effetto house of cards: finzione o realtà?

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effetto house of cards: finzione o realtà?
Rivista mensile
Anno XII
112 — 03.2016
8 euro
MARCO FOLLINI
CARLO FRECCERO
FABIO BENINCASA
ANTONIO CAMPATI
NICOLA PASINI
GIANLUCA COMIN
SERGIO FABBRINI
JOHN PITNEY JR.
POTERE
60112
991003
771824
9
ISSN 1824-9914
Recapito a cura di Nexive
EFFETTO HOUSE OF CARDS:
FINZIONE O REALTÀ?
ESTERI_LA RIVOLUZIONE DEI GELSOMINI, CINQUE ANNI DOPO
L. CAMPBELL/ R. REDAELLI/ K. MOUAL/ C. PANELLA/ I. BEN MOHAMED/ O. MEJRI/ I. FAKIR
REFERENDUM_TRIVELLE OFF-SHORE, C’È CHI DICE (SEMPRE) NO
A. BEULCKE/ A. CLÒ/ D. TABARELLI/ G. SCACCIA/ G. ROSANA
IDEE_COMUNICARE L’IMPRESA PER RACCONTARE IL PAESE
R. FONTANA/ M. BARDAZZI/ A. FALESSI/ C. VENTURA/ F. FABRETTI
IL NOCCIOLO
Dove si gioca la partita
Arriva per tutti. Forse è giunta anche per Matteo Renzi. Parliamo della fine dell’età
dell’innocenza, ovvero di quel periodo che segna una sorta di luna di miele fra
governo, opinione pubblica ed establishment. Proprio quando l’ex sindaco di Firenze
ha festeggiato il suo secondo compleanno a Palazzo Chigi sono emersi i segni più
evidenti di una linea di frattura che va facendosi più profonda. Nulla di davvero
allarmante, ma dalle polemiche sulle vicende di Banca Etruria sino alla controversa
gestione del provvedimento sulle unioni civili (il cosiddetto ddl Cirinnà) l’impressione è che la marcia apparentemente inarrestabile del giovane rottamatore sia
invece ora in affanno. Che sia l’inizio della fine o più semplicemente la fine dell’inizio qui importa poco. A suscitare interesse e attenzione è piuttosto la riflessione
sul modello di governance espresso e rappresentato da Matteo Renzi. La sua leadership si è infatti manifestata sin dal primo momento con una forza mai vista in
precedenza, in Italia. Il concetto di rottamazione è stato declinato ben oltre la
classica idea di spoil system. I critici del premier hanno scritto e scrivono di occupazione del potere. I benevoli sottolineano il fatto che in virtù di una responsabilità
molto precisa (la guida del governo), discende una sorta di diritto-dovere a esprimere una squadra che sia a sua immagine e somiglianza e di cui lo stesso Renzi è
garante presso l’elettorato. In effetti, il punto di crisi sta proprio qui. La filiera corta
del processo decisionale concentrato tutto su Palazzo Chigi inizia a provocare
malcontenti che dall’élite si stanno diffondendo anche presso settori più ampi
dell’opinione pubblica. La stessa volontà di Renzi di mettere in palio la sua testa
(politica) al prossimo referendum sulle riforme istituzionali la dice lunga sia sulla
sua capacità di rilancio sia sulla coerenza del suo disegno. Nel mezzo rischia di
esplodere la grana delle amministrative, dove il secondo turno si presenterà dappertutto come la scelta fra il candidato “governativo” del Pd e l’outsider (che sia del
centrodestra o del M5S poco importa). Quello sarà un banco di prova per misurare
gli umori e per testare il meccanismo di una legge elettorale, quella dei sindaci,
che di fatto ha ispirato l’Italicum. Vedremo. Nel frattempo, però, il premier ha
scoperto che il fronte vero delle sue sfide è all’estero. Bruxelles ma anche Washington, Mosca, Tripoli, Il Cairo, Pechino. Le partite più importanti si giocano in trasferta. Ecco perché forse serve una maggiore motivazione negli spogliatoi e in particolare perché è necessario tenere unito il Paese. Nel braccio di ferro con l’Ue, ad
esempio, è evidente che fa una certa differenza se la battaglia è una questione di
Renzi o un affare dell’Italia tutta intera. Includere maggiormente sul piano interno
non significa mollare la presa su quel poco di potere che il Paese può offrire, ma è
l’unico modo per avere la forza di conquistare una briciola del potere vero, quello
che si trova fuori dai nostri confini e che non si conquista da soli, a mani nude.
Dopo l’età dell’innocenza segue quella della maturità. Oppure non segue nulla.
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Rivista mensile
8 euro, marzo 2016
IL NOCCIOLO
1 Dove si gioca la partita
STORIA DI COPERTINA
Apologia del cinismo
in politica
6 Marco Follini
Chi ha paura
di House of cards
8 Carlo Freccero
La lettura critica della
società passa per la fiction
12 Fabio Benincasa
La tragedia della politica da
Machiavelli a Shakespeare
14 Antonio Campati
L’eterna seduzione
del potere
16 Nicola Pasini
Dove finisce il bene
comune?
18 Gianluca Comin
Il realismo, il Principe
e le lobby
20 Sergio Fabbrini
Dr Renzi e Mr Sottobosco
22 John J. Pitney Jr.
La regola del più forte
e l’esempio di Trump
ECONOMIA
Tra Europa e Usa, un
nuovo accordo sui dati
personali
28 Simone Crolla
Dal Safe harbour
al Privacy shield
38 Massimiliano Salini
Tra sicurezza e autonomia
ESTERI
Rivoluzione dei gelsomini,
cinque anni dopo
46 Leslie Campbell
e Anna Mysliwicz
Tunisia, ultima chiamata
per la classe dirigente
48 Riccardo Redaelli
I confini pericolosi
e il ruolo dell’Europa
50 Karima Moual
Perché la primavera
non si trasformi in inverno
52 Carlo Panella
Senza un piano Marshall
54 Imen Ben Mohamed
Un modello economico
da riformare
56 Ouejdane Mejri
Una politica lontana
dalla piazza
PAPER
58 Intissar Fakir
e Dalia Ghanem Yazbeck
Guai neri per la vicina
Algeria
AMBIENTE
C’è chi dice (sempre) No
66 Alessandro Beulcke
La sindrome Nimby
vincerà di nuovo?
31 Antonello Giacomelli
Il vuoto fa meno paura
68 Alberto Clò
La disinformazione
come arma dei no-triv
32 Cosimo Maria Ferri
Rafforziamo i vincoli
giuridici
70 Davide Tabarelli
Il nodo è il confronto
Stato-Regioni
34 Sergio Boccadutri
I risvolti per Ttip
e data protection
72 Gino Scaccia
I dilemmi della Corte
36 Guido Scorza
La dura legge di Bruxelles
75 Gabriele Rosana
Quando la frizione
sale ai piani alti
Numero chiuso in redazione
il 23 febbraio 2016
Finito di stampare
il 29 febbraio 2016
IDEE
Comunicare l’impresa
per raccontare il Paese
78 Renato Fontana
Il contagio delle idee
80 Marco Bardazzi
La narrazione
del cane a sei zampe
82 Andrea Falessi
La forza dell’open power
84 Carlotta Ventura
Il percorso verso
la semplificazione
86 Federico Fabretti
Un nuovo nome
per ridefinire il futuro
RUBRICHE
Themis
24 Antonio Maria Leozappa
Snapshots
25 Francesca Scaringella
Mentori
40 Enzo Argante
Oeconomicus
43 Giuseppe Pennisi
Ue
63 Antonio Villafranca
Visioni
88 Gianfranco Ferroni
Schermaglie
91 Fabio Benincasa
Palchi e platee
92Beckmesser
Fiori di carta
93 Cesare De Michelis
Inchiostri
95 Valeria Serpentini
Benedette parole
96 Benedetto Ippolito
STORIA DI COPERTINA
Apologia del cinismo
in politica
STORIA DI COPERTINA
Chi ha paura di House of cards
di Marco Follini
Politico e giornalista
Frank Underwood è il prototipo del politico cinico e la serie televisiva House
of cards è, appunto, un monumento al
cinismo della politica. La serie televisiva
americana incarna quello spirito fiorentino di cui dovremmo essere noi i principali
depositari. E invece no. Da noi, infatti, è
come se House of cards fosse la realtà
della politica senza mai riuscire a diventare anche la sua immaginazione. Una
realtà fortunatamente edulcorata, a dire
il vero. I nostri piccoli Underwood sono
meno votati al cinismo di quanto non sia
il loro modello. Alcuni magari ne fanno di
cotte e di crude, diciamo così. Ma nessuno raggiunge il livello di amoralità e
di spregiudicatezza che Kevin Spacey si
diverte a mettere in scena
Frank Underwood è il prototipo del politico
cinico e la serie televisiva House of cards è,
appunto, un monumento al cinismo della
politica. Potrebbe trattarsi di una storia italiana, di un’eredità del nostro machiavellismo. E invece nasce in Inghilterra e mette
radici negli Stati Uniti, laddove la politica
rivela a volte tratti di sconcertante ingenuità. Naturalmente si può mettere tutto sul conto della preponderanza – non solo economica
– dell’industria audiovisiva americana, della
sua capacità di parlare un linguaggio universale, più globale di tanti altri. Oppure confinarla nel reame dell’immaginazione, dove
tutto è virtuale e non sempre si è tenuti a corrispondere alla realtà. O magari, invece, ci si
può divertire a intrecciare quel copione con
quello delle imminenti elezioni per la Casa
Bianca. In fondo c’è qualcosa di Underwood
nella glaciale professionalità di Hillary Clinton, e qualcosa perfino nella rude aggressività di Donald Trump. E la coincidenza tra la
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nuova serie e la partenza delle carovane presidenziali promette di scoprire altre assonanze.
Resta il fatto che stiamo parlando di una serie televisiva americana che incarna quello
spirito fiorentino di cui dovremmo essere noi
i principali depositari. E invece no. Da noi,
infatti, è come se House of cards fosse la realtà della politica senza mai riuscire a diventare anche la sua immaginazione. Una realtà
fortunatamente edulcorata, a dire il vero. I
nostri piccoli Underwood sono meno votati
al cinismo di quanto non sia il loro modello.
Alcuni magari ne fanno di cotte e di crude,
diciamo così. Ma nessuno raggiunge il livello
di amoralità e di spregiudicatezza che Kevin
Spacey si diverte a mettere in scena. E per
quanto si affacci ogni tanto alla ribalta qualche narratore intento a descrivere la nostra
politica come la sentina dei peggiori vizi, la
somma dei nostri difetti pubblici resta pur
sempre entro confini ragionevoli, anche se
non proprio encomiabili.
Ma poi, invece, il racconto della nostra politica procede lungo percorsi che vorrebbero
essere fin troppo edificanti e virtuosi. Non
c’è leader che di questi tempi non attinga
copiosamente ai registri della demagogia,
del populismo, della troppo facile ricerca di
popolarità. Non c’è leader – o gregario – che
non ostenti i suoi meriti, la sua dedizione, la
sua cura del bene comune. Non c’è uomo di
potere che non manifesti un distacco perfino
sdegnato dalla pratica dei rapporti di forza
che pure è inesorabilmente connaturata alla
sfida politica.
Uno straordinario esercizio di ipocrisia accompagna la politica italiana nella sua vana
ricerca di catarsi. Forse è per questo che nessuno si dedica a pensare una House of cards
“de noantri”. Perché appunto il linguaggio
del potere ambisce a essere politically correct.
formiche 112 — marzo 2016
«L’America ingenua e credulona
racconta una politica che conosce
poco e che pratica meno di altri:
quella dell’intrigo, della doppiezza, del
cinismo. Lo fa perché quello specchio
non la riflette e non la racconta più di
tanto »
E la sua trasfigurazione fantasiosa non può
ricalcare questa sua ambizione senza diventare un inverosimile e un po’ noioso racconto di circostanza.
Negli Stati Uniti House of cards fa da contrappunto malizioso e fin troppo immaginifico a
una contesa politica che vorrebbe essere capace di una certa ingenuità. Certo, i candidati
si scambiano fendenti di una certa inevitabile
durezza. Ma gli elettori, tutto sommato, tendono a dare un certo credito alla loro buona
fede. Li passano al registro della loro iniziale
severità, è vero. Ma poi finiscono per votarli
con uno stato d’animo meno smaliziato. Essi
credono alla retorica pubblica che suona verosimile anche quando non è del tutto vera.
Da noi, al contrario, il discorso pubblico cerca, per quanto è possibile, di essere inappuntabile, almeno nelle parole della sua retorica,
mentre la nostra prassi politica ricalca copioni, diciamo così, più discutibili. Noi mandiamo in scena una sorta di House of cards in
miniatura, senza certe sue esagerazioni, nella
nostra quotidianità politica. E dunque evitiamo poi di riprodurla una seconda volta nella
nostra immaginazione televisiva. Tendiamo a
raccontare e magnificare la protesta, e magari
l’indignazione, per il potere del giorno prima,
quello di ieri. Ma al potere di oggi riserviamo
un’occhiata distratta, o magari perfino riguardosa. Non ci piace descriverlo, raccontarlo,
immaginarlo. Se non all’indomani della sua
caduta. Lo specchio del potere ci mette apprensione. Così, per scaramanzia non lo get-
tiamo per terra. E per prudenza cerchiamo di
non guardarlo più di tanto.
L’America ingenua e credulona racconta una
politica che conosce poco e che pratica meno
di altri: quella dell’intrigo, della doppiezza,
del cinismo. Lo fa perché quello specchio
non la riflette e non la racconta più di tanto.
Da noi invece la politica è ben più smagata.
Certo, nessun Underwood italiano getterebbe una cronista indiscreta contro una metropolitana in corsa. Ma molti altri tra i nostri
potenziali Underwood manovrerebbero il
proprio presidente per spingerlo sull’orlo
del baratro, oppure giostrerebbero con disinvoltura tra i candidati alla carica di capogruppo mettendoli uno contro l’altro. All’occorrenza, vantandosene pure.
Il cinismo è un ingrediente inesorabile di
qualsiasi politica. Ma non può rappresentare
tutta la politica, e neppure la sua parte preponderante. Ha bisogno di una sorta di bilanciamento. Se esso viene praticato in dosi
massicce, si consiglia di non replicarlo mandandolo in onda in prima serata. Se invece lo
si pratica con moderazione, allora viene più
facile la tentazione – e il gusto – di rivederlo
alla televisione.
Ricordo di aver letto una biografia di Talleyrand che metteva in mostra tutti i suoi
difetti. Ma poi aggiungeva: se fosse stato davvero così spregevole, così divorato dall’ambizione, così sfacciatamente doppio, avrebbe
trovato il modo di mascherarli, quei difetti.
Lasciando che tutti se ne rendessero conto,
in fondo, il duca dava prova di una sorta di
paradossale onestà intellettuale. Il vero brigante è quello che si traveste da gentiluomo.
Mentre lui era brigante, sì, ma solo fino a
un certo punto. Tutta questione di misura,
appunto. Quella di Talleyrand. Quella di Underwood. La loro. E la nostra.
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STORIA DI COPERTINA
La lettura critica della società
passa per la fiction
di Carlo Freccero
Autore televisivo ed esperto di comunicazione
Nell’epoca del conformismo di massa, in
cui ogni forma di giudizio è bandita, l’unica lettura critica della società passa oggi
attraverso la fiction. La politica non è più
la ricerca del bene comune, della crescita e della prosperità del Paese, quanto
l’occupazione dei posti di potere e, prima
ancora, la conquista di maggioranze che
diano accesso a quei posti. Come spesso
accade, un telefilm, una fiction riesce a
essere più chiara di innumerevoli analisi
sociologiche. Con House of cards abbiamo uno sguardo all’interno dei meccanismi del potere
Il rapporto tra fiction e potere può essere letto da due punti di vista. Da un lato, il potere
rappresenta un ottimo soggetto per la fiction
contemporanea e, dall’altro, nel mettere in
scena il potere libero, ci svela come il nostro
immaginario concepisca oggi l’idea stessa di
potere. Spesso la fiction anticipa addirittura la
realtà. Lo ha fatto con le dimissioni del papa
di Habemus papam di Nanni Moretti, con il
presidente nero nella serie 24, con il clima di
terrorismo diffuso nella fiction che anticipa
l’11 settembre. D’altra parte, se l’Europa ha
sempre utilizzato il pensiero critico, e quindi la saggistica, per esaminare lo spirito del
tempo, l’America ha sempre avuto un pensiero pragmatico per cui rifuggiva a livello
teorico dal pensiero critico stesso, e relegava
la dimensione critica nel campo della fiction.
Nella tradizione americana sono il romanzo
e il cinema a mettere in discussione le idee
dominanti. Mentre in Europa il concetto di
potere era sottoposto a un’analisi spietata da
parte del marxismo occidentale e diventava
poi, con Michel Foucault, l’ossessione intorno a cui ruota tutta la decostruzione archeologica e la riflessione filosofica, in quegli
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stessi anni a Hollywood si produceva un cinema impegnato che aveva il suo centro nella lotta del singolo contro il potere.
Quindi non sarebbe del tutto giusto dire che
solo ora il potere è diventato un tema centrale nella fiction. La cosa sorprendente è come
abbia cambiato segno. Oggi il singolo, il
protagonista della fiction, non lotta contro il
potere, lotta disperatamente per accaparrarsi un potere assoluto a livello personale. In
Dimenticare Foucault, Jean Baudrillard notava
come un momento in cui la discussione verte su un unico oggetto segnali in realtà la sua
sparizione. Se Foucualt parla tanto del potere è perché, per Baudrillard, quel potere non
esiste più. In realtà solo quello cattivo è morto, sostituito dalla nozione di potere come
unico obiettivo appetibile. Quelle stesse vite
che trovavano nella lotta al potere costituito
il senso della loro esistenza hanno lasciato
il posto a una lotta spietata per il raggiungimento di quello personale.
Com’è successo e perché il potere ha cambiato
segno? Penso che la risposta sia nel passaggio
dalla modernità alla postmodernità. Il potere
moderno nasce dal contratto sociale, vincolo
con cui il suddito si sottopone al sovrano in
cambio della sicurezza personale. Se per Thomas Hobbes nello Stato di natura l’uomo è
un lupo, un predatore verso gli altri uomini,
con il contratto sociale il singolo lascia nelle
mani di un altro – il sovrano – la sua libertà,
ricevendone in cambio sicurezza. Il contratto
sociale viene sempre letto come una forma di
limitazione e circoscrizione del potere, che
non discende più al sovrano direttamente da
Dio, ma si trasferisce a lui dal basso.
Basta prendere coscienza di questo meccanismo per erodere l’assolutismo e passare dalla
monarchia assoluta allo Stato parlamentare.
Così, infatti, le versioni successive del con-
formiche 112 — marzo 2016
Nella versione americana, House of cards è un
ritratto della politica di quel Paese ma, in realtà,
il romanzo da cui è tratto è ambientato
nell’Inghilterra della Thatcher. È in quegli anni
che inizia la rivoluzione che rende l’Europa
terreno di conquista del neoliberismo
tratto sono complessivamente favorevoli ai
cittadini, portando infine alle moderne Costituzioni in cui la limitazione del potere nasce dalla divisione dei poteri stessi. Se però
guardiamo le cose dal lato dell’individuo, e
non da quello della società libera, alla base
della costituzione della società e dello Stato
rimane sempre una sorta di peccato originale: una cessione di libertà. Non a caso il neoliberismo, che vede nella libertà individuale
l’unico valore riconosciuto, vede anche nello
Stato una sorta di male che va circoscritto
alla pura difesa della sicurezza individuale.
Uno Stato ridotto all’osso in una dimensione
contrattuale originaria o, meglio, di un superamento tout court del contratto.
Entrare nella postmodernità trasforma il
potere statale in male, in quanto violenza
al singolo e alla sua libertà. Sciolto dal patto
originario, l’individuo ritorna homo hominis
lupus. Il potere ritorna puramente soggettivo, sciolto da leggi scritte. Il fine giustifica i
mezzi e ogni mezzo è buono per il raggiungimento del potere.
Per tornare alla fiction per cui negli anni d’oro della Hollywood impegnata il potere era
male perché si ritorceva contro la società
della democrazia, nelle nuove serie americane il potere non può che essere buono perché torna un puro fatto personale, una lotta
individuale per la supremazia, un videogioco
in cui il più forte o il più furbo o il più veloce
devono prevalere. E come in un videogioco
tutti noi parteggiamo e ci immedesimiamo
in quello che, sino a ieri, era il cattivo libero, il tiranno, l’oscuro agente del male che
in nome del profitto individuale brama contro il bene comune. In questa postmodernità
che ricalca i valori della modernità, viviamo
però la contraddizione di essere governati da
Costituzioni moderne che cercano disperatamente di circoscrivere e annullare il potere
individuale nella sua azione distruttiva nei
confronti del bene comune.
Una grande banca d’affari, Morgan Stanley
– mi sembra – ha tacciato così la Costituzione italiana di comunismo. Le Costituzioni
nazionali, con la loro bizantiniana frammentazione del potere libero, diventano così il
primo obiettivo da abbattere da parte della
politica “del fare”. Non a caso Matteo Renzi
ha cominciato da lì.
Come ho già detto, la politica non è più la ricerca del bene comune, della crescita e della
prosperità del Paese, quanto l’occupazione
dei posti di potere e, prima ancora, la conquista di maggioranze che diano accesso a
quei posti. Come spesso accade, un telefilm,
una fiction riesce a essere più chiara di innumerevoli analisi sociologiche. Con House
of cards abbiamo uno sguardo all’interno dei
meccanismi del potere. Il deputato del Partito democratico, Frank Underwood, ha diret9
STORIA DI COPERTINA
Le riforme sono un campo di battaglia, la scia
di un duello dove affrontare e vincere gli
avversari che, tra l’altro, non appartengono
allo schieramento avversario, ma al proprio
partito. A nessuno interessa veramente
cos’è buono e cosa no
to la vittoriosa campagna elettorale di Garrett Walker, che è diventato presidente Usa.
Quando però Walker non mantiene la promessa di affidargli l’incarico di segretario di
Stato, Frank cerca una vendetta personale
puntando i vertici politici di Washington e,
pur di ottenere ciò che vuole, è disposto davvero a tutto. Nella versione americana, House of cards è un ritratto della politica di quel
Paese ma, in realtà, il romanzo da cui è
tratto è ambientato nell’Inghilterra della
Thatcher. È in quegli anni che inizia la rivoluzione che rende l’Europa terreno di conquista del neoliberismo.
Il pensiero unico si sostituisce alle categorie
ideologiche di destra e sinistra. La politica, o
meglio il suo apparato, è assolutamente indifferente nei confronti degli esiti reali delle
riforme che promuove. Ad esempio, con la riforma della scuola. A nessuno interessa veramente se la scuola funzionerà meglio o peggio, le riforme sono un campo di battaglia, la
scia di un duello dove affrontare e vincere gli
avversari che, tra l’altro, non appartengono
allo schieramento avversario, ma al proprio
partito. Non mi impegno per migliorare la
scuola, la giustizia, il lavoro: uso quei territori per fare le scarpe ai colleghi, salire nella
scala gerarchica, acquisire potere personale.
A nessuno interessa veramente cos’è buono
e cosa no. E neppure cos’è giusto.
Anche negli altri telefilm americani contemporanei, come ad esempio Law and order,
nessuno si batte perché la giustizia trionfi,
perché i colpevoli siano puniti e gli innocenti assolti. È tutto un duello di fioretto tra
avvocati e pubblici ministeri, per conseguire
una presunta verità che risulti accettabile
per la maggior parte dei giudici. Un duello in
cui una parte soccombe e una vince. Come
stanno davvero le cose non interessa asso10
lutamente a nessuno. Se di solito nel nuovo
telefilm americano l’intreccio – o meglio, gli
intrecci multipli sviluppati tra loro che costituiscono la spina dorsale del dramma – è costruito sull’azione, la novità di House of cards è
costituita dal sostituire all’azione l’intrigo, la
macchinazione, un’azione mentale, anziché
fisica, che tira le fila degli eventi successivi.
Intrigo come intreccio. Una partita a scacchi
in cui l’azione è tutta nella mente del giocatore che conosce le mosse successive. Non ci
sono controfigure, battaglie, potenti mezzi.
Il dramma ti avvince proprio perché le pedine sono poche e quello che succederà non
dipende da eventi esterni, ma rappresenta la
tela sapientemente costruita dal protagonista per irretire le sue vittime e raggiungere
il potere. Insomma, nell’epoca del conformismo di massa, in cui ogni forma di giudizio
è bandita, l’unica lettura critica della società
passa oggi attraverso la fiction.
11
STORIA DI COPERTINA
La tragedia della politica
da Machiavelli a Shakespeare
di Fabio Benincasa
Docente presso la Duquesne University Rome
Il machiavellismo di Underwood arriva in
scena attraverso il filtro di Shakespeare.
Gli eroi tragici possono essere anche completamente negativi, ma la loro rappresentazione innesca una riflessione morale
negli spettatori. Underwood è lo specchio
tragico della hybris americana, il manipolatore in cui migliaia di persone possono
riconoscere la propria stessa sete di potere. Per gli italiani, politici e non, cresciuti
in un Paese dove la commedia, da Dante a
Monicelli, è il genere dominante, il machiavellismo tragico di Underwood ha un
fascino utopico, non distopico
In Aprile, un film del 1998, ora forse un po’
dimenticato, Nanni Moretti si scagliava con
sarcasmo contro il pressappochismo della
nuova classe dirigente dell’Ulivo: “Io me li
ricordo negli anni Settanta a Roma, alla Fgci,
i giovani comunisti romani stavano tutti i pomeriggi davanti al televisore a vedere Happy
Days, Fonzie [...] e questa è la loro formazione
politica, culturale, morale...”. Ora qualcuno,
pensando alle esibizioni di Matteo Renzi (che
tuttavia non fu mai comunista) con il giubbottino di pelle, sarebbe tentato di definire
profetica la battuta del regista romano, ma
è più probabile che essa registri invece una
sempre maggiore contiguità fra la nostra
cultura d’élite e la matrice pop che Tv e social
media producono tumultuosamente e che
sta diventando parte integrante del discorso
politico, a partire dalla (quanto mai abusata)
nozione di storytelling.
Se i giovani politici italiani, ai tempi, si sono
formati su Happy Days, ora a quanto pare non
possono fare a meno di House of cards e soprattutto del suo protagonista incontrastato,
il sulfureo presidente Frank Underwood, magistralmente incarnato da un Kevin Spacey
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che già ai tempi di I soliti sospetti sbozzava
nel suo Keyser Söze un villain di metafisica
purezza. Se Renzi o Enrico Letta sono affascinati da questo modo di rappresentare la
politica, la serie ha ottenuto in patria l’apprezzamento di nomi anche più importanti,
a partire da Barack Obama e Hillary Clinton.
Che cosa distingue, dunque, Frank Underwood dai tanti sociopatici amorali che le serie americane hanno negli anni consegnato
all’adorazione del pubblico, dal gangster Tony
Soprano allo spregiudicato dottor House, dal
serial killer Dexter al Walter White di Breaking
bad? Quello che hanno potuto osservare di
più gli spettatori, e dunque anche i nostri politici, è il dichiarato machiavellismo esplicitamente applicato ai meccanismi della politica. Il pensiero di Machiavelli appartiene alla
cultura mondiale e ancora adesso il suo Principe è una delle letture fondamentali per chi
studia Scienze politiche negli Usa. Tuttavia,
bisogna ricordare che la ricezione delle idee
e del personaggio nel mondo anglosassone è
molto diversa da quella del mondo latino.
Mentre per noi il segretario fiorentino è tanto nomini nullum par elogium, secondo il suo
epitaffio in Santa Croce, la diffusione delle
idee machiavelliane nella politica del nord
Europa fu molto più fosca e controversa. Il
drammaturgo Christopher Marlowe, uno dei
principali rivali di Shakespeare, apre la sua
pièce L’ebreo di Malta, composta verso il 1589,
con un prologo recitato da Machiavellli in
persona. Questi annuncia di non essere morto, ma di aver invasato il Duca di Guisa, ispirato il massacro di san Bartolomeo in Francia
e ora di essere arrivato fin lì per fare altri
danni. Il machiavellismo era già proverbialmente un contagio diabolico tipico dei Paesi
cattolici, ma che rischiava di contaminare
anche quelli protestanti. Qualche anno dopo
formiche 112 — marzo 2016
«Un Frank Underwood italiano non
potrà che essere simile all’Andreotti
del Divo di Paolo Sorrentino. I motivi
del trionfo di Underwood da noi sono
diversi da quelli del suo trionfo negli
Usa, e forse proprio questa inerente
assenza di dramma è la vera tragedia
della politica italiana »
Marlowe, anche Shakespeare mette in scena
un personaggio machiavellico. Riccardo iii,
il principe che per sete di potere e cattiveria
non si ferma davanti alle azioni più abbiette:
“Non v’è animale tanto feroce che non conosca un briciolo di pietà. […] Ma io non la
conosco e perciò non sono un animale”.
Proprio grazie all’interpretazione di Spacey,
che ha trionfato all’Old Vic di Londra con
la sua versione modernizzata della tragedia
shakespeariana, il machiavellismo politico
è approdato pienamente nella serie Tv americana, peraltro seguendo il remake di una
serie britannica a sua volta tratta dal libro
di Michael Dobbs, consigliere di Margaret
Thatcher. Non è difficile riconoscere la costante ispirazione shakespeariana del personaggio di Underwood che ammicca a Riccardo iii e, nel rapporto con la first lady Claire,
a Macbeth. Sono shakespeariane anche le
rotture della quarta parete, durante le quali
il politico si rivolge direttamente al pubblico
per ammaestrarlo sulle proprie presenti o future nefandezze.
Perché è importante sottolineare che il machiavellismo di Underwood arriva in scena
attraverso il filtro di Shakespeare? Perché gli
eroi tragici possono essere anche completamente negativi, ma la loro rappresentazione
innesca una riflessione morale negli spettatori. Underwood è lo specchio tragico della
hybris americana, il manipolatore in cui migliaia di persone possono riconoscere la propria stessa sete di potere. Commette il male
per il male, anche in prima persona, senza
nascondersi dietro la ragion di Stato, e senza alcuna giustificazione psicologica. Obama
non dovrebbe essere come Underwood, ma
quando ne fa l’imitazione su Twitter si arrende al fatto che in parte lo è, e questo può
essere un ammaestramento morale per se
stesso, per i suoi elettori e persino per i suoi
detrattori. C’è un po’ d’ombra in ognuno di
noi, un’ombra che dobbiamo conoscere per
non esserne posseduti.
Machiavelli in Italia conosce tutt’altra fortuna: da Gramsci a Craxi, ha rappresentato per
il Paese il modello di un progetto autorevole
e serio, ma sempre impraticabile per eccesso
di cinismo o carenza di coraggio. L’Italia non
è mai stata un impero e per un Paese così disintegrato la prospettiva del Principe rimane
ovviamente un’utopia politica. Per gli italiani, politici e non, cresciuti in un Paese dove la
commedia, da Dante a Monicelli, è il genere
dominante, il machiavellismo tragico di Underwood ha un fascino utopico, non distopico.
Renzi o Letta possono citare Underwood senza apparire inquietanti, e noi cittadini quasi
sperare che in loro ci sia un briciolo di quella spietata e razionale visione del potere che
anima il personaggio di Spacey. In un’Italia
dove non è mai chiaro se i politici “ci fanno
o ci sono”, la nostra gestione del potere, con
buona pace di Machiavelli, pur non essendo
priva di congiure e fratricidi, difficilmente
riesce a sembrare seria e tragica, ma trascolora indefinitamente nel grottesco e nell’orgiastico. Un Frank Underwood italiano non
potrà che essere simile all’Andreotti del Divo
di Paolo Sorrentino. I motivi del trionfo di
Underwood da noi sono diversi da quelli del
suo trionfo negli Usa, e forse proprio questa
inerente assenza di dramma (Happy Days docet) è la vera tragedia della politica italiana.
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STORIA DI COPERTINA
L’eterna seduzione del potere
di Antonio Campati
Dottore di ricerca in Istituzioni e politiche
presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore
Il potere di per sé non è né buono né
cattivo. Semmai sono le modalità del suo
utilizzo che qualificano gli atti che produce. E in tal senso il cinismo con il quale
Underwood si muove nelle stanze della
Casa Bianca delinea la sagoma di un
personaggio spregiudicato, privo di scrupoli, interessato solo a difendere la sua
prestigiosa posizione politica. Eppure,
nonostante il tratto negativo, la figura di
Frank attrae lo spettatore, confermando,
ancora una volta, come la declinazione in
negativo del potere (intrighi, lotte, falsità)
sia quella che riesce a catalizzare maggiormente l’attenzione
Il potere affascina, come la lotta per conquistarlo e la strategia per conservarlo. Da
sempre, le dinamiche che mette in campo
chi aspira a posizioni di comando sono oggetto di attenzioni quasi ossessive. Infatti,
chi analizza le vicende politiche, dallo studioso rigoroso al più giovane retroscenista,
non può fare a meno di studiare il potere,
le sue forme, le sue molteplici sfaccettature,
le opportunità e le insidie che può riservare. Il potere e le geometrie con le quali si
manifesta sono sotto l’attenzione di molti,
nonostante sia ben chiaro che è impossibile
scovarne tutti i segreti. E ciò può essere una
fortuna, perché spesso meno il potere è visibile più è efficace.
Senza alcun dubbio, però, prima ancora che
sui propri osservatori, il potere esercita la
sua seduzione su chi anela a ottenerlo. Non
è affatto improprio ricorrere a elementi psicologici per comprendere le motivazioni
profonde che spingono un individuo a desiderare di esercitare potere su altri e, soprattutto, ad agire in determinati modi una volta
raggiunto lo scopo. Così come non si può
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escludere l’alto tasso d’imprevedibilità che si
manifesta in ogni attività umana, che spesso
agisce da banco di prova per chi deve decidere in situazioni di eccezionalità. Eppure,
le dinamiche psicologiche e la casualità dei
fatti non sono sufficienti a spiegare i motivi
che spingono a cedere al fascino del potere,
poiché trascurano un aspetto fondamentale:
la propensione al comando. È un carattere la
cui intensità non si può misurare con esattezza, ma anche il più distratto osservatore
riesce spesso a percepirne la presenza in
talune persone fissandone i gesti, le parole,
finanche i tic.
