Tesi congressuali

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Tesi congressuali
XVIII
ASSEMBLEA
NAZIONALE
il
L AVORO
RO
CURA
di
nelWELFARE
MBIA
IA
cheCAMB
Antiche sapienze e nuova professione
29 • 30 novembre • 1 dicembre 2013 • Roma
con il contributo di
XVIII
ASSEMBLEA
NAZIONALE
TESI CONGRESSUALI
il
LAVORO
RO
CURA
di
nelWELFARE
MBIA
IA
cheCAMB
Antiche sapienze e nuova professione
29 • 30 novembre • 1 dicembre 2013 • Roma
con il contributo di
T
Indice
Premessa
Le Acli Colf per il lavoro domestico e di cura .........................................................3
Il nostro comune impegno ........................................................................................................5
Introduzione ............................................................................................................................................7
1. Lavoro domestico e di cura: lavoratrici, bisogni
delle famiglie e risorse del welfare .............................................................................8
1.1 Dai numeri alle persone ..................................................................................................8
1.2 Il lavoro di cura nel welfare che cambia.............................................................14
2. Lavoro domestico e di cura tra informalità
e riconoscimento professionale .................................................................................20
2.1 Verso una nuova professione .....................................................................................20
2.2 Le informalità del mercato del lavoro domestico ...........................................20
2.3 Promuovere un lavoro dignitoso..............................................................................22
3. Costruire una nuova professione
superando ogni logica sottrattiva.............................................................................27
3.1 Importanti segnali di cambiamento .......................................................................28
3.2 Proposte in materia fiscale e previdenziale .......................................................35
3.3 Questioni di equità: malattia,
maternità e diritti nel welfare transnazionale..................................................37
4. Conclusioni.....................................................................................................................................41
La mission delle Acli Colf: prendersi Cura del Lavoro
di Cura in un percorso condiviso ....................................................................................42
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
Premessa
Le Acli Colf per il lavoro domestico e di cura
Le Acli Colf proseguono la loro mission di associazione che nelle ACLI promuove il lavoro domestico e di cura, favorendo la tutela della categoria e la sensibilizzazione rispetto alle nuove sfide che il contesto attuale ci pone. Diamo voce a chi non
ne ha: alle lavoratrici e ai lavoratori della categoria, ma anche ai caregivers familiari,
alle persone assistite, alle famiglie, ovvero a tutti quei bisogni, aspettative, storie
che incontriamo nella relazione di lavoro domestico e di cura. Da sempre la nostra
associazione si è spesa per supportare queste fragilità, che ancor oggi ci interpellano e
verso le quali dobbiamo ravvivare la nostra attenzione ponendoci in ascolto, soprattutto
a fronte delle pressanti difficoltà derivanti dalla crisi e dalle trasformazioni del contesto
socio-economico.
In particolare oggi ci sembra fondamentale riaffermare con forza la dignità del
lavoro domestico e di cura, ripartendo anche da una riflessione più generale sui significati
del Lavoro. Un Lavoro che diventa sinonimo di crescita personale e di maturazione
nella relazione con l’altro. Una relazione in cui possiamo riconoscere noi stessi e il
contribuito dato alla costruzione della società, a partire dai nostri luoghi di lavoro, di
impegno e dalle nostre comunità. Per questo come associazione riteniamo importante
affiancare le lavoratrici e i lavoratori del settore domestico e di cura per la promozione
e la tutela dei loro diritti e doveri, dando impulso agli strumenti che promuovono legalità
e forme di accompagnamento, tenendo in considerazione le particolari condizioni in cui
questa professione viene svolta e le persone coinvolte.
A fronte di ciò, è per noi fondante promuovere luoghi in cui supportare e
dare risposte utili rispetto alle questioni legate al rapporto di lavoro, insieme alla
creazione di relazioni fiduciarie: luoghi in cui promuovere rapporti giusti e positivi
per vivere e diffondere una cultura della pace, della fraternità e della tolleranza,
attraverso l’incontro e il confronto costruttivo.
