effetto house of cards: finzione o realtà?
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effetto house of cards: finzione o realtà?
Rivista mensile Anno XII 112 — 03.2016 8 euro MARCO FOLLINI CARLO FRECCERO FABIO BENINCASA ANTONIO CAMPATI NICOLA PASINI GIANLUCA COMIN SERGIO FABBRINI JOHN PITNEY JR. POTERE 60112 991003 771824 9 ISSN 1824-9914 Recapito a cura di Nexive EFFETTO HOUSE OF CARDS: FINZIONE O REALTÀ? ESTERI_LA RIVOLUZIONE DEI GELSOMINI, CINQUE ANNI DOPO L. CAMPBELL/ R. REDAELLI/ K. MOUAL/ C. PANELLA/ I. BEN MOHAMED/ O. MEJRI/ I. FAKIR REFERENDUM_TRIVELLE OFF-SHORE, C’È CHI DICE (SEMPRE) NO A. BEULCKE/ A. CLÒ/ D. TABARELLI/ G. SCACCIA/ G. ROSANA IDEE_COMUNICARE L’IMPRESA PER RACCONTARE IL PAESE R. FONTANA/ M. BARDAZZI/ A. FALESSI/ C. VENTURA/ F. FABRETTI IL NOCCIOLO Dove si gioca la partita Arriva per tutti. Forse è giunta anche per Matteo Renzi. Parliamo della fine dell’età dell’innocenza, ovvero di quel periodo che segna una sorta di luna di miele fra governo, opinione pubblica ed establishment. Proprio quando l’ex sindaco di Firenze ha festeggiato il suo secondo compleanno a Palazzo Chigi sono emersi i segni più evidenti di una linea di frattura che va facendosi più profonda. Nulla di davvero allarmante, ma dalle polemiche sulle vicende di Banca Etruria sino alla controversa gestione del provvedimento sulle unioni civili (il cosiddetto ddl Cirinnà) l’impressione è che la marcia apparentemente inarrestabile del giovane rottamatore sia invece ora in affanno. Che sia l’inizio della fine o più semplicemente la fine dell’inizio qui importa poco. A suscitare interesse e attenzione è piuttosto la riflessione sul modello di governance espresso e rappresentato da Matteo Renzi. La sua leadership si è infatti manifestata sin dal primo momento con una forza mai vista in precedenza, in Italia. Il concetto di rottamazione è stato declinato ben oltre la classica idea di spoil system. I critici del premier hanno scritto e scrivono di occupazione del potere. I benevoli sottolineano il fatto che in virtù di una responsabilità molto precisa (la guida del governo), discende una sorta di diritto-dovere a esprimere una squadra che sia a sua immagine e somiglianza e di cui lo stesso Renzi è garante presso l’elettorato. In effetti, il punto di crisi sta proprio qui. La filiera corta del processo decisionale concentrato tutto su Palazzo Chigi inizia a provocare malcontenti che dall’élite si stanno diffondendo anche presso settori più ampi dell’opinione pubblica. La stessa volontà di Renzi di mettere in palio la sua testa (politica) al prossimo referendum sulle riforme istituzionali la dice lunga sia sulla sua capacità di rilancio sia sulla coerenza del suo disegno. Nel mezzo rischia di esplodere la grana delle amministrative, dove il secondo turno si presenterà dappertutto come la scelta fra il candidato “governativo” del Pd e l’outsider (che sia del centrodestra o del M5S poco importa). Quello sarà un banco di prova per misurare gli umori e per testare il meccanismo di una legge elettorale, quella dei sindaci, che di fatto ha ispirato l’Italicum. Vedremo. Nel frattempo, però, il premier ha scoperto che il fronte vero delle sue sfide è all’estero. Bruxelles ma anche Washington, Mosca, Tripoli, Il Cairo, Pechino. Le partite più importanti si giocano in trasferta. Ecco perché forse serve una maggiore motivazione negli spogliatoi e in particolare perché è necessario tenere unito il Paese. Nel braccio di ferro con l’Ue, ad esempio, è evidente che fa una certa differenza se la battaglia è una questione di Renzi o un affare dell’Italia tutta intera. Includere maggiormente sul piano interno non significa mollare la presa su quel poco di potere che il Paese può offrire, ma è l’unico modo per avere la forza di conquistare una briciola del potere vero, quello che si trova fuori dai nostri confini e che non si conquista da soli, a mani nude. Dopo l’età dell’innocenza segue quella della maturità. Oppure non segue nulla. Rivista fondata da Paolo Messa Direttore responsabile Flavia Giacobbe Hanno collaborato Francesca Scaringella e Valeria Serpentini Direttore editoriale Gustavo Piga Progetto grafico Studiofluo Impaginazione e illustrazioni essegistudio – roma Stampato in Italia da Rubbettino Print viale Rubbettino 10 88049 Soveria Mannelli Redazione [email protected] Pubblicità [email protected] Editore Base per altezza s.r.l. corso Vittorio Emanuele ii, 18 00186 Roma telefono 06 454 73 850 fax 06 455 41 354 partita iva 05831140966 Consiglio di amministrazione Presidente Gianluca Calvosa Consiglieri Giovanni Lo Storto, Chicco Testa, Brunetto Tini C M Y CM MY CY CMY K Registrazione presso il Tribunale di Roma, n. 194/2008 n.s. Consulenza Strategica Formiche lascia agli autori la responsabilità delle opinioni espresse. I manoscritti inviati non si restituiscono. L’editore è a disposizione degli eventuali proprietari dei diritti sulle immagini riprodotte, nel caso non si fosse riusciti a reperirli Advertising In copertina: Elaborazione grafica del poster della iv stagione di House of cards – © Netflix Formazione Abbonamento annuale (11 numeri) Ordinario 39,99 euro Sostenitore 1.000 euro Tutte le informazioni per l’acquisto su www.formiche.net Recapito a cura di Nexive [email protected] Corporate Identity Eventi e BTL Digital e New Digital Progetti Speciali PR e Media Relations Fundraising Concessionaria di spazi pubblicitari formiche Rivista mensile 8 euro, marzo 2016 IL NOCCIOLO 1 Dove si gioca la partita STORIA DI COPERTINA Apologia del cinismo in politica 6 Marco Follini Chi ha paura di House of cards 8 Carlo Freccero La lettura critica della società passa per la fiction 12 Fabio Benincasa La tragedia della politica da Machiavelli a Shakespeare 14 Antonio Campati L’eterna seduzione del potere 16 Nicola Pasini Dove finisce il bene comune? 18 Gianluca Comin Il realismo, il Principe e le lobby 20 Sergio Fabbrini Dr Renzi e Mr Sottobosco 22 John J. Pitney Jr. La regola del più forte e l’esempio di Trump ECONOMIA Tra Europa e Usa, un nuovo accordo sui dati personali 28 Simone Crolla Dal Safe harbour al Privacy shield 38 Massimiliano Salini Tra sicurezza e autonomia ESTERI Rivoluzione dei gelsomini, cinque anni dopo 46 Leslie Campbell e Anna Mysliwicz Tunisia, ultima chiamata per la classe dirigente 48 Riccardo Redaelli I confini pericolosi e il ruolo dell’Europa 50 Karima Moual Perché la primavera non si trasformi in inverno 52 Carlo Panella Senza un piano Marshall 54 Imen Ben Mohamed Un modello economico da riformare 56 Ouejdane Mejri Una politica lontana dalla piazza PAPER 58 Intissar Fakir e Dalia Ghanem Yazbeck Guai neri per la vicina Algeria AMBIENTE C’è chi dice (sempre) No 66 Alessandro Beulcke La sindrome Nimby vincerà di nuovo? 31 Antonello Giacomelli Il vuoto fa meno paura 68 Alberto Clò La disinformazione come arma dei no-triv 32 Cosimo Maria Ferri Rafforziamo i vincoli giuridici 70 Davide Tabarelli Il nodo è il confronto Stato-Regioni 34 Sergio Boccadutri I risvolti per Ttip e data protection 72 Gino Scaccia I dilemmi della Corte 36 Guido Scorza La dura legge di Bruxelles 75 Gabriele Rosana Quando la frizione sale ai piani alti Numero chiuso in redazione il 23 febbraio 2016 Finito di stampare il 29 febbraio 2016 IDEE Comunicare l’impresa per raccontare il Paese 78 Renato Fontana Il contagio delle idee 80 Marco Bardazzi La narrazione del cane a sei zampe 82 Andrea Falessi La forza dell’open power 84 Carlotta Ventura Il percorso verso la semplificazione 86 Federico Fabretti Un nuovo nome per ridefinire il futuro RUBRICHE Themis 24 Antonio Maria Leozappa Snapshots 25 Francesca Scaringella Mentori 40 Enzo Argante Oeconomicus 43 Giuseppe Pennisi Ue 63 Antonio Villafranca Visioni 88 Gianfranco Ferroni Schermaglie 91 Fabio Benincasa Palchi e platee 92Beckmesser Fiori di carta 93 Cesare De Michelis Inchiostri 95 Valeria Serpentini Benedette parole 96 Benedetto Ippolito STORIA DI COPERTINA Apologia del cinismo in politica STORIA DI COPERTINA Chi ha paura di House of cards di Marco Follini Politico e giornalista Frank Underwood è il prototipo del politico cinico e la serie televisiva House of cards è, appunto, un monumento al cinismo della politica. La serie televisiva americana incarna quello spirito fiorentino di cui dovremmo essere noi i principali depositari. E invece no. Da noi, infatti, è come se House of cards fosse la realtà della politica senza mai riuscire a diventare anche la sua immaginazione. Una realtà fortunatamente edulcorata, a dire il vero. I nostri piccoli Underwood sono meno votati al cinismo di quanto non sia il loro modello. Alcuni magari ne fanno di cotte e di crude, diciamo così. Ma nessuno raggiunge il livello di amoralità e di spregiudicatezza che Kevin Spacey si diverte a mettere in scena Frank Underwood è il prototipo del politico cinico e la serie televisiva House of cards è, appunto, un monumento al cinismo della politica. Potrebbe trattarsi di una storia italiana, di un’eredità del nostro machiavellismo. E invece nasce in Inghilterra e mette radici negli Stati Uniti, laddove la politica rivela a volte tratti di sconcertante ingenuità. Naturalmente si può mettere tutto sul conto della preponderanza – non solo economica – dell’industria audiovisiva americana, della sua capacità di parlare un linguaggio universale, più globale di tanti altri. Oppure confinarla nel reame dell’immaginazione, dove tutto è virtuale e non sempre si è tenuti a corrispondere alla realtà. O magari, invece, ci si può divertire a intrecciare quel copione con quello delle imminenti elezioni per la Casa Bianca. In fondo c’è qualcosa di Underwood nella glaciale professionalità di Hillary Clinton, e qualcosa perfino nella rude aggressività di Donald Trump. E la coincidenza tra la 6 nuova serie e la partenza delle carovane presidenziali promette di scoprire altre assonanze. Resta il fatto che stiamo parlando di una serie televisiva americana che incarna quello spirito fiorentino di cui dovremmo essere noi i principali depositari. E invece no. Da noi, infatti, è come se House of cards fosse la realtà della politica senza mai riuscire a diventare anche la sua immaginazione. Una realtà fortunatamente edulcorata, a dire il vero. I nostri piccoli Underwood sono meno votati al cinismo di quanto non sia il loro modello. Alcuni magari ne fanno di cotte e di crude, diciamo così. Ma nessuno raggiunge il livello di amoralità e di spregiudicatezza che Kevin Spacey si diverte a mettere in scena. E per quanto si affacci ogni tanto alla ribalta qualche narratore intento a descrivere la nostra politica come la sentina dei peggiori vizi, la somma dei nostri difetti pubblici resta pur sempre entro confini ragionevoli, anche se non proprio encomiabili. Ma poi, invece, il racconto della nostra politica procede lungo percorsi che vorrebbero essere fin troppo edificanti e virtuosi. Non c’è leader che di questi tempi non attinga copiosamente ai registri della demagogia, del populismo, della troppo facile ricerca di popolarità. Non c’è leader – o gregario – che non ostenti i suoi meriti, la sua dedizione, la sua cura del bene comune. Non c’è uomo di potere che non manifesti un distacco perfino sdegnato dalla pratica dei rapporti di forza che pure è inesorabilmente connaturata alla sfida politica. Uno straordinario esercizio di ipocrisia accompagna la politica italiana nella sua vana ricerca di catarsi. Forse è per questo che nessuno si dedica a pensare una House of cards “de noantri”. Perché appunto il linguaggio del potere ambisce a essere politically correct. formiche 112 — marzo 2016 «L’America ingenua e credulona racconta una politica che conosce poco e che pratica meno di altri: quella dell’intrigo, della doppiezza, del cinismo. Lo fa perché quello specchio non la riflette e non la racconta più di tanto » E la sua trasfigurazione fantasiosa non può ricalcare questa sua ambizione senza diventare un inverosimile e un po’ noioso racconto di circostanza. Negli Stati Uniti House of cards fa da contrappunto malizioso e fin troppo immaginifico a una contesa politica che vorrebbe essere capace di una certa ingenuità. Certo, i candidati si scambiano fendenti di una certa inevitabile durezza. Ma gli elettori, tutto sommato, tendono a dare un certo credito alla loro buona fede. Li passano al registro della loro iniziale severità, è vero. Ma poi finiscono per votarli con uno stato d’animo meno smaliziato. Essi credono alla retorica pubblica che suona verosimile anche quando non è del tutto vera. Da noi, al contrario, il discorso pubblico cerca, per quanto è possibile, di essere inappuntabile, almeno nelle parole della sua retorica, mentre la nostra prassi politica ricalca copioni, diciamo così, più discutibili. Noi mandiamo in scena una sorta di House of cards in miniatura, senza certe sue esagerazioni, nella nostra quotidianità politica. E dunque evitiamo poi di riprodurla una seconda volta nella nostra immaginazione televisiva. Tendiamo a raccontare e magnificare la protesta, e magari l’indignazione, per il potere del giorno prima, quello di ieri. Ma al potere di oggi riserviamo un’occhiata distratta, o magari perfino riguardosa. Non ci piace descriverlo, raccontarlo, immaginarlo. Se non all’indomani della sua caduta. Lo specchio del potere ci mette apprensione. Così, per scaramanzia non lo get- tiamo per terra. E per prudenza cerchiamo di non guardarlo più di tanto. L’America ingenua e credulona racconta una politica che conosce poco e che pratica meno di altri: quella dell’intrigo, della doppiezza, del cinismo. Lo fa perché quello specchio non la riflette e non la racconta più di tanto. Da noi invece la politica è ben più smagata. Certo, nessun Underwood italiano getterebbe una cronista indiscreta contro una metropolitana in corsa. Ma molti altri tra i nostri potenziali Underwood manovrerebbero il proprio presidente per spingerlo sull’orlo del baratro, oppure giostrerebbero con disinvoltura tra i candidati alla carica di capogruppo mettendoli uno contro l’altro. All’occorrenza, vantandosene pure. Il cinismo è un ingrediente inesorabile di qualsiasi politica. Ma non può rappresentare tutta la politica, e neppure la sua parte preponderante. Ha bisogno di una sorta di bilanciamento. Se esso viene praticato in dosi massicce, si consiglia di non replicarlo mandandolo in onda in prima serata. Se invece lo si pratica con moderazione, allora viene più facile la tentazione – e il gusto – di rivederlo alla televisione. Ricordo di aver letto una biografia di Talleyrand che metteva in mostra tutti i suoi difetti. Ma poi aggiungeva: se fosse stato davvero così spregevole, così divorato dall’ambizione, così sfacciatamente doppio, avrebbe trovato il modo di mascherarli, quei difetti. Lasciando che tutti se ne rendessero conto, in fondo, il duca dava prova di una sorta di paradossale onestà intellettuale. Il vero brigante è quello che si traveste da gentiluomo. Mentre lui era brigante, sì, ma solo fino a un certo punto. Tutta questione di misura, appunto. Quella di Talleyrand. Quella di Underwood. La loro. E la nostra. 7 STORIA DI COPERTINA La lettura critica della società passa per la fiction di Carlo Freccero Autore televisivo ed esperto di comunicazione Nell’epoca del conformismo di massa, in cui ogni forma di giudizio è bandita, l’unica lettura critica della società passa oggi attraverso la fiction. La politica non è più la ricerca del bene comune, della crescita e della prosperità del Paese, quanto l’occupazione dei posti di potere e, prima ancora, la conquista di maggioranze che diano accesso a quei posti. Come spesso accade, un telefilm, una fiction riesce a essere più chiara di innumerevoli analisi sociologiche. Con House of cards abbiamo uno sguardo all’interno dei meccanismi del potere Il rapporto tra fiction e potere può essere letto da due punti di vista. Da un lato, il potere rappresenta un ottimo soggetto per la fiction contemporanea e, dall’altro, nel mettere in scena il potere libero, ci svela come il nostro immaginario concepisca oggi l’idea stessa di potere. Spesso la fiction anticipa addirittura la realtà. Lo ha fatto con le dimissioni del papa di Habemus papam di Nanni Moretti, con il presidente nero nella serie 24, con il clima di terrorismo diffuso nella fiction che anticipa l’11 settembre. D’altra parte, se l’Europa ha sempre utilizzato il pensiero critico, e quindi la saggistica, per esaminare lo spirito del tempo, l’America ha sempre avuto un pensiero pragmatico per cui rifuggiva a livello teorico dal pensiero critico stesso, e relegava la dimensione critica nel campo della fiction. Nella tradizione americana sono il romanzo e il cinema a mettere in discussione le idee dominanti. Mentre in Europa il concetto di potere era sottoposto a un’analisi spietata da parte del marxismo occidentale e diventava poi, con Michel Foucault, l’ossessione intorno a cui ruota tutta la decostruzione archeologica e la riflessione filosofica, in quegli 8 stessi anni a Hollywood si produceva un cinema impegnato che aveva il suo centro nella lotta del singolo contro il potere. Quindi non sarebbe del tutto giusto dire che solo ora il potere è diventato un tema centrale nella fiction. La cosa sorprendente è come abbia cambiato segno. Oggi il singolo, il protagonista della fiction, non lotta contro il potere, lotta disperatamente per accaparrarsi un potere assoluto a livello personale. In Dimenticare Foucault, Jean Baudrillard notava come un momento in cui la discussione verte su un unico oggetto segnali in realtà la sua sparizione. Se Foucualt parla tanto del potere è perché, per Baudrillard, quel potere non esiste più. In realtà solo quello cattivo è morto, sostituito dalla nozione di potere come unico obiettivo appetibile. Quelle stesse vite che trovavano nella lotta al potere costituito il senso della loro esistenza hanno lasciato il posto a una lotta spietata per il raggiungimento di quello personale. Com’è successo e perché il potere ha cambiato segno? Penso che la risposta sia nel passaggio dalla modernità alla postmodernità. Il potere moderno nasce dal contratto sociale, vincolo con cui il suddito si sottopone al sovrano in cambio della sicurezza personale. Se per Thomas Hobbes nello Stato di natura l’uomo è un lupo, un predatore verso gli altri uomini, con il contratto sociale il singolo lascia nelle mani di un altro – il sovrano – la sua libertà, ricevendone in cambio sicurezza. Il contratto sociale viene sempre letto come una forma di limitazione e circoscrizione del potere, che non discende più al sovrano direttamente da Dio, ma si trasferisce a lui dal basso. Basta prendere coscienza di questo meccanismo per erodere l’assolutismo e passare dalla monarchia assoluta allo Stato parlamentare. Così, infatti, le versioni successive del con- formiche 112 — marzo 2016 Nella versione americana, House of cards è un ritratto della politica di quel Paese ma, in realtà, il romanzo da cui è tratto è ambientato nell’Inghilterra della Thatcher. È in quegli anni che inizia la rivoluzione che rende l’Europa terreno di conquista del neoliberismo tratto sono complessivamente favorevoli ai cittadini, portando infine alle moderne Costituzioni in cui la limitazione del potere nasce dalla divisione dei poteri stessi. Se però guardiamo le cose dal lato dell’individuo, e non da quello della società libera, alla base della costituzione della società e dello Stato rimane sempre una sorta di peccato originale: una cessione di libertà. Non a caso il neoliberismo, che vede nella libertà individuale l’unico valore riconosciuto, vede anche nello Stato una sorta di male che va circoscritto alla pura difesa della sicurezza individuale. Uno Stato ridotto all’osso in una dimensione contrattuale originaria o, meglio, di un superamento tout court del contratto. Entrare nella postmodernità trasforma il potere statale in male, in quanto violenza al singolo e alla sua libertà. Sciolto dal patto originario, l’individuo ritorna homo hominis lupus. Il potere ritorna puramente soggettivo, sciolto da leggi scritte. Il fine giustifica i mezzi e ogni mezzo è buono per il raggiungimento del potere. Per tornare alla fiction per cui negli anni d’oro della Hollywood impegnata il potere era male perché si ritorceva contro la società della democrazia, nelle nuove serie americane il potere non può che essere buono perché torna un puro fatto personale, una lotta individuale per la supremazia, un videogioco in cui il più forte o il più furbo o il più veloce devono prevalere. E come in un videogioco tutti noi parteggiamo e ci immedesimiamo in quello che, sino a ieri, era il cattivo libero, il tiranno, l’oscuro agente del male che in nome del profitto individuale brama contro il bene comune. In questa postmodernità che ricalca i valori della modernità, viviamo però la contraddizione di essere governati da Costituzioni moderne che cercano disperatamente di circoscrivere e annullare il potere individuale nella sua azione distruttiva nei confronti del bene comune. Una grande banca d’affari, Morgan Stanley – mi sembra – ha tacciato così la Costituzione italiana di comunismo. Le Costituzioni nazionali, con la loro bizantiniana frammentazione del potere libero, diventano così il primo obiettivo da abbattere da parte della politica “del fare”. Non a caso Matteo Renzi ha cominciato da lì. Come ho già detto, la politica non è più la ricerca del bene comune, della crescita e della prosperità del Paese, quanto l’occupazione dei posti di potere e, prima ancora, la conquista di maggioranze che diano accesso a quei posti. Come spesso accade, un telefilm, una fiction riesce a essere più chiara di innumerevoli analisi sociologiche. Con House of cards abbiamo uno sguardo all’interno dei meccanismi del potere. Il deputato del Partito democratico, Frank Underwood, ha diret9 STORIA DI COPERTINA Le riforme sono un campo di battaglia, la scia di un duello dove affrontare e vincere gli avversari che, tra l’altro, non appartengono allo schieramento avversario, ma al proprio partito. A nessuno interessa veramente cos’è buono e cosa no to la vittoriosa campagna elettorale di Garrett Walker, che è diventato presidente Usa. Quando però Walker non mantiene la promessa di affidargli l’incarico di segretario di Stato, Frank cerca una vendetta personale puntando i vertici politici di Washington e, pur di ottenere ciò che vuole, è disposto davvero a tutto. Nella versione americana, House of cards è un ritratto della politica di quel Paese ma, in realtà, il romanzo da cui è tratto è ambientato nell’Inghilterra della Thatcher. È in quegli anni che inizia la rivoluzione che rende l’Europa terreno di conquista del neoliberismo. Il pensiero unico si sostituisce alle categorie ideologiche di destra e sinistra. La politica, o meglio il suo apparato, è assolutamente indifferente nei confronti degli esiti reali delle riforme che promuove. Ad esempio, con la riforma della scuola. A nessuno interessa veramente se la scuola funzionerà meglio o peggio, le riforme sono un campo di battaglia, la scia di un duello dove affrontare e vincere gli avversari che, tra l’altro, non appartengono allo schieramento avversario, ma al proprio partito. Non mi impegno per migliorare la scuola, la giustizia, il lavoro: uso quei territori per fare le scarpe ai colleghi, salire nella scala gerarchica, acquisire potere personale. A nessuno interessa veramente cos’è buono e cosa no. E neppure cos’è giusto. Anche negli altri telefilm americani contemporanei, come ad esempio Law and order, nessuno si batte perché la giustizia trionfi, perché i colpevoli siano puniti e gli innocenti assolti. È tutto un duello di fioretto tra avvocati e pubblici ministeri, per conseguire una presunta verità che risulti accettabile per la maggior parte dei giudici. Un duello in cui una parte soccombe e una vince. Come stanno davvero le cose non interessa asso10 lutamente a nessuno. Se di solito nel nuovo telefilm americano l’intreccio – o meglio, gli intrecci multipli sviluppati tra loro che costituiscono la spina dorsale del dramma – è costruito sull’azione, la novità di House of cards è costituita dal sostituire all’azione l’intrigo, la macchinazione, un’azione mentale, anziché fisica, che tira le fila degli eventi successivi. Intrigo come intreccio. Una partita a scacchi in cui l’azione è tutta nella mente del giocatore che conosce le mosse successive. Non ci sono controfigure, battaglie, potenti mezzi. Il dramma ti avvince proprio perché le pedine sono poche e quello che succederà non dipende da eventi esterni, ma rappresenta la tela sapientemente costruita dal protagonista per irretire le sue vittime e raggiungere il potere. Insomma, nell’epoca del conformismo di massa, in cui ogni forma di giudizio è bandita, l’unica lettura critica della società passa oggi attraverso la fiction. 11 STORIA DI COPERTINA La tragedia della politica da Machiavelli a Shakespeare di Fabio Benincasa Docente presso la Duquesne University Rome Il machiavellismo di Underwood arriva in scena attraverso il filtro di Shakespeare. Gli eroi tragici possono essere anche completamente negativi, ma la loro rappresentazione innesca una riflessione morale negli spettatori. Underwood è lo specchio tragico della hybris americana, il manipolatore in cui migliaia di persone possono riconoscere la propria stessa sete di potere. Per gli italiani, politici e non, cresciuti in un Paese dove la commedia, da Dante a Monicelli, è il genere dominante, il machiavellismo tragico di Underwood ha un fascino utopico, non distopico In Aprile, un film del 1998, ora forse un po’ dimenticato, Nanni Moretti si scagliava con sarcasmo contro il pressappochismo della nuova classe dirigente dell’Ulivo: “Io me li ricordo negli anni Settanta a Roma, alla Fgci, i giovani comunisti romani stavano tutti i pomeriggi davanti al televisore a vedere Happy Days, Fonzie [...] e questa è la loro formazione politica, culturale, morale...”. Ora qualcuno, pensando alle esibizioni di Matteo Renzi (che tuttavia non fu mai comunista) con il giubbottino di pelle, sarebbe tentato di definire profetica la battuta del regista romano, ma è più probabile che essa registri invece una sempre maggiore contiguità fra la nostra cultura d’élite e la matrice pop che Tv e social media producono tumultuosamente e che sta diventando parte integrante del discorso politico, a partire dalla (quanto mai abusata) nozione di storytelling. Se i giovani politici italiani, ai tempi, si sono formati su Happy Days, ora a quanto pare non possono fare a meno di House of cards e soprattutto del suo protagonista incontrastato, il sulfureo presidente Frank Underwood, magistralmente incarnato da un Kevin Spacey 12 che già ai tempi di I soliti sospetti sbozzava nel suo Keyser Söze un villain di metafisica purezza. Se Renzi o Enrico Letta sono affascinati da questo modo di rappresentare la politica, la serie ha ottenuto in patria l’apprezzamento di nomi anche più importanti, a partire da Barack Obama e Hillary Clinton. Che cosa distingue, dunque, Frank Underwood dai tanti sociopatici amorali che le serie americane hanno negli anni consegnato all’adorazione del pubblico, dal gangster Tony Soprano allo spregiudicato dottor House, dal serial killer Dexter al Walter White di Breaking bad? Quello che hanno potuto osservare di più gli spettatori, e dunque anche i nostri politici, è il dichiarato machiavellismo esplicitamente applicato ai meccanismi della politica. Il pensiero di Machiavelli appartiene alla cultura mondiale e ancora adesso il suo Principe è una delle letture fondamentali per chi studia Scienze politiche negli Usa. Tuttavia, bisogna ricordare che la ricezione delle idee e del personaggio nel mondo anglosassone è molto diversa da quella del mondo latino. Mentre per noi il segretario fiorentino è tanto nomini nullum par elogium, secondo il suo epitaffio in Santa Croce, la diffusione delle idee machiavelliane nella politica del nord Europa fu molto più fosca e controversa. Il drammaturgo Christopher Marlowe, uno dei principali rivali di Shakespeare, apre la sua pièce L’ebreo di Malta, composta verso il 1589, con un prologo recitato da Machiavellli in persona. Questi annuncia di non essere morto, ma di aver invasato il Duca di Guisa, ispirato il massacro di san Bartolomeo in Francia e ora di essere arrivato fin lì per fare altri danni. Il machiavellismo era già proverbialmente un contagio diabolico tipico dei Paesi cattolici, ma che rischiava di contaminare anche quelli protestanti. Qualche anno dopo formiche 112 — marzo 2016 «Un Frank Underwood italiano non potrà che essere simile all’Andreotti del Divo di Paolo Sorrentino. I motivi del trionfo di Underwood da noi sono diversi da quelli del suo trionfo negli Usa, e forse proprio questa inerente assenza di dramma è la vera tragedia della politica italiana » Marlowe, anche Shakespeare mette in scena un personaggio machiavellico. Riccardo iii, il principe che per sete di potere e cattiveria non si ferma davanti alle azioni più abbiette: “Non v’è animale tanto feroce che non conosca un briciolo di pietà. […] Ma io non la conosco e perciò non sono un animale”. Proprio grazie all’interpretazione di Spacey, che ha trionfato all’Old Vic di Londra con la sua versione modernizzata della tragedia shakespeariana, il machiavellismo politico è approdato pienamente nella serie Tv americana, peraltro seguendo il remake di una serie britannica a sua volta tratta dal libro di Michael Dobbs, consigliere di Margaret Thatcher. Non è difficile riconoscere la costante ispirazione shakespeariana del personaggio di Underwood che ammicca a Riccardo iii e, nel rapporto con la first lady Claire, a Macbeth. Sono shakespeariane anche le rotture della quarta parete, durante le quali il politico si rivolge direttamente al pubblico per ammaestrarlo sulle proprie presenti o future nefandezze. Perché è importante sottolineare che il machiavellismo di Underwood arriva in scena attraverso il filtro di Shakespeare? Perché gli eroi tragici possono essere anche completamente negativi, ma la loro rappresentazione innesca una riflessione morale negli spettatori. Underwood è lo specchio tragico della hybris americana, il manipolatore in cui migliaia di persone possono riconoscere la propria stessa sete di potere. Commette il male per il male, anche in prima persona, senza nascondersi dietro la ragion di Stato, e senza alcuna giustificazione psicologica. Obama non dovrebbe essere come Underwood, ma quando ne fa l’imitazione su Twitter si arrende al fatto che in parte lo è, e questo può essere un ammaestramento morale per se stesso, per i suoi elettori e persino per i suoi detrattori. C’è un po’ d’ombra in ognuno di noi, un’ombra che dobbiamo conoscere per non esserne posseduti. Machiavelli in Italia conosce tutt’altra fortuna: da Gramsci a Craxi, ha rappresentato per il Paese il modello di un progetto autorevole e serio, ma sempre impraticabile per eccesso di cinismo o carenza di coraggio. L’Italia non è mai stata un impero e per un Paese così disintegrato la prospettiva del Principe rimane ovviamente un’utopia politica. Per gli italiani, politici e non, cresciuti in un Paese dove la commedia, da Dante a Monicelli, è il genere dominante, il machiavellismo tragico di Underwood ha un fascino utopico, non distopico. Renzi o Letta possono citare Underwood senza apparire inquietanti, e noi cittadini quasi sperare che in loro ci sia un briciolo di quella spietata e razionale visione del potere che anima il personaggio di Spacey. In un’Italia dove non è mai chiaro se i politici “ci fanno o ci sono”, la nostra gestione del potere, con buona pace di Machiavelli, pur non essendo priva di congiure e fratricidi, difficilmente riesce a sembrare seria e tragica, ma trascolora indefinitamente nel grottesco e nell’orgiastico. Un Frank Underwood italiano non potrà che essere simile all’Andreotti del Divo di Paolo Sorrentino. I motivi del trionfo di Underwood da noi sono diversi da quelli del suo trionfo negli Usa, e forse proprio questa inerente assenza di dramma (Happy Days docet) è la vera tragedia della politica italiana. 