In effetti, il potere è maggiormente evidente
quando si incarna in una leadership. È proprio
allora che l’opinione pubblica è interessata
a conoscerne il principale detentore, le sue
ambizioni, le sorti alle quali è legato e, non
da ultimi, gli aspetti (non più) personali della
sua vita e di quella dei membri del suo inner
circle. Negli Stati Uniti – nel sistema presidenziale per eccellenza – queste dinamiche sono
sempre state abbastanza evidenti mentre,
nelle democrazie europee fino a pochi anni
fa il potere appariva diffuso fra diverse istituzioni, quindi difficilmente identificabile
in una sola persona. Negli ultimi anni, però,
anche nel Vecchio continente il potere si trova sempre più concentrato nelle mani dei
capi di governo: una tendenza molto spesso
assecondata perché una tale situazione può
favorire una direzione efficace e veloce, che
invece non sarebbe tale quando il momento
decisionale è distribuito fra diversi enti intermedi (dai partiti ai sindacati, alle associazioni di categoria fino ai parlamenti).
Ciò però non deve indurre a credere che il
fascino del leader sulle masse sia una novità degli ultimi tempi. Ma è certamente più
evidente l’identificazione delle seconde nei
formiche 112 — marzo 2016
«Il potere è maggiormente evidente
quando si incarna in una leadership.
È proprio allora che l’opinione
pubblica è interessata a conoscerne il
principale detentore, le sue ambizioni
e, non da ultimi, gli aspetti (non più)
personali della sua vita e di quella dei
membri del suo inner circle»
confronti del primo, ossia la proiezione che
l’opinione pubblica tende a fare delle sue
aspettative, dei suoi desideri, dei suoi sogni,
su un’unica persona che a sua volta fa di tutto per far apparire coincidenti i suoi interessi con quelli generali. In tal senso, sembrerebbe corretta l’osservazione del vecchio – e
un tempo potentissimo – protagonista de Il
presidente di Georges Simenon, quando sottolinea come “da un certo grado di successo,
un uomo di Stato non è più padrone di se
stesso e diventa prigioniero della cosa pubblica”, ovvero come “nel corso di un’ascesa
politica vi è un momento in cui gli interessi
e le ambizioni personali di un uomo coincidono con quelli del Paese”.
Frank Underwood non sembra corrispondere a questo profilo, almeno fino a ora. O
meglio, è la sete di potere che lo rende prigioniero, che lo induce ad assecondare gli
istinti più cruenti, che spesso lo costringe
a considerare gli interessi della collettivi-
tà americana nientemeno che pretesti per
ordire complotti. Nonostante, in verità, l’elaborazione di politiche pubbliche e le relazioni internazionali rappresentino la cartina
di tornasole per mettere in evidenza le sue
doti di capo. In effetti, ciò che impressiona di
Underwood è la capacità di rendere tangibile
il principale desiderio per chi è affascinato
dal potere, ossia la possibilità di fare, di lasciare il segno. Ma a quale prezzo?
Il potere di per sé non è né buono né cattivo. Semmai sono le modalità del suo utilizzo
che qualificano gli atti che produce. E in tal
senso il cinismo con il quale Underwood si
muove nelle stanze della Casa Bianca delinea
la sagoma di un personaggio spregiudicato,
privo di scrupoli, interessato solo a difendere la sua prestigiosa posizione politica. Eppure, nonostante il tratto negativo, la figura di
Frank attrae lo spettatore, confermando, ancora una volta, come la declinazione in negativo del potere (intrighi, lotte, falsità) sia
quella che riesce a catalizzare maggiormente l’attenzione. Privilegiando la dimensione
spaziale del potere (la difesa senza alcuno
scrupolo del proprio ruolo, che garantisce
influenza) alla dimensione temporale (la
visione dell’interesse di lungo periodo), Underwood offre allo spettatore la possibilità di
comprendere cosa significhi diluire, se non
proprio annullare, la sensibilità umana dentro le logiche perverse del potere. Un rischio,
quest’ultimo, da evitare per non somigliare
(troppo) al protagonista di House of cards nella
vita reale.
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STORIA DI COPERTINA
Dove finisce il bene comune?
di Nicola Pasini
Docente di Scienza politica presso l’Università di Milano
Dov’è finito il bene comune? Cos’è
diventata la politica e qual è il suo ruolo
in una società fortemente interdipendente che sembra prescindere dall’agire
politico? Per partiti e gruppi di interesse
diviene sempre più difficile, sebbene
cruciale, comprendere quali, fra la moltitudine di pretese avanzate dai cittadini, siano degne di essere considerate. E
poiché è noto che gli attori portatori di
domande specifiche non sono descrivibili come entità pure, ma come l’esito di
ruoli giocati su più livelli, l’immagine che
ne esce non è tanto quella di un gruppo
(interesse) diretto verso un bersaglio
(istituzione) per l’ottenimento di uno
scopo (soddisfazione delle aspettative
specifiche), bensì quella di una rete di
interessi interconnessi sospinti nell’arena politica
Forse per il 4 marzo, con l’inizio della iv stagione di House of cards, avremo le idee più
chiare su chi potrà essere la donna (ebbene sì, una donna) o l’uomo più potente del
mondo. E l’accoppiata Hillary-Bill Clinton
(con lui questa volta necessariamente comprimario, anche se – stante il forte carisma
– protagonista suo malgrado) non può non
ricordarci l’alleanza, cinica, spietata e spesso competitiva, tra Frank Underwood e la
moglie Claire, coppia altrettanto ambiziosa
della serie televisiva. Dove emerge una visione della politica solo (?) come volontà di
potenza, potere personale e fine a se stesso,
spesso autoreferenziale, che comporta perdita di senso della realtà, ovvero un approccio troppo realistico ai fatti, vale a dire non
più interpretabili alla luce di una visione generale o di principi etici. Di qui le domande:
dov’è finito il bene comune? Cos’è diventata
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la politica e qual è il suo ruolo in una società fortemente interdipendente che sembra
prescindere dall’agire politico?
Vi è una difficoltà intrinseca, da sempre,
nel definire che cos’è la politica. Non essendo sufficiente un solo termine, nell’ambito
anglosassone addirittura la politica viene
declinata attraverso le sue tre facce: politics,
polity, policy, dove politics è la lotta per il potere all’interno di un sistema di regole, istituzioni e norme (polity) che viene esercitata per
raggiungere determinati esiti (policy).
Dalla contrapposizione amico-nemico di
schmittiana memoria al monopolio legittimo
dell’uso della forza (Weber), alla distribuzione
di valori imperativi nell’ambito di una comunità politica (Easton) alla sfera delle decisioni
collettivizzate e sovrane (Sartori), la politica
non è altro che “l’insieme di attività, svolte
da uno o più soggetti individuali o collettivi,
caratterizzate da comando, potere e conflitto,
ma anche da partecipazione, cooperazione e
consenso, riguardanti una collettività nella
quale sia promosso il controllo della violenza
e distribuiti costi e benefici, materiali e non”
(Cotta, Della Porta, Morlino, Fondamenti di
Scienza Politica, Il Mulino, 2001: 29).
In buona sostanza, “la politica riguarda la gestione della collettività umana responsabile
dell’ordine pacifico” (ibidem). E in democrazia è fondamentale il rapporto fra governanti e governati, attraverso una relazione duale
e di reciprocità. Su questo rapporto, per dirla
con Robert Dahl, si fonda sia la responsiveness
(rispondenza) in cui il politico viene legittimamente eletto dai cittadini e deve rispondere del suo operato, sia l’accountability (il dovere di render conto), che si applica tanto al
politico quanto ai funzionari della pubblica
amministrazione che devono poi implementare le politiche pubbliche settoriali.
formiche 112 — marzo 2016
«L’accoppiata Hillary-Bill Clinton non
può non ricordarci l’alleanza (cinica,
spietata e spesso competitiva) tra
Frank Underwood e la moglie Claire,
coppia altrettanto ambiziosa della
serie televisiva »
Tuttavia, la situazione odierna è caratterizzata da società sempre più complesse e differenziate, nelle quali il processo che porta
all’individuazione e alla rappresentazione
delle domande dal basso si fa molto più complesso, non solo in relazione alla dimensione economica, ma soprattutto in ordine alle
concezioni del bene, ai valori e alle credenze
condivise. Si assiste a una crescente diversificazione dei bisogni e una frammentazione
degli interessi, sempre meno orientati verso
obiettivi collettivi e sempre più verso scopi
individuali. Questa maggiore sensibilità individuale alle differenze produce effetti di sovraccarico delle domande (processo di overload) nei processi di formazione delle politiche pubbliche. E la crescita di fenomeni
come il lobbismo (sia pur regolato) rende
molto più complessa e articolata la funzione
della rappresentanza degli interessi organizzati e della conseguente sfera delle decisioni.
Da qui i problemi di consenso da parte di chi
è istituzionalmente deputato a prendere decisioni. Rispetto all’analisi della rappresentanza politica, notiamo infatti una crescente
incapacità dei partiti di interpretare domande, preferenze, bisogni, identità di individui e
gruppi sociali, nonché di indirizzare tali istanze all’interno del classico circuito decisionale
Parlamento-governo-pubblica amministrazione, per produrre risposte sostenute dal consenso. Con ciò, per partiti e gruppi d’interesse
diviene sempre più difficile, sebbene cruciale,
comprendere quali, fra la moltitudine di pre-
tese avanzate dai cittadini, siano degne di essere considerate. E poiché è noto che gli attori
portatori di domande specifiche non sono descrivibili come entità pure, ma come l’esito
di ruoli giocati su più livelli, l’immagine che
ne esce non è tanto quella di un gruppo (interesse) diretto verso un bersaglio (istituzione)
per l’ottenimento di uno scopo (soddisfazione delle aspettative specifiche), bensì quella
di una rete di interessi interconnessi sospinti
nell’arena politica.
Inoltre, contrariamente al senso comune, la
produzione delle policy non è attività esclusiva dei politici e dei governanti, il che naturalmente non significa che questi siano allo stesso livello di altri attori. Un’altra convinzione
comune da sfatare è che la politica pubblica
sia sempre una risposta data dall’autorità politica (e che, quindi, emana da un potere legittimato e istituzionalizzato) a una domanda sociale. Ovviamente è anche questo, ma
il processo di formazione e attuazione delle
politiche pubbliche coinvolge diversi gruppi
e associazioni di interessi che partecipano
scambiando consenso e capacità di autodisciplina, per ottenere potere per sé e benefici
per i gruppi sociali che rappresentano.
Dov’è finita allora l’autonomia della politica? Riprendendo Max Weber ne La Politica
come professione, chi vive “per” la politica (e
non di essa) dovrebbe alimentare il proprio
sentimento di sé e il proprio equilibrio interiore servendo una causa. Secondo l’etica
della responsabilità, cioè alla capacità di rispondere delle conseguenze che si producono attraverso l’agire politico.
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STORIA DI COPERTINA
Il realismo, il Principe
e le lobby
di Gianluca Comin
Fondatore di Comin & Partners e docente di Strategie di comunicazione
presso l’Università Luiss di Roma
Ma la politica è davvero quella raccontata in House of cards? Di cinismo si può
parlare anche quando si volge lo sguardo
al mondo delle lobby. In House of cards,
Underwood sembra sempre pronto a
scendere a compromessi con i rappresentanti di interessi che affollano la sua
anticamera. Al pari del politico, il lobbista
è cinico solo se strettamente necessario. Sbaglia chi paragona il capolavoro di
Dobbs a Il principe di Niccolò Machiavelli.
Il principe è disposto a uscire dai saldi
binari della morale solo se ciò è reso
necessario dagli eventi che lo travolgono.
Non è immorale per vocazione o per sfida
Torna House of cards e riprende subito il dibattito sulla professione del lobbista, sull’etica
della politica, sul gioco del potere. Ci confronteremo su chi assomiglia a chi, su chi
copia questo o quell’altro atteggiamento, sul
ruolo dei singoli protagonisti: specchio di un
sistema reale o grottesche controfigure? La
serie di Netflix, quanto e forse più dell’ormai
leggendaria West wing, ha puntato i riflettori
su ciò che si muove dietro le quinte della politica americana e, di riflesso, di casa nostra.
Uno spettacolo in cui i colpi bassi e i raggiri
sono all’ordine del giorno, sporcando di sangue le mani di attori che si rivelano guidati
da una sete insaziabile di potere.
Seguendo la scalata verso la Casa Bianca di
Francis “Frank” Underwood e di sua moglie
Claire, veniamo infatti trascinati in un vortice di vicende in cui la politica perde qualsiasi
connotazione di eticità, per cedere il passo a
una sorta di gioco per la sopravvivenza del
più forte. Le efferatezze compiute da Underwood per conseguire i propri obiettivi
non sono scandalose in quanto tali. A deliziare lo spettatore è soprattutto la sua arro18
ganza, lo sguardo indagatore che trafigge lo
schermo nei momenti di dialogo con il pubblico, le frasi fulminanti che demoliscono
qualsiasi concezione non hobbesiana della
cosa pubblica.
A guidare l’azione politica di Underwood è la
cinica ricerca del successo personale. Lo stesso ispiratore della serie, il britannico Michael
Dobbs, è il primo ad avvertire costantemente i grandi leader politici (tutti appassionati
della serie, da Obama a Cameron, passando
per Renzi) che House of cards, originariamente una serie di libri ambientanti in Gran Bretagna, non è un manuale di politica. Dobbs
non si limita a raccontare trame di fantasia,
ma ha vissuto in prima persona gli splendori e le bassezze dell’agone politico. Aveva
solo 29 anni quando divenne consulente di
Margaret Thatcher, la lady di ferro che ha
cambiato il suo Paese. E ne aveva 38 quando
assunse la carica di capo di gabinetto del Partito conservatore, per vedere la propria carriera politica distrutta da un furioso litigio
con Maggie solo un anno dopo. È stato lui
stesso a raccontarlo circa un anno fa a Roma,
rievocando quel momento a bordo piscina in
cui tracciò distrattamente, tra un bicchiere
di vino e l’altro, le lettere “FU” su un foglio
di carta. L’acronimo di un insulto, ma anche
le iniziali di quel Francis Urquhart che dalle
pagine del primo romanzo balzò ben presto
sugli schermi televisivi del Regno Unito dei
primi anni Novanta sulla Bbc. A vent’anni di
distanza, la reincarnazione al di là dell’oceano nelle vesti di Frank Underwood.
Ma la politica è davvero quella raccontata
in House of cards? Dobbs ha ragione. House of
cards non è un manuale, perché il gusto per
la narrazione prevale nettamente sul desiderio di imbastire una trattazione onnicomprensiva della dimensione politica. E sbaglia
formiche 112 — marzo 2016
«Il cinismo di House of cards è
magnifico per un romanzo o per una
serie televisiva. Nella realtà, è il
cinismo necessario del Principe di
Machiavelli a costituire il vero
antidoto a una visione troppo
edulcorata e utopistica del mondo
della politica »
chi paragona il capolavoro di Dobbs al volume che è assurto a simbolo della spietatezza
della politica: Il principe di Niccolò Machiavelli. Anche il segretario fiorentino portava
il marchio di coloro che sono sopravvissuti al
vortice dell’ascesa e della caduta. A differenza di Dobbs, egli voleva assolutamente rientrare in quel mondo, temprato dalla lezione
del passato e pronto a sfidarne di nuovo le
asprezze. Il governante per cui Machiavelli
predispone un agile vademecum non è l’essere
amorale erroneamente associato al Principe.
“Il fine giustifica i mezzi” è dunque una massima troppo semplicistica per sintetizzare la
visione di Machiavelli. Il principe è disposto
a uscire dai saldi binari della morale solo
se ciò è reso necessario dagli eventi che lo
travolgono. Non è immorale per vocazione
o per sfida, ma è pronto a diventare tale se
in gioco c’è la sopravvivenza del regime o la
propria. Come ha argomentato Francesco
Occhetta su La Civiltà Cattolica, Machiavelli
ha sfidato il modo convenzionale di analizzare la dimensione politica perché non si
è limitato a ripetere lo spartito dell’etica e
della virtù: “Il suo fine era quello di scoprire
le regole dell’agire politico, e non quello di
definire un ideale politico”.
Di cinismo si può parlare anche quando si
volge lo sguardo al mondo, apparentemente
opaco, delle lobby. In House of cards, Underwood sembra sempre pronto a scendere a compromessi con i rappresentanti di interessi
che affollano la sua anticamera. Al pari del
politico, il lobbista è cinico solo se strettamente necessario. È per definizione portavoce di un’istanza che va oltre la mera dimensione individuale: mantiene infatti vivo
il contatto tra il potente e la realtà sociale
che egli rappresenta. Lo richiama, entrando
in quell’anticamera, ai propri doveri di decisore. Impedisce ai vari Frank Underwood
di impostare la propria esistenza come una
logorante ed eterna partita a scacchi tra se
stessi e le proprie ambizioni. Se la politica
fosse solo lotta senza esclusione di colpi per
l’autorealizzazione, la società che essa rappresenta non esiterebbe a intervenire per
interrompere il gioco. Per questo il cinismo
di House of cards è magnifico per un romanzo
o per una serie televisiva. Nella realtà, è il cinismo necessario del Principe di Machiavelli a
costituire il vero antidoto a una visione troppo edulcorata e utopistica del mondo della
politica. Quel cedimento eccessivo al dover
essere che distingue il filosofo dal buon politico, il sognatore dal decisore. Cinico, se necessario, ma inevitabilmente realista.
19
STORIA DI COPERTINA
Dr Renzi e Mr Sottobosco
di Sergio Fabbrini
Docente di Scienza politica e relazioni internazionali
e direttore della School of Government della Luiss di Roma
Il potere ha sempre più caratteristiche di
separazione rispetto alla società, e questo è dovuto al fatto che i partiti politici
non sono più in grado di collegare chi
governa – o si oppone – ai cittadini. La
figura di Frank Underwood incarna quel
potere politico che in occidente diventa
sempre più potere personale. “Franco
Sottobosco” – espressione che in italiano
utilizziamo come idea peggiorativa della
politica – ci dice che chi diventa leader
deve avere anche particolari caratteristiche personali. Non vi è leader che
non sia motivato dall’ambizione. Tuttavia
una politica democratica è vitale quando
riesce a promuovere la trasformazione di
quell’ambizione in visione
La serie televisiva House of cards ha avuto
un successo internazionale strepitoso. Colpisce l’opinione pubblica nella sua rappresentazione del potere politico, proponendo
un’idea di politica che si svolge all’interno
di circoli ristretti. Una rappresentazione
che riflette uno stato d’animo diffuso: la
politica viene considerata come un arcano
dentro il quale le persone comuni non riescono a entrare. Nella realtà invece è tutto
più complicato. È vero, però, che il potere
ha sempre più caratteristiche di separazione
rispetto alla società, e questo è dovuto al fatto che i partiti politici non sono più in grado
di collegare chi governa – o si oppone – ai
cittadini. Il cinismo evidenziato nella serie
rappresenta una componente diffusa non
solo in politica, ma in tutte le aree in cui vi
è un potere da esercitare.
La visione del mondo politico raccontata
dalla serie Tv riporta alla memoria Il principe
di Niccolò Machiavelli, ma questo accostamento merita una precisazione: Machiavelli
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non ha mai esaltato il cinismo, ma ha argomentato che chi fa politica deve guardare ai
fatti, non solo seguire ideali. Soprattutto, ha
cercato di separare la ragione politica dalla
ragione morale. La morale, infatti, invade il
principio del giusto-ingiusto, mentre la politica si basa sul fattibile o non fattibile. Essa
non può utilizzare un criterio morale aprioristico, perché deve cercare di ricomporre
morali (valori) e posizioni (interessi) diversi
e tra di loro contraddittori. Il ruolo della politica, in democrazia, è quello di far dialogare
quei valori e interessi diversi, sollecitandoli
a trovare terreni (seppure limitati) comuni.
La figura di Frank Underwood incarna però
quel potere politico che in occidente diventa sempre più potere personale. Sin dagli
anni 90 mi sono misurato con il problema
del potere personale (con il volume del 1999
su Il principe democratico e con il volume del
2011 Addomesticare il principe), per giungere
alla conclusione che quel potere è il risultato
di trasformazioni strutturali dei nostri sistemi politici. Si consideri il declino dei partiti
come organizzazioni rappresentative di classi sociali. Oggi i partiti sono organismi a supporto dei leader, e se non dispongono di buoni leader spariscono dal mercato elettorale.
Ma si consideri anche l’internazionalizzazione della politica domestica. Sono i leader, e
non i partiti, che vanno agli incontri del G20,
del G8 e del Consiglio europeo. Sono i leader
che sempre di più incarnano gli interessi nazionali. O si consideri ancora la trasformazione del sistema dell’informazione e della
comunicazione: sono i leader che possono
bucare l’audience televisiva, non già un’entità astratta come i partiti.
Tornando al personaggio televisivo di Frank
Underwood (che vuol dire Franco Sottobosco, espressione che in italiano utilizziamo
formiche 112 — marzo 2016
«Le democrazie moderne hanno
bisogno di leader, ma devono anche
tenerli sotto controllo. Nelle
democrazie parlamentari il controllo
principale deve provenire
dall’opposizione»
come idea peggiorativa della politica), esso ci
dice che chi diventa leader deve avere anche
particolari caratteristiche personali. Non vi
è leader che non sia motivato dall’ambizione. Tuttavia una politica democratica è vitale
quando riesce a promuovere la trasformazione di quell’ambizione in visione. Una visione
sostenuta da determinazione, energia e intuizione. Siccome Matteo Renzi è uno di questi leader, ciò significa anche che l’Italia ha
ripreso a essere un Paese vitale sul piano democratico. Renzi è ambizioso (dotato anche
di un certa dose di egocentrismo come tutti
i leader del mondo), ma la sua ambizione è
stata messa al servizio di un programma. Ha
introdotto riforme elettorali, istituzionali,
del mercato del lavoro o dell’amministrazione pubblica e non si è semplicemente limitato a occupare le televisioni. Il leader plebiscitario risponde generalmente alla storia o al
destino (si pensi a De Gaulle). Renzi deve invece rispondere alla sinistra del suo partito
che lo critica con sistematicità. Insomma, un
leader plebiscitario vive solo di simbolismi.
Juan Peron era famoso in Argentina perché
faceva discorsi coraggiosi, cui non sono mai
seguite scelte di governo altrettanto coraggiose. I principi democratici non vanno confusi
con quelli autoritari e populisti. Non c’è nessuno oggi che possa dubitare che il governo
tedesco coincida con Angela Merkel: lei prende posizione ed entra nel merito del dibattito (basti pensare alla questione dei rifugiati),
esponendosi quindi alla critica e all’opposizione. E qui incontriamo un problema cruciale. Le democrazie moderne hanno bisogno
di leader, ma devono anche tenerli sotto controllo. Nelle democrazie parlamentari il controllo principale deve provenire dall’opposizione. Ciò che manca all’Italia è soprattutto
questa. Quando c’era Silvio Berlusconi man-
cava l’opposizione di centrosinistra, adesso
che c’è Renzi non c’è l’opposizione di centrodestra. L’opposizione sparisce quando i partiti che la costituiscono non sono in grado di
trasformarsi in veri e propri contro-governi.
Ma naturalmente l’opposizione non basta. Ci
vogliono anche controlli costituzionali, giudiziari e sociali. La stampa ha un ruolo fondamentale in proposito. Tuttavia, il controllo
non va confuso con l’inibizione all’esercizio
del potere politico, cosa che è avvenuta regolarmente da noi. Insomma, va consentito al
leader di governare e va quindi controllato
per gli effetti della sua azione. Inoltre, il leader è tanto più forte quanto più le istituzioni
pubbliche o sociali o economiche o informative sono indipendenti dalla politica. La
logica delle politica democratica (che si basa
sul numero) non può entrare in istituzioni (si
pensi a quelle educative, informative, amministrative) che dovrebbero basarsi sul merito.
Se la politica entra dappertutto, è evidente
che il leader non incontrerà facili controbilanciamenti.
Purtroppo l’Italia è stata troppo politicizzata
nelle sue strutture istituzionali e sociali. La
depoliticizzazione e la sua sostituzione con
la meritocrazia richiederà tempo ed energie.
In conclusione, un’élite politica moderna dovrebbe preoccuparsi, innanzitutto, di dare
al Paese una democrazia governata e capace
di fare emergere buoni leader, perché le società che non si governano da sole finiscono
per sottostare al governo degli altri. Quindi,
in secondo luogo, deve costruire un sistema
politico aperto alla discussione e al controllo
pubblico. L’utilizzo del web può aiutare, ma
non può sostituire la democrazia rappresentativa. La modernità politica consiste in una
terza via tra il populismo tecnologico e l’oligarchismo partitico.
21
STORIA DI COPERTINA
La regola del più forte
e l’esempio di Trump
di John J. Pitney Jr.
Docente di Politica americana presso il Claremont McKenna College
Non è affatto una sorpresa che così
tanti telespettatori americani apprezzino
Frank Underwood, e che così tanti elettori
stiano scegliendo Donald Trump. Come il
presidente della serie, Trump farà di tutto
per spuntarla. I suoi sostenitori non si
preoccupano che ciò che dice sia completamente falso, poiché alla base del loro
ragionamento c’è l’assunto che tutti gli
altri politici siano dei bugiardi. House of
cards è finzione. Nel mondo reale, la regola del più forte non garantisce governo
efficiente o prosperità economica: basti
comparare la Corea del Nord con la Corea
del Sud. Se Trump dovesse diventare presidente, chi avrà votato per lui imparerà in
fretta questa lezione. A differenza di una
serie televisiva, tuttavia, un mandato presidenziale non è soggetto a rapida cancellazione in caso di valutazioni negative
Recenti sondaggi mostrano che gli americani
hanno perso fiducia nei riguardi della presidenza, del congresso, della Corte suprema e
dei mass media. Secondo una ricerca del 2013,
solo un terzo degli americani si fiderebbe
della maggior parte delle persone. Quasi due
terzi hanno dichiarato che non si è mai troppo prudenti nei rapporti con gli altri. Tali risultati spiegano perché House of cards sia così
popolare negli Stati Uniti: un programma
cinico per tempi cinici. Sicuramente la cultura popolare americana ha sempre trattato
la politica con un certo scetticismo. Nel xix
secolo il grande romanziere Mark Twain affermò: “Può venire probabilmente spiegato
dai fatti e dalle cifre che non c’è una classe
criminale americana significativa a eccezione del Congresso”. Nel xx secolo, l’umorista
Will Roger ha scritto: “Un politico è proprio
come un borseggiatore. È quasi impossibile
22
riformarlo”. Anche nell’idealistico film del
1939, Mr Smith va a Washington, il protagonista lotta contro una macchina politica corrotta che lo controllava e aveva quasi piegato
il Senato alla sua volontà.
Tuttavia, la produzione cinematografica e televisiva inerente alla politica americana ha
anche dato spazio a personaggi nobili e di
buone intenzioni. Nella seria di lungo corso
The West Wing (1999-2006) il presidente era Jed
Barlet (Martin Sheen), un uomo brillante che
aveva vinto il premio Nobel per l’economia
e che cercava sempre di fare la cosa giusta. Il
mondo di House of cards è differente. All’inizio della quarta stagione Frank Underwood
(Kevin Spacey) è diventato presidente grazie
a diversi inganni e a un omicidio. Quasi tutti
intorno a lui possiedono un’agenda nascosta
e la retorica relativa all’interesse pubblico
appare una copertura per manovre politiche
egoistiche. “Pensi che io sia un ipocrita? Be’,
dovresti”, dice Underwood in una delle sue
molte digressioni. “Io non sarei in disaccordo. La strada verso il potere è lastricata di
ipocrisia e vittime”.
La serie è ampiamente imprecisa su molti
aspetti. I politici spesso si comportano male,
ma di solito non dormono con i giornalisti
per poi gettarli davanti ai vagoni della metropolitana. Durante le prime due stagioni i
miei studenti hanno riso parecchio quando
ho comparato alcune clip del programma
con dei filmati che mostrano il reale funzionamento del ramo legislativo. La terza stagione si discosta ancora di più dalla realtà.
Underwood sceglie la propria moglie come
ambasciatore presso le Nazioni Unite, sebbene una legge del 1967 vieti a un presidente
di assumere membri della propria famiglia.
Nonostante questi errori, House of cards permette di intuire alcuni aspetti dell’atmosfe-
formiche 112 — marzo 2016
«Ai telespettatori americani è
sembrato plausibile che la classe
politica consista per lo più di persone
cattive. Il fatto che un furfante sia in
carica non significa che egli non
possa essere efficace. House of cards
interpreta questo sentimento »
ra politica statunitense. Quando la serie ha
debuttato nel 2013, Barack Obama aveva già
concluso il primo mandato come presidente
e l’iniziale discorso di speranza e cambiamento aveva lasciato il posto a frustrazione
e stallo. Nonostante Obama abbia vinto il
premio Nobel per la pace, è stato incapace
di evitare che il mondo diventasse un posto
più violento. La nuova legge sull’assistenza
sanitaria non è stata così popolare e la crescita economica è stata disattesa. Nel frattempo
molti ex funzionari dell’amministrazione
hanno usato la propria esperienza per ottenere impieghi ben pagati in grandi aziende.
Le uniche persone che sembrano essere riuscite ad andare avanti sono state quelle con
grandi ricchezze e contatti politici. Ai telespettatori americani è sembrato plausibile
che la classe politica consista per lo più di
persone cattive senza alcuna preoccupazione per il bene pubblico.
Il fatto che un furfante sia in carica non significa che egli non possa essere efficace.
House of cards interpreta questo sentimento.
In un video del 2014 per la cena dei corrispondenti dalla Casa Bianca, Kevin Space
ha parlato nelle vesti di Underwood: “Posso
mentire, ingannare e intimidire per ottenere
ciò che voglio, ma alla fine porto a casa il lavoro. Quindi spero che alcuni di voi abbiano
preso appunti”. Dopo aver imbrogliato nel
suo cammino verso la vice presidenza, all’inizio della seconda stagione ha affermato: “A
un passo dalla presidenza senza neanche un
voto per me. La democrazia è così sopravvalutata.” Disturba osservare quanti americani
siano d’accordo. Secondo la World Values
Survey, circa un sesto pensa che se fosse l’esercito a governare sarebbe una buona cosa.
Tra il quinto più facoltoso della popolazione,
più del 40% vorrebbe avere un leader forte
che non deve preoccuparsi del Congresso
e di elezioni. Tali sentimenti sono comuni
quando persistono i problemi sociali e il governo appare incapace di affrontarli. Perciò
non è affatto una sorpresa che così tanti telespettatori americani apprezzino Frank Underwood, e che così tanti elettori stiano scegliendo Donald Trump. Come il presidente
della serie, Trump farà di tutto per spuntarla. I suoi sostenitori non si preoccupano che
ciò che dice sia completamente falso, poiché
alla base del loro ragionamento c’è l’assunto
che tutti gli altri politici siano dei bugiardi.
House of cards è finzione. Nel mondo reale, la
regola del più forte non garantisce governo
efficiente o prosperità economica: basti comparare la Corea del Nord con la Corea del
Sud. Se Trump dovesse diventare presidente, chi avrà votato per lui imparerà in fretta
questa lezione. A differenza di una serie televisiva, tuttavia, un mandato presidenziale
non è soggetto a rapida cancellazione in caso
di valutazioni negative.
Traduzione di Stefano Pioppi
23
Themis
di Antonio Maria Leozappa
Docente di Diritto commerciale
presso l’Università Niccolò Cusano
È alle tavole fondazionali che, nei
momenti di crisi, occorre guardare se si vuole vivificare la ragion
d’essere di una comunità che ha
smarrito la propria identità, come
quella europea. Si legge nel Trattato di Lisbona che l’Unione Europea
mira a un’“economia sociale di
mercato fortemente competitiva”
(art. 3). Già ne La crisi sociale
del nostro tempo, risalente alla
Seconda guerra mondiale, Wilhelm
Röpke, uno dei teorici dell’Economia sociale di mercato (Esm),
dimostrava come all’origine della
crisi del capitalismo – considerata
una forma storica e degenerata
dell’economia di mercato – ci
fossero quelli che vengono definiti
“i traviamenti del liberalismo storico” e, in particolare, il “fanatismo
razionalistico” che porta a ignorare
i dati vitali e antropologici; nonché
l’“economicismo” che pone a fulcro
di ogni cosa gli elementi economico-materiali, da cui tutto deriva
e a cui tutto è subordinato, “quali
puri mezzi di fronte al fine”. Per
Ropke, l’economia di mercato è un
“ordinamento economico”, che per
ben funzionare ha bisogno di un
forte inquadramento morale-politico-istituzionale. Allo Stato spetta
fornire la cornice giuridica che
assieme a quella etica – che deve
essere assicurata dai corpi sociali
intermedi (come la famiglia, la
chiesa, la scuola) – impedisce che
l’economia di mercato cada vittima
di un “capitalismo feudale”. Se
questi sono i fondamentali dell’E24
Ue, dall’economia
all’oikonomia
sm, è evidente che per affrontare
la crisi socioeconomica dell’Unione
europea, più che ribaltare – come
sostenuto da Stefano Zamagni
(avvenire.it, 8 ottobre 2014) – i
principi del Noma (Non-overlapping
magisteria), è necessario rispettare
la divisione dei magisteri; come
marcato sempre da Zamagni: “La
politica è il regno dei fini che la
società intende seguire; l’etica è il
regno dei valori che devono guidare
i comportamenti individuali e collettivi; l’economia è il regno dei mezzi
migliori per conseguire i fini che
la politica sceglie nel rispetto dei
vincoli che l’etica pone” (Prudenza,
Il Mulino, 2015). Se si volesse effettivamente una programmazione
delle politiche comunitarie ispirata
all’Esm, il primo step dovrebbe
essere passare dall’economia alla
oikonomia, ossia a una amministrazione della casa-oikos che
riconosce al complemento di specificazione una funzione soggettiva.
In altri termini, è l’amministrazione
che deve essere funzionale alla
casa e non il contrario: la casa non
è l’oggetto, ma il fine in ragione
del quale si orienta e alla luce del
quale si valutano efficienza ed efficacia dell’amministrazione. Cos’è la
casa, l’oikos? È l’ambiente vitale e
identitario della comunità minimale,
nel quale vige non già il principio
dello scambio, ma quello della
reciprocità dove il noi prevale sull’io
non come limite, ma come orizzonte comune. Sul piano politico, la
conseguenza è che le decisioni non
trovano legittimazione nella prevalenza della maggioranza, basata
sull’ordine binario amico-nemico,
ma nella capacità di esprimere un
compromesso fondato sullo stare
assieme. La casa è il regno della
prima persona plurale. Il “noi-tutti”
della Caritas in Veritate di Benedetto XVI. La sfida è culturale. Perché
considerare la casa non un oggetto
– rispetto al quale la scienza
economica si esercita in autonomia
– ma come il soggetto che pone gli
obiettivi da conseguire e i valori da
preservare significa restaurare la
sovranità della politica e restituire
l’economia all’ordine dei mezzi.