Per tale ragione, soprattutto in questo momento storico in cui la realtà ci rimanda
profondi segnali di sofferenza e spaesamento, in cui le reti comunitarie si indeboliscono
e le tensioni sociali aumentano, non possiamo distogliere la nostra riflessione sul significato di parole quali accoglienza, collaborazione, diversità: queste sono parole di cui
lavoratrici e lavoratori, famiglie datrici di lavoro, persone assistite, sperimentano nella
quotidianità domestica il significato più profondo.
Ci sembra dunque fondamentale continuare oggi a diffondere, attraverso il
nostro impegno associativo e la partecipazione determinante ed imprescindibile delle
lavoratrici e dei lavoratori domestici al nostro movimento, una cultura più consapevole
del valore del lavoro domestico e di cura e dell’importanza del nostro ruolo per la costruzione di legami sociali che contribuiscono a tessere relazioni.
Raffaella Maioni
Responsabile Nazionale Acli Colf
3
Il tema scelto per il prossimo Congresso Acli Colf ‘’Il lavoro domestico nel
welfare che cambia. Antiche sapienze e nuova professione’’ dimostra quanto questo
importante e strategico soggetto professionale e sociale percepisca le sfide sul futuro
del welfare.
Le riflessioni sviluppate nell’elaborazione dei documenti congressuali rispecchiano ed arricchiscono il percorso delle ACLI su alcune questioni fondamentali come
la dignità del lavoro in generale e del lavoro domestico, e di assistenza familiare in particolare, dell’incontro con l’altro e della relazione attraverso il lavoro, dell’importanza
dell’accoglienza a fondamento della nostra esperienza associativa.
Infatti, solo se si riconosce la centralità della relazione con l’altro, da intendersi come “volto” che interpella ciascuno di noi, suscitando la nostra responsabilità
nei suoi confronti, è possibile costruire un’etica della responsabilità e della fraternità.
Le ACLI sono attente e vicine ai temi al centro della riflessione di Acli Colf,
perché ci interpellano sulla nostra visione politica e sociale e pongono questioni rilevanti
a lavoratori e famiglie. Le ACLI attribuiscono alle priorità e alle istanze espresse
dalle Acli Colf una centralità sulla quale mobilitare ed accordare l’intero sistema
associativo e dei servizi. Le Acli Colf costituiscono un tassello fondamentale per realizzare quella politicità delle ACLI che costituisce l’obiettivo che ci siamo posti per
essere una presenza feconda e significativa nel contesto politico, sociale, ecclesiale del
Paese.
Ma la composizione associativa di Acli Colf ci proietta su problematiche internazionali che sono decisive per il futuro del lavoro. Ad esempio, temi quali i diritti
nel welfare transnazionale sono centrali nella prospettiva dell’affermazione del “lavoro decente” su scala globale e per la costruzione di una società basata sulla fraternità,
superando l’attuale idolatria del profitto che, come ha affermato Papa Francesco, ha generato un’economia “senza volto né scopo realmente umano” (16 maggio) responsabile
della grave crisi attuale.
L’esperienza delle Acli Colf supera la dimensione professionale e si pone
come una straordinaria esperienza associativa, di riconoscimento e di dialogo tra
persone di condizioni sociali, terre e culture diverse, ma tutte accomunate dal cercare
di migliorare la propria condizione familiare e sociale, di superare difficoltà, di fare insieme
un cammino di speranza.
È quello che ci aspettiamo dalle Acli Colf ed è l’augurio più sincero per il prossimo Vostro Congresso.
Gianni Bottalico
Presidente Nazionale ACLI
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
Il nostro comune impegno
5
Le Acli Colf, associazione nata per la promozione e la tutela delle collaboratrici
e collaboratori familiari - lavoratrici e lavoratori che svolgono la loro professione nell’ambito domestico e familiare - continuano il loro percorso insieme alla categoria, tenendo in considerazione i mutamenti socio-economici avvenuti in questi anni.