13 STORIA DI COPERTINA L’eterna seduzione del potere di Antonio Campati Dottore di ricerca in Istituzioni e politiche presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore Il potere di per sé non è né buono né cattivo. Semmai sono le modalità del suo utilizzo che qualificano gli atti che produce. E in tal senso il cinismo con il quale Underwood si muove nelle stanze della Casa Bianca delinea la sagoma di un personaggio spregiudicato, privo di scrupoli, interessato solo a difendere la sua prestigiosa posizione politica. Eppure, nonostante il tratto negativo, la figura di Frank attrae lo spettatore, confermando, ancora una volta, come la declinazione in negativo del potere (intrighi, lotte, falsità) sia quella che riesce a catalizzare maggiormente l’attenzione Il potere affascina, come la lotta per conquistarlo e la strategia per conservarlo. Da sempre, le dinamiche che mette in campo chi aspira a posizioni di comando sono oggetto di attenzioni quasi ossessive. Infatti, chi analizza le vicende politiche, dallo studioso rigoroso al più giovane retroscenista, non può fare a meno di studiare il potere, le sue forme, le sue molteplici sfaccettature, le opportunità e le insidie che può riservare. Il potere e le geometrie con le quali si manifesta sono sotto l’attenzione di molti, nonostante sia ben chiaro che è impossibile scovarne tutti i segreti. E ciò può essere una fortuna, perché spesso meno il potere è visibile più è efficace. Senza alcun dubbio, però, prima ancora che sui propri osservatori, il potere esercita la sua seduzione su chi anela a ottenerlo. Non è affatto improprio ricorrere a elementi psicologici per comprendere le motivazioni profonde che spingono un individuo a desiderare di esercitare potere su altri e, soprattutto, ad agire in determinati modi una volta raggiunto lo scopo. Così come non si può 14 escludere l’alto tasso d’imprevedibilità che si manifesta in ogni attività umana, che spesso agisce da banco di prova per chi deve decidere in situazioni di eccezionalità. Eppure, le dinamiche psicologiche e la casualità dei fatti non sono sufficienti a spiegare i motivi che spingono a cedere al fascino del potere, poiché trascurano un aspetto fondamentale: la propensione al comando. È un carattere la cui intensità non si può misurare con esattezza, ma anche il più distratto osservatore riesce spesso a percepirne la presenza in talune persone fissandone i gesti, le parole, finanche i tic. In effetti, il potere è maggiormente evidente quando si incarna in una leadership. È proprio allora che l’opinione pubblica è interessata a conoscerne il principale detentore, le sue ambizioni, le sorti alle quali è legato e, non da ultimi, gli aspetti (non più) personali della sua vita e di quella dei membri del suo inner circle. Negli Stati Uniti – nel sistema presidenziale per eccellenza – queste dinamiche sono sempre state abbastanza evidenti mentre, nelle democrazie europee fino a pochi anni fa il potere appariva diffuso fra diverse istituzioni, quindi difficilmente identificabile in una sola persona. Negli ultimi anni, però, anche nel Vecchio continente il potere si trova sempre più concentrato nelle mani dei capi di governo: una tendenza molto spesso assecondata perché una tale situazione può favorire una direzione efficace e veloce, che invece non sarebbe tale quando il momento decisionale è distribuito fra diversi enti intermedi (dai partiti ai sindacati, alle associazioni di categoria fino ai parlamenti). Ciò però non deve indurre a credere che il fascino del leader sulle masse sia una novità degli ultimi tempi. Ma è certamente più evidente l’identificazione delle seconde nei formiche 112 — marzo 2016 «Il potere è maggiormente evidente quando si incarna in una leadership. È proprio allora che l’opinione pubblica è interessata a conoscerne il principale detentore, le sue ambizioni e, non da ultimi, gli aspetti (non più) personali della sua vita e di quella dei membri del suo inner circle» confronti del primo, ossia la proiezione che l’opinione pubblica tende a fare delle sue aspettative, dei suoi desideri, dei suoi sogni, su un’unica persona che a sua volta fa di tutto per far apparire coincidenti i suoi interessi con quelli generali. In tal senso, sembrerebbe corretta l’osservazione del vecchio – e un tempo potentissimo – protagonista de Il presidente di Georges Simenon, quando sottolinea come “da un certo grado di successo, un uomo di Stato non è più padrone di se stesso e diventa prigioniero della cosa pubblica”, ovvero come “nel corso di un’ascesa politica vi è un momento in cui gli interessi e le ambizioni personali di un uomo coincidono con quelli del Paese”. Frank Underwood non sembra corrispondere a questo profilo, almeno fino a ora. O meglio, è la sete di potere che lo rende prigioniero, che lo induce ad assecondare gli istinti più cruenti, che spesso lo costringe a considerare gli interessi della collettivi- tà americana nientemeno che pretesti per ordire complotti. Nonostante, in verità, l’elaborazione di politiche pubbliche e le relazioni internazionali rappresentino la cartina di tornasole per mettere in evidenza le sue doti di capo. In effetti, ciò che impressiona di Underwood è la capacità di rendere tangibile il principale desiderio per chi è affascinato dal potere, ossia la possibilità di fare, di lasciare il segno. Ma a quale prezzo? Il potere di per sé non è né buono né cattivo. Semmai sono le modalità del suo utilizzo che qualificano gli atti che produce. E in tal senso il cinismo con il quale Underwood si muove nelle stanze della Casa Bianca delinea la sagoma di un personaggio spregiudicato, privo di scrupoli, interessato solo a difendere la sua prestigiosa posizione politica. Eppure, nonostante il tratto negativo, la figura di Frank attrae lo spettatore, confermando, ancora una volta, come la declinazione in negativo del potere (intrighi, lotte, falsità) sia quella che riesce a catalizzare maggiormente l’attenzione. Privilegiando la dimensione spaziale del potere (la difesa senza alcuno scrupolo del proprio ruolo, che garantisce influenza) alla dimensione temporale (la visione dell’interesse di lungo periodo), Underwood offre allo spettatore la possibilità di comprendere cosa significhi diluire, se non proprio annullare, la sensibilità umana dentro le logiche perverse del potere. Un rischio, quest’ultimo, da evitare per non somigliare (troppo) al protagonista di House of cards nella vita reale. 15 STORIA DI COPERTINA Dove finisce il bene comune? di Nicola Pasini Docente di Scienza politica presso l’Università di Milano Dov’è finito il bene comune? Cos’è diventata la politica e qual è il suo ruolo in una società fortemente interdipendente che sembra prescindere dall’agire politico? Per partiti e gruppi di interesse diviene sempre più difficile, sebbene cruciale, comprendere quali, fra la moltitudine di pretese avanzate dai cittadini, siano degne di essere considerate. E poiché è noto che gli attori portatori di domande specifiche non sono descrivibili come entità pure, ma come l’esito di ruoli giocati su più livelli, l’immagine che ne esce non è tanto quella di un gruppo (interesse) diretto verso un bersaglio (istituzione) per l’ottenimento di uno scopo (soddisfazione delle aspettative specifiche), bensì quella di una rete di interessi interconnessi sospinti nell’arena politica Forse per il 4 marzo, con l’inizio della iv stagione di House of cards, avremo le idee più chiare su chi potrà essere la donna (ebbene sì, una donna) o l’uomo più potente del mondo. E l’accoppiata Hillary-Bill Clinton (con lui questa volta necessariamente comprimario, anche se – stante il forte carisma – protagonista suo malgrado) non può non ricordarci l’alleanza, cinica, spietata e spesso competitiva, tra Frank Underwood e la moglie Claire, coppia altrettanto ambiziosa della serie televisiva. Dove emerge una visione della politica solo (?) come volontà di potenza, potere personale e fine a se stesso, spesso autoreferenziale, che comporta perdita di senso della realtà, ovvero un approccio troppo realistico ai fatti, vale a dire non più interpretabili alla luce di una visione generale o di principi etici. Di qui le domande: dov’è finito il bene comune? Cos’è diventata 16 la politica e qual è il suo ruolo in una società fortemente interdipendente che sembra prescindere dall’agire politico? Vi è una difficoltà intrinseca, da sempre, nel definire che cos’è la politica. Non essendo sufficiente un solo termine, nell’ambito anglosassone addirittura la politica viene declinata attraverso le sue tre facce: politics, polity, policy, dove politics è la lotta per il potere all’interno di un sistema di regole, istituzioni e norme (polity) che viene esercitata per raggiungere determinati esiti (policy). Dalla contrapposizione amico-nemico di schmittiana memoria al monopolio legittimo dell’uso della forza (Weber), alla distribuzione di valori imperativi nell’ambito di una comunità politica (Easton) alla sfera delle decisioni collettivizzate e sovrane (Sartori), la politica non è altro che “l’insieme di attività, svolte da uno o più soggetti individuali o collettivi, caratterizzate da comando, potere e conflitto, ma anche da partecipazione, cooperazione e consenso, riguardanti una collettività nella quale sia promosso il controllo della violenza e distribuiti costi e benefici, materiali e non” (Cotta, Della Porta, Morlino, Fondamenti di Scienza Politica, Il Mulino, 2001: 29). In buona sostanza, “la politica riguarda la gestione della collettività umana responsabile dell’ordine pacifico” (ibidem). E in democrazia è fondamentale il rapporto fra governanti e governati, attraverso una relazione duale e di reciprocità. Su questo rapporto, per dirla con Robert Dahl, si fonda sia la responsiveness (rispondenza) in cui il politico viene legittimamente eletto dai cittadini e deve rispondere del suo operato, sia l’accountability (il dovere di render conto), che si applica tanto al politico quanto ai funzionari della pubblica amministrazione che devono poi implementare le politiche pubbliche settoriali. formiche 112 — marzo 2016 «L’accoppiata Hillary-Bill Clinton non può non ricordarci l’alleanza (cinica, spietata e spesso competitiva) tra Frank Underwood e la moglie Claire, coppia altrettanto ambiziosa della serie televisiva » Tuttavia, la situazione odierna è caratterizzata da società sempre più complesse e differenziate, nelle quali il processo che porta all’individuazione e alla rappresentazione delle domande dal basso si fa molto più complesso, non solo in relazione alla dimensione economica, ma soprattutto in ordine alle concezioni del bene, ai valori e alle credenze condivise. Si assiste a una crescente diversificazione dei bisogni e una frammentazione degli interessi, sempre meno orientati verso obiettivi collettivi e sempre più verso scopi individuali. Questa maggiore sensibilità individuale alle differenze produce effetti di sovraccarico delle domande (processo di overload) nei processi di formazione delle politiche pubbliche. E la crescita di fenomeni come il lobbismo (sia pur regolato) rende molto più complessa e articolata la funzione della rappresentanza degli interessi organizzati e della conseguente sfera delle decisioni. Da qui i problemi di consenso da parte di chi è istituzionalmente deputato a prendere decisioni. Rispetto all’analisi della rappresentanza politica, notiamo infatti una crescente incapacità dei partiti di interpretare domande, preferenze, bisogni, identità di individui e gruppi sociali, nonché di indirizzare tali istanze all’interno del classico circuito decisionale Parlamento-governo-pubblica amministrazione, per produrre risposte sostenute dal consenso. Con ciò, per partiti e gruppi d’interesse diviene sempre più difficile, sebbene cruciale, comprendere quali, fra la moltitudine di pre- tese avanzate dai cittadini, siano degne di essere considerate. E poiché è noto che gli attori portatori di domande specifiche non sono descrivibili come entità pure, ma come l’esito di ruoli giocati su più livelli, l’immagine che ne esce non è tanto quella di un gruppo (interesse) diretto verso un bersaglio (istituzione) per l’ottenimento di uno scopo (soddisfazione delle aspettative specifiche), bensì quella di una rete di interessi interconnessi sospinti nell’arena politica. Inoltre, contrariamente al senso comune, la produzione delle policy non è attività esclusiva dei politici e dei governanti, il che naturalmente non significa che questi siano allo stesso livello di altri attori. Un’altra convinzione comune da sfatare è che la politica pubblica sia sempre una risposta data dall’autorità politica (e che, quindi, emana da un potere legittimato e istituzionalizzato) a una domanda sociale. Ovviamente è anche questo, ma il processo di formazione e attuazione delle politiche pubbliche coinvolge diversi gruppi e associazioni di interessi che partecipano scambiando consenso e capacità di autodisciplina, per ottenere potere per sé e benefici per i gruppi sociali che rappresentano. Dov’è finita allora l’autonomia della politica? Riprendendo Max Weber ne La Politica come professione, chi vive “per” la politica (e non di essa) dovrebbe alimentare il proprio sentimento di sé e il proprio equilibrio interiore servendo una causa. Secondo l’etica della responsabilità, cioè alla capacità di rispondere delle conseguenze che si producono attraverso l’agire politico. 17 STORIA DI COPERTINA Il realismo, il Principe e le lobby di Gianluca Comin Fondatore di Comin & Partners e docente di Strategie di comunicazione presso l’Università Luiss di Roma Ma la politica è davvero quella raccontata in House of cards? Di cinismo si può parlare anche quando si volge lo sguardo al mondo delle lobby. In House of cards, Underwood sembra sempre pronto a scendere a compromessi con i rappresentanti di interessi che affollano la sua anticamera. Al pari del politico, il lobbista è cinico solo se strettamente necessario. Sbaglia chi paragona il capolavoro di Dobbs a Il principe di Niccolò Machiavelli. Il principe è disposto a uscire dai saldi binari della morale solo se ciò è reso necessario dagli eventi che lo travolgono. Non è immorale per vocazione o per sfida Torna House of cards e riprende subito il dibattito sulla professione del lobbista, sull’etica della politica, sul gioco del potere. Ci confronteremo su chi assomiglia a chi, su chi copia questo o quell’altro atteggiamento, sul ruolo dei singoli protagonisti: specchio di un sistema reale o grottesche controfigure? La serie di Netflix, quanto e forse più dell’ormai leggendaria West wing, ha puntato i riflettori su ciò che si muove dietro le quinte della politica americana e, di riflesso, di casa nostra. Uno spettacolo in cui i colpi bassi e i raggiri sono all’ordine del giorno, sporcando di sangue le mani di attori che si rivelano guidati da una sete insaziabile di potere. Seguendo la scalata verso la Casa Bianca di Francis “Frank” Underwood e di sua moglie Claire, veniamo infatti trascinati in un vortice di vicende in cui la politica perde qualsiasi connotazione di eticità, per cedere il passo a una sorta di gioco per la sopravvivenza del più forte. Le efferatezze compiute da Underwood per conseguire i propri obiettivi non sono scandalose in quanto tali. A deliziare lo spettatore è soprattutto la sua arro18 ganza, lo sguardo indagatore che trafigge lo schermo nei momenti di dialogo con il pubblico, le frasi fulminanti che demoliscono qualsiasi concezione non hobbesiana della cosa pubblica. A guidare l’azione politica di Underwood è la cinica ricerca del successo personale. Lo stesso ispiratore della serie, il britannico Michael Dobbs, è il primo ad avvertire costantemente i grandi leader politici (tutti appassionati della serie, da Obama a Cameron, passando per Renzi) che House of cards, originariamente una serie di libri ambientanti in Gran Bretagna, non è un manuale di politica. Dobbs non si limita a raccontare trame di fantasia, ma ha vissuto in prima persona gli splendori e le bassezze dell’agone politico. Aveva solo 29 anni quando divenne consulente di Margaret Thatcher, la lady di ferro che ha cambiato il suo Paese. E ne aveva 38 quando assunse la carica di capo di gabinetto del Partito conservatore, per vedere la propria carriera politica distrutta da un furioso litigio con Maggie solo un anno dopo. È stato lui stesso a raccontarlo circa un anno fa a Roma, rievocando quel momento a bordo piscina in cui tracciò distrattamente, tra un bicchiere di vino e l’altro, le lettere “FU” su un foglio di carta. L’acronimo di un insulto, ma anche le iniziali di quel Francis Urquhart che dalle pagine del primo romanzo balzò ben presto sugli schermi televisivi del Regno Unito dei primi anni Novanta sulla Bbc. A vent’anni di distanza, la reincarnazione al di là dell’oceano nelle vesti di Frank Underwood. Ma la politica è davvero quella raccontata in House of cards? Dobbs ha ragione. House of cards non è un manuale, perché il gusto per la narrazione prevale nettamente sul desiderio di imbastire una trattazione onnicomprensiva della dimensione politica. E sbaglia formiche 112 — marzo 2016 «Il cinismo di House of cards è magnifico per un romanzo o per una serie televisiva. Nella realtà, è il cinismo necessario del Principe di Machiavelli a costituire il vero antidoto a una visione troppo edulcorata e utopistica del mondo della politica » chi paragona il capolavoro di Dobbs al volume che è assurto a simbolo della spietatezza della politica: Il principe di Niccolò Machiavelli. Anche il segretario fiorentino portava il marchio di coloro che sono sopravvissuti al vortice dell’ascesa e della caduta. A differenza di Dobbs, egli voleva assolutamente rientrare in quel mondo, temprato dalla lezione del passato e pronto a sfidarne di nuovo le asprezze. Il governante per cui Machiavelli predispone un agile vademecum non è l’essere amorale erroneamente associato al Principe. “Il fine giustifica i mezzi” è dunque una massima troppo semplicistica per sintetizzare la visione di Machiavelli. Il principe è disposto a uscire dai saldi binari della morale solo se ciò è reso necessario dagli eventi che lo travolgono. Non è immorale per vocazione o per sfida, ma è pronto a diventare tale se in gioco c’è la sopravvivenza del regime o la propria. Come ha argomentato Francesco Occhetta su La Civiltà Cattolica, Machiavelli ha sfidato il modo convenzionale di analizzare la dimensione politica perché non si è limitato a ripetere lo spartito dell’etica e della virtù: “Il suo fine era quello di scoprire le regole dell’agire politico, e non quello di definire un ideale politico”. Di cinismo si può parlare anche quando si volge lo sguardo al mondo, apparentemente opaco, delle lobby. In House of cards, Underwood sembra sempre pronto a scendere a compromessi con i rappresentanti di interessi che affollano la sua anticamera. Al pari del politico, il lobbista è cinico solo se strettamente necessario. È per definizione portavoce di un’istanza che va oltre la mera dimensione individuale: mantiene infatti vivo il contatto tra il potente e la realtà sociale che egli rappresenta. Lo richiama, entrando in quell’anticamera, ai propri doveri di decisore. Impedisce ai vari Frank Underwood di impostare la propria esistenza come una logorante ed eterna partita a scacchi tra se stessi e le proprie ambizioni. Se la politica fosse solo lotta senza esclusione di colpi per l’autorealizzazione, la società che essa rappresenta non esiterebbe a intervenire per interrompere il gioco. Per questo il cinismo di House of cards è magnifico per un romanzo o per una serie televisiva. Nella realtà, è il cinismo necessario del Principe di Machiavelli a costituire il vero antidoto a una visione troppo edulcorata e utopistica del mondo della politica. Quel cedimento eccessivo al dover essere che distingue il filosofo dal buon politico, il sognatore dal decisore. Cinico, se necessario, ma inevitabilmente realista. 19 STORIA DI COPERTINA Dr Renzi e Mr Sottobosco di Sergio Fabbrini Docente di Scienza politica e relazioni internazionali e direttore della School of Government della Luiss di Roma Il potere ha sempre più caratteristiche di separazione rispetto alla società, e questo è dovuto al fatto che i partiti politici non sono più in grado di collegare chi governa – o si oppone – ai cittadini. La figura di Frank Underwood incarna quel potere politico che in occidente diventa sempre più potere personale. “Franco Sottobosco” – espressione che in italiano utilizziamo come idea peggiorativa della politica – ci dice che chi diventa leader deve avere anche particolari caratteristiche personali. Non vi è leader che non sia motivato dall’ambizione. Tuttavia una politica democratica è vitale quando riesce a promuovere la trasformazione di quell’ambizione in visione La serie televisiva House of cards ha avuto un successo internazionale strepitoso. Colpisce l’opinione pubblica nella sua rappresentazione del potere politico, proponendo un’idea di politica che si svolge all’interno di circoli ristretti. Una rappresentazione che riflette uno stato d’animo diffuso: la politica viene considerata come un arcano dentro il quale le persone comuni non riescono a entrare. Nella realtà invece è tutto più complicato. È vero, però, che il potere ha sempre più caratteristiche di separazione rispetto alla società, e questo è dovuto al fatto che i partiti politici non sono più in grado di collegare chi governa – o si oppone – ai cittadini. Il cinismo evidenziato nella serie rappresenta una componente diffusa non solo in politica, ma in tutte le aree in cui vi è un potere da esercitare. La visione del mondo politico raccontata dalla serie Tv riporta alla memoria Il principe di Niccolò Machiavelli, ma questo accostamento merita una precisazione: Machiavelli 20 non ha mai esaltato il cinismo, ma ha argomentato che chi fa politica deve guardare ai fatti, non solo seguire ideali. Soprattutto, ha cercato di separare la ragione politica dalla ragione morale. La morale, infatti, invade il principio del giusto-ingiusto, mentre la politica si basa sul fattibile o non fattibile. Essa non può utilizzare un criterio morale aprioristico, perché deve cercare di ricomporre morali (valori) e posizioni (interessi) diversi e tra di loro contraddittori. Il ruolo della politica, in democrazia, è quello di far dialogare quei valori e interessi diversi, sollecitandoli a trovare terreni (seppure limitati) comuni. La figura di Frank Underwood incarna però quel potere politico che in occidente diventa sempre più potere personale. Sin dagli anni 90 mi sono misurato con il problema del potere personale (con il volume del 1999 su Il principe democratico e con il volume del 2011 Addomesticare il principe), per giungere alla conclusione che quel potere è il risultato di trasformazioni strutturali dei nostri sistemi politici. Si consideri il declino dei partiti come organizzazioni rappresentative di classi sociali. Oggi i partiti sono organismi a supporto dei leader, e se non dispongono di buoni leader spariscono dal mercato elettorale. Ma si consideri anche l’internazionalizzazione della politica domestica. Sono i leader, e non i partiti, che vanno agli incontri del G20, del G8 e del Consiglio europeo. Sono i leader che sempre di più incarnano gli interessi nazionali. O si consideri ancora la trasformazione del sistema dell’informazione e della comunicazione: sono i leader che possono bucare l’audience televisiva, non già un’entità astratta come i partiti. Tornando al personaggio televisivo di Frank Underwood (che vuol dire Franco Sottobosco, espressione che in italiano utilizziamo formiche 112 — marzo 2016 «Le democrazie moderne hanno bisogno di leader, ma devono anche tenerli sotto controllo. Nelle democrazie parlamentari il controllo principale deve provenire dall’opposizione» come idea peggiorativa della politica), esso ci dice che chi diventa leader deve avere anche particolari caratteristiche personali. Non vi è leader che non sia motivato dall’ambizione. Tuttavia una politica democratica è vitale quando riesce a promuovere la trasformazione di quell’ambizione in visione. Una visione sostenuta da determinazione, energia e intuizione. Siccome Matteo Renzi è uno di questi leader, ciò significa anche che l’Italia ha ripreso a essere un Paese vitale sul piano democratico. Renzi è ambizioso (dotato anche di un certa dose di egocentrismo come tutti i leader del mondo), ma la sua ambizione è stata messa al servizio di un programma. Ha introdotto riforme elettorali, istituzionali, del mercato del lavoro o dell’amministrazione pubblica e non si è semplicemente limitato a occupare le televisioni. Il leader plebiscitario risponde generalmente alla storia o al destino (si pensi a De Gaulle). Renzi deve invece rispondere alla sinistra del suo partito che lo critica con sistematicità. Insomma, un leader plebiscitario vive solo di simbolismi. Juan Peron era famoso in Argentina perché faceva discorsi coraggiosi, cui non sono mai seguite scelte di governo altrettanto coraggiose. I principi democratici non vanno confusi con quelli autoritari e populisti. Non c’è nessuno oggi che possa dubitare che il governo tedesco coincida con Angela Merkel: lei prende posizione ed entra nel merito del dibattito (basti pensare alla questione dei rifugiati), esponendosi quindi alla critica e all’opposizione. E qui incontriamo un problema cruciale. Le democrazie moderne hanno bisogno di leader, ma devono anche tenerli sotto controllo. Nelle democrazie parlamentari il controllo principale deve provenire dall’opposizione. Ciò che manca all’Italia è soprattutto questa. Quando c’era Silvio Berlusconi man- cava l’opposizione di centrosinistra, adesso che c’è Renzi non c’è l’opposizione di centrodestra. L’opposizione sparisce quando i partiti che la costituiscono non sono in grado di trasformarsi in veri e propri contro-governi. Ma naturalmente l’opposizione non basta. Ci vogliono anche controlli costituzionali, giudiziari e sociali. La stampa ha un ruolo fondamentale in proposito. Tuttavia, il controllo non va confuso con l’inibizione all’esercizio del potere politico, cosa che è avvenuta regolarmente da noi. Insomma, va consentito al leader di governare e va quindi controllato per gli effetti della sua azione. Inoltre, il leader è tanto più forte quanto più le istituzioni pubbliche o sociali o economiche o informative sono indipendenti dalla politica. La logica delle politica democratica (che si basa sul numero) non può entrare in istituzioni (si pensi a quelle educative, informative, amministrative) che dovrebbero basarsi sul merito. Se la politica entra dappertutto, è evidente che il leader non incontrerà facili controbilanciamenti. Purtroppo l’Italia è stata troppo politicizzata nelle sue strutture istituzionali e sociali. La depoliticizzazione e la sua sostituzione con la meritocrazia richiederà tempo ed energie. In conclusione, un’élite politica moderna dovrebbe preoccuparsi, innanzitutto, di dare al Paese una democrazia governata e capace di fare emergere buoni leader, perché le società che non si governano da sole finiscono per sottostare al governo degli altri. Quindi, in secondo luogo, deve costruire un sistema politico aperto alla discussione e al controllo pubblico. L’utilizzo del web può aiutare, ma non può sostituire la democrazia rappresentativa. La modernità politica consiste in una terza via tra il populismo tecnologico e l’oligarchismo partitico. 21 STORIA DI COPERTINA La regola del più forte e l’esempio di Trump di John J. Pitney Jr. Docente di Politica americana presso il Claremont McKenna College Non è affatto una sorpresa che così tanti telespettatori americani apprezzino Frank Underwood, e che così tanti elettori stiano scegliendo Donald Trump. Come il presidente della serie, Trump farà di tutto per spuntarla. I suoi sostenitori non si preoccupano che ciò che dice sia completamente falso, poiché alla base del loro ragionamento c’è l’assunto che tutti gli altri politici siano dei bugiardi. House of cards è finzione. Nel mondo reale, la regola del più forte non garantisce governo efficiente o prosperità economica: basti comparare la Corea del Nord con la Corea del Sud. Se Trump dovesse diventare presidente, chi avrà votato per lui imparerà in fretta questa lezione. A differenza di una serie televisiva, tuttavia, un mandato presidenziale non è soggetto a rapida cancellazione in caso di valutazioni negative Recenti sondaggi mostrano che gli americani hanno perso fiducia nei riguardi della presidenza, del congresso, della Corte suprema e dei mass media. Secondo una ricerca del 2013, solo un terzo degli americani si fiderebbe della maggior parte delle persone. Quasi due terzi hanno dichiarato che non si è mai troppo prudenti nei rapporti con gli altri. Tali risultati spiegano perché House of cards sia così popolare negli Stati Uniti: un programma cinico per tempi cinici. Sicuramente la cultura popolare americana ha sempre trattato la politica con un certo scetticismo. Nel xix secolo il grande romanziere Mark Twain affermò: “Può venire probabilmente spiegato dai fatti e dalle cifre che non c’è una classe criminale americana significativa a eccezione del Congresso”. Nel xx secolo, l’umorista Will Roger ha scritto: “Un politico è proprio come un borseggiatore. È quasi impossibile 22 riformarlo”. Anche nell’idealistico film del 1939, Mr Smith va a Washington, il protagonista lotta contro una macchina politica corrotta che lo controllava e aveva quasi piegato il Senato alla sua volontà. Tuttavia, la produzione cinematografica e televisiva inerente alla politica americana ha anche dato spazio a personaggi nobili e di buone intenzioni. Nella seria di lungo corso The West Wing (1999-2006) il presidente era Jed Barlet (Martin Sheen), un uomo brillante che aveva vinto il premio Nobel per l’economia e che cercava sempre di fare la cosa giusta. Il mondo di House of cards è differente. All’inizio della quarta stagione Frank Underwood (Kevin Spacey) è diventato presidente grazie a diversi inganni e a un omicidio. Quasi tutti intorno a lui possiedono un’agenda nascosta e la retorica relativa all’interesse pubblico appare una copertura per manovre politiche egoistiche. “Pensi che io sia un ipocrita? Be’, dovresti”, dice Underwood in una delle sue molte digressioni. “Io non sarei in disaccordo. La strada verso il potere è lastricata di ipocrisia e vittime”. La serie è ampiamente imprecisa su molti aspetti. I politici spesso si comportano male, ma di solito non dormono con i giornalisti per poi gettarli davanti ai vagoni della metropolitana. Durante le prime due stagioni i miei studenti hanno riso parecchio quando ho comparato alcune clip del programma con dei filmati che mostrano il reale funzionamento del ramo legislativo. La terza stagione si discosta ancora di più dalla realtà. Underwood sceglie la propria moglie come ambasciatore presso le Nazioni Unite, sebbene una legge del 1967 vieti a un presidente di assumere membri della propria famiglia. Nonostante questi errori, House of cards permette di intuire alcuni aspetti dell’atmosfe- formiche 112 — marzo 2016 «Ai telespettatori americani è sembrato plausibile che la classe politica consista per lo più di persone cattive. Il fatto che un furfante sia in carica non significa che egli non possa essere efficace. House of cards interpreta questo sentimento » ra politica statunitense. Quando la serie ha debuttato nel 2013, Barack Obama aveva già concluso il primo mandato come presidente e l’iniziale discorso di speranza e cambiamento aveva lasciato il posto a frustrazione e stallo. Nonostante Obama abbia vinto il premio Nobel per la pace, è stato incapace di evitare che il mondo diventasse un posto più violento. La nuova legge sull’assistenza sanitaria non è stata così popolare e la crescita economica è stata disattesa. Nel frattempo molti ex funzionari dell’amministrazione hanno usato la propria esperienza per ottenere impieghi ben pagati in grandi aziende. Le uniche persone che sembrano essere riuscite ad andare avanti sono state quelle con grandi ricchezze e contatti politici. Ai telespettatori americani è sembrato plausibile che la classe politica consista per lo più di persone cattive senza alcuna preoccupazione per il bene pubblico. Il fatto che un furfante sia in carica non significa che egli non possa essere efficace. House of cards interpreta questo sentimento. In un video del 2014 per la cena dei corrispondenti dalla Casa Bianca, Kevin Space ha parlato nelle vesti di Underwood: “Posso mentire, ingannare e intimidire per ottenere ciò che voglio, ma alla fine porto a casa il lavoro. Quindi spero che alcuni di voi abbiano preso appunti”. Dopo aver imbrogliato nel suo cammino verso la vice presidenza, all’inizio della seconda stagione ha affermato: “A un passo dalla presidenza senza neanche un voto per me. La democrazia è così sopravvalutata.” Disturba osservare quanti americani siano d’accordo. Secondo la World Values Survey, circa un sesto pensa che se fosse l’esercito a governare sarebbe una buona cosa. Tra il quinto più facoltoso della popolazione, più del 40% vorrebbe avere un leader forte che non deve preoccuparsi del Congresso e di elezioni. Tali sentimenti sono comuni quando persistono i problemi sociali e il governo appare incapace di affrontarli. Perciò non è affatto una sorpresa che così tanti telespettatori americani apprezzino Frank Underwood, e che così tanti elettori stiano scegliendo Donald Trump. Come il presidente della serie, Trump farà di tutto per spuntarla. I suoi sostenitori non si preoccupano che ciò che dice sia completamente falso, poiché alla base del loro ragionamento c’è l’assunto che tutti gli altri politici siano dei bugiardi. House of cards è finzione. Nel mondo reale, la regola del più forte non garantisce governo efficiente o prosperità economica: basti comparare la Corea del Nord con la Corea del Sud. Se Trump dovesse diventare presidente, chi avrà votato per lui imparerà in fretta questa lezione. A differenza di una serie televisiva, tuttavia, un mandato presidenziale non è soggetto a rapida cancellazione in caso di valutazioni negative. Traduzione di Stefano Pioppi 23 Themis di Antonio Maria Leozappa Docente di Diritto commerciale presso l’Università Niccolò Cusano È alle tavole fondazionali che, nei momenti di crisi, occorre guardare se si vuole vivificare la ragion d’essere di una comunità che ha smarrito la propria identità, come quella europea. Si legge nel Trattato di Lisbona che l’Unione Europea mira a un’“economia sociale di mercato fortemente competitiva” (art. 3). Già ne La crisi sociale del nostro tempo, risalente alla Seconda guerra mondiale, Wilhelm Röpke, uno dei teorici dell’Economia sociale di mercato (Esm), dimostrava come all’origine della crisi del capitalismo – considerata una forma storica e degenerata dell’economia di mercato – ci fossero quelli che vengono definiti “i traviamenti del liberalismo storico” e, in particolare, il “fanatismo razionalistico” che porta a ignorare i dati vitali e antropologici; nonché l’“economicismo” che pone a fulcro di ogni cosa gli elementi economico-materiali, da cui tutto deriva e a cui tutto è subordinato, “quali puri mezzi di fronte al fine”. Per Ropke, l’economia di mercato è un “ordinamento economico”, che per ben funzionare ha bisogno di un forte inquadramento morale-politico-istituzionale. Allo Stato spetta fornire la cornice giuridica che assieme a quella etica – che deve essere assicurata dai corpi sociali intermedi (come la famiglia, la chiesa, la scuola) – impedisce che l’economia di mercato cada vittima di un “capitalismo feudale”. Se questi sono i fondamentali dell’E24 Ue, dall’economia all’oikonomia sm, è evidente che per affrontare la crisi socioeconomica dell’Unione europea, più che ribaltare – come sostenuto da Stefano Zamagni (avvenire.it, 8 ottobre 2014) – i principi del Noma (Non-overlapping magisteria), è necessario rispettare la divisione dei magisteri; come marcato sempre da Zamagni: “La politica è il regno dei fini che la società intende seguire; l’etica è il regno dei valori che devono guidare i comportamenti individuali e collettivi; l’economia è il regno dei mezzi migliori per conseguire i fini che la politica sceglie nel rispetto dei vincoli che l’etica pone” (Prudenza, Il Mulino, 2015). Se si volesse effettivamente una programmazione delle politiche comunitarie ispirata all’Esm, il primo step dovrebbe essere passare dall’economia alla oikonomia, ossia a una amministrazione della casa-oikos che riconosce al complemento di specificazione una funzione soggettiva. In altri termini, è l’amministrazione che deve essere funzionale alla casa e non il contrario: la casa non è l’oggetto, ma il fine in ragione del quale si orienta e alla luce del quale si valutano efficienza ed efficacia dell’amministrazione. Cos’è la casa, l’oikos? È l’ambiente vitale e identitario della comunità minimale, nel quale vige non già il principio dello scambio, ma quello della reciprocità dove il noi prevale sull’io non come limite, ma come orizzonte comune. Sul piano politico, la conseguenza è che le decisioni non trovano legittimazione nella prevalenza della maggioranza, basata sull’ordine binario amico-nemico, ma nella capacità di esprimere un compromesso fondato sullo stare assieme. La casa è il regno della prima persona plurale. Il “noi-tutti” della Caritas in Veritate di Benedetto XVI. La sfida è culturale. Perché considerare la casa non un oggetto – rispetto al quale la scienza economica si esercita in autonomia – ma come il soggetto che pone gli obiettivi da conseguire e i valori da preservare significa restaurare la sovranità della politica e restituire l’economia all’ordine dei mezzi. Ropke ammoniva di evitare il “fanatismo razionalistico” e di rispettare i dati vitali e antropologici. Una lezione disconosciuta dall’attuale dirigenza di Bruxelles, se si pensa – per rimanere alla casa, questa volta però intesa come unità immobiliare – che l’ex commissario Ue, Mario Monti, non ha esitato, ad Agorà lo scorso 28 luglio, a contestare l’annunciata soppressione dell’Imu, ritenendo la tassazione della prima casa necessaria a trasformare il modo di vivere degli italiani. La tassazione disincentiva l’investimento immobiliare e, dunque, promuove la mobilità. La “famiglia è sacra” ha detto l’ex premier, ma “l’Italia è poco competitiva”. Ecco che nemmeno il nucleo minimale degli affetti familiari può ritenersi salvo dinanzi alle esigenze dell’economia. Ma è questa l’Unione europea del Trattato di Lisbona? Snapshots House of cards di Francesca Scaringella giochi via web che dal 2008 è diventato un servizio streaming on demand, accessibile dopo abbonamento e che da pochi mesi è sbarcato anche nel nostro Paese. Dopo il suo esordio nel 2013, House of cards è giunto ormai alla quarta stagione. Un thriller politico nato in Uk Tratta dall’omonimo romanzo del 1989 firmato dal politico britannico Michael Dobbs, House of cards è la serie Tv che più ritrae il lato oscuro del potere. Francis “Frank” Underwood è un deputato del Partito democratico, interpretato da Kevin Spacey, che attraverso macchinazioni spietate, diventa presidente degli Stati Uniti. Il libro di Dobbs è il primo di una trilogia che ha ispirato tre miniserie andate in onda negli anni Novanta sulla Bbc inglese. La programmazione italiana La serie è trasmessa in Italia da Sky Atlantic in esclusiva, ma è Netflix che la produce, ovvero il servizio di noleggio dvd e video- fu2016.com. Un’idea molto ben congegnata, fin dalla home page che ha un Underwood in primo piano che muove gli occhi verso l’utente, proprio come è solito fare guardando in camera durante gli episodi. Riconoscimenti che confermano un successo Kevin Spacey e Robin Wright, che interpreta Claire, la moglie di Underwood, sono stati premiati con il Golden Globe, l’uno nel 2015 e l’altra nel 2014. Anche il regista David Fincher – produttore insieme a Spacey della serie e regista della puntata pilota della prima stagione – ha vinto nel 2013 un Emmy come miglior regista. Un sostegno al candidato alla Casa Bianca La quarta stagione vede Frank Underwood in piena campagna elettorale. Il pubblico può supportare il candidato alla Casa Bianca grazie al suo sito personale https://www. L’interlocutore misterioso Proprio riguardo all’abitudine del protagonista – ormai diventata un appuntamento fisso con gli spettatori – di girarsi direttamente in camera, Kevin Spacey in un’intervista al Late show di Stephen Colbert ha rivelato (simpaticamente) con chi parla realmente Frank Underwood quando si rivolge alle telecamere: a Donald Trump! 