Ropke ammoniva di evitare il “fanatismo razionalistico” e di rispettare
i dati vitali e antropologici. Una
lezione disconosciuta dall’attuale
dirigenza di Bruxelles, se si pensa –
per rimanere alla casa, questa volta
però intesa come unità immobiliare
– che l’ex commissario Ue, Mario
Monti, non ha esitato, ad Agorà
lo scorso 28 luglio, a contestare
l’annunciata soppressione dell’Imu,
ritenendo la tassazione della prima
casa necessaria a trasformare il
modo di vivere degli italiani. La tassazione disincentiva l’investimento
immobiliare e, dunque, promuove
la mobilità. La “famiglia è sacra”
ha detto l’ex premier, ma “l’Italia
è poco competitiva”. Ecco che
nemmeno il nucleo minimale degli
affetti familiari può ritenersi salvo
dinanzi alle esigenze dell’economia.
Ma è questa l’Unione europea del
Trattato di Lisbona?
Snapshots House of cards
di Francesca Scaringella
giochi via web che dal 2008 è
diventato un servizio streaming on
demand, accessibile dopo abbonamento e che da pochi mesi è
sbarcato anche nel nostro Paese.
Dopo il suo esordio nel 2013,
House of cards è giunto ormai alla
quarta stagione.
Un thriller politico nato
in Uk
Tratta dall’omonimo romanzo del
1989 firmato dal politico britannico Michael Dobbs, House of cards
è la serie Tv che più ritrae il lato
oscuro del potere. Francis “Frank”
Underwood è un deputato del
Partito democratico, interpretato
da Kevin Spacey, che attraverso
macchinazioni spietate, diventa
presidente degli Stati Uniti. Il libro
di Dobbs è il primo di una trilogia
che ha ispirato tre miniserie andate in onda negli anni Novanta sulla
Bbc inglese.
La programmazione
italiana
La serie è trasmessa in Italia da
Sky Atlantic in esclusiva, ma è
Netflix che la produce, ovvero il
servizio di noleggio dvd e video-
fu2016.com. Un’idea molto ben
congegnata, fin dalla home page
che ha un Underwood in primo
piano che muove gli occhi verso
l’utente, proprio come è solito fare
guardando in camera durante gli
episodi.
Riconoscimenti che
confermano un successo
Kevin Spacey e Robin Wright, che
interpreta Claire, la moglie di Underwood, sono stati premiati con
il Golden Globe, l’uno nel 2015 e
l’altra nel 2014. Anche il regista
David Fincher – produttore insieme
a Spacey della serie e regista della
puntata pilota della prima stagione
– ha vinto nel 2013 un Emmy
come miglior regista.
Un sostegno al candidato
alla Casa Bianca
La quarta stagione vede Frank Underwood in piena campagna elettorale. Il pubblico può supportare il
candidato alla Casa Bianca grazie
al suo sito personale https://www.
L’interlocutore misterioso
Proprio riguardo all’abitudine del
protagonista – ormai diventata
un appuntamento fisso con gli
spettatori – di girarsi direttamente
in camera, Kevin Spacey in un’intervista al Late show di Stephen
Colbert ha rivelato (simpaticamente) con chi parla realmente Frank
Underwood quando si rivolge alle
telecamere: a Donald Trump!
25
ECONOMIA
Tra Europa e Usa, un nuovo
accordo sui dati personali
@
SMS
ECONOMIA
Dal Safe harbour
al Privacy shield
di Simone Crolla
Consigliere delegato American chamber of commerce in Italy
Dopo mesi di intense negoziazioni, lo
scorso 2 febbraio la Commissione europea e il governo americano hanno
raggiunto un nuovo accordo sul trattamento, la conservazione e l’utilizzo di
dati personali. Il nuovo quadro normativo
denominato Eu-Us Privacy shield supera e
sostituisce il Safe harbour, invalidato il 6
ottobre in seguito alla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (Cgue)
Nell’ottobre del 1998 la Commissione europea, prendendo atto della diversità di approccio alla protezione della privacy tra Europa e
Stati Uniti, ha emanato la direttiva sulla data
protection, vietando il trasferimento di dati personali verso Paesi non appartenenti all’Unione europea che non soddisfano gli standard di
protezione previsti dalla normativa comunitaria. Le due aree geografiche, infatti, pur condividendo l’obiettivo di rafforzare la tutela della
privacy dei propri cittadini differiscono sugli
approcci e i meccanismi di difesa degli stessi. Per colmare queste differenze d’approccio
e fornire agli operatori negli Stati Uniti uno
strumento semplice per conformarsi a quanto previsto dalla direttiva, il Dipartimento
del commercio americano e la Commissione
europea hanno sviluppato un programma denominato Safe harbour. Attraverso l’adesione
a questo programma, le aziende americane ottenevano un riconoscimento automatico del
rispetto degli standard di protezione dei dati
personali richiesti dalla Commissione europea, evitando disagi quali interruzioni nei loro
rapporti commerciali in Europa o problematiche con le autorità garanti della privacy nei diversi Stati membri. Nel novembre 2001 anche
il garante italiano ha preso atto dell’intesa tra
Usa e Ue e, riconoscendo il Safe harbour, ha
autorizzato il trasferimento dei dati personali
28
dall’Italia verso gli Stati Uniti. Lo scorso 6 ottobre l’equilibrio raggiunto con il Safe harbour è
venuto meno con la sua invalidazione da parte della Cgue, in seguito alle vicende legate al
controllo – per ragioni di sicurezza nazionale
– da parte di autorità pubbliche americane dei
dati personali di cittadini europei in possesso
di organizzazioni basate negli Stati Uniti. La
sentenza della Cgue ha di nuovo acceso nell’opinione pubblica il non secondario dibattito
sulla privacy e la sua tutela. Tuttavia, l’invalidazione del Safe harbour non ha solo implicazioni legate al rispetto o alla violazione della
sfera privata degli individui, ma anche un significativo impatto sull’attività di migliaia di
aziende, europee e americane, che per fornire
i propri servizi e sviluppare i propri prodotti
utilizzano in modo legittimo questi dati e che
con l’abolizione del Safe harbour si trovano a
dover considerare importanti investimenti in
infrastrutture di deposito dei dati in Europa
per non incorrere in pesanti sanzioni.
Negli Stati Uniti sono ben 4.243 le aziende
che hanno aderito al Safe harbour, e molte
di queste costituiscono importanti investitori esteri in Europa e nel nostro Paese. Molto spesso quando si parla di trasferimento e
utilizzo di dati si fa riferimento alle aziende
dell’Internet economy e dell’Information technology – quali Google, Facebook, Twitter – ma,
in un’economia sempre più caratterizzata
dall’utilizzo della tecnologia, il trasferimento e l’utilizzo di dati sono diventati fondamentali anche per i settori dell’hospitality,
assicurativo, farmaceutico, manifatturiero,
ristorazione, ecc. Aziende quali Whirlpool,
Hp, Ibm, Parker Hannifin, McDonald’s, United Technologies, Pfizer, solo per citarne alcune, sono tra i principali investitori e tra i
primi datori di lavoro esteri nel nostro Paese
e tutti si avvalevano del Safe harbour. Lo
formiche 112 — marzo 2016
L’ACCORDO_IL PRIVACY SHIELD IN PILLOLE
Nel comunicato della Commissione europea si leggono quelli che sono i punti salienti dell’accordo
politico: regole stringenti e obbligo di rispettare le decisioni dei garanti europei a carico delle
aziende americane; Dipartimento del commercio e Federal trade commission saranno i controllori
sul suolo Usa; l’accesso di autorità pubbliche e intelligence ai dati europei sarà soggetto a chiare
limitazioni, garanzie e meccanismi di controllo; verrà esclusa ogni forma di sorveglianza di
massa; novità anche sul fronte dei ricorsi, per cui le aziende Usa avranno un tempo limite per
rispondere ai reclami, le autorità garanti europee potranno presentare ricorsi ai controllori negli
Usa, dove sarà creato anche un ombudsman per eventuali abusi dall’intelligence
scambio e l’utilizzo regolato di dati non
rappresenta un vantaggio solamente per le
imprese americane, ma anche per quelle europee. Il rapporto commerciale transatlantico – il più consistente a livello mondiale con
oltre 1.000 miliardi di scambi commerciali
e 4mila miliardi di investimenti – conta in
gran parte sull’efficacia e la sicurezza di questi flussi di dati, consentendo alle aziende
italiane ed europee di accedere a nuovi mercati, rendere più efficiente la propria struttura produttiva e utilizzare servizi disponibili solamente dall’altra parte dell’oceano.
Secondo il portale di dati Statista, il numero
di persone che a livello globale ha effettuato un acquisto online è aumentato al 38% nel
2013, al 40,4% nel 2014 e supererà il 45% nel
2017. Il valore del mercato degli acquisti
online negli Stati Uniti è passato da 13,63 a
42,1 miliardi di dollari tra 2011 e 2013 e ci si
aspetta che raggiunga i 133 miliardi nel 2018
(Statista Dossier, Global Internet Usage 2014).
Queste tendenze rappresentano una vera e
propria opportunità di crescita per le aziende e, conseguentemente, per i Paesi. Ciò è
particolarmente vero per le Piccole e medie
imprese (che nel nostro Paese rappresentano il 99,9% delle aziende e il 99,8% di quelle
europee – European commission, Enterprise and industry: 2013 Sba Fact sheet, Italy,
2013) che, non potendo fare affidamento su
strutture articolate e diffuse, utilizzano le
tecnologie e Internet per crescere e raggiungere nuovi clienti e partner.
Lo scorso 2 febbraio la Commissione europea
e il governo americano hanno raggiunto un
nuovo accordo, denominato Eu-Us Privacy
shield, che supera il Safe harbour limitando
la possibilità di accesso di agenzie pubbliche
americane a dati relativi a cittadini europei conservati negli Stati Uniti. Questi ulti-
mi avranno la possibilità di interpellare un
ombudsman (difensore civico) all’interno del
Dipartimento di Stato, nel caso in cui ritengano che le organizzazioni in possesso dei
dati non abbiano gestito le loro richieste in
modo appropriato. Per le imprese, il nuovo
quadro normativo rappresenta sicuramente
un ottimo punto di partenza, evitando che
gli scambi economici tra Europa e Stati Uniti
ne risentano.
Tuttavia, alcuni elementi d’incertezza rimangono, tra cui un ulteriore chiarimento
in relazione ai dettagli d’implementazione
che i negoziatori europei e americani stanno discutendo e al recepimento del nuovo
accordo da parte delle autorità nazionali
per la protezione della privacy che, in base
alla sentenza della Cgue, hanno diritto di
esaminare in piena indipendenza se il trasferimento dei dati di una persona verso un
Paese terzo rispetti i requisiti stabiliti dalla
direttiva. I prossimi mesi saranno di cruciale
importanza per capire quali saranno le caratteristiche finali di questo accordo e l’impatto
che questo avrà sulle attività delle aziende e
sulla tutela della privacy dei cittadini europei.
L’esito del negoziato acquisisce un particolare significato anche nel contesto dell’attuale
discussione in corso del Transatlantic trade
and investment partnership (Ttip), l’accordo
di libero scambio tra Europa e Stati Uniti che
potrebbe rafforzare ulteriormente i legami
economici tra le due aree. I policy-maker americani ed europei si trovano di fronte alla
possibilità, o forse la sfida, di muovere un
ulteriore passo in avanti nel rafforzare l’asse
economico-culturale transatlantico, che per
lungo tempo ha rappresentato – e può continuare a rappresentare anche di fronte allo
spostamento degli equilibri geopolitici verso
oriente – un importante motore di crescita.
29
ECONOMIA
Il vuoto fa meno paura
di Antonello Giacomelli
Sottosegretario di Stato del ministero dello Sviluppo economico con delega alle Comunicazioni
Un’intesa tra Europa e Stati Uniti ha un
valore strategico fondamentale per l’economia di Internet e per la salvaguardia
della Rete così come l’abbiamo conosciuta. La centralità, non solo economica, dei
cosiddetti over-the-top ci costringe oggi a
ragionare in termini costituenti di diritti e
doveri della persona, e la dimensione europea è quella minima per iniziare a farlo.
Il vuoto normativo va certamente colmato
a livello europeo. Il vuoto politico, dopo il
Privacy shield, fa meno paura
Non sottovaluterei il valore politico dell’accordo del 2 febbraio tra Commissione europea e Stati Uniti sul cosiddetto Privacy shield,
il nuovo quadro giuridico per il trasferimento dei dati personali dei cittadini che sostituirà il regime di Safe harbour. L’intesa potrà
essere rivista ogni anno e dovrà salvaguardare i poteri di indagine delle autorità della
privacy dei Paesi europei.
Ma credo che, per i cittadini e per le aziende, il patto Ue-Usa sia un’ottima notizia per
almeno due ordini di ragioni. Primo, perché
l’Europa corre seriamente il pericolo che si
affrontino le questioni centrali della privacy
nell’epoca di Internet solo a colpi di sentenze della Corte di giustizia: prima quella sul
diritto all’oblio poi quella sul Safe harbour
hanno costretto un po’ tutti ad aprire gli occhi sul problema, ma non ne hanno offerto
una via d’uscita. Lo stesso WP29, il gruppo
di lavoro che riunisce i garanti della privacy del Vecchio continente, ha chiesto in più
occasioni ai governi europei una soluzione
politica da negoziare con Washington.
Secondo, perché un’intesa tra Europa e Stati
Uniti ha un valore strategico fondamentale
per l’economia di Internet e per la salvaguardia della Rete così come l’abbiamo conosciu-
ta. Lo sappiamo: di qua e di là dall’Atlantico,
l’approccio al tema della privacy esprime sensibilità diverse, ma l’idea di Rete come spazio aperto e orizzontale, come luogo delle
libertà e delle opportunità è un valore altrettanto cruciale che accomuna le due sponde
dell’oceano e che va salvaguardato.
Durante il semestre di presidenza italiano
abbiamo sollecitato una posizione comune
dei Paesi Ue sulla governance di Internet e
sulla net neutrality, proprio come premessa
per un rapporto leale ma privilegiato innanzitutto con gli Stati Uniti. La centralità, non
solo economica, dei cosiddetti over-the-top ci
costringe oggi a ragionare in termini costituenti di diritti e doveri della persona, e la
dimensione europea è quella minima per
iniziare a farlo. La questione fiscale è un vuoto che va riempito, ma pensare di poter contrapporre l’idea di un’Europa “solo delle regole” agli Usa dell’innovazione è un rischio
che non possiamo correre, anche perché ci
vedrebbe perdenti.
Ricordo che il Garante della privacy italiano,
primo in Europa, ha raggiunto un accordo
con Google che consente anche di inviare i propri ispettori a controllare i server di
Mountain View, come già sta avvenendo nonostante la distrazione dell’opinione pubblica. E mi risulta che la strada scelta dall’Italia
sia stata seguita da altri Paesi europei. Il vuoto normativo va certamente colmato a livello europeo. Il vuoto politico, dopo il Privacy
shield, fa meno paura.
31
ECONOMIA
Rafforziamo i vincoli giuridici
di Cosimo Maria Ferri
Sottosegretario di Stato presso il ministero della Giustizia
Il negoziato sul Privacy shield ha dischiuso prospettive promettenti in cui l’Italia
potrà giocare un ruolo determinante in
ambito di definizione tecnica dei contenuti. Le materie dell’accordo rivestono interesse e rilevanza particolare per i nostri
cittadini, per questo le istituzioni hanno
ben chiare le direttrici su cui promuoverne
lo sviluppo. Strategico, infatti, sarà il rafforzamento dei vincoli giuridici sottostanti
al Privacy shield e la loro piena ed efficace operatività e azionabilità per permettere alla nuova tutela di essere completa
La tutela dei dati personali, dopo le rivelazioni di Edward Snowden, ex collaboratore
esterno della National security agency (Nsa),
è divenuta oggetto di scrupolosa attenzione.
Il tema della sicurezza e riservatezza dei dati
dei cittadini europei ha infatti istantaneamente catturato l’interesse pubblico e sollecitato timori profondi, in parte confermati
dalle numerose e successive indiscrezioni
fuoriuscite sulla bulk collection, raccolta di
massa effettuata dalle agenzie d’intelligence.
Preoccupazioni che sono state ulteriormente accese dalla materiale conservazione dei
dati digitali di milioni di utenti, come anche
di numerose istituzioni, banche, imprese
e organizzazioni in territorio statunitense
presso i server e le banche dati dei colossi
americani dell’Information and communication technology.
Sono proprio le grandi aziende americane
al centro dell’attenzione perché, in ragione
della loro attività commerciale, si trovano a
manipolare una raccolta di dati consistente
per ogni singolo cittadino: basti pensare alla
posta elettronica, all’archiviazione nei cloud
o alla possibilità di usufruire di potenza aggiuntiva di calcolo in via temporanea. Alla
32
base del trasferimento dei dati oltreoceano
vi sono ragioni di economia di scala che permettono alle aziende di operare in maniera
significativa sui loro costi di gestione e così
di offrire ai clienti un’innumerevole scelta di
servizi gratuitamente, o quasi, dato il valore
commerciale delle profilazioni commerciali
che si traggono dall’incrocio anche anonimo
dei dati. Apple, Amazon, Microsoft, Facebook,
Google, giusto per citare alcune fra le più famose e influenti aziende, conservano infatti
nei loro server farm una mole sterminata di
dati che definiscono molte volte chi siamo,
con chi interagiamo, cosa ci piace, cosa ci incuriosisce e a cosa aspiriamo.
In questo scenario orwelliano, che comporta
un inimmaginabile potere di sorveglianza a
qualsiasi regime totalitario del secolo breve,
sorge spontanea una domanda preoccupata:
chi tutela i nostri diritti? La collocazione fisica
dei server negli Stati Uniti crea infatti una questione giuridica che è stata fino a oggi risolta
attraverso strumenti che si raccolgono sotto la
dicitura Safe harbour, o Approdo sicuro.
La disciplina europea in materia di protezione dei dati personali è stata sin dall’inizio
oggetto di legislazione precisa e puntuale,
anche se da alcuni è considerata ancora perfettibile. Una rapida ricognizione può essere utile. Il primo intervento del legislatore
comunitario ha previsto la direttiva 95/46/
CE (recepita dalle leggi 675 e 676 del 31 dicembre 1996), che mirava a bilanciare fra le
necessità per la realizzazione del mercato
interno e la protezione dei dati personali.
Successivamente, nel solco del Trattato di
Amsterdam, il regolamento 45/2001 disciplina la raccolta dei dati da parte delle stesse istituzioni europee. Vi è poi la decisione
2013/504/UE che prevede l’istituzione di un
Garante europeo per la protezione dei dati.
formiche 112 — marzo 2016
«Apple, Amazon, Microsoft, Facebook,
Google conservano nei loro server
farm una mole sterminata di dati che
definiscono molte volte chi siamo,
con chi interagiamo, cosa ci piace,
cosa ci incuriosisce e a cosa
aspiriamo »
Infine, preme citare la proposta del 25 gennaio 2012 per una regolazione generale della
protezione dei dati, General data protection
regulation (Gdpr), approvata dal Parlamento
europeo e che dovrebbe divenire operativa
nel 2018. Stanti queste tutele, la Commissione europea aveva stipulato un accordo di
Safe harbour con gli Stati Uniti. Il sistema
però è stato messo in crisi da un giovane austriaco, Maximillian Schrems, che nel 2013
decide, sull’onda delle rivelazioni Snowden,
di denunciare le carenze del sistema di protezione, specialmente rispetto alle attenzioni
della Nsa. La sua battaglia legale inizia presso l’Autorità per la tutela dei dati irlandese
dove si trovano i server di Facebook di primo
passaggio per gli Usa. La prima risposta, richiamando la salvaguardia del Safe harbour
a tutela dei dati personali, è stata negativa.
La questione è giunta poi alle attenzioni della
Corte di giustizia dell’Unione europea (Cgue)
che, esprimendosi il 6 ottobre 2015, osserva
in primo luogo che, se è vero che esiste un
accordo, questo non preclude il controllo da
parte delle istituzioni europee competenti
riguardo ai contenuti dello stesso e alla loro
conseguente applicazione. La Cgue prosegue
quindi nel merito, osservando come la tutela
del Safe harbour sia operativa nei confronti
dei soggetti privati, ma una simile protezione non è opposta nel caso sia un soggetto
pubblico statunitense a richiedere l’accesso
ai dati. Per la Cgue tale regime d’accesso generalizzato al contenuto delle comunicazio-
ni elettroniche viene considerato lesivo del
contenuto essenziale previsto nel diritto al
rispetto della vita privata.
La soluzione giunge con il nuovo accordo
Privacy shield fra Ue e Usa, sviluppato per rispondere alle richieste di tutela accresciuta
da parte europea. Fra i suoi contenuti salienti
vi sono una serie di obblighi dettagliati a cui
le aziende che trasferiranno i dati negli Usa
dovranno conformarsi, la riduzione dei programmi di sorveglianza di massa delle agenzie d’intelligence volti alla raccolta dei dati
personali senza alcuna salvaguardia o limite,
la possibilità di ricorrere per i cittadini europei a livello individuale o di istituzioni per
la tutela dei propri diritti anche presso un
ombudsman, appositamente istituito presso il
Dipartimento di Stato americano.
Se l’efficacia del nuovo accordo sembra adeguata secondo il primo vaglio da parte della Commissione, e si potrebbe considerare
la questione risolta, tuttavia sono ancora in
corso le valutazioni analitiche sul contenuto
dell’accordo sia da parte dei rappresentanti
dei governi degli Stati membri dell’Ue sia da
parte delle numerose agenzie nazionali per
la tutela dei dati personali, senza contare che
alcuni attivisti ritengono il Privacy shield ancora insufficiente. In ogni caso, il negoziato
ha dischiuso prospettive promettenti in cui
l’Italia potrà giocare un ruolo determinante
in ambito di definizione tecnica dei contenuti. Le materie dell’accordo rivestono interesse e rilevanza particolare per i nostri cittadini, per questo le istituzioni hanno ben chiare
le direttrici su cui promuoverne lo sviluppo.
Sarà, infatti, strategico il rafforzamento dei
vincoli giuridici sottostanti al Privacy shield
e la loro piena ed efficace operatività e azionabilità per permettere alla nuova tutela di
essere completa.
33
ECONOMIA
I risvolti per Ttip
e data protection
di Sergio Boccadutri
Coordinatore area innovazione del Pd
È fondamentale rendere il Privacy shield
coerente con tutte le discussioni in
corso, a partire dal Ttip e dall’umbrella
agreement fino al nuovo regolamento
sul data protection che entrerà in vigore
nella prima parte del 2016. Il fatto che la
Commissione europea e il Dipartimento
del commercio americano si riuniranno
una volta all’anno per rinnovare o modificare i termini dell’accordo è la circostanza più rilevante e indica la necessità di
una regolamentazione sempre più dinamica e al passo con le innovazioni
Ogni giorno sui social media vengono condivisi 500 milioni di foto e ogni minuto almeno
200 ore di video. Numeri che possono impressionare ma che sono destinati a crescere ancora, perché la narrazione delle nostre
esperienze è sempre più affidata a luoghi
virtuali che ci permettono di condividerle
con amici e conoscenti. Senza considerare
inoltre i flussi di email, messaggistica, servizi
di cloud di cui ci avvaliamo quotidianamente
per lavoro, studio o tempo libero.
Non sono solo le comunicazioni one-to-many
a passare dai social ma ormai anche molte di
quelle one-to-one, così come l’archiviazione di
dati, anche tra i più sensibili, avviene sempre meno su supporti fisici di nostra proprietà, ma sempre di più in remoto. Per le generazioni native digitali la domanda “Dove
sono i miei dati?” suona non completamente
sensata, e forse addirittura incomprensibile
se riferita a luoghi fisici. Risultano, invece,
di immediata comprensione da parte di tutti, almeno a grandi linee, le problematiche
legate al rischio di un’esposizione impropria
dei nostri dati, e non solo di quelli sensibili. Per quanto ci riguarda, come europei, è
chiaro che questa criticità investe soprattut34
to le relazioni con gli Stati Uniti, visto che la
quasi totalità degli over-the-top del web sono
americani.
Prima della sentenza Max Schrems della
Corte di giustizia dell’Unione europea, Ue e
Stati Uniti regolavano i propri rapporti con
il Safe harbour agreement, l’accordo risalente al 1998, poi recepito nel 2000 (il garante
della privacy italiano si pronunciò nel 2001),
che consentiva alle imprese americane di
autocertificare la propria conformità agli
standard europei sulla base dei famosi sette
principi, basati in larga parte sulla logica notice and consent.
È evidente che si trattava – anche al netto
delle rivelazioni di Snowden sull’attività della National security agency (Nsa), che hanno
preoccupato non poco questo lato dell’Atlantico – di un modello superato, tarato sugli
scambi di dati che potevano esserci negli
ultimi anni 90 e primi 2000: un’epoca precedente i social media e con una diffusione molto minore di connessioni, soprattutto mobili, a grande velocità. Del resto, già nel 2013
l’Europa aveva trasmesso 13 raccomandazioni agli Stati Uniti sul Safe harbour, ben prima, quindi, della sentenza di ottobre 2015.
La sentenza Schrems ha invalidato di fatto
l’accordo del 2000 rendendolo inapplicabile,
riconoscendo un ruolo decisivo alle autorità
nazionali per quanto riguarda la valutazione
delle garanzie offerte ai propri cittadini nel
trasferimento di dati oltreoceano.
In un quadro di grande transitorietà è giunto l’annuncio del Privacy shield, un nuovo
accordo Usa-Ue per superare il vulnus della
situazione attuale. È bene ricordare, infatti,
che oggi, una volta invalidate le norme del
Safe harbour, l’unica modalità in mano alle
aziende per procedere al trasferimento dei
dati across the pond è avvalersi di clausole con-
formiche 112 — marzo 2016
«Sul Privacy shield e sul regolamento
europeo sul data protection è
necessaria una grande operazione di
divulgazione e conoscenza verso i
cittadini da parte di tutti gli attori
coinvolti »
trattuali o delle binding corporate rules. L’annuncio del raggiunto accordo è già un fatto
positivo, anche se per vederlo realmente in
vigore manca ancora qualche passaggio decisivo, primo fra tutti quello nel Gruppo di
lavoro ex Articolo 29, l’organismo composto
da un rappresentante per ciascuna delle autorità di protezione dei dati personali degli
Stati membri.
Da quanto si è appreso, è positivo che saranno previsti limiti alla possibilità per le
autorità di pubblica sicurezza di accedere ai
dati personali, evitando così attività di monitoraggio indiscriminato e non proporzionate
alle finalità di pubblica sicurezza. Inoltre,
vi sarà la possibilità per le autorità europee
di riportare casi alla Federal trade commission, oppure di rivolgersi a un ombudsman,
organismo collegiale creato appositamente
in caso di violazioni da parte delle autorità
di intelligence.
Infine, il fatto che la Commissione europea
e il Dipartimento del commercio americano
si riuniranno una volta all’anno per rinnovare o modificare i termini dell’accordo è
la circostanza più rilevante, e indica la necessità di una regolamentazione sempre più
dinamica e al passo con le innovazioni. La
staticità, infatti, era il vero punto debole del
Safe harbour, che non teneva conto dell’evoluzione rapidissima e imprevedibile della
tecnologia: nessuno, specialmente alla vigilia dell’Internet of things, è infatti in grado
di prevedere di fronte a quali implicazioni e
problematiche ci troveremo da qui a qualche
anno, così come nel 2000 era imprevedibile
l’epoca social e l’importanza che oggi ricoprono i social media nelle interazioni quotidiane
di ciascuno di noi.
Un altro aspetto fondamentale è rendere il
Privacy shield coerente con tutte le discussioni in corso, da un lato con gli Usa a partire
dal Ttip e dall’umbrella agreement e, dall’altro,
sulla privacy a livello europeo, primo fra tutti
il nuovo regolamento sul data protection che
entrerà in vigore nella prima parte del 2016.
È un regolamento che aggiorna in modo significativo l’approccio e introduce diritti che
suonano completamente nuovi, come il diritto alla portabilità del dato, cioè il diritto
da parte dell’utente ad avere piena disponibilità dei propri dati, se si volesse ad esempio
trasferirli da un social network a un altro, o il
diritto all’oblio, cioè a ottenere la cancellazione completa dei propri dati una volta che
si decide di uscire da determinati circuiti.
Sul Privacy shield e sul regolamento europeo sul data protection è necessaria una grande operazione di divulgazione e conoscenza
verso i cittadini da parte di tutti gli attori
coinvolti: legislatori, regolatori, stakeholder
ed esperti in materia. Se, infatti, ormai le
enormi potenzialità della Rete sono note
agli utenti, soprattutto ai più giovani, non si
può dire altrettanto sui diritti di cui gli stessi
utenti godono per quanto riguarda la privacy.
Solo così si supererà definitivamente il modello notice and consent e arriveremo, anche
in questo campo, all’età della awareness, ossia
della consapevolezza.
35
ECONOMIA
La dura legge di Bruxelles
di Guido Scorza
Presidente dell’Istituto per le politiche dell’innovazione e docente di Diritto
dell’informatica presso l’Università di Bologna e l’Università Lateranense
Privacy shield, un nome capace, da solo,
di evocare un’autentica corazza impenetrabile sotto la quale proteggere la privacy dei cittadini europei anche dall’altra
parte dell’oceano. Se sarà davvero diverso
dall’accordo del 2000, significherebbe che
il governo di Obama ha accettato di modificare sensibilmente le leggi attualmente
vigenti negli Usa e di ridimensionare i
poteri della propria intelligence
L’antefatto è ormai noto ai più: lo scorso 6
ottobre la Corte di giustizia dell’Unione europea ha annullato la decisione della Commissione europea sulla base della quale, sin
dal 2000, i dati personali dei cittadini europei vengono trasferiti negli Stati Uniti dalle
migliaia di società che vendono ogni genere
di prodotti e servizi nel Vecchio continente,
ma fanno battere un cuore a stelle e strisce;
prime tra tutte, naturalmente, le regine
del web come Facebook, Google, Amazon e
le loro numerose emule e concorrenti. Una
sentenza, quella dei giudici di Lussemburgo,
pronunciata in nome dei diritti fondamentali dei cittadini europei, allo scopo dichiarato
di scongiurare il rischio che i loro dati potessero continuare a finire negli Usa e – complici fragilità e debolezza del diritto alla privacy
d’oltreoceano – finire con il diventare preda
dell’ingordigia delle agenzie di intelligence secondo uno schema diventato noto al mondo
intero con lo scandalo del Datagate. Guai, in
questa prospettiva, a non pensare tutto il
bene possibile della sentenza dei giudici di
Lussemburgo.
Occorre, d’altra parte, riconoscere che l’annullamento della decisione sul Safe harbour
ha aperto un vuoto regolamentare senza precedenti nella storia del trasferimento dei dati
personali tra Vecchio e Nuovo continente,
36
minacciando di mettere in crisi un elemento
strutturale degli scambi internazionali transoceanici. Inevitabile, dunque, che all’indomani della pronuncia della Corte sia iniziata
un’autentica partita di scacchi multi-stakeholder e transnazionale alla ricerca di quello che
è stato, da subito, battezzato il Safe harbour
2.0, ovvero una nuova edizione del vecchio
accordo internazionale che ha consentito
per tre lunghissimi lustri l’esportazione di
ogni genere di dati personali negli Stati Uniti, considerati un approdo sicuro. Nessuno si
è sottratto dal sedersi attorno alla scacchiera.
I garanti della privacy europei, compatti nel
Gruppo ex articolo 29 a esigere che il governo di Bruxelles cercasse e trovasse in tempi
rapidissimi un nuovo accordo con la Casa
Bianca – non più di tre mesi – ma, soprattutto, su basi solide, capaci di garantire davvero
il diritto alla privacy dei cittadini europei. Le
diplomazie internazionali dei due Paesi alla
ricerca spasmodica di questo accordo, presupposto indispensabile per la prosecuzione
degli affari dei giganti del web da una parte
e di migliaia di imprese europee dall’altra.
Gli attivisti e lobbisti, rispettivamente di società civile e multinazionali, ciascuno preoccupato non solo che il vecchio Safe harbour
fosse sostituito in fretta ma, soprattutto, che
fosse sostituito da un accordo migliore per
il proprio centro rappresentativo di interessi. E, proprio come attorno a una scacchiera,
per mesi una comunità tanto vasta quanto
eterogenea di società, istituzioni, cittadini e
associazioni non governative ha atteso che
da Bruxelles si levasse una fumata bianca e
che la Commissione annunciasse il raggiungimento dell’agognato nuovo accordo.
E una fumata, in effetti, si è levata il 2 febbraio dal palazzo della Commissione europea: “Gli europei possono stare certi che i
formiche 112 — marzo 2016
«L’annullamento della decisione sul
Safe harbour ha minacciato di
mettere in crisi un elemento
strutturale degli scambi internazionali
transoceanici »
loro dati personali saranno completamente
protetti mentre le nostre imprese, in particolare le più piccole, avranno una cornice
giuridica certa per sviluppare le loro attività
oltre l’Atlantico. Seguiremo da vicino l’attuazione dell’accordo”. Sono queste le parole
con cui il commissario europeo al Mercato
unico digitale, Andrus Ansip, ha annunciato l’attesissimo raggiungimento, dopo mesi
di trattative, del nuovo accordo tra Europa e
Usa sul trasferimento dei dati personali. Nessun Safe harbour 2.0 ma, al posto del vecchio
nome, ormai abusato, uno nuovo: Privacy
shield. Un nome capace, da solo, di evocare
un’autentica corazza impenetrabile sotto la
quale proteggere la privacy dei cittadini europei anche dall’altra parte dell’oceano. Al
diffondersi della notizia, un lungo e fragoroso sospiro di sollievo, amplificato dai media,
si è sollevato in entrambi i Paesi. Il nuovo
accordo annunciato dalla Commissione colmerebbe il vuoto regolamentare aperto dalla
sentenza della Corte di giustizia dell’Ue, in
un modo o nell’altro, offrirebbe al mercato e
ai suoi protagonisti un nuovo quadro di regole certe nel rispetto delle quali riprendere –
o più probabilmente proseguire – lo scambio
di dati tra Vecchio e Nuovo continente. Ma
il sospiro transnazionale di sollievo è durato
una manciata d’ore. “Non abbiamo ancora
avuto modo di leggere il testo dell’accordo
raggiunto tra la Commissione europea e il
governo americano. Abbiamo solo ricevuto
rassicurazioni verbali e l’impegno che riceveremo un testo entro le prossime tre settimane”. A parlare, il 4 febbraio, è la presidente del Gruppo ex articolo 29, la francese
Isabelle Falque-Pierrottin.