Il lavoro di cura nel nostro paese si è sviluppato cercando di colmare il vuoto delle
politiche socio-sanitarie. Anche in ragione di ciò si è configurato come un welfare familistico,
un “fai da te”, che ha iniziato ad essere disvelato in tutta la sua portata dalla regolarizzazione
di cittadini extracomunitari del 2002 e dai provvedimenti realizzati negli anni successivi
per la messa in regola dei lavoratori stranieri in questo specifico settore del mondo del
lavoro. In Italia, il lavoro domestico ha assunto una connotazione socio-assistenziale
portando alle estreme conseguenze un processo iniziato già a partire dalla metà degli anni
‘70. In questi anni, infatti, quella che possiamo definire la via italiana di cura alla
persona ha assunto una rilevanza significativa per l’organizzazione dell’assistenza da
parte delle famiglie italiane, diventando un vero modello per l’intervento domiciliare.
Le Acli Colf sottolineano come tale lavoro abbia assunto un ruolo di rilevanza
all’interno del dibattito sociale ed economico del Paese, che in questo particolare
momento storico è investito da importanti mutamenti socio-demografici quali l’invecchiamento della popolazione e l’aumento dei grandi anziani, l’esternalizzazione del
lavoro di cura, la femminilizzazione dei processi migratori legati al lavoro domestico, le
nuove dinamiche familiari e delle politiche di welfare a livello nazionale e transnazionale.
A ciò si aggiunga la crisi economica, le cui pesanti ricadute anche sul mercato del
lavoro domestico vanno ad incidere sulla tenuta familiare e sociale del Paese.
In occasione della loro XVIII Assemblea nazionale, le Acli Colf ritengono importante confrontarsi sulle rilevanti questioni che pone la tutela del lavoro domestico
di cura, non solo per rilanciare il dibattito a livello politico, ma anche per far emergere le
ricadute che esso implica nella vita delle persone, tanto delle lavoratrici e dei lavoratori
che delle famiglie datrici di lavoro, delle persone assistite e della società in generale.
In queste pagine proveremo pertanto ad inquadrare il settore domestico e di
cura tenendo conto del suo sviluppo nel welfare in Italia e delle dinamiche familiari
a cui si legano i nuovi bisogni di assistenza. Entreremo all’interno delle pareti domestiche e nel vivo della relazione/rapporto di lavoro, soffermandoci sull’incontro tra ruoli,
saperi, culture, mondi diversi, ponendo al centro le persone che vivono tale relazione e
le loro sensibilità.
Riprenderemo alcune riflessioni in merito alle dinamiche del mercato del lavoro, della formazione e della qualifica professionale della categoria. Dal punto di
vista normativo-contrattuale puntualizzeremo i principali cambiamenti che sono
avvenuti in questi anni, ponendo alcuni nodi problematici rispetto all’equità di trattamento di lavoratrici e lavoratori domestici.
Ci avvieremo, poi, verso una “non conclusione” che riallinea le varie questioni
aperte per un riconoscimento della piena dignità delle lavoratrici e lavoratori impegnati
in questo settore, per “aver cura di chi cura e di chi viene curato”.
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
Introduzione
7
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
1. Lavoro domestico e di cura: lavoratrici,
bisogni delle famiglie e risorse del welfare
1.1 Dai numeri alle persone
LAVORATRICI E LAVORATORI DOMESTICI
In base ai dati INPS sui rapporti di lavoro regolarmente registrati, nel 2011 in
Italia si contano oltre 881mila lavoratori impegnati nel settore del lavoro domestico.
Di questi l’80,3% (ca. 707mila) è di origine straniera (nel dettaglio, gli extracomunitari
sono il 55,1%, ca. 486mila), mentre i restanti 173mila lavoratori sono di origine italiana. Rispetto alle mansioni svolte, ad oggi, non è possibile distinguere i lavoratori per
categoria contrattuale: non possiamo dunque stabilire quanti sono i collaboratori familiari
assunti come colf rispetto a chi svolge il lavoro di assistenza alla persona.
Si pensi che solo nel 2001 i lavoratori del settore erano ca. 270mila. In un
decennio il lavoro domestico è dunque esploso, triplicando il numero di addetti al settore; in pratica sembra che gli italiani si siano improvvisamente resi conto di avere
bisogno di un collaboratore familiare. Questo ha giustificato l’utilizzo dell’espressione
“fenomeno badanti”. Tuttavia più che essere un “fenomeno” legato ad un particolare
momento storico, il ricorso massiccio alla collaborazione domestica da parte delle
famiglie italiane perdura da tempo.