25 ECONOMIA Tra Europa e Usa, un nuovo accordo sui dati personali @ SMS ECONOMIA Dal Safe harbour al Privacy shield di Simone Crolla Consigliere delegato American chamber of commerce in Italy Dopo mesi di intense negoziazioni, lo scorso 2 febbraio la Commissione europea e il governo americano hanno raggiunto un nuovo accordo sul trattamento, la conservazione e l’utilizzo di dati personali. Il nuovo quadro normativo denominato Eu-Us Privacy shield supera e sostituisce il Safe harbour, invalidato il 6 ottobre in seguito alla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (Cgue) Nell’ottobre del 1998 la Commissione europea, prendendo atto della diversità di approccio alla protezione della privacy tra Europa e Stati Uniti, ha emanato la direttiva sulla data protection, vietando il trasferimento di dati personali verso Paesi non appartenenti all’Unione europea che non soddisfano gli standard di protezione previsti dalla normativa comunitaria. Le due aree geografiche, infatti, pur condividendo l’obiettivo di rafforzare la tutela della privacy dei propri cittadini differiscono sugli approcci e i meccanismi di difesa degli stessi. Per colmare queste differenze d’approccio e fornire agli operatori negli Stati Uniti uno strumento semplice per conformarsi a quanto previsto dalla direttiva, il Dipartimento del commercio americano e la Commissione europea hanno sviluppato un programma denominato Safe harbour. Attraverso l’adesione a questo programma, le aziende americane ottenevano un riconoscimento automatico del rispetto degli standard di protezione dei dati personali richiesti dalla Commissione europea, evitando disagi quali interruzioni nei loro rapporti commerciali in Europa o problematiche con le autorità garanti della privacy nei diversi Stati membri. Nel novembre 2001 anche il garante italiano ha preso atto dell’intesa tra Usa e Ue e, riconoscendo il Safe harbour, ha autorizzato il trasferimento dei dati personali 28 dall’Italia verso gli Stati Uniti. Lo scorso 6 ottobre l’equilibrio raggiunto con il Safe harbour è venuto meno con la sua invalidazione da parte della Cgue, in seguito alle vicende legate al controllo – per ragioni di sicurezza nazionale – da parte di autorità pubbliche americane dei dati personali di cittadini europei in possesso di organizzazioni basate negli Stati Uniti. La sentenza della Cgue ha di nuovo acceso nell’opinione pubblica il non secondario dibattito sulla privacy e la sua tutela. Tuttavia, l’invalidazione del Safe harbour non ha solo implicazioni legate al rispetto o alla violazione della sfera privata degli individui, ma anche un significativo impatto sull’attività di migliaia di aziende, europee e americane, che per fornire i propri servizi e sviluppare i propri prodotti utilizzano in modo legittimo questi dati e che con l’abolizione del Safe harbour si trovano a dover considerare importanti investimenti in infrastrutture di deposito dei dati in Europa per non incorrere in pesanti sanzioni. Negli Stati Uniti sono ben 4.243 le aziende che hanno aderito al Safe harbour, e molte di queste costituiscono importanti investitori esteri in Europa e nel nostro Paese. Molto spesso quando si parla di trasferimento e utilizzo di dati si fa riferimento alle aziende dell’Internet economy e dell’Information technology – quali Google, Facebook, Twitter – ma, in un’economia sempre più caratterizzata dall’utilizzo della tecnologia, il trasferimento e l’utilizzo di dati sono diventati fondamentali anche per i settori dell’hospitality, assicurativo, farmaceutico, manifatturiero, ristorazione, ecc. Aziende quali Whirlpool, Hp, Ibm, Parker Hannifin, McDonald’s, United Technologies, Pfizer, solo per citarne alcune, sono tra i principali investitori e tra i primi datori di lavoro esteri nel nostro Paese e tutti si avvalevano del Safe harbour. Lo formiche 112 — marzo 2016 L’ACCORDO_IL PRIVACY SHIELD IN PILLOLE Nel comunicato della Commissione europea si leggono quelli che sono i punti salienti dell’accordo politico: regole stringenti e obbligo di rispettare le decisioni dei garanti europei a carico delle aziende americane; Dipartimento del commercio e Federal trade commission saranno i controllori sul suolo Usa; l’accesso di autorità pubbliche e intelligence ai dati europei sarà soggetto a chiare limitazioni, garanzie e meccanismi di controllo; verrà esclusa ogni forma di sorveglianza di massa; novità anche sul fronte dei ricorsi, per cui le aziende Usa avranno un tempo limite per rispondere ai reclami, le autorità garanti europee potranno presentare ricorsi ai controllori negli Usa, dove sarà creato anche un ombudsman per eventuali abusi dall’intelligence scambio e l’utilizzo regolato di dati non rappresenta un vantaggio solamente per le imprese americane, ma anche per quelle europee. Il rapporto commerciale transatlantico – il più consistente a livello mondiale con oltre 1.000 miliardi di scambi commerciali e 4mila miliardi di investimenti – conta in gran parte sull’efficacia e la sicurezza di questi flussi di dati, consentendo alle aziende italiane ed europee di accedere a nuovi mercati, rendere più efficiente la propria struttura produttiva e utilizzare servizi disponibili solamente dall’altra parte dell’oceano. Secondo il portale di dati Statista, il numero di persone che a livello globale ha effettuato un acquisto online è aumentato al 38% nel 2013, al 40,4% nel 2014 e supererà il 45% nel 2017. Il valore del mercato degli acquisti online negli Stati Uniti è passato da 13,63 a 42,1 miliardi di dollari tra 2011 e 2013 e ci si aspetta che raggiunga i 133 miliardi nel 2018 (Statista Dossier, Global Internet Usage 2014). Queste tendenze rappresentano una vera e propria opportunità di crescita per le aziende e, conseguentemente, per i Paesi. Ciò è particolarmente vero per le Piccole e medie imprese (che nel nostro Paese rappresentano il 99,9% delle aziende e il 99,8% di quelle europee – European commission, Enterprise and industry: 2013 Sba Fact sheet, Italy, 2013) che, non potendo fare affidamento su strutture articolate e diffuse, utilizzano le tecnologie e Internet per crescere e raggiungere nuovi clienti e partner. Lo scorso 2 febbraio la Commissione europea e il governo americano hanno raggiunto un nuovo accordo, denominato Eu-Us Privacy shield, che supera il Safe harbour limitando la possibilità di accesso di agenzie pubbliche americane a dati relativi a cittadini europei conservati negli Stati Uniti. Questi ulti- mi avranno la possibilità di interpellare un ombudsman (difensore civico) all’interno del Dipartimento di Stato, nel caso in cui ritengano che le organizzazioni in possesso dei dati non abbiano gestito le loro richieste in modo appropriato. Per le imprese, il nuovo quadro normativo rappresenta sicuramente un ottimo punto di partenza, evitando che gli scambi economici tra Europa e Stati Uniti ne risentano. Tuttavia, alcuni elementi d’incertezza rimangono, tra cui un ulteriore chiarimento in relazione ai dettagli d’implementazione che i negoziatori europei e americani stanno discutendo e al recepimento del nuovo accordo da parte delle autorità nazionali per la protezione della privacy che, in base alla sentenza della Cgue, hanno diritto di esaminare in piena indipendenza se il trasferimento dei dati di una persona verso un Paese terzo rispetti i requisiti stabiliti dalla direttiva. I prossimi mesi saranno di cruciale importanza per capire quali saranno le caratteristiche finali di questo accordo e l’impatto che questo avrà sulle attività delle aziende e sulla tutela della privacy dei cittadini europei. L’esito del negoziato acquisisce un particolare significato anche nel contesto dell’attuale discussione in corso del Transatlantic trade and investment partnership (Ttip), l’accordo di libero scambio tra Europa e Stati Uniti che potrebbe rafforzare ulteriormente i legami economici tra le due aree. I policy-maker americani ed europei si trovano di fronte alla possibilità, o forse la sfida, di muovere un ulteriore passo in avanti nel rafforzare l’asse economico-culturale transatlantico, che per lungo tempo ha rappresentato – e può continuare a rappresentare anche di fronte allo spostamento degli equilibri geopolitici verso oriente – un importante motore di crescita. 29 ECONOMIA Il vuoto fa meno paura di Antonello Giacomelli Sottosegretario di Stato del ministero dello Sviluppo economico con delega alle Comunicazioni Un’intesa tra Europa e Stati Uniti ha un valore strategico fondamentale per l’economia di Internet e per la salvaguardia della Rete così come l’abbiamo conosciuta. La centralità, non solo economica, dei cosiddetti over-the-top ci costringe oggi a ragionare in termini costituenti di diritti e doveri della persona, e la dimensione europea è quella minima per iniziare a farlo. Il vuoto normativo va certamente colmato a livello europeo. Il vuoto politico, dopo il Privacy shield, fa meno paura Non sottovaluterei il valore politico dell’accordo del 2 febbraio tra Commissione europea e Stati Uniti sul cosiddetto Privacy shield, il nuovo quadro giuridico per il trasferimento dei dati personali dei cittadini che sostituirà il regime di Safe harbour. L’intesa potrà essere rivista ogni anno e dovrà salvaguardare i poteri di indagine delle autorità della privacy dei Paesi europei. Ma credo che, per i cittadini e per le aziende, il patto Ue-Usa sia un’ottima notizia per almeno due ordini di ragioni. Primo, perché l’Europa corre seriamente il pericolo che si affrontino le questioni centrali della privacy nell’epoca di Internet solo a colpi di sentenze della Corte di giustizia: prima quella sul diritto all’oblio poi quella sul Safe harbour hanno costretto un po’ tutti ad aprire gli occhi sul problema, ma non ne hanno offerto una via d’uscita. Lo stesso WP29, il gruppo di lavoro che riunisce i garanti della privacy del Vecchio continente, ha chiesto in più occasioni ai governi europei una soluzione politica da negoziare con Washington. Secondo, perché un’intesa tra Europa e Stati Uniti ha un valore strategico fondamentale per l’economia di Internet e per la salvaguardia della Rete così come l’abbiamo conosciu- ta. Lo sappiamo: di qua e di là dall’Atlantico, l’approccio al tema della privacy esprime sensibilità diverse, ma l’idea di Rete come spazio aperto e orizzontale, come luogo delle libertà e delle opportunità è un valore altrettanto cruciale che accomuna le due sponde dell’oceano e che va salvaguardato. Durante il semestre di presidenza italiano abbiamo sollecitato una posizione comune dei Paesi Ue sulla governance di Internet e sulla net neutrality, proprio come premessa per un rapporto leale ma privilegiato innanzitutto con gli Stati Uniti. La centralità, non solo economica, dei cosiddetti over-the-top ci costringe oggi a ragionare in termini costituenti di diritti e doveri della persona, e la dimensione europea è quella minima per iniziare a farlo. La questione fiscale è un vuoto che va riempito, ma pensare di poter contrapporre l’idea di un’Europa “solo delle regole” agli Usa dell’innovazione è un rischio che non possiamo correre, anche perché ci vedrebbe perdenti. Ricordo che il Garante della privacy italiano, primo in Europa, ha raggiunto un accordo con Google che consente anche di inviare i propri ispettori a controllare i server di Mountain View, come già sta avvenendo nonostante la distrazione dell’opinione pubblica. E mi risulta che la strada scelta dall’Italia sia stata seguita da altri Paesi europei. Il vuoto normativo va certamente colmato a livello europeo. Il vuoto politico, dopo il Privacy shield, fa meno paura. 31 ECONOMIA Rafforziamo i vincoli giuridici di Cosimo Maria Ferri Sottosegretario di Stato presso il ministero della Giustizia Il negoziato sul Privacy shield ha dischiuso prospettive promettenti in cui l’Italia potrà giocare un ruolo determinante in ambito di definizione tecnica dei contenuti. Le materie dell’accordo rivestono interesse e rilevanza particolare per i nostri cittadini, per questo le istituzioni hanno ben chiare le direttrici su cui promuoverne lo sviluppo. Strategico, infatti, sarà il rafforzamento dei vincoli giuridici sottostanti al Privacy shield e la loro piena ed efficace operatività e azionabilità per permettere alla nuova tutela di essere completa La tutela dei dati personali, dopo le rivelazioni di Edward Snowden, ex collaboratore esterno della National security agency (Nsa), è divenuta oggetto di scrupolosa attenzione. Il tema della sicurezza e riservatezza dei dati dei cittadini europei ha infatti istantaneamente catturato l’interesse pubblico e sollecitato timori profondi, in parte confermati dalle numerose e successive indiscrezioni fuoriuscite sulla bulk collection, raccolta di massa effettuata dalle agenzie d’intelligence. Preoccupazioni che sono state ulteriormente accese dalla materiale conservazione dei dati digitali di milioni di utenti, come anche di numerose istituzioni, banche, imprese e organizzazioni in territorio statunitense presso i server e le banche dati dei colossi americani dell’Information and communication technology. Sono proprio le grandi aziende americane al centro dell’attenzione perché, in ragione della loro attività commerciale, si trovano a manipolare una raccolta di dati consistente per ogni singolo cittadino: basti pensare alla posta elettronica, all’archiviazione nei cloud o alla possibilità di usufruire di potenza aggiuntiva di calcolo in via temporanea. Alla 32 base del trasferimento dei dati oltreoceano vi sono ragioni di economia di scala che permettono alle aziende di operare in maniera significativa sui loro costi di gestione e così di offrire ai clienti un’innumerevole scelta di servizi gratuitamente, o quasi, dato il valore commerciale delle profilazioni commerciali che si traggono dall’incrocio anche anonimo dei dati. Apple, Amazon, Microsoft, Facebook, Google, giusto per citare alcune fra le più famose e influenti aziende, conservano infatti nei loro server farm una mole sterminata di dati che definiscono molte volte chi siamo, con chi interagiamo, cosa ci piace, cosa ci incuriosisce e a cosa aspiriamo. In questo scenario orwelliano, che comporta un inimmaginabile potere di sorveglianza a qualsiasi regime totalitario del secolo breve, sorge spontanea una domanda preoccupata: chi tutela i nostri diritti? La collocazione fisica dei server negli Stati Uniti crea infatti una questione giuridica che è stata fino a oggi risolta attraverso strumenti che si raccolgono sotto la dicitura Safe harbour, o Approdo sicuro. La disciplina europea in materia di protezione dei dati personali è stata sin dall’inizio oggetto di legislazione precisa e puntuale, anche se da alcuni è considerata ancora perfettibile. Una rapida ricognizione può essere utile. Il primo intervento del legislatore comunitario ha previsto la direttiva 95/46/ CE (recepita dalle leggi 675 e 676 del 31 dicembre 1996), che mirava a bilanciare fra le necessità per la realizzazione del mercato interno e la protezione dei dati personali. Successivamente, nel solco del Trattato di Amsterdam, il regolamento 45/2001 disciplina la raccolta dei dati da parte delle stesse istituzioni europee. Vi è poi la decisione 2013/504/UE che prevede l’istituzione di un Garante europeo per la protezione dei dati. formiche 112 — marzo 2016 «Apple, Amazon, Microsoft, Facebook, Google conservano nei loro server farm una mole sterminata di dati che definiscono molte volte chi siamo, con chi interagiamo, cosa ci piace, cosa ci incuriosisce e a cosa aspiriamo » Infine, preme citare la proposta del 25 gennaio 2012 per una regolazione generale della protezione dei dati, General data protection regulation (Gdpr), approvata dal Parlamento europeo e che dovrebbe divenire operativa nel 2018. Stanti queste tutele, la Commissione europea aveva stipulato un accordo di Safe harbour con gli Stati Uniti. Il sistema però è stato messo in crisi da un giovane austriaco, Maximillian Schrems, che nel 2013 decide, sull’onda delle rivelazioni Snowden, di denunciare le carenze del sistema di protezione, specialmente rispetto alle attenzioni della Nsa. La sua battaglia legale inizia presso l’Autorità per la tutela dei dati irlandese dove si trovano i server di Facebook di primo passaggio per gli Usa. La prima risposta, richiamando la salvaguardia del Safe harbour a tutela dei dati personali, è stata negativa. La questione è giunta poi alle attenzioni della Corte di giustizia dell’Unione europea (Cgue) che, esprimendosi il 6 ottobre 2015, osserva in primo luogo che, se è vero che esiste un accordo, questo non preclude il controllo da parte delle istituzioni europee competenti riguardo ai contenuti dello stesso e alla loro conseguente applicazione. La Cgue prosegue quindi nel merito, osservando come la tutela del Safe harbour sia operativa nei confronti dei soggetti privati, ma una simile protezione non è opposta nel caso sia un soggetto pubblico statunitense a richiedere l’accesso ai dati. Per la Cgue tale regime d’accesso generalizzato al contenuto delle comunicazio- ni elettroniche viene considerato lesivo del contenuto essenziale previsto nel diritto al rispetto della vita privata. La soluzione giunge con il nuovo accordo Privacy shield fra Ue e Usa, sviluppato per rispondere alle richieste di tutela accresciuta da parte europea. Fra i suoi contenuti salienti vi sono una serie di obblighi dettagliati a cui le aziende che trasferiranno i dati negli Usa dovranno conformarsi, la riduzione dei programmi di sorveglianza di massa delle agenzie d’intelligence volti alla raccolta dei dati personali senza alcuna salvaguardia o limite, la possibilità di ricorrere per i cittadini europei a livello individuale o di istituzioni per la tutela dei propri diritti anche presso un ombudsman, appositamente istituito presso il Dipartimento di Stato americano. Se l’efficacia del nuovo accordo sembra adeguata secondo il primo vaglio da parte della Commissione, e si potrebbe considerare la questione risolta, tuttavia sono ancora in corso le valutazioni analitiche sul contenuto dell’accordo sia da parte dei rappresentanti dei governi degli Stati membri dell’Ue sia da parte delle numerose agenzie nazionali per la tutela dei dati personali, senza contare che alcuni attivisti ritengono il Privacy shield ancora insufficiente. In ogni caso, il negoziato ha dischiuso prospettive promettenti in cui l’Italia potrà giocare un ruolo determinante in ambito di definizione tecnica dei contenuti. Le materie dell’accordo rivestono interesse e rilevanza particolare per i nostri cittadini, per questo le istituzioni hanno ben chiare le direttrici su cui promuoverne lo sviluppo. Sarà, infatti, strategico il rafforzamento dei vincoli giuridici sottostanti al Privacy shield e la loro piena ed efficace operatività e azionabilità per permettere alla nuova tutela di essere completa. 33 ECONOMIA I risvolti per Ttip e data protection di Sergio Boccadutri Coordinatore area innovazione del Pd È fondamentale rendere il Privacy shield coerente con tutte le discussioni in corso, a partire dal Ttip e dall’umbrella agreement fino al nuovo regolamento sul data protection che entrerà in vigore nella prima parte del 2016. Il fatto che la Commissione europea e il Dipartimento del commercio americano si riuniranno una volta all’anno per rinnovare o modificare i termini dell’accordo è la circostanza più rilevante e indica la necessità di una regolamentazione sempre più dinamica e al passo con le innovazioni Ogni giorno sui social media vengono condivisi 500 milioni di foto e ogni minuto almeno 200 ore di video. Numeri che possono impressionare ma che sono destinati a crescere ancora, perché la narrazione delle nostre esperienze è sempre più affidata a luoghi virtuali che ci permettono di condividerle con amici e conoscenti. Senza considerare inoltre i flussi di email, messaggistica, servizi di cloud di cui ci avvaliamo quotidianamente per lavoro, studio o tempo libero. Non sono solo le comunicazioni one-to-many a passare dai social ma ormai anche molte di quelle one-to-one, così come l’archiviazione di dati, anche tra i più sensibili, avviene sempre meno su supporti fisici di nostra proprietà, ma sempre di più in remoto. Per le generazioni native digitali la domanda “Dove sono i miei dati?” suona non completamente sensata, e forse addirittura incomprensibile se riferita a luoghi fisici. Risultano, invece, di immediata comprensione da parte di tutti, almeno a grandi linee, le problematiche legate al rischio di un’esposizione impropria dei nostri dati, e non solo di quelli sensibili. Per quanto ci riguarda, come europei, è chiaro che questa criticità investe soprattut34 to le relazioni con gli Stati Uniti, visto che la quasi totalità degli over-the-top del web sono americani. Prima della sentenza Max Schrems della Corte di giustizia dell’Unione europea, Ue e Stati Uniti regolavano i propri rapporti con il Safe harbour agreement, l’accordo risalente al 1998, poi recepito nel 2000 (il garante della privacy italiano si pronunciò nel 2001), che consentiva alle imprese americane di autocertificare la propria conformità agli standard europei sulla base dei famosi sette principi, basati in larga parte sulla logica notice and consent. È evidente che si trattava – anche al netto delle rivelazioni di Snowden sull’attività della National security agency (Nsa), che hanno preoccupato non poco questo lato dell’Atlantico – di un modello superato, tarato sugli scambi di dati che potevano esserci negli ultimi anni 90 e primi 2000: un’epoca precedente i social media e con una diffusione molto minore di connessioni, soprattutto mobili, a grande velocità. Del resto, già nel 2013 l’Europa aveva trasmesso 13 raccomandazioni agli Stati Uniti sul Safe harbour, ben prima, quindi, della sentenza di ottobre 2015. La sentenza Schrems ha invalidato di fatto l’accordo del 2000 rendendolo inapplicabile, riconoscendo un ruolo decisivo alle autorità nazionali per quanto riguarda la valutazione delle garanzie offerte ai propri cittadini nel trasferimento di dati oltreoceano. In un quadro di grande transitorietà è giunto l’annuncio del Privacy shield, un nuovo accordo Usa-Ue per superare il vulnus della situazione attuale. È bene ricordare, infatti, che oggi, una volta invalidate le norme del Safe harbour, l’unica modalità in mano alle aziende per procedere al trasferimento dei dati across the pond è avvalersi di clausole con- formiche 112 — marzo 2016 «Sul Privacy shield e sul regolamento europeo sul data protection è necessaria una grande operazione di divulgazione e conoscenza verso i cittadini da parte di tutti gli attori coinvolti » trattuali o delle binding corporate rules. L’annuncio del raggiunto accordo è già un fatto positivo, anche se per vederlo realmente in vigore manca ancora qualche passaggio decisivo, primo fra tutti quello nel Gruppo di lavoro ex Articolo 29, l’organismo composto da un rappresentante per ciascuna delle autorità di protezione dei dati personali degli Stati membri. Da quanto si è appreso, è positivo che saranno previsti limiti alla possibilità per le autorità di pubblica sicurezza di accedere ai dati personali, evitando così attività di monitoraggio indiscriminato e non proporzionate alle finalità di pubblica sicurezza. Inoltre, vi sarà la possibilità per le autorità europee di riportare casi alla Federal trade commission, oppure di rivolgersi a un ombudsman, organismo collegiale creato appositamente in caso di violazioni da parte delle autorità di intelligence. Infine, il fatto che la Commissione europea e il Dipartimento del commercio americano si riuniranno una volta all’anno per rinnovare o modificare i termini dell’accordo è la circostanza più rilevante, e indica la necessità di una regolamentazione sempre più dinamica e al passo con le innovazioni. La staticità, infatti, era il vero punto debole del Safe harbour, che non teneva conto dell’evoluzione rapidissima e imprevedibile della tecnologia: nessuno, specialmente alla vigilia dell’Internet of things, è infatti in grado di prevedere di fronte a quali implicazioni e problematiche ci troveremo da qui a qualche anno, così come nel 2000 era imprevedibile l’epoca social e l’importanza che oggi ricoprono i social media nelle interazioni quotidiane di ciascuno di noi. Un altro aspetto fondamentale è rendere il Privacy shield coerente con tutte le discussioni in corso, da un lato con gli Usa a partire dal Ttip e dall’umbrella agreement e, dall’altro, sulla privacy a livello europeo, primo fra tutti il nuovo regolamento sul data protection che entrerà in vigore nella prima parte del 2016. È un regolamento che aggiorna in modo significativo l’approccio e introduce diritti che suonano completamente nuovi, come il diritto alla portabilità del dato, cioè il diritto da parte dell’utente ad avere piena disponibilità dei propri dati, se si volesse ad esempio trasferirli da un social network a un altro, o il diritto all’oblio, cioè a ottenere la cancellazione completa dei propri dati una volta che si decide di uscire da determinati circuiti. Sul Privacy shield e sul regolamento europeo sul data protection è necessaria una grande operazione di divulgazione e conoscenza verso i cittadini da parte di tutti gli attori coinvolti: legislatori, regolatori, stakeholder ed esperti in materia. Se, infatti, ormai le enormi potenzialità della Rete sono note agli utenti, soprattutto ai più giovani, non si può dire altrettanto sui diritti di cui gli stessi utenti godono per quanto riguarda la privacy. Solo così si supererà definitivamente il modello notice and consent e arriveremo, anche in questo campo, all’età della awareness, ossia della consapevolezza. 35 ECONOMIA La dura legge di Bruxelles di Guido Scorza Presidente dell’Istituto per le politiche dell’innovazione e docente di Diritto dell’informatica presso l’Università di Bologna e l’Università Lateranense Privacy shield, un nome capace, da solo, di evocare un’autentica corazza impenetrabile sotto la quale proteggere la privacy dei cittadini europei anche dall’altra parte dell’oceano. Se sarà davvero diverso dall’accordo del 2000, significherebbe che il governo di Obama ha accettato di modificare sensibilmente le leggi attualmente vigenti negli Usa e di ridimensionare i poteri della propria intelligence L’antefatto è ormai noto ai più: lo scorso 6 ottobre la Corte di giustizia dell’Unione europea ha annullato la decisione della Commissione europea sulla base della quale, sin dal 2000, i dati personali dei cittadini europei vengono trasferiti negli Stati Uniti dalle migliaia di società che vendono ogni genere di prodotti e servizi nel Vecchio continente, ma fanno battere un cuore a stelle e strisce; prime tra tutte, naturalmente, le regine del web come Facebook, Google, Amazon e le loro numerose emule e concorrenti. Una sentenza, quella dei giudici di Lussemburgo, pronunciata in nome dei diritti fondamentali dei cittadini europei, allo scopo dichiarato di scongiurare il rischio che i loro dati potessero continuare a finire negli Usa e – complici fragilità e debolezza del diritto alla privacy d’oltreoceano – finire con il diventare preda dell’ingordigia delle agenzie di intelligence secondo uno schema diventato noto al mondo intero con lo scandalo del Datagate. Guai, in questa prospettiva, a non pensare tutto il bene possibile della sentenza dei giudici di Lussemburgo. Occorre, d’altra parte, riconoscere che l’annullamento della decisione sul Safe harbour ha aperto un vuoto regolamentare senza precedenti nella storia del trasferimento dei dati personali tra Vecchio e Nuovo continente, 36 minacciando di mettere in crisi un elemento strutturale degli scambi internazionali transoceanici. Inevitabile, dunque, che all’indomani della pronuncia della Corte sia iniziata un’autentica partita di scacchi multi-stakeholder e transnazionale alla ricerca di quello che è stato, da subito, battezzato il Safe harbour 2.0, ovvero una nuova edizione del vecchio accordo internazionale che ha consentito per tre lunghissimi lustri l’esportazione di ogni genere di dati personali negli Stati Uniti, considerati un approdo sicuro. Nessuno si è sottratto dal sedersi attorno alla scacchiera. I garanti della privacy europei, compatti nel Gruppo ex articolo 29 a esigere che il governo di Bruxelles cercasse e trovasse in tempi rapidissimi un nuovo accordo con la Casa Bianca – non più di tre mesi – ma, soprattutto, su basi solide, capaci di garantire davvero il diritto alla privacy dei cittadini europei. Le diplomazie internazionali dei due Paesi alla ricerca spasmodica di questo accordo, presupposto indispensabile per la prosecuzione degli affari dei giganti del web da una parte e di migliaia di imprese europee dall’altra. Gli attivisti e lobbisti, rispettivamente di società civile e multinazionali, ciascuno preoccupato non solo che il vecchio Safe harbour fosse sostituito in fretta ma, soprattutto, che fosse sostituito da un accordo migliore per il proprio centro rappresentativo di interessi. E, proprio come attorno a una scacchiera, per mesi una comunità tanto vasta quanto eterogenea di società, istituzioni, cittadini e associazioni non governative ha atteso che da Bruxelles si levasse una fumata bianca e che la Commissione annunciasse il raggiungimento dell’agognato nuovo accordo. E una fumata, in effetti, si è levata il 2 febbraio dal palazzo della Commissione europea: “Gli europei possono stare certi che i formiche 112 — marzo 2016 «L’annullamento della decisione sul Safe harbour ha minacciato di mettere in crisi un elemento strutturale degli scambi internazionali transoceanici » loro dati personali saranno completamente protetti mentre le nostre imprese, in particolare le più piccole, avranno una cornice giuridica certa per sviluppare le loro attività oltre l’Atlantico. Seguiremo da vicino l’attuazione dell’accordo”. Sono queste le parole con cui il commissario europeo al Mercato unico digitale, Andrus Ansip, ha annunciato l’attesissimo raggiungimento, dopo mesi di trattative, del nuovo accordo tra Europa e Usa sul trasferimento dei dati personali. Nessun Safe harbour 2.0 ma, al posto del vecchio nome, ormai abusato, uno nuovo: Privacy shield. Un nome capace, da solo, di evocare un’autentica corazza impenetrabile sotto la quale proteggere la privacy dei cittadini europei anche dall’altra parte dell’oceano. Al diffondersi della notizia, un lungo e fragoroso sospiro di sollievo, amplificato dai media, si è sollevato in entrambi i Paesi. Il nuovo accordo annunciato dalla Commissione colmerebbe il vuoto regolamentare aperto dalla sentenza della Corte di giustizia dell’Ue, in un modo o nell’altro, offrirebbe al mercato e ai suoi protagonisti un nuovo quadro di regole certe nel rispetto delle quali riprendere – o più probabilmente proseguire – lo scambio di dati tra Vecchio e Nuovo continente. Ma il sospiro transnazionale di sollievo è durato una manciata d’ore. “Non abbiamo ancora avuto modo di leggere il testo dell’accordo raggiunto tra la Commissione europea e il governo americano. Abbiamo solo ricevuto rassicurazioni verbali e l’impegno che riceveremo un testo entro le prossime tre settimane”. A parlare, il 4 febbraio, è la presidente del Gruppo ex articolo 29, la francese Isabelle Falque-Pierrottin. È difficile fugare il dubbio che le differenze sostanziali tra il vecchio Safe harbour e il nuovo Privacy shield si fermino a quelle tra i loro nomi. Anche perché – occorre dirlo con grande chiarezza – se il Privacy shield fosse davvero, come bisogna continuare a sperare che sia, qualcosa di diverso dall’accordo del 2000, significherebbe che il governo di Obama ha accettato di modificare sensibilmente le leggi attualmente vigenti negli Usa e di ridimensionare i poteri della propria intelligence. Ed è difficile pensare che la diplomazia della Casa Bianca, davanti a queste richieste, non abbia (diplomaticamente) fatto pesare la circostanza che dopo la strage di Parigi del Bataclan, gli ordinamenti di molti Paesi europei – Francia in testa – hanno, purtroppo, imboccato una strada straordinariamente simile a quella presa dagli Usa dopo quel lontano drammatico 11 settembre. 