È difficile fugare il dubbio che le differenze
sostanziali tra il vecchio Safe harbour e il
nuovo Privacy shield si fermino a quelle tra i
loro nomi. Anche perché – occorre dirlo con
grande chiarezza – se il Privacy shield fosse
davvero, come bisogna continuare a sperare
che sia, qualcosa di diverso dall’accordo del
2000, significherebbe che il governo di Obama ha accettato di modificare sensibilmente
le leggi attualmente vigenti negli Usa e di
ridimensionare i poteri della propria intelligence. Ed è difficile pensare che la diplomazia
della Casa Bianca, davanti a queste richieste,
non abbia (diplomaticamente) fatto pesare la
circostanza che dopo la strage di Parigi del
Bataclan, gli ordinamenti di molti Paesi europei – Francia in testa – hanno, purtroppo,
imboccato una strada straordinariamente simile a quella presa dagli Usa dopo quel lontano drammatico 11 settembre.
37
ECONOMIA
Tra sicurezza e autonomia
di Massimiliano Salini
Parlamentare europeo FI – PPE, componente commissione Industria
La sfida lanciata dal giovane austriaco
Maximillian Schrems a colossi come Facebook consente oggi di stabilire maggiori certezze e sicurezza nella gestione dei
dati sensibili. Secondo l’European centre
for international political economy, la
profonda incertezza normativa che
si è venuta a creare dopo la sentenza
Schrems di ottobre provocherebbe lo
stop totale a ogni trasferimento di dati
e a un taglio annuale dello 0,4% del Pil
europeo
Verso la fine degli anni Novanta, il Congresso degli Stati Uniti lavora per far passare una
nuova legge che espanda radicalmente il potere di sorveglianza sugli individui da parte
delle agenzie di intelligence: sullo sfondo di un
sempre più pervasivo controllo sulle nostre
esistenze si sviluppa la trama di un film decisamente riuscito, Nemico pubblico, con Gene
Hackman, Will Smith e Jon Voight.
Oggi, il controllo delle informazioni e dei
dati personali – d’interesse non soltanto per
ciascuno di noi ma anche per le grandi aziende, per lo più statunitensi – diventa ancora
più strategico. Così come in Nemico pubblico,
è sempre più forte la consapevolezza di ciascuno di noi che, utilizzando un computer,
siamo più o meno automaticamente monitorati, e ciò ha implicazioni sul piano della privacy e, quindi, dal punto di vista economico.
Ritorniamo per un attimo all’eloquio thriller
di Gene Hackman: “Il governo è culo e camicia con l’industria delle telecomunicazioni
fin dagli anni Quaranta, ha inquinato tutto:
può vedere il tuo conto in banca, i file del
tuo computer, la tua email, ascoltare le tue
telefonate; tutti i cavi, tutte le frequenze, più
tecnologia adoperi e più è facile per loro controllarti. Huxley e Orwell avevano visto giu38
sto, ci siamo arrivati”. Un film naturalmente
non basta a spiegare tutto, e dobbiamo essere capaci di andare oltre un certo complottismo spiccio, sapendo che la modernità offre
sempre, al tempo stesso, nuove opportunità
e nuove responsabilità. Una pellicola può
tuttavia lanciare un allarme, sollevare l’attenzione su una questione tanto importante
quanto sottovalutata.
Veniamo dunque alla realtà, calando le parole in contesti concreti. Pensiamo quindi
al Safe harbour e ad alcune sue applicazioni concrete: Orange France sta utilizzando i
servizi di cloud computing di Amazon US per
archiviazione dei dati. Affinché i dati personali dei clienti di Orange France possano essere trasferiti al di fuori dell’Ue, Amazon US
ha aderito al Safe harbour, che rappresenta
un’alternativa a un accordo contrattuale specifico tra le due società per quanto riguarda
il trattamento dei dati personali. Ancora: per
una società globale come Mastercard, con
sede negli Usa ma con un elevato numero
di clienti nell’Ue, non si può fare ricorso a
vincolanti norme d’impresa come di solito
avviene all’interno di un gruppo societario,
al fine di canalizzare la grande quantità di
dati personali coinvolti nelle operazioni. Il
regime di Safe harbour offre la flessibilità
che una tale organizzazione globale necessita per lo svolgimento di queste operazioni.
La sfida lanciata dal giovane austriaco
Maximillian Schrems a colossi come Facebook consente oggi di stabilire maggiori certezze e sicurezza nella gestione dei dati sensibili. Proviamo ancora una volta a superare non
solo i termini del Safe harbour ma anche del
Privacy shield. Da un lato, occorre prendere
atto di quanto la Rete e le nuove tecnologie
pervadano la nostra vita e impattino sul nostro sistema socioeconomico: si pensi che la
formiche 112 — marzo 2016
«La Cgue dovrà porsi il problema di
coniugare lo sviluppo economico e
tecnologico con la sicurezza delle
istituzioni, delle aziende e dei cittadini
europei, avendo il coraggio di
costruire un’apposita architettura
europea amica, ma autonoma
rispetto agli Usa »
profonda incertezza normativa, che si è venuta a creare dopo che la Corte di giustizia
dell’Unione europea (Cgue) ha annullato a
ottobre l’accordo Usa-Ue, inizia a penalizzare i flussi del commercio transatlantico e a
compromettere l’attività di migliaia di imprese italiane che fino a ieri potevano fare
affidamento su un accordo che, pur se insufficiente, assicurava una cornice giuridica
per i trasferimenti di dati a fini commerciali.
Un’assenza di certezza che secondo il think
tank European centre for international political economy provocherebbe lo stop totale a
ogni trasferimento di dati e a un taglio dello
0,4% del Pil europeo ogni anno.
Solitamente, è facile immagine che simili
stime siano rivalutate al rialzo. Ebbene, in
questo caso può forse essere il contrario e
lo sarà ancor di più in prospettiva. La nostra
personale interconnessione ne è la prova.
Per quanto tempo riusciremmo fare a meno
dei social network, del commercio online e delle
altre molteplici opportunità offerte dall’innovazione, a partire dalle App, in cambio
di pochi, miseri, dati personali? Senza tesi
preconcette, e ben al di là dell’approvazione
di questo o quel quadro normativo europeo,
sono questi i nodi centrali sui quali è doveroso interrogarsi.
D’ora in poi, non solo la Cgue, ma anche
Commissione, Parlamento e Consiglio dovranno porsi concretamente il problema di
coniugare lo sviluppo economico e tecnologico con la sicurezza delle istituzioni, delle
aziende e dei cittadini europei, avendo il coraggio – come già si cerca di fare per l’esplorazione dello spazio e la realizzazione di satelliti – di costruire un’apposita architettura
europea, efficiente e all’avanguardia, amica
ma autonoma rispetto agli Stati Uniti.
Chi scrive ritiene che sia sempre necessario mantenere la centralità della persona
umana in ogni sviluppo sociale, economico,
culturale e politico perché questo è il solo
modo, appunto, di garantire al pianeta un
futuro realmente umano.
Ecco allora che un mondo interamente digerito dagli algoritmi di Google, Amazon,
Facebook, Twitter e così via rappresenta
una preoccupazione difficilmente esorcizzabile. Eppure l’intera evoluzione dell’uomo ci insegna che, come accennavamo, la
storia porta con sé incomparabilmente più
benefici che limitazioni o difetti. È questa
la lezione anche di un grande intellettuale
del nostro tempo, Piero Melograni, di cui
bisognerebbe rileggere, a tal proposito, un
saggio illuminante come La modernità e i suoi
nemici. Un altro italiano ha scritto: “Si trova
questo nell’ordine delle cose, che mai non si
cerca fuggire uno inconveniente che non si
incorra in un altro”. Era il 1513 e l’autore è
Niccolò Machiavelli.
39
Mentori
Seriamente divertenti
di Enzo Argante
Presidente di Nuvolaverde
MATTEO UGGERI
Suona musica elettronica e sperimentale dal
1996 e lavora dal 2000
nel campo del cosiddetto eLearning o meglio
dell’innovazione didattica. In questo ramo è
stato grafico multimediale e poi a lungo project
manager al Politecnico di
Milano, dove nel 1999
si è laureato in Design
della comunicazione.
Con la Fondazione Politecnico di Milano è attivo
su progetti internazionali
di orientamento, risorse
didattiche aperte (Oer e
Mooc), competenze trasversali, learning objects
(Loms), accreditamento
e formazione docenti,
serious games e game
jam. Su commessa 
40
Provare l’ebbrezza di diventare premi
Nobel: non c’è bisogno di essere un
genio per capire il lavoro dei premi
Nobel. Giochi e simulazioni, basate sui
risultati dei premi assegnati, insegnano
e ispirano giocando.
Al limite del buon gusto? Darfur sta
morendo: una finestra sull’esperienza
dei 2,5 milioni di rifugiati nella regione
sudanese del Darfur. I giocatori gestiscono il campo profughi e lo difendono
dagli attacchi delle milizie Janjaweed.
Conoscere il genocidio in Darfur dove
hanno perso la vita 400mila persone.
Educazione alla sostenibilità. Sfida
climatica: nel gioco si diventa presidente delle nazioni europee e si affronta il
cambiamento climatico in maniera efficace, ma anche politica, per diventare
popolare quanto basta per rimanere in
carica.
Inquietante. La povertà è un gioco:
Ping mostra come è vivere al limite della povertà. I giocatori devono cercare
lavoro e riparo, avendo cura della loro
salute e delle relazioni sociali, per sfuggire alle grinfie della totale indigenza e
dell’abbandono.
Alcuni esempi di serious games,
dell’imparare giocando. Ma c’è di
più dietro questi espedienti, molto
di più. Una vera e propria rivoluzione
nei percorsi di apprendimento, anche
informale, formazione (formale), nella
scuola, nella comunicazione, esterna
e interna, soprattutto e ovviamente
nell’informazione. Le riscritte leggi del
cambiamento e dell’evoluzione digitale
della specie umana hanno una nuova –
indiscutibile – protagonista che agisce
sulle leve primarie: la parola d’ordine
è gamification. Letteramente ludicizzazione. E anche la pillola più amara va
giù! Nella convinzione – dimostrata a
più livelli – che il gioco può cambiare
regole e azioni nei processi di apprendimento rendendoli veloci e potentissimi. Non paragonabili ai tradizionali
percorsi. Se la gamification è efficace,
i ruoli tra docente e discente cambiano, se non addirittura si invertono, e i
processi proliferano in ambienti ibridi
e coinvolgenti. La cattedra c’è, ma
non si vede… È il miglior modo per
elaborare quelle competenze trasversali
che il mondo del lavoro e dell’impresa
reclama a gran voce. Vero e proprio
passepartout. Un imperativo. Spiega
Matteo Uggeri: “Nella didattica scolastica e universitaria, ma ancora di più
nel mondo della formazione aziendale,
gamification è entrato nel gergo degli
insegnanti scolastici e ancora di più
presso i responsabili delle risorse
umane nelle aziende: tutti vogliono
coinvolgere i discenti con dinamiche
ludiche dalle più banali (gare, concorsi)
a esperimenti di più alta complessità,
ad esempio giochi dove la componente
collaborativa permette anche di formare sulle cosiddette soft skill che tanto
mancano spesso a chi entra nel mondo
del lavoro”.
Si scrive gamification, dunque, si legge
serious games. Giocare per formare
alle abilità e quindi allo sviluppo delle
competenze e nello stesso tempo
gestire i dati prodotti. Questo vuol dire
“Il processo si chiama gamification e propone tra gli strumenti
più efficaci i serious games. Il digitale ci consegna un modo di conoscere,
approfondire e apprendere divertente e irriverente, giocoso
e competitivo, con tanto di classifiche e valutazioni. Ma soprattutto
riconosciuto – anche se informalmente – tra i più efficaci metodi
di studio, ricerca, aggiornamento. Con qualche colpo di sonno...”
anche valutare se questi processi stiano funzionando e vadano nella direzione giusta. “Le aziende hanno bisogno
di nuove idee per formare personale
stressato, poco motivato e recalcitrante. Scuola e università devono stare
al passo con la penetrazione rapida e
incontenibile dell’entertainment digitale
nella vita dei giovani (e non solo). Il
gioco, e il videogioco in particolare,
offre molte soluzioni e ha anche altri
vantaggi, ad esempio quello di rendere
più efficace il monitoraggio dell’apprendimento: se il giocatore-discente ha
portato a termine il gioco, se ha vinto,
se ha conseguito un punteggio, passato dei livelli, affrontato sfide, posso
saperlo, vederlo, misurarlo”.
In questo senso si definiscono anche
alcune criticità. “Il termine gamification
si presta anche a molti contenziosi.
Nella scuola è inteso più come un
modo per coinvolgere i ragazzi in dinamiche di gioco (si parla anche di game
based learning, in queste definizioni ci
si può perdere), e si allaccia spesso al
discorso della classe capovolta, cioè
gli studenti non apprendono le nozioni
nell’edificio scolastico, ma a casa e
poi sfruttano il tempo in classe per
collaborare in dinamiche di gruppo con
componenti ludiche. Usando anche il
digitale, in forma light, dai video in rete
alle lezioni in powerpoint o blenspace
preparate da loro stessi per i propri
pari. Nelle aziende invece è visto da un
lato come strumento di marketing, un
modo per formare i dipendenti, specialmente sulle soft skill o competenze
trasversali che altrimenti sfuggono. In
quel senso parlare di gamification può
perfino voler dire sconfinare anche nel
coaching”.
Si profilano altri fronti avveniristici:
per esempio le sconfinate praterie di
sviluppo che puntano con decisione e
rapidità alla realtà virtuale immersiva e
alla formazione aumentata. Altri mondi.
Da trattare con cura. Ci vogliono competenze: creare cultura di base, quindi
formare una nuova leadership. Matteo,
in Fondazione Politecnico di Milano, è
tra i promotori del progetto JamToday:
“Una rocambolesca e avventurosa
quadratura del cerchio: invitiamo
ragazzi di ogni età e profilo a sessioni
intensive di 48 ore in cui, dato un tema
(l’anno scorso era “Una vita più sana”)
realizzano i prototipi di serious games.
Videogiochi che stimolano l’apprendimento, realizzati imparando. Il formato,
derivato da quello delle hackaton e
delle game jam, si presta anche al
recruiting: nella game jam le aziende
possono incontrare i talenti che vorrebbero nella loro azienda”.
 del Miur ha lavorato
per anni sul portale
Scuola, in ospedale
come project manager
e interaction designer
per poi esplorare, anche
a livello internazionale,
le potenzialità della
tecnologia per i bambini
ospedalizzati.
Nel 2010 è tra i promotori di Ludus, uno dei
primi progetti internazionali sull’applicazione dei
giochi nei contesti didattici e aziendali. Nel 2015
organizza l’evento italiano del progetto europeo
JamToday al Museo della
Scienza e della tecnologia, durante la quale
ragazzi di università e
scuole hanno realizzato
dei videogiochi serious
sotto la guida di mentor
specializzati. Nel 2016
ha partecipato in qualità
di musicista e sound
designer all’audio desk
della Global game gam
di Milano, supportando
alcuni dei 350 partecipanti nella realizzazione
dell’audio dei propri
videogame e chiudendo
così il cerchio. Per ora
41
Œconomicus Quanto valgono
i crediti deteriorati?
di Giuseppe Pennisi
Economista e presidente
del board scientifico
del Centro studi ImpresaLavoro
Tema centrale del dibattito di
questi mesi tra Italia e Unione
europea è come trovare una
soluzione al problema dei crediti
deteriorati (circa 200 miliardi di
euro), che azzoppano il nostro
sistema bancario. Una soluzione
semplice si sarebbe potuta trovare
fino all’estate scorsa (come hanno
fatto gli altri partner europei),
facendo ricorso a interventi diretti
dello Stato prima del varo dei
regolamenti sull’unione bancaria
europea, peraltro monca della
garanzia sui risparmi in conto
corrente. Ma la linea dei governi
che si sono succeduti è che il
problema non esisteva in quanto il
nostro sistema era solido. Inoltre,
i margini di manovra per interventi
diretti erano, e sono, comunque
limitati a ragione della situazione
della nostra finanza pubblica.
Tant’è! La campana è suonata
quando ci si è accorti che il Monte
dei Paschi di Siena era prossimo
al tracollo e che piccole banche
locali, spesso a carattere cooperativo, erano sulla stessa china. Non
è questa la sede per ricostruire
la triste vicenda di amministrazioni che non si parlano (quando
alcune negoziano con l’Ue e altre
trattano i medesimi problemi
sul piano interno), di tentativi di
creare una bad bank per mettere
sul mercato i crediti deteriorati e
della complessa soluzione trovata,
e benedetta dalla Ue, di una
molteplicità di veicoli speciali per
tentare di alleggerire, ove non ri-
solvere, il fardello. Anche se quella
trovata non è ottimale, una soluzione doveva essere individuata.
Nell’ultimo fascicolo del Journal of
economic literature, due apprezzati economisti cinesi che lavorano
negli Usa, Heng Cheng e Wing
Suen, pubblicano una rassegna
di circa 300 saggi sul contagio di
crediti deteriorati sul resto del sistema: operano come un virus che
intacca il sistema creditizio sano
e fa cadere istituti come le pedine
di un domino. Sulla Ifm economic review, Claudia Buch e Linda
Goldberg lanciano un avvertimento
analogo. Uno strumento, quindi,
doveva pur trovarsi.
Per valutare la situazione occorre
chiedersi quanto valgano i crediti
deteriorati. In un Paese “normale”
con una giustizia civile efficiente,
in grado di risolvere speditamente
le controversie tra creditori (acquirenti dei deteriorati) e debitori,
potrebbero corrispondere alla
metà del valore nominale. In Italia,
tuttavia, il loro valore di mercato
effettivo è notevolmente inferiore.
Neil Unmack della Reuters traccia
due differenti scenari sull’ipotesi
che i deteriorati vengano impacchettati e venduti a chi opera in
finanza e li acquista con una leva
finanziaria per rivenderli gradualmente su un arco di sette anni. A
seconda della leva finanziaria, il
valore attuale si porrebbe sui 2539 centesimi per ciascun euro di
credito deteriorato.
Al di là delle considerazioni tecni-
che sulle stime di Unmack, il caso
solleva un ulteriore nodo politico
su cui non si è riflettuto in questi
mesi nei quali si tentava di trovare
una via d’uscita compatibile con i
regolamenti Ue ora in vigore.
Il valore dei crediti deteriorati, e
quindi di gran parte delle transazioni commerciali e finanziarie,
non è solo funzione delle capacità
gestionali degli istituti di credito e
di quelle di vigilanza della Banca
centrale europea e della Banca
d’Italia (ciascuna per la sua sfera
di competenza), quanto della
macchina giudiziaria. Essa si pone
tra le più urgenti riforme economiche di cui ha bisogno l’Italia.
43
ESTERI
Rivoluzione dei gelsomini,
cinque anni dopo
ESTERI
Tunisia, ultima chiamata
per la classe dirigente
di Leslie Campbell
Senior associate presso il National democratic institute di Washington
e Anna Mysliwicz
Senior program assistant presso il National democratic institute di Washington
Cinque anni dopo la rivoluzione dei gelsomini, i motori sociali ed economici devono ancora essere pienamente attivati.
Oltre all’instabilità politica, il tasso di
disoccupazione è cresciuto a dismisura,
raggiungendo complessivamente il 15%.
I recenti attacchi all’industria del turismo
e il reclutamento di giovani da parte dello
Stato islamico minacciano la capacità
statuale di proteggere i cittadini e di
creare un contesto favorevole agli investimenti internazionali. Una riforma seria
è necessaria. I leader politici hanno bisogno di dimostrare che la democrazia non
consiste solo in dibattiti in televisione o
in Parlamento, ma in un contributo-chiave
per la crescita inclusiva e per una piena
sicurezza
Gennaio è stato un mese di ricorrenze per la
Tunisia: cinque anni dalla rivolta cittadina
che ha rovesciato il regime di Ben Ali; due
anni dall’approvazione, con ampio consenso,
di una nuova Costituzione; un anno dall’entrata in carica del primo presidente e del
primo Parlamento della Tunisia liberamente
eletti secondo meccanismi trasparenti e credibili. La Tunisia è passata da essere una delle
dittature più dure del mondo arabo alla sua
più promettente democrazia, ma ora deve
mantenere le promesse della rivoluzione.
Il Paese che ha inaugurato la primavera araba presenta meno cicatrici rispetto ai suoi
vicini. Il terreno per il successo tunisino è
stato preparato anni, se non decadi, prima
della rivoluzione, attraverso processi istituzionali e di consenso politico. Data l’omogeneità etnico-­religiosa della Tunisia, ci sono
poche scissioni capaci di produrre un conflitto settario. Con il proprio codice sulle libertà
personali – redatto anche prima rispetto alla
46
costituzione del 1956 – il Paese ha avviato la
transizione con un società più inclusiva rispetto a quelli vicini. Dopo che Ben Ali ha
lasciato il Paese, la Tunisia ha impiegato diversi anni per sviluppare una Costituzione,
preferendo un processo deliberativo rappresentativo, piuttosto che elezioni rapide che
avrebbero esacerbato le differenze regionali
e la polarizzazione partitica. Nonostante le
frustrazioni di molti cittadini, questo lento
processo ha permesso un’ampia inclusione
nella stesura costituzionale. Le organizzazioni della società civile, i sindacati, i gruppi
femminili sono stati considerati partner importanti nel processo di transizione.
Negoziando la Costituzione, i leader politici
tunisini hanno generalmente evitato polarizzazioni, abbracciando il concetto di “né vincitori né vinti”. Questo spirito di compromesso
si è attivato ben prima dell’autoimmolazione di Mohamed Bouazizi del dicembre 2010.
Anni prima, i leader dei maggiori partiti di
opposizione – religiosi e laici – hanno iniziato a definire le linee-guida della Tunisia post
transizione. L’accordo prevedeva che ogni
futuro governo eletto garantisse la libertà religiosa, la sovranità popolare e la piena uguaglianza di genere. Così, mentre i legislatori
dibattevano appassionatamente circa la stesura della Costituzione, queste discussioni ne
determinavano la fondazione consensuale.
Durante le commemorazioni del 2016 per
l’anniversario della rivoluzione tunisina, ci
sono state dimostrazioni nelle regioni interne e nella capitale. Scatenate dalla morte di
un giovane disoccupato a Kasserine, sono
apparse sorprendentemente simili alle proteste del 2011. Cinque anni dopo la rivoluzione, i motori sociali ed economici devono
ancora essere pienamente attivati. Oltre
all’instabilità politica, il tasso di disoccupa-
formiche 112 — marzo 2016
«I leader eletti devono rispettare le
promesse della Costituzione e delle
proprie campagne elettorali, operando
in modo trasparente, mostrando di
ascoltare sinceramente gli elettori e
proponendo soluzioni concrete ai loro
bisogni »
zione è cresciuto a dismisura, raggiungendo
complessivamente il 15% che tra i giovani
arriva fino al 38%. I recenti attacchi all’industria del turismo e il reclutamento di giovani
da parte dello Stato islamico minacciano la
capacità statuale di proteggere i cittadini e
di creare un contesto favorevole agli investimenti internazionali. Ciò non significa che
la democrazia tunisina abbia fallito. Tuttavia, mentre la transizione ha avuto successo sul piano politico, la Tunisia deve ancora
percorrere una lunga strada per risolvere i
problemi radicati sul piano istituzionale ed
economico. Una riforma seria è necessaria
per assicurare che le istituzioni operino democraticamente e apportino miglioramenti
tangibili alla vita dei cittadini.
Economicamente, la Tunisia deve riformare
il proprio assetto regolamentare a promozione degli investimenti, diversificare l’economia riducendo, così, la dipendenza dal
turismo e promuovere risposte più efficienti
al terrorismo. Il sistema educativo deve preparare i giovani tunisini a competere meglio
nel mercato globale. I legislatori devono definire l’impianto per i decisori regionali e
locali, per i propri mandati e per il proprio
budget. Ma soprattutto, la Tunisia deve affrontare la corruzione burocratico-amministrativa che, attualmente, tocca ogni aspetto
della vita dei cittadini.
Queste riforme non saranno facili. Richiederanno una seria volontà politica, considerando l’accentramento dei poteri economici
e ministeriali. La comunità internazionale
dovrebbe supportare la Tunisia nell’implementazione di riforme profonde e, a volte,
dolorose, ma anche fornire un’assistenza finanziaria che costituisca la rete di sicurezza
per gli sconvolgimenti conseguenti. I sostenitori della Tunisia hanno compiuto passi
importanti in questo senso – dalla rivoluzione, l’Unione europea ha sborsato più di 800
milioni in sovvenzioni – ma l’assistenza deve
proseguire affinché la transizione proceda.
Tra le riforme economiche e istituzionali, i
tunisini devono continuare a lavorare per
il consolidamento della loro nuova democrazia. I leader eletti devono ora rispettare
la promesse della Costituzione e delle proprie campagne elettorali, operando in modo
trasparente, mostrando di ascoltare sinceramente gli elettori e proponendo soluzioni
concrete ai loro bisogni. Se lo faranno, molte
organizzazioni internazionali sosterranno
la società civile per lo sviluppo di strumenti
idonei alla regola democratica. Al di là delle
competenze pratiche relative alla sensibilizzazione degli elettori e al monitoraggio
delle elezioni, tali programmi servono ad accogliere la Tunisia nella comunità mondiale
delle democrazie e a mantenerla negli standard internazionali.
I cittadini tunisini hanno finora conservato la fiducia nei confronti di un processo di
transizione a singhiozzo e hanno resistito
alla recessione, in cambio della promessa di
vera libertà. Nonostante la frustrazione per
le contingenze economiche e per la mancanza di sicurezza, i tunisini sono orgogliosi del
progresso politico del proprio Paese. Ora i
loro leader hanno bisogno di dimostrare che
la democrazia non consiste solo in dibattiti in televisione o in Parlamento, ma in un
contributo-chiave per la crescita inclusiva e
per una piena sicurezza. La comunità internazionale deve continuare a supportare le
aspirazioni dei cittadini tunisini e di coloro
che, in tutto il mondo, guardano alla Tunisia
e a essa si ispirano.
Traduzione di Stefano Pioppi
47
ESTERI
I confini pericolosi
e il ruolo dell’Europa
di Riccardo Redaelli
Direttore del Centro di ricerche sul sistema sud e Mediterraneo
allargato dell’Università Cattolica di Milano
Vi sono forze che tentano con ogni mezzo
di colpire la Tunisia. Primi fra tutti i gruppi
estremisti islamici. Dalla Tunisia sono
partiti almeno 6mila giovani per unirsi alle
milizie del califfato, spingendo numerosi jihadisti a rifluire verso la regione.
Un ritorno estremamente pericoloso. Il
governo ha creato un “muro”, una barriera
di sabbia, fossati, postazioni di controllo
e sorveglianza verso la Libia. Dall’Europa
è evidente un ritardo nella pianificazione
di un pacchetto di assistenza organico e
complessivo. È un errore strategico, dato
che è molto meno difficile agire prima
che la situazione degeneri, piuttosto che
intervenire nel marasma della frammentazione e della violenza, come ci insegnano
la Libia e la Siria
Nello sconfortante scenario geopolitico seguito alle primavere arabe che vede sprofondare tutto il Medio Oriente in un gorgo di
guerre civili, settarismo, terrorismo e frammentazione statuale, resiste a fatica l’unica
transizione non disastrosa di questi anni:
quella della Tunisia. Il solo Paese arabo uscito dal cambiamento di regime con un percorso accidentato, ma non catastrofico, una
sorta di piccola gemma sbocciata nel lungo
inverno dello scontento arabo.
L’unica realtà lungo la sponda sud del Mediterraneo i cui le forze politiche islamiste
(capeggiate da Ennahda) e i movimenti che
compongono il rassemblement secolare sono
stati capaci di raggiungere un difficile compromesso politico – dopo aver danzato a
lungo sull’orlo della rottura totale – che ha
dato vita nel 2014 a una Costituzione estremamente avanzata. L’attuale governo di
coalizione, guidato dal partito laico di maggioranza Nidaa Tunis, si trova tuttavia a fron48
teggiare ora crescenti difficoltà economiche
e relative alla sicurezza.
Proprio perché il compromesso fra gli esponenti dell’islamismo politico e le forze secolari rappresenta un’eccezione positiva in
un panorama contraddistinto dalla polarizzazione e dal settarismo, vi sono forze che
tentano con ogni mezzo di colpire la Tunisia.
Primi fra tutti i gruppi estremisti islamici,
in particolare Ansar al-Sharia e i movimenti
jihadisti che ora guardano a Daesh. In questi
anni, le loro cellule hanno assassinato esponenti liberali e attaccato chi si opponeva alla
loro visione violenta e dogmatica dell’islam.
Dalla Tunisia sono partiti almeno 6mila
giovani per unirsi alle milizie del califfato
jihadista, facendo di quello tunisino uno dei
contingenti più numerosi (in rapporto percentuale alla popolazione). E potenzialmente più pericolosi, dato che il deterioramento
dello scenario di sicurezza in Libia si unisce
al cattivo andamento delle operazioni militari nel Levante, spingendo numerosi jihadisti a rifluire verso la regione. Un ritorno
estremamente pericoloso, che permette la
creazione di nuove cellule attorno a questi
returnees jihadists, i quali sfruttano la loro
esperienza e il loro ascendente nei confronti
dei giovani tunisini vicini all’islamismo radicale per minare la situazione politica.
Aiutati in questo da esponenti delle formazioni salafite, contrarie a parole alla violenza, anche se molto meno nei fatti. È noto
come dietro alle proteste e agli scontri di
queste settimane, generati dall’esasperazione popolare per la disastrosa situazione economica, vi sia una parte della galassia islamista: salafiti-jihadisti, frange di Ennahda ostili
al compromesso, giovani estremizzati dalle
campagne di radicalizzazione, vere e proprie cellule terroristiche che si rifanno ora
formiche 112 — marzo 2016
«C’è chi beneficia dell’anarchia in
Libia per colpire dove la Tunisia è più
vulnerabile. L’obiettivo è minare il
pilastro principale dell’economia
tunisina: il turismo internazionale »
ad al-Qaeda ora a Daesh. Queste ultime organizzazioni, in particolare, beneficiano dell’anarchia in Libia per colpire dove la Tunisia è
più vulnerabile, vale a dire attaccando i turisti stranieri. L’obiettivo è minare il pilastro
principale dell’economia tunisina (assieme
alle rimesse dei migranti), ossia il turismo
internazionale. Una ricerca del tanto peggio
tanto meglio, contro il quale il governo ha
potuto fare ben poco: bastano infatti un paio
di sanguinosi attacchi terroristici – come
quelli del 2015 al Museo del Bardo o nel golfo di Hammamet – per svuotare per lungo
tempo le spiagge e gli hotel. Aggravando così
la già drammatica situazione economica e
distruggendo decine di migliaia di posti di
lavoro, producendo una massa crescente di
giovani disoccupati, delusi, arrabbiati e più
facilmente radicalizzabili.
Per questo il governo ha creato un muro, ossia una barriera di sabbia, fossati, postazioni
di controllo e sorveglianza verso la Libia. L’obiettivo è proteggere meglio il Paese dal contagio jihadista, dovesse precipitare ulteriormente lo scenario di sicurezza dell’instabile
ingombrante vicino. Anche se sono evidenti
altre motivazioni: rendere più difficile lo
spostamento di libici in Tunisia – una presenza sgradita e in continuo aumento – così
come offrire un’immagine di sicurezza tanto
all’interno quanto all’esterno del Paese. Accusato di essere sempre un passo indietro
rispetto alle forze terroristiche, il governo
cerca così di mostrarsi proattivo e di saper
gestire l’emergenza. Tuttavia, è difficile tener lontano le forze jihadiste quando a migliaia hanno il passaporto tunisino o quando
vi sono movimenti che dall’interno lavorano
per lo scenario peggiore. Ma soprattutto, la
partita decisiva che la Tunisia sta giocando
si può risolvere solo su un altro livello, ossia
affrontando la questione economico-sociale,
la mancanza di lavoro, di prospettive, di
case. È la percezione di essere intrappolati
in un labirinto, di veder calpestata la propria
dignità che spinge molti tunisini a sentirsi
traditi dalla rivoluzione del 2011 e a cedere
alla prospettiva della rabbia e della violenza.
Una partita che Tunisi non può giocare né
tantomeno vincere da sola, alla luce della
difficile congiuntura economica, della crescente massa di disoccupati (quasi 1 milione su meno di 11 milioni di abitanti), della
fuga dei turisti stranieri e degli investitori.
Dall’Europa sono giunti aiuti per lo più in
forma bilaterale, ma è evidente un ritardo
nella pianificazione di un pacchetto di assistenza organico e complessivo, che sostenga
il Paese a livello tanto economico quanto
di sicurezza.
Un po’ per la nostra crisi economica, un po’
perché vi sono altre aree del Medio Oriente
che drenano la nostra attenzione, la Tunisia
sembra scivolata in secondo piano. È un errore strategico, dato che è molto meno difficile agire prima che la situazione degeneri,
piuttosto che intervenire nel marasma della
frammentazione e della violenza, come ci insegnano la Libia e la Siria. Tuttavia, smarrita
com’è nelle proprie faide interne e ossessionata dagli “zero virgola” dei propri bilanci,
non abbiamo dubbi che l’Unione europea
non perderà questa nuova occasione per dimostrare la propria irrilevanza geostrategica
e la propria miopia.