A crescere sono stati soprattutto i lavoratori stranieri: il loro numero è
passato da ca. 139mila a poco meno di 710mila. Anche per gli italiani si è registrato
un aumento, seppur minore (da 130 a 173mila unità). La Fondazione Leone Moressa
conferma questo trend di crescita degli stranieri e in misura minore degli italiani
(+23,7%). Tuttavia, tale crescita, tra il 2010 e il 2011, ha subito una battuta di arresto e
per la prima volta in tanti anni si è registrato un calo tra i lavoratori stranieri (-5,2%);
contrazione che non sembra riguardare i lavoratori italiani, per i quali l’aumento rilevato
è stato del 3%.
8
GENERE
Donne
Uomini
Totale
NAZIONALITÀ
v.a.
Comunitari
Extracomunitari
Totale
Comunitari
Extracomunitari
Totale
Comunitari
Extracomunitari
Totale
%
345.675
385.689
731.364
15.735
124.735
140.470
361.410
510.424
871.834
ANNO 2010
v.a.
39,65
44,24
83,89
1,80
14,31
16,11
41,45
58,55
100
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
Tab. 1 • I lavoratori del settore domestico per la nazionalità e il genere
ANNO 2011
%
378.366
42,9
387.344
43,9
765.710
86,8
17.200
2,0
98.792
11,2
115.992
13,2
395.566
44,9
486.136
55,1
881.702
100
Fonte: Nostra elaborazione su dati INPS
Tab. 2 • I lavoratori del settore domestico per la nazionalità
NAZIONALITÀ
Italiani
Stranieri
Totale
v.a.
160.896
710.938
871.834
ANNO 2010
%
18,5
81,5
100
v.a.
173.870
707.832
881.702
ANNO 2011
%
19,7
80,3
100
Fonte: Nostra elaborazione su dati INPS
Il lavoro domestico rimane dunque prevalentemente appannaggio della popolazione straniera e la contrazione registrata tra il 2010 e il 2011 può in parte ricondursi
alla crisi economica, che influenza anche il settore domestico; in altra parte all’effetto
post-sanatoria 2009 e alla “normale” contrazione dei numeri del settore che normalmente
segue ai procedimenti di regolarizzazione. La presenza significativa di lavoratori
stranieri ha senza dubbio contribuito ad accrescere il numero di rapporti di lavoro
regolari, anche tra i collaboratori domestici italiani: il fatto che nel nostro paese il
rilascio e/o il rinnovo di un valido titolo di soggiorno sia vincolato alla presenza di un
contratto di lavoro “in regola” ha necessariamente favorito l’emersione del lavoro nero
nel settore domestico, che ha iniziato così un vigoroso percorso verso la legalità.
Stando ai dati della ricerca Censis/ISMU, se si considerano anche i rapporti di
lavoro informali, cresce sensibilmente il numero di collaboratori che prestano la loro attività presso le famiglie italiane: sono 655 mila (+53% rispetto al milione stimato nel
2001). Nel 2011 sono invece quasi 2 milioni 600 mila le famiglie che si sono rivolte al
mercato privato per acquistare servizi di collaborazione, di assistenza ad anziani o
persone non autosufficienti, e di baby sitting.
Dal punto di vista dell’apporto economico, complessivamente, i lavoratori
domestici versano nelle casse dell’Inps 834 milioni di euro in contributi, di cui l’83,9%
deriva dal lavoro di colf e assistenti familiari di origine straniera (ca. 699 milioni di
euro - Fondazione Leone Moressa).
La spesa sostenuta dalle famiglie per il lavoro domestico e di cura viene invece stimata intorno ai 9,8 miliardi di euro annui (Pasquinelli, IRS Milano 2011); una
9
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
cifra che equivale al risparmio dello Stato italiano per i servizi socio-assistenziali e di
sostegno alle famiglie.
