PER UNA PROSPETTIVA POLITICA SULLA FORMAZIONE 1

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PER UNA PROSPETTIVA POLITICA SULLA FORMAZIONE 1
ANNALISA PAVAN
PER UNA PROSPETTIVA POLITICA SULLA FORMAZIONE
Saggio presentato dalla prof.ssa Annalisa Pavan, docente di Politiche Internazionali della formazione continua presso
l’Università di Padova, al secondo Corso di Alta Formazione per esperti in “Educazione civica, diritti umani,
cittadinanza, costituzione”, 2010.
1. Qualche premessa
1.1.Le riflessioni di questo testo provengono, quasi come “schede di lavoro”, da
alcune ricerche che la scrivente ha condotto sulle politiche della formazione continua
così come se ne viene delineando il profilo nei dibattiti europei e, più largamente,
internazionali.
La più organica di queste ricerche ha dato luogo al volume: A.L. PAVAN,
Formazione continua – Dibattiti e politiche internazionali, Armando, Roma, 2003,
pp.367, che compie una ricognizione sistematica delle discussioni e delle proposte
politiche in materia di formazione nell’Unione europea, nell’OCSE, nell’UNESCO
“che sono i tre maggiori laboratori oggi di ideazione di cultura e di progettazione
politica dell’educazione” e che “per quanto rappresentino tre preoccupazioni diverse
rispetto ai processi della formazione – economica l’OCSE; politica l’Unione europea;
culturale l’UNESCO – e abbiano membership diverse – ma che spesso si intersecano
– concorrono ad alimentare il grande flusso delle nuove idee educative e delle nuove
proposte di politiche dell’educazione, spesso anche in collaborazione tra loro”
(Formazione continua cit., p.19).
Ai fini della redazione del presente testo vengono riprese anche altre ricerche nelle
quali la scrivente ha affrontato questi temi, in particolare: A.L. PAVAN, “Learning
society”, “Lifelong learning”: figure e linee-guida dal recente dibattito europeo, in
A.L. PAVAN – F. RUSSO (eds.), Formazione in età di Learning society, Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli, 2001, pp.199-244; A.L. PAVAN, Pratiche, teorie e
politiche dell’educazione: un difficile circolo virtuoso, in L. GALLIANI (ed.),
Educazione versus formazione – Processi di riforma dei sistemi educativi e
innovazione universitaria, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2003, pp.129-144
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(questi ultimi due volumi sono titoli della collana Learning society della Facoltà di
Scienze della Formazione dell’Università di Padova presso le E.S.I. di Napoli). A
questi testi si rimanda per gli approfondimenti opportuni, e talora necessari, delle
riflessioni di queste pagine.
1.2.Le riflessioni qui raccolte hanno tre principali focus che paiono quelli basilari per
affrontare oggi la questione delle politiche della formazione.
Il primo focus riguarda l’esigenza sempre più avvertita di pensare/fare formazione
contestualizzando questo pensare/fare nella società “reale”, nella polis effettiva, dove
esso viene crescentemente investito, nelle società del cambiamento, dalle nuove
conoscenze, dai nuovi bisogni e dai nuovi obiettivi delle vite individuali e dei sistemi
sociali. Così la formazione diviene, nelle nostre società, un affare di polis (sempre
più gente dentro e attorno alla formazione) ed è sempre più percepita come
emergenza di crescente interesse pubblico. Essa è oggetto di un dibattito pubblico
vieppiù allargato, mentre un numero sempre in aumento di attori (associazionismo
civile e professionale, sindacati, famiglie, mondo dell’impresa, chiese ecc.) prende la
parola sulla formazione determinando uno spazio pubblico o una politicità di base
della questione formazione; e sarebbe riduttivo confinare questa politicità nelle
politiche istituzionali della formazione, le quali ultime, un po’ dovunque, sono in
affanno. Questa dimensione pubblica, questa politicità allargata della questione
formazione dovrà sempre più essere integrata nella cultura della formazione e
divenirne dimensione attiva, poiché questa integrazione è la condizione necessaria
per capire (ed elaborare) meglio i bisogni e il senso del pensare/fare formazione nelle
nostre società.
Il secondo focus di queste riflessioni è centrato sulla formazione continua e, più
esattamente, sull’orizzonte del life –long e –wide learning, nel quale sono in qualche
modo ricapitolabili le figure del lifelong learning e della learning society emerse
nella svolta della cultura e della politica della formazione che si registra tra gli anni
’60 e ’70: figure che negli anni ’90 riemergono e si connettono tra loro più
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organicamente nel loro elemento comune – il learning – generando l’orizzonte della
knowledge society di cui diviene organo operazionale appunto il life –long e –wide
learning. Questo fa sì che, a partire dagli anni ’90, nel quadro della “società della
conoscenza”, sia più pertinente parlare delle politiche della formazione in termini di
politiche dell’apprendimento. E in questo nuovo orizzonte l’Europa, con l’
“ambizione di Lisbona”, apre gli anni 2000 e rilancia il suo progetto formativo che
deve fare i conti con l’avvento della knowledge economy, nella quale
all’apprendimento continuo è affidato, più che nei decenni passati, il ruolo di nuovo
paradigma generale delle politiche della formazione.
Il terzo focus di queste riflessioni, infine, è ravvisabile nell’importanza dell’impatto
crescente che sulle politiche della formazione delle nostre società, sempre più situate
globalmente per l’interazione delle loro economie, delle loro comunicazioni e delle
loro tecnologie, assume la dimensione internazionale.
1.3.Attraverso questi focus si può probabilmente guadagnare il punto di vista, assunto
da queste riflessioni, per il quale parlare oggi di politiche della formazione,
soprattutto se non si riduce questo parlare alle politiche istituzionali della formazione,
apre un interrogativo ineludibile sulla formazione nelle nostre società, sul loro
disagio educativo e sui loro sistemi educativi (formali, non-formali e informali) in
crescente fibrillazione e incertezza sul da farsi: quale può essere oggi la formazione
ad altezza di modello di sviluppo? Basta, con la formazione, agganciare le esigenze di
questo sviluppo e predisporre le “risorse umane” adeguate per assicurare le
performance di questo sviluppo? O non si tratta, con la formazione, di attrezzare
“persone” consapevoli che, oltre ad adattarsi, contribuiscano anche a modificare la
società affinché lo sviluppo, a sua volta, diventi ad altezza d’uomo? Che cosa
possono divenire, rispetto ad un’economia politica dell’incertezza (così Z. Bauman)
nella quale si conducono oggi per lo più le politiche della formazione, nuove strategie
e politiche della formazione che cerchino la conciliazione (così Delors) delle tre forze
che muovono oggi la società: la competizione che dà gli incentivi, la collaborazione
che rafforza, la solidarietà che unisce? Si può continuare ad elaborare i bisogni
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formativi restandosene a valle, dove si prende atto dei bisogni, con gli specialismi
delle teorie, con la frantumazione delle pratiche, evitando così di porre esplicitamente
e francamente, a monte, questo genere di interrogativi che vertono oggi sul senso del
pensare/fare formazione?
Questo risalire a monte, situando cultura e pratica formativa nel vivo della polis reale,
è quello che qui si intende per prospettiva politica sulla formazione; questa
dimensione, una volta debitamente tolta al riduzionismo che la identifica con le
politiche istituzionali della formazione, non può oggi non divenire una dimensione
della cultura della formazione: almeno se si decide che il pensare/fare formazione
deve dotarsi del senso che ha, e ha sempre avuto, di un interesse sociale generale e
non di un mero affare di addetti ai lavori.
2. Verso il life –long e –wide learning
Un passo importante nella strategia di ricerca di senso del pensare/fare formazione
nelle nostre società consiste nel fare i conti con la figura emergente della formazione
continua e con la sua crescente elaborazione in termini di apprendimento, dopo una
lunga storia che l’ha elaborata in termini di insegnamento e di istruzione.
«La formazione continua sta diventando sempre più consapevolmente il luogo
architettonico nuovo nel quale le società sviluppate - e, comunque, le società nel loro
aprirsi alle strategie e alla cultura dello sviluppo1 - riformulano in tutti i suoi aspetti la
“questione formazione”. E in questa consapevolezza si percepisce sempre meglio che
nel nuovo orizzonte della formazione continua sta cambiando l’intero gioco
educativo/formativo: nei suoi attori - che non sono più solo gli “addetti ai lavori” dei
sistemi formali-; nella cultura e nell’epistemologia che ne rendono ragione - che non
sono più solo affare di pedagogia, nemmeno più solo delle scienze “canoniche”
dell’educazione -; nei nuovi interessi che entrano in scena - non più solo “pubblici”,
ma anche di “mercato” e sociali di “terzo settore” -; nella definizione dei nuovi
obiettivi degli apprendimenti - che passano sempre più dalle ragioni dei contenuti alle
ragioni delle capacità, o delle competenze -. Di questo cambiamento in atto nel gioco
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educativo, vera e propria ridistribuzione di carte a cui le società stanno procedendo
nel loro cambiamento, può essere indizio la fibrillazione di parole e di linguaggi che
si registra oggi nel settore; e dove, come altrove, fibrillazione di parole dice
fibrillazione di cose e di processi.
Formazione continua, in questo quadro, è stata ed è termine che si è trovato investito
dell’onere semantico di dire la novità che si annuncia nelle società in materia di
educazione. E che di questo onere fosse investito lo si era percepito già negli anni del
suo emergere, e cioè nel passaggio tra i decenni ’60 e ’70, quando esso appare nei
dibattiti e segna la discontinuità tra il precedente “paradigma quantitativo” della
cultura e delle politiche della formazione, alle prese in tutto il mondo con la
prorompente domanda sociale di accesso alle opportunità educative, e l’emergente
“paradigma qualitativo” nel quale, mentre persiste il problema delle giustizia degli
accessi, si comincia a porre seriamente la questione della pertinenza e della qualità
dell’offerta formativa. Fin dal suo emergere la formazione continua fa valere tutta la
sua carica discontinuista rispetto alle precedenti tradizioni pedagogiche e alle stesse
precedenti politiche educative, comprese le politiche più aggiornate, cioè quelle del
welfare state, centrate soprattutto su una più larga distribuzione (e assai meno
sull’innovazione della qualità) del bene istruzione. Si dirà allora della formazione
continua che essa è destinata a cambiare non solo le strategie e le politiche
dell’educazione, ma anche “la sostanza stessa dell’atto educativo” (Rapporto Faure).