37 ECONOMIA Tra sicurezza e autonomia di Massimiliano Salini Parlamentare europeo FI – PPE, componente commissione Industria La sfida lanciata dal giovane austriaco Maximillian Schrems a colossi come Facebook consente oggi di stabilire maggiori certezze e sicurezza nella gestione dei dati sensibili. Secondo l’European centre for international political economy, la profonda incertezza normativa che si è venuta a creare dopo la sentenza Schrems di ottobre provocherebbe lo stop totale a ogni trasferimento di dati e a un taglio annuale dello 0,4% del Pil europeo Verso la fine degli anni Novanta, il Congresso degli Stati Uniti lavora per far passare una nuova legge che espanda radicalmente il potere di sorveglianza sugli individui da parte delle agenzie di intelligence: sullo sfondo di un sempre più pervasivo controllo sulle nostre esistenze si sviluppa la trama di un film decisamente riuscito, Nemico pubblico, con Gene Hackman, Will Smith e Jon Voight. Oggi, il controllo delle informazioni e dei dati personali – d’interesse non soltanto per ciascuno di noi ma anche per le grandi aziende, per lo più statunitensi – diventa ancora più strategico. Così come in Nemico pubblico, è sempre più forte la consapevolezza di ciascuno di noi che, utilizzando un computer, siamo più o meno automaticamente monitorati, e ciò ha implicazioni sul piano della privacy e, quindi, dal punto di vista economico. Ritorniamo per un attimo all’eloquio thriller di Gene Hackman: “Il governo è culo e camicia con l’industria delle telecomunicazioni fin dagli anni Quaranta, ha inquinato tutto: può vedere il tuo conto in banca, i file del tuo computer, la tua email, ascoltare le tue telefonate; tutti i cavi, tutte le frequenze, più tecnologia adoperi e più è facile per loro controllarti. Huxley e Orwell avevano visto giu38 sto, ci siamo arrivati”. Un film naturalmente non basta a spiegare tutto, e dobbiamo essere capaci di andare oltre un certo complottismo spiccio, sapendo che la modernità offre sempre, al tempo stesso, nuove opportunità e nuove responsabilità. Una pellicola può tuttavia lanciare un allarme, sollevare l’attenzione su una questione tanto importante quanto sottovalutata. Veniamo dunque alla realtà, calando le parole in contesti concreti. Pensiamo quindi al Safe harbour e ad alcune sue applicazioni concrete: Orange France sta utilizzando i servizi di cloud computing di Amazon US per archiviazione dei dati. Affinché i dati personali dei clienti di Orange France possano essere trasferiti al di fuori dell’Ue, Amazon US ha aderito al Safe harbour, che rappresenta un’alternativa a un accordo contrattuale specifico tra le due società per quanto riguarda il trattamento dei dati personali. Ancora: per una società globale come Mastercard, con sede negli Usa ma con un elevato numero di clienti nell’Ue, non si può fare ricorso a vincolanti norme d’impresa come di solito avviene all’interno di un gruppo societario, al fine di canalizzare la grande quantità di dati personali coinvolti nelle operazioni. Il regime di Safe harbour offre la flessibilità che una tale organizzazione globale necessita per lo svolgimento di queste operazioni. La sfida lanciata dal giovane austriaco Maximillian Schrems a colossi come Facebook consente oggi di stabilire maggiori certezze e sicurezza nella gestione dei dati sensibili. Proviamo ancora una volta a superare non solo i termini del Safe harbour ma anche del Privacy shield. Da un lato, occorre prendere atto di quanto la Rete e le nuove tecnologie pervadano la nostra vita e impattino sul nostro sistema socioeconomico: si pensi che la formiche 112 — marzo 2016 «La Cgue dovrà porsi il problema di coniugare lo sviluppo economico e tecnologico con la sicurezza delle istituzioni, delle aziende e dei cittadini europei, avendo il coraggio di costruire un’apposita architettura europea amica, ma autonoma rispetto agli Usa » profonda incertezza normativa, che si è venuta a creare dopo che la Corte di giustizia dell’Unione europea (Cgue) ha annullato a ottobre l’accordo Usa-Ue, inizia a penalizzare i flussi del commercio transatlantico e a compromettere l’attività di migliaia di imprese italiane che fino a ieri potevano fare affidamento su un accordo che, pur se insufficiente, assicurava una cornice giuridica per i trasferimenti di dati a fini commerciali. Un’assenza di certezza che secondo il think tank European centre for international political economy provocherebbe lo stop totale a ogni trasferimento di dati e a un taglio dello 0,4% del Pil europeo ogni anno. Solitamente, è facile immagine che simili stime siano rivalutate al rialzo. Ebbene, in questo caso può forse essere il contrario e lo sarà ancor di più in prospettiva. La nostra personale interconnessione ne è la prova. Per quanto tempo riusciremmo fare a meno dei social network, del commercio online e delle altre molteplici opportunità offerte dall’innovazione, a partire dalle App, in cambio di pochi, miseri, dati personali? Senza tesi preconcette, e ben al di là dell’approvazione di questo o quel quadro normativo europeo, sono questi i nodi centrali sui quali è doveroso interrogarsi. D’ora in poi, non solo la Cgue, ma anche Commissione, Parlamento e Consiglio dovranno porsi concretamente il problema di coniugare lo sviluppo economico e tecnologico con la sicurezza delle istituzioni, delle aziende e dei cittadini europei, avendo il coraggio – come già si cerca di fare per l’esplorazione dello spazio e la realizzazione di satelliti – di costruire un’apposita architettura europea, efficiente e all’avanguardia, amica ma autonoma rispetto agli Stati Uniti. Chi scrive ritiene che sia sempre necessario mantenere la centralità della persona umana in ogni sviluppo sociale, economico, culturale e politico perché questo è il solo modo, appunto, di garantire al pianeta un futuro realmente umano. Ecco allora che un mondo interamente digerito dagli algoritmi di Google, Amazon, Facebook, Twitter e così via rappresenta una preoccupazione difficilmente esorcizzabile. Eppure l’intera evoluzione dell’uomo ci insegna che, come accennavamo, la storia porta con sé incomparabilmente più benefici che limitazioni o difetti. È questa la lezione anche di un grande intellettuale del nostro tempo, Piero Melograni, di cui bisognerebbe rileggere, a tal proposito, un saggio illuminante come La modernità e i suoi nemici. Un altro italiano ha scritto: “Si trova questo nell’ordine delle cose, che mai non si cerca fuggire uno inconveniente che non si incorra in un altro”. Era il 1513 e l’autore è Niccolò Machiavelli. 39 Mentori Seriamente divertenti di Enzo Argante Presidente di Nuvolaverde MATTEO UGGERI Suona musica elettronica e sperimentale dal 1996 e lavora dal 2000 nel campo del cosiddetto eLearning o meglio dell’innovazione didattica. In questo ramo è stato grafico multimediale e poi a lungo project manager al Politecnico di Milano, dove nel 1999 si è laureato in Design della comunicazione. Con la Fondazione Politecnico di Milano è attivo su progetti internazionali di orientamento, risorse didattiche aperte (Oer e Mooc), competenze trasversali, learning objects (Loms), accreditamento e formazione docenti, serious games e game jam. Su commessa 40 Provare l’ebbrezza di diventare premi Nobel: non c’è bisogno di essere un genio per capire il lavoro dei premi Nobel. Giochi e simulazioni, basate sui risultati dei premi assegnati, insegnano e ispirano giocando. Al limite del buon gusto? Darfur sta morendo: una finestra sull’esperienza dei 2,5 milioni di rifugiati nella regione sudanese del Darfur. I giocatori gestiscono il campo profughi e lo difendono dagli attacchi delle milizie Janjaweed. Conoscere il genocidio in Darfur dove hanno perso la vita 400mila persone. Educazione alla sostenibilità. Sfida climatica: nel gioco si diventa presidente delle nazioni europee e si affronta il cambiamento climatico in maniera efficace, ma anche politica, per diventare popolare quanto basta per rimanere in carica. Inquietante. La povertà è un gioco: Ping mostra come è vivere al limite della povertà. I giocatori devono cercare lavoro e riparo, avendo cura della loro salute e delle relazioni sociali, per sfuggire alle grinfie della totale indigenza e dell’abbandono. Alcuni esempi di serious games, dell’imparare giocando. Ma c’è di più dietro questi espedienti, molto di più. Una vera e propria rivoluzione nei percorsi di apprendimento, anche informale, formazione (formale), nella scuola, nella comunicazione, esterna e interna, soprattutto e ovviamente nell’informazione. Le riscritte leggi del cambiamento e dell’evoluzione digitale della specie umana hanno una nuova – indiscutibile – protagonista che agisce sulle leve primarie: la parola d’ordine è gamification. Letteramente ludicizzazione. E anche la pillola più amara va giù! Nella convinzione – dimostrata a più livelli – che il gioco può cambiare regole e azioni nei processi di apprendimento rendendoli veloci e potentissimi. Non paragonabili ai tradizionali percorsi. Se la gamification è efficace, i ruoli tra docente e discente cambiano, se non addirittura si invertono, e i processi proliferano in ambienti ibridi e coinvolgenti. La cattedra c’è, ma non si vede… È il miglior modo per elaborare quelle competenze trasversali che il mondo del lavoro e dell’impresa reclama a gran voce. Vero e proprio passepartout. Un imperativo. Spiega Matteo Uggeri: “Nella didattica scolastica e universitaria, ma ancora di più nel mondo della formazione aziendale, gamification è entrato nel gergo degli insegnanti scolastici e ancora di più presso i responsabili delle risorse umane nelle aziende: tutti vogliono coinvolgere i discenti con dinamiche ludiche dalle più banali (gare, concorsi) a esperimenti di più alta complessità, ad esempio giochi dove la componente collaborativa permette anche di formare sulle cosiddette soft skill che tanto mancano spesso a chi entra nel mondo del lavoro”. Si scrive gamification, dunque, si legge serious games. Giocare per formare alle abilità e quindi allo sviluppo delle competenze e nello stesso tempo gestire i dati prodotti. Questo vuol dire “Il processo si chiama gamification e propone tra gli strumenti più efficaci i serious games. Il digitale ci consegna un modo di conoscere, approfondire e apprendere divertente e irriverente, giocoso e competitivo, con tanto di classifiche e valutazioni. Ma soprattutto riconosciuto – anche se informalmente – tra i più efficaci metodi di studio, ricerca, aggiornamento. Con qualche colpo di sonno...” anche valutare se questi processi stiano funzionando e vadano nella direzione giusta. “Le aziende hanno bisogno di nuove idee per formare personale stressato, poco motivato e recalcitrante. Scuola e università devono stare al passo con la penetrazione rapida e incontenibile dell’entertainment digitale nella vita dei giovani (e non solo). Il gioco, e il videogioco in particolare, offre molte soluzioni e ha anche altri vantaggi, ad esempio quello di rendere più efficace il monitoraggio dell’apprendimento: se il giocatore-discente ha portato a termine il gioco, se ha vinto, se ha conseguito un punteggio, passato dei livelli, affrontato sfide, posso saperlo, vederlo, misurarlo”. In questo senso si definiscono anche alcune criticità. “Il termine gamification si presta anche a molti contenziosi. Nella scuola è inteso più come un modo per coinvolgere i ragazzi in dinamiche di gioco (si parla anche di game based learning, in queste definizioni ci si può perdere), e si allaccia spesso al discorso della classe capovolta, cioè gli studenti non apprendono le nozioni nell’edificio scolastico, ma a casa e poi sfruttano il tempo in classe per collaborare in dinamiche di gruppo con componenti ludiche. Usando anche il digitale, in forma light, dai video in rete alle lezioni in powerpoint o blenspace preparate da loro stessi per i propri pari. Nelle aziende invece è visto da un lato come strumento di marketing, un modo per formare i dipendenti, specialmente sulle soft skill o competenze trasversali che altrimenti sfuggono. In quel senso parlare di gamification può perfino voler dire sconfinare anche nel coaching”. Si profilano altri fronti avveniristici: per esempio le sconfinate praterie di sviluppo che puntano con decisione e rapidità alla realtà virtuale immersiva e alla formazione aumentata. Altri mondi. Da trattare con cura. Ci vogliono competenze: creare cultura di base, quindi formare una nuova leadership. Matteo, in Fondazione Politecnico di Milano, è tra i promotori del progetto JamToday: “Una rocambolesca e avventurosa quadratura del cerchio: invitiamo ragazzi di ogni età e profilo a sessioni intensive di 48 ore in cui, dato un tema (l’anno scorso era “Una vita più sana”) realizzano i prototipi di serious games. Videogiochi che stimolano l’apprendimento, realizzati imparando. Il formato, derivato da quello delle hackaton e delle game jam, si presta anche al recruiting: nella game jam le aziende possono incontrare i talenti che vorrebbero nella loro azienda”. del Miur ha lavorato per anni sul portale Scuola, in ospedale come project manager e interaction designer per poi esplorare, anche a livello internazionale, le potenzialità della tecnologia per i bambini ospedalizzati. Nel 2010 è tra i promotori di Ludus, uno dei primi progetti internazionali sull’applicazione dei giochi nei contesti didattici e aziendali. Nel 2015 organizza l’evento italiano del progetto europeo JamToday al Museo della Scienza e della tecnologia, durante la quale ragazzi di università e scuole hanno realizzato dei videogiochi serious sotto la guida di mentor specializzati. Nel 2016 ha partecipato in qualità di musicista e sound designer all’audio desk della Global game gam di Milano, supportando alcuni dei 350 partecipanti nella realizzazione dell’audio dei propri videogame e chiudendo così il cerchio. Per ora 41 Œconomicus Quanto valgono i crediti deteriorati? di Giuseppe Pennisi Economista e presidente del board scientifico del Centro studi ImpresaLavoro Tema centrale del dibattito di questi mesi tra Italia e Unione europea è come trovare una soluzione al problema dei crediti deteriorati (circa 200 miliardi di euro), che azzoppano il nostro sistema bancario. Una soluzione semplice si sarebbe potuta trovare fino all’estate scorsa (come hanno fatto gli altri partner europei), facendo ricorso a interventi diretti dello Stato prima del varo dei regolamenti sull’unione bancaria europea, peraltro monca della garanzia sui risparmi in conto corrente. Ma la linea dei governi che si sono succeduti è che il problema non esisteva in quanto il nostro sistema era solido. Inoltre, i margini di manovra per interventi diretti erano, e sono, comunque limitati a ragione della situazione della nostra finanza pubblica. Tant’è! La campana è suonata quando ci si è accorti che il Monte dei Paschi di Siena era prossimo al tracollo e che piccole banche locali, spesso a carattere cooperativo, erano sulla stessa china. Non è questa la sede per ricostruire la triste vicenda di amministrazioni che non si parlano (quando alcune negoziano con l’Ue e altre trattano i medesimi problemi sul piano interno), di tentativi di creare una bad bank per mettere sul mercato i crediti deteriorati e della complessa soluzione trovata, e benedetta dalla Ue, di una molteplicità di veicoli speciali per tentare di alleggerire, ove non ri- solvere, il fardello. Anche se quella trovata non è ottimale, una soluzione doveva essere individuata. Nell’ultimo fascicolo del Journal of economic literature, due apprezzati economisti cinesi che lavorano negli Usa, Heng Cheng e Wing Suen, pubblicano una rassegna di circa 300 saggi sul contagio di crediti deteriorati sul resto del sistema: operano come un virus che intacca il sistema creditizio sano e fa cadere istituti come le pedine di un domino. Sulla Ifm economic review, Claudia Buch e Linda Goldberg lanciano un avvertimento analogo. Uno strumento, quindi, doveva pur trovarsi. Per valutare la situazione occorre chiedersi quanto valgano i crediti deteriorati. In un Paese “normale” con una giustizia civile efficiente, in grado di risolvere speditamente le controversie tra creditori (acquirenti dei deteriorati) e debitori, potrebbero corrispondere alla metà del valore nominale. In Italia, tuttavia, il loro valore di mercato effettivo è notevolmente inferiore. Neil Unmack della Reuters traccia due differenti scenari sull’ipotesi che i deteriorati vengano impacchettati e venduti a chi opera in finanza e li acquista con una leva finanziaria per rivenderli gradualmente su un arco di sette anni. A seconda della leva finanziaria, il valore attuale si porrebbe sui 2539 centesimi per ciascun euro di credito deteriorato. Al di là delle considerazioni tecni- che sulle stime di Unmack, il caso solleva un ulteriore nodo politico su cui non si è riflettuto in questi mesi nei quali si tentava di trovare una via d’uscita compatibile con i regolamenti Ue ora in vigore. Il valore dei crediti deteriorati, e quindi di gran parte delle transazioni commerciali e finanziarie, non è solo funzione delle capacità gestionali degli istituti di credito e di quelle di vigilanza della Banca centrale europea e della Banca d’Italia (ciascuna per la sua sfera di competenza), quanto della macchina giudiziaria. Essa si pone tra le più urgenti riforme economiche di cui ha bisogno l’Italia. 43 ESTERI Rivoluzione dei gelsomini, cinque anni dopo ESTERI Tunisia, ultima chiamata per la classe dirigente di Leslie Campbell Senior associate presso il National democratic institute di Washington e Anna Mysliwicz Senior program assistant presso il National democratic institute di Washington Cinque anni dopo la rivoluzione dei gelsomini, i motori sociali ed economici devono ancora essere pienamente attivati. Oltre all’instabilità politica, il tasso di disoccupazione è cresciuto a dismisura, raggiungendo complessivamente il 15%. I recenti attacchi all’industria del turismo e il reclutamento di giovani da parte dello Stato islamico minacciano la capacità statuale di proteggere i cittadini e di creare un contesto favorevole agli investimenti internazionali. Una riforma seria è necessaria. I leader politici hanno bisogno di dimostrare che la democrazia non consiste solo in dibattiti in televisione o in Parlamento, ma in un contributo-chiave per la crescita inclusiva e per una piena sicurezza Gennaio è stato un mese di ricorrenze per la Tunisia: cinque anni dalla rivolta cittadina che ha rovesciato il regime di Ben Ali; due anni dall’approvazione, con ampio consenso, di una nuova Costituzione; un anno dall’entrata in carica del primo presidente e del primo Parlamento della Tunisia liberamente eletti secondo meccanismi trasparenti e credibili. La Tunisia è passata da essere una delle dittature più dure del mondo arabo alla sua più promettente democrazia, ma ora deve mantenere le promesse della rivoluzione. Il Paese che ha inaugurato la primavera araba presenta meno cicatrici rispetto ai suoi vicini. Il terreno per il successo tunisino è stato preparato anni, se non decadi, prima della rivoluzione, attraverso processi istituzionali e di consenso politico. Data l’omogeneità etnico-religiosa della Tunisia, ci sono poche scissioni capaci di produrre un conflitto settario. Con il proprio codice sulle libertà personali – redatto anche prima rispetto alla 46 costituzione del 1956 – il Paese ha avviato la transizione con un società più inclusiva rispetto a quelli vicini. Dopo che Ben Ali ha lasciato il Paese, la Tunisia ha impiegato diversi anni per sviluppare una Costituzione, preferendo un processo deliberativo rappresentativo, piuttosto che elezioni rapide che avrebbero esacerbato le differenze regionali e la polarizzazione partitica. Nonostante le frustrazioni di molti cittadini, questo lento processo ha permesso un’ampia inclusione nella stesura costituzionale. Le organizzazioni della società civile, i sindacati, i gruppi femminili sono stati considerati partner importanti nel processo di transizione. Negoziando la Costituzione, i leader politici tunisini hanno generalmente evitato polarizzazioni, abbracciando il concetto di “né vincitori né vinti”. Questo spirito di compromesso si è attivato ben prima dell’autoimmolazione di Mohamed Bouazizi del dicembre 2010. Anni prima, i leader dei maggiori partiti di opposizione – religiosi e laici – hanno iniziato a definire le linee-guida della Tunisia post transizione. L’accordo prevedeva che ogni futuro governo eletto garantisse la libertà religiosa, la sovranità popolare e la piena uguaglianza di genere. Così, mentre i legislatori dibattevano appassionatamente circa la stesura della Costituzione, queste discussioni ne determinavano la fondazione consensuale. Durante le commemorazioni del 2016 per l’anniversario della rivoluzione tunisina, ci sono state dimostrazioni nelle regioni interne e nella capitale. Scatenate dalla morte di un giovane disoccupato a Kasserine, sono apparse sorprendentemente simili alle proteste del 2011. Cinque anni dopo la rivoluzione, i motori sociali ed economici devono ancora essere pienamente attivati. Oltre all’instabilità politica, il tasso di disoccupa- formiche 112 — marzo 2016 «I leader eletti devono rispettare le promesse della Costituzione e delle proprie campagne elettorali, operando in modo trasparente, mostrando di ascoltare sinceramente gli elettori e proponendo soluzioni concrete ai loro bisogni » zione è cresciuto a dismisura, raggiungendo complessivamente il 15% che tra i giovani arriva fino al 38%. I recenti attacchi all’industria del turismo e il reclutamento di giovani da parte dello Stato islamico minacciano la capacità statuale di proteggere i cittadini e di creare un contesto favorevole agli investimenti internazionali. Ciò non significa che la democrazia tunisina abbia fallito. Tuttavia, mentre la transizione ha avuto successo sul piano politico, la Tunisia deve ancora percorrere una lunga strada per risolvere i problemi radicati sul piano istituzionale ed economico. Una riforma seria è necessaria per assicurare che le istituzioni operino democraticamente e apportino miglioramenti tangibili alla vita dei cittadini. Economicamente, la Tunisia deve riformare il proprio assetto regolamentare a promozione degli investimenti, diversificare l’economia riducendo, così, la dipendenza dal turismo e promuovere risposte più efficienti al terrorismo. Il sistema educativo deve preparare i giovani tunisini a competere meglio nel mercato globale. I legislatori devono definire l’impianto per i decisori regionali e locali, per i propri mandati e per il proprio budget. Ma soprattutto, la Tunisia deve affrontare la corruzione burocratico-amministrativa che, attualmente, tocca ogni aspetto della vita dei cittadini. Queste riforme non saranno facili. Richiederanno una seria volontà politica, considerando l’accentramento dei poteri economici e ministeriali. La comunità internazionale dovrebbe supportare la Tunisia nell’implementazione di riforme profonde e, a volte, dolorose, ma anche fornire un’assistenza finanziaria che costituisca la rete di sicurezza per gli sconvolgimenti conseguenti. I sostenitori della Tunisia hanno compiuto passi importanti in questo senso – dalla rivoluzione, l’Unione europea ha sborsato più di 800 milioni in sovvenzioni – ma l’assistenza deve proseguire affinché la transizione proceda. Tra le riforme economiche e istituzionali, i tunisini devono continuare a lavorare per il consolidamento della loro nuova democrazia. I leader eletti devono ora rispettare la promesse della Costituzione e delle proprie campagne elettorali, operando in modo trasparente, mostrando di ascoltare sinceramente gli elettori e proponendo soluzioni concrete ai loro bisogni. Se lo faranno, molte organizzazioni internazionali sosterranno la società civile per lo sviluppo di strumenti idonei alla regola democratica. Al di là delle competenze pratiche relative alla sensibilizzazione degli elettori e al monitoraggio delle elezioni, tali programmi servono ad accogliere la Tunisia nella comunità mondiale delle democrazie e a mantenerla negli standard internazionali. I cittadini tunisini hanno finora conservato la fiducia nei confronti di un processo di transizione a singhiozzo e hanno resistito alla recessione, in cambio della promessa di vera libertà. Nonostante la frustrazione per le contingenze economiche e per la mancanza di sicurezza, i tunisini sono orgogliosi del progresso politico del proprio Paese. Ora i loro leader hanno bisogno di dimostrare che la democrazia non consiste solo in dibattiti in televisione o in Parlamento, ma in un contributo-chiave per la crescita inclusiva e per una piena sicurezza. La comunità internazionale deve continuare a supportare le aspirazioni dei cittadini tunisini e di coloro che, in tutto il mondo, guardano alla Tunisia e a essa si ispirano. Traduzione di Stefano Pioppi 47 ESTERI I confini pericolosi e il ruolo dell’Europa di Riccardo Redaelli Direttore del Centro di ricerche sul sistema sud e Mediterraneo allargato dell’Università Cattolica di Milano Vi sono forze che tentano con ogni mezzo di colpire la Tunisia. Primi fra tutti i gruppi estremisti islamici. Dalla Tunisia sono partiti almeno 6mila giovani per unirsi alle milizie del califfato, spingendo numerosi jihadisti a rifluire verso la regione. Un ritorno estremamente pericoloso. Il governo ha creato un “muro”, una barriera di sabbia, fossati, postazioni di controllo e sorveglianza verso la Libia. Dall’Europa è evidente un ritardo nella pianificazione di un pacchetto di assistenza organico e complessivo. È un errore strategico, dato che è molto meno difficile agire prima che la situazione degeneri, piuttosto che intervenire nel marasma della frammentazione e della violenza, come ci insegnano la Libia e la Siria Nello sconfortante scenario geopolitico seguito alle primavere arabe che vede sprofondare tutto il Medio Oriente in un gorgo di guerre civili, settarismo, terrorismo e frammentazione statuale, resiste a fatica l’unica transizione non disastrosa di questi anni: quella della Tunisia. Il solo Paese arabo uscito dal cambiamento di regime con un percorso accidentato, ma non catastrofico, una sorta di piccola gemma sbocciata nel lungo inverno dello scontento arabo. L’unica realtà lungo la sponda sud del Mediterraneo i cui le forze politiche islamiste (capeggiate da Ennahda) e i movimenti che compongono il rassemblement secolare sono stati capaci di raggiungere un difficile compromesso politico – dopo aver danzato a lungo sull’orlo della rottura totale – che ha dato vita nel 2014 a una Costituzione estremamente avanzata. L’attuale governo di coalizione, guidato dal partito laico di maggioranza Nidaa Tunis, si trova tuttavia a fron48 teggiare ora crescenti difficoltà economiche e relative alla sicurezza. Proprio perché il compromesso fra gli esponenti dell’islamismo politico e le forze secolari rappresenta un’eccezione positiva in un panorama contraddistinto dalla polarizzazione e dal settarismo, vi sono forze che tentano con ogni mezzo di colpire la Tunisia. Primi fra tutti i gruppi estremisti islamici, in particolare Ansar al-Sharia e i movimenti jihadisti che ora guardano a Daesh. In questi anni, le loro cellule hanno assassinato esponenti liberali e attaccato chi si opponeva alla loro visione violenta e dogmatica dell’islam. Dalla Tunisia sono partiti almeno 6mila giovani per unirsi alle milizie del califfato jihadista, facendo di quello tunisino uno dei contingenti più numerosi (in rapporto percentuale alla popolazione). E potenzialmente più pericolosi, dato che il deterioramento dello scenario di sicurezza in Libia si unisce al cattivo andamento delle operazioni militari nel Levante, spingendo numerosi jihadisti a rifluire verso la regione. Un ritorno estremamente pericoloso, che permette la creazione di nuove cellule attorno a questi returnees jihadists, i quali sfruttano la loro esperienza e il loro ascendente nei confronti dei giovani tunisini vicini all’islamismo radicale per minare la situazione politica. Aiutati in questo da esponenti delle formazioni salafite, contrarie a parole alla violenza, anche se molto meno nei fatti. È noto come dietro alle proteste e agli scontri di queste settimane, generati dall’esasperazione popolare per la disastrosa situazione economica, vi sia una parte della galassia islamista: salafiti-jihadisti, frange di Ennahda ostili al compromesso, giovani estremizzati dalle campagne di radicalizzazione, vere e proprie cellule terroristiche che si rifanno ora formiche 112 — marzo 2016 «C’è chi beneficia dell’anarchia in Libia per colpire dove la Tunisia è più vulnerabile. L’obiettivo è minare il pilastro principale dell’economia tunisina: il turismo internazionale » ad al-Qaeda ora a Daesh. Queste ultime organizzazioni, in particolare, beneficiano dell’anarchia in Libia per colpire dove la Tunisia è più vulnerabile, vale a dire attaccando i turisti stranieri. L’obiettivo è minare il pilastro principale dell’economia tunisina (assieme alle rimesse dei migranti), ossia il turismo internazionale. Una ricerca del tanto peggio tanto meglio, contro il quale il governo ha potuto fare ben poco: bastano infatti un paio di sanguinosi attacchi terroristici – come quelli del 2015 al Museo del Bardo o nel golfo di Hammamet – per svuotare per lungo tempo le spiagge e gli hotel. Aggravando così la già drammatica situazione economica e distruggendo decine di migliaia di posti di lavoro, producendo una massa crescente di giovani disoccupati, delusi, arrabbiati e più facilmente radicalizzabili. Per questo il governo ha creato un muro, ossia una barriera di sabbia, fossati, postazioni di controllo e sorveglianza verso la Libia. L’obiettivo è proteggere meglio il Paese dal contagio jihadista, dovesse precipitare ulteriormente lo scenario di sicurezza dell’instabile ingombrante vicino. Anche se sono evidenti altre motivazioni: rendere più difficile lo spostamento di libici in Tunisia – una presenza sgradita e in continuo aumento – così come offrire un’immagine di sicurezza tanto all’interno quanto all’esterno del Paese. Accusato di essere sempre un passo indietro rispetto alle forze terroristiche, il governo cerca così di mostrarsi proattivo e di saper gestire l’emergenza. Tuttavia, è difficile tener lontano le forze jihadiste quando a migliaia hanno il passaporto tunisino o quando vi sono movimenti che dall’interno lavorano per lo scenario peggiore. Ma soprattutto, la partita decisiva che la Tunisia sta giocando si può risolvere solo su un altro livello, ossia affrontando la questione economico-sociale, la mancanza di lavoro, di prospettive, di case. È la percezione di essere intrappolati in un labirinto, di veder calpestata la propria dignità che spinge molti tunisini a sentirsi traditi dalla rivoluzione del 2011 e a cedere alla prospettiva della rabbia e della violenza. Una partita che Tunisi non può giocare né tantomeno vincere da sola, alla luce della difficile congiuntura economica, della crescente massa di disoccupati (quasi 1 milione su meno di 11 milioni di abitanti), della fuga dei turisti stranieri e degli investitori. Dall’Europa sono giunti aiuti per lo più in forma bilaterale, ma è evidente un ritardo nella pianificazione di un pacchetto di assistenza organico e complessivo, che sostenga il Paese a livello tanto economico quanto di sicurezza. Un po’ per la nostra crisi economica, un po’ perché vi sono altre aree del Medio Oriente che drenano la nostra attenzione, la Tunisia sembra scivolata in secondo piano. È un errore strategico, dato che è molto meno difficile agire prima che la situazione degeneri, piuttosto che intervenire nel marasma della frammentazione e della violenza, come ci insegnano la Libia e la Siria. Tuttavia, smarrita com’è nelle proprie faide interne e ossessionata dagli “zero virgola” dei propri bilanci, non abbiamo dubbi che l’Unione europea non perderà questa nuova occasione per dimostrare la propria irrilevanza geostrategica e la propria miopia. 