Quanto al genere, la popolazione dei lavoratori domestici continua ad essere
prevalentemente femminile: nel 2011 le donne sono circa 765mila, pari all’86,8% dei
lavoratori impiegati nel settore, mentre gli uomini 115mila (INPS). Come afferma Saraceno (2009), “Purtroppo, la necessità di dare e ricevere cura, ha scontato a lungo
un’impropria divisione del lavoro tra collettività e famiglia, ma anche tra uomini e
donne”, quasi che il lavoro domestico e di cura sia una questione esclusivamente femminile. Si tratta prevalentemente di donne straniere, 601.959 che rappresentano il 78,6%
del totale delle lavoratrici del settore, a fronte delle italiane che raggiungono una quota
poco superiore a 163mila (sul totale delle lavoratrici le donne italiane sono il 21,4%).
Tab. 3 • Composizione della nazionalità rispetto al genere
Donne italiane sul totale delle donne
Donne straniere sul totale donne
ANNO 2010
20,7%
79,2%
ANNO 2011
21,4%
78,6%
Uomini italiani sul totale degli uomini
Uomini stranieri sul totale degli uomini
6,7%
93,30%
8,7%
91,3%
Fonte: Nostra elaborazione su dati INPS
10
La maggioranza delle donne occupate in questo settore, secondo i dati elaborati
dall’IRS, proviene dai Paesi dell’Est (Ucraina, Romania, Moldova) e dal Sud-America
(Ecuador e Perù).
Secondo i dati dell’INPS i lavoratori domestici che provengono dall’Europa
dell’Est sono ca. 407mila, dal Sud America e America Centrale ca. 89mila. Vi è poi
un’importante migrazione legata al lavoro di cura anche dai Paesi asiatici (Filippine ca.
66mila, Asia Orientale 69mila) e dell’Africa del Nord (44mila). Rispetto alla distribuzione
sul territorio italiano i lavoratori domestici si concentrano maggiormente nell’Italia del
Nord (ca. 447mila), a seguire al Centro (249mila) e al Sud (ca. 174mila).
Per le donne di origine straniera questo lavoro, nonostante le problematiche che
pone, ha costituito e costituisce ancora un importante sbocco occupazionale per migliorare
le condizioni di vita proprie e delle proprie famiglie, nonché un settore di impiego che a
volte risolve alcune difficili situazioni abitative (seppur a fronte di grandi sacrifici personali e della ridefinizione dei propri spazi di vita privata qualora si accetti di lavorare
in regime di co-residenza).
Le migrazioni femminili di cura spesso si considerano migrazioni temporanee,
e spesso sono le stesse lavoratrici ad immaginare una permanenza di breve periodo. La
realtà ci racconta invece di percorsi migratori che, inizialmente sospesi tra il “lavoro
qui” e la “famiglia là”, diventano stanziali, soprattutto quando sono le donne a migrare e a ricongiungere a sé i propri familiari, in particolare i figli, o quando questi
ultimi sono nati in Italia.
Ad essere percepita come transitoria non è solo l’esperienza migratoria in sé
per sé, ma anche il lavoro domestico e di cura in quanto tale: tanto le donne straniere
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
quanto quelle italiane non si identificano con il lavoro che svolgono, ma lo accettano
come una necessità transitoria nell’attesa di trovare migliori opportunità professionali.
Molte donne, dopo aver rinunciato a trovare un impiego corrispondente alle loro aspettative o al proprio curriculum (maestre, impiegate, giornaliste, biologhe, operaie, sarte,
docenti universitarie, ecc.) si adattano a svolgere altri lavori, tra cui quello domestico e
di cura, nonostante la maggior parte delle lavoratrici non individui in esso possibilità di
carriera, valorizzazione e riconoscimento. Frequentemente sono le collaboratrici familiari a non dare il giusto valore al lavoro che svolgono o a non coglierne l’importanza, trovando difficile perfino il semplice “parlarne”. Questo anche perché parlare
del proprio “lavoro domestico”, per il luogo in cui viene svolto e per la sua stessa natura
intimistica, significa riferirsi ad aspetti privati della vita dei propri datori di lavoro/assistiti,
che devono rimanere tali.