Si può riconoscere nella consapevolezza con la quale emerge il topos formazione
continua in quegli anni la base di tutto l’enorme lavorio di cui tale topos viene fatto
oggetto - determinando, come si diceva, una stagione di fibrillazione incontenibile di
linguaggi e di concetti - negli anni ’90, quando questo topos riemergerà dopo un
“carso” quasi ventennale (anni ’70 e ’80)2. Quello che in esso si intravede già al suo
emergere - e la cosa sarà confermata al suo riemergere - è che esso si candida a
denotare in sede educativa il nuovo processo nel quale sono entrate le società dopo la
moderna tradizione industrialistica. Si parla allora di post-industrialismo; in realtà si
tratta più che di de-industrializzazione delle società, di re-industrializzazione attorno
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alle nuove tecnologie, soprattutto dell’informazione e della comunicazione. Si tratta
di una re-industrializzazione cibernetica (e cibernetica tra gli anni ’60 e ’70 è
altrettanto parola-chiave della parola rete oggi), nella quale si porta sempre più
l’attenzione sui mezzi e la cultura di questa nuova fase dello sviluppo, e cioè sui
circuiti, i modelli, le tecniche e i trattamenti - che allora cominciano grazie al
computer - informatici delle informazioni. E per designare questa nuova fase, si parla
allora di società dell’informazione. In questo quadro, in effetti è la concezione stessa
dello sviluppo a cambiare, e a far quindi parlare per questo tempo di età postindustriale. In questa concezione lo sviluppo tende a divenire un processo aperto,
meno centrato sui prodotti e le quantità di ricchezza di risultato (il PIL) e più
orientato sui potenziali (cognitivi, organizzativi, di “capitale umano” ecc.) suscettibili
di tenere aperto il processo stesso e di garantire quindi la possibilità di ulteriore
sviluppo. E’ una situazione nuova, nella quale le società finiscono non solo per
disporre sempre meno della possibilità di formulare in anticipo rappresentazioni
coerenti e pianificate, o stati di equilibrio e modelli di vita a cui mirare, ma
decentrano la cultura stessa della loro riproduzione dalle cose ai processi; e in questo
decentramento sembrano “più timorose di una conclusione prematura che della
prospettiva di un’eterna inconcludenza”3. Tenere aperto il processo sembra essere la
consegna del nuovo sviluppo; o anche: non ci si sviluppa in vista di nuovi prodotti
utili, di nuove condizioni sociali desiderabili, di nuovi saperi che diano “finalmente”
la verità delle cose; ci si sviluppa in vista della possibilità stessa che si dia sviluppo.
Quando questa nuova prospettiva sullo sviluppo acquista cittadinanza nei dibattiti
economico-politici (appunto tra gli anni ’60 e ’70), appare anche l’espressione
formazione continua la quale da una parte, come si diceva, fissa e traduce la
percezione della novità che si apre anche nel campo educativo e dall’altra parte avvia
la nuova stagione della rielaborazione concettuale e della riformulazione linguistica
dei problemi della formazione. Rispetto a questa consapevolezza d’origine da cui
sorgono, nel quadro della nuova concezione dello sviluppo, l’espressione e il progetto
politico della formazione continua, gli anni ’90 vedono riemergere il tema e
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registrano un’accelerazione sia della sua elaborazione concettuale e culturale, sia
degli sforzi della sua messa in opera politica.
Non è irragionevole immaginare che la caduta dei muri abbia avuto in questa
accelerazione il suo peso, soprattutto par le biais della nuova situazione che quella
caduta andava determinando in termini di nuova mobilità delle persone, delle merci,
dell’informazione e dei capitali, e rispetto alla quale l’esplosione di Internet diviene
al contempo il nuovo grande luogo mondiale e la metafora. In altre parole: il tema
della processualità e dell’apertura, veicolato dalla nuova concezione dello sviluppo, e
al quale tema dobbiamo anche l’espressione formazione continua, diviene ben più
efficacemente denotativo nella nuova situazione in cui sono entrate le società con gli
anni ’90. E tre dimensioni dell’educativo e del formativo vengono allora più
incisivamente colte.
L’apertura che riceve impulso dalla nuova concezione dello sviluppo, anzitutto,
detemporalizza l’evento educativo e, in generale, l’istruzione, allentando su di esso la
presa di quella visione che lo colloca tra un inizio e una fine e che è la visione
caratteristica dell’approccio dei sistemi formali e delle pedagogie tradizionali. Questa
detemporalizzazione favorisce la percezione - già emersa negli anni ’60 e ’70 - che
nelle società del cambiamento, e organizzate per produrre cambiamento, tutto il
tempo di una vita deve diventare tempo di necessità e di opportunità di
apprendimento, appunto di formazione continua. E due vedute cercano allora di
comporsi concettualmente e politicamente: la veduta che ruota attorno alla
preoccupazione per una migliore qualità dell’offerta educativa formale, non perché si
ritenga che tutto l’educativo sia formale, ma perché si capisce sempre meglio che un
buon formale iniziale è garanzia di un efficace apprendimento continuo; e la veduta
che, disperando di poter aprire i sistemi formali alle nuove domande sociali, punta sul
non-formale (fino alla tesi della descolarizzazione) per rimettere in moto in modo
innovativo il processo formativo.
In secondo luogo, l’apertura propiziata dal nuovo sviluppo, quando viene rielaborata
negli anni ’90 non è più solo l’allargamento spaziale (dello spazio sociale)
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dell’educativo e del formativo al di là dei sistemi formali, come lasciava intendere
l’espressione learning society che dilatava il campo dell’offerta formativa. Si tratta di
una nuova spazialità, quella che si apre per effetto della globalizzazione, in cui non
solo interagiscono sempre più fittamente economie, culture e tradizioni educative
diverse (e vie diverse allo sviluppo), in cui le società stesse divengono sempre più
multiculturali, ben al di là del tradizionale “pluralismo” democratico delle società
europee e occidentali. In simili società alle prese con il processo di globalizzazione, si
capisce sempre meglio che le “risorse umane”, anche ai fini semplicemente del
lavoro, devono essere preparate ad abitare queste società e la mobilità crescente che
sarà comportata dall’interazione dei mercati (del lavoro, delle tecnologie e delle
conoscenze, degli scambi simbolici, dell’informazione ecc.). Certo, il nuovo spazio
sociale che così si apre anche all’educativo e al formativo - e di cui le espressioni
learning society e knowledge society colgono dimensioni diverse e correlate,
entrambe peraltro inscrivibili nella nuova concezione dello sviluppo - non è solo
l’effetto della globalizzazione, né la globalizzazione è fenomeno che comincia con gli
anni ’90; sicuramente, però, l’accelerazione che la caduta dei muri e gli anni ’90
imprimono alla globalizzazione hanno un ulteriore effetto destabilizzante (dopo
quello degli anni ’60 e ’70) rispetto alle concezioni consolidate del tradizionale
spazio sociale dell’educativo.
In terzo luogo, e infine, l’apertura investe lo stesso processo pedagogico,
rimettendolo in questione sia nell’ordine delle sue finalità, sia nell’ordine delle sue
strategie didattiche. In uno sviluppo nel quale si tratta di tenere aperta l’apertura, ci si
chiede sempre più spesso: quale uomo si tratterà di formare, quali attitudini
promuovere, come fare per ottenere più che un “prodotto” (o un modello)
antropologico ad “alta definizione”, un soggetto in grado di mantenersi in istato di
interesse, attitudine e responsabilità, nella varietà di circostanze che sarà chiamato ad
attraversare nella vita, e dunque in una condizione di continuo autosviluppo
(psicologico, sociale, cognitivo ecc.)? Come deve essere un uomo capace
(continuamente) di “diventare uomo”? E d’altra parte: quali sono le strategie
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educative buone a questo scopo? Che cosa trasmettere e insegnare per attivare e
mettere in moto un processo destinato a prolungarsi per tutta la vita? E come
selezionare informazioni e conoscenze, in un mondo nel quale non solo gli stock di
conoscenze sono diventati ormai arsenali indominabili (il 90% dei ricercatori della
storia dell’umanità, secondo l’UNESCO, vive nel nostro tempo!), ma in cui il
turnover delle conoscenze ha una rapidità tale che quello che si trasmette oggi può
non essere adeguato e utile domani? A fronte di interrogativi di tal fatta diviene
progressivamente centrale nel processo pedagogico, dopo una tradizione centrata
sull’insegnamento, una visione centrata piuttosto sull’apprendimento, sul celebre - e
talora abusato - “apprendere ad apprendere”, dato che dentro logiche strutturali di
cambiamento pare educativamente più produttivo e di più lungo respiro motivare
all’apprendere che fissare (e spesso bloccare) attitudini e capacità su contenuti
determinati dell’apprendimento, sia che si tratti di contenuti cognitivi sia che si tratti
di know-how. A ben vedere, si può parlare per questa dimensione pedagogica
dell’apertura, indotta dal nuovo sviluppo, di una vera e propria apertura antropologica
perché, se in negativo sembra motivata dalla crescente difficoltà ad immaginare
l’uomo del futuro alla cui messa in forma orientare la formazione, in positivo essa
suscita la riscoperta e la valorizzazione nell’educazione e nell’istruzione di
dimensioni e possibilità dell’uomo alle quali fare appello perché egli stesso divenga
costruttore di senso e artefice di futuro. E questo sembra leggibile nel passaggio che,
grazie all’architettura della formazione continua, si compie nell’educativo dal registro
dell’insegnamento al registro dell’apprendimento: questo passaggio è in realtà
l’aspetto più profondo che è oggi in gioco nei dibattiti e nelle politiche della
formazione. In questo passaggio non solo si innova l’intero processo pedagogico, ma
il learner viene rimesso al centro e con lui viene rimessa al centro la domanda di
educazione, istruzione e formazione, dopo una lunga tradizione di centralità
dell’offerta e delle istituzioni educative.