49 ESTERI Perché la primavera non si trasformi in inverno di Karima Moual Giornalista “La Tunisia è uno Stato civile basato sulla cittadinanza, la volontà popolare e lo stato di diritto”. Queste parole, se per noi sono già assodate, nel contesto tunisino sono invece rivoluzionarie. Per la prima volta in un Paese musulmano è stata approvata la libertà di coscienza. Un atto assolutamente proibito dal diritto islamico tradizionale. Una storia tunisina che, come dimostra il testo costituzionale, potrà essere d’ispirazione anche per altri Paesi nell’area, semplicemente perché è autentica, coraggiosa e dotata di una visione politica Nella sponda sud a noi più vicina c’è un Paese che, con umiltà e coraggio, avanza. È la Repubblica tunisina. Un Paese che prova a cambiare la pagina del suo destino. Il Paese dei gelsomini, dalla popolazione con un carattere così mite da aver sorpreso il mondo quando, a testa alta, rovesciò un regime di ferro. Era il 2011, l’anno in cui proprio dalla Tunisia partì la ribellione accompagnata da quel sentimento di consapevolezza di voler essere trattati come cittadini, e non più da sudditi di regimi tirannici in piedi da decenni. Un sentimento contagioso, che si espanse a macchia d’olio dal Nord Africa al Medio Oriente, divorando despoti divenuti quasi immortali nell’immaginario, oltre che nella loro gestione del potere. Ieri, quel sentimento che si presentò nelle piazze in carne e ossa fu battezzato primavera araba. Oggi è considerato già “inverno arabo”, per chi dimentica che le rivoluzioni hanno bisogno non solo dei loro uomini e donne, ma anche del loro tempo e delle loro idee per svilupparne i frutti. E soprattutto del gioco della democrazia, che non è una scienza esatta. La Tunisia è, in questo senso, 50 il miglior laboratorio di studio di questo processo storico, che ha bisogno di essere seguito, studiato, analizzato con la dovuta precisione proprio per la sua complessità che non permette semplificazioni e analisi a caldo. Perciò, quello che dobbiamo tenere a mente quando parliamo della Tunisia è che si tratta di un Paese in continuo movimento e trasformazione, e dai processi sorprendenti per la loro velocità anche nel cambiamento. Un cantiere aperto, insomma. I cinque anni passati da quando i tunisini hanno chiesto a Ben Ali di andarsene, con la conseguente promulgazione della nuova Costituzione nel 2014, sono il perfetto termometro di analisi del Paese che ha dimostrato di avere una tenacia senza eguali – in quell’area geografica – nel perseguire la propria strada costruendosi un impianto giuridico moderno, tanto da diventare un fiore all’occhiello per l’intero mondo arabo, in barba alle minacce del terrorismo islamico e a una economia che fatica a rialzarsi. Sorprenderà molto, infatti, rileggere la nuova Costituzione tunisina come una delle più avanzate del mondo arabo. Moderna e progressista, è nata sotto un governo islamista come Ennahda grazie al ruolo della democrazia, all’attivismo della società civile e alla politica tunisina. Insieme sono riusciti a trovare il giusto compromesso per offrire ai cittadini una carta costituzionale votata da ben 200 sì, dove i loro diritti e doveri possano farli sentire tutelati e non sottomessi. Nero su bianco, il patto con i tunisini è stato siglato nel momento in cui sono stati dichiarati nella Carta – dove finalmente un Paese arabo e musulmano toglie ogni ambiguità – la libertà di credo e di coscienza, il divieto di accusa di apostasia, la libertà d’espressione, di stampa e di edizione, d’associazionismo e formiche 112 — marzo 2016 «Le rivoluzioni hanno bisogno non solo di uomini e donne, ma anche del loro tempo e delle loro idee per svilupparne i frutti » di sciopero, l’uguaglianza di diritti e doveri tra uomo e donna e le pari opportunità all’interno degli organi elettivi. La sintesi di una vera rivoluzione che questo Paese ha portato avanti con grande forza, ribadendo: “La Tunisia è uno Stato civile basato sulla cittadinanza, la volontà popolare e lo stato di diritto”. Queste parole, se per noi sono già assodate, in tale contesto sono invece rivoluzionarie. Si pensi che, ad esempio, per la prima volta in un Paese musulmano è stata approvata la libertà di coscienza; in altri termini, significa che è consentito rinnegare la propria religione. Un atto assolutamente proibito dal diritto islamico tradizionale. Ma non solo. La nuova Costituzione mette a fuoco anche il ruolo della donna nella società, riposizionandola con l’articolo 46 alla pari con l’uomo, e anche qui, senza cadere in ipocriti giochi di parole come invece alcuni Stati islamici tendono a fare. Di fatto, questi ultimi limitano la parità tra uomo e donna attraverso interpretazioni religiose misogine ormai superate dal buon senso e dalla contemporaneità del ruolo della donna nella società (basti pensare al suo ruolo da protagonista nello sviluppo economico del proprio Paese). Un tassello di rottura certamente rivoluzionario, in questo senso, è la regolamentazione dell’eredità. Tema intoccabile per gli uomini musulmani. Ma con la nuova Costituzione tunisina non è più un tabù inviolabile. Con la parità, se prima l’eredità regolata dalla sharia assegnava una quota dimezzata, la musica adesso cambia, e non ci sono più ragioni valide per giustificare il dimezzamento quando la donna moderna musulmana è a tutti gli effetti anche un motore nell’economia e non un soggetto passivo in attesa di essere mantenuta dall’uomo. Un’iniziativa che ha dato l’input anche al Marocco, che inizia a discuterne per mettere mano a una legge ormai superata. Per questo, ciò che sta avvenendo a poche miglia dalle nostre coste è qualcosa di eccezionale e storico, perché, con fatica e infiniti ostacoli, dei cittadini liberati stanno cercando con grande volontà e tenacia di costruire di nuovo la loro storia nel mondo. Una storia, come dimostra il testo costituzionale tunisino, che potrà essere d’ispirazione anche per altri Paesi nell’area, semplicemente perché è autentica, coraggiosa, e dotata di una visione politica. E noi dobbiamo seguirla, sostenerla e provare a raccontare la sua complessità senza avere fretta di darle subito un titolo. La primavera araba non può essere già liquidata come un inverno. È una stagione lunga, piena di luci e ombre ma che ha bisogno del suo tempo, e noi abbiamo il dovere di concederglielo. 51 ESTERI Senza un piano Marshall di Carlo Panella Giornalista La Tunisia è il Paese che ha dato il via alle primavere arabe e anche quello che ne è uscito nel modo migliore. Non tanto per la sua capacità attuale di leadership politica, ma per l’eredità delle strutture costituzionali e di una forma di Stato – e società – disegnata negli anni 50 dal leader della lotta per l’indipendenza, Habib Bourghiba. Sono passati cinque anni e la Tunisia è ferma, se non addirittura arretrata dal punto di vista economico. C’è una società disorientata, con una leadership politica tutto sommato apprezzabile ma estremamente litigiosa al suo interno e molto inconcludente. E come se non bastasse, il quadro economico è assolutamente disastroso. È evidente che la Tunisia, non avendo un processo di accumulazione che gli permetta di fare investimenti – se non in piccola parte – non solo ha bisogno, ma in qualche modo merita una specie di piano Marshall La Tunisia è il Paese che ha dato il via alle primavere arabe e anche quello che ne è uscito in modo migliore. Non tanto per la sua capacità attuale di leadership politica, ma per l’eredità delle strutture costituzionali e di una forma di Stato – e società – disegnata negli anni 50 dal leader della lotta per l’indipendenza, Habib Bourghiba. Dopo aver guidato la lotta anticoloniale e antifrancese, nel 1956 il laico Bourghiba fece della Tunisia un Paese rispettoso dei principi della Sharia, ma capace di averne un’interpretazione laica. Il suo colpo di genio fu aver disegnato una carta costituzionale con parità effettiva dei diritti della donna sull’uomo e aver delineato la famiglia come un’interpretazione dell’islam. Tutto ciò ha dato i suoi frutti e con il passare delle generazioni si è costruita una vera e propria apertura del po52 polo tunisino verso i principi della democrazia, che è entrata in contrasto con il regime gestito dal successore di Bourghiba, Ben Ali. Un regime corrotto, ma soprattutto inefficace e incapace di fare riforme in un Paese che, rispetto agli altri Paesi arabi, non ha la minima risorsa energetica e deve quindi progredire e andare avanti con investimenti e cercando di creare ricchezza. Come in Egitto, anche in Tunisia la primavera araba ha avuto la capacità di distruggere il regime preesistente, ma nessuna capacità di costruire una leadership alternativa. È stato il vecchio quadro politico a gestire la forza del movimento dei gelsomini. In Tunisia, per fortuna, il quadro politico non era rappresentato dall’Esercito – semmai dai servizi segreti – ma da una tradizione politica laica e un mondo islamico illuminato e aperto, che ha disegnato un percorso tollerabile. Ma tutto ciò in una situazione di estrema conflittualità sociale. Si è perso del tempo; la classe politica nuova – ma in realtà vecchia – si è messa a discutere della riforma della Costituzione senza affrontare da subito il tema della rinascita del Paese e dell’economia. Sono passati cinque anni e la Tunisia è ferma, se non addirittura arretrata, dal punto di vista economico. C’è una società tunisina disorientata, con una leadership politica tutto sommato apprezzabile ma estremamente litigiosa al suo interno e molto inconcludente. E, come se non bastasse, il quadro economico è assolutamente disastroso. Il tutto in un Paese che ha avuto una tradizione millenaria di radicalismi e fondamentalismo islamico. Bisogna sapere e ricordarsi – cosa che stranamente i giornali non dicono mai – che Qayrawan in particolare e la stessa Djerba sono state sin da pochi decenni dopo la morte di Maometto la sede dei kharigiti formiche 112 — marzo 2016 «La Tunisia ha possibilità di sviluppo basate essenzialmente sul turismo e, in parte, nell’agricoltura. Ci sarebbe bisogno di un piano, di una progettazione complessiva d’intervento sull’economia guidata dall’esterno » (seguaci della setta islamica sorta nel 657 d.C. Nella storia sono ricordati per le loro ribellioni sanguinose sotto gli Omayyadi e i primi Abbasidi e per la loro influenza nello sviluppo di idee teologiche e dogmi, ndr) e di alcune sette musulmane fondamentaliste ed estremiste. Il contesto sociale e la povertà dilagante, ma soprattutto l’inconcludenza di prospettive politiche e di gestione del governo hanno spinto molti tunisini – soprattutto quelli che abitano nella dorsale montagnosa nella parte occidentale del Paese, ai confini con l’Algeria – verso una situazione di radicalismo estremamente forte. Grazie alle riforme e all’impostazione data da Burghiba, la popolazione tunisina è molto scolarizzata, ma senza nessuna possibilità di sviluppo; si aggiunga poi il fatto che la presenza dei Fratelli musulmani dentro la compagine governativa ha indebolito molto gli apparati dello Stato – anche se i Fratelli musulmani tunisini sono tra i più moderati – come si è visto nella dinamica dell’attentato al Bardo e a Susa, con uno sparatore che per mezz’ora è riuscito ad agire indisturbato. La stessa dinamica dell’attentato all’autobus della Guardia presidenziale, quindi il fior fiore dell’apparato di sicurezza della Tunisia ha dimostrato che c’è un’insipienza e un’incapacità di funzionamento dell’apparato repressivo dello Stato che ha delle chiare origini politiche. In tutto ciò, si innesta il ruolo dell’Europa. È evidente che la Tunisia, non avendo un processo di accumulazione che gli permetta di fare investimenti – se non in piccola parte – non solo ha bisogno, ma in qualche modo merita una specie di piano Marshall. L’Europa avrebbe dovuto avviare un progetto di investimenti strutturali nel Paese. Sarebbe costato pochi miliardi di euro e avrebbe tolto quegli elementi di instabilità – non determinanti ma sicuramente importanti – costituiti dalla disoccupazione e dalla fame. L’Europa ha promesso e non ha fatto. Il risultato è che il Paese risulta essere oggi ingovernato. Nelle zone sud-orientali le proteste continuano a scoppiare e le risposte sono assolutamente inadeguate al bisogno. Nell’ignavia dell’Europa e nell’insufficienza di risposta delle forze politiche tunisine, si è creata una miscela perfetta per il proselitismo dell’Isis che, infatti, conta alcune migliaia di giovani tunisini tra i suoi miliziani. È cosa nota il fatto che la Tunisia sia il Paese da cui provengono più foreign fighters. Anche da parte degli Stati Uniti non c’è una comprensione reale del problema. La posizione Usa non è solamente espressione di un abbandono dell’interventismo storico americano nei confronti del mondo – che è una scelta possibile – ma è caratterizzata da una definizione della realtà secondo uno schema interpretativo proprio, che relega il fenomeno Isis a quello di un’attività criminale che nulla ha a che vedere con l’islam. Il recente stanziamento di 142 milioni non è che un’inezia. Così come lo è la decisione italiana di aprire al commercio la produzione dell’olio tunisino. La Tunisia ha possibilità di sviluppo basate essenzialmente sul turismo e, in parte, nell’agricoltura. Ci sarebbe bisogno di un piano, di una progettazione complessiva d’intervento sull’economia, guidata dall’esterno e che metta a disposizione la pianificazione degli interventi sul piano delle opere pubbliche, per l’ammodernamento dell’agricoltura e degli impianti di alcune piccole fabbriche di trasformazione. Tutto ciò è chiaro, evidente e ben noto ma, semplicemente, non si fa. 53 ESTERI Un modello economico da riformare di Imen Ben Mohamed Esponente di Ennahda e membro del Parlamento tunisino La riforma del modello economico ereditato dalla dittatura per garantire una giustizia sociale è una priorità per la Tunisia: il paradigma attuale ha causato un grave divario regionale tra le zone interne e quelle costiere del Paese. Tale cambiamento dovrà avvenire con un pacchetto di riforme: dalle infrastrutture alle riforme istituzionali e amministrative, arrivando a quelle economiche e finanziarie che privilegino le regioni svantaggiate Parlare della Tunisia è come parlare dell’ultima speranza di un vero processo di democratizzazione. Dopo la rivoluzione, la capacità della classe politica e della società civile di scegliere la via del dialogo come alternativa alla violenza per uscire dalle crisi politiche, ha fatto sì che la Tunisia meritasse il premio Nobel per la pace, un vero esempio di brillante percorso di democratizzazione. Ennahda, Partito della rinascita (formazione democratica di ispirazione islamica, una sorta di Democrazia cristiana), ha avuto – e sta avendo tuttora – un ruolo fondamentale per la stabilizzazione del Paese, grazie sia alla sua flessibilità politica e capacità di fare grandi compromessi sia alla visione strategica per il futuro democratico della Tunisia. Il partito Ennahda ha sempre sostenuto la formazione di un governo di unità nazionale, già nel 2011. Dopo l’assassinio nel 2013 di Mohamed Brahmi, deputato e leader politico, ha lasciato il potere per evitare che si acuisse una forte polarizzazione politica e ideologica. Alle presidenziali del 2014 ha rinunciato a presentare un proprio candidato, accettando di entrare nel governo di Nidaa Tunis, l’attuale partito di maggioranza, insieme ad altri due partiti, con una partecipazione simbolica che non rispecchia il suo peso 54 politico nel Parlamento e nella società; una scelta politica per dare un maggior supporto al governo chiamato ad affrontare grandi sfide economiche e di sicurezza. La Tunisia ha concluso il suo processo di transizione politica ma ha ancora in corso una transizione economica e sociale, un percorso difficile visto il vento che tira nella regione sia a livello economico sia di sicurezza; il riferimento qui è al pericolo del terrorismo che non risparmia nessun Paese nel Mediterraneo: dalla Francia alla Turchia, dal Vicino Oriente alla Tunisia, colpita proprio perché rappresenta una minaccia per l’esistenza e l’espansione di questi gruppi terroristici. Oggi sono già cinque anni dalla rivoluzione dei gelsomini. Molto è stato fatto e molto è ancora da fare. Le sfide sono diverse e le priorità sono cambiate. Non si può parlare di una vera democrazia senza uno sviluppo economico. Il processo politico e la garanzia dei diritti umani sono importanti, sono le basi solide per un vero sviluppo, ma la dignità dell’uomo, la parola simbolo della rivoluzione, è anche una dignità economica e sociale. La riforma del modello economico ereditato dalla dittatura per garantire una giustizia sociale è una priorità per la Tunisia: il paradigma attuale ha causato un grave divario regionale tra le zone interne e quelle costiere del Paese. Tale cambiamento dovrà avvenire con un pacchetto di riforme: dalle infrastrutture alle riforme istituzionali e amministrative, arrivando a quelle economiche e finanziarie che privilegino le regioni svantaggiate. Il codice degli investimenti che prevede vantaggi fiscali per incentivare gli investitori tunisini e stranieri è ora in discussione al Parlamento. Ci sono poi le riforme bancarie, la legge del partenariato pubblico-privato, la riforma del settore privato, che secondo la nostra visione formiche 112 — marzo 2016 «Il successo del modello democratico in Tunisia, la stabilità in Algeria e soprattutto la riuscita della soluzione politico-diplomatica in Libia aiuterebbero molto la stabilità nella regione e faciliterebbero sicuramente la lotta contro il terrorismo » rappresenta la priorità e la fonte per un vero sviluppo economico, l’apertura del mercato tunisino, il rafforzamento della cooperazione economica con l’Europa, ma anche la diversificazione dei partner economici con Africa, Stati Uniti, Asia e i vari Paesi arabi. Queste riforme economiche rientrano anche nella strategia che sta adottando la Tunisia contro il terrorismo. Come altri Paesi della regione, è entrata nella lotta globale contro questa minaccia una sfida non solo esterna ma anche interna. La strategia ha come obiettivo di breve periodo la lotta armata e i vari interventi militari e di polizia contro le cellule terroristiche presenti al confine con l’Algeria e la Libia. Ci sono poi le misure adottate per prevenire eventuali infiltrazioni terroristiche, tra cui il sistema elettronico per il controllo delle frontiere con la Libia, il filo spinato e i fossi scavati lungo il confine per bloccare anche la rete di contrabbando, spesso legata proprio al terrorismo. Importante anche la cooperazione a livello militare e di intelligence con l’Ue – soprattutto Italia e Francia – e con Paesi vicini come l’Algeria. Uno sviluppo economico assente e la povertà hanno avuto come conseguenza principale la radicalizzazione di tanti giovani che, spinti dalla disperazione, si arruolano con i gruppi terroristici in cambio di denaro. Contro un’ideologia estranea e violenta non può mancare la lotta culturale, fatta di attività artistiche, sportive e religiose, con un’interpretazione dell’islam moderna e aperta che, come ha fatto nel tempo, contribuisca alla modernizzazione della società tunisina e rappresenti l’antidoto all’ideologia terroristica. Le sfide sono molte e la responsabilità politica è condivisa da tutti: partiti politici e società civile. Il ruolo che ha Ennahda, essendo l’unico partito forte e stabile sulla scena politica dopo la crisi di Nidaa Tunis, è molto importante. La Tunisia ha bisogno più che mai di un vero piano di sostegno economico, una specie di piano Marshall. Investire realmente nel modello democratico non può essere solo un investimento politico, ma deve essere soprattutto un vero investimento economico, che non può avvenire senza il sostegno dei nostri partner europei con i quali condividiamo la stessa storia e un futuro comune. Il destino della sponda nord del Mediterraneo è legato al destino di quella sud, il successo del modello democratico in Tunisia, la stabilità in Algeria e soprattutto la riuscita della soluzione politico-diplomatica in Libia aiuterebbero molto la stabilità nella regione e faciliterebbero sicuramente la lotta contro il terrorismo che sta minacciando il nostro mare. Molti sono i campi di collaborazione con l’Italia, ma c’è una priorità comune che minaccia la nostra reciproca stabilità: la Libia. Per la soluzione della crisi libica, la leadership Italiana della comunità internazionale e la sua cooperazione con la Tunisia sono elementi fondamentali. 55 ESTERI Una politica lontana dalla piazza di Ouejdane Mejri Fondatrice e presidente dell’associazione Pontes dei tunisini in Italia La descrizione della società civile tunisina è quella di un Paese arabo-musulmano che ha scelto di aderire a valori di rispetto e di libertà, di dignità e opportunità per tutti. La società civile è oggi la voce della lotta per i diritti, è l’azione per agire nelle realtà educative, sociali, sanitarie ed economiche. La sua forza risiede nella vicinanza alle cose concrete, nell’essere fatta di quei cittadini che hanno bisogno d’azione. D’altra parte, l’azione politica negli ultimi cinque anni si è confinata di nuovo nei palazzi. I cittadini sono invece rimasti nella piazza, nelle città e nei villaggi. Oggi sono questi gruppi che detengono la maggiore comprensione di ciò che è la Tunisia Ho sempre creduto profondamente che per la Tunisia esistesse una via d’uscita. L’ho creduto fin dal gennaio 2011, quando ancora non si poteva sapere se la dittatura sarebbe caduta sotto la pressione popolare. Uno spiraglio per quello Stato che faceva crescere i propri figli offrendo loro una scolarizzazione gratuita e prolungata, ma che aveva puntualmente deluso le aspettative in termini di occupazione e dignità del lavoro. Ci ho creduto, non per l’entusiasmo del momento né per l’ottimismo che procura il sentirsi liberi per la prima volta nella propria vita. Anzi, ero consapevole che il viaggio sarebbe stato alquanto lungo e difficile. Questa convinzione portava dentro di sé una scelta forte, per me e per quelli che volevano pensare, veicolare e attivare un percorso di cambiamento in Tunisia. L’impegno all’interno dei partiti politici non sarebbe stato un cammino efficace ed efficiente, i nostri sforzi dovevano essere impegnati in maniera più operativa. La via da seguire era all’interno della società civile. Una parola che vuol dire tanto, 56 e in alcuni contesti non vuol dire niente. Infatti, la stessa dittatura di Ben Ali se ne era appropriata per decenni, strumentalizzando la presunta azione civica delle associazioni del partito unico al potere. La distanza che la maggior parte dei giovani tunisini ha messo tra sé e i partiti politici potrebbe essere esplorata secondo varie chiavi di lettura. Innanzitutto, quella della diffidenza da una struttura politica e le sue istituzioni, che per anni sono stati usati per alimentare un regime dittatoriale subdolo e feroce. Una seconda ragione riguarda l’occupazione dello spazio politico da parte di tutti quei partiti che la generazione dei nostri padri aveva sognato di creare a partire dalla terra d’esilio o dalle prigioni della Tunisia. Una generazione che ha reclamato la sua legittimazione nell’occupare l’arena politica – dalla sinistra comunista alla destra laica o islamista, passando per i moderati del centro – dopo gli anni passati nell’opposizione alla dittatura. Migliaia di tunisine e tunisini, da tutte le regioni del Paese e dall’estero, hanno scelto come me la via dell’azione civica, e non quella dell’azione politica. Nella nebulosa attuale della nuova società civile democratica, ci sono gruppi formali e gruppi informali, individui influenti e media, associazioni, collettivi, organizzazioni a sostegno dei partiti politici e sindacati. Tra tutte queste componenti emergono quei gruppi nati dopo la rivolta, formati con le adesioni spontanee di chi condivideva il desiderio quasi istintivo di unirsi per lavorare per il nostro Paese. Due aspetti rappresentano l’originalità di queste dinamiche: l’insieme e il lavorare per il Paese. Il più grande risultato che abbiamo ottenuto è stato quello di riuscire ad agire in gruppo, in piena libertà, dopo aver subito per decenni da singoli individui. formiche 112 — marzo 2016 «Il prossimo passo nella democratizzazione consiste nel condurre società civile, istituzioni e partiti allo stesso tavolo. Il dialogo può portare al Nobel, ma è il lavoro congiunto che può farci uscire dalla crisi sociale ed economica » Non si tratta soltanto di mettere da parte le individualità, ma soprattutto di intraprendere la costruzione di un progetto comune, quello di una società democratica. Nei Paesi già democratici, un’associazione nasce attorno a un obiettivo specifico per conseguire una particolare missione o un’idea comune che le persone desiderano realizzare. Nel nostro caso, le organizzazioni della società civile (e i gruppi informali) sono nate per rispondere alla necessità di creare uno spazio comune per la condivisione e il lavoro, con una profusione di idee spesso incompatibili e, soprattutto, senza una prospettiva chiara di come sarebbe stata la nuova società di cui siamo cittadini. Proposte multiple sono emerse da chi ha un’idea conservatrice, più liberale o riformista, laica o islamista, ma dopo cinque anni possiamo dire che la nuova società tunisina, di cui non avevamo un modello predefinito da conseguire, in realtà non è altro che noi stessi, trasformati dalle nostre pratiche e dalle nostre azioni, iscritte o meno nella democrazia. La società civile in particolare, o l’insieme dei cittadini attivi in generale, non aveva disegnato l’idea di azione a priori. L’idea stava proprio nell’azione civica stessa. Ma cosa significa agire nella società civile democratica? Cosa significa provare a cambiare le mentalità sensibilizzando i nostri concittadini al fatto politico, alla partecipazione e al rispetto di questo progetto comune, che per la prima volta nella nostra realtà significa rispettare le differenze? Per cercare una risposta a questa domanda bisogna esplorare la realtà di tutti quei gruppi che si sono attivati per supportare il processo di democratizzazione dello Stato, manifestando contro o supportando le sue trasformazioni e portando una voce libera e forte a chi stava, passo dopo passo, scrivendo la Costituzione, nella quale si sarebbe delineato il modello del nostro futuro comune. La descrizione della società civile tunisina oggi non si esaurisce con il modello europeo, né di quei Paesi che hanno vissuto la transizione democratica nell’est Europa o in Sud America negli anni 90. Essa si iscrive in una realtà cittadina unica: quella di un Paese arabo-musulmano che ha scelto, per la maggior parte, di aderire a valori di rispetto e di libertà, di dignità e opportunità per tutti. La nostra società civile, oggi, è la voce della lotta per i diritti, è l’azione per agire nelle realtà educative, sociali, sanitarie ed economiche. La sua forza risiede nella vicinanza alle cose concrete, nell’incontrare le persone, nell’essere lei stessa fatta di quei cittadini che hanno bisogno d’azione. D’altra parte, l’azione politica negli ultimi cinque anni si è confinata di nuovo nei palazzi. I cittadini sono invece rimasti nella piazza, nelle città e nei villaggi. Oggi sono questi gruppi che detengono la maggiore comprensione di ciò che è la Tunisia, la sua gente e le sue dinamiche. Questa conoscenza è ciò che abbiamo di più prezioso in questo momento: l’autenticità di un Paese in grande difficoltà, ma con enormi risorse umane. Questa consapevolezza di chi siamo è il primo passo nel costruire l’essere liberi. Questa conoscenza di noi deve essere trasferita ed elaborata insieme alla classe politica, che invece si rifiuta di sentire la voce del popolo per captarne il malessere reale e le opportunità effettive. Il prossimo passo nella democratizzazione della Tunisia consiste nel creare il canale giusto per condurre società civile, istituzioni dello Stato e partiti politici allo stesso tavolo. Il dialogo può portare a un premio Nobel per la pace, ma è il lavoro congiunto che ci può portare a uscire dalla crisi sociale ed economica in cui viviamo. 57 PAPER Guai neri per la vicina Algeria di Intissar Fakir Direttore di Sada presso il Carnegie Endowment for International Peace e Dalia Ghanem Yazbeck Analista presso il Carnegie Middle East Center L’economia dell’Algeria dipende fortemente dai profitti del settore energetico, quindi la caduta dei prezzi ha colpito in modo significativo le sue finanze. Nel 2013, prima della caduta del prezzo, il settore energetico determinava il 30% del Pil, il 60% delle entrate del governo e più del 95% degli utili da esportazioni. Questa dipendenza ha reso il Paese molto vulnerabile al prolungato calo. L’incertezza sul futuro fiscale del Paese e le sfide poste alla stabilità arrivano in un momento critico per la politica algerina. Restano dubbi circa la successione, mentre la salute del presidente Abdelaziz Bouteflika, al potere dal 1999, è instabile. A ciò si aggiungono le oscure dinamiche tra la componente militare e una classe politica sempre più vecchia che ha perso il contatto con i propri cittadini Il regime algerino ha per molto tempo reagito a disordini e proteste facendo ricorso a una doppia strategia: da una parte reprimendo velocemente le dimostrazioni, dall’altra fornendo benefici economici ai gruppi d’interesse che erano coinvolti nelle rivolte stesse, tra cui dipendenti pubblici, sindacati, militari e giovani disoccupati. Dalla fine della guerra civile, nel 2000, alcune voci di spesa strategica hanno significativamente contribuito all’abilità del governo di placare i propri cittadini, per mantenere una fragile stabilità, ignorando la richiesta di riforme politiche ed economiche. Nel 2011 il regime ha dimostrato l’efficacia della combinazione di questi due strumenti – tattiche repressive e spesa sociale – per disperdere le proteste e la frustrazione pubblica relativa alle circostanze socioeconomiche, agli alti livelli di corruzione, alla presenza di un governo debole e alla mancanza di speranza per il 58 futuro. Ma il deterioramento delle finanze, abbinato al calo del prezzo del petrolio, potrebbe mettere a repentaglio questo approccio governativo. L’incertezza sul futuro fiscale del Paese e le sfide poste alla stabilità arrivano in un momento critico per la politica algerina. Restano dubbi circa la successione, mentre la salute del presidente Abdelaziz Bouteflika, al potere dal 1999, è instabile. A ciò si aggiungono le oscure dinamiche tra la componente militare – che ha sempre giocato un ruolochiave nella politica dell’Algeria – e una classe politica sempre più vecchia che ha perso il contatto con i propri cittadini. Le recenti comunicazioni di ristrutturazione del dipartimento di Intelligence e sicurezza del Paese, che sarà diviso in tre organismi, ha creato dubbi circa l’abilità di questi due attori di mantenere il consenso, un importante pilastro della stabilità. Nel frattempo, il Paese continua a barcamenarsi tra disaffezione popolare e proteste dilaganti contro le disfunzioni politiche e una governance debole. Nonostante le sue limitate opzioni, il governo è riluttante ad assumersi la responsabilità di tagli a spesa sociale, sussidi e programmi di Welfare. La paura di avere ricadute negative riporta la memoria alla crisi petrolifera del 1986 che determinò sostanziali tagli ai sussidi che causarono le rivolte popolari dell’ottobre 1988, uno dei fattori che ha contribuito alla guerra civile del 1990-2000, causa della morte di 150mila persone. Il governo è quindi poco incline ad avere una discussione aperta sulla necessità di tagliare la spesa e di riformare i sussidi, chiamando in causa la stabilità a lungo termine del Paese. Per quanto riguarda l’economia dell’Algeria, essa dipende fortemente dai profitti del settore energetico, quindi la caduta dei formiche 112 — marzo 2016 Nonostante i benefici del sistema di Welfare, ci sono significative tensioni e disaffezioni nel Paese. Nei primi sei mesi del 2015 la Polizia ha registrato 6.200 manifestazioni prezzi risalente alla metà del 2014 ha colpito in modo significativo le sue finanze. Sulla base delle stime della Banca mondiale, nel 2015 ci si aspettava una crescita del 2,8%, molto meno rispetto al 4,3% del 2014. I ricavi energetici sono calati del 50%, passando a 34 miliardi di dollari nel 2015 e prospettandosi un ulteriore calo a 26 miliardi di dollari nel 2016. Intanto, il deficit nel 2015 si attestava all’11,5% del Pil, quasi il doppio dell’anno precedente (6,2%). Nel 2013, prima della caduta dei prezzi, il settore energetico determinava il 30% del Pil, il 60% delle entrate del governo e più del 95% degli utili da esportazioni. Questa dipendenza ha reso il Paese molto vulnerabile al prolungato calo del prezzo del petrolio. Le sfide economiche dell’Algeria sono tuttavia antecedenti a questo fenomeno. La produzione era infatti già in crisi a causa di un ritardo nello sviluppo di infrastrutture e alla mancanza di investimenti esteri. L’emergere di nuove risorse petrolifere in Paesi a basso rischio (come Stati Uniti e Canada) e la percezione che la situazione della sicurezza regionale stesse peggiorando ha fatto dell’Algeria un ambiente più ostile agli investimenti di aziende estere. La riluttanza del Paese a riformare la sua struttura contrattuale dell’oil&gas ha anche portato le aziende del settore a investire