Possiamo però affermare che negli ultimi anni si sono fatti dei passi in avanti
in termini di consapevolezza e di riconoscimento del valore del lavoro domestico e
che vi sia stato un aumento delle lavoratrici che vivono con orgoglio tale lavoro,
come “un lavoro a tutti gli effetti”, nonostante rimanga basso il livello di gratificazione
che ne ricevono. Cambiamento di percezione forse in parte determinato anche dalla
crisi economica e da una riflessione più generale sul ruolo del Lavoro in sé e sul
contributo che le professioni considerate più umili danno alla nostra società.
La ricerca Censis/ISMU fa emergere come permanga il carattere residuale della
scelta lavorativa nel settore domestico: il 71,1% dei collaboratori si trova nell’attuale
condizione per necessità, e ben il 35,4% perché ha perso il precedente lavoro (tra gli italiani la percentuale sale al 41,1%). Malgrado ciò, le opportunità occupazionali e reddituali
hanno fatto con il tempo apprezzare ai più la scelta compiuta: la maggioranza di essi (il
70%) considera l’attuale occupazione ormai stabile e solo il 16% sta cercando attivamente
un lavoro più soddisfacente (tra gli italiani sono il 25,2%).
Rispetto alle mansioni svolte, le italiane ricercano preferibilmente il lavoro domestico ad ore. Da parte delle lavoratrici straniere, in particolare sino a quando le proprie
famiglie rimangono in patria, vi è maggiore disponibilità a lavorare in regime di co-residenza, non avendo vicini i propri legami affettivi, o non avendo una propria abitazione.
Disponibilità che viene meno quando i nuclei familiari si ricongiungono o quando la lavoratrice desidera trovare un lavoro ad ore per poter riuscire a coniugare il lavoro con la
vita privata. Sono quindi le donne straniere a svolgere principalmente il lavoro domestico
di cura in regime di co-residenza con il proprio datore di lavoro o con la persona da assistere, le cosiddette “badanti”. Ed è proprio la parola “badante” (alla quale noi preferiamo
sostituire “assistente familiare”) ad essere entrata nel linguaggio comune; parola con
cui si identifica il lavoro di assistenza alla persona, tendenzialmente svolto da una
donna, di solito straniera, che vive presso l’abitazione della persona che cura, dando
totale disponibilità di tempo e di attenzioni.
Sono dunque soprattutto le assistenti familiari co-residenti a sopportare le
criticità di questo lavoro che prevede capacità relazionali ed umane, oltre a tutta
una serie di competenze che esulano dai saperi generalmente ascrivibili alle donne,
ma che devono invece comprendere un insieme di conoscenze specifiche e tecniche.
11
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
Un «prendersi cura – afferma Quintavalla (2007) – inteso come insieme di competenze
assistenziali, domestiche e comunicative da agire attraverso modalità relazionali “calde”
ed empatiche, quali aspetti portanti di tale lavoro, tesi alla costruzione di un legame fiduciario in grado di dare protezione, stimoli cognitivi, conforto. Tale figura opera per
delega della famiglia che ne sovrintende l’operato ed è responsabile legalmente del benessere e della cura prestata al suo familiare assistito».
Le lavoratrici domestiche/assistenti familiari, anche quando possiedono buoni
livelli di istruzione, spesso non hanno una specifica competenza professionale nel settore
domestico e dell’assistenza. Pertanto, specie nella fase iniziale d’inserimento lavorativo,
si avvalgono delle competenze apprese dalle loro personali esperienze familiari maturate
nei contesti di provenienza e di un generale “buon senso”, cercando di ascoltare e capire
le esigenze del datore di lavoro. Su ciò s’innesta la necessità di sviluppare competenze
specifiche e percorsi formativi per qualificare, in particolare, il lavoro di assistenza,
visto che le mansioni richieste sono spesso di tipo sanitario o richiedono un ruolo parainfermieristico.