Si sono qui evocate tre dimensioni di apertura che nell’educativo e nel formativo
vengono indotte dalla nuova concezione aperta dello sviluppo: l’apertura temporale,
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l’apertura spaziale, l’apertura antropologica. Si deve osservare che queste tre
dimensioni hanno successivamente - e nelle diverse lingue - ricevuto espressioni
diverse, che queste pagine documentano, ma che una sorta di filo rosso le attraversa e
le orienta in direzione di una loro integrazione: è il filo rosso dell’apprendimento, del
learning che, non a caso, è anche la dimensione antropologicamente più rilevante e
più decisiva. E’ attorno al learning che in effetti si cerca di tessere la tela di una
nuova cultura dell’educativo che consenta di ricomporre e riconfigurare pratiche,
teorie e politiche dell’educazione al di là delle loro attuali dissociazioni. Rispetto ad
un simile compito, il learning sta rivelando tutta la sua natura di topos complesso e
comprensivo; tant’è che per dare espressione alla unitarietà complessa di questa sua
funzione non disponiamo oggi di vocabolario adeguato. Si può forse tentare, con una
grafia forse un po’ artificiosa che più allude ad un compito piuttosto che descrivere
una situazione - rispetto alla situazione reale dell’educazione si tratta sicuramente per
un learning così assunto di “un’utopia”, ma “necessaria”, direbbe Delors; o anche: di
una “rivoluzione culturale”, ma inevitabile, direbbe il Commissario europeo Reding di denotare questo learning come life -long e -wide. La prima parte di questo
sintagma nasce con la formazione continua negli anni ’60-’70 (come lifelong
learning); la seconda parte (come lifewide learning) nasce quasi a coronamento dei
dibattiti degli anni ’90: è di provenienza svedese e di adozione europea, con il
Memorandum del 2000, nel quale peraltro convivono vari strati linguistici. Il lifewide
sembra essere una sorta di erede storico dell’apertura spaziale denotata dalla più
vecchia espressione learning society. Negli anni ’90 le due figure del lifelong
learning e della learning society entrano, grazie al rilancio dell’architettura della
formazione continua, in più stretta comunicazione. Da questa comunicazione viene il
topos compositivo del nostro life -long e -wide learning. Di esso, dunque, si può dire
che è l’erede della formazione continua e della formazione continua è una specie di
stato maturo, perché compositivo di entrambe le sue le aperture, la spaziale e la
temporale, anche se nell’espressione formazione continua la dimensione spaziale
resta ambiguamente implicita, il che espone la formazione continua alla
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rivendicazione continuista da parte dei sistemi formali dell’educazione iniziale.
L’espressione life -long e -wide learning, in più, reca un valore aggiunto
all’espressione formazione continua: denota l’intero processo come ricentrato
sull’apprendimento piuttosto che sull’insegnamento (e questo ricentramento non è
così chiaro nell’espressione formazione continua); e questo ricentramento significa,
come si diceva, rimettere il learner al centro. Se ne potrebbe trarre l’indicazione che
c’è molto di implicito nell’espressione formazione continua; e che se si vuole
continuare ad usare produttivamente questa espressione, occorre semantizzarla
convenientemente e con gli opportuni affinamenti concettuali. In realtà si deve essere
consapevoli che con l’espressione formazione continua si denota un nuovo luogo
teorico e pratico di tutto l’educativo/formativo; un luogo nel quale - una volta presa la
strada dell’apprendimento - le denotazioni stesse di educazione, istruzione,
formazione che ci portiamo dalla tradizione dell’elaborazione pedagogica più o meno
recente (e più o meno persistente), fanno figura di astrattezze, utili per le analisi
teoriche, dove si tratta di mettere sotto lente aspetti, momenti e dimensioni, ma che
possono divenire fuorvianti per le pratiche e le politiche educative, dove si tratta di
mettere a frutto congiuntamente conoscenze e saperi provenienti dall’analisi.
Tutte queste riflessioni si ispirano ai documenti e ai dibattiti internazionali, la cui
ricognizione è ormai un luogo pedagogico inevitabile. L’internazionalità a ben vedere
è sempre più l’orizzonte del nuovo spazio sociale, o dell’apertura spaziale, per
mantenere questi linguaggi, verso cui la nuova concezione dello sviluppo apre le
società e, in esse, la formazione. E’ inimmaginabile oggi pensare e progettare
l’educativo a prescindere da questo nuovo spazio sociale, da questa nostra nuova
learning society, da cui tutti gli spazi “locali” sono attraversati: questo lo si capisce
sempre meglio. D’altra parte, c’è da ritenere che, senza i dibattiti internazionali, le
differenti dimensioni dell’apertura nell’educativo che si è qui tentato di caratterizzare
avrebbero avuto difficoltà ad emergere e ad essere messe in valore, legate come sono
alla nuova concezione dello sviluppo. Uno sviluppo sempre più globale, trainato dai
mercati globali che aprono il nuovo spazio sociale della nuova learning society, dove
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altrove avrebbe potuto essere monitorato, pensato nei suoi problemi e nelle sue
chance, nelle sue esigenze e nelle sue conseguenze anche educative, se non in
osservatori che siano in presa diretta con i processi di questo sviluppo, come possono
esserlo gli organismi internazionali? Il nostro life -long e -wide learning deve a questi
dibattiti non solo l’occasione, ma la sostanza stessa della sua concezione; in questo
senso, esso è insieme l’effetto dei dibattiti internazionali e la traccia per cogliere di
questi dibattiti gli orientamenti, le evoluzioni e le grandi linee di fatto “ideologiche”»
(Formazione continua cit., pp.13-19).
3. Una nuova generazione di politiche della formazione?
«Se i riscontri documentali dei dibattiti internazionali in materia di nuova cultura e di
nuove politiche della formazione consentono una conclusione, pare che questa
conclusione si possa formulare, e semplificare, con la constatazione che la
formazione continua occupa ormai il centro dell’intero campo delle politiche
dell’educazione/formazione e che lo occupa più che al modo di un modello, al modo
di un processo. Tutto ciò può essere espresso anche così: in termini di formazione
continua sono oggi in atto dinamiche di ridefinizione delle politiche - e con loro (e a
partire da loro) anche delle pratiche e delle teorie dell’educazione e della formazione
- in un processo nuovo: il luogo architettonico, il paradigma, la grande politica,
l’idea-quadro, il topos, la strategia sovraordinata – si potrebbe dire con
un’oscillazione linguistica che oggi è nelle cose – della formazione continua. Si tratta
del processo che si è proposto di designare compositivamente - e con espressione che
lascia meno di implicito di quella di formazione continua - come life -long e -wide
learning.
Dentro
questo
processo,
nuovo
luogo
teorico-pratico
generale
dell’educazione/formazione, si è più volte detto che le società stanno ridistribuendo le
carte del gioco educativo. Questa sembra ormai la portata del dibattito e
dell’innovazione politica in corso attorno a quella che chiamiamo formazione
continua. E nella ridislocazione di processo che grazie alla formazione continua si
compie dell’educativo - che va inteso qui in tutta la sua estensione: educazione,
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istruzione, formazione - vanno riconosciuti gli effetti di almeno tre livelli strutturali o
tre fattori determinanti della ridislocazione stessa che nei dibattiti internazionali sono
i più insistiti.
In primo luogo, si tratta del livello modello di sviluppo che costituisce l’orizzonte più
largo e più a monte dentro cui porre la questione del sorgere dell’esigenza stessa della
ridislocazione, e dentro al quale, dunque, cercare i nuovi riferimenti per articolare il
disegno della ridislocazione, nel presupposto che ogni modo di sviluppo ha i suoi
propri modi di educare e formare. In secondo luogo, si tratta del livello sistemi sociali
e mutazione sociale nel quale ci è dato di cogliere il formarsi e il mutare della
domanda di educazione da parte di individui e di gruppi (e di popoli) i quali, alle
prese con le dinamiche del nuovo sviluppo, cercano cultura e formazioni adeguate sia
per adattarsi efficacemente a queste dinamiche, sia per orientarle ad esiti desiderabili,
secondo concezioni anche molto diverse circa ciò che è desiderabile e ciò che non lo
è.
In terzo e ultimo luogo, si tratta del livello governo politico dei processi e di cui il
governo delle politiche della formazione è un campo; il campo che registrando la
mutazione della domanda sociale di formazione la mette in forma mediando tra gli
interessi che al riguardo si confrontano nella società.
E’ difficile rappresentarci adeguatamente la portata della ridislocazione di processo
che la formazione continua mette in opera nei sistemi educativi - ma più
puntualmente: nei sistemi degli apprendimenti - se non la si visualizza sullo sfondo
dell’intreccio di questi tre livelli o fattori strutturali. E d’altra parte è difficile
immaginare un efficace pensare e un efficace fare educazione/formazione senza
prendere in considerazione la novità di processo che l’intreccio di questi fattori
determina nelle società, dove la percezione più matura di questo intreccio ci è dato
oggi di riconoscere nella denotazione dell’educativo come life -long e -wide learning.
In questo nuovo orizzonte, o nel nuovo processo, si può sostenere che le politiche
della formazione rappresentano l’interfaccia più sensibile tra il nuovo sviluppo e il
concreto fare e pensare l’educazione: il luogo più concretamente critico nel quale si
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cerca la composizione tra le diversità di interessi, di opinioni (e di “ideologie”), di
corporativismi e di bisogni in gioco nell’ambito educativo/formativo.
E’ stato giustamente osservato, nel quadro di un’articolata riflessione sulle “funzioni
della politica” rispetto alla formazione4 che sono in corso tre mutazioni delle politiche
della formazione: intorno all’offerta - che per effetto del “diritto all’educazione” non
è più solo “diritto limitato” “all’accesso esclusivo ad un determinato tipo di sistemi o
di attività formative, ad esempio: la scuola” -; intorno alla domanda - dove si tratta
sempre più di agire sulle capacità degli individui di divenire attori liberi e autonomi
di domanda di formazione) -; intorno all’espressione della domanda - dove si tratta di
agire sui fattori culturali, istituzionali e materiali che determinano “la possibilità del
soggetto di entrare in una dinamica di sviluppo intellettuale”-.
Questa analisi pertinente si può anche assumere come filo d’Arianna per orientarsi in
quello che appare l’aspetto più generale del cambiamento in atto nelle politiche della
formazione e che si potrebbe descrivere come il passaggio da un loro ruolo
prevalentemente direttivo dell’educativo (fornitura diretta di servizi, determinazione
in esclusiva dei curricoli, monopolio dei riconoscimenti e delle certificazioni ecc.), ad
un loro ruolo prevalentemente regolativo dell’educativo (determinazione di obiettivi,
controllo dell’offerta sociale di formazione, omologazione degli standard per le
verifiche delle competenze ecc.). Rispetto a questo passaggio, tutti i documenti
internazionali sottolineano che non si tratta di un nuovo non-compito della politica
rispetto all’educazione/formazione, bensì di un’innovazione della cultura e delle
strategie della politica. E lo sforzo in questi documenti sembra quello di ridefinire il
senso pubblico, o l’interesse pubblico, in gioco nella formazione e nell’istruzione,
aprendosi un varco tra un’idea di pubblico che non necessariamente significhi statale,
e un’idea di privato, o non-pubblico, che non necessariamente significhi mercato.