49
ESTERI
Perché la primavera
non si trasformi in inverno
di Karima Moual
Giornalista
“La Tunisia è uno Stato civile basato sulla
cittadinanza, la volontà popolare e lo
stato di diritto”. Queste parole, se per noi
sono già assodate, nel contesto tunisino
sono invece rivoluzionarie. Per la prima
volta in un Paese musulmano è stata
approvata la libertà di coscienza. Un atto
assolutamente proibito dal diritto islamico tradizionale. Una storia tunisina che,
come dimostra il testo costituzionale,
potrà essere d’ispirazione anche per altri
Paesi nell’area, semplicemente perché
è autentica, coraggiosa e dotata di una
visione politica
Nella sponda sud a noi più vicina c’è un
Paese che, con umiltà e coraggio, avanza. È
la Repubblica tunisina. Un Paese che prova a
cambiare la pagina del suo destino. Il Paese
dei gelsomini, dalla popolazione con un carattere così mite da aver sorpreso il mondo
quando, a testa alta, rovesciò un regime di
ferro. Era il 2011, l’anno in cui proprio dalla
Tunisia partì la ribellione accompagnata da
quel sentimento di consapevolezza di voler
essere trattati come cittadini, e non più da
sudditi di regimi tirannici in piedi da decenni. Un sentimento contagioso, che si espanse a macchia d’olio dal Nord Africa al Medio
Oriente, divorando despoti divenuti quasi
immortali nell’immaginario, oltre che nella
loro gestione del potere.
Ieri, quel sentimento che si presentò nelle
piazze in carne e ossa fu battezzato primavera araba. Oggi è considerato già “inverno
arabo”, per chi dimentica che le rivoluzioni
hanno bisogno non solo dei loro uomini e
donne, ma anche del loro tempo e delle loro
idee per svilupparne i frutti. E soprattutto
del gioco della democrazia, che non è una
scienza esatta. La Tunisia è, in questo senso,
50
il miglior laboratorio di studio di questo processo storico, che ha bisogno di essere seguito, studiato, analizzato con la dovuta precisione proprio per la sua complessità che non
permette semplificazioni e analisi a caldo.
Perciò, quello che dobbiamo tenere a mente
quando parliamo della Tunisia è che si tratta di un Paese in continuo movimento e trasformazione, e dai processi sorprendenti per
la loro velocità anche nel cambiamento. Un
cantiere aperto, insomma.
I cinque anni passati da quando i tunisini
hanno chiesto a Ben Ali di andarsene, con la
conseguente promulgazione della nuova Costituzione nel 2014, sono il perfetto termometro di analisi del Paese che ha dimostrato
di avere una tenacia senza eguali – in quell’area geografica – nel perseguire la propria
strada costruendosi un impianto giuridico
moderno, tanto da diventare un fiore all’occhiello per l’intero mondo arabo, in barba
alle minacce del terrorismo islamico e a una
economia che fatica a rialzarsi.
Sorprenderà molto, infatti, rileggere la nuova Costituzione tunisina come una delle più
avanzate del mondo arabo. Moderna e progressista, è nata sotto un governo islamista
come Ennahda grazie al ruolo della democrazia, all’attivismo della società civile e
alla politica tunisina. Insieme sono riusciti a
trovare il giusto compromesso per offrire ai
cittadini una carta costituzionale votata da
ben 200 sì, dove i loro diritti e doveri possano farli sentire tutelati e non sottomessi.
Nero su bianco, il patto con i tunisini è stato
siglato nel momento in cui sono stati dichiarati nella Carta – dove finalmente un Paese
arabo e musulmano toglie ogni ambiguità –
la libertà di credo e di coscienza, il divieto di
accusa di apostasia, la libertà d’espressione,
di stampa e di edizione, d’associazionismo e
formiche 112 — marzo 2016
«Le rivoluzioni hanno bisogno non
solo di uomini e donne, ma anche del
loro tempo e delle loro idee per
svilupparne i frutti »
di sciopero, l’uguaglianza di diritti e doveri
tra uomo e donna e le pari opportunità all’interno degli organi elettivi. La sintesi di una
vera rivoluzione che questo Paese ha portato
avanti con grande forza, ribadendo: “La Tunisia è uno Stato civile basato sulla cittadinanza, la volontà popolare e lo stato di diritto”.
Queste parole, se per noi sono già assodate,
in tale contesto sono invece rivoluzionarie.
Si pensi che, ad esempio, per la prima volta
in un Paese musulmano è stata approvata la
libertà di coscienza; in altri termini, significa che è consentito rinnegare la propria religione. Un atto assolutamente proibito dal
diritto islamico tradizionale. Ma non solo. La
nuova Costituzione mette a fuoco anche il
ruolo della donna nella società, riposizionandola con l’articolo 46 alla pari con l’uomo,
e anche qui, senza cadere in ipocriti giochi
di parole come invece alcuni Stati islamici
tendono a fare. Di fatto, questi ultimi limitano la parità tra uomo e donna attraverso
interpretazioni religiose misogine ormai
superate dal buon senso e dalla contemporaneità del ruolo della donna nella società
(basti pensare al suo ruolo da protagonista
nello sviluppo economico del proprio Paese).
Un tassello di rottura certamente rivoluzionario, in questo senso, è la regolamentazione
dell’eredità. Tema intoccabile per gli uomini
musulmani. Ma con la nuova Costituzione
tunisina non è più un tabù inviolabile. Con
la parità, se prima l’eredità regolata dalla
sharia assegnava una quota dimezzata, la
musica adesso cambia, e non ci sono più ragioni valide per giustificare il dimezzamento
quando la donna moderna musulmana è a
tutti gli effetti anche un motore nell’economia e non un soggetto passivo in attesa di essere mantenuta dall’uomo. Un’iniziativa che
ha dato l’input anche al Marocco, che inizia
a discuterne per mettere mano a una legge
ormai superata.
Per questo, ciò che sta avvenendo a poche
miglia dalle nostre coste è qualcosa di eccezionale e storico, perché, con fatica e infiniti
ostacoli, dei cittadini liberati stanno cercando con grande volontà e tenacia di costruire
di nuovo la loro storia nel mondo. Una storia,
come dimostra il testo costituzionale tunisino, che potrà essere d’ispirazione anche per
altri Paesi nell’area, semplicemente perché è
autentica, coraggiosa, e dotata di una visione
politica. E noi dobbiamo seguirla, sostenerla e provare a raccontare la sua complessità
senza avere fretta di darle subito un titolo.
La primavera araba non può essere già liquidata come un inverno. È una stagione lunga,
piena di luci e ombre ma che ha bisogno del
suo tempo, e noi abbiamo il dovere di concederglielo.
51
ESTERI
Senza un piano Marshall
di Carlo Panella
Giornalista
La Tunisia è il Paese che ha dato il via alle
primavere arabe e anche quello che ne è
uscito nel modo migliore. Non tanto per la
sua capacità attuale di leadership politica,
ma per l’eredità delle strutture costituzionali e di una forma di Stato – e società
– disegnata negli anni 50 dal leader della
lotta per l’indipendenza, Habib Bourghiba.
Sono passati cinque anni e la Tunisia è ferma, se non addirittura arretrata dal punto
di vista economico. C’è una società disorientata, con una leadership politica tutto
sommato apprezzabile ma estremamente
litigiosa al suo interno e molto inconcludente. E come se non bastasse, il quadro
economico è assolutamente disastroso.
È evidente che la Tunisia, non avendo un
processo di accumulazione che gli permetta di fare investimenti – se non in piccola
parte – non solo ha bisogno, ma in qualche
modo merita una specie di piano Marshall
La Tunisia è il Paese che ha dato il via alle primavere arabe e anche quello che ne è uscito
in modo migliore. Non tanto per la sua capacità attuale di leadership politica, ma per l’eredità delle strutture costituzionali e di una
forma di Stato – e società – disegnata negli
anni 50 dal leader della lotta per l’indipendenza, Habib Bourghiba.
Dopo aver guidato la lotta anticoloniale e antifrancese, nel 1956 il laico Bourghiba fece
della Tunisia un Paese rispettoso dei principi
della Sharia, ma capace di averne un’interpretazione laica. Il suo colpo di genio fu aver
disegnato una carta costituzionale con parità
effettiva dei diritti della donna sull’uomo e
aver delineato la famiglia come un’interpretazione dell’islam. Tutto ciò ha dato i suoi
frutti e con il passare delle generazioni si è
costruita una vera e propria apertura del po52
polo tunisino verso i principi della democrazia, che è entrata in contrasto con il regime
gestito dal successore di Bourghiba, Ben Ali.
Un regime corrotto, ma soprattutto inefficace e incapace di fare riforme in un Paese
che, rispetto agli altri Paesi arabi, non ha la
minima risorsa energetica e deve quindi progredire e andare avanti con investimenti e
cercando di creare ricchezza.
Come in Egitto, anche in Tunisia la primavera araba ha avuto la capacità di distruggere
il regime preesistente, ma nessuna capacità
di costruire una leadership alternativa. È stato
il vecchio quadro politico a gestire la forza
del movimento dei gelsomini. In Tunisia,
per fortuna, il quadro politico non era rappresentato dall’Esercito – semmai dai servizi
segreti – ma da una tradizione politica laica
e un mondo islamico illuminato e aperto,
che ha disegnato un percorso tollerabile. Ma
tutto ciò in una situazione di estrema conflittualità sociale. Si è perso del tempo; la classe
politica nuova – ma in realtà vecchia – si è
messa a discutere della riforma della Costituzione senza affrontare da subito il tema
della rinascita del Paese e dell’economia.
Sono passati cinque anni e la Tunisia è ferma, se non addirittura arretrata, dal punto
di vista economico. C’è una società tunisina
disorientata, con una leadership politica tutto
sommato apprezzabile ma estremamente litigiosa al suo interno e molto inconcludente.
E, come se non bastasse, il quadro economico è assolutamente disastroso.
Il tutto in un Paese che ha avuto una tradizione millenaria di radicalismi e fondamentalismo islamico. Bisogna sapere e ricordarsi
– cosa che stranamente i giornali non dicono
mai – che Qayrawan in particolare e la stessa
Djerba sono state sin da pochi decenni dopo
la morte di Maometto la sede dei kharigiti
formiche 112 — marzo 2016
«La Tunisia ha possibilità di sviluppo
basate essenzialmente sul turismo e,
in parte, nell’agricoltura. Ci sarebbe
bisogno di un piano, di una
progettazione complessiva
d’intervento sull’economia guidata
dall’esterno »
(seguaci della setta islamica sorta nel 657
d.C. Nella storia sono ricordati per le loro
ribellioni sanguinose sotto gli Omayyadi e i
primi Abbasidi e per la loro influenza nello
sviluppo di idee teologiche e dogmi, ndr) e
di alcune sette musulmane fondamentaliste
ed estremiste. Il contesto sociale e la povertà
dilagante, ma soprattutto l’inconcludenza di
prospettive politiche e di gestione del governo hanno spinto molti tunisini – soprattutto
quelli che abitano nella dorsale montagnosa
nella parte occidentale del Paese, ai confini
con l’Algeria – verso una situazione di radicalismo estremamente forte.
Grazie alle riforme e all’impostazione data
da Burghiba, la popolazione tunisina è molto scolarizzata, ma senza nessuna possibilità di sviluppo; si aggiunga poi il fatto che la
presenza dei Fratelli musulmani dentro la
compagine governativa ha indebolito molto
gli apparati dello Stato – anche se i Fratelli
musulmani tunisini sono tra i più moderati
– come si è visto nella dinamica dell’attentato al Bardo e a Susa, con uno sparatore che
per mezz’ora è riuscito ad agire indisturbato.
La stessa dinamica dell’attentato all’autobus
della Guardia presidenziale, quindi il fior
fiore dell’apparato di sicurezza della Tunisia
ha dimostrato che c’è un’insipienza e un’incapacità di funzionamento dell’apparato repressivo dello Stato che ha delle chiare origini politiche.
In tutto ciò, si innesta il ruolo dell’Europa. È
evidente che la Tunisia, non avendo un processo di accumulazione che gli permetta di
fare investimenti – se non in piccola parte
– non solo ha bisogno, ma in qualche modo
merita una specie di piano Marshall.
L’Europa avrebbe dovuto avviare un progetto
di investimenti strutturali nel Paese. Sarebbe
costato pochi miliardi di euro e avrebbe tolto
quegli elementi di instabilità – non determinanti ma sicuramente importanti – costituiti
dalla disoccupazione e dalla fame.
L’Europa ha promesso e non ha fatto. Il risultato è che il Paese risulta essere oggi ingovernato. Nelle zone sud-orientali le proteste
continuano a scoppiare e le risposte sono
assolutamente inadeguate al bisogno. Nell’ignavia dell’Europa e nell’insufficienza di risposta delle forze politiche tunisine, si è creata una miscela perfetta per il proselitismo
dell’Isis che, infatti, conta alcune migliaia di
giovani tunisini tra i suoi miliziani. È cosa
nota il fatto che la Tunisia sia il Paese da cui
provengono più foreign fighters.
Anche da parte degli Stati Uniti non c’è una
comprensione reale del problema. La posizione Usa non è solamente espressione di un
abbandono dell’interventismo storico americano nei confronti del mondo – che è una
scelta possibile – ma è caratterizzata da una
definizione della realtà secondo uno schema
interpretativo proprio, che relega il fenomeno Isis a quello di un’attività criminale che
nulla ha a che vedere con l’islam. Il recente
stanziamento di 142 milioni non è che un’inezia. Così come lo è la decisione italiana di
aprire al commercio la produzione dell’olio
tunisino.
La Tunisia ha possibilità di sviluppo basate
essenzialmente sul turismo e, in parte, nell’agricoltura. Ci sarebbe bisogno di un piano, di
una progettazione complessiva d’intervento sull’economia, guidata dall’esterno e che
metta a disposizione la pianificazione degli
interventi sul piano delle opere pubbliche,
per l’ammodernamento dell’agricoltura e
degli impianti di alcune piccole fabbriche di
trasformazione. Tutto ciò è chiaro, evidente e
ben noto ma, semplicemente, non si fa.
53
ESTERI
Un modello economico
da riformare
di Imen Ben Mohamed
Esponente di Ennahda e membro del Parlamento tunisino
La riforma del modello economico ereditato dalla dittatura per garantire una
giustizia sociale è una priorità per la Tunisia: il paradigma attuale ha causato un
grave divario regionale tra le zone interne
e quelle costiere del Paese. Tale cambiamento dovrà avvenire con un pacchetto di
riforme: dalle infrastrutture alle riforme
istituzionali e amministrative, arrivando
a quelle economiche e finanziarie che
privilegino le regioni svantaggiate
Parlare della Tunisia è come parlare dell’ultima speranza di un vero processo di democratizzazione. Dopo la rivoluzione, la capacità
della classe politica e della società civile di
scegliere la via del dialogo come alternativa alla violenza per uscire dalle crisi politiche, ha fatto sì che la Tunisia meritasse il
premio Nobel per la pace, un vero esempio
di brillante percorso di democratizzazione.
Ennahda, Partito della rinascita (formazione democratica di ispirazione islamica, una
sorta di Democrazia cristiana), ha avuto – e
sta avendo tuttora – un ruolo fondamentale per la stabilizzazione del Paese, grazie sia
alla sua flessibilità politica e capacità di fare
grandi compromessi sia alla visione strategica per il futuro democratico della Tunisia. Il
partito Ennahda ha sempre sostenuto la formazione di un governo di unità nazionale,
già nel 2011. Dopo l’assassinio nel 2013 di
Mohamed Brahmi, deputato e leader politico, ha lasciato il potere per evitare che si
acuisse una forte polarizzazione politica e
ideologica. Alle presidenziali del 2014 ha rinunciato a presentare un proprio candidato,
accettando di entrare nel governo di Nidaa
Tunis, l’attuale partito di maggioranza, insieme ad altri due partiti, con una partecipazione simbolica che non rispecchia il suo peso
54
politico nel Parlamento e nella società; una
scelta politica per dare un maggior supporto
al governo chiamato ad affrontare grandi sfide economiche e di sicurezza.
La Tunisia ha concluso il suo processo di transizione politica ma ha ancora in corso una
transizione economica e sociale, un percorso
difficile visto il vento che tira nella regione
sia a livello economico sia di sicurezza; il
riferimento qui è al pericolo del terrorismo
che non risparmia nessun Paese nel Mediterraneo: dalla Francia alla Turchia, dal Vicino
Oriente alla Tunisia, colpita proprio perché
rappresenta una minaccia per l’esistenza
e l’espansione di questi gruppi terroristici.
Oggi sono già cinque anni dalla rivoluzione
dei gelsomini. Molto è stato fatto e molto è
ancora da fare. Le sfide sono diverse e le priorità sono cambiate. Non si può parlare di
una vera democrazia senza uno sviluppo economico. Il processo politico e la garanzia dei
diritti umani sono importanti, sono le basi
solide per un vero sviluppo, ma la dignità
dell’uomo, la parola simbolo della rivoluzione, è anche una dignità economica e sociale.
La riforma del modello economico ereditato
dalla dittatura per garantire una giustizia sociale è una priorità per la Tunisia: il paradigma attuale ha causato un grave divario regionale tra le zone interne e quelle costiere del
Paese. Tale cambiamento dovrà avvenire con
un pacchetto di riforme: dalle infrastrutture
alle riforme istituzionali e amministrative,
arrivando a quelle economiche e finanziarie
che privilegino le regioni svantaggiate. Il codice degli investimenti che prevede vantaggi
fiscali per incentivare gli investitori tunisini
e stranieri è ora in discussione al Parlamento.
Ci sono poi le riforme bancarie, la legge del
partenariato pubblico-privato, la riforma del
settore privato, che secondo la nostra visione
formiche 112 — marzo 2016
«Il successo del modello democratico
in Tunisia, la stabilità in Algeria e
soprattutto la riuscita della soluzione
politico-diplomatica in Libia
aiuterebbero molto la stabilità nella
regione e faciliterebbero sicuramente
la lotta contro il terrorismo »
rappresenta la priorità e la fonte per un vero
sviluppo economico, l’apertura del mercato
tunisino, il rafforzamento della cooperazione
economica con l’Europa, ma anche la diversificazione dei partner economici con Africa,
Stati Uniti, Asia e i vari Paesi arabi.
Queste riforme economiche rientrano anche
nella strategia che sta adottando la Tunisia
contro il terrorismo. Come altri Paesi della
regione, è entrata nella lotta globale contro
questa minaccia una sfida non solo esterna ma anche interna. La strategia ha come
obiettivo di breve periodo la lotta armata e
i vari interventi militari e di polizia contro
le cellule terroristiche presenti al confine
con l’Algeria e la Libia. Ci sono poi le misure
adottate per prevenire eventuali infiltrazioni terroristiche, tra cui il sistema elettronico
per il controllo delle frontiere con la Libia, il
filo spinato e i fossi scavati lungo il confine
per bloccare anche la rete di contrabbando,
spesso legata proprio al terrorismo. Importante anche la cooperazione a livello militare e di intelligence con l’Ue – soprattutto Italia
e Francia – e con Paesi vicini come l’Algeria.
Uno sviluppo economico assente e la povertà hanno avuto come conseguenza principale la radicalizzazione di tanti giovani che,
spinti dalla disperazione, si arruolano con i
gruppi terroristici in cambio di denaro. Contro un’ideologia estranea e violenta non può
mancare la lotta culturale, fatta di attività
artistiche, sportive e religiose, con un’interpretazione dell’islam moderna e aperta
che, come ha fatto nel tempo, contribuisca
alla modernizzazione della società tunisina
e rappresenti l’antidoto all’ideologia terroristica. Le sfide sono molte e la responsabilità
politica è condivisa da tutti: partiti politici e
società civile. Il ruolo che ha Ennahda, essendo l’unico partito forte e stabile sulla scena
politica dopo la crisi di Nidaa Tunis, è molto
importante.
La Tunisia ha bisogno più che mai di un vero
piano di sostegno economico, una specie
di piano Marshall. Investire realmente nel
modello democratico non può essere solo
un investimento politico, ma deve essere soprattutto un vero investimento economico,
che non può avvenire senza il sostegno dei
nostri partner europei con i quali condividiamo la stessa storia e un futuro comune.
Il destino della sponda nord del Mediterraneo è legato al destino di quella sud, il successo del modello democratico in Tunisia, la
stabilità in Algeria e soprattutto la riuscita
della soluzione politico-diplomatica in Libia
aiuterebbero molto la stabilità nella regione
e faciliterebbero sicuramente la lotta contro
il terrorismo che sta minacciando il nostro
mare. Molti sono i campi di collaborazione
con l’Italia, ma c’è una priorità comune che
minaccia la nostra reciproca stabilità: la Libia. Per la soluzione della crisi libica, la leadership Italiana della comunità internazionale e la sua cooperazione con la Tunisia sono
elementi fondamentali.
55
ESTERI
Una politica lontana
dalla piazza
di Ouejdane Mejri
Fondatrice e presidente dell’associazione Pontes dei tunisini in Italia
La descrizione della società civile tunisina
è quella di un Paese arabo-musulmano che
ha scelto di aderire a valori di rispetto e di
libertà, di dignità e opportunità per tutti. La
società civile è oggi la voce della lotta per i
diritti, è l’azione per agire nelle realtà educative, sociali, sanitarie ed economiche. La
sua forza risiede nella vicinanza alle cose
concrete, nell’essere fatta di quei cittadini
che hanno bisogno d’azione. D’altra parte,
l’azione politica negli ultimi cinque anni si
è confinata di nuovo nei palazzi. I cittadini
sono invece rimasti nella piazza, nelle città
e nei villaggi. Oggi sono questi gruppi che
detengono la maggiore comprensione di ciò
che è la Tunisia
Ho sempre creduto profondamente che per
la Tunisia esistesse una via d’uscita. L’ho creduto fin dal gennaio 2011, quando ancora
non si poteva sapere se la dittatura sarebbe
caduta sotto la pressione popolare. Uno spiraglio per quello Stato che faceva crescere i
propri figli offrendo loro una scolarizzazione
gratuita e prolungata, ma che aveva puntualmente deluso le aspettative in termini di occupazione e dignità del lavoro.
Ci ho creduto, non per l’entusiasmo del momento né per l’ottimismo che procura il sentirsi liberi per la prima volta nella propria
vita. Anzi, ero consapevole che il viaggio sarebbe stato alquanto lungo e difficile. Questa
convinzione portava dentro di sé una scelta
forte, per me e per quelli che volevano pensare, veicolare e attivare un percorso di cambiamento in Tunisia. L’impegno all’interno
dei partiti politici non sarebbe stato un cammino efficace ed efficiente, i nostri sforzi dovevano essere impegnati in maniera più operativa. La via da seguire era all’interno della
società civile. Una parola che vuol dire tanto,
56
e in alcuni contesti non vuol dire niente. Infatti, la stessa dittatura di Ben Ali se ne era
appropriata per decenni, strumentalizzando
la presunta azione civica delle associazioni
del partito unico al potere.
La distanza che la maggior parte dei giovani
tunisini ha messo tra sé e i partiti politici potrebbe essere esplorata secondo varie chiavi
di lettura. Innanzitutto, quella della diffidenza da una struttura politica e le sue istituzioni, che per anni sono stati usati per alimentare un regime dittatoriale subdolo e feroce.
Una seconda ragione riguarda l’occupazione
dello spazio politico da parte di tutti quei
partiti che la generazione dei nostri padri
aveva sognato di creare a partire dalla terra
d’esilio o dalle prigioni della Tunisia. Una generazione che ha reclamato la sua legittimazione nell’occupare l’arena politica – dalla sinistra comunista alla destra laica o islamista,
passando per i moderati del centro – dopo
gli anni passati nell’opposizione alla dittatura. Migliaia di tunisine e tunisini, da tutte le
regioni del Paese e dall’estero, hanno scelto
come me la via dell’azione civica, e non quella dell’azione politica. Nella nebulosa attuale della nuova società civile democratica, ci
sono gruppi formali e gruppi informali, individui influenti e media, associazioni, collettivi, organizzazioni a sostegno dei partiti politici e sindacati. Tra tutte queste componenti
emergono quei gruppi nati dopo la rivolta,
formati con le adesioni spontanee di chi condivideva il desiderio quasi istintivo di unirsi
per lavorare per il nostro Paese. Due aspetti
rappresentano l’originalità di queste dinamiche: l’insieme e il lavorare per il Paese. Il
più grande risultato che abbiamo ottenuto è
stato quello di riuscire ad agire in gruppo, in
piena libertà, dopo aver subito per decenni
da singoli individui.
formiche 112 — marzo 2016
«Il prossimo passo nella
democratizzazione consiste nel
condurre società civile, istituzioni e
partiti allo stesso tavolo. Il dialogo
può portare al Nobel, ma è il lavoro
congiunto che può farci uscire dalla
crisi sociale ed economica »
Non si tratta soltanto di mettere da parte le
individualità, ma soprattutto di intraprendere la costruzione di un progetto comune,
quello di una società democratica. Nei Paesi
già democratici, un’associazione nasce attorno a un obiettivo specifico per conseguire
una particolare missione o un’idea comune
che le persone desiderano realizzare. Nel
nostro caso, le organizzazioni della società
civile (e i gruppi informali) sono nate per rispondere alla necessità di creare uno spazio
comune per la condivisione e il lavoro, con
una profusione di idee spesso incompatibili
e, soprattutto, senza una prospettiva chiara di come sarebbe stata la nuova società di
cui siamo cittadini. Proposte multiple sono
emerse da chi ha un’idea conservatrice, più
liberale o riformista, laica o islamista, ma
dopo cinque anni possiamo dire che la nuova società tunisina, di cui non avevamo un
modello predefinito da conseguire, in realtà
non è altro che noi stessi, trasformati dalle
nostre pratiche e dalle nostre azioni, iscritte
o meno nella democrazia. La società civile in
particolare, o l’insieme dei cittadini attivi in
generale, non aveva disegnato l’idea di azione a priori. L’idea stava proprio nell’azione
civica stessa. Ma cosa significa agire nella società civile democratica? Cosa significa provare a cambiare le mentalità sensibilizzando
i nostri concittadini al fatto politico, alla partecipazione e al rispetto di questo progetto
comune, che per la prima volta nella nostra
realtà significa rispettare le differenze? Per
cercare una risposta a questa domanda bisogna esplorare la realtà di tutti quei gruppi che
si sono attivati per supportare il processo di
democratizzazione dello Stato, manifestando
contro o supportando le sue trasformazioni e
portando una voce libera e forte a chi stava,
passo dopo passo, scrivendo la Costituzione,
nella quale si sarebbe delineato il modello
del nostro futuro comune.
La descrizione della società civile tunisina
oggi non si esaurisce con il modello europeo, né di quei Paesi che hanno vissuto la
transizione democratica nell’est Europa o in
Sud America negli anni 90. Essa si iscrive in
una realtà cittadina unica: quella di un Paese
arabo-musulmano che ha scelto, per la maggior parte, di aderire a valori di rispetto e di
libertà, di dignità e opportunità per tutti. La
nostra società civile, oggi, è la voce della lotta
per i diritti, è l’azione per agire nelle realtà
educative, sociali, sanitarie ed economiche.
La sua forza risiede nella vicinanza alle cose
concrete, nell’incontrare le persone, nell’essere lei stessa fatta di quei cittadini che hanno bisogno d’azione. D’altra parte, l’azione
politica negli ultimi cinque anni si è confinata di nuovo nei palazzi. I cittadini sono
invece rimasti nella piazza, nelle città e nei
villaggi. Oggi sono questi gruppi che detengono la maggiore comprensione di ciò che è
la Tunisia, la sua gente e le sue dinamiche.
Questa conoscenza è ciò che abbiamo di più
prezioso in questo momento: l’autenticità di
un Paese in grande difficoltà, ma con enormi
risorse umane. Questa consapevolezza di chi
siamo è il primo passo nel costruire l’essere
liberi. Questa conoscenza di noi deve essere
trasferita ed elaborata insieme alla classe politica, che invece si rifiuta di sentire la voce
del popolo per captarne il malessere reale e le
opportunità effettive. Il prossimo passo nella
democratizzazione della Tunisia consiste nel
creare il canale giusto per condurre società
civile, istituzioni dello Stato e partiti politici
allo stesso tavolo. Il dialogo può portare a un
premio Nobel per la pace, ma è il lavoro congiunto che ci può portare a uscire dalla crisi
sociale ed economica in cui viviamo.
57
PAPER
Guai neri per la vicina Algeria
di Intissar Fakir
Direttore di Sada presso il Carnegie Endowment for International Peace
e Dalia Ghanem Yazbeck
Analista presso il Carnegie Middle East Center
L’economia dell’Algeria dipende fortemente
dai profitti del settore energetico, quindi la
caduta dei prezzi ha colpito in modo significativo le sue finanze. Nel 2013, prima della
caduta del prezzo, il settore energetico determinava il 30% del Pil, il 60% delle entrate del governo e più del 95% degli utili da
esportazioni. Questa dipendenza ha reso il
Paese molto vulnerabile al prolungato calo.
L’incertezza sul futuro fiscale del Paese e
le sfide poste alla stabilità arrivano in un
momento critico per la politica algerina.
Restano dubbi circa la successione, mentre
la salute del presidente Abdelaziz Bouteflika, al potere dal 1999, è instabile. A ciò
si aggiungono le oscure dinamiche tra la
componente militare e una classe politica
sempre più vecchia che ha perso il contatto
con i propri cittadini
Il regime algerino ha per molto tempo reagito a disordini e proteste facendo ricorso a
una doppia strategia: da una parte reprimendo velocemente le dimostrazioni, dall’altra fornendo benefici economici ai gruppi
d’interesse che erano coinvolti nelle rivolte
stesse, tra cui dipendenti pubblici, sindacati, militari e giovani disoccupati. Dalla fine
della guerra civile, nel 2000, alcune voci di
spesa strategica hanno significativamente
contribuito all’abilità del governo di placare
i propri cittadini, per mantenere una fragile
stabilità, ignorando la richiesta di riforme
politiche ed economiche. Nel 2011 il regime
ha dimostrato l’efficacia della combinazione
di questi due strumenti – tattiche repressive
e spesa sociale – per disperdere le proteste
e la frustrazione pubblica relativa alle circostanze socioeconomiche, agli alti livelli
di corruzione, alla presenza di un governo
debole e alla mancanza di speranza per il
58
futuro. Ma il deterioramento delle finanze,
abbinato al calo del prezzo del petrolio, potrebbe mettere a repentaglio questo approccio governativo.
L’incertezza sul futuro fiscale del Paese e le
sfide poste alla stabilità arrivano in un momento critico per la politica algerina. Restano dubbi circa la successione, mentre la salute del presidente Abdelaziz Bouteflika, al
potere dal 1999, è instabile. A ciò si aggiungono le oscure dinamiche tra la componente
militare – che ha sempre giocato un ruolochiave nella politica dell’Algeria – e una classe politica sempre più vecchia che ha perso
il contatto con i propri cittadini. Le recenti
comunicazioni di ristrutturazione del dipartimento di Intelligence e sicurezza del Paese,
che sarà diviso in tre organismi, ha creato
dubbi circa l’abilità di questi due attori di
mantenere il consenso, un importante pilastro della stabilità. Nel frattempo, il Paese
continua a barcamenarsi tra disaffezione popolare e proteste dilaganti contro le disfunzioni politiche e una governance debole.
Nonostante le sue limitate opzioni, il governo è riluttante ad assumersi la responsabilità
di tagli a spesa sociale, sussidi e programmi
di Welfare. La paura di avere ricadute negative riporta la memoria alla crisi petrolifera del 1986 che determinò sostanziali tagli
ai sussidi che causarono le rivolte popolari
dell’ottobre 1988, uno dei fattori che ha contribuito alla guerra civile del 1990-2000, causa della morte di 150mila persone. Il governo
è quindi poco incline ad avere una discussione aperta sulla necessità di tagliare la spesa e
di riformare i sussidi, chiamando in causa la
stabilità a lungo termine del Paese.
Per quanto riguarda l’economia dell’Algeria, essa dipende fortemente dai profitti
del settore energetico, quindi la caduta dei
formiche 112 — marzo 2016
Nonostante i benefici del sistema di Welfare,
ci sono significative tensioni e disaffezioni
nel Paese. Nei primi sei mesi del 2015 la Polizia
ha registrato 6.200 manifestazioni
prezzi risalente alla metà del 2014 ha colpito in modo significativo le sue finanze. Sulla
base delle stime della Banca mondiale, nel
2015 ci si aspettava una crescita del 2,8%,
molto meno rispetto al 4,3% del 2014. I ricavi energetici sono calati del 50%, passando
a 34 miliardi di dollari nel 2015 e prospettandosi un ulteriore calo a 26 miliardi di
dollari nel 2016. Intanto, il deficit nel 2015
si attestava all’11,5% del Pil, quasi il doppio
dell’anno precedente (6,2%). Nel 2013, prima
della caduta dei prezzi, il settore energetico
determinava il 30% del Pil, il 60% delle entrate del governo e più del 95% degli utili da
esportazioni. Questa dipendenza ha reso il
Paese molto vulnerabile al prolungato calo
del prezzo del petrolio.
Le sfide economiche dell’Algeria sono tuttavia antecedenti a questo fenomeno. La
produzione era infatti già in crisi a causa di
un ritardo nello sviluppo di infrastrutture
e alla mancanza di investimenti esteri. L’emergere di nuove risorse petrolifere in Paesi
a basso rischio (come Stati Uniti e Canada)
e la percezione che la situazione della sicurezza regionale stesse peggiorando ha fatto
dell’Algeria un ambiente più ostile agli investimenti di aziende estere. La riluttanza del
Paese a riformare la sua struttura contrattuale dell’oil&gas ha anche portato le aziende
del settore a investire le sempre più limitate
risorse in luoghi più redditizi. Come spiegato a settembre 2015 da Tewfik Hasni, ex vice
presidente della compagnia statale Sonatrach, la riduzione delle riserve e l’aumento
della domanda interna ha significato per il
Paese un’incapacità ad aumentare la propria
produzione per rinforzare l’export. Inoltre,
la scarsa competenza tecnica e una serie
di scandali per corruzione e ripetuti cambi
del personale continuano ad affliggere l’in59
PAPER
Il fatto che il governo abbia meno disponibilità
economica potrebbe bloccare la capacità di fare
affidamento sulla spesa per rispondere ai
disordini
dustria energetica dell’Algeria. Il potenziale
di produzione del gas di scisto, ancora alle
sue prime fasi di sviluppo, nel breve termine non è in grado di fare la differenza per le
finanze del Paese. Lo scisto-ottimismo è temperato da molti degli stessi ostacoli davanti a
cui si trova il resto dell’industria.