Peraltro, le conseguenze della crisi economica hanno aggravato le condizioni
sia delle lavoratrici/ori del settore domestico che delle famiglie che necessitano di
sostegno e collaborazione. Ma nonostante le difficoltà economiche e i nuovi ostacoli
che la categoria sta affrontando in termini di scarsità di lavoro, di abbassamento delle
tutele e d’incertezza per il futuro, soprattutto pensando alle opportunità per i propri figli
(si pensi all’istruzione, all’accesso alle cure mediche, alla possibilità di inserirsi in un
tessuto sociale arricchente), si ravvisa ancora da parte delle donne straniere la volontà di
perseguire il proprio progetto migratorio in Italia piuttosto che rientrare nel paese di origine. “Eh si! Oggi bisogna tener duro. Nella famiglia non hanno tanti soldi. Ma chi ha
un lavoro, se lo tenga ben stretto. E poi bisogna avere tanta tanta pazienza. Poi le cose
si sistemeranno”. Così racconta Svetlana (assistente familiare) parlando del suo lavoro:
una semplice frase che lascia trapelare la preoccupazione per le difficoltà lavorative che
ci sono ma, allo stesso tempo, la volontà di non arrendersi.
LE FAMIGLIE
12
La scelta di avvalersi delle cure di un’assistente, affidando un proprio caro ad
una persona che non fa parte del nucleo familiare, non è scelta facile per le famiglie che
oggi assumono un lavoratore domestico. Individuare la persona “adeguata” alle proprie
esigenze spesso richiede tempo e una lunga selezione rispetto alle competenze della lavoratrice; competenze che non sono solo di natura professionale, ma anche relazionale,
presupponendo una compatibilità di carattere e di propensioni, una sorta di affinità tra
assistente e persona assistita.
Quando si chiede ad una assistente familiare qual è la prima cosa che deve
saper fare una lavoratrice nel momento in cui inizia a lavorare presso una nuova famiglia,
lei risponde “Ascoltare”. L’ascolto e il comprendere le esigenze del datore di lavoro
o della persona assistita sono fondamentali per poter interagire con essi. Importanti
sono infatti le dinamiche che si sviluppano tra gli attori di questo rapporto/relazione
di lavoro: lavoratrici, assistito e, quando presente, la famiglia. Per le colf che lavorano
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
ad ore, le problematicità sono invece inferiori, poiché non entra in gioco in maniera determinante la sfera relazionale.
Le persone anziane, spesso, non accettano di avere vicino una persona “estranea”.
Si sentono traditi dai figli, dai famigliari, specie quando non vi è una comprensione e
quindi un ascolto delle esigenze dell’assistito. La lavoratrice può dunque essere percepita
come un’intrusa e pertanto manifestare disagio nel dover condividere il proprio ambiente
con “altri”. Ciò si acuisce soprattutto quando la persona assistita non ammette il proprio
stato di bisogno, la propria malattia, e non accetta, nel caso di presenza di figli, la delega
di cura che essi affidano ad una persona “altra”. Tale senso di frustrazione e di solitudine
vissuto dalla persona anziana si può manifestare, specie all’inizio della relazione/rapporto
di lavoro, in una aperta non accettazione dell’assistente familiare. I figli, dal canto loro,
costretti ad affidare a “mani altre” i propri cari, possono vivere questa situazione con
gravi sensi di colpa. A volte la scelta di affidare le cure di un proprio familiare ad una
persona terza, che riesce a mantenere una giusta distanza affettiva, non è dettata solo
da ragioni economiche. Così ci racconta una datrice di lavoro: “Non riuscirei mai a
curare mia madre. Quando la vedo stare così male, piango. Non ce la posso fare. Non
mi riconosce, non mi vuole più, mi manda anche via. Adesso con la badante si trova
bene. Io non ce la farei”. La signora esprime un sollievo per le cure che la madre riceve
grazie alla presenza di un’assistente familiare ed esprime la sua reale impossibilità ad
occuparsi della madre di cui non riesce a sostenerne emotivamente il lento e doloroso
passaggio umano.
In altri casi i sensi di colpa provati nell’affidare ad altri la cura dei propri cari
vengono rimossi troppo velocemente e si pensa di aver risolto il problema della cura
grazie al lavoro dell’assistente. I casi più gravi, in cui i livelli di fragilità si acuiscono e
in cui le solitudini dell’assistito e dell’assistente emergono con forza, sono proprio quelli
in cui la delega di cura diventa totale e si affida tutta la responsabilità all’assistente
familiare, lasciandola sola. “Tale figura – spiega invece Quintavalla - opera per delega
della famiglia che ne sovrintende l’operato ed è responsabile legalmente del benessere
e della cura prestata al suo familiare assistito”.