In effetti con il quadro della formazione continua si intende non escludere nessuna
offerta formativa proveniente dai potenziali educativi e di istruzione della società, e
nello stesso tempo si intende con esso razionalizzare l’offerta di formazione sempre
più complessa, definirne parametri e standard di misura e di valutazione,
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salvaguardare l’interesse pubblico che è una dimensione ineludibile del bene
educazione e istruzione (bene “meritorio”, e cioè meritevole di tutela “speciale”,
direbbero gli economisti). Forse converrebbe notare a proposito di questo ultimo
aspetto (l’interesse pubblico dell’istruzione) che il dibattito che ferve attorno alla
nuova “grande politica” dell’educazione/formazione per la sua portata non può
continuare a senso unico: l’innovazione politica che attorno alla formazione continua
sembra prodursi non riguarda solo le possibili derive mercantili dell’istruzione;
riguarda, in altro modo, anche le possibili derive corporative - che è un altro modo di
dire privato - dell’istruzione pubblica, quando venga intesa come affare di addetti ai
lavori. Certo, un’ideologia mercantile è attiva e ben predicata attorno al bene
istruzione, come del resto a tutti i servizi alla persona: WTO docet!; ma gli addetti ai
lavori ci mettono del proprio, con le loro resistenze al cambiamento, per portare
acqua al mulino di quanti sperano di ottenere l’innovazione inevitabile dei sistemi
formali per le vie del mercato, e sostengono l’efficacia di queste vie anche con la
constatazione che ovunque la riforma viene cercata per le vie della negoziazione
politica e sindacale è in panne.
Comunque sia, la formazione continua, e più puntualmente il life -long e -wide
learning, nel suo operazionalizzarsi sembra dar luogo a una serie di nuove politiche;
ne ricordiamo qui tre, che sono in realtà tre “classi” di politiche: (a) politiche
dell’apprendimento; (b) politiche delle competenze; (c) politiche delle best practices.
a. Politiche dell’apprendimento
La formazione continua come life -long e -wide learning offre il quadro alle nuove
politiche della formazione come politiche dell’apprendimento. Le politiche sembrano
in effetti tendere sempre più alla mira dei risultati degli apprendimenti che, come si
diceva, alla gestione diretta delle istituzioni, delle risorse, delle burocrazie curricolari
degli apprendimenti. Questo passaggio non è affatto lineare e pacifico. Esso, infatti,
suscita un contenzioso: tra addetti ai lavori (politici, attori dei sistemi formali,
erogatori non-formali di servizi educativo/formativi); tra “ideologie” della
formazione (pubblicistica, privatistica - di mercato -, sociale); tra concezioni degli
15
obiettivi delle azioni formative (puntare su “specializzazioni” strette immeditamente
spendibili nel lavoro - secondo un’accezione soprattutto aziendalistica - ma
difficilmente riconvertibili, o su know-how integrati in quadri “culturali” più larghi?);
tra i sostenitori di strategie curricolari diverse: (lineari-funzionali, o enciclopedicheinterdisciplinari, o transdisciplinari?). Le politiche si muovono con difficoltà in
questo contenzioso di interessi, opinioni e valori in gioco nella società. Da una parte
esse
scontano
la
mancanza
di
consenso
sociale
sulle
finalità
dell’educazione/formazione; dall’altra parte in un modello di sviluppo aperto che
vive di e per il cambiamento, e quindi genera complessità, flessibilità e incertezza
come prodotti “normali” del suo funzionamento (e non come effetti indesiderati) è
sempre più difficile pianificare i risultati a cui tendere. Nemmeno le istituzioni sono
più in grado di prevedere oggi il corredo di conoscenze, skill, elementi “caratteriali”
che saranno auspicabili ed efficaci domani.
In questa situazione si viene preparando nelle politiche la ricordata svolta dalla
centralità dell’offerta alla centralità della domanda di educazione e di formazioni,
dall’insegnamento all’apprendimento, dall’insegnante al learner, dalla centralità dei
sistemi formali alla prospettiva della learning society. Risultato di apprendimento, in
questo quadro, significa più capacità di risultato (autogestita) che possesso di
risultato (pianificato). Altrimenti detto: le politiche, in un coerente quadro di
formazione continua, tendono a ricentrare (qualcuno dice: a scaricare) sul learner le
scelte educativo/formative. Questo induce nella società una nuova domanda di
servizi: da una parte la richiesta che attorno al learner-in-scelta si creino dei “servizi”
di accompagnamento: tutoring, orientamento, valutazione e bilancio di competenze e l’insegnamento diventa “uno” dei servizi di accompagnamento, quello fornito da un
insegnante che si tende sempre più a rappresentare come un “mediatore di
apprendimento” -; da un’altra parte la richiesta che si allestiscano servizi di
valutazione e di verifica che diano riscontro sia dei risultati “oggettivi” degli
apprendimenti, sia delle modificazioni e delle capacità prodotte nel learner
dall’apprendimento. Attorno a questa “filosofia” dell’educazione/formazione centrata
16
sul learner, stanno mutando le politiche della formazione: stanno passando, come si
diceva, dallo stato di erogatrici allo stato di regolatrici strategiche dei sistemi
educativi. In questa mutazione riconoscere il ruolo propulsivo della formazione
continua è quanto è ribadito da un capo all’altro delle pagine di questo studio; la
formazione continua prolunga e allarga - detemporalizza e despazializza, si è anche
detto - in effetti l’offerta formativa oltre i recinti dei sistemi formali, tradizionalmente
presidiati dal settore pubblico, dalle sue politiche e dalle sue risorse, anche se
continua ad essere quantitativamente vero quanto alle risorse, e non solo per
l’Europa, ma anche per gli USA, il preminente ruolo del sistema pubblico. La
formazione continua ridisegna lo spazio sociale dell’educazione e della formazione;
espressione del “nuovo sviluppo”, essa colloca le politiche della formazione su un
nuovo terreno in cui tali politiche non possono evitare di diventare “nuove politiche”.
b. Politiche delle competenze
E’ caratteristico della prospettiva formazione continua, proprio in quanto calibrata
sulle dinamiche di una concezione e di una pratica aperta dello sviluppo, mettere in
valore negli apprendimenti più che la dimensione trasmissiva (di informazioni,
conoscenze, valori ecc.) di cui peraltro gli apprendimenti non possono fare a meno, la
dimensione formativa di personalità alla quale gli apprendimenti vengono sempre più
ordinati. E’ questo un punto che diviene sempre più consapevole sia nella riflessione
di elaborazione teorica dell’educativo, sia nelle pratiche educative e formative. Ed è
un punto che ha un nome preciso e che conosciamo come il problema delle
competenze.
Le origini del concetto di competenza sono piuttosto pragmatiche e funzionali: è un
concetto nato dalla pratica soprattutto aziendale di selezione delle “risorse umane”
mossa dal bisogno di “mettere l’uomo giusto al posto giusto”. Si cominciava (anni
’60-’70) ad avere meno fiducia nelle certificazioni formali e si cominciava a
verificare “sulla persona”, e non solo sulle carte ufficiali, l’adeguatezza del candidato
alla mansione. Il concetto da allora è cresciuto e via via ha finito per designare, più in
là dell’abilità a fare qualcosa (ad occupare un posto e svolgere una mansione),
17
l’attitudine soggettiva a rispondere efficacemente a situazioni, contesti e problemi
diversi mettendo appropriatamente a frutto, a seconda delle circostanze, il patrimonio
di conoscenze, di capacità relazionali e di registri affettivi, di abilità di scelta dei
mezzi “giusti” e delle informazioni giuste. E’ chiaro che un educativo alle prese con
il cambiamento e centrato sul learner incontra nella promozione delle competenze
così concepite il suo obiettivo sovraordinato e strategico. Questo è vero già nel
mondo delle professioni: delle nuove che chiedono nuove competenze e delle vecchie
che chiedono innovazioni di abilità, di strumenti e di contenuti cognitivi. Ma quello
delle competenze è un capitolo della pratica, della teoria e delle politiche
dell’educazione che non riguarda solo la vita professionale e il lavoro; tocca in realtà
il soggetto nella sua stessa soggettività, non solo nelle sue qualità e nei vari aspetti
del suo “patrimonio” acquisito (di conoscenze, abilità ecc.); tocca la capacità
dell’uomo di divenire autocostruttore di consapevolezza, di orientamento e di
decisione. E’ stato osservato che non ci sono “le” competenze, bensì ci sono persone
competenti; e persona competente significa più potenza aristotelicamente intesa e
propensione alle competenze che possesso di abilità e competenze mansionali.
Dalla ricognizione che queste pagine hanno condotto dei dibattiti internazionali nei
quali, in effetti, il tema delle competenze occupa un posto rilevante, soprattutto dopo
il celebre Rapporto Delors all’UNESCO e dopo Lisbona, si può essere indotti a
domandarsi quali siano gli effettivi contenuti delle politiche delle competenze, tenuto
conto che anche la ricerca pedagogica e manageriale è in affanno rispetto ad una
definizione soddisfacente del concetto di competenza. A questo riguardo forse una
triplice indicazione può venire da queste pagine per orientare a riconoscere quando e
dove siano in azione politiche delle competenze:
-sono riconoscibili politiche delle competenze in tutto lo sforzo che viene prodigato
per l’approntamento di standard ed indicatori grazie ai quali testare e valutare
processi e stati di competenze;
-sono riconoscibili politiche delle competenze nelle azioni di promozione della
learning society perché questa, favorendo l’integrazione di conoscenze, esperienze,
18
know-how e relazionalità del learner, rende quest’ultimo più efficacemente abitatore
competente di una società che non solo cambia rapidamente, ma colloca
crescentemente il learner stesso in una rete di appartenenze delle quali si tratta di
saper giocare e far interagire i differenti registri. Per contro, questa rete di
appartenenze viene disarticolata dall’autoreferenzialità degli ambienti educativi, dalle
“specialità” delle discipline e dei know-how; e non a caso i dibattiti internazionali
insistono tanto sulle strategie di partenariato;
-sono, infine, riconoscibili politiche delle competenze nell’indirizzo della “nuova”
cultura dell’educazione e della formazione che tende, già nel suo passaggio
dall’ottica insegnamento all’ottica apprendimento, ad allentare sugli apprendimenti la
presa dei proceduralismi, delle certificazioni “monopolistiche” - in capo al sistema
educativo pubblico -, delle conformità burocratiche e a mettere in valore, per contro,
il risultato degli apprendimenti, inteso come presa di coscienza di talenti e capacità,
come abilità nella loro messa a frutto per risolvere problemi e per essere efficaci nei
contesti di vita.