Le difficoltà in campo energetico, inaspritesi dal 2014, hanno peggiorato le discussioni
del governo circa la diversificazione dell’economia e la riforma del settore. Ma le misure prese in considerazione restano limitate,
mentre il governo cerca di arrampicarsi tra
le incertezze della politica interna e il peso
della storia moderna dell’Algeria, durante la
quale il ricorso al nazionalismo è stato molto forte. Il primo ministro Abdelmalek Sellal
ha avvertito che l’attuale crisi fiscale offre
un’opportunità per diminuire la dipendenza
dai ricavi del settore oil&gas, ma è stato fatto
poco in questa direzione. Alla fine del 2015
il Consiglio nazionale economico e sociale,
un istituto di ricerca associato al governo,
ha invitato l’esecutivo a investire in 15 settori strategici per diversificare l’economia.
Uno dei limitati passi avanti che il governo
sta considerando di fare è legato a una legge
per la semplificazione delle procedure d’investimento delle aziende straniere, ma deve
ancora essere adottata.
Il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha
stimato che per bilanciare il suo budget l’Algeria ha bisogno che il prezzo del petrolio
salga a 96 dollari al barile, un dato che sembra non realizzabile negli anni a venire. Tra
gennaio e novembre 2015 il calo del prezzo
ha determinato un deficit commerciale di
12,62 miliardi. Ad agosto 2015 il ministro
dell’Energia Salah Khebri ha richiesto all’Opec di agire per affrontare il netto e continuo
calo del prezzo del petrolio. Tuttavia, l’Alge60
ria non ha abbastanza influenza, né nell’organizzazione né sui Paesi produttori, tale da
determinare tagli della produzione funzionali all’aumento del prezzo.
Nel frattempo l’Algeria ha fatto affidamento
sulle riserve per rifornire il budget. Secondo
dati della Banca d’Algeria, nel 2013 queste
si attestavano a un livello di 201 miliardi di
dollari ma sono crollate a 151 miliardi alla
fine del 2015, e ci si attende un ulteriore calo
a 121 miliardi entro la fine del 2016. Nei primi mesi del 2015 il governo dell’Algeria ha
iniziato ad avvertire i cittadini circa la difficile situazione economica. Nel corso dell’anno
ha tagliato la spesa dell’1,3%.
Il ministro delle Finanze, Abderrahmane
Benkhalfa, ha definito la politica del rigore coma una “razionalizzazione della spesa”, evitando di usare frasi come “tagli alla
spesa”, “riforma dei sussidi” o “limitazioni
all’importazione” per non allarmare la popolazione o contraddire la tradizione socialista
del Paese. Nel 2016, secondo i media locali, il
27-28% del Pil è destinato a programmi sociali e sussidi; nel 2015 era del 25%. I sussidi rimarranno sostanzialmente intatti ma il loro
costo aumenterà, evidenziandosi la riluttanza dello Stato a toccare questo strumento.
Il governo ha comunque dovuto effettuare
alcune riduzioni creative. Per il budget del
2016, sottoscritto il 30 dicembre 2015, il
primo ministro Sellal ha annunciato un generale taglio alla spesa del 9%, che avrà conseguenze sui progetti infrastrutturali. Tra le
misure è previsto l’aumento delle tasse sul
reddito, sulla proprietà privata e costi per
alcuni servizi, come l’immatricolazione dei
veicoli e i passaporti biometrici. Queste misure ne seguono altre intraprese già all’inizio del 2015, tra cui il congelamento delle
assunzioni pubbliche (41mila posti), con pro-
formiche 112 — marzo 2016
L’esercito algerino è divenuto una moderna,
sofisticata e ben equipaggiata organizzazione.
Ha una vasta esperienza in operazioni controinsurrezionali ed è sostenuto dalle altre forze
di sicurezza del Paese
babili conseguenze sul tasso di disoccupazione che, secondo stime nazionali, a settembre
2015 si attestava all’11,2%. Il governo ha anche interrotto alcuni grandi piani infrastrutturali, tra cui quattro degli otto progetti di
trasporto, e altri progetti di costruzioni ritenuti non urgenti. I programmi già avviati
continueranno, come ad esempio la costruzione di un nuovo porto a Hamdania, anche
se il governo deve ancora comunicare una
data di completamento dei lavori.
Nonostante i benefici del sistema di Welfare,
ci sono significative tensioni e disaffezioni
nel Paese e le proteste non sono certo anomale in Algeria: nei primi sei mesi del 2015
la Polizia ha registrato 6.200 manifestazioni.
Queste, comunque, non sono necessariamente un metro di misurazione per valutare l’instabilità del Paese, perché generalmente il regime è stato abile nel reprimerle. Tuttavia, il
fatto che il governo abbia meno disponibilità
economica, potrebbe bloccare la capacità di
fare affidamento sulla spesa per rispondere
ai disordini. Il regime sta sperimentando una
sorta di apertura della sfera politica, nella
speranza di creare una valvola di sfogo alla
frustrazione popolare. Atteggiamento reso
evidente dagli emendamenti alla Costituzione presentati il 5 gennaio. Tali anticipati
cambiamenti forniscono timide misure per
frenare il potere esecutivo e concedere un
po’ di respiro ai partiti politici del Paese.
Tuttavia gli emendamenti costituzionali
sono solo una mitigazione molto limitata e
il governo rischia di dover far fronte a grandi proteste man mano che i tagli alla spesa
determineranno un maggiore carico economico sulle spalle della popolazione. Se il
malcontento popolare dovesse aumentare,
il regime potrebbe aumentare il grado di
repressione e, in tal caso, l’esercito gioche-
rebbe un ruolo determinante per mantenere
la pace. L’esercito algerino è cresciuto e divenuto una moderna, sofisticata e ben equipaggiata organizzazione, con una forza attiva di
prima linea di 512mila soldati e una riserva
di 400mila uomini. Ha una vasta esperienza
in operazioni contro-insurrezionali ed è sostenuto dalla gendarmeria nazionale, il Direttorato generale per la sicurezza nazionale
e altre forze di polizia.
Le ipotesi che hanno a lungo prevalso sulla
stabilità algerina dovranno essere riesaminate. Il governo non può più sostenere lo stesso livello di spesa sociale per placare le ire
della popolazione. Il ruolo dell’Esercito nel
mantenere la stabilità potrebbe aumentare,
alterando così le dinamiche politiche, civili
e militari. Infine, il grado di reticenza della
popolazione a protestare potrebbe essere diminuito, visto che con il passare degli anni
il ricordo della dolorosa guerra civile in Algeria del 1990 svanisce tra una popolazione
sempre più giovane: circa il 30% degli algerini ha tra i 15 e 29 anni d’età. Il prossimo
periodo metterà alla prova queste ipotesi e
la capacità del governo di regolarsi di conseguenza.
Traduzione di Valeria Serpentini
61
UE
di Antonio Villafranca
Responsabile Programma Europa
dell’Ispi
Completare l’unione monetaria è
diventato ormai un mantra, ma in
una cacofonia di voci che denuncia la mancanza di una reale visione politica. Il caso più eclatante è
il documento dei cinque presidenti, che prevede un percorso a
più tappe entro il 2025. La prima
dovrebbe concludersi entro metà
del 2017 e, con la sola eccezione
del completamento dell’unione
bancaria, prevede per lo più aggiustamenti a procedure esistenti
e la creazione di nuovi organismi.
Come se già non ce ne fossero
abbastanza. L’intento, o meglio
il timore, è chiaro: non proporre
nulla di rivoluzionario prima che
Francia e Germania vadano alle
urne. Un errore tattico, a ben
vedere, perché se ai cittadini non
viene offerta una visione politica,
un obiettivo chiaro che incida
sulle proprie vite, questi andranno a votare con un sentimento
di crescente euroscetticismo. È
proprio questo il problema dell’Ue
di oggi: la mancanza di un disegno
politico che la renda nuovamente
appetibile. Al riguardo, bisognerebbe ripartire da una considerazione:
il rapporto tra istituzioni Ue e Stati
membri non può più basarsi sulla
minaccia delle sanzioni. Malgrado
il Patto di stabilità e crescita sia
stato disatteso più e più volte, non
c’è mai stato un singolo caso in
cui una sanzione sia stata comminata. Stessa sorte sta avendo la
sanzione introdotta più di recente,
quella relativa alla presenza di
squilibri macroeconomici.
L’Europa alle strette:
sanzioni vs speranza
In quest’ottica, l’annuncio di
Juncker all’inizio del suo mandato, di volere una “Commissione
politica”, si sta rivelando un boomerang perché ha innescato interminabili e aspre negoziazioni con i
governi nazionali sulla flessibilità,
che indeboliscono ulteriormente
le regole e rendono le sanzioni
ancora meno credibili. Di questo si
sono resi ben conto la Germania e
altri Paesi del centro dell’eurozona
che, mentre fanno il buon gesto di
proporre un ministro delle Finanze
europee, pensano invece sia
meglio far sanzionare i Paesi dal
mercato. In pratica si tratterebbe di far pesare diversamente i
titoli detenuti dalle banche sulla
base del rischio che comportano,
espresso appunto dal mercato (lo
spread ne è un indicatore).
Se questo dovesse far crollare
qualche Paese con i conti non
in ordine, la proposta prevede di
accordarsi da subito su una procedura di ristrutturazione standard
del debito sovrano. In pratica,
un fallimento controllato. Uno
scenario a cui l’Italia non può opporsi gridando un semplice “no”,
ma avviando una negoziazione
in cui alla (graduale) disciplina di
mercato si contrapponga qualcosa
di ugualmente forte nella direzione
della condivisione del rischio, che
preveda ad esempio un chiaro
e inequivocabile mandato per la
Bce di difendere i titoli dei Paesi
in difficoltà, una piena garanzia
europea dei depositi bancari,
la creazione di un vero mercato
unico dei capitali. Ma bisognerebbe anche approfittare di questo
palese e condiviso fallimento della
logica delle sanzioni per sostituirla
con quella degli incentivi. Si tratterebbe di riprendere l’idea dei contratti tra Ue e Stati membri, il cui
obiettivo fondamentale dovrebbe
essere la creazione di nuovi posti
di lavoro in un contesto di crescita
sostenibile. Contratti da discutere
nei parlamenti nazionali, in cui
emerga chiaramente il trade-off
tra creazione di nuovi posti di
lavoro e sacrifici-riforme. Un’austerità con speranza. La speranza
che i cittadini stanno perdendo
oggi, ovvero che l’eurozona e l’Ue
in generale servano per migliorare
le loro condizioni di vita. Questo
andrebbe fatto subito e con coraggio, senza aspettare le elezioni di
questo o quel Paese, perché alle
elezioni i cittadini votano e senza
speranza è difficile che lo facciano
con euro-entusiasmo.
63
AMBIENTE
C’è chi dice (sempre) No
AMBIENTE
La sindrome Nimby
vincerà di nuovo?
Alessandro Beulcke
Presidente di Allea
Il prossimo 17 aprile saremo chiamati alle
urne per un referendum abrogativo straordinario, istituto di democrazia diretta a
cui siamo ricorsi quasi 70 volte dal 1974
(divorzio) al 2011 (nucleare). Anche questa
volta, come nel 2011, saremo chiamati a
scegliere sulla politica energetica nazionale: è in ballo infatti il rinnovo delle concessioni per la ricerca e lo sfruttamento
di giacimenti di idrocarburi off-shore (in
mare). Insomma, un altro referendum figlio
della sindrome Nimby: dopo i no-nuke non
potevano mancare i no-triv (no alle trivelle). Il tasto più battuto dagli ambientalisti
è la decarbonizzazione dell’economia, e
cioè l’abbandono delle fonti fossili a favore
delle rinnovabili. Obiettivo sul quale è difficile non essere d’accordo, ma difficilmente
raggiungibile on-off, e cioè in pochi anni
Nel prossimo mese di giugno i cittadini italiani saranno chiamati a votare in 1.322 Comuni italiani, tra cui molte città importanti
come Roma, Milano, Torino e Napoli. E prima
di allora una parte di loro avrà già votato alle
primarie, la selezione dei candidati del centrosinistra che dovranno poi competere alle
amministrative comunali con gli aspiranti
sindaci degli altri partiti o coalizioni. Per il
momento, il centrodestra non sembra volerne
fare ricorso. Nel 2018, salvo sorprese, si terranno le elezioni politiche. Insomma, sembra
che agli italiani non manchino le occasioni di
espressione della volontà popolare.
Ma per tenerci allenati, il 17 aprile prossimo,
tra poche settimane, saremo ancora una volta chiamati alle urne. Quelle di aprile saranno votazioni per un referendum abrogativo,
istituto straordinario di democrazia diretta
a cui siamo ricorsi quasi 70 volte dal 1974
(divorzio) al 2011 (nucleare). Anche questa
66
volta, come nel 2011, saremo chiamati a scegliere sulla politica energetica nazionale: è in
ballo, infatti, il rinnovo delle concessioni per
la ricerca e lo sfruttamento di giacimenti di
idrocarburi off-shore (in mare). Insomma, un
altro referendum figlio della sindrome Nimby:
dopo i no-nuke non potevano mancare i notriv (no alle trivelle).
Com’era prevedibile, si è giunti al referendum
sulla scia di molte polemiche. Una breve cronistoria. Nel 2013 il coordinamento nazionale no-triv inizia la battaglia contro la politica
energetica del governo Renzi. Nello specifico,
i provvedimenti contestati sono quelli contenuti nel decreto Sblocca Italia. In una prima
fase il comitato nazionale, assieme ad altre associazioni ambientaliste, ha tentato la strada
parlamentare e della moral suasion sul governo.
Nel 2014, però, il decreto viene convertito in
legge, le contestazioni crescono e il movimento coinvolge diversi territori. Dinanzi a un governo definito incapace di ascoltare le istanze
della popolazione, si sceglie dunque l’opzione
referendaria. Approfittando dei malumori
locali e del perenne scontro Stato-Regioni, il
coordinamento ha pensato bene di evitare la
raccolta firme, preferendo presentare ai singoli Consigli regionali i sei quesiti referendari.
Inizialmente erano dieci le Regioni ad aver
discusso e approvato nei rispettivi Consigli la
proposta di referendum depositata in Cassazione il 30 settembre 2015: Abruzzo (successivamente ha fatto un passo indietro), Basilicata,
Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise,
Puglia, Sardegna e Veneto. Parere contrario,
invece, è stato espresso da Emilia Romagna
e Sicilia. A metà dicembre la proposta è stata
esaminata della Corte di cassazione, la quale
si è accertata della conformità alle norme di
legge, per poi passare al vaglio della Corte costituzionale che il 10 febbraio ha ammesso la
formiche 112 — marzo 2016
«La virtuosa Norvegia non abbandona
la strada degli idrocarburi dall’oggi al
domani, ma modula gradualmente gli
investimenti del proprio fondo
pensione nelle società attive nel
settore dei combustibili fossili »
richiesta. Il Consiglio dei ministri ha fissato la
data del referendum al 17 aprile prossimo.
Pure la scelta della data – peraltro già ratificata dal presidente della Repubblica – ha
innescato nuove polemiche: i promotori del
referendum insistono affinché sia accorpato
in un’unica data con le amministrative di
giugno, in un cosiddetto election day, evidentemente consci del poco appeal dei quesiti,
dunque timorosi che il quorum ad aprile possa non essere raggiunto.
Fin qui il dibattito politico. Ma, nel merito: è
lecito cercare il petrolio in mare? Al di là di
una prima considerazione generale – e cioè
che è bizzarro quel Paese che non solo non
sfrutta, ma neppure cerca le proprie risorse minerarie – quali sono i reali rischi per
l’ambiente? In fase di esplorazione, pressoché zero. Non ci sono in letteratura evidenze
scientifiche di danni causati dall’utilizzo della tecnologia air gun, una sorta di ecografia ai
fondali marini per individuare le cosiddette
campane geologiche, e cioè quei tratti di fondale che potrebbero (al condizionale) trattenere petrolio.
La Norvegia non è certo un Paese dalla scarsa
coscienza ambientale, eppure è il principale
produttore europeo di petrolio e tra i maggiori esportatori al mondo. Sarà anche per questo
che le associazioni ambientaliste e i promotori non battono più tanto il tasto su questo argomento – al netto di quelle suggestive manifestazioni estive sulle spiagge, tutti imbrattati
di nero – quanto piuttosto su quello dell’anti-
economicità. Leonardo Maugeri, tra i più autorevoli esperti al mondo di energia e petrolio,
in effetti è cauto sulle risorse italiane. Maugeri
però evidenzia soprattutto la necessità di selezionare con accuratezza le società che posseggono o richiedono i titoli minerari. Solo
compagnie solide dal punto di vista finanziario possono garantire sicurezza nella fase E&P
(ossia, exploration & production). Tra queste vi è
certamente il gigante olandese Shell, che però
ha deciso lo stesso, anzitempo, di rinunciare
alla ricerca di petrolio nello specchio di mare
fra Puglia, Basilicata e Calabria. Gli olandesi
hanno probabilmente qualche problema a
confrontarsi con una politica poco affidabile,
prima ancora che con territori preventivamente ostili. Con il petrolio stabilmente sotto
i 30 dollari al barile, che non offre oggi grandi
ritorni sull’investimento, perché insistere su
operazioni intricate sin dall’origine? Tra l’altro, il prezzo del barile non lo decreta di certo
l’Italia, bensì il mercato, prima ancora che le
prossime strategie dell’Opec.
Il tasto più battuto dagli ambientalisti, dunque, è più filosofico: la decarbonizzazione
dell’economia, e cioè l’abbandono delle fonti
fossili a favore delle rinnovabili. Obiettivo sul
quale è difficile non essere d’accordo, ma difficilmente raggiungibile on-off, e cioè in pochi
anni. La virtuosa Norvegia, per esempio, non
abbandona la strada degli idrocarburi dall’oggi
al domani, ma modula gradualmente gli investimenti del proprio fondo pensione nelle società attive nel settore dei combustibili fossili.
Insomma, esiste una fase chiamata di transizione, da percorrere senza fanatismi, e al
netto di ogni altro fenomeno Nimby che, ricordiamolo, tocca pure le fonti rinnovabili:
circa i 40% degli impianti sono contestati in
Italia. Il no a tutto certamente non aiuta alcuna economia, pure la più sostenibile.
67
AMBIENTE
La disinformazione
come arma dei no-triv
Alberto Clò
Docente di Economia applicata presso l’Università di Bologna
e direttore della rivista Energia
Un’occasione sprecata, ovvero cronaca di
una morte annunciata. In questo incipit
temo si risolverà il referendum no-triv, in
cui tutto sembra giocarsi sulla speranza
che si raggiunga o meno il quorum necessario. Come scommettere alla carta più
alta. Se sarà raggiunto è quasi certa la
vittoria dei no-triv. Per la semplice ragione
che sui mass media, dalla grande stampa
al servizio pubblico televisivo, la disinformazione ha sinora trionfato, sostenendo
le ragioni degli oppositori senza nulla
dire di quelle altrui. La vittoria dei no-triv
avrebbe gli stessi effetti del no al nucleare: la distruzione di un’intera industria –
quella elettromeccanica – che contava
decine e decine di migliaia di occupati, un
gran numero di ingegneri, eccellenti capacità manifatturiere, un sapere scientifico
e accademico tra i primi al mondo
Un’occasione sprecata, ovvero cronaca di
una morte annunciata. In questo incipit temo
si risolverà il referendum no-triv. Un’occasione sprecata perché come nei casi del nucleare del 1987 e del 2011 o in quello associato
sull’acqua, gli elettori sono chiamati a esprimersi senza che sia fornita loro una ben che
minima e corretta informazione sui quesiti
referendari, senza una parvenza di dibattito
e senza dar conto delle conseguenze che ne
potrebbero derivare. In un confronto del tutto impari tra le voci contrarie all’attività mineraria fatte proprie e amplificate dai mass
media e il niente che vi si contrappone. Quasi
che la questione avesse solo rilevanza locale
e non riguardasse l’intero Paese, la sua economia, la sua industria, la sua crescita. Non
ultimo, la sua sicurezza energetica, termine
tanto abusato quanto ritenuto irrilevante
nei fatti e nelle politiche.
68
Ecco perché può ben parlarsi di cronaca di
una morte annunciata con un risultato che
appare scontato, in cui tutto sembra giocarsi sulla speranza che si raggiunga o meno il
quorum necessario. Come scommettere alla
carta più alta. Se sarà raggiunto è quasi certa
la vittoria dei no-triv. Per la semplice ragione che sui mass media, dalla grande stampa
al servizio pubblico televisivo, la disinformazione ha finora trionfato, sostenendo
le ragioni degli oppositori senza nulla dire
di quelle altrui. Non vi è motivo perché un
qualsiasi cittadino di buon senso possa dirsi
favorevole ad un’attività che – si proclama
ogni giorno – provoca danni irrimediabili
alla salute, alla natura, al territorio, alla pesca, al turismo, all’agricoltura. Senza che,
inoltre, vi sia alcun vantaggio per le popolazioni o l’intero Paese, perché a guadagnarci – si sostiene – sarebbero solo le fameliche
multinazionali del petrolio. Che tutto ciò sia
mera propaganda nulla conta, così come il
fatto che non vi sia uno straccio di studio che
dimostri che estrarre petrolio o metano danneggi il turismo, la pesca, l’agricoltura.
Per rendersene conto basterebbe farsi un bel
week-end a Milano Marittima e guardare dalla battigia le piattaforme al largo o andare
all’annuale Festival delle cozze della vicina
Marina di Ravenna, pubblicizzate “tra le più
pregiate d’Italia raccolte alla base immersa
delle piattaforme marine!”. Così come basterebbe, ma la cosa sarebbe più ardua, andarsi
a studiare le esperienze estere di collaborazione dell’industria petrolifera con le aziende agricole francesi, le università inglesi, i
pescatori norvegesi. Ma tutto ciò con conterebbe nulla.
Così come controbattere a un’altra tra le mille mistificazioni che si vanno propinando:
che estrarre petrolio sia antistorico, perché
formiche 112 — marzo 2016
The
NEWS
LOREM IPSUM DOLOR SIT AMET
The
NEWS
LOREM IPSUM DOLOR SIT AMET
«Impedire la produzione interna
di petrolio o metano significa preferire
l’importazione, magari dalla Libia,
finanziando le milizie in guerra;
versare miliardi di euro all’estero
piuttosto che destinarli alla crescita
interna; aiutare le imprese altrui
a discapito delle nostre»
LOREM IPSUM
DOLOR SIT AMET
LOREM IPSUM
DOLOR SIT AMET
fonte ormai marginale nell’offerta mondiale
di energia (con il metano conta per il 54%)
e penalizzante le nuove risorse rinnovabili
(2,4%), mentre si dovrebbe sapere che il primo viene utilizzato quasi solo nei trasporti
e le seconde nella generazione elettrica. Lo
stesso può dirsi sui rischi di disastri ambientali irresponsabilmente paventati, estrapolando sulle nostre coste il caso di Macondo
nel golfo del Messico. Nulla si dice, per contro, sulla questione di fondo: che impedire
la produzione interna di petrolio o metano
significa preferirne l’importazione, magari
dalla Libia, finanziando le milizie in guerra;
significa preferire versare miliardi di euro
all’estero piuttosto che destinarli alla crescita interna; significa aiutare le imprese altrui
a discapito delle nostre. Ma temo sarebbe ancora del tutto inutile. Perché la paura, come
la calunnia, pesa più di ogni rassicurazione o
smentita. Qualcosa resterà sempre.
Meglio allora ragionare sul dopo: su quel
che accadrebbe se il referendum dovesse passare. Primo: ne seguirebbe una lettura tutta
politica e strumentale del responso referendario, a prescindere dal merito del quesito
sottoposto agli elettori. Ottenere una qualsiasi autorizzazione diverrebbe impossibile,
esattamente come accadde con il referendum
nucleare del 1987 che non chiedeva di esprimersi per il sì o il no al nucleare, ma a favore
o meno di una sua temporanea moratoria
che la politica avrebbe trasformato in tombale. Secondo: perché la vittoria dei no-triv
avrebbe gli stessi effetti del no al nucleare:
la distruzione di un’intera industria – quella
elettromeccanica – che contava decine e decine di migliaia di occupati, un gran numero
di ingegneri, eccellenti capacità manifatturiere, un sapere scientifico e accademico tra
i primi al mondo. Tutto distrutto: fabbriche,
imprese, scuole, professionalità.
Con la vittoria dei no-triv avremmo il medesimo risultato: la distruzione di un’altra industria italiana, non tanto quella mineraria
che non avrebbe difficoltà a spostare i suoi
investimenti all’estero, ma quella che produce beni e servizi a essa strumentale. Un’industria che risale all’unità d’Italia, che si articola in centinaia di imprese raccolte in distretti
dei servizi petroliferi, specie in Lombardia,
Emilia-Romagna e Abruzzo, che vanta livelli
di specializzazione tecnologica ovunque apprezzati, tranne che in Italia. Un’industria
che già attraversa gravi difficoltà per il crollo
del mercato che ha fatto seguito a quello dei
prezzi del petrolio, con molte imprese che
stanno chiudendo e licenziando, nell’assoluto silenzio della politica e delle istituzioni.
Un sì al referendum ne decreterebbe la definitiva fine. È questa la vera partita in gioco:
anche se i più fingono di non rendersene
conto nell’indifferenza generale e nell’irresponsabilità di chi dovrebbe guardare agli interessi del Paese più che ai propri dividendi
elettorali.
69
AMBIENTE
Il nodo è il confronto
Stato-Regioni
Davide Tabarelli
Presidente Nomisma energia
La vicenda è un pasticcio amministrativo
fra lo Stato, che deve gestire le politiche
energetiche, e le Regioni, a cui in maniera irresponsabile abbiamo dato poteri in
materia, e la dice lunga sull’incapacità
tutta italiana di fare sistema-Paese
Stato, che deve gestire le politiche energetiche, e le Regioni, a cui in maniera irresponsabile abbiamo dato poteri in materia, e la
dice lunga sull’incapacità tutta italiana di
fare sistema-Paese.
Nonostante nell’immaginario collettivo riguardi tutte le perforazioni, in realtà lo scontro è confinato solo alle attività dentro le 12
miglia, 22 chilometri dalla costa. In particolare, il referendum richiesto da dieci Regioni
il 30 settembre 2015, riguardava per lo più
una delle parti più qualificanti – l’articolo 38
– dello Sblocca Italia, il decreto legge del settembre 2014 che doveva essere lo strumento
principale del governo Renzi per rilanciare
l’economia italiana. Il famigerato articolo
38 voleva semplicemente aggiustare alcune
anomalie introdotte nel 2010 dal decreto legislativo n. 128, quello che fu approvato dal
È un’altra battaglia persa quella delle trivelle, nell’avanzata inarrestabile dell’ambientalismo rivoluzionario contro l’industria
italiana, che ha facile gioco vista la scarsa resistenza. Indipendentemente da come andrà
il referendum del 17 aprile, di nuove esplorazioni, e pertanto di nuove produzioni, non
se ne faranno più in Italia, il Paese che per
primo ha iniziato lo sfruttamento economico del petrolio nel 1700, come ci ricordano
Diderot e D’Alambert nell’Enciclopedie. La vicenda è un pasticcio amministrativo fra lo
Produzione e consumo di gas e petrolio in Italia
Mtep
180
Previsioni
160
Produzione idrocarburi
140
Consumo idrocarburi
120
100
80
Deficit interno 2010: 92%
60
40
20
70
2028
2025
2022
2019
2016
2013
2010
2007
2004
2001
1998
1995
1992
1989
1986
1983
1980
1977
1974
1971
1968
1965
1962
1959
1956
1953
1950
0
formiche 112 — marzo 2016
«La produzione degli idrocarburi è
destinata, nel migliore dei casi, a
stabilizzarsi. Così i circa 20 miliardi di
euro che gli italiani spendono per la
materia prima gas e petrolio,
continueranno ad andare in gran
parte all’estero»
Parlamento subito dopo l’incidente della Deepwater Horizon del 20 aprile 2010. Il 128 introdusse per la prima volta il divieto delle 12
miglia, ma solo per nuovi progetti, mentre
doveva garantire le iniziative in corso.
Tuttavia, le Regioni riuscirono a ottenerne
un’estensione anche ai progetti in corso. L’articolo 38 voleva semplicemente ricondurre
all’autorità centrale il potere di autorizzazione di questi progetti, togliendolo alle Regioni
che, però, forti dei poteri ottenuti nel 2001
con la modifica del titolo quinto della Costituzione, hanno avuto facile gioco a ottenere
l’ammissibilità dei referendum in questione.
La causa dello scontro risale al 128 del 2010,
che ha introdotto divieti che non esistono
in nessuna parte del mondo. Il decreto fu
portato avanti da alcuni senatori siciliani,
soprattutto di destra, con l’allora ministro
dell’Ambiente di Siracusa Prestigiacomo, che
non consultò né la presidenza del Consiglio
(il primo ministro Berlusconi aveva già molti
problemi) né il ministro dello Sviluppo economico, competente sulle questioni minerarie, in quanto Scajola si era appena dimesso
per lo scandalo dell’appartamento.
Il paradosso è che il governo si è dovuto rimangiare tutto l’articolo 38, con modifiche
introdotte a fine 2015 nella legge di stabilità,
ma il referendum è rimasto in piedi, anche se
solo per un quesito laterale relativo alla durata delle concessioni. Anche se non si raggiungerà il quorum, entro le 12 miglia non si
farà più nulla e la gran parte dei progetti che
potevano essere avviati, per un ammontare
di investimenti di 5 miliardi di euro, sono
saltati. Non solo, forti della mobilitazione
popolare e mediatica sull’argomento, i movimenti ambientali chiederanno il blocco
delle perforazioni oltre le 12 miglia e anche
a terra in quanto, coerentemente, se sono rischiose entro le 12 miglia, lo sono ancora di
più al largo, e quindi lo sono anche a terra.
Nel 2014, per la prima volta negli ultimi
70 anni, le perforazioni per i nuovi pozzi
sono state pari a zero, contro picchi di 50
nei primi anni Novanta. Nel mondo sono
oltre 2mila gli impianti che ogni giorno ne
scavano di nuovi. Nel mondo esistono circa
2mila piattaforme che tutti i giorni producono milioni di barili di greggio e miliardi
di metri cubi di gas. In Italia, di fronte alle
nostre coste, soprattutto nell’Adriatico, c’è
approssimativamente un centinaio di piattaforme, molte produttive da trent’anni. Nel
Mare del Nord sono 300 ed estraggono gas e
petrolio per volumi oltre 50 volte superiori
a quelli dell’Italia. Il nostro Paese, fra quelli industrializzati, è quello che più dipende
da consumi di petrolio e gas nel suo bilancio
energetico, circa il 60%, e per il 90% questi
volumi li importa dall’estero.
La nostra Strategia energetica nazionale del
marzo 2013 indicava un raddoppio della produzione di petrolio, dagli allora 10 milioni
di tonnellate equivalenti a oltre 20. Dopo le
ultime vicende, e indipendentemente dall’esito del referendum, la produzione è destinata,
nel migliore dei casi, a stabilizzarsi, e così i
circa 20 miliardi di euro che gli italiani spendono, a prezzi 2016, per la materia prima gas
e petrolio, continueranno ad andare in gran
parte all’estero senza lasciare alcun beneficio
in Italia. Una vittoria gravosa, come al solito,
per le battaglie ambientaliste.
71
AMBIENTE
I dilemmi della Corte
Gino Scaccia
Docente di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università di Teramo
e di Diritto costituzionale presso l’Università Luiss di Roma
Se è fisiologico che le Corti coltivino una
vocazione counter-majoritarian e che
il principio democratico sia corretto e
ricondotto nel suo alveo quando fuoriesce dal tracciato costituzionale, è sempre
incombente il rischio che i giudici supremi si pongano, in modo autoreferenziale,
come aristocrazie della toga, alterando
l’equilibrio fra i poteri costituzionali. La
Corte italiana sembra navigare a vista,
alternando pronunce decisamente interventiste (per tutte, la sentenza n. 70 del
2015 sulle pensioni) a decisioni molto
più deferenti nei confronti delle scelte
legislative e preoccupate di non alterare i
complessivi equilibri della finanza pubblica: si pensi alla sentenza sulla Robin
tax, per cui alle esigenze di bilancio viene
sacrificato il principio supremo all’effettività della tutela giurisdizionale
Recenti pronunce della Corte costituzionale
(da ultimo quella che ha ammesso il referendum sulle trivellazioni petrolifere), offrono
l’occasione per riproporre un interrogativo
che affatica gli studiosi dagli anni 20 del Novecento, quando si è affermato il controllo
di costituzionalità: qual è il limite d’intervento delle Corti costituzionali rispetto alla
decisione politica? La risposta è il risultato di
uno scontro dialettico. Da un lato, è innegabile che la ragione profonda dell’istituzione
delle Corti costituzionali sta nella ricerca di
una sede di neutralizzazione della lotta politica e di moderazione del principio maggioritario che, privo di un limite costituzionale,
farebbe degenerare la democrazia in una tirannia della maggioranza. Dall’altro, il principio di sovranità popolare, architrave delle
democrazie moderne, esige che le scelte fondamentali per la vita della comunità politica
72
siano formate nel libero mercato delle idee
e siano dunque riferibili, nella misura maggiore possibile, a istituzioni rappresentative
sottoposte al controllo e alla responsabilità
democratica. Se è quindi fisiologico che le
Corti coltivino una vocazione counter-majoritarian e che il principio democratico sia corretto e ricondotto nel suo alveo quando fuoriesce dal tracciato costituzionale, è sempre
incombente il rischio che i giudici supremi
si pongano, in modo autoreferenziale, come
aristocrazie della toga, alterando l’equilibrio
fra i poteri costituzionali.
Diversa è, a questo proposito, la percezione
dei vincoli sistemici che le Corti subiscono in
conseguenza del loro inserimento nella forma di governo. Negli Stati Uniti che, in anticipo di oltre un secolo rispetto al continente
europeo, hanno dato i natali al judicial review
of legislation, la Corte suprema esercita una
giurisdizione militante quale giudice delle
libertà, come dimostrano tante storiche pronunce in tema di discriminazioni sessuali,
razziali e religiose. Negli ambiti che toccano
le scelte ridistributive della ricchezza, e dunque i rapporti fra Stato e mercato, invece,
quei medesimi giudici tendono ad assumere
un atteggiamento di maggiore deferenza nei
confronti del legislatore. E ciò sulla duplice
premessa che le opzioni di politica economica e finanziaria non possano essere oggetto
di analisi giuridiche astratte, settoriali e parcellizzate (come inevitabilmente sono le analisi compiute dalle Corti per i vincoli processuali entro i quali esse agiscono) e che sulle
scelte di allocazione delle risorse pubbliche
il controllo e il dibattito del public eye sono
più intensi; inoltre, è più immediata la possibilità di far valere la responsabilità politica
dei soggetti di governo, sicché le Corti, sovrapponendosi al legislatore, mortifichereb-
formiche 112 — marzo 2016
«La Corte sembra non potersi
sottrarre all’onere di elaborare una
più matura dottrina delle political
question che sottragga la propria
giurisprudenza all’occasionalismo e
conferisca così maggiore certezza agli
operatori economici »
bero il dibattito pubblico e restringerebbero
gli spazi della libera dialettica politica. Fino
a influire sulla dinamica maggioranza-opposizione, dando ristoro in sede giudiziale a posizioni che nell’arena politica erano risultate
sconfitte, e a offuscare la responsabilità dei
soggetti di governo.
