiglia è in crisi
perché l’essere umano
è in crisi. Ma è
proprio a questo
punto di smarrimento
che si apre la via
Agnolo Bronzino, «Sacra Famiglia Panciatichi»
spirituale attraverso
(1541, circa)
cui può attivarsi una
rigenerazione. Gesù
dona all’umanità il Consolatore. Lo Spirito
Santo è la divina maternità che deve emergere
sulle tenebre del mondo. La Vergine Madre
che Maria incarna chiede di incarnarsi in ogni
donna. Amore in atto fortemente dinamico in
chi cede e si apre. Interviene in ogni bisogno,
la sua opera materna non viene mai meno. È
la potenza stessa del battesimo di fuoco che
trasforma in nuove creature. Chiede solo di
lasciarsi amare dall’amore. Attraverso percorsi
interiori che scavino in questi gorghi di
dolore e purifichino immense sacche di
oscurità e di egoismo, sarà possibile quel salto
di qualità a cui il Vangelo richiama. Proprio
quando tutto vacilla lo spirito dà ancoraggio
perché conduce intimamente a Cristo.
Preghiera e silenzio sono sempre più
necessari. Dove un membro della famiglia si
apre, diviene canale di quest’opera di
santificazione. Non può accadere a tutti
insieme. Le donne sono maggiormente
investite perché, più sensibili, consapevoli,
ricettive, hanno accettato di rompere gli
ingranaggi di connaturate consuetudini. Più
assumono coscienza, più la fermezza interiore,
spirituale, le renderà disponibili ad aiutare gli
uomini ad aprirsi, a mettersi in cammino.
Insieme dovranno ritrovare fiducia. Anche la
Chiesa dovrebbe ascoltare di più le donne,
chiamarle a portare la loro esperienza in
situazioni decisionali. Proprio per la sua
funzione materna ha bisogno della voce
femminile.