In questo modo indiretto di designare il campo delle politiche delle competenze, e di
coglierle all’opera nel dibattito politico internazionale, c’è un paradosso che si può
mettere a fuoco tenendo conto di quello che si è detto del concetto stesso di
competenza. Se la competenza è quello che si è detto, più affare di persona
competente che affare di funzione competente, allora occorre dire che tra le politiche
attive delle competenze e il loro risultato rinvenibile nella persona competente c’è
inevitabilmente un salto che non si supera né con modelli e curricoli ben definiti di
apprendimento (e magari preoccupati di interdisciplinarità) né per decreto; le
politiche educative possono creare condizioni propizie per la maturazione di
competenze così concepite, ma non dare competenze, o più esattamente persone
competenti. Del resto questo, se è evidente per le politiche, non lo è meno per la
messa a punto del concetto di competenza che, quanto più si tenta di serrarlo
nell’analisi, tanto più sembra sottrarsi alle conclusioni che pretendono di spiegare
tutto. Il risultato della persona competente sembra essere più una scommessa
19
(educativa) che l’effetto di un piano (didattico); le politiche possono rendere
ragionevoli la scommessa e il piano, non assicurare senza discontinuità il risultato.
Parlare di politiche delle competenze non può significare che parlare della
promozione delle condizioni che favoriscono la maturazione delle competenze
(curricoli bene articolati, qualità degli insegnanti e dei servizi, ambienti favorevoli
all’apprendimento, risorse adeguate, ricchezza delle opportunità di scelta di
apprendimento ecc.). Si può pianificare la “messa in forma” (la formazione) di abilità
funzionali; improbabile una pianificazione pedagogica, o politica, a definizione
completa della competenza o, più precisamente, della persona competente. Forse
proprio rispetto alle competenze pare legittimo porre una questione oltre che di
obiettivi anche di limiti delle politiche della formazione; ma per dirla tutta, con
Brezinka, della stessa educazione5.
c. Politiche delle best practices
Un terzo campo di politiche della formazione viene in luce, ed è al contempo
propiziato, dai dibattiti internazionali: si tratta del campo che qui chiameremo, da
un’espressione corrente in questi dibattiti, delle best practices. Dovunque in questi
dibattiti risulta insistita la fecondità e la necessità della dimensione del confronto,
dello scambio, della comparazione di esperienze, di elaborazioni culturali dei
problemi e di soluzioni organizzative che la cooperazione internazionale favorisce e
promuove, come in altri campi, così anche in campo educativo. L’importanza delle
politiche di cooperazione, in un mondo in crescente interdipendenza, non ha bisogno
di venire qui particolarmente insistita. E’ vero che nuove spinte ad una sorta di
protezionismo educativo e culturale fanno sentire oggi - per motivi ed interessi
diversi - il loro peso; ma il trend dell’apertura internazionale, come si è più volte
notato, ha ormai la visibilità e l’incisività di uno dei grandi fattori sempre meglio
riconosciuti nel loro impatto e nel loro significato. E in questa direzione svolgono un
lavoro insostituibile proprio gli organismi internazionali; di questo loro lavoro si
vorrebbero qui sottolineare due aspetti tra loro connessi.
20
Il primo aspetto ha a che vedere col fatto che, grazie agli organismi internazionali, sta
mutando profondamente la comparatistica educativa. Innanzitutto essi raccolgono
dati, formulano statistiche, elaborano scenari, mettono in risonanza culture e
tradizioni educative diverse consentendo di avere sotto gli occhi ciò che altri pensano,
fanno e organizzano per rispondere a problemi analoghi. La comparatistica
tradizionale era per lo più bilaterale o poco più; oggi grazie a loro è multilaterale. Gli
organismi internazionali, inoltre, al di là della funzione preziosa che svolgono di
raccolta e aggregazione di dati e informazioni, sono anche grandi laboratori
d’incontro e di confronto di attori e operatori dell’educazione; e per effetto di questo
secondo momento della loro azione, la comparatistica diviene, oltre che multilaterale,
anche ermeneutica: interpretativa, cioè, in diretta (convegni, incontri, seminari, reti di
cooperazione ecc.) di sensibilità, preoccupazioni e delle scale di priorità dei differenti
contesti. In questa comparatistica multilaterale ed ermeneutica quella che viene
ritenuta migliore pratica viene meglio percepita nella sua contestualità; in altre
parole: se ne percepiscono meglio le ragioni, le aspettative e le performance, e se ne
coglie meglio la trasferibilità o meno in altri contesti.
Un secondo aspetto dell’azione degli organismi internazionali in materia di politiche
delle best practices deve essere sottolineato. La migliore pratica non è solo, nella
prevalente cultura educativa di questi organismi, la pratica che tra pratiche omologhe
sperimentate in ambienti omologhi (ad esempio: l’apprendimento della lettura
considerato nella scuola “elementare” italiana, francese, coreana ed americana) risulta
più appropriata a determinati obiettivi. Politiche di best practices nella “nuova”
learning society, propiziata dal “nuovo” sviluppo aperto che hanno particolarmente
presente gli organismi internazionali, sono politiche che promuovono la
fertilizzazione incrociata delle pratiche formative, anche tra ambienti non omologhi
(per esempio tra pratiche formative di scuola, impresa, associazionismo) e
relativamente ad età di apprendimento diverse. Gli specialismi dei saperi e le
autoreferenzialità ambientali possono oggi ostacolare una simile veduta - e simili
politiche - delle best practices; ma nello spazio aperto della learning society la
21
“giovane necessità” (per dirla con Faure) delle best practices, caratteristica di uno
sviluppo aperto, farà la sua strada tra le politiche della formazione e non sarà
irresistibilmente bloccata dai vecchi tic, per così dire, di certi costumi corporativi e di
certi tradizionalismi culturali.
Le tre indicazioni di “nuove politiche” della formazione qui abbozzate - in realtà sono
indicazioni di tre classi di politiche - e che ci sembra di trarre, quasi a riepilogo,
dall’analisi dei dibattiti internazionali proposta in queste pagine, segnalano oltre che
trend auspicabili anche linee di fatto delle politiche reali? Per rispondere servirebbero
delle analisi contestuali complementari; i messaggi che si ricevono dal pianeta delle
politiche reali sono controversi, spesso non trasparenti nei loro intendimenti, e spesso
non sostenuti dall’effettività dell’impegno che la magniloquenza delle dichiarazioni
di principio richiederebbe - e in questo il capitolo relativo alle risorse destinate
all’educazione/formazione è una cartina di tornasole -. Si deve al riguardo notare che
i sistemi educativi sono - per ora! - solidamente in mano ai governi e agli Stati;
ebbene, gli Stati, in sede internazionale, sottoscrivono accordi, dichiarazioni, quadri
d’azione le cui logiche e il cui orientamento sono quelli che si è cercato di ricostruire
in queste pagine; in sede poi di politiche effettive “interne” (e cioè nazionali) gli Stati
sembrano operare secondo altre logiche e altri parametri di priorità. Anche ciò
constatato, non si può tuttavia non riconoscere che, comunque, i dibattiti
internazionali hanno fatto e fanno crescere la cultura e il disegno politico
dell’educazione; e che questa crescita rappresenta un fattore dinamico, anche nei
differenti contesti particolari, di evoluzione e di riforma dei sistemi educativi. E se
per le politiche dell’educazione/formazione effettive, considerate nella concretezza
dei contesti particolari, può valere la circospezione del punto interrogativo del titolo
di questo paragrafo, per la spinta all’innovazione culturale che dai dibattiti
internazionali proviene, questo punto interrogativo ha meno ragione d’essere: nel
laboratorio
internazionale
è
in
elaborazione
una
nuova
cultura
politica
dell’educazione da cui è ragionevole attendersi anche l’effettività di una graduale,
22
forse diseguale e forse faticosa ma via via reale, nuova generazione di politiche della
formazione» (Formazione continua cit., pp.359-367).
4. Politiche della formazione in Europa
Gli anni ’90, come dovunque, ma soprattutto in Europa, segnano una svolta nelle
politiche della formazione. Nell’Unione, con il Trattato di Maastricht, ci si dota di un
nuovo quadro normativo in materia di politiche della formazione e questo quadro
viene delineato con gli artt.126-127-128 del Trattato.
«Lo spazio che questi tre articoli aprono all’iniziativa europea in materia di
formazione e cultura è vasto, e decisamente rappresenta un importante passo avanti
rispetto al precedente quadro normativo. E tuttavia non si può non rilevare come tutti
e tre gli articoli ripetano perentoriamente che, in queste materie, il Consiglio
delibererà in conformità con le procedure previste dall’art.189B (il quale regola il
complesso e macchinoso dispositivo della co-decisione), sentito il Comitato
Economico e Sociale, il Comitato delle Regioni e, comunque, limitandosi ad “azioni
di sostegno, ad esclusione di ogni armonizzazione delle disposizioni legislative e
regolamentari degli Stati membri” (corsivo nostro). Si potrebbe commentare: il passo
in avanti nell’ordine degli obiettivi materiali assegnati all’Unione è innegabile; ma
nell’ordine dei poteri funzionali viene rivendicata la prerogativa degli Stati. Cosicché
pare che, per la materia complessa e delicata dell’educazione e della cultura, un certo
intergovernativismo stretto venga statuito con particolare insistenza.
Tale è rimasta la linea del decennio ’90. E’ dunque all’interno del quadro normativo
tracciato a Maastricht che le politiche dell’Unione in tema di formazione vengono
realizzate negli anni ’90. Si potrebbe sintetizzare: cooperazione in espansione,
materia in dilatazione, ma con un evidente deficit di reale politica comune. Di fatto,
nel campo della formazione l’azione comunitaria è governata da un triplice principio:
sussidiarietà (rispetto all’azione degli Stati); complementarietà (rispetto ad aspetti e
strategie dell’azione degli Stati); “valore aggiunto” (transnazionalità, cooperazione,
qualità ecc..).
23
Un simile quadro normativo, in realtà, priva l’Unione di un proprio potere
sovraordinato di direttiva in materia di politiche della formazione. Cosicché, ad
esempio, l’attuale Commissario per l’Educazione e la Cultura, Viviane Reding, per
tracciare il bilancio di vent’anni di politiche riformatrici nel campo dell’higher
education in Europa nel poderoso Two decades of Reform in Higher Education in
Europe: 1980 onwards (Eurydice, Bruxelles, 2000, pp.567), se da un lato analizza
azioni comuni di cooperazione tra i sistemi educativi degli Stati Membri, spinte
riformatrici comuni indotte dai trend del sistema tecnologico, economico e sociale,
dall’altro traccia questo bilancio attraverso la descrizione delle azioni appunto degli
Stati Membri e la comparazione delle loro autonome strategie: come a sottolineare
che lì è l’epicentro reale della riforma delle politiche della formazione in Europa.