Nell’esperienza europea, le Corti costituzionali (non solo quella italiana, ma anche quelle tedesca e portoghese, ad esempio), non
hanno elaborato un’analoga dottrina di self
restraint rispetto alle decisioni a elevato impatto sulla politica economico-finanziaria,
anzi intervenendo spesso con pronunce che
hanno posto a carico del bilancio pubblico
oneri ingentissimi, nell’ordine di miliardi di
euro, condizionando inevitabilmente le scelte allocative degli esecutivi.
Non sorprende, allora, che la Corte italiana sembri navigare a vista, alternando pronunce decisamente interventiste (per tutte,
la sentenza n. 70 del 2015 sulle pensioni) a
decisioni molto più deferenti nei confronti
delle scelte legislative e preoccupate di non
alterare i complessivi equilibri della finanza
pubblica (si pensi alla sentenza sulla Robin
tax, per cui alle esigenze di bilancio viene sacrificato il principio supremo all’effettività
della tutela giurisdizionale). Del resto l’imbarazzo della Corte è facilmente spiegabile.
Se fa prevalere sistematicamente le esigenze
della finanza pubblica sulla tutela dei diritti
costituzionali (si tratti di salute, ambiente o
di diritti economici), tradisce la sua natura
di giudice delle libertà, rischiando oltretutto di vedere impugnate le proprie pronunce
dinanzi alle Corti di Strasburgo e di Lussemburgo, che integrano la tutela nazionale dei
diritti fondamentali. Se invece salvaguarda le
libertà senza riguardo alle condizioni di contesto – politiche ed economiche – in cui queste si inscrivono, viene accusata di insensibilità politica se non di irresponsabilità e può,
in taluni casi, esporre lo Stato alla violazione
degli stringenti vincoli europei di bilancio.
Stretta in questa morsa, la Corte sembra non
potersi sottrarre all’onere di elaborare una
più matura dottrina delle political question,
che ponga in un rapporto più equilibrato
controllo giurisdizionale e prerogative della
politica, sottragga la propria giurisprudenza
all’occasionalismo e conferisca così maggiore certezza agli operatori economici, che
nelle loro scelte strategiche d’investimento
in Italia danno uno spazio non marginale al
rischio derivante da una giurisdizionalizzazione dei conflitti tuttora eccessiva.
73
POLITICHE PER L’AEROSPAZIO E LA DIFESA
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AMBIENTE
Quando la frizione
sale ai piani alti
di Gabriele Rosana
Giornalista freelance, cultore di Diritto costituzionale
presso l’Università Luiss di Roma
La pronuncia della Consulta sul referendum sulle trivellazioni off-shore è solo
l’ultima delicata questione affrontata
dalla Corte dopo altri casi come: il Muos
di Niscemi; il valzer attorno all’Ilva di
Taranto e l’incostituzionalità del blocco
delle perequazioni pensionistiche disposto dalla legge Fornero
Quo usque tandem, iudex, abutere patientia legislatoris? Se la politica lancia senza troppe
remore i suoi strali all’indirizzo della mai
amata magistratura, quando la frizione sale
ai piani alti – coinvolgendo la Corte costituzionale – lo scontro si sposta al livello del
galateo istituzionale, ma anche dell’opportunità politica. Spesso i giudici non si arrestano di fronte a decisioni che coinvolgono
scelte fondamentali d’indirizzo politico,
orientandone gli approdi verso lidi opposti
rispetto a quelli prefigurati dagli organi di
direzione politica.
L’ultima pronuncia della Consulta che impensierisce non poco Palazzo Chigi (e fa
esultare i presidenti di Regione che hanno
cercato lo scontro diretto, su tutti Emiliano,
caudillo di Puglia) riguarda l’ammissibilità
del referendum abrogativo della norma che
esenta dal divieto di esplorare e trivellare in
mare coloro che siano già provvisti del titolo
abilitativo e fino all’esaurimento dei giacimenti. La sentenza depositata il 2 febbraio
scorso per la gioia dei no-triv incrocia un’altra delicata questione ambientale, anch’essa
oggetto di roventi scambi di carte bollate: il
Muos di Niscemi, la base statunitense posta
nel cuore della Sicilia e impiegata per migliorare la trasmissione e l’acquisizione dei
dati emessi dai droni addetti alla sicurezza
nel Mediterraneo. È di tutta evidenza come,
pur provocando legittime resistenze per le
potenziali lesioni del diritto alla salute delle popolazioni locali, con la base militare a
stelle e strisce i giudici si trovano fra le mani
una patata più che bollente, che coinvolge
– insieme alla questione strettamente giuridica – le scelte di alleanza strategica e la
politica estera e di difesa del Paese.
Il valzer attorno all’Ilva di Taranto ha aperto
una vera e propria autonoma saga, tirando
in ballo nelle aule di giustizia delle politiche
industriali strategiche e fondamentali per il
Paese. Sul filone della finanza pubblica, invece, la sentenza n. 70 del 2015, che ha dichiarato l’incostituzionalità del blocco delle
perequazioni pensionistiche disposto dalla
legge Fornero, si è tradotta in una doccia
fredda per gli speranzosi richiami alla crescita (dopo la dieta a base di austerità) da parte
del governo, ritrovatosi con un buco nei conti pubblici, scavato dalla Consulta, tradendo
una volontà politica che aveva semmai insistito sulla solidarietà intergenerazionale.
C’è da augurarsi che la Corte trovi quel delicato equilibrio che le consenta di esercitare
la sua funzione di giudice della libertà, ma
nel rispetto del quadro istituzionale entro
cui opera e s’iscrive, lungi dall’essere monade solitaria che ragiona di principi astratti. È
altrimenti sempre incombente il rischio che
sia la politica a tirare la corda facendo ricorso a rimedi più ruvidi. Non proclami antisistema, ma prove di forza che la storia ricorda anche da parte di statisti democratici: per
vincere le resistenze della Corte suprema sul
New deal, il presidente Franklin Delano Roosevelt prospettò un pacchetto d’incremento
dei giudici che avrebbe ridotto il peso dei
membri più conservatori, schierati a tutela
dello status quo. Non ce ne fu bisogno.
75
IDEE
Comunicare l’impresa
per raccontare il Paese
IDEE
Il contagio delle idee
di Renato Fontana
Presidente dell’area didattica in Comunicazione per le imprese e le organizzazioni,
dipartimento di Comunicazione e ricerca sociale presso l’Università La Sapienza di Roma
La comunicazione d’impresa è efficace
se innesca una forma di contagio tra gli
attori dei circuiti produttivi. Il principale
cambiamento tra l’impresa e il consumatore consiste nel fatto che questa relazione non è più così sbilanciata come in
passato, quando la domanda subiva una
netta supremazia da parte dell’offerta.
Oggi le grandi aziende hanno prescelto
la logica della comunicazione integrata
in cui si abbattono i vincoli tra interno
ed esterno in favore di una maggiore
partecipazione dei soggetti in campo. Il
vantaggio, quindi, è alimentare processi
collaborativi, orientati all’innovazione e
alla ricerca di output originali e, di conseguenza, appetibili sul mercato
La comunicazione d’impresa sta dentro un
contenitore molto più ampio che è quello del
sistema produttivo. Per capire potenzialità e
limiti di questa comunicazione si può partire
dalla triade semantica, sharing economy, social
network e ruolo attivo del consumatore, utile
a definire l’ambiente storico e culturale che
detta le coordinate entro le quali la comunicazione d’impresa si deve muovere per raggiungere gli obiettivi dati, qualunque essi siano.
La sharing economy è l’economia delle piattaforme digitali dove si aprono possibilità inedite fino a pochissimi anni fa; dove ciascuno
di noi, ovvero ciascun cittadino, può diventare imprenditore di se stesso trasformandosi per il tempo che desidera in una specie
di tassista part-time (penso alla piattaforma
Uber) o, ancora, una specie di affittacamere
a tempo determinato (penso alla piattaforma
Airbnb). Come si sa, si tratta di nuovi segmenti di mercato e nuove tipologie di offerta
di servizi che accorciano i processi d’intermediazione tra l’impresa e il consumatore
78
per generare ulteriori processi economici e
del lavoro.
Qualcosa di molto analogo avviene osservando le dinamiche relazionali dal lato dei social
network (nati meno di dieci anni fa): essi consentono di praticare forme di comunicazione immediate, dirette, pervasive, in tempo
reale così come non è stato mai possibile
neanche immaginare nella storia dell’umanità. Per averne piena consapevolezza basta
contare le persone che non usano il proprio
cellulare quando prendiamo l’autobus, la
metropolitana o quando viaggiamo in treno.
Sono una stretta minoranza. In questo senso,
i social condizionano le nostre vite, ma quello che qui interessa di più è sottolineare che
essi condizionano soprattutto le nostre scelte di consumo. Il consumatore, che è pure
cliente, utente, cittadino (e talvolta lo è contemporaneamente), dispone di un set di informazioni tale per cui, da un canto, è messo
nella condizione di poter scegliere il prodotto o il servizio che preferisce e, dall’altro, è
parte del processo produttivo nel momento
in cui ne condiziona il risultato mettendo
nelle vetrine ora disponibili preferenze, gusti e orientamenti.
Se ha un senso assumere la triade semantica
appena richiamata come griglia interpretativa, il principale cambiamento tra l’impresa e
il consumatore consiste nel fatto che questa
relazione non è più così sbilanciata come in
passato, quando la domanda subiva una netta supremazia da parte dell’offerta di beni
o servizi. Nell’epoca in cui le informazioni
sono alla portata di tutti lo sbilanciamento
tende a essere molto più contenuto. Segreti
e bugie, per così dire, hanno il fiato corto.
In questo panorama, diventa prioritaria la
centralità di costruire e coltivare le relazioni con tutti gli attori coinvolti nel processo,
formiche 112 — marzo 2016
FUTURO_CAMBIA L’ITALIA, CAMBIANO LE IMPRESE
L’Italia cambia e il racconto del nostro Paese si arricchisce di nuovi capitoli per raccogliere
e rilanciare le sfide del III millennio. Digitalizzazione, ruolo attivo del consumatore,
disintermediazione delle narrazioni aziendali, necessità di integrazioni verticali e
orizzontali. Così, anche lo storytelling delle principali aziende italiane cambia passo,
condividendo con il Paese una nuova fase (speriamo) positiva. Si tratta delle principali
realtà – Enel, Eni, Finmeccanica, Tim – che hanno accompagnato lo sviluppo dell’Italia
nelle varie fasi della Repubblica e che oggi rinnovano la propria identità nel segno
dell’innovazione, della concorrenza e della responsabilità sociale. Auguri!
al punto che oggi le grandi aziende hanno
prescelto la logica della comunicazione integrata, in cui si abbattono i vincoli tra interno
ed esterno in favore di una maggiore partecipazione dei soggetti in campo. O meglio, in
favore di un proprio e vero engagement, che
si richiama alla condivisione delle scelte, ma
anche al senso di responsabilità collettivo in
vista degli output prodotti. La comunicazione
integrata non è una scelta, bensì una strada
obbligata che scaturisce dall’assottigliarsi dei
confini tra la dimensione interna ed esterna
delle imprese. Le imprese italiane che si presentano meglio di altre, secondo il webranking
2015, sono soprattutto Eni, TIM e Snam.
Le dinamiche che ne conseguono incidono
almeno su due questioni fondamentali per
gli orientamenti moderni dei sistemi produttivi: l’approccio gestionale e il rapporto
con il consumatore. Nel primo caso, si pone
l’esigenza di generare community partecipative dei dipendenti, collaboratori e stakeholder.
In qualche misura, iniziative di questo genere ricordano i circoli di qualità del modello
Toyota degli anni Settanta, dove ogni gruppo aveva la possibilità di esprimere il suo
punto di vista in merito alla gestione delle
problematiche tipiche della comunità nella
quale si lavora. Le attività produttive in senso stretto sembrano, per così dire, rimanere
sullo sfondo, mentre si fa largo il connotato
sociale della struttura aziendale. Il vantaggio, quindi, è alimentare processi collaborativi, orientati all’innovazione e alla ricerca di
output originali e, di conseguenza, appetibili
sul mercato.
Nel secondo caso, stabilire un rapporto sistemico con il consumatore si basa sulla
consapevolezza della portata e del valore
dell’ascolto. Evidentemente la cultura cattolica fa ancora scuola se il top management
si avvale di una squadra di evangelizzatori,
detti in termini professionali e laici community manager, che hanno il compito di ascoltare
e monitorare le comunità per sentire “l’aria
che tira” e tradurla in strategie orientate a
soddisfare le istanze raccolte. I benefici sono
reciproci: le imprese ottengono informazioni dirette e stimoli precisi per migliorare il
prodotto, mentre i consumatori possono segnalare in via strumentale difetti o avanzare
richieste per rendere più funzionale questa
o quella parte, concorrendo di fatto alla sua
manutenzione e qualche volta addirittura
alla sua progettazione. L’ibridazione dei ruoli fa in modo che ogni figura abbia un profilo
spurio e si presenti quasi nello stesso tempo
come consumatore e produttore dell’output
in questione. Del resto, se ci pensate, è quello che già aveva concepito Henry Ford nelle
sue officine nei primi decenni del xx secolo,
con la differenza che allora non esistevano
le piattaforme digitali con tutto quello che
ne consegue.
Per concludere, la comunicazione d’impresa
è efficace se innesca una forma di contagio
tra gli attori dei circuiti produttivi: non è il
contagio di cui parlava Albert Camus nella
Peste, né quello descritto da George Orwell in
1984, tuttavia esso è costantemente alla ricerca di un equilibrio dinamico tra le esigenze
di essere dentro un progetto comunitario e,
nello stesso momento, sentirsi soggetti non
estraniati della loro specifica, insopprimibile
individualità.
79
IDEE
La narrazione
del cane a sei zampe
di Marco Bardazzi
Direttore comunicazione esterna di Eni
La narrazione aziendale diviene uno strumento di creazione di valore reputazionale, ma anche il mezzo per la costruzione
di una propria community di riferimento
e per la gestione delle situazioni di crisi.
Lo storytelling, parola spesso abusata, è
senza dubbio uno dei metodi più interessanti per sviluppare una strategia di
narrazione aziendale che permetta di
creare una conversazione con i propri
stakeholder
“Finché i leoni non cominceranno a raccontare le loro storie, i cacciatori saranno
sempre gli eroi”. Da generazioni, varie etnie
africane si tramandano questo proverbio,
nato tra le popolazioni Ewe-Mina tra Ghana,
Benin e Togo, e poi diffuso con qualche variante in molte altre parti del continente. La
suggestione che offre si apre a mille possibili interpretazioni, e non di rado in Africa il
proverbio viene letto in relazione alla storia
coloniale di molti Paesi. Se ai leoni fosse data
la possibilità di raccontare la loro versione
dei fatti, non solo molte storie di caccia apparirebbero sotto una luce diversa, ma si
scoprirebbero i mille piccoli e grandi eventi
che segnano l’esistenza di leoni e leonesse, e
non solo il momento traumatico dell’incontro con il cacciatore. Il momento, cioè, in cui
d’un tratto la vita del leone fa notizia.
Usciamo dalla savana e dalla metafora. Da
qualche tempo il proverbio africano ha cominciato a comparire, insolitamente, sulle slide di presentazioni che si occupano di
comunicazione e storytelling. La ragione è
presto detta: complice la trasformazione
portata dal digitale, i leoni hanno cominciato a raccontare le loro storie. Sono diventati
cioè protagonisti di una disintermediazione
che permette loro di parlare direttamente a
80
una vasta audience, senza doversi affidare alla
mediazione del racconto del cacciatore. Sostituite al leone una qualsiasi categoria che
ha bisogno di comunicare – impresa, politica, economia – e al cacciatore i tradizionali
mediatori – giornali, Tv, pubblicità – ed ecco
emergere il nuovo ecosistema della comunicazione nell’era digitale. Ogni organizzazione, che sia un’azienda, una Ong o un ente
pubblico, ha oggi molto più che in passato la
possibilità di raccontarsi in prima persona,
disintermediando la propria comunicazione
e raggiungendo un pubblico le cui dimensioni possono dar vita a una crescita scalare
grazie al digitale. Per farlo, tuttavia, occorre
impostare strategie di comunicazione che ripensino l’organizzazione come una rete narrativa. La narrazione aziendale diviene così
uno strumento di creazione di valore reputazionale, ma anche il mezzo per la costruzione di una propria community di riferimento
e per la gestione delle situazioni di crisi. Lo
storytelling, parola spesso abusata, è senza
dubbio uno dei metodi più interessanti per
sviluppare una strategia di narrazione aziendale che permetta all’azienda di creare una
conversazione con i propri stakeholder.
Sei parole che iniziano con la lettera “c”
possono aiutare a delimitare il nuovo percorso che la comunicazione aziendale ha
l’opportunità di intraprendere, sfruttando
gli strumenti digitali. Due sono già state citate, comunità e conversazione. Le altre sono:
contenuti, contaminazione, creatività e condivisione. Il tutto va messo in relazione tramite un approccio integrato.
In Eni è quello che abbiamo cominciato
a fare da qualche tempo, costruendo una
nuova architettura di comunicazione che
permetta di avere un approccio multipiattaforma. Una content strategy che ci ha portato
formiche 112 — marzo 2016
«Eniday è un nuovo spazio di
storytelling, in cui raccontare grandi
storie di energia, innovazione e
tecnologia, dentro e fuori dal
perimetro delle aree di business»
a lanciare, per esempio, un nuovo spazio di
storytelling – Eniday – dove raccontare in italiano e in inglese grandi storie di energia,
innovazione e tecnologia, dentro e fuori dal
perimetro delle aree di business di Eni. Perché abbiamo le competenze e l’autorevolezza per parlare di energia a 360 gradi, forti
di oltre sessant’anni di storia e di ricerche
in decine di Paesi nel mondo. Lo dimostra
l’esperienza del magazine Oil, un’eccellenza
editoriale che si sta arricchendo di contenuti
digitali sempre maggiori nella sua versione
online, Abo.net.
Abbiamo lanciato nuovi profili globali di Eni
su Facebook e Instagram, rafforzato la nostra
presenza su Twitter, rilanciato il canale YouTube e ripensato la nostra proposta su LinkedIn, un social particolarmente importante
per un’azienda che continua a essere tra le
più ambite per chi cerca lavoro. Stiamo preparando una nuova versione di eni.com. Nel
frattempo, abbiamo lanciato un nuovo portale per il mondo retail, enigaseluce.com, che
risponderà sempre più alle esigenze della
nuova conversazione che si è resa necessaria,
attraverso la community dei clienti domestici.
Parlando di comunità, stiamo scoprendo l’enorme potenziale anche comunicativo che
ruota intorno a Enjoy: l’avventura di Eni nel
car sharing, basata su App, smartphone e logiche social, è destinata a crescere e a raggiungere un pubblico sempre più vasto.
Abbiamo individuato nella fotografia il linguaggio espressivo che meglio ci rappresen-
ta in questa fase della storia di Eni, lanciando
una serie di iniziative tra cui spicca la partnership che ci vede protagonisti di Camera,
il Centro italiano per la fotografia a Torino.
E visto che i primi stakeholder a cui deve rivolgersi la comunicazione sono le persone che
lavorano con noi da mesi all’interno di Eni è
nata una conversazione tutta nostra legata al
blog The energy of dialogue, sul quale l’ad Claudio Descalzi si confronta quotidianamente
con la community delle 34mila persone Eni
nel mondo.
Una content strategy non è però completa senza adeguati strumenti di misurazione, e per
questo stiamo costruendo una struttura di
analisi all’avanguardia, per avere una sempre maggiore conoscenza del pubblico con
cui dialoghiamo e per calcolare il return on
investment delle nostre iniziative di comunicazione. L’insieme di questo sforzo integrato
di comunicazione multipiattaforma è ben
riassunto dalla tag-line della nuova campagna di Eni, anch’essa frutto dell’approccio
storytelling: “Abbiamo l’energia per vederlo.
Abbiamo l’energia per farlo”.
La materia prima cui attingere, negli anni a
venire, sono le storie straordinarie legate al
lavoro delle decine di migliaia di uomini e
donne di Eni, impegnati dal mar di Barents
al Congo, dall’off-shore venezuelano all’Indonesia, a caccia di risorse nel più grande giacimento di gas scoperto nel Mediterraneo
o a caccia di dati nel Green data center, il
centro di elaborazione nelle pianure vicino
Pavia che ospita uno dei più potenti computer al mondo. Se un leone ha storie interessanti da raccontare, figuriamoci un cane a
sei zampe.
81
IDEE
La forza dell’open power
di Andrea Falessi
Responsabile comunicazione Enel Italia
L’ideazione e la realizzazione di una nuova identità societaria è un passo estremamente importante, soprattutto per
un’azienda che vanta una storia di oltre
cinquant’anni e che ha segnato le varie
fasi della crescita economica del Paese.
Alla base di tutto, un approccio definito
“open power” che ha come obiettivo,
appunto, l’apertura. Apertura a nuovi
servizi in grado di soddisfare le esigenze dei nostri clienti e di generare nuovi
flussi di reddito per l’azienda, a innovativi
e diversi utilizzi del vettore elettrico, alla
diffusione di tecnologie e soluzioni in
grado di rendere l’energia disponibile per
un numero sempre maggiore di persone,
soprattutto nelle economie emergenti
Una profonda riorganizzazione aziendale e
una nuova strategia industriale, la semplificazione della struttura societaria in America
latina, la cessione di asset non strategici, il
riassorbimento di Enel Green Power all’interno del perimetro aziendale. Sono alcuni
dei grandi cantieri che il nostro amministratore delegato, Francesco Starace, ha aperto
in quest’ultimo anno e che ci vedrà coinvolti per parecchi mesi. L’obiettivo è quello di
dare a Enel un’identità ancora più forte per
competere sui mercati e vincere le sfide che
la transizione energetica e i rapidi cambiamenti tecnologici ci impongono.
In queste ultime settimane si è poi aggiunto un tassello particolarmente importante:
una nuova identità con il lancio di un brand
colorato, dinamico, pensato appositamente
per un uso digitale e che racconti i profondi
cambiamenti che avvengono attorno a noi
e dentro la realtà aziendale. L’ideazione e la
realizzazione di una nuova identità societaria è un passo estremamente importante, so82
prattutto per un’azienda che vanta una storia di oltre cinquant’anni, che ha segnato le
varie fasi della crescita economica del Paese
e che fa parte della vita di tutti i giorni di milioni di persone. Il percorso che ha portato
allo svelamento del nuovo volto di Enel è stato lungo e ha coinvolto migliaia di colleghi e
stakeholder in dieci degli oltre 30 Paesi in cui
operiamo. Alla base di tutto, un approccio
definito “open power” che ha come obiettivo, appunto, l’apertura. Apertura a nuovi
servizi in grado di soddisfare le esigenze,
in continuo cambiamento, dei nostri clienti e di generare nuovi flussi di reddito per
l’azienda, a innovativi e diversi utilizzi del
vettore elettrico, alla diffusione di tecnologie e soluzioni in grado di rendere l’energia
disponibile per un numero sempre maggiore di persone, soprattutto nelle economie
emergenti. A questo fanno simbolicamente
riferimento i fasci di energia che compongono i nuovi loghi di Enel e delle due controllate Endesa ed Enel Green Power. Inizia ora un
processo di rollout del nuovo brand, un lavoro
complesso e avvincente che non potrà che
essere al centro delle attività di comunicazione per tutto il 2016. La scelta che abbiamo
fatto è stata di non promuovere il nuovo logo
attraverso una campagna istituzionale su Tv
e stampa, ma di farlo conoscere gradualmente e in maniera più naturale, attraverso le
nostre attività commerciali e di promozione
dello sport e della cultura che da sempre ci
contraddistinguono. Un primo decisivo momento di questo percorso avverrà a partire
da aprile, quando i nostri clienti riceveranno
la bolletta per la fornitura di elettricità o gas
con il nuovo logo Enel. Si tratta senza dubbio
di uno dei più potenti mezzi di divulgazione
a nostra disposizione, visto che ogni anno
recapitiamo oltre 200 milioni di bollette.
formiche 112 — marzo 2016
«Con il programma Futur-E si vogliono
rilanciare 23 centrali termoelettriche.
Lo stesso è già avvenuto in altri Paesi
europei, come ad esempio con la Tate
Modern di Londra, la Central Tejo di
Lisbona e la CaixaForum di Madrid»
Occorre però aggiungere che, già a partire
dalla fine del mese di febbraio, i circa 32 milioni di nostri clienti inizieranno a ricevere
la bolletta 2.0, molto più facile da leggere,
colorata e completa di tutte le informazioni
utili in un’unica pagina. La nuova Enel non
potrà che essere presente anche nelle nostre
comunicazioni commerciali, su qualsiasi
mezzo: spot Tv, tramite affissioni e online.
La prossima campagna sarà, infatti, il primo
momento in cui mostreremo l’immagine del
Gruppo su più canali contemporaneamente
e abbinata a servizi ideati per i nostri clienti.
Nel 2016 proseguirà anche l’impegno di Enel
per la promozione dell’arte, della cultura e
dello sport. Il nostro nuovo logo campeggerà sulla maglia rosa che verrà indossata ogni
giorno dal ciclista in testa alla classifica generale della 99esima edizione del Giro d’Italia,
che prenderà il via il 6 maggio da Apeldoorn,
in Olanda, e si concluderà il 28 maggio a Torino. La nuova Enel accompagnerà gli atleti
in un viaggio di oltre 3mila chilometri lungo
tutta la penisola, in un percorso che unirà
comunità, territori e generazioni diverse con
la passione per le due ruote. Così come Enel
con la propria rete connette tutte le città e le
località, anche quelle più remote del nostro
Paese, il Giro d’Italia unisce tutto il territorio
nazionale da nord a sud. Questa partnership,
che ci permetterà di far conoscere la nostra
nuova identità ovunque, proseguirà anche
l’anno prossimo nella storica edizione del
centenario del Giro d’Italia. Il nostro impe-
gno per la promozione dello sport e della
cultura non si ferma qui. Enel è infatti il
primo socio fondatore privato del MAXXI, il
Museo Nazionale delle Arti del xxi secolo a
Roma; una collaborazione che ci vede coinvolti in prima persona in un piano molto
ambizioso di efficientamento energetico del
museo, all’insegna della sostenibilità e del risparmio. Oltre al MAXXI, Enel sostiene le tre
principali istituzioni musicali italiane: l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, il Teatro
alla Scala e il Maggio Musicale Fiorentino.
Infine, dal punto di vista industriale, c’è un
progetto particolarmente ambizioso che investe moltissimo anche la comunicazione,
che abbiamo lanciato con successo nel 2015
e che proseguirà anche negli anni a venire.
Si tratta del programma Futur-E, lanciato
per riqualificare con la collaborazione delle
comunità locali 23 centrali termoelettriche
che hanno esaurito la propria funzione, e
per le quali stiamo ipotizzando un futuro
diverso. Si tratta di siti industriali che hanno reso possibile la crescita e lo sviluppo
del nostro Paese e che potrebbero giocare
ancora un ruolo importante. Lo stesso è già
avvenuto in altri Paesi europei, in cui centrali elettriche storiche, soprattutto se inserite in contesti urbani, sono diventate poli
culturali di primo piano a livello mondiale,
come ad esempio la Tate Modern di Londra,
la Central Tejo di Lisbona e la CaixaForum
di Madrid. Per i 23 impianti italiani abbiamo deciso di lanciare dei concorsi di idee:
il primo è quello per la centrale a turbogas
di Alessandria, ferma dal 1994, per la quale sono state selezionate tre idee tra quelle
presentate da oltre 200 partecipanti di otto
Paesi. La prossima centrale per la quale sarà
lanciato il bando è quella di Rossano Calabro e altre ne seguiranno.
83
IDEE
Il percorso verso
la semplificazione
di Carlotta Ventura
Direttore Brand strategy & media di TIM
I clienti vogliono comunicare, lavorare, divertirsi sempre più liberamente, indipendentemente dai dispositivi e dalle piattaforme. Per questo dovevamo pensare a
un brand e a un logo unico, nativo digitale, che avesse in sé la duttilità necessaria all’infinità di contesti che il digitale
stesso prevede. Lo step-chiave è stato
poi definire il nuovo territorio di marca,
l’area ideale in cui operare. L’abbiamo
identificata nell’onlife, lo spazio nella
vita delle persone in cui offline e online
si fondono e la tecnologia fa incontrare
analogico e digitale, aprendo una serie
infinita di opportunità
L’accelerazione dei ritmi quotidiani rende
sempre più importante l’utilizzo efficiente
di risorse finite come tempo e energia. Risorse strategiche, al pari del denaro. Per questo
la parola-chiave oggi è semplicità, ancor più
per chi ha il privilegio di occuparsi di comunicazione d’impresa, o di comunicazione in
generale. La sfida è trasformare messaggi articolati in informazioni lineari, un universo
complesso – come un brand storico e stratificato – in una promessa semplice, comprensibile – e realistica – che crei un legame di
fiducia tra dipendenti dell’azienda, clienti,
fornitori e istituzioni.
La ricerca della semplificazione al servizio
del cliente, senza perdere i valori fondanti
dei brand, è compito piuttosto impegnativo.
Il Gruppo Telecom Italia negli anni aveva sviluppato un’architettura di marca frammentata e inefficiente, con una moltitudine di
loghi che esprimevano un’identità poco coerente. Anche il mother brand Telecom Italia
scontava la difficoltà di essere sia legal entity
sia brand commerciale, ma solo per la telefonia fissa. Rinnovare i fondamentali e uti84
lizzare TIM come unico brand commerciale è
stata una scelta veloce ma ponderata, basata
sui risultati di molte ricerche sui colleghi –
che devono aderire di testa e di cuore a una
rivoluzione identitaria– e sui clienti, concordi nel considerare i tempi ormai maturi.
Abbiamo deciso di puntare su TIM come
brand unico commerciale per fare un passo
deciso verso il futuro. Il lancio, a metà gennaio di quest’anno, del nuovo logo, dell’adv
istituzionale e della nuova identity, è il risultato di un’analisi profonda e di un processo
graduale, iniziato a gennaio 2014 da un team
di professioniste (Stella Romagnoli, leader
del team, Gaia Spinella, ricerche, Isabella
Lauro, strategia, ed Elena Tondini, creatività), che ha trovato la chiave partecipativa per
coinvolgere l’intera azienda e i suoi touchpoint
istituzionali e commerciali, verificando ogni
scelta per minimizzare gli errori. La composizione del team indica come sia cambiata
la comunicazione, e le componenti scientifiche di ricerca e lettura dei dati (anche dei
big data) abbiano un ruolo strategico equivalente alla scintilla creativa. L’allineamento di
tutti i canali di comunicazione, online e offline, push o pull, la capacità di sottosegmentare
il target e analizzarne attitudini, abitudini e
interessi sono fondamentali per la riuscita di
un progetto nell’era digitale.
Il rebranding di TIM non è stato un restyling
del marchio, una – per quanto prestigiosa
– attività di comunicazione, ma un riposizionamento dell’azienda. Abbiamo scritto
per il vertice una nuova visione del nostro
ruolo sul mercato. Abbiamo studiato come
raggiungere la semplificazione insieme alle
funzioni di business. Siamo partite dall’analisi del contesto. I brand globali di maggior
successo, i cosiddetti GAFA (Google, Apple,
Facebook e Amazon), mostrano come iden-
formiche 112 — marzo 2016
«I brand globali di maggior successo, i
cosiddetti Gafa (Google, Apple,
Facebook e Amazon), dimostrano
come identità e architettura di marca
immediate, coerenti e di facile
interpretazione siano fondamentali nel
creare un rapporto proficuo e di
soddisfazione con gli stakeholder»
tità e architettura di marca immediate, coerenti e di facile interpretazione, creino un
rapporto proficuo e di soddisfazione con gli
stakeholder. Sono ecosistemi che conducono
il cliente al loro interno senza disorientarlo,
anzi autorizzano l’estensione della marca
a business adiacenti, accompagnando e fidelizzando il pubblico. Le telecomunicazioni
entrano in questo processo naturalmente,
grazie alla convergenza delle reti: i clienti
vogliono comunicare, lavorare, divertirsi
sempre più liberamente, indipendentemente dai dispositivi e dalle piattaforme. Per
questo dovevamo pensare a un brand e a un
logo unico, nativo digitale, che avesse in sé
la duttilità necessaria all’infinità di contesti
che il digitale stesso prevede.
Lo step-chiave è stato poi definire il nuovo
territorio di marca, l’area ideale in cui operare. L’abbiamo identificata nell’onlife, lo
spazio nella vita delle persone in cui offline e
online si fondono e la tecnologia fa incontrare
analogico e digitale, aprendo una serie infinita di opportunità. E abbiamo ridefinito di
conseguenza la brand proposition: “Connessi
alla vita. Sempre. Ovunque. Meglio”.
Definito e, soprattutto, condiviso il territorio con le business unit, in un biennio abbiamo fatto convogliare tutti i messaggi
di comunicazione – non solo adv – sotto il
marchio TIM. Siamo partiti inserendo nelle
comunicazioni sull’ultrabroadband la call to
action a entrare nei negozi TIM e poi siamo
andati progressivamente su tutti i touchpoint,
sforzandoci di accompagnare il cliente senza lasciare nessuno indietro. Avendo come
bussola la semplicità, dall’utilizzo dei due loghi separati siamo passati prima all’uso congiunto, poi alla firma TIM con endorsement
Telecom Italia e infine all’unico brand commerciale TIM, che lascia a Telecom Italia solo
il ruolo di personalità giuridica dell’azienda.
Contemporaneamente, abbiamo rinominato
le partnership strategiche e le offerte, semplificando e rilanciando col marchio TIM tutta
l’architettura del brand. Abbiamo agito sul
fronte interno, contribuendo a semplificare
la cultura organizzativa e rinnovando la employee value proposition per perseguire il duplice scopo di essere aspirazionali per i giovani
talenti e motivazionali per i dipendenti. La
TIM-icon rossa e il wordmark bianco su fondo
blu che rappresentano oggi l’azienda sono
solo uno dei passaggi, per quanto il più spettacolare, di questa strategia.