le sempre più limitate risorse in luoghi più redditizi. Come spiegato a settembre 2015 da Tewfik Hasni, ex vice presidente della compagnia statale Sonatrach, la riduzione delle riserve e l’aumento della domanda interna ha significato per il Paese un’incapacità ad aumentare la propria produzione per rinforzare l’export. Inoltre, la scarsa competenza tecnica e una serie di scandali per corruzione e ripetuti cambi del personale continuano ad affliggere l’in59 PAPER Il fatto che il governo abbia meno disponibilità economica potrebbe bloccare la capacità di fare affidamento sulla spesa per rispondere ai disordini dustria energetica dell’Algeria. Il potenziale di produzione del gas di scisto, ancora alle sue prime fasi di sviluppo, nel breve termine non è in grado di fare la differenza per le finanze del Paese. Lo scisto-ottimismo è temperato da molti degli stessi ostacoli davanti a cui si trova il resto dell’industria. Le difficoltà in campo energetico, inaspritesi dal 2014, hanno peggiorato le discussioni del governo circa la diversificazione dell’economia e la riforma del settore. Ma le misure prese in considerazione restano limitate, mentre il governo cerca di arrampicarsi tra le incertezze della politica interna e il peso della storia moderna dell’Algeria, durante la quale il ricorso al nazionalismo è stato molto forte. Il primo ministro Abdelmalek Sellal ha avvertito che l’attuale crisi fiscale offre un’opportunità per diminuire la dipendenza dai ricavi del settore oil&gas, ma è stato fatto poco in questa direzione. Alla fine del 2015 il Consiglio nazionale economico e sociale, un istituto di ricerca associato al governo, ha invitato l’esecutivo a investire in 15 settori strategici per diversificare l’economia. Uno dei limitati passi avanti che il governo sta considerando di fare è legato a una legge per la semplificazione delle procedure d’investimento delle aziende straniere, ma deve ancora essere adottata. Il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha stimato che per bilanciare il suo budget l’Algeria ha bisogno che il prezzo del petrolio salga a 96 dollari al barile, un dato che sembra non realizzabile negli anni a venire. Tra gennaio e novembre 2015 il calo del prezzo ha determinato un deficit commerciale di 12,62 miliardi. Ad agosto 2015 il ministro dell’Energia Salah Khebri ha richiesto all’Opec di agire per affrontare il netto e continuo calo del prezzo del petrolio. Tuttavia, l’Alge60 ria non ha abbastanza influenza, né nell’organizzazione né sui Paesi produttori, tale da determinare tagli della produzione funzionali all’aumento del prezzo. Nel frattempo l’Algeria ha fatto affidamento sulle riserve per rifornire il budget. Secondo dati della Banca d’Algeria, nel 2013 queste si attestavano a un livello di 201 miliardi di dollari ma sono crollate a 151 miliardi alla fine del 2015, e ci si attende un ulteriore calo a 121 miliardi entro la fine del 2016. Nei primi mesi del 2015 il governo dell’Algeria ha iniziato ad avvertire i cittadini circa la difficile situazione economica. Nel corso dell’anno ha tagliato la spesa dell’1,3%. Il ministro delle Finanze, Abderrahmane Benkhalfa, ha definito la politica del rigore coma una “razionalizzazione della spesa”, evitando di usare frasi come “tagli alla spesa”, “riforma dei sussidi” o “limitazioni all’importazione” per non allarmare la popolazione o contraddire la tradizione socialista del Paese. Nel 2016, secondo i media locali, il 27-28% del Pil è destinato a programmi sociali e sussidi; nel 2015 era del 25%. I sussidi rimarranno sostanzialmente intatti ma il loro costo aumenterà, evidenziandosi la riluttanza dello Stato a toccare questo strumento. Il governo ha comunque dovuto effettuare alcune riduzioni creative. Per il budget del 2016, sottoscritto il 30 dicembre 2015, il primo ministro Sellal ha annunciato un generale taglio alla spesa del 9%, che avrà conseguenze sui progetti infrastrutturali. Tra le misure è previsto l’aumento delle tasse sul reddito, sulla proprietà privata e costi per alcuni servizi, come l’immatricolazione dei veicoli e i passaporti biometrici. Queste misure ne seguono altre intraprese già all’inizio del 2015, tra cui il congelamento delle assunzioni pubbliche (41mila posti), con pro- formiche 112 — marzo 2016 L’esercito algerino è divenuto una moderna, sofisticata e ben equipaggiata organizzazione. Ha una vasta esperienza in operazioni controinsurrezionali ed è sostenuto dalle altre forze di sicurezza del Paese babili conseguenze sul tasso di disoccupazione che, secondo stime nazionali, a settembre 2015 si attestava all’11,2%. Il governo ha anche interrotto alcuni grandi piani infrastrutturali, tra cui quattro degli otto progetti di trasporto, e altri progetti di costruzioni ritenuti non urgenti. I programmi già avviati continueranno, come ad esempio la costruzione di un nuovo porto a Hamdania, anche se il governo deve ancora comunicare una data di completamento dei lavori. Nonostante i benefici del sistema di Welfare, ci sono significative tensioni e disaffezioni nel Paese e le proteste non sono certo anomale in Algeria: nei primi sei mesi del 2015 la Polizia ha registrato 6.200 manifestazioni. Queste, comunque, non sono necessariamente un metro di misurazione per valutare l’instabilità del Paese, perché generalmente il regime è stato abile nel reprimerle. Tuttavia, il fatto che il governo abbia meno disponibilità economica, potrebbe bloccare la capacità di fare affidamento sulla spesa per rispondere ai disordini. Il regime sta sperimentando una sorta di apertura della sfera politica, nella speranza di creare una valvola di sfogo alla frustrazione popolare. Atteggiamento reso evidente dagli emendamenti alla Costituzione presentati il 5 gennaio. Tali anticipati cambiamenti forniscono timide misure per frenare il potere esecutivo e concedere un po’ di respiro ai partiti politici del Paese. Tuttavia gli emendamenti costituzionali sono solo una mitigazione molto limitata e il governo rischia di dover far fronte a grandi proteste man mano che i tagli alla spesa determineranno un maggiore carico economico sulle spalle della popolazione. Se il malcontento popolare dovesse aumentare, il regime potrebbe aumentare il grado di repressione e, in tal caso, l’esercito gioche- rebbe un ruolo determinante per mantenere la pace. L’esercito algerino è cresciuto e divenuto una moderna, sofisticata e ben equipaggiata organizzazione, con una forza attiva di prima linea di 512mila soldati e una riserva di 400mila uomini. Ha una vasta esperienza in operazioni contro-insurrezionali ed è sostenuto dalla gendarmeria nazionale, il Direttorato generale per la sicurezza nazionale e altre forze di polizia. Le ipotesi che hanno a lungo prevalso sulla stabilità algerina dovranno essere riesaminate. Il governo non può più sostenere lo stesso livello di spesa sociale per placare le ire della popolazione. Il ruolo dell’Esercito nel mantenere la stabilità potrebbe aumentare, alterando così le dinamiche politiche, civili e militari. Infine, il grado di reticenza della popolazione a protestare potrebbe essere diminuito, visto che con il passare degli anni il ricordo della dolorosa guerra civile in Algeria del 1990 svanisce tra una popolazione sempre più giovane: circa il 30% degli algerini ha tra i 15 e 29 anni d’età. Il prossimo periodo metterà alla prova queste ipotesi e la capacità del governo di regolarsi di conseguenza. Traduzione di Valeria Serpentini 61 UE di Antonio Villafranca Responsabile Programma Europa dell’Ispi Completare l’unione monetaria è diventato ormai un mantra, ma in una cacofonia di voci che denuncia la mancanza di una reale visione politica. Il caso più eclatante è il documento dei cinque presidenti, che prevede un percorso a più tappe entro il 2025. La prima dovrebbe concludersi entro metà del 2017 e, con la sola eccezione del completamento dell’unione bancaria, prevede per lo più aggiustamenti a procedure esistenti e la creazione di nuovi organismi. Come se già non ce ne fossero abbastanza. L’intento, o meglio il timore, è chiaro: non proporre nulla di rivoluzionario prima che Francia e Germania vadano alle urne. Un errore tattico, a ben vedere, perché se ai cittadini non viene offerta una visione politica, un obiettivo chiaro che incida sulle proprie vite, questi andranno a votare con un sentimento di crescente euroscetticismo. È proprio questo il problema dell’Ue di oggi: la mancanza di un disegno politico che la renda nuovamente appetibile. Al riguardo, bisognerebbe ripartire da una considerazione: il rapporto tra istituzioni Ue e Stati membri non può più basarsi sulla minaccia delle sanzioni. Malgrado il Patto di stabilità e crescita sia stato disatteso più e più volte, non c’è mai stato un singolo caso in cui una sanzione sia stata comminata. Stessa sorte sta avendo la sanzione introdotta più di recente, quella relativa alla presenza di squilibri macroeconomici. L’Europa alle strette: sanzioni vs speranza In quest’ottica, l’annuncio di Juncker all’inizio del suo mandato, di volere una “Commissione politica”, si sta rivelando un boomerang perché ha innescato interminabili e aspre negoziazioni con i governi nazionali sulla flessibilità, che indeboliscono ulteriormente le regole e rendono le sanzioni ancora meno credibili. Di questo si sono resi ben conto la Germania e altri Paesi del centro dell’eurozona che, mentre fanno il buon gesto di proporre un ministro delle Finanze europee, pensano invece sia meglio far sanzionare i Paesi dal mercato. In pratica si tratterebbe di far pesare diversamente i titoli detenuti dalle banche sulla base del rischio che comportano, espresso appunto dal mercato (lo spread ne è un indicatore). Se questo dovesse far crollare qualche Paese con i conti non in ordine, la proposta prevede di accordarsi da subito su una procedura di ristrutturazione standard del debito sovrano. In pratica, un fallimento controllato. Uno scenario a cui l’Italia non può opporsi gridando un semplice “no”, ma avviando una negoziazione in cui alla (graduale) disciplina di mercato si contrapponga qualcosa di ugualmente forte nella direzione della condivisione del rischio, che preveda ad esempio un chiaro e inequivocabile mandato per la Bce di difendere i titoli dei Paesi in difficoltà, una piena garanzia europea dei depositi bancari, la creazione di un vero mercato unico dei capitali. Ma bisognerebbe anche approfittare di questo palese e condiviso fallimento della logica delle sanzioni per sostituirla con quella degli incentivi. Si tratterebbe di riprendere l’idea dei contratti tra Ue e Stati membri, il cui obiettivo fondamentale dovrebbe essere la creazione di nuovi posti di lavoro in un contesto di crescita sostenibile. Contratti da discutere nei parlamenti nazionali, in cui emerga chiaramente il trade-off tra creazione di nuovi posti di lavoro e sacrifici-riforme. Un’austerità con speranza. La speranza che i cittadini stanno perdendo oggi, ovvero che l’eurozona e l’Ue in generale servano per migliorare le loro condizioni di vita. Questo andrebbe fatto subito e con coraggio, senza aspettare le elezioni di questo o quel Paese, perché alle elezioni i cittadini votano e senza speranza è difficile che lo facciano con euro-entusiasmo. 63 AMBIENTE C’è chi dice (sempre) No AMBIENTE La sindrome Nimby vincerà di nuovo? Alessandro Beulcke Presidente di Allea Il prossimo 17 aprile saremo chiamati alle urne per un referendum abrogativo straordinario, istituto di democrazia diretta a cui siamo ricorsi quasi 70 volte dal 1974 (divorzio) al 2011 (nucleare). Anche questa volta, come nel 2011, saremo chiamati a scegliere sulla politica energetica nazionale: è in ballo infatti il rinnovo delle concessioni per la ricerca e lo sfruttamento di giacimenti di idrocarburi off-shore (in mare). Insomma, un altro referendum figlio della sindrome Nimby: dopo i no-nuke non potevano mancare i no-triv (no alle trivelle). Il tasto più battuto dagli ambientalisti è la decarbonizzazione dell’economia, e cioè l’abbandono delle fonti fossili a favore delle rinnovabili. Obiettivo sul quale è difficile non essere d’accordo, ma difficilmente raggiungibile on-off, e cioè in pochi anni Nel prossimo mese di giugno i cittadini italiani saranno chiamati a votare in 1.322 Comuni italiani, tra cui molte città importanti come Roma, Milano, Torino e Napoli. E prima di allora una parte di loro avrà già votato alle primarie, la selezione dei candidati del centrosinistra che dovranno poi competere alle amministrative comunali con gli aspiranti sindaci degli altri partiti o coalizioni. Per il momento, il centrodestra non sembra volerne fare ricorso. Nel 2018, salvo sorprese, si terranno le elezioni politiche. Insomma, sembra che agli italiani non manchino le occasioni di espressione della volontà popolare. Ma per tenerci allenati, il 17 aprile prossimo, tra poche settimane, saremo ancora una volta chiamati alle urne. Quelle di aprile saranno votazioni per un referendum abrogativo, istituto straordinario di democrazia diretta a cui siamo ricorsi quasi 70 volte dal 1974 (divorzio) al 2011 (nucleare). Anche questa 66 volta, come nel 2011, saremo chiamati a scegliere sulla politica energetica nazionale: è in ballo, infatti, il rinnovo delle concessioni per la ricerca e lo sfruttamento di giacimenti di idrocarburi off-shore (in mare). Insomma, un altro referendum figlio della sindrome Nimby: dopo i no-nuke non potevano mancare i notriv (no alle trivelle). Com’era prevedibile, si è giunti al referendum sulla scia di molte polemiche. Una breve cronistoria. Nel 2013 il coordinamento nazionale no-triv inizia la battaglia contro la politica energetica del governo Renzi. Nello specifico, i provvedimenti contestati sono quelli contenuti nel decreto Sblocca Italia. In una prima fase il comitato nazionale, assieme ad altre associazioni ambientaliste, ha tentato la strada parlamentare e della moral suasion sul governo. Nel 2014, però, il decreto viene convertito in legge, le contestazioni crescono e il movimento coinvolge diversi territori. Dinanzi a un governo definito incapace di ascoltare le istanze della popolazione, si sceglie dunque l’opzione referendaria. Approfittando dei malumori locali e del perenne scontro Stato-Regioni, il coordinamento ha pensato bene di evitare la raccolta firme, preferendo presentare ai singoli Consigli regionali i sei quesiti referendari. Inizialmente erano dieci le Regioni ad aver discusso e approvato nei rispettivi Consigli la proposta di referendum depositata in Cassazione il 30 settembre 2015: Abruzzo (successivamente ha fatto un passo indietro), Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto. Parere contrario, invece, è stato espresso da Emilia Romagna e Sicilia. A metà dicembre la proposta è stata esaminata della Corte di cassazione, la quale si è accertata della conformità alle norme di legge, per poi passare al vaglio della Corte costituzionale che il 10 febbraio ha ammesso la formiche 112 — marzo 2016 «La virtuosa Norvegia non abbandona la strada degli idrocarburi dall’oggi al domani, ma modula gradualmente gli investimenti del proprio fondo pensione nelle società attive nel settore dei combustibili fossili » richiesta. Il Consiglio dei ministri ha fissato la data del referendum al 17 aprile prossimo. Pure la scelta della data – peraltro già ratificata dal presidente della Repubblica – ha innescato nuove polemiche: i promotori del referendum insistono affinché sia accorpato in un’unica data con le amministrative di giugno, in un cosiddetto election day, evidentemente consci del poco appeal dei quesiti, dunque timorosi che il quorum ad aprile possa non essere raggiunto. Fin qui il dibattito politico. Ma, nel merito: è lecito cercare il petrolio in mare? Al di là di una prima considerazione generale – e cioè che è bizzarro quel Paese che non solo non sfrutta, ma neppure cerca le proprie risorse minerarie – quali sono i reali rischi per l’ambiente? In fase di esplorazione, pressoché zero. Non ci sono in letteratura evidenze scientifiche di danni causati dall’utilizzo della tecnologia air gun, una sorta di ecografia ai fondali marini per individuare le cosiddette campane geologiche, e cioè quei tratti di fondale che potrebbero (al condizionale) trattenere petrolio. La Norvegia non è certo un Paese dalla scarsa coscienza ambientale, eppure è il principale produttore europeo di petrolio e tra i maggiori esportatori al mondo. Sarà anche per questo che le associazioni ambientaliste e i promotori non battono più tanto il tasto su questo argomento – al netto di quelle suggestive manifestazioni estive sulle spiagge, tutti imbrattati di nero – quanto piuttosto su quello dell’anti- economicità. Leonardo Maugeri, tra i più autorevoli esperti al mondo di energia e petrolio, in effetti è cauto sulle risorse italiane. Maugeri però evidenzia soprattutto la necessità di selezionare con accuratezza le società che posseggono o richiedono i titoli minerari. Solo compagnie solide dal punto di vista finanziario possono garantire sicurezza nella fase E&P (ossia, exploration & production). Tra queste vi è certamente il gigante olandese Shell, che però ha deciso lo stesso, anzitempo, di rinunciare alla ricerca di petrolio nello specchio di mare fra Puglia, Basilicata e Calabria. Gli olandesi hanno probabilmente qualche problema a confrontarsi con una politica poco affidabile, prima ancora che con territori preventivamente ostili. Con il petrolio stabilmente sotto i 30 dollari al barile, che non offre oggi grandi ritorni sull’investimento, perché insistere su operazioni intricate sin dall’origine? Tra l’altro, il prezzo del barile non lo decreta di certo l’Italia, bensì il mercato, prima ancora che le prossime strategie dell’Opec. Il tasto più battuto dagli ambientalisti, dunque, è più filosofico: la decarbonizzazione dell’economia, e cioè l’abbandono delle fonti fossili a favore delle rinnovabili. Obiettivo sul quale è difficile non essere d’accordo, ma difficilmente raggiungibile on-off, e cioè in pochi anni. La virtuosa Norvegia, per esempio, non abbandona la strada degli idrocarburi dall’oggi al domani, ma modula gradualmente gli investimenti del proprio fondo pensione nelle società attive nel settore dei combustibili fossili. Insomma, esiste una fase chiamata di transizione, da percorrere senza fanatismi, e al netto di ogni altro fenomeno Nimby che, ricordiamolo, tocca pure le fonti rinnovabili: circa i 40% degli impianti sono contestati in Italia. Il no a tutto certamente non aiuta alcuna economia, pure la più sostenibile. 67 AMBIENTE La disinformazione come arma dei no-triv Alberto Clò Docente di Economia applicata presso l’Università di Bologna e direttore della rivista Energia Un’occasione sprecata, ovvero cronaca di una morte annunciata. In questo incipit temo si risolverà il referendum no-triv, in cui tutto sembra giocarsi sulla speranza che si raggiunga o meno il quorum necessario. Come scommettere alla carta più alta. Se sarà raggiunto è quasi certa la vittoria dei no-triv. Per la semplice ragione che sui mass media, dalla grande stampa al servizio pubblico televisivo, la disinformazione ha sinora trionfato, sostenendo le ragioni degli oppositori senza nulla dire di quelle altrui. La vittoria dei no-triv avrebbe gli stessi effetti del no al nucleare: la distruzione di un’intera industria – quella elettromeccanica – che contava decine e decine di migliaia di occupati, un gran numero di ingegneri, eccellenti capacità manifatturiere, un sapere scientifico e accademico tra i primi al mondo Un’occasione sprecata, ovvero cronaca di una morte annunciata. In questo incipit temo si risolverà il referendum no-triv. Un’occasione sprecata perché come nei casi del nucleare del 1987 e del 2011 o in quello associato sull’acqua, gli elettori sono chiamati a esprimersi senza che sia fornita loro una ben che minima e corretta informazione sui quesiti referendari, senza una parvenza di dibattito e senza dar conto delle conseguenze che ne potrebbero derivare. In un confronto del tutto impari tra le voci contrarie all’attività mineraria fatte proprie e amplificate dai mass media e il niente che vi si contrappone. Quasi che la questione avesse solo rilevanza locale e non riguardasse l’intero Paese, la sua economia, la sua industria, la sua crescita. Non ultimo, la sua sicurezza energetica, termine tanto abusato quanto ritenuto irrilevante nei fatti e nelle politiche. 68 Ecco perché può ben parlarsi di cronaca di una morte annunciata con un risultato che appare scontato, in cui tutto sembra giocarsi sulla speranza che si raggiunga o meno il quorum necessario. Come scommettere alla carta più alta. Se sarà raggiunto è quasi certa la vittoria dei no-triv. Per la semplice ragione che sui mass media, dalla grande stampa al servizio pubblico televisivo, la disinformazione ha finora trionfato, sostenendo le ragioni degli oppositori senza nulla dire di quelle altrui. Non vi è motivo perché un qualsiasi cittadino di buon senso possa dirsi favorevole ad un’attività che – si proclama ogni giorno – provoca danni irrimediabili alla salute, alla natura, al territorio, alla pesca, al turismo, all’agricoltura. Senza che, inoltre, vi sia alcun vantaggio per le popolazioni o l’intero Paese, perché a guadagnarci – si sostiene – sarebbero solo le fameliche multinazionali del petrolio. Che tutto ciò sia mera propaganda nulla conta, così come il fatto che non vi sia uno straccio di studio che dimostri che estrarre petrolio o metano danneggi il turismo, la pesca, l’agricoltura. Per rendersene conto basterebbe farsi un bel week-end a Milano Marittima e guardare dalla battigia le piattaforme al largo o andare all’annuale Festival delle cozze della vicina Marina di Ravenna, pubblicizzate “tra le più pregiate d’Italia raccolte alla base immersa delle piattaforme marine!”. Così come basterebbe, ma la cosa sarebbe più ardua, andarsi a studiare le esperienze estere di collaborazione dell’industria petrolifera con le aziende agricole francesi, le università inglesi, i pescatori norvegesi. Ma tutto ciò con conterebbe nulla. Così come controbattere a un’altra tra le mille mistificazioni che si vanno propinando: che estrarre petrolio sia antistorico, perché formiche 112 — marzo 2016 The NEWS LOREM IPSUM DOLOR SIT AMET The NEWS LOREM IPSUM DOLOR SIT AMET «Impedire la produzione interna di petrolio o metano significa preferire l’importazione, magari dalla Libia, finanziando le milizie in guerra; versare miliardi di euro all’estero piuttosto che destinarli alla crescita interna; aiutare le imprese altrui a discapito delle nostre» LOREM IPSUM DOLOR SIT AMET LOREM IPSUM DOLOR SIT AMET fonte ormai marginale nell’offerta mondiale di energia (con il metano conta per il 54%) e penalizzante le nuove risorse rinnovabili (2,4%), mentre si dovrebbe sapere che il primo viene utilizzato quasi solo nei trasporti e le seconde nella generazione elettrica. Lo stesso può dirsi sui rischi di disastri ambientali irresponsabilmente paventati, estrapolando sulle nostre coste il caso di Macondo nel golfo del Messico. Nulla si dice, per contro, sulla questione di fondo: che impedire la produzione interna di petrolio o metano significa preferirne l’importazione, magari dalla Libia, finanziando le milizie in guerra; significa preferire versare miliardi di euro all’estero piuttosto che destinarli alla crescita interna; significa aiutare le imprese altrui a discapito delle nostre. Ma temo sarebbe ancora del tutto inutile. Perché la paura, come la calunnia, pesa più di ogni rassicurazione o smentita. Qualcosa resterà sempre. Meglio allora ragionare sul dopo: su quel che accadrebbe se il referendum dovesse passare. Primo: ne seguirebbe una lettura tutta politica e strumentale del responso referendario, a prescindere dal merito del quesito sottoposto agli elettori. Ottenere una qualsiasi autorizzazione diverrebbe impossibile, esattamente come accadde con il referendum nucleare del 1987 che non chiedeva di esprimersi per il sì o il no al nucleare, ma a favore o meno di una sua temporanea moratoria che la politica avrebbe trasformato in tombale. Secondo: perché la vittoria dei no-triv avrebbe gli stessi effetti del no al nucleare: la distruzione di un’intera industria – quella elettromeccanica – che contava decine e decine di migliaia di occupati, un gran numero di ingegneri, eccellenti capacità manifatturiere, un sapere scientifico e accademico tra i primi al mondo. Tutto distrutto: fabbriche, imprese, scuole, professionalità. Con la vittoria dei no-triv avremmo il medesimo risultato: la distruzione di un’altra industria italiana, non tanto quella mineraria che non avrebbe difficoltà a spostare i suoi investimenti all’estero, ma quella che produce beni e servizi a essa strumentale. Un’industria che risale all’unità d’Italia, che si articola in centinaia di imprese raccolte in distretti dei servizi petroliferi, specie in Lombardia, Emilia-Romagna e Abruzzo, che vanta livelli di specializzazione tecnologica ovunque apprezzati, tranne che in Italia. Un’industria che già attraversa gravi difficoltà per il crollo del mercato che ha fatto seguito a quello dei prezzi del petrolio, con molte imprese che stanno chiudendo e licenziando, nell’assoluto silenzio della politica e delle istituzioni. Un sì al referendum ne decreterebbe la definitiva fine. È questa la vera partita in gioco: anche se i più fingono di non rendersene conto nell’indifferenza generale e nell’irresponsabilità di chi dovrebbe guardare agli interessi del Paese più che ai propri dividendi elettorali. 69 AMBIENTE Il nodo è il confronto Stato-Regioni Davide Tabarelli Presidente Nomisma energia La vicenda è un pasticcio amministrativo fra lo Stato, che deve gestire le politiche energetiche, e le Regioni, a cui in maniera irresponsabile abbiamo dato poteri in materia, e la dice lunga sull’incapacità tutta italiana di fare sistema-Paese Stato, che deve gestire le politiche energetiche, e le Regioni, a cui in maniera irresponsabile abbiamo dato poteri in materia, e la dice lunga sull’incapacità tutta italiana di fare sistema-Paese. Nonostante nell’immaginario collettivo riguardi tutte le perforazioni, in realtà lo scontro è confinato solo alle attività dentro le 12 miglia, 22 chilometri dalla costa. In particolare, il referendum richiesto da dieci Regioni il 30 settembre 2015, riguardava per lo più una delle parti più qualificanti – l’articolo 38 – dello Sblocca Italia, il decreto legge del settembre 2014 che doveva essere lo strumento principale del governo Renzi per rilanciare l’economia italiana. Il famigerato articolo 38 voleva semplicemente aggiustare alcune anomalie introdotte nel 2010 dal decreto legislativo n. 128, quello che fu approvato dal È un’altra battaglia persa quella delle trivelle, nell’avanzata inarrestabile dell’ambientalismo rivoluzionario contro l’industria italiana, che ha facile gioco vista la scarsa resistenza. Indipendentemente da come andrà il referendum del 17 aprile, di nuove esplorazioni, e pertanto di nuove produzioni, non se ne faranno più in Italia, il Paese che per primo ha iniziato lo sfruttamento economico del petrolio nel 1700, come ci ricordano Diderot e D’Alambert nell’Enciclopedie. La vicenda è un pasticcio amministrativo fra lo Produzione e consumo di gas e petrolio in Italia Mtep 180 Previsioni 160 Produzione idrocarburi 140 Consumo idrocarburi 120 100 80 Deficit interno 2010: 92% 60 40 20 70 2028 2025 2022 2019 2016 2013 2010 2007 2004 2001 1998 1995 1992 1989 1986 1983 1980 1977 1974 1971 1968 1965 1962 1959 1956 1953 1950 0 formiche 112 — marzo 2016 «La produzione degli idrocarburi è destinata, nel migliore dei casi, a stabilizzarsi. Così i circa 20 miliardi di euro che gli italiani spendono per la materia prima gas e petrolio, continueranno ad andare in gran parte all’estero» Parlamento subito dopo l’incidente della Deepwater Horizon del 20 aprile 2010. Il 128 introdusse per la prima volta il divieto delle 12 miglia, ma solo per nuovi progetti, mentre doveva garantire le iniziative in corso. Tuttavia, le Regioni riuscirono a ottenerne un’estensione anche ai progetti in corso. L’articolo 38 voleva semplicemente ricondurre all’autorità centrale il potere di autorizzazione di questi progetti, togliendolo alle Regioni che, però, forti dei poteri ottenuti nel 2001 con la modifica del titolo quinto della Costituzione, hanno avuto facile gioco a ottenere l’ammissibilità dei referendum in questione. La causa dello scontro risale al 128 del 2010, che ha introdotto divieti che non esistono in nessuna parte del mondo. Il decreto fu portato avanti da alcuni senatori siciliani, soprattutto di destra, con l’allora ministro dell’Ambiente di Siracusa Prestigiacomo, che non consultò né la presidenza del Consiglio (il primo ministro Berlusconi aveva già molti problemi) né il ministro dello Sviluppo economico, competente sulle questioni minerarie, in quanto Scajola si era appena dimesso per lo scandalo dell’appartamento. Il paradosso è che il governo si è dovuto rimangiare tutto l’articolo 38, con modifiche introdotte a fine 2015 nella legge di stabilità, ma il referendum è rimasto in piedi, anche se solo per un quesito laterale relativo alla durata delle concessioni. Anche se non si raggiungerà il quorum, entro le 12 miglia non si farà più nulla e la gran parte dei progetti che potevano essere avviati, per un ammontare di investimenti di 5 miliardi di euro, sono saltati. Non solo, forti della mobilitazione popolare e mediatica sull’argomento, i movimenti ambientali chiederanno il blocco delle perforazioni oltre le 12 miglia e anche a terra in quanto, coerentemente, se sono rischiose entro le 12 miglia, lo sono ancora di più al largo, e quindi lo sono anche a terra. Nel 2014, per la prima volta negli ultimi 70 anni, le perforazioni per i nuovi pozzi sono state pari a zero, contro picchi di 50 nei primi anni Novanta. Nel mondo sono oltre 2mila gli impianti che ogni giorno ne scavano di nuovi. Nel mondo esistono circa 2mila piattaforme che tutti i giorni producono milioni di barili di greggio e miliardi di metri cubi di gas. In Italia, di fronte alle nostre coste, soprattutto nell’Adriatico, c’è approssimativamente un centinaio di piattaforme, molte produttive da trent’anni. Nel Mare del Nord sono 300 ed estraggono gas e petrolio per volumi oltre 50 volte superiori a quelli dell’Italia. Il nostro Paese, fra quelli industrializzati, è quello che più dipende da consumi di petrolio e gas nel suo bilancio energetico, circa il 60%, e per il 90% questi volumi li importa dall’estero. La nostra Strategia energetica nazionale del marzo 2013 indicava un raddoppio della produzione di petrolio, dagli allora 10 milioni di tonnellate equivalenti a oltre 20. Dopo le ultime vicende, e indipendentemente dall’esito del referendum, la produzione è destinata, nel migliore dei casi, a stabilizzarsi, e così i circa 20 miliardi di euro che gli italiani spendono, a prezzi 2016, per la materia prima gas e petrolio, continueranno ad andare in gran parte all’estero senza lasciare alcun beneficio in Italia. Una vittoria gravosa, come al solito, per le battaglie ambientaliste. 