Da un’altra parte, si tratta di essere consapevoli dell’enorme sforzo che l’Unione ha
prodigato in questi anni per promuovere, sostenere e inventare direttamente
cooperazione formativa ed educativa tra i sistemi formativi e tra gli Stati, tra
“stabilimenti” educativi, istituzioni formative e il sistema economico, tecnologico e
politico nazionale ed europeo. Una quantità di azioni che, soprattutto nell’higher
education, sembra aver raggiunto una sorta di massa critica, per il governo della
quale si comincia a percepire come sempre più necessaria una prospettiva “politica”
di spazio formativo europeo comune. Forse, senza questa azione comunitaria,
sebbene limitata dal vincolo legislativo intergovernativista, non sarebbero state
possibili né la Dichiarazione della Sorbona del maggio 1998 (Germania, Francia,
Italia, Regno Unito), né la Dichiarazione di Bologna del giugno 1999 (29 Paesi: 15
EU, 3 EFTA/EEA, 10 Paesi associati dell’Europa Centrale e Orientale, Cipro). Esse
costituiscono per l’higher education un vero e proprio preambolo politico ad
un’azione riformatrice, nella prospettiva di un autentico spazio comune europeo della
formazione o, se si vuole, di una via europea alla formazione.
Ad ogni modo, è tenendo conto di questi elementi normativi che strutturano le azioni
dell’Unione in materia di formazione che si può meglio cogliere anche la filosofia dei
documenti del decennio» (“Learning society”, “Lifelong learning” cit., pp.203-206).
24
I principali documenti del decennio ’90 in materia di politiche della formazione sono
il Libro verde del 1993; il noto Libro bianco di Delors del 1994: Crescita,
competitività, occupazione, che centra le politiche della formazione sui problemi del
lavoro, dell’occupazione e della riqualificazione delle risorse umane; il Libro bianco
Cresson (White paper on education and training – Towards the learning society) del
1995; la comunicazione della Commissione: Towards a Europe of knowledge del
1997, che conclude il dibattito sul White paper e ne traccia il follow-up, anticipando
così per tanti aspetti gli orientamenti del Consiglio europeo di Lisbona (Per un’analisi
di questi documenti, cfr. A.L. PAVAN, “Learning society”, “Lifelong learning” cit.,
pp.206-229).
«La figura “Europa della conoscenza”, a partire dal dopo-White paper, sembra ormai
tradurre l’essenziale della nuova filosofia comunitaria. E a questa figura è consacrato
il menzionato follow-up affidato dalla Commissione al documento: Towards a
Europe of knowledge.
La Commissione, innanzitutto, dichiara di voler fare delle politiche che sono il
motore naturale della “società della conoscenza” (innovazione, ricerca, educazione,
formazione) una delle “quattro assi fondamentali delle politiche interne dell’Unione”.
Sostiene, più precisamente, di voler attivare queste politiche attorno al main project
del lifelong learning, che costituisce il cuore delle strategie per “un accesso allargato
all’educazione e per un permanente aggiornamento delle conoscenze” (permanent
updating, mise à jour permanente)6.
Su questa base, e salvaguardando per le politiche dell’educazione e della formazione
l’ “acquis communautaire” - termine caro al lessico della cultura politica comunitaria
- la Commissione ritiene che debba essere lanciata una nuova generazione di azioni,
articolate su: un numero limitato di obiettivi; la concentrazione delle azioni; la
semplificazione della gestione. Queste azioni avranno tutte lo scopo comune di
“costruire progressivamente uno spazio educativo europeo”7, che sarà sempre più lo
spazio dell’ “Europa della conoscenza”. E’, quest’ultimo, termine che in parte
sviluppa e in parte modifica la semantica, fin qui prevalente, di learning society;
25
forse, rispetto alla figura “Europa della conoscenza”, la figura learning society pare
configurarsi come una specie di pre-condizione. L’Europa della conoscenza a cui la
Commissione guarda ha due principali obiettivi sovraordinati a tutte le strategie di
settore. Il primo obiettivo è costituito da tutte le vere e proprie politiche della
conoscenza - i cui campi sono quelli già ricordati: innovazione, ricerca, educazione,
formazione - destinate ad acquisire crescente importanza, dato che la stessa
competitività economica, così come l’occupazione, “non si basano e non si baseranno
più principalmente sulla produzione dei beni materiali. La vera ricchezza è ormai
legata alla produzione e alla diffusione della conoscenza”8. Il secondo obiettivo
sovraordinato è quello “della promozione dell’occupazione”9, che non può oggi
prescindere, nel nuovo regime dell’ “economia immateriale” e a medio termine, dalla
necessità di elevare il livello delle conoscenze e delle competenze. E la Commissione
ricorda che il Consiglio europeo di Amsterdam ha stabilito, a questo scopo,
un’accentuata priorità per le strategie dello sviluppo di “competenze professionali e
sociali per un migliore adattamento dei lavoratori all’evoluzione del mercato del
lavoro”10. E se queste strategie implicano tre dimensioni fondamentali - conoscenza,
cittadinanza, competenza - gli obiettivi cui la Commissione intende ordinare
l’insieme delle strategie sono di nuova generazione e di “numero limitato”. Si tratta
di “sei grandi tipi di misure”: azioni di mobilità fisica; azioni di promozione di
mobilità virtuali (e cioè: diffusione dell’uso delle TIC, produzione di servizi e mezzi
per la multimedialità ecc…); promozione di reti di cooperazione, anche in vista di
evidenziare - diffondere l’ “eccellenza europea”. E inoltre: promozione delle
competenze linguistiche e della comprensione delle differenti culture; sostegno alle
azioni di innovazione, anche attraverso progetti - pilota; azioni di “miglioramento
continuo dei termini di riferimento dell’Unione nei singoli Stati Membri” (database,
dati-chiave, reciproca conoscenza dei sistemi educativi ecc.). Per la realizzazione di
tutti i citati obiettivi11, che saranno perseguiti a livello transnazionale, verranno
attivati i partner europei a vari livelli (statale, territoriale) e in vari ambiti: partner
educativi, sociali, economici e della società civile12. Altrimenti detto: sarà attivata la
26
realtà della learning society, e cioè quella figura nella quale è qui sembrato di poter
ravvisare, nella evoluzione della filosofia e dei linguaggi dell’Unione concernenti le
politiche della formazione, la pre-condizione dell’Europa della conoscenza, o della
knowledge society» (“Learning society”, “Lifelong learning” cit., pp.229-230).
«Il processo fin qui rapidamente sintetizzato è destinato a ricevere un impulso di
accelerazione dal Consiglio europeo di Lisbona (23-24 marzo 2000), a tutt’oggi
identificato come il punto di rilancio delle politiche dell’Unione. Probabilmente gli
scenari che hanno generato l’ottimismo europeo di Lisbona non sono oggi già più gli
stessi, ma qui conviene accostare l’evento Lisbona per come è stato allora percepito,
soprattutto perché, anche in materia di politiche della formazione e di quelle della
formazione continua in particolare, l’appuntamento di Lisbona ha realmente
funzionato da catalizzatore del bisogno di riforma e di innovazione.
Il Consiglio europeo di Lisbona viene preparato dal Consiglio europeo di Colonia (34 giugno 1999) che rappresenta il momento in cui gli anni ’90, in materia di politiche
economiche e sociali, trovano una sorta di fuoco di convergenza attorno al “patto
europeo per l’occupazione”13. Verso questo patto il Consiglio europeo di Colonia si
propone di orientare: il processo di Colonia (quadro macroeconomico: miglioramento
dell’interazione tra evoluzione salariale e politica monetaria, finanziaria e di
bilancio), il processo di Lussemburgo (efficienza dei mercati del lavoro e
dell’occupazione, imprenditorialità, adattabilità imprese-lavoratori ecc), il processo
di Cardiff (riforma e ammodernamento strutturale globale per migliorare le capacità
innovative e l’efficienza dei mercati del lavoro, dei beni, dei servizi e dei capitali).
Un governo più unitario delle politiche connesse a questi tre processi appare, allora,
la condizione per assicurare un posizionamento adeguato al soggetto economico e
sociale Europa nei processi di globalizzazione. Questo posizionamento, peraltro, deve
fare i conti con due differenti fattori. Da una parte la constatazione che la situazione
dell’occupazione resta difficile in Europa; da un’altra, la consapevolezza che questa
difficoltà può essere affrontata solo con nuove strategie: “Le innovazioni e la società
dell’informazione creano i posti di lavoro di domani”, e la consapevolezza, altresì,
27
che “quanto più l’Europa diventerà competitiva nel settore dell’alta tecnologia, tanto
più numerose saranno le opportunità occupazionali di alto valore”14.
E’ all’incrocio di queste constatazioni e di queste consapevolezze che il Consiglio
europeo di Colonia rilancia le politiche dei tre menzionati processi e propone il
monitoraggio dei progressi su questa strada tramite un Consiglio annuale da tenersi in
primavera. Si formula quindi “la decisione di convocare una prima riunione
straordinaria del Consiglio europeo sull’occupazione, la riforma economica e la
coesione sociale Verso un’Europa dell’innovazione e dei saperi, sotto la presidenza
portoghese nella primavera del 2000”15. E’ il primo annuncio dell’ormai pluricitato
Consiglio europeo di Lisbona, che si svolge nei giorni 23 e 24 marzo 2000.
Il quadro stabilito a Colonia va tenuto presente per capire l’ottica generale nella quale
emerge il rilancio delle politiche della formazione: un’ottica sociale generale ed
economica. E in effetti, a Lisbona, dei sei capitoli in cui le conclusioni della
Presidenza articolano le deliberazioni consiliari, quello di gran lunga più ampio è il
Capitolo Primo, dedicato ad Occupazione, riforme economiche e coesione sociale16;
ed è dentro questo capitolo che si inaugura la nuova stagione delle politiche della
formazione.