Svolte di questo peso vedono i loro effetti
nel lungo termine, è troppo presto per trarre
bilanci. Di certo, però, rimane l’esperienza
di come deve cambiare l’approccio alla comunicazione in un periodo storico in cui
l’uso consapevole di Internet come mezzo di
informazione, verifica e confronto aumenta
la responsabilità di chi rappresenta l’azienda. Non sono più consentiti racconti non
seguiti dai fatti, dichiarazioni superficiali o
incomplete. La Rete ha cambiato l’attitudine
del pubblico consegnandogli un ruolo partecipativo delle questioni che lo interessano.
Questo cambiamento è – per fortuna – irreversibile e richiede, oltre alla semplicità, trasparenza e coerenza.
85
IDEE
Un nuovo nome
per ridefinire il futuro
di Federico Fabretti
Responsabile rapporti istituzionali, relazioni esterne e comunicazione di Finmeccanica
La decisione di cambiare il nome di
Finmeccanica è funzionale alla nuova
strategia di comunicazione, e non poteva
che avvenire in questo momento storico
nel quale si ridefiniscono obiettivi e priorità, si disegnano nuovi modelli di sviluppo e ci si propone con un nuovo ruolo
all’interno del sistema-Paese
L’anno appena trascorso ha segnato, per
Finmeccanica, il compimento di un radicale processo di trasformazione: un periodo
in cui abbiamo immaginato cosa volevamo
diventare e costruito, intorno a quell’idea,
un’impresa rinnovata, più dinamica e coesa, e con una struttura più coerente con le
esigenze dei nuovi mercati globali. Non più
una corporate a capo di un gruppo di aziende,
ma una grande realtà industriale che integra al proprio interno le linee di business e si
presenta al mercato con una voce sola. One
company, per essere più forti, one voice, per
parlare ai mercati del mondo.
Abbiamo deciso cosa vogliamo essere, ma
anche dove vogliamo stare: noi siamo il risultato di una grande storia imprenditoriale
che ha segnato lo sviluppo industriale e tecnologico del nostro Paese, portando lavoro e
innovazione in settori strategici e stabilendo
una solida base – di creatività, intelligenza e
know how – per esportare tale eccellenza tecnologica nel mondo. Siamo un grande gruppo, dunque, l’unico nel panorama nazionale
a operare in settori e servizi ad alta intensità di conoscenza e di tecnologia e siamo,
per questo, un driver d’innovazione, che crea
occupazione di qualità, aggrega filiere produttive importanti e genera un contributo
positivo alla crescita e all’economia del nostro sistema-Paese. Ma siamo anche, per la
peculiarità del nostro business, attori su un
86
palcoscenico mondiale, perché è nel mondo
che dobbiamo vincere la sfida con i nostri
competitor ed è nel mondo che dobbiamo conquistare la fiducia di partner e clienti.
Cosa dunque vogliamo comunicare? Quali
sono le priorità e i messaggi da trasmettere
per un’azienda globale che ha l’ambizione
di porsi nella duplice veste di multinazionale
privata, impegnata a crescere e a creare valore
per tutti gli stakeholder, e di forza propulsiva
per il rilancio dell’intero sistema-Paese? La trasformazione da holding a one company cambia
radicalmente il posizionamento strategico di
Finmeccanica sui mercati e la percezione che
clienti e competitor avranno della nostra azienda, modificando in maniera sostanziale anche
la comunicazione che di quel nuovo ruolo è
diretta emanazione. One company vuol dire una
realtà fortemente integrata, con un maggior
peso specifico nei confronti dei competitor e
un’accresciuta autorità per imporre sul mercato i propri prodotti. Una nuova identità forte e riconoscibile che nasce in funzione della
centralità che il prodotto e il cliente assumono nella nuova Finmeccanica. E una nuova immagine di solidità e affidabilità che scaturisce
anche dal risanamento finanziario raggiunto
nell’ultimo anno.
In tale contesto, il nostro primo obiettivo è
quello diffondere il messaggio di un’azienda con le carte in regola per prendere parte
alla competizione internazionale, sana e con
le spalle robuste per perseguire le proprie
strategie industriali. E poi, comunicare efficacemente il valore dei prodotti che portiamo
sui mercati, l’eccellenza tecnologica di cui
sono espressione e la capacità di rispondere
ai requisiti più sfidanti. Una comunicazione
di prodotto funzionale alle linee di sviluppo
del business che mira a veicolare anche un altro
importante messaggio: l’attenzione al cliente,
formiche 112 — marzo 2016
«Finmeccanica non è più una
corporate a capo di un gruppo di
aziende, ma una grande realtà
industriale che integra al proprio
interno le linee di business e si
presenta al mercato con una voce
sola. One company, per essere più
forti, one voice, per parlare ai mercati
del mondo»
che seguiamo con un approccio di lungo periodo, prestando attenzione alla sua cultura,
alle sue aspirazioni e al suo linguaggio, costruendo un rapporto diretto e continuo, con
occhio sempre attento alle evoluzioni del mercato e a nuove opportunità.
Oltre a ciò, il ruolo di grande azienda globale e strategica nel nostro Paese comporta per
Finmeccanica l’assunzione di un’altra importante responsabilità: coltivare il valore dell’innovazione e dell’eccellenza tecnologica non
solo al proprio interno, ma anche nel tessuto
industriale ed economico in cui opera, a beneficio dell’intero sistema-Paese. In particolare i
giovani, che saranno la leva principale per lo
sviluppo dell’Italia del domani, devono trovare nella nostra azienda un generatore di cultura tecnologica che promuove la ricerca e la
sperimentazione e crea l’humus più adatto per
la crescita di una nuova generazione di talenti. Quindi, obiettivo della nostra comunicazione è anche quello di enfatizzare la specifica
valenza tecnologica del settore nel quale operiamo: in termini di specializzazione della manodopera, di effetti moltiplicativi degli investimenti effettuati e di ricadute applicative su
altri settori dell’economia nazionale. In una
parola, uno strumento essenziale per costruire l’Italia del futuro, che guarda al mondo.
Portiamo avanti questo impegno offrendo
visibilità a diverse iniziative: il supporto a
percorsi formativi, il riconoscimento di idee
innovative, il contributo alla divulgazione
scientifica. Progetti diversi che hanno un uni-
co obiettivo: mettere le nuove generazioni,
che domani raccoglieranno il testimone, in
grado di sostenere le sfide di un sistema industriale globale che sta cambiando molto rapidamente e che impone nuove competenze
e abilità. Internet delle cose, tecnologia cloud,
robotica avanzata, stampa 3D: già oggi sono
queste le nuove frontiere dell’industria. E il
vantaggio competitivo della nuova industria
si sposta dalle capacità produttive e manifatturiere a quelle di progettazione e ingegnerizzazione. È su questo che si giocheranno
le prossime sfide e su questo vogliamo che i
talenti del futuro si trovino preparati ad affrontare la partita.
Nel percorso che abbiamo tracciato, la decisione di cambiare il nome dell’azienda è
funzionale alla nuova strategia di comunicazione, e non poteva che avvenire in questo
momento storico nel quale si ridefiniscono
obiettivi e priorità, si disegnano nuovi modelli di sviluppo e ci si propone con un nuovo
ruolo all’interno del sistema-Paese. Il nuovo
nome sarà il primo e più importante punto
di sintesi dei valori profondi che sono alla
base del nostro fare impresa. Il nome è l’elemento più connotativo di qualsiasi azienda,
ed è da qui che abbiamo scelto di partire per
raccontare all’Italia e al mondo qual è l’identità della nuova Finmeccanica. E il nome sarà
il primo tra gli elementi visibili della nostra
comunicazione, specchio e canale comunicativo della parte non visibile, grazie al quale
vogliamo che i nostri valori profondi fluiscano all’esterno, per essere condivisi da tutti i
nostri interlocutori e per conquistare la loro
fiducia sulla nostra idea di futuro per la nuova Finmeccanica.
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Visioni
di Gianfranco Ferroni
Jakob Tuggener, Fabrik 1933-1953
Bologna, Mast
fino al 17 aprile
La Fondazione Mast propone due
mostre dedicate al fotografo svizzero
Jakob Tuggener (1904-1988), con
lavori esposti per la prima volta in
Italia. Con Fabrik 1933-1953 sono
visibili oltre 150 stampe originali del
lavoro di Tuggener, tratte sia dal suo
libro fotografico – saggio unico nel
suo genere, con un approccio critico
di grande impatto visivo e umano
sul tema del rapporto tra l’uomo
e la macchina – sia da altri scatti
dell’artista che affrontano momenti
del lavoro. Fabrik uscì nel 1943 in
piena Seconda guerra mondiale
e Tuggener, oltre a ripercorrere la
storia dell’industrializzazione, aveva
come finalità, non sempre svelata,
di illustrare il potenziale distruttivo
del progresso tecnico indiscriminato
il cui esito, secondo l’autore, era la
guerra in corso per la quale l’industria bellica svizzera produceva indisturbata. Ma il suo occhio riusciva a
essere attratto anche da altri mondi:
così, ecco Nuits de bal 1934-1950,
con le immagini della mondanità:
88
Tuggener, affascinato dall’atmosfera
spumeggiante delle feste dell’alta
società, aveva iniziato a fotografare a Berlino le dame eleganti e i
loro abiti di seta. Con la sua Leica,
indossando lo smoking, ha colto le
misteriose sfaccettature delle notti:
riprendeva con il suo obiettivo anche
“il lavoro invisibile” dei musicisti, dei
camerieri, dei cuochi, dei valletti,
dei maître che attraversavano quel
mondo festoso e autoreferenziale.
La pubblicazione del materiale dedicato ai balli venne osteggiata, per
il desiderio di numerosi protagonisti
di rimanere anonimi, celando al
pubblico i lussuosi intrattenimenti
danzanti. Il contrasto tra la luminosa
sala da ballo e il buio capannone
industriale ha caratterizzato la sua
opera artistica, e per rappresentare l’eclettismo e l’eccezionalità
dell’artista il percorso espositivo è
arricchito anche da lungometraggi e
prototipi di libri. Tuggener si definiva
“un poeta dell’immagine” che, oltre
a usare la macchina fotografica, si
interessava alla pittura e dirigeva
film ispirandosi all’espressionismo
tedesco degli anni Venti. Era un osservatore e un magistrale interprete
del mondo dei forti contrasti. “Seta
e macchine, questo è Tuggener”,
come amava affermare di se stesso.
Barbara Klemm
Roma, Casa di Goethe
fino al 27 maggio
Per i tedeschi il nome di Barbara
Klemm è quello dell’autrice della
celebre fotografia dedicata al bacio
sulla bocca tra Erich Honecker e
Leonid Breznev. Oggi, a Roma, la
Casa di Goethe, in via del Corso,
presenta una mostra curata da Maria
Gazzetti con alcuni preziosi lavori
della professionista dell’immagine
che ha seguito le orme di Goethe disegnatore e viaggiatore, contemplando i soggetti scelti dal poeta ma con
lo sguardo di oggi. La prima mostra
personale in Italia dell’artista (classe
1939) espone una scelta di 45
fotografie in bianco e nero. Nel 2012
la fondazione Altana-Kulturstiftung di
Bad Homburg aveva invitato Klemm a
fotografare i luoghi che il poeta aveva
fissato a penna e china in occasione
dei suoi viaggi e delle sue escursioni
in Boemia, Germania, Svizzera e Italia. L’obiettivo non era la riproduzione
fedele in fotografia, ma l’esperienza
personale collegata alle località
visitate: così i lavori creati da Klemm
sono caratterizzati da uno sguardo
dominato dalla libertà, dimostrando
come la fotografia di paesaggio non
sia la semplice riproduzione delle
cose viste. Nella mostra romana le
fotografie dialogano con una piccola
scelta di riproduzioni dei disegni
italiani di Goethe e con alcuni esempi
di paesaggi della collezione del
museo: l’attenzione per le peculiarità
degli scenari naturali e la capacità di
fissare il movimento nell’immagine
costituiscono i denominatori comuni
per il disegno e la fotografia. Gli scatti
di Klemm raccontano il suo speciale
rapporto con la luce e il suo metodo
di composizione dell’immagine, con
una genialità ispirata dallo sguardo creativo di Goethe e dalla sua
capacità di astrazione. Klemm ama
lavorare con due microcamere, una
Reflex e una a telemetro: fa poco uso
del treppiede in quanto scatta quasi
sempre a mano libera. La sua fedeltà
alla fotografia in bianco e nero e la
preferenza di formati piccoli conferiscono alla sua fotografia di paesaggio
una magia particolare e virtuosa. Per
decenni Klemm ha raccontato il suo
sguardo sulla storia con immagini
scattate per il quotidiano Frankfurter
allgemeine zeitung.
Robert Doisneau.
Le merveilleux quotidien
Monza, Arengario
dal 19 marzo al 3 luglio
Una mostra dedicata a uno dei
più grandi fotografi del Novecento:
Robert Doisneau. Le merveilleux
quotidien, a cura dell’Atelier Robert
Doisneau, è un’esposizione realizzata
da Fratelli Alinari. Fondazione per la
Storia della fotografia e ViDi, in collaborazione con il comune di Monza
e con la consulenza scientifica di
Piero Pozzi. Il percorso espositivo
presenta una selezione di 80 fotografie originali che ripercorrono i primi
44 anni della carriera del maestro
francese, dalla sua prima fotografia
scattata nel 1929 a soli 17 anni,
fino alla sua opera del 1973, periodo
storico in cui i protagonisti dei suoi
lavori diventano soggetti e luoghi a lui
molto cari, come quelli delle banlieue
parigine. Con la sua curiosità, Doisneau è riuscito a mostrare il mondo
che vedeva e che viveva attorno a
lui. Un vero e proprio narratore della
realtà che ha saputo immortalare
e trasmettere la reale vita di tutti i
giorni della capitale francese. Le sue
fotografie raccontano la città di Parigi
in fermento, con attimi ordinari, gesti
della vita compiuti con semplicità e
autenticità, personaggi accomunati
da un’anima generosa. I suoi scatti
sono dominati da una forte carica
emotiva, da un atteggiamento di
tenero e benevolo divertimento nei
confronti della sua epoca che non
deve tuttavia fuorviare dal cogliere la profondità della riflessione,
l’autentica insolenza verso il potere
e l’autorità, oltre all’irriducibile spirito
d’indipendenza. Negli ultimi anni
diverse esposizioni in tutto il mondo
hanno reso omaggio all’opera di
questo fotografo che, durante la sua
carriera, ha realizzato oltre 450mila
fotografie. La mostra allestita all’Arengario di Monza vanta la presenza
di oltre 50 scatti stampati direttamente dall’autore ed esposti per la
prima volta in Italia insieme a un
percorso cronologico pensato per far
scoprire non solo l’opera del maestro, ma anche la sua umanità.
89
Schermaglie
Reliquie, aura e mass media
di Fabio Benincasa
Duquesne University
Il febbraio appena trascorso
ha visto uno dei primi episodi
di massa previsti per il grande
Giubileo della misericordia: la
solenne ostensione delle reliquie di san Pio di Pietrelcina a
Roma, che si è articolata in tre
giorni coinvolgendo vari luoghi
della città, prima che il corpo del
popolarissimo mistico cappuccino
fosse portato nella basilica di San
Pietro. L’estrema partecipazione
al viaggio del corpo imbalsamato
di Padre Pio, che ha mobilitato
migliaia di fedeli, oltre che le forze
dell’ordine in assetto da guerra,
ha impressionato notevolmente i
media. Molte le critiche piovute su
quello che viene visto come una
sorta di neopaganesimo, se non
superstizione tout court, e molte
polemiche per un’ostensione che
tutto sommato avviene in permanenza nel santuario di San Giovanni Rotondo, senza che per questo
si scaldino gli animi delle opposte
fazioni mediatiche dei sanfedisti e
dei mangiapreti.
Premesso che la teologia cattolica
spiega la venerazione dovuta ai
santi con la loro partecipazione
alla santità di Dio, il caso delle
reliquie è molto interessante perché mobilita un concetto, quello
di aura, che è alla base dell’estetica contemporanea. Lo stesso
Walter Benjamin per spiegare
l’aura risaliva alle origini dell’opera d’arte, che prima di essere
oggetto estetico era oggetto di
culto e devozione. Pochi giorni
dopo l’ostensione del corpo di san
Pio, un’altra polemica si è sollevata attorno alle reliquie di san
Valentino, conservate, come noto,
a Terni. Qui i fedeli si sono opposti
fisicamente al tentativo di traslare
(anche solo temporaneamente) le
reliquie dalla basilica alla cattedrale della stessa città: meno di 2
chilometri in linea d’aria. Abbiamo
il paradosso di una reliquia estremamente mediatizzata che viaggia
per mezza Italia senza perdere
nulla del suo carisma, e dei fedeli
ternani, o almeno alcuni di loro,
che pretendono reliquie stanziali
e musealizzate. Il paradosso si
fa ancora più evidente quando si pensa che san Valentino,
connesso ormai a una mitologia
pop di protettore degli innamorati,
è il santo cristiano più conosciuto
dai non cristiani nel mondo. Certo,
l’americano ebreo o il giapponese
shintoista che regalano una scatola di cioccolatini a forma di cuore
alla loro ragazza per il 14 febbraio
non stanno celebrando alcuna
posizione ecumenica, eppure
inconsapevolmente il loro gesto si
riaggancia a un’aura devozionale
che, almeno in principio, è stata
proiettata proprio dalle reliquie
ternane.
In entrambi i casi l’aura attribuita
alle reliquie è frutto di uno specifico legame di venerazione con
la santità che apparteneva a un
uomo vivo e non al suo corpo (o a
parti di esso), tuttavia si estende
e si dissemina a dismisura anche
grazie all’azione mediatica esercitata a partire dal carisma originario. Una tra le cose più importanti
che ci mostrano le reliquie, lasciando da parte il loro significato
religioso, è questa possibilità di
disseminare infinitamente l’aura,
tanto più potente quanto più
connessa con un effetto di framing
che ci porta lontano dall’interezza
che esprimeva il carisma originale.
L’icona pop, che domina il nostro
mondo mediatico, è frutto delle
stesse forze spirituali che sostengono il culto delle reliquie.
Indice delle cose notevoli:
* Un articolo de Il Corriere sul
caso delle reliquie di san Valentino: http://www.corriere.it/
cronache/16_febbraio_13/ternifedeli-bloccano-reliquie-san-valentino-3f10ea12-d245-11e5-be28b2318c4bf6d8_preview.shtml
* Uno dei saggi che hanno fondato
l’estetica contemporanea: Walter
Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica,
Torino, Einaudi, 2000
* Alcune immagini dell’ostensione
di Padre Pio: https://www.youtube.
com/watch?v=Frj-k1HDdPE
* Un saggio sul culto delle reliquie:
Charles Freeman, Sacre reliquie.
Dalle origini del cristianesimo alla
Controriforma, Torino, Einaudi,
2012
* Il corpo di Padre Pio nella
basilica di San Lorenzo: https://
www.youtube.com/watch?v=9M_
hcrWSzV0
91
Palchi
e platee
La rinascita
de “La cena delle beffe”
di Beckmesser
In questa stagione, si assiste non
solo alla renaissance delle opere
giovanili di Giuseppe Verdi, ma
anche a un nuovo interesse per
la “giovane scuola” (di compositori nati alla fine dell’Ottocento)
dopo una fase in cui, tranne le
sei maggiori opere di Puccini e il
dittico di Mascagni e Leoncavallo
“Cavalleria e Pagliacci”, sembrava
coperta di una coltre di oblio. Titoli
come La leggenda di Sakùntala di
Alfano, L’amico Fritz di Mascagni
e Fedora di Giordano, per non
citarne che alcuni, compaiono di
nuovo nei cartelloni e consentono,
con la distanza dalle polemiche
contingenti (spesso di natura
politica nei confronti del periodo
in cui questi lavori vennero scritti,
non solo per apprezzare le difficoltà musicali e vocali, ma anche
per vederne il nesso con la nuova
opera americana). Negli Stati Uniti
questi titoli non sono mai spariti
dalla programmazione e, anzi,
hanno seminato la scuola operistica americana della seconda metà
del Novecento.
Tra i più interessanti c’è La cena
delle beffe, tratto da Giordano
da un dramma di Sem Benelli
(peraltro fortemente accorciato su
richiesta del compositore).
Un nuovo allestimento viene
presentato alla Scala, dove ebbe
il proprio battesimo il 20 dicembre
1924. Tra i lavori di Giordano,
e della giovane scuola, è forse
quello che ottenne, all’epoca, il
maggior successo di pubblico, ma
92
anche le più acide riserve dalla
critica (che lo chiamò “dramma da
arena o da cinematografo”). Per
Giordano seguirono cinque lunghi
anni di silenzio, che precedettero
il suo ultimo lavoro, la delicata
novella Il re, a contrasto quasi
con la grandguignolesca Cena. Il
colpo finale venne forse negli anni
Settanta, quando la monumentale Storia dell’Opera della Utet
definì La cena delle beffe (ormai
raramente in scena) “l’ignobile
fiorentinata pseudo dannunziana
che è stata riprodotta e diffusa
con tutti i mezzi, cinematografo
compreso”.”La musica è funzionalmente buona, ma appunto per
questo partecipa dello squallore
della funzione che adempie”.
La cena delle beffe è stata riproposta a Foggia nel 1988 (ne esiste un ottimo cd della Bongiovanni
Digital, con l’allora giovanissimo
Fabio Armiliato in uno dei tre ruoli
principali) e a Bologna nel 1999.
È, però, presente con una certa
frequenza in cartelloni tedeschi e
americani. Il nuovo allestimento
scaligero è un’occasione per dare
un giudizio più meditato. È senza
dubbio un’opera d’intreccio non
solo come altre di Giordano ma
come quelle di Franz Schreker,
oggi considerati tra i capolavori
assoluti di quel periodo. Quindi, i
personaggi non hanno un vero e
proprio sviluppo psicologico: Ginevra è tutta e solo sesso, Giannetto
vive di vendetta, Neri è l’immagine
della violenza, Gabriello il povero
imbelle oggetto della crudele beffa
finale). Richiedono, però, grandi
voci ed eccelse capacità attoriali.
Non per nulla nei ruoli principali si
sono cimentati in passato Beniamino Gigli, Giacomo Lauri Volpi,
Francesco Merli, Titta Ruffo e simili. La declamazioni altisonante di
gusto verista non rinnega gli ariosi,
le romanze e i duetti, sapientemente distribuiti tra i quattro brevi
e compatti atti, densi d’azione,
intrighi, sensualità quasi sfacciata
(altro nesso con Schreker). La
vera novità è la scrittura orchestrale. Da un lato è arcaicizzante,
in linea con i canoni dell’epoca
quando si metteva in scena una
vicenda di un ipotetico rinascimento. Dall’altro include canzoni e
stornelli non solo come Mascagni ma anche come Korngold
(altro nesso importante, spesso
dimenticato nel trattare la giovane
scuola). In ultimo un ritmo molto
rapido, finalizzato alla speditezza
incalzante dell’azione, ma con
tratti grotteschi e ironizzanti della
timbrica che quasi sottolineano il
vuoto del pur fortunato dramma in
versi di Sem Benelli. È un’orchestrazione che sembra quasi aprire
la strada a percorsi innovativi
italiani, come quelli di Malipiero e
Casella. Alla Scala la drammaturgia è nelle mani di Mario Martone.
Sul podio ci sarà Carlo Rizzi. I tre
protagonisti saranno Marco Berti,
Kristin Lewis e Simone Alaimo.
Fiori di carta
di Cesare De Michelis
Docente di Letteratura italiana
moderna e contemporanea
presso l’Università di Padova
Sin dal titolo, il nuovo romanzo di
Franco Cordelli evoca l’incertezza sfuggente e contraddittoria di
una storia generazionale – la sua,
ma anche la mia – che intravede
all’orizzonte il lento spegnersi del
giorno e, tentando una resa dei
conti e continuando ossessivamente a interrogarsi, non sa riconoscere il senso ultimo e il risultato
di tanto convulso affannarsi, che
pure irrimediabilmente ci ha preso
e coinvolto: Una sostanza sottile
suggerisce la concretezza materiale
di una solida presenza e l’effimera
leggerezza di una realtà fragile, quasi impalpabile. Alla fin fine si tratta
di un bilancio, come altre volte era
già stato nei romanzi di Cordelli,
in questo caso più necessario e
paradossalmente irraggiungibile,
perché intanto la modernità esplosa
ha raso al suolo progetti, speranze
e certezze, lasciandoci incanutiti e
impauriti spettatori di una distesa
di rovine nella quale fatichiamo a
riconoscere le tracce di un’esperienza che pure ci appartiene e
ha persino contribuito a disegnare
la nostra più intima identità. Al
termine di una degenza ospedaliera,
che ha reso evidente la precarietà
della salute e ha costretto a ripetute
anamnesi, risvegliando molteplici
ricordi, un padre raggiunge la figlia
in Provenza – terra di poeti – per
una breve vacanza: è l’occasione
per guardarsi alle spalle e ripercorrere quanto li ha uniti e ancora li
unisce, ma anche, e forse soprattutto, per rivelare quanto sinora si è
Franco Cordelli
Una sostanza sottile
Einaudi, pp. 264, euro 21
taciuto perché “eri troppo giovane,
troppo figlia” e “non potevo, non
ero capace”. Così, anche se i fatti
sono davvero capitati all’autore,
la narrazione non procede lineare,
anzi si interrompe e divaga e poi si
ingarbuglia, perdendo il filo mentre
sfida i grandi temi dell’essere e del
divenire, tornando sui propri passi
e poi proiettandosi generosamente in avanti, cambiando genere
e registro stilistico per trovare le
parole più appropriate, ma sempre
avendo presente che non è più
tempo di toni sublimi, di parole
alate, di una poesia nella quale
s’incontrino necessità e caso in “un
mondo di pura immanenza”, perché
intanto la poesia “non c’è più”, la
sua illusione “è finita da tempo” e
quindi “basta”! Lo stesso scrivere gli
appare “cosa remota, anzi finita”,
anche se la Provenza – la Provenza
di Petrarca – si manifesta come
“un miraggio dell’inconscio, o una
profezia” e “ogni profezia è profezia
d’una scrittura”, in una spirale
straniante che ripropone l’urgenza
degli interrogativi e la speranza delle
risposte, la luce della rivelazione e
lo smarrimento nell’inconscio: in fin
dei conti la realtà resiste insignificante nella sua ottusa presenza,
mentre a suggerire un “senso”
sono soltanto le “relazioni”, che
oltrepassano la sostanza sottile
squarciando i veli che impediscono
di vedere. È questo, dunque, ancora
un romanzo, o decisamente la sua
negazione, un andare oltre senza ritorno? La figlia prova a intendere, a
decifrare il messaggio paterno, fino
a convincersi “di aver capito la sua
teoria”: “un grande fiume, la foce, il
delta, gli affluenti. Tutto a frammenti, un po’ qua, un po’ là, come
ti pare”, intrecciando ogni volta la
vicenda e le riflessioni, sospendendo l’una per dare consistenza alle
altre, riconoscendo l’incongruenza
dello svolgimento, la sua irriducibile
discontinuità che sfugge a qualsiasi
forma definita, sorretta dalla scrittura, “per come è scritto, per l’anima
sua”. Ancora una volta il bilancio
di un’esperienza si conclude in uno
scacco, nell’assenza di quell’equilibrio vanamente inseguito,
di quella palingenesi inutilmente
attesa: i conti non tornano, anche
se il tempo intanto si è consumato
e la scrittura ha abbandonato le
avventure dell’innovazione o delle
avanguardie per ripiegare prudentemente su se stessa, continuando
a combattere tristezze e malattie
pur di perseverare nel “farci notare
che i casi universali sono prima di
tutto casi personali”, perché “è per
questo che esistono i romanzi”. Ha
ragione Giorgio Ficara, Una sostanza sottile, “questo benvenuto libro”,
è “il capolavoro” di Cordelli, il testo
nel quale lo scrittore raggiunge la
vetta del suo Mont Ventoux e spazia
con lo sguardo verso l’orizzonte, e
insieme scorre lungo le tappe della
sua e nostra storia nella certezza di
raccoglierne il valore, ben sapendo
che nessun ordine, nessuna forma
potrà contenerlo e consegnarlo alle
generazioni che verranno.
93
PERCHÉ ASPETTARE UN MESE?
FORMICHE, OGNI GIORNO
W W W . F O R M I C H E . N E T
Inchiostri
di Valeria Serpentini
A cura di Lara Jakes,
Paolo Messa, Massimo Milone
The American pope
Libreria Editrice Vaticana, pp. 260,
euro 15
Papa Francesco sta sicuramente
segnando un punto di svolta nella
storia umana. E il viaggio intrapreso negli Stati Uniti e a Cuba nel
settembre scorso è parte integrante di un percorso di riconciliazione,
speranza e futuro. Costruire ponti
per costruire la pace. Un messaggio tanto semplice quanto forte.
I discorsi e il senso delle visite a
Cuba, al Congresso Usa e all’Onu
raccolti e analizzati, anche alla
luce delle recenti evoluzioni politiche e sociali.
A cura di Claudio Cerasa
con Piero Tony
Io non posso tacere.
Confessioni di un giudice di sinistra
Einaudi, pp. 134, euro 16
Magistratura e politica sono quindi
poteri collegati, intersecati e reciprocamente influenzati? O sono
poteri che si combattono? La dibattuta questione ci pone davanti
a una scelta: chiudere gli occhi e
andare avanti per la propria strada
o cercare racconti che ci aiutino
ad avere un’opinione. Piero Tony,
magistrato certificato e autocertificato di sinistra, ha deciso di andare in pensione anticipatamente
per raccontare la storia di una
magistratura vista dall’interno.
A cura di Samuele Sangalli
Religion and politics
Pontificio Istituto Biblico, pp. 384,
euro 22
In un mondo globalizzato e chiamato ad affrontare una serie di
sfide di rilevanti dimensioni – cambiamento climatico, conflitti di
classe, individualismi – trovare una
chiave di lettura più armoniosa
tra i popoli è quanto mai urgente.
Apprendimento reciproco, rispetto
e cooperazione sono alla base di
riflessioni sul ruolo delle religioni
nelle relazioni umane, politiche e
internazionali. A scriverne sono importanti relatori che hanno preso
parte al Cenacolo Sinderesi della
Pontificia Università Gregoriana.
Mauro Calise
La democrazia del leader
Laterza, pp. 159, euro 13
Metamorfosi del partito, partito
senza sistema, governo presidenziale. Una lenta e progressiva
metamorfosi della rappresentanza
democratica. Il leader che si riap-
propria delle caratteristiche tipiche
del Principe. Un sistema massmediatico che brinda alla personalizzazione del partito. E la democrazia pura che fine fa? Con le analisi
di Mauro Calise si cerca di dare
una risposta a un quesito che è
esso stesso chiara rappresentazione del cambiamento in atto.
Mario Mori
Servizi e segreti. Introduzione
allo studio dell’intelligence
G-Risk, pp. 272, euro 15
Si parla sempre più spesso di
intelligence. Si sente dire che i
servizi italiani forniscono al Paese
analisi e strumenti di azione di
alto livello. A ogni nuovo attentato si punta il dito verso falle e
inefficienze degli 007. Ma chi c’è
davvero dietro questa macchina?
Il generale Mario Mori, ex capo del
Sisde, ne ripercorre la storia italiana e le sue interazioni e influenze
esterne che, soprattutto dalla fine
della Seconda guerra mondiale,
ne hanno determinato importanti
caratteristiche.
95
BENEDETTE PAROLE
La diplomazia interreligiosa
e le sfide globali
di Benedetto Ippolito
Il xx è stato indubbiamente il secolo delle ideologie politiche: pensieri sistematici che hanno tentato – guidati dal nazionalismo e dal comunismo – di ricreare, per dominare, intere civiltà in modo totalitario. Il xxi invece è nato sotto la
stella delle religioni: visioni del sacro e del soprannaturale che si sono imposte
come cause identificanti e grandi motori collettivi.
La differenza tra questi due paradigmi è forte. Le religioni sono veicoli di verità
e, al contempo, non sono creazioni umane, vantando per sé un’investitura divina e una provenienza arcaica.
L’occidente ha toccato con mano la forza violenta del fondamentalismo islamico non solo nel 2001, con l’attacco a New York dell’11 settembre, ma anche
nella vecchia Europa con gli attentati di Parigi dello scorso anno. Sebbene, ovviamente, l’Isis – tanto quanto al-Qaeda – abbia a che fare solo indirettamente
con la sfera religiosa, tuttavia la sollecitazione e la reazione non hanno potuto
evitare di coinvolgere i grandi monoteismi: cristianesimo, islam ed ebraismo.
È chiaro, pertanto, che se fosse vera la tesi di Huntington del conflitto di civiltà,
dovremmo concordare con Hans Kelsen, il quale sosteneva dal punto di vista
liberale la palese incompatibilità tra religione pubblica e democrazia. Laddove,
cioè, esiste una presenza osservante e riconosciuta della fede in una comunità,
non vi è possibilità di avere pluralismo, rispetto dell’altro e accettazione delle
procedure legali di rappresentazione paritaria degli interessi particolari.
In realtà, invece, l’altra grande scoperta del nostro presente è che l’antidoto
all’integralismo, come politicizzazione liturgica feroce, può essere unicamente
la buona religione, ossia la tutela di quelle autorità che garantiscono la corretta
trasmissione di valori spirituali, identificati con un fine sovrumano che trascende il tempo e la storia. Insomma, la risposta al fanatismo ideologico sta in una
buona politica che rispetti e valorizzi la libertà religiosa.
La tolleranza, d’altronde, è l’anima della democrazia. E in un’epoca in cui le
credenze sono i massimi fattori aggreganti e gli estremi elementi di divisione,
buona parte delle speranze di pace mondiale è riposta nelle mani della diplomazia interconfessionale.
Per questo l’incontro a Cuba tra papa Francesco e il patriarca ortodosso Kirill
ha una consistenza politica tanto rilevante. Se i cristiani riscoprono la loro unità nel dialogo, se musulmani, ebrei e cristiani sono in grado di riconoscersi figli
di uno stesso Dio, ecco che la religione torna a essere quello che deve essere:
un’interpretazione universale della verità che, parlando dell’eterno e del trascendente, declinato in modo peculiare, tutela la vita e ciò che in essa c’è di più
sacro: la persona umana.
96