71 AMBIENTE I dilemmi della Corte Gino Scaccia Docente di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università di Teramo e di Diritto costituzionale presso l’Università Luiss di Roma Se è fisiologico che le Corti coltivino una vocazione counter-majoritarian e che il principio democratico sia corretto e ricondotto nel suo alveo quando fuoriesce dal tracciato costituzionale, è sempre incombente il rischio che i giudici supremi si pongano, in modo autoreferenziale, come aristocrazie della toga, alterando l’equilibrio fra i poteri costituzionali. La Corte italiana sembra navigare a vista, alternando pronunce decisamente interventiste (per tutte, la sentenza n. 70 del 2015 sulle pensioni) a decisioni molto più deferenti nei confronti delle scelte legislative e preoccupate di non alterare i complessivi equilibri della finanza pubblica: si pensi alla sentenza sulla Robin tax, per cui alle esigenze di bilancio viene sacrificato il principio supremo all’effettività della tutela giurisdizionale Recenti pronunce della Corte costituzionale (da ultimo quella che ha ammesso il referendum sulle trivellazioni petrolifere), offrono l’occasione per riproporre un interrogativo che affatica gli studiosi dagli anni 20 del Novecento, quando si è affermato il controllo di costituzionalità: qual è il limite d’intervento delle Corti costituzionali rispetto alla decisione politica? La risposta è il risultato di uno scontro dialettico. Da un lato, è innegabile che la ragione profonda dell’istituzione delle Corti costituzionali sta nella ricerca di una sede di neutralizzazione della lotta politica e di moderazione del principio maggioritario che, privo di un limite costituzionale, farebbe degenerare la democrazia in una tirannia della maggioranza. Dall’altro, il principio di sovranità popolare, architrave delle democrazie moderne, esige che le scelte fondamentali per la vita della comunità politica 72 siano formate nel libero mercato delle idee e siano dunque riferibili, nella misura maggiore possibile, a istituzioni rappresentative sottoposte al controllo e alla responsabilità democratica. Se è quindi fisiologico che le Corti coltivino una vocazione counter-majoritarian e che il principio democratico sia corretto e ricondotto nel suo alveo quando fuoriesce dal tracciato costituzionale, è sempre incombente il rischio che i giudici supremi si pongano, in modo autoreferenziale, come aristocrazie della toga, alterando l’equilibrio fra i poteri costituzionali. Diversa è, a questo proposito, la percezione dei vincoli sistemici che le Corti subiscono in conseguenza del loro inserimento nella forma di governo. Negli Stati Uniti che, in anticipo di oltre un secolo rispetto al continente europeo, hanno dato i natali al judicial review of legislation, la Corte suprema esercita una giurisdizione militante quale giudice delle libertà, come dimostrano tante storiche pronunce in tema di discriminazioni sessuali, razziali e religiose. Negli ambiti che toccano le scelte ridistributive della ricchezza, e dunque i rapporti fra Stato e mercato, invece, quei medesimi giudici tendono ad assumere un atteggiamento di maggiore deferenza nei confronti del legislatore. E ciò sulla duplice premessa che le opzioni di politica economica e finanziaria non possano essere oggetto di analisi giuridiche astratte, settoriali e parcellizzate (come inevitabilmente sono le analisi compiute dalle Corti per i vincoli processuali entro i quali esse agiscono) e che sulle scelte di allocazione delle risorse pubbliche il controllo e il dibattito del public eye sono più intensi; inoltre, è più immediata la possibilità di far valere la responsabilità politica dei soggetti di governo, sicché le Corti, sovrapponendosi al legislatore, mortifichereb- formiche 112 — marzo 2016 «La Corte sembra non potersi sottrarre all’onere di elaborare una più matura dottrina delle political question che sottragga la propria giurisprudenza all’occasionalismo e conferisca così maggiore certezza agli operatori economici » bero il dibattito pubblico e restringerebbero gli spazi della libera dialettica politica. Fino a influire sulla dinamica maggioranza-opposizione, dando ristoro in sede giudiziale a posizioni che nell’arena politica erano risultate sconfitte, e a offuscare la responsabilità dei soggetti di governo. Nell’esperienza europea, le Corti costituzionali (non solo quella italiana, ma anche quelle tedesca e portoghese, ad esempio), non hanno elaborato un’analoga dottrina di self restraint rispetto alle decisioni a elevato impatto sulla politica economico-finanziaria, anzi intervenendo spesso con pronunce che hanno posto a carico del bilancio pubblico oneri ingentissimi, nell’ordine di miliardi di euro, condizionando inevitabilmente le scelte allocative degli esecutivi. Non sorprende, allora, che la Corte italiana sembri navigare a vista, alternando pronunce decisamente interventiste (per tutte, la sentenza n. 70 del 2015 sulle pensioni) a decisioni molto più deferenti nei confronti delle scelte legislative e preoccupate di non alterare i complessivi equilibri della finanza pubblica (si pensi alla sentenza sulla Robin tax, per cui alle esigenze di bilancio viene sacrificato il principio supremo all’effettività della tutela giurisdizionale). Del resto l’imbarazzo della Corte è facilmente spiegabile. Se fa prevalere sistematicamente le esigenze della finanza pubblica sulla tutela dei diritti costituzionali (si tratti di salute, ambiente o di diritti economici), tradisce la sua natura di giudice delle libertà, rischiando oltretutto di vedere impugnate le proprie pronunce dinanzi alle Corti di Strasburgo e di Lussemburgo, che integrano la tutela nazionale dei diritti fondamentali. Se invece salvaguarda le libertà senza riguardo alle condizioni di contesto – politiche ed economiche – in cui queste si inscrivono, viene accusata di insensibilità politica se non di irresponsabilità e può, in taluni casi, esporre lo Stato alla violazione degli stringenti vincoli europei di bilancio. Stretta in questa morsa, la Corte sembra non potersi sottrarre all’onere di elaborare una più matura dottrina delle political question, che ponga in un rapporto più equilibrato controllo giurisdizionale e prerogative della politica, sottragga la propria giurisprudenza all’occasionalismo e conferisca così maggiore certezza agli operatori economici, che nelle loro scelte strategiche d’investimento in Italia danno uno spazio non marginale al rischio derivante da una giurisdizionalizzazione dei conflitti tuttora eccessiva. 73 POLITICHE PER L’AEROSPAZIO E LA DIFESA ogni mese, in abbonamento oppure ogni giorno, online w w w.airpressonline.it AMBIENTE Quando la frizione sale ai piani alti di Gabriele Rosana Giornalista freelance, cultore di Diritto costituzionale presso l’Università Luiss di Roma La pronuncia della Consulta sul referendum sulle trivellazioni off-shore è solo l’ultima delicata questione affrontata dalla Corte dopo altri casi come: il Muos di Niscemi; il valzer attorno all’Ilva di Taranto e l’incostituzionalità del blocco delle perequazioni pensionistiche disposto dalla legge Fornero Quo usque tandem, iudex, abutere patientia legislatoris? Se la politica lancia senza troppe remore i suoi strali all’indirizzo della mai amata magistratura, quando la frizione sale ai piani alti – coinvolgendo la Corte costituzionale – lo scontro si sposta al livello del galateo istituzionale, ma anche dell’opportunità politica. Spesso i giudici non si arrestano di fronte a decisioni che coinvolgono scelte fondamentali d’indirizzo politico, orientandone gli approdi verso lidi opposti rispetto a quelli prefigurati dagli organi di direzione politica. L’ultima pronuncia della Consulta che impensierisce non poco Palazzo Chigi (e fa esultare i presidenti di Regione che hanno cercato lo scontro diretto, su tutti Emiliano, caudillo di Puglia) riguarda l’ammissibilità del referendum abrogativo della norma che esenta dal divieto di esplorare e trivellare in mare coloro che siano già provvisti del titolo abilitativo e fino all’esaurimento dei giacimenti. La sentenza depositata il 2 febbraio scorso per la gioia dei no-triv incrocia un’altra delicata questione ambientale, anch’essa oggetto di roventi scambi di carte bollate: il Muos di Niscemi, la base statunitense posta nel cuore della Sicilia e impiegata per migliorare la trasmissione e l’acquisizione dei dati emessi dai droni addetti alla sicurezza nel Mediterraneo. È di tutta evidenza come, pur provocando legittime resistenze per le potenziali lesioni del diritto alla salute delle popolazioni locali, con la base militare a stelle e strisce i giudici si trovano fra le mani una patata più che bollente, che coinvolge – insieme alla questione strettamente giuridica – le scelte di alleanza strategica e la politica estera e di difesa del Paese. Il valzer attorno all’Ilva di Taranto ha aperto una vera e propria autonoma saga, tirando in ballo nelle aule di giustizia delle politiche industriali strategiche e fondamentali per il Paese. Sul filone della finanza pubblica, invece, la sentenza n. 70 del 2015, che ha dichiarato l’incostituzionalità del blocco delle perequazioni pensionistiche disposto dalla legge Fornero, si è tradotta in una doccia fredda per gli speranzosi richiami alla crescita (dopo la dieta a base di austerità) da parte del governo, ritrovatosi con un buco nei conti pubblici, scavato dalla Consulta, tradendo una volontà politica che aveva semmai insistito sulla solidarietà intergenerazionale. C’è da augurarsi che la Corte trovi quel delicato equilibrio che le consenta di esercitare la sua funzione di giudice della libertà, ma nel rispetto del quadro istituzionale entro cui opera e s’iscrive, lungi dall’essere monade solitaria che ragiona di principi astratti. È altrimenti sempre incombente il rischio che sia la politica a tirare la corda facendo ricorso a rimedi più ruvidi. Non proclami antisistema, ma prove di forza che la storia ricorda anche da parte di statisti democratici: per vincere le resistenze della Corte suprema sul New deal, il presidente Franklin Delano Roosevelt prospettò un pacchetto d’incremento dei giudici che avrebbe ridotto il peso dei membri più conservatori, schierati a tutela dello status quo. Non ce ne fu bisogno. 75 IDEE Comunicare l’impresa per raccontare il Paese IDEE Il contagio delle idee di Renato Fontana Presidente dell’area didattica in Comunicazione per le imprese e le organizzazioni, dipartimento di Comunicazione e ricerca sociale presso l’Università La Sapienza di Roma La comunicazione d’impresa è efficace se innesca una forma di contagio tra gli attori dei circuiti produttivi. Il principale cambiamento tra l’impresa e il consumatore consiste nel fatto che questa relazione non è più così sbilanciata come in passato, quando la domanda subiva una netta supremazia da parte dell’offerta. Oggi le grandi aziende hanno prescelto la logica della comunicazione integrata in cui si abbattono i vincoli tra interno ed esterno in favore di una maggiore partecipazione dei soggetti in campo. Il vantaggio, quindi, è alimentare processi collaborativi, orientati all’innovazione e alla ricerca di output originali e, di conseguenza, appetibili sul mercato La comunicazione d’impresa sta dentro un contenitore molto più ampio che è quello del sistema produttivo. Per capire potenzialità e limiti di questa comunicazione si può partire dalla triade semantica, sharing economy, social network e ruolo attivo del consumatore, utile a definire l’ambiente storico e culturale che detta le coordinate entro le quali la comunicazione d’impresa si deve muovere per raggiungere gli obiettivi dati, qualunque essi siano. La sharing economy è l’economia delle piattaforme digitali dove si aprono possibilità inedite fino a pochissimi anni fa; dove ciascuno di noi, ovvero ciascun cittadino, può diventare imprenditore di se stesso trasformandosi per il tempo che desidera in una specie di tassista part-time (penso alla piattaforma Uber) o, ancora, una specie di affittacamere a tempo determinato (penso alla piattaforma Airbnb). Come si sa, si tratta di nuovi segmenti di mercato e nuove tipologie di offerta di servizi che accorciano i processi d’intermediazione tra l’impresa e il consumatore 78 per generare ulteriori processi economici e del lavoro. Qualcosa di molto analogo avviene osservando le dinamiche relazionali dal lato dei social network (nati meno di dieci anni fa): essi consentono di praticare forme di comunicazione immediate, dirette, pervasive, in tempo reale così come non è stato mai possibile neanche immaginare nella storia dell’umanità. Per averne piena consapevolezza basta contare le persone che non usano il proprio cellulare quando prendiamo l’autobus, la metropolitana o quando viaggiamo in treno. Sono una stretta minoranza. In questo senso, i social condizionano le nostre vite, ma quello che qui interessa di più è sottolineare che essi condizionano soprattutto le nostre scelte di consumo. Il consumatore, che è pure cliente, utente, cittadino (e talvolta lo è contemporaneamente), dispone di un set di informazioni tale per cui, da un canto, è messo nella condizione di poter scegliere il prodotto o il servizio che preferisce e, dall’altro, è parte del processo produttivo nel momento in cui ne condiziona il risultato mettendo nelle vetrine ora disponibili preferenze, gusti e orientamenti. Se ha un senso assumere la triade semantica appena richiamata come griglia interpretativa, il principale cambiamento tra l’impresa e il consumatore consiste nel fatto che questa relazione non è più così sbilanciata come in passato, quando la domanda subiva una netta supremazia da parte dell’offerta di beni o servizi. Nell’epoca in cui le informazioni sono alla portata di tutti lo sbilanciamento tende a essere molto più contenuto. Segreti e bugie, per così dire, hanno il fiato corto. In questo panorama, diventa prioritaria la centralità di costruire e coltivare le relazioni con tutti gli attori coinvolti nel processo, formiche 112 — marzo 2016 FUTURO_CAMBIA L’ITALIA, CAMBIANO LE IMPRESE L’Italia cambia e il racconto del nostro Paese si arricchisce di nuovi capitoli per raccogliere e rilanciare le sfide del III millennio. Digitalizzazione, ruolo attivo del consumatore, disintermediazione delle narrazioni aziendali, necessità di integrazioni verticali e orizzontali. Così, anche lo storytelling delle principali aziende italiane cambia passo, condividendo con il Paese una nuova fase (speriamo) positiva. Si tratta delle principali realtà – Enel, Eni, Finmeccanica, Tim – che hanno accompagnato lo sviluppo dell’Italia nelle varie fasi della Repubblica e che oggi rinnovano la propria identità nel segno dell’innovazione, della concorrenza e della responsabilità sociale. Auguri! al punto che oggi le grandi aziende hanno prescelto la logica della comunicazione integrata, in cui si abbattono i vincoli tra interno ed esterno in favore di una maggiore partecipazione dei soggetti in campo. O meglio, in favore di un proprio e vero engagement, che si richiama alla condivisione delle scelte, ma anche al senso di responsabilità collettivo in vista degli output prodotti. La comunicazione integrata non è una scelta, bensì una strada obbligata che scaturisce dall’assottigliarsi dei confini tra la dimensione interna ed esterna delle imprese. Le imprese italiane che si presentano meglio di altre, secondo il webranking 2015, sono soprattutto Eni, TIM e Snam. Le dinamiche che ne conseguono incidono almeno su due questioni fondamentali per gli orientamenti moderni dei sistemi produttivi: l’approccio gestionale e il rapporto con il consumatore. Nel primo caso, si pone l’esigenza di generare community partecipative dei dipendenti, collaboratori e stakeholder. In qualche misura, iniziative di questo genere ricordano i circoli di qualità del modello Toyota degli anni Settanta, dove ogni gruppo aveva la possibilità di esprimere il suo punto di vista in merito alla gestione delle problematiche tipiche della comunità nella quale si lavora. Le attività produttive in senso stretto sembrano, per così dire, rimanere sullo sfondo, mentre si fa largo il connotato sociale della struttura aziendale. Il vantaggio, quindi, è alimentare processi collaborativi, orientati all’innovazione e alla ricerca di output originali e, di conseguenza, appetibili sul mercato. Nel secondo caso, stabilire un rapporto sistemico con il consumatore si basa sulla consapevolezza della portata e del valore dell’ascolto. Evidentemente la cultura cattolica fa ancora scuola se il top management si avvale di una squadra di evangelizzatori, detti in termini professionali e laici community manager, che hanno il compito di ascoltare e monitorare le comunità per sentire “l’aria che tira” e tradurla in strategie orientate a soddisfare le istanze raccolte. I benefici sono reciproci: le imprese ottengono informazioni dirette e stimoli precisi per migliorare il prodotto, mentre i consumatori possono segnalare in via strumentale difetti o avanzare richieste per rendere più funzionale questa o quella parte, concorrendo di fatto alla sua manutenzione e qualche volta addirittura alla sua progettazione. L’ibridazione dei ruoli fa in modo che ogni figura abbia un profilo spurio e si presenti quasi nello stesso tempo come consumatore e produttore dell’output in questione. Del resto, se ci pensate, è quello che già aveva concepito Henry Ford nelle sue officine nei primi decenni del xx secolo, con la differenza che allora non esistevano le piattaforme digitali con tutto quello che ne consegue. Per concludere, la comunicazione d’impresa è efficace se innesca una forma di contagio tra gli attori dei circuiti produttivi: non è il contagio di cui parlava Albert Camus nella Peste, né quello descritto da George Orwell in 1984, tuttavia esso è costantemente alla ricerca di un equilibrio dinamico tra le esigenze di essere dentro un progetto comunitario e, nello stesso momento, sentirsi soggetti non estraniati della loro specifica, insopprimibile individualità. 79 IDEE La narrazione del cane a sei zampe di Marco Bardazzi Direttore comunicazione esterna di Eni La narrazione aziendale diviene uno strumento di creazione di valore reputazionale, ma anche il mezzo per la costruzione di una propria community di riferimento e per la gestione delle situazioni di crisi. Lo storytelling, parola spesso abusata, è senza dubbio uno dei metodi più interessanti per sviluppare una strategia di narrazione aziendale che permetta di creare una conversazione con i propri stakeholder “Finché i leoni non cominceranno a raccontare le loro storie, i cacciatori saranno sempre gli eroi”. Da generazioni, varie etnie africane si tramandano questo proverbio, nato tra le popolazioni Ewe-Mina tra Ghana, Benin e Togo, e poi diffuso con qualche variante in molte altre parti del continente. La suggestione che offre si apre a mille possibili interpretazioni, e non di rado in Africa il proverbio viene letto in relazione alla storia coloniale di molti Paesi. Se ai leoni fosse data la possibilità di raccontare la loro versione dei fatti, non solo molte storie di caccia apparirebbero sotto una luce diversa, ma si scoprirebbero i mille piccoli e grandi eventi che segnano l’esistenza di leoni e leonesse, e non solo il momento traumatico dell’incontro con il cacciatore. Il momento, cioè, in cui d’un tratto la vita del leone fa notizia. Usciamo dalla savana e dalla metafora. Da qualche tempo il proverbio africano ha cominciato a comparire, insolitamente, sulle slide di presentazioni che si occupano di comunicazione e storytelling. La ragione è presto detta: complice la trasformazione portata dal digitale, i leoni hanno cominciato a raccontare le loro storie. Sono diventati cioè protagonisti di una disintermediazione che permette loro di parlare direttamente a 80 una vasta audience, senza doversi affidare alla mediazione del racconto del cacciatore. Sostituite al leone una qualsiasi categoria che ha bisogno di comunicare – impresa, politica, economia – e al cacciatore i tradizionali mediatori – giornali, Tv, pubblicità – ed ecco emergere il nuovo ecosistema della comunicazione nell’era digitale. Ogni organizzazione, che sia un’azienda, una Ong o un ente pubblico, ha oggi molto più che in passato la possibilità di raccontarsi in prima persona, disintermediando la propria comunicazione e raggiungendo un pubblico le cui dimensioni possono dar vita a una crescita scalare grazie al digitale. Per farlo, tuttavia, occorre impostare strategie di comunicazione che ripensino l’organizzazione come una rete narrativa. La narrazione aziendale diviene così uno strumento di creazione di valore reputazionale, ma anche il mezzo per la costruzione di una propria community di riferimento e per la gestione delle situazioni di crisi. Lo storytelling, parola spesso abusata, è senza dubbio uno dei metodi più interessanti per sviluppare una strategia di narrazione aziendale che permetta all’azienda di creare una conversazione con i propri stakeholder. Sei parole che iniziano con la lettera “c” possono aiutare a delimitare il nuovo percorso che la comunicazione aziendale ha l’opportunità di intraprendere, sfruttando gli strumenti digitali. Due sono già state citate, comunità e conversazione. Le altre sono: contenuti, contaminazione, creatività e condivisione. Il tutto va messo in relazione tramite un approccio integrato. In Eni è quello che abbiamo cominciato a fare da qualche tempo, costruendo una nuova architettura di comunicazione che permetta di avere un approccio multipiattaforma. Una content strategy che ci ha portato formiche 112 — marzo 2016 «Eniday è un nuovo spazio di storytelling, in cui raccontare grandi storie di energia, innovazione e tecnologia, dentro e fuori dal perimetro delle aree di business» a lanciare, per esempio, un nuovo spazio di storytelling – Eniday – dove raccontare in italiano e in inglese grandi storie di energia, innovazione e tecnologia, dentro e fuori dal perimetro delle aree di business di Eni. Perché abbiamo le competenze e l’autorevolezza per parlare di energia a 360 gradi, forti di oltre sessant’anni di storia e di ricerche in decine di Paesi nel mondo. Lo dimostra l’esperienza del magazine Oil, un’eccellenza editoriale che si sta arricchendo di contenuti digitali sempre maggiori nella sua versione online, Abo.net. Abbiamo lanciato nuovi profili globali di Eni su Facebook e Instagram, rafforzato la nostra presenza su Twitter, rilanciato il canale YouTube e ripensato la nostra proposta su LinkedIn, un social particolarmente importante per un’azienda che continua a essere tra le più ambite per chi cerca lavoro. Stiamo preparando una nuova versione di eni.com. Nel frattempo, abbiamo lanciato un nuovo portale per il mondo retail, enigaseluce.com, che risponderà sempre più alle esigenze della nuova conversazione che si è resa necessaria, attraverso la community dei clienti domestici. Parlando di comunità, stiamo scoprendo l’enorme potenziale anche comunicativo che ruota intorno a Enjoy: l’avventura di Eni nel car sharing, basata su App, smartphone e logiche social, è destinata a crescere e a raggiungere un pubblico sempre più vasto. Abbiamo individuato nella fotografia il linguaggio espressivo che meglio ci rappresen- ta in questa fase della storia di Eni, lanciando una serie di iniziative tra cui spicca la partnership che ci vede protagonisti di Camera, il Centro italiano per la fotografia a Torino. E visto che i primi stakeholder a cui deve rivolgersi la comunicazione sono le persone che lavorano con noi da mesi all’interno di Eni è nata una conversazione tutta nostra legata al blog The energy of dialogue, sul quale l’ad Claudio Descalzi si confronta quotidianamente con la community delle 34mila persone Eni nel mondo. Una content strategy non è però completa senza adeguati strumenti di misurazione, e per questo stiamo costruendo una struttura di analisi all’avanguardia, per avere una sempre maggiore conoscenza del pubblico con cui dialoghiamo e per calcolare il return on investment delle nostre iniziative di comunicazione. L’insieme di questo sforzo integrato di comunicazione multipiattaforma è ben riassunto dalla tag-line della nuova campagna di Eni, anch’essa frutto dell’approccio storytelling: “Abbiamo l’energia per vederlo. Abbiamo l’energia per farlo”. La materia prima cui attingere, negli anni a venire, sono le storie straordinarie legate al lavoro delle decine di migliaia di uomini e donne di Eni, impegnati dal mar di Barents al Congo, dall’off-shore venezuelano all’Indonesia, a caccia di risorse nel più grande giacimento di gas scoperto nel Mediterraneo o a caccia di dati nel Green data center, il centro di elaborazione nelle pianure vicino Pavia che ospita uno dei più potenti computer al mondo. Se un leone ha storie interessanti da raccontare, figuriamoci un cane a sei zampe. 81 IDEE La forza dell’open power di Andrea Falessi Responsabile comunicazione Enel Italia L’ideazione e la realizzazione di una nuova identità societaria è un passo estremamente importante, soprattutto per un’azienda che vanta una storia di oltre cinquant’anni e che ha segnato le varie fasi della crescita economica del Paese. Alla base di tutto, un approccio definito “open power” che ha come obiettivo, appunto, l’apertura. Apertura a nuovi servizi in grado di soddisfare le esigenze dei nostri clienti e di generare nuovi flussi di reddito per l’azienda, a innovativi e diversi utilizzi del vettore elettrico, alla diffusione di tecnologie e soluzioni in grado di rendere l’energia disponibile per un numero sempre maggiore di persone, soprattutto nelle economie emergenti Una profonda riorganizzazione aziendale e una nuova strategia industriale, la semplificazione della struttura societaria in America latina, la cessione di asset non strategici, il riassorbimento di Enel Green Power all’interno del perimetro aziendale. Sono alcuni dei grandi cantieri che il nostro amministratore delegato, Francesco Starace, ha aperto in quest’ultimo anno e che ci vedrà coinvolti per parecchi mesi. L’obiettivo è quello di dare a Enel un’identità ancora più forte per competere sui mercati e vincere le sfide che la transizione energetica e i rapidi cambiamenti tecnologici ci impongono. In queste ultime settimane si è poi aggiunto un tassello particolarmente importante: una nuova identità con il lancio di un brand colorato, dinamico, pensato appositamente per un uso digitale e che racconti i profondi cambiamenti che avvengono attorno a noi e dentro la realtà aziendale. L’ideazione e la realizzazione di una nuova identità societaria è un passo estremamente importante, so82 prattutto per un’azienda che vanta una storia di oltre cinquant’anni, che ha segnato le varie fasi della crescita economica del Paese e che fa parte della vita di tutti i giorni di milioni di persone. Il percorso che ha portato allo svelamento del nuovo volto di Enel è stato lungo e ha coinvolto migliaia di colleghi e stakeholder in dieci degli oltre 30 Paesi in cui operiamo. Alla base di tutto, un approccio definito “open power” che ha come obiettivo, appunto, l’apertura. Apertura a nuovi servizi in grado di soddisfare le esigenze, in continuo cambiamento, dei nostri clienti e di generare nuovi flussi di reddito per l’azienda, a innovativi e diversi utilizzi del vettore elettrico, alla diffusione di tecnologie e soluzioni in grado di rendere l’energia disponibile per un numero sempre maggiore di persone, soprattutto nelle economie emergenti. A questo fanno simbolicamente riferimento i fasci di energia che compongono i nuovi loghi di Enel e delle due controllate Endesa ed Enel Green Power. Inizia ora un processo di rollout del nuovo brand, un lavoro complesso e avvincente che non potrà che essere al centro delle attività di comunicazione per tutto il 2016. La scelta che abbiamo fatto è stata di non promuovere il nuovo logo attraverso una campagna istituzionale su Tv e stampa, ma di farlo conoscere gradualmente e in maniera più naturale, attraverso le nostre attività commerciali e di promozione dello sport e della cultura che da sempre ci contraddistinguono. Un primo decisivo momento di questo percorso avverrà a partire da aprile, quando i nostri clienti riceveranno la bolletta per la fornitura di elettricità o gas con il nuovo logo Enel. Si tratta senza dubbio di uno dei più potenti mezzi di divulgazione a nostra disposizione, visto che ogni anno recapitiamo oltre 200 milioni di bollette. formiche 112 — marzo 2016 «Con il programma Futur-E si vogliono rilanciare 23 centrali termoelettriche. Lo stesso è già avvenuto in altri Paesi europei, come ad esempio con la Tate Modern di Londra, la Central Tejo di Lisbona e la CaixaForum di Madrid» Occorre però aggiungere che, già a partire dalla fine del mese di febbraio, i circa 32 milioni di nostri clienti inizieranno a ricevere la bolletta 2.0, molto più facile da leggere, colorata e completa di tutte le informazioni utili in un’unica pagina. La nuova Enel non potrà che essere presente anche nelle nostre comunicazioni commerciali, su qualsiasi mezzo: spot Tv, tramite affissioni e online. La prossima campagna sarà, infatti, il primo momento in cui mostreremo l’immagine del Gruppo su più canali contemporaneamente e abbinata a servizi ideati per i nostri clienti. Nel 2016 proseguirà anche l’impegno di Enel per la promozione dell’arte, della cultura e dello sport. Il nostro nuovo logo campeggerà sulla maglia rosa che verrà indossata ogni giorno dal ciclista in testa alla classifica generale della 99esima edizione del Giro d’Italia, che prenderà il via il 6 maggio da Apeldoorn, in Olanda, e si concluderà il 28 maggio a Torino. La nuova Enel accompagnerà gli atleti in un viaggio di oltre 3mila chilometri lungo tutta la penisola, in un percorso che unirà comunità, territori e generazioni diverse con la passione per le due ruote. Così come Enel con la propria rete connette tutte le città e le località, anche quelle più remote del nostro Paese, il Giro d’Italia unisce tutto il territorio nazionale da nord a sud. Questa partnership, che ci permetterà di far conoscere la nostra nuova identità ovunque, proseguirà anche l’anno prossimo nella storica edizione del centenario del Giro d’Italia. Il nostro impe- gno per la promozione dello sport e della cultura non si ferma qui. Enel è infatti il primo socio fondatore privato del MAXXI, il Museo Nazionale delle Arti del xxi secolo a Roma; una collaborazione che ci vede coinvolti in prima persona in un piano molto ambizioso di efficientamento energetico del museo, all’insegna della sostenibilità e del risparmio. Oltre al MAXXI, Enel sostiene le tre principali istituzioni musicali italiane: l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, il Teatro alla Scala e il Maggio Musicale Fiorentino. Infine, dal punto di vista industriale, c’è un progetto particolarmente ambizioso che investe moltissimo anche la comunicazione, che abbiamo lanciato con successo nel 2015 e che proseguirà anche negli anni a venire. Si tratta del programma Futur-E, lanciato per riqualificare con la collaborazione delle comunità locali 23 centrali termoelettriche che hanno esaurito la propria funzione, e per le quali stiamo ipotizzando un futuro diverso. Si tratta di siti industriali che hanno reso possibile la crescita e lo sviluppo del nostro Paese e che potrebbero giocare ancora un ruolo importante. Lo stesso è già avvenuto in altri Paesi europei, in cui centrali elettriche storiche, soprattutto se inserite in contesti urbani, sono diventate poli culturali di primo piano a livello mondiale, come ad esempio la Tate Modern di Londra, la Central Tejo di Lisbona e la CaixaForum di Madrid. Per i 23 impianti italiani abbiamo deciso di lanciare dei concorsi di idee: il primo è quello per la centrale a turbogas di Alessandria, ferma dal 1994, per la quale sono state selezionate tre idee tra quelle presentate da oltre 200 partecipanti di otto Paesi. La prossima centrale per la quale sarà lanciato il bando è quella di Rossano Calabro e altre ne seguiranno. 83 IDEE Il percorso verso la semplificazione di Carlotta Ventura Direttore Brand strategy & media di TIM I clienti vogliono comunicare, lavorare, divertirsi sempre più liberamente, indipendentemente dai dispositivi e dalle piattaforme. Per questo dovevamo pensare a un brand e a un logo unico, nativo digitale, che avesse in sé la duttilità necessaria all’infinità di contesti che il digitale stesso prevede. Lo step-chiave è stato poi definire il nuovo territorio di marca, l’area ideale in cui operare. L’abbiamo identificata nell’onlife, lo spazio nella vita delle persone in cui offline e online si fondono e la tecnologia fa incontrare analogico e digitale, aprendo una serie infinita di opportunità L’accelerazione dei ritmi quotidiani rende sempre più importante l’utilizzo efficiente di risorse finite come tempo e energia. Risorse strategiche, al pari del denaro. Per questo la parola-chiave oggi è semplicità, ancor più per chi ha il privilegio di occuparsi di comunicazione d’impresa, o di comunicazione in generale. La sfida è trasformare messaggi articolati in informazioni lineari, un universo complesso – come un brand storico e stratificato – in una promessa semplice, comprensibile – e realistica – che crei un legame di fiducia tra dipendenti dell’azienda, clienti, fornitori e istituzioni. La ricerca della semplificazione al servizio del cliente, senza perdere i valori fondanti dei brand, è compito piuttosto impegnativo. Il Gruppo Telecom Italia negli anni aveva sviluppato un’architettura di marca frammentata e inefficiente, con una moltitudine di loghi che esprimevano un’identità poco coerente. Anche il mother brand Telecom Italia scontava la difficoltà di essere sia legal entity sia brand commerciale, ma solo per la telefonia fissa. Rinnovare i fondamentali e uti84 lizzare TIM come unico brand commerciale è stata una scelta veloce ma ponderata, basata sui risultati di molte ricerche sui colleghi – che devono aderire di testa e di cuore a una rivoluzione identitaria– e sui clienti, concordi nel considerare i tempi ormai maturi. Abbiamo deciso di puntare su TIM come brand unico commerciale per fare un passo deciso verso il futuro. Il lancio, a metà gennaio di quest’anno, del nuovo logo, dell’adv istituzionale e della nuova identity, è il risultato di un’analisi profonda e di un processo graduale, iniziato a gennaio 2014 da un team di professioniste (Stella Romagnoli, leader del team, Gaia Spinella, ricerche, Isabella Lauro, strategia, ed Elena Tondini, creatività), che ha trovato la chiave partecipativa per coinvolgere l’intera azienda e i suoi touchpoint istituzionali e commerciali, verificando ogni scelta per minimizzare gli errori. La composizione del team indica come sia cambiata la comunicazione, e le componenti scientifiche di ricerca e lettura dei dati (anche dei big data) abbiano un ruolo strategico equivalente alla scintilla creativa. L’allineamento di tutti i canali di comunicazione, online e offline, push o pull, la capacità di sottosegmentare il target e analizzarne attitudini, abitudini e interessi sono fondamentali per la riuscita di un progetto nell’era digitale. Il rebranding di TIM non è stato un restyling del marchio, una – per quanto prestigiosa – attività di comunicazione, ma un riposizionamento dell’azienda. Abbiamo scritto per il vertice una nuova visione del nostro ruolo sul mercato. Abbiamo studiato come raggiungere la semplificazione insieme alle funzioni di business. Siamo partite dall’analisi del contesto. I brand globali di maggior successo, i cosiddetti GAFA (Google, Apple, Facebook e Amazon), mostrano come iden- formiche 112 — marzo 2016 «I brand globali di maggior successo, i cosiddetti Gafa (Google, Apple, Facebook e Amazon), dimostrano come identità e architettura di marca immediate, coerenti e di facile interpretazione siano fondamentali nel creare un rapporto proficuo e di soddisfazione con gli stakeholder» tità e architettura di marca immediate, coerenti e di facile interpretazione, creino un rapporto proficuo e di soddisfazione con gli stakeholder. Sono ecosistemi che conducono il cliente al loro interno senza disorientarlo, anzi autorizzano l’estensione della marca a business adiacenti, accompagnando e fidelizzando il pubblico. Le telecomunicazioni entrano in questo processo naturalmente, grazie alla convergenza delle reti: i clienti vogliono comunicare, lavorare, divertirsi sempre più liberamente, indipendentemente dai dispositivi e dalle piattaforme. Per questo dovevamo pensare a un brand e a un logo unico, nativo digitale, che avesse in sé la duttilità necessaria all’infinità di contesti che il digitale stesso prevede. Lo step-chiave è stato poi definire il nuovo territorio di marca, l’area ideale in cui operare. L’abbiamo identificata nell’onlife, lo spazio nella vita delle persone in cui offline e online si fondono e la tecnologia fa incontrare analogico e digitale, aprendo una serie infinita di opportunità. E abbiamo ridefinito di conseguenza la brand proposition: “Connessi alla vita. Sempre. Ovunque. Meglio”. Definito e, soprattutto, condiviso il territorio con le business unit, in un biennio abbiamo fatto convogliare tutti i messaggi di comunicazione – non solo adv – sotto il marchio TIM. Siamo partiti inserendo nelle comunicazioni sull’ultrabroadband la call to action a entrare nei negozi TIM e poi siamo andati progressivamente su tutti i touchpoint, sforzandoci di accompagnare il cliente senza lasciare nessuno indietro. Avendo come bussola la semplicità, dall’utilizzo dei due loghi separati siamo passati prima all’uso congiunto, poi alla firma TIM con endorsement Telecom Italia e infine all’unico brand commerciale TIM, che lascia a Telecom Italia solo il ruolo di personalità giuridica dell’azienda. Contemporaneamente, abbiamo rinominato le partnership strategiche e le offerte, semplificando e rilanciando col marchio TIM tutta l’architettura del brand. Abbiamo agito sul fronte interno, contribuendo a semplificare la cultura organizzativa e rinnovando la employee value proposition per perseguire il duplice scopo di essere aspirazionali per i giovani talenti e motivazionali per i dipendenti. La TIM-icon rossa e il wordmark bianco su fondo blu che rappresentano oggi l’azienda sono solo uno dei passaggi, per quanto il più spettacolare, di questa strategia. Svolte di questo peso vedono i loro effetti nel lungo termine, è troppo presto per trarre bilanci. Di certo, però, rimane l’esperienza di come deve cambiare l’approccio alla comunicazione in un periodo storico in cui l’uso consapevole di Internet come mezzo di informazione, verifica e confronto aumenta la responsabilità di chi rappresenta l’azienda. Non sono più consentiti racconti non seguiti dai fatti, dichiarazioni superficiali o incomplete. La Rete ha cambiato l’attitudine del pubblico consegnandogli un ruolo partecipativo delle questioni che lo interessano. Questo cambiamento è – per fortuna – irreversibile e richiede, oltre alla semplicità, trasparenza e coerenza. 