Preso atto che “l’Unione europea si trova dinanzi a una svolta epocale risultante dalla
globalizzazione e dalle sfide rappresentate da una nuova economia basata sulla
conoscenza”17, se ne inferisce che questi “cambiamenti interessano ogni aspetto della
vita delle persone e richiedono una trasformazione radicale dell’economia”, e sono
processi a cui l’Unione deve accingersi “in modo coerente con i propri valori e
concetti di società”18. Rispetto a questo compito di innovazione, l’Unione ha risorse
cospicue da mettere in campo: euro, mercato unico, bilancia dei pagamenti in
equilibrio, “una forza lavoro con un elevato livello di formazione”, sistemi di
protezione sociale abbastanza articolati e stabilizzatori da consentire di gestire i
mutamenti strutturali derivanti dal passaggio verso una società basata sulla
conoscenza; è in atto una ripresa della crescita e della creazione di posti di lavoro.
Cosicché, malgrado i 15 milioni di europei disoccupati e il tasso di occupazione
28
eccessivamente basso - con un tasso di partecipazione delle donne insufficiente al
mercato del lavoro - se ne trae un bilancio positivo, e nel contesto di un simile
bilancio si assume che “dato l’attuale miglioramento della situazione economica, è
questo il momento di intraprendere riforme sia economiche che sociali nel quadro di
una strategia positiva che combini competitività e coesione sociale”19.
E’ questa la diagnosi della congiuntura sul fondamento della quale viene formulato il
famoso obiettivo politico-economico dell’Unione per i prossimi anni e da realizzarsi
entro il 2010: “L’Unione si è ora prefissata un nuovo obiettivo strategico per il nuovo
decennio: diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica
del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e
migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale. Il raggiungimento di questo
obiettivo richiede una strategia globale volta a:
-predisporre il passaggio verso un’economia e una società basate sulla conoscenza
migliorando le politiche in materia di società dell’informazione e di R&S, nonché
accelerando il processo di riforma strutturale ai fini della competitività e
dell’innovazione e completando il mercato interno;
-modernizzare il modello sociale europeo, investendo nelle persone e combattendo
l’esclusione sociale;
-sostenere il contesto economico sano e le prospettive di crescita favorevoli
applicando un’adeguata combinazione di politiche macroeconomiche”20.
Questa, e non meno di questa, l’ambizione di Lisbona» (Formazione continua cit.,
pp.129-131).
«A Lisbona l’attenzione viene innanzitutto puntata sui sistemi (formali) di istruzione
e formazione dei quali si osserva che “devono venire adeguati alle esigenze della
società dei saperi e alla necessità di migliorare il livello e la qualità dell’occupazione.
Dovranno offrire possibilità di apprendimento e formazione adeguate ai target group
nelle diverse fasi della vita: giovani, adulti disoccupati e persone occupate soggette al
rischio che le loro competenze siano rese obsolete dai rapidi cambiamenti. Questo
nuovo approccio dovrebbe avere tre componenti principali: lo sviluppo di centri
29
locali di apprendimento, la promozione di nuove competenze di base, particolarmente
nelle tecnologie dell’informazione, qualifiche più trasparenti”21.
Alla luce di questa nuova consapevolezza della necessità di migliorare la qualità della
formazione, il Consiglio europeo formula la seguente agenda di obiettivi generali
comuni:
-aumentare in modo sostanziale gli investimenti pro-capite in risorse umane;
-dimezzare entro il 2010 il numero di giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno seguito
solo il livello più basso di studi secondari e che non continuano gli studi (e non
intraprendono altro tipo di formazione);
-trasformare le scuole e i centri di formazione, tutti collegati a Internet, in centri
locali di apprendimento plurifunzionali accessibili a tutti in un quadro di
“partenariato di apprendimento” diffuso tra scuole, centri di formazione, imprese e
strutture di ricerca;
-elaborare un quadro europeo di definizione delle nuove competenze di base da
fornire lungo tutto l’arco della vita: “competenze in materia di tecnologie
dell’informazione,
lingue straniere,
cultura
tecnologica,
imprenditorialità
e
competenze sociali”;
-promuovere “l’alfabetizzazione digitale” (anche prevedendo un diploma europeo per
le competenze di base in materia di tecnologie dell’informazione, con procedure di
certificazione decentrate);
-promuovere la mobilità di studenti, docenti e personale del campo della formazione
e della ricerca (rimuovendo gli ostacoli anche con una maggiore trasparenza nel
riconoscimento delle qualifiche e dei periodi di studio e formazione);
-elaborare un modello comune europeo di curriculum vitae, “da utilizzare su base
volontaria, per favorire la mobilità contribuendo alla valutazione delle conoscenze
acquisite, sia negli istituti di insegnamento e formazione sia presso i datori di
lavoro”22.
Rispetto a questo complesso di obiettivi generali comuni - definito nel quadro delle
politiche “istruzione e formazione per vivere e lavorare nella società dei saperi” - il
30
Consiglio europeo “chiede al Consiglio Istruzione di avviare una riflessione generale
sui concreti futuri obiettivi dei sistemi di istruzione, incentrata sulle preoccupazioni e
priorità comuni nel rispetto delle diversità nazionali, per contribuire ai processi di
Lussemburgo e di Cardiff e presentare al Consiglio europeo una relazione di più
ampia portata nella primavera 2001”23.
Ma le politiche della formazione emergono, sempre al Consiglio europeo di Lisbona,
anche
nell’ambito
delle
politiche
di
“sviluppo
di
una
strategia
attiva
dell’occupazione” (processo di Lussemburgo). Qui il Consiglio europeo chiede al
Consiglio Istruzione e alla Commissione di esaminare quattro punti chiave.
-“Migliorare l’occupabilità e colmare le lacune in materia di qualificazioni, in
particolare fornendo servizi di collocamento mediante una base di dati a livello
europeo riguardante i posti di lavoro e le possibilità di apprendimento; promuovere
programmi speciali intesi a permettere ai disoccupati di colmare le lacune in materia
di qualificazioni;
-attribuire una più elevata priorità all’attività di apprendimento lungo tutto l’arco
della vita quale elemento di base del modello sociale europeo, promuovendo altresì
accordi tra le parti sociali in materia di innovazione e apprendimento lungo tutto
l’arco della vita, sfruttando la complementarità tra tale apprendimento e l’adattabilità
delle imprese e del loro personale mediante una gestione flessibile dell’orario di
lavoro e l’impiego a rotazione e introducendo un riconoscimento europeo per imprese
particolarmente avanzate. I progressi verso questi obiettivi dovrebbero essere oggetto
di analisi comparativa;
-accrescere l’occupazione nei servizi, compresi i servizi personali in cui esiste una
notevole scarsità di manodopera; sono possibili iniziative private, pubbliche o del
terzo settore, con soluzioni appropriate a favore delle categorie più svantaggiate;
-favorire tutti gli aspetti della parità di opportunità, compresa la riduzione della
segregazione occupazionale, e rendendo più facile conciliare la vita professionale con
la vita familiare, in particolare effettuando una nuova analisi comparativa in materia
31
di miglioramento dei servizi di custodia dei bambini”24» (Formazione continua cit.,
pp.133-135).
«Intorno a Lisbona e alla sua ambizione di rilancio competitivo della via europea allo
sviluppo, è stato avviato un nuovo sforzo di integrazione delle politiche di settore
dell’Unione (processi di Colonia, Lussemburgo e Cardiff) dentro il nuovo quadro
società della conoscenza. In esso, par le biais delle preoccupazioni sociali,
occupazione in primis, è stato portato in primo piano il ruolo delle politiche
dell’istruzione e della formazione; e tra queste politiche l’educazione/formazione
continua è venuta progressivamente assumendo rilievo come obiettivo metasettoriale,
o strategia e cultura generale dell’educazione/formazione. Questa pare la base
documentabile della nuova griglia concettuale che nell’Unione europea è oggi in
corso di allestimento per ripensare e riprogettare le politiche della formazione»
(Formazione continua cit., p.136).
Dopo Lisbona, il grande dibattito sul Memorandum dà modo alla Commissione
europea di riprendere quell’ambizione e di circostanziare un’agenda delle priorità
delle politiche europee della formazione per questi anni. Questa agenda viene
articolata
in
sei
punti,
nel
documento
Realizzare
uno
spazio
europeo
dell’apprendimento permanente.
«1. Valorizzare l’apprendimento
Stabilito che ai fini della valorizzazione dell’apprendimento occorre far avanzare la
possibilità di riconoscimento di tutti gli apprendimenti comunque acquisiti, di
collegare tra loro in un quadro trasparente tutti questi apprendimenti, di mettere a
frutto a questo scopo la collaborazione di tutti i fornitori di servizi educativi e
formativi per determinare insieme il valore dei vari apprendimenti, anche ai fini della
validazione e del riconoscimento, la Commissione stabilisce tre obiettivi prioritari e
le relative azioni mirate:
-valorizzare i diplomi e i certificati formali: Commissione, Stati Membri e parti
sociali esamineranno la possibilità di standard comuni di qualità minima per
l’istruzione e la formazione; la Commissione elaborerà entro il 2002 una guida e un
32
glossario sugli strumenti comunitari nel campo della trasparenza dei diplomi e dei
certificati: un CV europeo; Diploma Supplement; Europass Training; ECTS (Sistema
Europeo di Trasferimento di Unità di corso Capitalizzabili); la Commissione, inoltre,
promuoverà accordi per la creazione a titolo volontario di diplomi e certificati
europei, stabilendone i relativi criteri25;
-valorizzare l’apprendimento non-formale e informale: entro il 2002 la Commissione
avvierà un sistematico scambio di esperienze al riguardo nel contesto del Forum
europeo sulla trasparenza delle qualifiche. Entro la fine del 2003, elaborerà un
inventario delle metodologie e delle norme per il riconoscimento dell’apprendimento
non-formale e informale; gli Stati saranno incoraggiati a mettere a punto il quadro
giuridico per questi processi di identificazione, valutazione e riconoscimento. Al loro
interno, gli Stati dovrebbero sollecitare università, istituzioni di istruzione e le
organizzazioni interessate (centri di ricerca ecc.) ad attuare sistematicamente misure
di valutazione e di riconoscimento dell’apprendimento non-formale e informale;
-allestire nuovi strumenti a livello europeo a sostegno della validazione
dell’apprendimento in tutte le sue forme: la Commissione è impegnata, entro il 2002,
ad elaborare un progetto di portafoglio delle competenze in cui registrare tutte le
qualifiche e le competenze acquisite in modo che il titolare di tali competenze possa
“presentarle” nei differenti contesti di vita e di lavoro. Inoltre, in collaborazione con
gli Stati Membri, elaborerà entro il 2003 un sistema modulare di cumulo delle
qualifiche acquisite in Paesi diversi e in diverse Istituzioni dell’Unione26.