85 IDEE Un nuovo nome per ridefinire il futuro di Federico Fabretti Responsabile rapporti istituzionali, relazioni esterne e comunicazione di Finmeccanica La decisione di cambiare il nome di Finmeccanica è funzionale alla nuova strategia di comunicazione, e non poteva che avvenire in questo momento storico nel quale si ridefiniscono obiettivi e priorità, si disegnano nuovi modelli di sviluppo e ci si propone con un nuovo ruolo all’interno del sistema-Paese L’anno appena trascorso ha segnato, per Finmeccanica, il compimento di un radicale processo di trasformazione: un periodo in cui abbiamo immaginato cosa volevamo diventare e costruito, intorno a quell’idea, un’impresa rinnovata, più dinamica e coesa, e con una struttura più coerente con le esigenze dei nuovi mercati globali. Non più una corporate a capo di un gruppo di aziende, ma una grande realtà industriale che integra al proprio interno le linee di business e si presenta al mercato con una voce sola. One company, per essere più forti, one voice, per parlare ai mercati del mondo. Abbiamo deciso cosa vogliamo essere, ma anche dove vogliamo stare: noi siamo il risultato di una grande storia imprenditoriale che ha segnato lo sviluppo industriale e tecnologico del nostro Paese, portando lavoro e innovazione in settori strategici e stabilendo una solida base – di creatività, intelligenza e know how – per esportare tale eccellenza tecnologica nel mondo. Siamo un grande gruppo, dunque, l’unico nel panorama nazionale a operare in settori e servizi ad alta intensità di conoscenza e di tecnologia e siamo, per questo, un driver d’innovazione, che crea occupazione di qualità, aggrega filiere produttive importanti e genera un contributo positivo alla crescita e all’economia del nostro sistema-Paese. Ma siamo anche, per la peculiarità del nostro business, attori su un 86 palcoscenico mondiale, perché è nel mondo che dobbiamo vincere la sfida con i nostri competitor ed è nel mondo che dobbiamo conquistare la fiducia di partner e clienti. Cosa dunque vogliamo comunicare? Quali sono le priorità e i messaggi da trasmettere per un’azienda globale che ha l’ambizione di porsi nella duplice veste di multinazionale privata, impegnata a crescere e a creare valore per tutti gli stakeholder, e di forza propulsiva per il rilancio dell’intero sistema-Paese? La trasformazione da holding a one company cambia radicalmente il posizionamento strategico di Finmeccanica sui mercati e la percezione che clienti e competitor avranno della nostra azienda, modificando in maniera sostanziale anche la comunicazione che di quel nuovo ruolo è diretta emanazione. One company vuol dire una realtà fortemente integrata, con un maggior peso specifico nei confronti dei competitor e un’accresciuta autorità per imporre sul mercato i propri prodotti. Una nuova identità forte e riconoscibile che nasce in funzione della centralità che il prodotto e il cliente assumono nella nuova Finmeccanica. E una nuova immagine di solidità e affidabilità che scaturisce anche dal risanamento finanziario raggiunto nell’ultimo anno. In tale contesto, il nostro primo obiettivo è quello diffondere il messaggio di un’azienda con le carte in regola per prendere parte alla competizione internazionale, sana e con le spalle robuste per perseguire le proprie strategie industriali. E poi, comunicare efficacemente il valore dei prodotti che portiamo sui mercati, l’eccellenza tecnologica di cui sono espressione e la capacità di rispondere ai requisiti più sfidanti. Una comunicazione di prodotto funzionale alle linee di sviluppo del business che mira a veicolare anche un altro importante messaggio: l’attenzione al cliente, formiche 112 — marzo 2016 «Finmeccanica non è più una corporate a capo di un gruppo di aziende, ma una grande realtà industriale che integra al proprio interno le linee di business e si presenta al mercato con una voce sola. One company, per essere più forti, one voice, per parlare ai mercati del mondo» che seguiamo con un approccio di lungo periodo, prestando attenzione alla sua cultura, alle sue aspirazioni e al suo linguaggio, costruendo un rapporto diretto e continuo, con occhio sempre attento alle evoluzioni del mercato e a nuove opportunità. Oltre a ciò, il ruolo di grande azienda globale e strategica nel nostro Paese comporta per Finmeccanica l’assunzione di un’altra importante responsabilità: coltivare il valore dell’innovazione e dell’eccellenza tecnologica non solo al proprio interno, ma anche nel tessuto industriale ed economico in cui opera, a beneficio dell’intero sistema-Paese. In particolare i giovani, che saranno la leva principale per lo sviluppo dell’Italia del domani, devono trovare nella nostra azienda un generatore di cultura tecnologica che promuove la ricerca e la sperimentazione e crea l’humus più adatto per la crescita di una nuova generazione di talenti. Quindi, obiettivo della nostra comunicazione è anche quello di enfatizzare la specifica valenza tecnologica del settore nel quale operiamo: in termini di specializzazione della manodopera, di effetti moltiplicativi degli investimenti effettuati e di ricadute applicative su altri settori dell’economia nazionale. In una parola, uno strumento essenziale per costruire l’Italia del futuro, che guarda al mondo. Portiamo avanti questo impegno offrendo visibilità a diverse iniziative: il supporto a percorsi formativi, il riconoscimento di idee innovative, il contributo alla divulgazione scientifica. Progetti diversi che hanno un uni- co obiettivo: mettere le nuove generazioni, che domani raccoglieranno il testimone, in grado di sostenere le sfide di un sistema industriale globale che sta cambiando molto rapidamente e che impone nuove competenze e abilità. Internet delle cose, tecnologia cloud, robotica avanzata, stampa 3D: già oggi sono queste le nuove frontiere dell’industria. E il vantaggio competitivo della nuova industria si sposta dalle capacità produttive e manifatturiere a quelle di progettazione e ingegnerizzazione. È su questo che si giocheranno le prossime sfide e su questo vogliamo che i talenti del futuro si trovino preparati ad affrontare la partita. Nel percorso che abbiamo tracciato, la decisione di cambiare il nome dell’azienda è funzionale alla nuova strategia di comunicazione, e non poteva che avvenire in questo momento storico nel quale si ridefiniscono obiettivi e priorità, si disegnano nuovi modelli di sviluppo e ci si propone con un nuovo ruolo all’interno del sistema-Paese. Il nuovo nome sarà il primo e più importante punto di sintesi dei valori profondi che sono alla base del nostro fare impresa. Il nome è l’elemento più connotativo di qualsiasi azienda, ed è da qui che abbiamo scelto di partire per raccontare all’Italia e al mondo qual è l’identità della nuova Finmeccanica. E il nome sarà il primo tra gli elementi visibili della nostra comunicazione, specchio e canale comunicativo della parte non visibile, grazie al quale vogliamo che i nostri valori profondi fluiscano all’esterno, per essere condivisi da tutti i nostri interlocutori e per conquistare la loro fiducia sulla nostra idea di futuro per la nuova Finmeccanica. 87 Visioni di Gianfranco Ferroni Jakob Tuggener, Fabrik 1933-1953 Bologna, Mast fino al 17 aprile La Fondazione Mast propone due mostre dedicate al fotografo svizzero Jakob Tuggener (1904-1988), con lavori esposti per la prima volta in Italia. Con Fabrik 1933-1953 sono visibili oltre 150 stampe originali del lavoro di Tuggener, tratte sia dal suo libro fotografico – saggio unico nel suo genere, con un approccio critico di grande impatto visivo e umano sul tema del rapporto tra l’uomo e la macchina – sia da altri scatti dell’artista che affrontano momenti del lavoro. Fabrik uscì nel 1943 in piena Seconda guerra mondiale e Tuggener, oltre a ripercorrere la storia dell’industrializzazione, aveva come finalità, non sempre svelata, di illustrare il potenziale distruttivo del progresso tecnico indiscriminato il cui esito, secondo l’autore, era la guerra in corso per la quale l’industria bellica svizzera produceva indisturbata. Ma il suo occhio riusciva a essere attratto anche da altri mondi: così, ecco Nuits de bal 1934-1950, con le immagini della mondanità: 88 Tuggener, affascinato dall’atmosfera spumeggiante delle feste dell’alta società, aveva iniziato a fotografare a Berlino le dame eleganti e i loro abiti di seta. Con la sua Leica, indossando lo smoking, ha colto le misteriose sfaccettature delle notti: riprendeva con il suo obiettivo anche “il lavoro invisibile” dei musicisti, dei camerieri, dei cuochi, dei valletti, dei maître che attraversavano quel mondo festoso e autoreferenziale. La pubblicazione del materiale dedicato ai balli venne osteggiata, per il desiderio di numerosi protagonisti di rimanere anonimi, celando al pubblico i lussuosi intrattenimenti danzanti. Il contrasto tra la luminosa sala da ballo e il buio capannone industriale ha caratterizzato la sua opera artistica, e per rappresentare l’eclettismo e l’eccezionalità dell’artista il percorso espositivo è arricchito anche da lungometraggi e prototipi di libri. Tuggener si definiva “un poeta dell’immagine” che, oltre a usare la macchina fotografica, si interessava alla pittura e dirigeva film ispirandosi all’espressionismo tedesco degli anni Venti. Era un osservatore e un magistrale interprete del mondo dei forti contrasti. “Seta e macchine, questo è Tuggener”, come amava affermare di se stesso. Barbara Klemm Roma, Casa di Goethe fino al 27 maggio Per i tedeschi il nome di Barbara Klemm è quello dell’autrice della celebre fotografia dedicata al bacio sulla bocca tra Erich Honecker e Leonid Breznev. Oggi, a Roma, la Casa di Goethe, in via del Corso, presenta una mostra curata da Maria Gazzetti con alcuni preziosi lavori della professionista dell’immagine che ha seguito le orme di Goethe disegnatore e viaggiatore, contemplando i soggetti scelti dal poeta ma con lo sguardo di oggi. La prima mostra personale in Italia dell’artista (classe 1939) espone una scelta di 45 fotografie in bianco e nero. Nel 2012 la fondazione Altana-Kulturstiftung di Bad Homburg aveva invitato Klemm a fotografare i luoghi che il poeta aveva fissato a penna e china in occasione dei suoi viaggi e delle sue escursioni in Boemia, Germania, Svizzera e Italia. L’obiettivo non era la riproduzione fedele in fotografia, ma l’esperienza personale collegata alle località visitate: così i lavori creati da Klemm sono caratterizzati da uno sguardo dominato dalla libertà, dimostrando come la fotografia di paesaggio non sia la semplice riproduzione delle cose viste. Nella mostra romana le fotografie dialogano con una piccola scelta di riproduzioni dei disegni italiani di Goethe e con alcuni esempi di paesaggi della collezione del museo: l’attenzione per le peculiarità degli scenari naturali e la capacità di fissare il movimento nell’immagine costituiscono i denominatori comuni per il disegno e la fotografia. Gli scatti di Klemm raccontano il suo speciale rapporto con la luce e il suo metodo di composizione dell’immagine, con una genialità ispirata dallo sguardo creativo di Goethe e dalla sua capacità di astrazione. Klemm ama lavorare con due microcamere, una Reflex e una a telemetro: fa poco uso del treppiede in quanto scatta quasi sempre a mano libera. La sua fedeltà alla fotografia in bianco e nero e la preferenza di formati piccoli conferiscono alla sua fotografia di paesaggio una magia particolare e virtuosa. Per decenni Klemm ha raccontato il suo sguardo sulla storia con immagini scattate per il quotidiano Frankfurter allgemeine zeitung. Robert Doisneau. Le merveilleux quotidien Monza, Arengario dal 19 marzo al 3 luglio Una mostra dedicata a uno dei più grandi fotografi del Novecento: Robert Doisneau. Le merveilleux quotidien, a cura dell’Atelier Robert Doisneau, è un’esposizione realizzata da Fratelli Alinari. Fondazione per la Storia della fotografia e ViDi, in collaborazione con il comune di Monza e con la consulenza scientifica di Piero Pozzi. Il percorso espositivo presenta una selezione di 80 fotografie originali che ripercorrono i primi 44 anni della carriera del maestro francese, dalla sua prima fotografia scattata nel 1929 a soli 17 anni, fino alla sua opera del 1973, periodo storico in cui i protagonisti dei suoi lavori diventano soggetti e luoghi a lui molto cari, come quelli delle banlieue parigine. Con la sua curiosità, Doisneau è riuscito a mostrare il mondo che vedeva e che viveva attorno a lui. Un vero e proprio narratore della realtà che ha saputo immortalare e trasmettere la reale vita di tutti i giorni della capitale francese. Le sue fotografie raccontano la città di Parigi in fermento, con attimi ordinari, gesti della vita compiuti con semplicità e autenticità, personaggi accomunati da un’anima generosa. I suoi scatti sono dominati da una forte carica emotiva, da un atteggiamento di tenero e benevolo divertimento nei confronti della sua epoca che non deve tuttavia fuorviare dal cogliere la profondità della riflessione, l’autentica insolenza verso il potere e l’autorità, oltre all’irriducibile spirito d’indipendenza. Negli ultimi anni diverse esposizioni in tutto il mondo hanno reso omaggio all’opera di questo fotografo che, durante la sua carriera, ha realizzato oltre 450mila fotografie. La mostra allestita all’Arengario di Monza vanta la presenza di oltre 50 scatti stampati direttamente dall’autore ed esposti per la prima volta in Italia insieme a un percorso cronologico pensato per far scoprire non solo l’opera del maestro, ma anche la sua umanità. 89 Schermaglie Reliquie, aura e mass media di Fabio Benincasa Duquesne University Il febbraio appena trascorso ha visto uno dei primi episodi di massa previsti per il grande Giubileo della misericordia: la solenne ostensione delle reliquie di san Pio di Pietrelcina a Roma, che si è articolata in tre giorni coinvolgendo vari luoghi della città, prima che il corpo del popolarissimo mistico cappuccino fosse portato nella basilica di San Pietro. L’estrema partecipazione al viaggio del corpo imbalsamato di Padre Pio, che ha mobilitato migliaia di fedeli, oltre che le forze dell’ordine in assetto da guerra, ha impressionato notevolmente i media. Molte le critiche piovute su quello che viene visto come una sorta di neopaganesimo, se non superstizione tout court, e molte polemiche per un’ostensione che tutto sommato avviene in permanenza nel santuario di San Giovanni Rotondo, senza che per questo si scaldino gli animi delle opposte fazioni mediatiche dei sanfedisti e dei mangiapreti. Premesso che la teologia cattolica spiega la venerazione dovuta ai santi con la loro partecipazione alla santità di Dio, il caso delle reliquie è molto interessante perché mobilita un concetto, quello di aura, che è alla base dell’estetica contemporanea. Lo stesso Walter Benjamin per spiegare l’aura risaliva alle origini dell’opera d’arte, che prima di essere oggetto estetico era oggetto di culto e devozione. Pochi giorni dopo l’ostensione del corpo di san Pio, un’altra polemica si è sollevata attorno alle reliquie di san Valentino, conservate, come noto, a Terni. Qui i fedeli si sono opposti fisicamente al tentativo di traslare (anche solo temporaneamente) le reliquie dalla basilica alla cattedrale della stessa città: meno di 2 chilometri in linea d’aria. Abbiamo il paradosso di una reliquia estremamente mediatizzata che viaggia per mezza Italia senza perdere nulla del suo carisma, e dei fedeli ternani, o almeno alcuni di loro, che pretendono reliquie stanziali e musealizzate. Il paradosso si fa ancora più evidente quando si pensa che san Valentino, connesso ormai a una mitologia pop di protettore degli innamorati, è il santo cristiano più conosciuto dai non cristiani nel mondo. Certo, l’americano ebreo o il giapponese shintoista che regalano una scatola di cioccolatini a forma di cuore alla loro ragazza per il 14 febbraio non stanno celebrando alcuna posizione ecumenica, eppure inconsapevolmente il loro gesto si riaggancia a un’aura devozionale che, almeno in principio, è stata proiettata proprio dalle reliquie ternane. In entrambi i casi l’aura attribuita alle reliquie è frutto di uno specifico legame di venerazione con la santità che apparteneva a un uomo vivo e non al suo corpo (o a parti di esso), tuttavia si estende e si dissemina a dismisura anche grazie all’azione mediatica esercitata a partire dal carisma originario. Una tra le cose più importanti che ci mostrano le reliquie, lasciando da parte il loro significato religioso, è questa possibilità di disseminare infinitamente l’aura, tanto più potente quanto più connessa con un effetto di framing che ci porta lontano dall’interezza che esprimeva il carisma originale. L’icona pop, che domina il nostro mondo mediatico, è frutto delle stesse forze spirituali che sostengono il culto delle reliquie. Indice delle cose notevoli: * Un articolo de Il Corriere sul caso delle reliquie di san Valentino: http://www.corriere.it/ cronache/16_febbraio_13/ternifedeli-bloccano-reliquie-san-valentino-3f10ea12-d245-11e5-be28b2318c4bf6d8_preview.shtml * Uno dei saggi che hanno fondato l’estetica contemporanea: Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 2000 * Alcune immagini dell’ostensione di Padre Pio: https://www.youtube. com/watch?v=Frj-k1HDdPE * Un saggio sul culto delle reliquie: Charles Freeman, Sacre reliquie. Dalle origini del cristianesimo alla Controriforma, Torino, Einaudi, 2012 * Il corpo di Padre Pio nella basilica di San Lorenzo: https:// www.youtube.com/watch?v=9M_ hcrWSzV0 91 Palchi e platee La rinascita de “La cena delle beffe” di Beckmesser In questa stagione, si assiste non solo alla renaissance delle opere giovanili di Giuseppe Verdi, ma anche a un nuovo interesse per la “giovane scuola” (di compositori nati alla fine dell’Ottocento) dopo una fase in cui, tranne le sei maggiori opere di Puccini e il dittico di Mascagni e Leoncavallo “Cavalleria e Pagliacci”, sembrava coperta di una coltre di oblio. Titoli come La leggenda di Sakùntala di Alfano, L’amico Fritz di Mascagni e Fedora di Giordano, per non citarne che alcuni, compaiono di nuovo nei cartelloni e consentono, con la distanza dalle polemiche contingenti (spesso di natura politica nei confronti del periodo in cui questi lavori vennero scritti, non solo per apprezzare le difficoltà musicali e vocali, ma anche per vederne il nesso con la nuova opera americana). Negli Stati Uniti questi titoli non sono mai spariti dalla programmazione e, anzi, hanno seminato la scuola operistica americana della seconda metà del Novecento. Tra i più interessanti c’è La cena delle beffe, tratto da Giordano da un dramma di Sem Benelli (peraltro fortemente accorciato su richiesta del compositore). Un nuovo allestimento viene presentato alla Scala, dove ebbe il proprio battesimo il 20 dicembre 1924. Tra i lavori di Giordano, e della giovane scuola, è forse quello che ottenne, all’epoca, il maggior successo di pubblico, ma 92 anche le più acide riserve dalla critica (che lo chiamò “dramma da arena o da cinematografo”). Per Giordano seguirono cinque lunghi anni di silenzio, che precedettero il suo ultimo lavoro, la delicata novella Il re, a contrasto quasi con la grandguignolesca Cena. Il colpo finale venne forse negli anni Settanta, quando la monumentale Storia dell’Opera della Utet definì La cena delle beffe (ormai raramente in scena) “l’ignobile fiorentinata pseudo dannunziana che è stata riprodotta e diffusa con tutti i mezzi, cinematografo compreso”.”La musica è funzionalmente buona, ma appunto per questo partecipa dello squallore della funzione che adempie”. La cena delle beffe è stata riproposta a Foggia nel 1988 (ne esiste un ottimo cd della Bongiovanni Digital, con l’allora giovanissimo Fabio Armiliato in uno dei tre ruoli principali) e a Bologna nel 1999. È, però, presente con una certa frequenza in cartelloni tedeschi e americani. Il nuovo allestimento scaligero è un’occasione per dare un giudizio più meditato. È senza dubbio un’opera d’intreccio non solo come altre di Giordano ma come quelle di Franz Schreker, oggi considerati tra i capolavori assoluti di quel periodo. Quindi, i personaggi non hanno un vero e proprio sviluppo psicologico: Ginevra è tutta e solo sesso, Giannetto vive di vendetta, Neri è l’immagine della violenza, Gabriello il povero imbelle oggetto della crudele beffa finale). Richiedono, però, grandi voci ed eccelse capacità attoriali. Non per nulla nei ruoli principali si sono cimentati in passato Beniamino Gigli, Giacomo Lauri Volpi, Francesco Merli, Titta Ruffo e simili. La declamazioni altisonante di gusto verista non rinnega gli ariosi, le romanze e i duetti, sapientemente distribuiti tra i quattro brevi e compatti atti, densi d’azione, intrighi, sensualità quasi sfacciata (altro nesso con Schreker). La vera novità è la scrittura orchestrale. Da un lato è arcaicizzante, in linea con i canoni dell’epoca quando si metteva in scena una vicenda di un ipotetico rinascimento. Dall’altro include canzoni e stornelli non solo come Mascagni ma anche come Korngold (altro nesso importante, spesso dimenticato nel trattare la giovane scuola). In ultimo un ritmo molto rapido, finalizzato alla speditezza incalzante dell’azione, ma con tratti grotteschi e ironizzanti della timbrica che quasi sottolineano il vuoto del pur fortunato dramma in versi di Sem Benelli. È un’orchestrazione che sembra quasi aprire la strada a percorsi innovativi italiani, come quelli di Malipiero e Casella. Alla Scala la drammaturgia è nelle mani di Mario Martone. Sul podio ci sarà Carlo Rizzi. I tre protagonisti saranno Marco Berti, Kristin Lewis e Simone Alaimo. Fiori di carta di Cesare De Michelis Docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di Padova Sin dal titolo, il nuovo romanzo di Franco Cordelli evoca l’incertezza sfuggente e contraddittoria di una storia generazionale – la sua, ma anche la mia – che intravede all’orizzonte il lento spegnersi del giorno e, tentando una resa dei conti e continuando ossessivamente a interrogarsi, non sa riconoscere il senso ultimo e il risultato di tanto convulso affannarsi, che pure irrimediabilmente ci ha preso e coinvolto: Una sostanza sottile suggerisce la concretezza materiale di una solida presenza e l’effimera leggerezza di una realtà fragile, quasi impalpabile. Alla fin fine si tratta di un bilancio, come altre volte era già stato nei romanzi di Cordelli, in questo caso più necessario e paradossalmente irraggiungibile, perché intanto la modernità esplosa ha raso al suolo progetti, speranze e certezze, lasciandoci incanutiti e impauriti spettatori di una distesa di rovine nella quale fatichiamo a riconoscere le tracce di un’esperienza che pure ci appartiene e ha persino contribuito a disegnare la nostra più intima identità. Al termine di una degenza ospedaliera, che ha reso evidente la precarietà della salute e ha costretto a ripetute anamnesi, risvegliando molteplici ricordi, un padre raggiunge la figlia in Provenza – terra di poeti – per una breve vacanza: è l’occasione per guardarsi alle spalle e ripercorrere quanto li ha uniti e ancora li unisce, ma anche, e forse soprattutto, per rivelare quanto sinora si è Franco Cordelli Una sostanza sottile Einaudi, pp. 264, euro 21 taciuto perché “eri troppo giovane, troppo figlia” e “non potevo, non ero capace”. Così, anche se i fatti sono davvero capitati all’autore, la narrazione non procede lineare, anzi si interrompe e divaga e poi si ingarbuglia, perdendo il filo mentre sfida i grandi temi dell’essere e del divenire, tornando sui propri passi e poi proiettandosi generosamente in avanti, cambiando genere e registro stilistico per trovare le parole più appropriate, ma sempre avendo presente che non è più tempo di toni sublimi, di parole alate, di una poesia nella quale s’incontrino necessità e caso in “un mondo di pura immanenza”, perché intanto la poesia “non c’è più”, la sua illusione “è finita da tempo” e quindi “basta”! Lo stesso scrivere gli appare “cosa remota, anzi finita”, anche se la Provenza – la Provenza di Petrarca – si manifesta come “un miraggio dell’inconscio, o una profezia” e “ogni profezia è profezia d’una scrittura”, in una spirale straniante che ripropone l’urgenza degli interrogativi e la speranza delle risposte, la luce della rivelazione e lo smarrimento nell’inconscio: in fin dei conti la realtà resiste insignificante nella sua ottusa presenza, mentre a suggerire un “senso” sono soltanto le “relazioni”, che oltrepassano la sostanza sottile squarciando i veli che impediscono di vedere. È questo, dunque, ancora un romanzo, o decisamente la sua negazione, un andare oltre senza ritorno? La figlia prova a intendere, a decifrare il messaggio paterno, fino a convincersi “di aver capito la sua teoria”: “un grande fiume, la foce, il delta, gli affluenti. Tutto a frammenti, un po’ qua, un po’ là, come ti pare”, intrecciando ogni volta la vicenda e le riflessioni, sospendendo l’una per dare consistenza alle altre, riconoscendo l’incongruenza dello svolgimento, la sua irriducibile discontinuità che sfugge a qualsiasi forma definita, sorretta dalla scrittura, “per come è scritto, per l’anima sua”. Ancora una volta il bilancio di un’esperienza si conclude in uno scacco, nell’assenza di quell’equilibrio vanamente inseguito, di quella palingenesi inutilmente attesa: i conti non tornano, anche se il tempo intanto si è consumato e la scrittura ha abbandonato le avventure dell’innovazione o delle avanguardie per ripiegare prudentemente su se stessa, continuando a combattere tristezze e malattie pur di perseverare nel “farci notare che i casi universali sono prima di tutto casi personali”, perché “è per questo che esistono i romanzi”. Ha ragione Giorgio Ficara, Una sostanza sottile, “questo benvenuto libro”, è “il capolavoro” di Cordelli, il testo nel quale lo scrittore raggiunge la vetta del suo Mont Ventoux e spazia con lo sguardo verso l’orizzonte, e insieme scorre lungo le tappe della sua e nostra storia nella certezza di raccoglierne il valore, ben sapendo che nessun ordine, nessuna forma potrà contenerlo e consegnarlo alle generazioni che verranno. 93 PERCHÉ ASPETTARE UN MESE? FORMICHE, OGNI GIORNO W W W . F O R M I C H E . N E T Inchiostri di Valeria Serpentini A cura di Lara Jakes, Paolo Messa, Massimo Milone The American pope Libreria Editrice Vaticana, pp. 260, euro 15 Papa Francesco sta sicuramente segnando un punto di svolta nella storia umana. E il viaggio intrapreso negli Stati Uniti e a Cuba nel settembre scorso è parte integrante di un percorso di riconciliazione, speranza e futuro. Costruire ponti per costruire la pace. Un messaggio tanto semplice quanto forte. I discorsi e il senso delle visite a Cuba, al Congresso Usa e all’Onu raccolti e analizzati, anche alla luce delle recenti evoluzioni politiche e sociali. A cura di Claudio Cerasa con Piero Tony Io non posso tacere. Confessioni di un giudice di sinistra Einaudi, pp. 134, euro 16 Magistratura e politica sono quindi poteri collegati, intersecati e reciprocamente influenzati? O sono poteri che si combattono? La dibattuta questione ci pone davanti a una scelta: chiudere gli occhi e andare avanti per la propria strada o cercare racconti che ci aiutino ad avere un’opinione. Piero Tony, magistrato certificato e autocertificato di sinistra, ha deciso di andare in pensione anticipatamente per raccontare la storia di una magistratura vista dall’interno. A cura di Samuele Sangalli Religion and politics Pontificio Istituto Biblico, pp. 384, euro 22 In un mondo globalizzato e chiamato ad affrontare una serie di sfide di rilevanti dimensioni – cambiamento climatico, conflitti di classe, individualismi – trovare una chiave di lettura più armoniosa tra i popoli è quanto mai urgente. Apprendimento reciproco, rispetto e cooperazione sono alla base di riflessioni sul ruolo delle religioni nelle relazioni umane, politiche e internazionali. A scriverne sono importanti relatori che hanno preso parte al Cenacolo Sinderesi della Pontificia Università Gregoriana. Mauro Calise La democrazia del leader Laterza, pp. 159, euro 13 Metamorfosi del partito, partito senza sistema, governo presidenziale. Una lenta e progressiva metamorfosi della rappresentanza democratica. Il leader che si riap- propria delle caratteristiche tipiche del Principe. Un sistema massmediatico che brinda alla personalizzazione del partito. E la democrazia pura che fine fa? Con le analisi di Mauro Calise si cerca di dare una risposta a un quesito che è esso stesso chiara rappresentazione del cambiamento in atto. Mario Mori Servizi e segreti. Introduzione allo studio dell’intelligence G-Risk, pp. 272, euro 15 Si parla sempre più spesso di intelligence. Si sente dire che i servizi italiani forniscono al Paese analisi e strumenti di azione di alto livello. A ogni nuovo attentato si punta il dito verso falle e inefficienze degli 007. Ma chi c’è davvero dietro questa macchina? Il generale Mario Mori, ex capo del Sisde, ne ripercorre la storia italiana e le sue interazioni e influenze esterne che, soprattutto dalla fine della Seconda guerra mondiale, ne hanno determinato importanti caratteristiche. 95 BENEDETTE PAROLE La diplomazia interreligiosa e le sfide globali di Benedetto Ippolito Il xx è stato indubbiamente il secolo delle ideologie politiche: pensieri sistematici che hanno tentato – guidati dal nazionalismo e dal comunismo – di ricreare, per dominare, intere civiltà in modo totalitario. Il xxi invece è nato sotto la stella delle religioni: visioni del sacro e del soprannaturale che si sono imposte come cause identificanti e grandi motori collettivi. La differenza tra questi due paradigmi è forte. Le religioni sono veicoli di verità e, al contempo, non sono creazioni umane, vantando per sé un’investitura divina e una provenienza arcaica. L’occidente ha toccato con mano la forza violenta del fondamentalismo islamico non solo nel 2001, con l’attacco a New York dell’11 settembre, ma anche nella vecchia Europa con gli attentati di Parigi dello scorso anno. Sebbene, ovviamente, l’Isis – tanto quanto al-Qaeda – abbia a che fare solo indirettamente con la sfera religiosa, tuttavia la sollecitazione e la reazione non hanno potuto evitare di coinvolgere i grandi monoteismi: cristianesimo, islam ed ebraismo. È chiaro, pertanto, che se fosse vera la tesi di Huntington del conflitto di civiltà, dovremmo concordare con Hans Kelsen, il quale sosteneva dal punto di vista liberale la palese incompatibilità tra religione pubblica e democrazia. Laddove, cioè, esiste una presenza osservante e riconosciuta della fede in una comunità, non vi è possibilità di avere pluralismo, rispetto dell’altro e accettazione delle procedure legali di rappresentazione paritaria degli interessi particolari. In realtà, invece, l’altra grande scoperta del nostro presente è che l’antidoto all’integralismo, come politicizzazione liturgica feroce, può essere unicamente la buona religione, ossia la tutela di quelle autorità che garantiscono la corretta trasmissione di valori spirituali, identificati con un fine sovrumano che trascende il tempo e la storia. Insomma, la risposta al fanatismo ideologico sta in una buona politica che rispetti e valorizzi la libertà religiosa. La tolleranza, d’altronde, è l’anima della democrazia. E in un’epoca in cui le credenze sono i massimi fattori aggreganti e gli estremi elementi di divisione, buona parte delle speranze di pace mondiale è riposta nelle mani della diplomazia interconfessionale. Per questo l’incontro a Cuba tra papa Francesco e il patriarca ortodosso Kirill ha una consistenza politica tanto rilevante. Se i cristiani riscoprono la loro unità nel dialogo, se musulmani, ebrei e cristiani sono in grado di riconoscersi figli di uno stesso Dio, ecco che la religione torna a essere quello che deve essere: un’interpretazione universale della verità che, parlando dell’eterno e del trascendente, declinato in modo peculiare, tutela la vita e ciò che in essa c’è di più sacro: la persona umana. 96