2. Informazione, orientamento e consulenza
Questo comparto delle proposte della Commissione viene esplicitamente messo in
collegamento con le politiche volte ad agevolare l’accesso all’apprendimento, a
creare una cultura dell’apprendimento e a lavorare in partenariato. Due livelli di
azioni vengono particolarmente considerati dalla Commissione: il livello del
rafforzamento, della qualificazione, di un migliore collegamento dell’esistente
nell’ambito della singole istituzioni di istruzione (nei contesti locale, regionale e
nazionale); e il livello di partenariato europeo “raccomandato in sede di
33
consultazione”27. In questo secondo quadro, la Commissione si propone di aprire un
portale Internet “consacrato alle opportunità di apprendimento negli Stati Membri e
nei Paesi candidati” e di realizzare entro il 2002 un forum europeo sull’orientamento,
che “dovrebbe pervenire ad una definizione comune dei concetti di base e dei principi
fondamentali dell’orientamento”28.
3. Investire tempo e denaro nell’apprendimento
“Dal processo di consultazione è emerso un ampio consenso sulla necessità di
aumentare significativamente il livello globale di investimento onde assicurare la
transizione verso la società della conoscenza, e si è anche ribadito che le spese
consacrate all’apprendimento dovrebbero essere evidenziate e contabilizzate
analogamente alle spese realizzate per forme più tangibili di investimento di
capitali”29.
Questa “filosofia” dovrebbe innanzitutto attivare la parte pubblica - che resta,
comunque, l’attore fondamentale degli investimenti nell’istruzione - ma anche gli
altri attori, in primis gli imprenditori: ad esempio, propone la Commissione,
“riservando 35 ore per anno all’apprendimento di ciascun lavoratore” e, aggiunge,
potrebbe essere questo “un riferimento realistico”30. Ma imposizioni dall’alto non
sono possibili: “Saranno quindi inevitabili scelte difficili”, commenta un po’
sibillinamente la Commissione31. Comunque sia, si tratta di aumentare i livelli di
investimento rendendoli più trasparenti. Un invito viene rivolto, in specifica
connessione con l’apprendimento continuo, alla Banca Europea per gli Investimenti
(infrastrutture, formazione insegnanti, centri locali di apprendimento) e al Fondo
Europeo di Investimento (promozione di capitali di rischio individuali per sostenere il
capitale umano, con un particolare riguardo alle azioni di formazione nelle PMI). Un
invito viene rivolto agli Stati Membri per sviluppare ulteriormente il ricorso al FSE
“che
è
già
il
principale
strumento
comunitario
per
il
finanziamento
dell’apprendimento permanente”32, mentre alle “parti sociali” viene rivolto l’invito a
negoziare accordi per la modernizzazione in modo da accrescere l’investimento
nell’apprendimento permanente.
34
Un’ulteriore proposta della Commissione riguarda gli incentivi per agevolare gli
investimenti: finanziamenti individuali nella forma di conti individuali di
apprendimento;
incentivi
fiscali
a
singoli
ed
imprese
per
finanziamenti
all’apprendimento; e la Commissione propone, ancora, in collaborazione con gli
Stati, di elaborare degli standard di valutazione del rendimento e dei risultati
dell’investimento in apprendimento.
4. Avvicinare learner e opportunità di apprendimento
Tema strategico del Memorandum, questa priorità di azione non si esaurisce nella
proposta della creazione di Centri polifunzionali locali di apprendimento, ma implica
almeno tre aspetti: solidi ed efficaci partenariati locali attorno ai Centri polifunzionali
locali; sostegno alle collettività, alle città, alle regioni che apprendono (e di cui i
centri locali possono essere una delle iniziative); sostegno e incoraggiamento
all’apprendimento sul luogo di lavoro, sostegno e incoraggiamento che le parti sociali
dovrebbero trovare modo di fare oggetto delle loro negoziazioni.
5. Competenze di base
Si è visto che si tratta del tema-chiave della strategia apprendimento continuo.
Considerando tutto quanto si è già detto a loro riguardo, la Commissione si propone
due obiettivi: quello più mirato di determinare meglio il contenuto del pacchetto
“competenze di base”, quale può essere definito dopo la consultazione sul
Memorandum e come follow-up della relazione sui concreti futuri obiettivi dei
sistemi di istruzione; e quello più generale di mettere le competenze di base
effettivamente alla portata di tutti, nel quadro del diritto all’apprendimento sancito
dalla Carta dei diritti fondamentali. E con un po’ di utopia, la Commissione invita le
parti sociali a concludere accordi relativi alla promozione dell’accesso alle
competenze di base; in particolare proponendosi l’obiettivo, entro il 2003, di “offrire
a ciascun lavoratore l’occasione di acquisire un’alfabetizzazione adatta alla società
dell’informazione”33.
6. Soluzioni pedagogiche innovative
35
Si è visto che attorno all’apprendimento continuo è in realtà in atto un processo di
spostamento dell’intero quadro di riferimento pedagogico: dall’insegnamento
all’apprendimento; dall’istituzione al learner; dalle conoscenze alle competenze. Nel
pensare questo spostamento, la Commissione fa propria la nota affermazione
dell’UNESCO secondo cui sta diventando centrale la prospettiva dell’ “apprendere ad
apprendere” che finirà per trasformare lo stesso insegnante in un mediatore di
apprendimento34, e assume poi questo termine nel glossario annesso al documento
qui preso in esame.
In questa prospettiva, la Commissione ritiene che sia prioritaria un’azione di
formazione degli insegnanti e dei formatori35, anche attraverso i Programmi europei
Socrates II e Leonardo da Vinci; un’azione di ricerca e di sperimentazione sui nuovi
modi d’insegnamento nei contesti formali e non-formali; l’utilizzo delle TIC. Inoltre
si propone, in collaborazione con gli Stati Membri, le parti sociali e le ONG
internazionali, di elaborare entro il 2003 raccomandazioni in materia di qualità
destinate alle organizzazioni che apprendono al di fuori del contesto dell’istruzione e
formazione formale, e da adottare su base volontaria.
Come si vede, non tutte le priorità hanno un’uguale definizione circostanziata di
obiettivi e di tempi: per alcune, soprattutto in ciò che riguarda gli impegni propri del
livello europeo, la fisionomia pare più precisa; per la più parte sono indirizzi di
azione che, essendo affidati alla titolarità di competenza di attori autonomi (Stati, enti
locali, erogatori di servizi formativi non pubblici ecc.) divengono un appello in
chiave condizionale (“dovrebbe”, “dovrebbero”….). E’ certo, comunque, che nel loro
insieme la cultura promossa dal Memorandum e le proposte conseguenti alla
consultazione e che sono consegnate al documento Realizzare uno spazio europeo
dell’apprendimento permanente determinano un clima nuovo nel Continente.
Apprendimento continuo come strategia comune non vuol già dire legislazione
comune, evidentemente; ma non vuol più nemmeno dire ordine sparso di azioni e
ordini di priorità di sistemi nazionali e di attori. Tra queste due ipotesi,
36
l’apprendimento continuo sta divenendo in Europa - e per verità non solo in Europa al tempo stesso il luogo del riconoscimento comune di una necessità storica, almeno
se si vogliono salvaguardare le ragioni della democrazia e dello sviluppo, e della
ricerca e sperimentazione di risposte valide a questa necessità» (Formazione continua
cit., pp.221-225).
Note
1
Fin dal Rapporto Faure (1972) - come si vedrà nelle pagine della Parte Terza di questo volume dedicate appunto anche
al Rapporto Faure - la formazione continua viene percepita come necessaria non solo per le società sviluppate, ma
anche per le società in via di sviluppo.
2
Un’analisi più puntuale di questa “emersione”, o della “svolta degli anni ’90” che si determina attorno alla formazione
continua, si può trovare anche nelle pagine di questo volume; cfr. inoltre A.L. PAVAN, “Learning society”, “Lifelong
learning”: figure e linee-guida dal recente dibattito europeo, in AA.VV., Formazione in età di learning society, a cura
di A.L. PAVAN e F. RUSSO, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2001, pp.199-244; A.L. PAVAN, Pratiche, teorie
e politiche dell’educazione: un difficile circolo virtuoso, in AA.VV., Educazione versus formazione - Processi di
riforma dei sistemi educativi e innovazione universitaria, a cura di L. GALLIANI, Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli, 2003 pp.125-139.
3
Z. BAUMAN, La società individualizzata, Il Mulino, Bologna, 2002, pp.175-176
4
Cfr. D. DEMETRIO, A. ALBERICI, Istituzioni di educazione degli adulti, Guerini Associati, Milano, 2002, pp.266274.
5
W. BREZINKA, Obiettivi e limiti dell’educazione, Armando, Roma, 2002.
6
Towards a Europe of knowledge, Communication from the Commission, COM (97) 563 final, p.2.
7
Ibid., p.3.
8
Ibid., p.4.
9
Ibid.
10
Ibid., pp.4-5.
11
Ibid., pp.6-8.
12
Ibid., p.8.
13
Consiglio europeo di Colonia, 3-4 giugno 1999 - Conclusioni della Presidenza.
14
Ibid.
15
Ibid.
16
Gli altri capitoli sono: Politica europea comune in materia di sicurezza e di difesa (II); Balcani occidentali (III); Russia
(IV); Conferenza intergovernativa (V); Regioni ultraperiferiche (VI): cfr. Consiglio europeo di Lisbona, 23-24 marzo
2000 - Conclusioni della Presidenza.
17
Ibid., p.1.
18
Ibid.
37
19
Ibid., p.2 (corsivo nostro).
20
Ibid. (corsivo nostro).
21
Ibid.
22
Cfr. Ibid., p.9.
23
Ibid. (corsivo nostro).
24
Ibid., p.10 (corsivo nostro).
25
COMMISSIONE DELLE COMUNITA’ EUROPEE, Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento
permanente, Bruxelles, 21/11/01, COM (2001) 678 def., p.19.
26
Ibid., p.20.
27
Ibid., p.21.
28
Ibid.
29
Ibid., p.22.
30
Ibid.
31
Ibid.
32
Ibid., p.23.
33
Ibid., p.27.
34
Ibid., p.28; cfr. anche l’Allegato II: Glossario, voce: Mediatori di apprendimento: “Qualsiasi persona agevoli
l’acquisizione di conoscenza e competenze determinando un contesto di apprendimento favorevole, comprese le
persone che esercitano una funzione di insegnamento, formazione o orientamento. Il mediatore orienta il discente
fornendogli linee-guida, commenti e consigli nel corso del processo di apprendimento oltre ad assisterlo nello sviluppo
delle conoscenze e competenze” (Ibid.,p.39).
35
Ibid., p.29.
38