Considerando, ad esempio, l’inserimento delle donne (principalmente immigrate)
come assistenti familiari conviventi nel contesto familiare, è importante sin dall’inizio
del rapporto/relazione di lavoro stabilire mansioni, ruoli, responsabilità e aspettative
delle parti in causa (famiglia – assistito – lavoratrice) affinché non sorgano successive
controversie. Nella fattispecie in esame, il lavoro in co-residenza è fortemente caratterizzato dalla condivisione degli spazi all’interno dei quali le individualità si incontrano. Ciò comporta un ridimensionamento della propria sfera di vita personale
sia per il datore di lavoro/assistito che per la lavoratrice, la cui vita privata arriva a coincidere con la vita lavorativa, con il rischio che venga così considerata a disposizione 24
ore su 24. In questi casi i diritti della lavoratrice si confondono e si fondono con i
bisogni dell’assistito i quali, infatti, non si possono ovviamente adattare ai tempi contrattuali e si dilatano nell’interezza dei ritmi vitali del giorno e della notte. Tuttavia,
l’assistenza continua può essere retta solo con elevate turnazioni di lavoro, dal momento
che genera stanchezza e stress che, nei casi più gravi, possono sfociare in forme di burn
13
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
14
out. Inoltre, il mancato rispetto degli aspetti contrattuali (riposo notturno, domenicale)
può con il tempo generare profondi conflitti con la famiglia/datore di lavoro, portando
alla risoluzione del rapporto di lavoro. È dunque importante, sin dall’inizio, che la
famiglia abbia chiare le reali necessità di assistenza per poter gestire in modo
corretto il rapporto di lavoro.
Allo stesso tempo tra le pareti domestiche si sviluppano rapporti di forte prossimità, relazioni fiduciarie e di affetto. Spesso sono la solitudine, i ricordi, le lontananze
ad accompagnare i soggetti che instaurano tale rapporto/relazione di lavoro. Da un lato,
la lavoratrice, lontana dagli affetti più cari, con difficoltà economiche, linguistiche, comunicative; dall’altro, le famiglie e/o le persone assistite che oggi si trovano di fronte a
maggiori difficoltà date dall’ansia, dall’insicurezza e dalla sensazione di abbandono.
Entrambi sono accomunati dal condividere nel luogo domestico l’incontro con l’altro, con i reciproci portati di esperienze e tradizioni, spesso sconosciute e vicendevolmente
ignorate, ma che se condivise e comprese favoriscono l’arricchimento personale nella
relazione di lavoro.
Oltre che l’assenza di reti familiari e/o comunitarie forti, oggi a preoccupare le
famiglie sono i costi dell’assistenza privata domiciliare e la loro sostenibilità nel
breve e lungo periodo: l’assunzione di un’assistente familiare ha un’incidenza sul
reddito familiare pari al 29,5% (circa 667 euro al mese; solo il 31,4% degli assistiti
riesce a ricevere una qualche forma di contributo pubblico che si configura per lo più
nell’accompagno - Censis/ISMU).
Non riuscendo a far fronte a tali spese, sono sempre più numerose le famiglie
che, pur di mantenere l’assistenza, riducono i consumi (anche alimentari), intaccano
i risparmi o che, nei casi più gravi, arrivano ad indebitarsi. La cura presso il proprio
domicilio sembra, dunque, irrinunciabile e alcune famiglie (secondo l’indagine
Censis/ISMU il 15,1%, ma al Nord la quota arriva al 20%) iniziano a considerare
l’ipotesi che un membro della stessa famiglia possa rinunciare al lavoro per
“prendere il posto” dell’assistente (presumibilmente a rinunciare al lavoro sarebbe
una donna).
Alla luce di quanto evidenziato, le Acli Colf s’impegnano a sostenere non solo
le lavoratrici/ori domestici, ma anche le esigenze delle famiglie e delle persone assistite,
sottolineando la necessità di politiche socio-sanitarie adeguate e di interventi che
vadano incontro ai bisogni di chi cura e di chi viene curato ovvero di tutte quelle
persone che oggi vivono situazioni di sofferenza, di precarietà e di fragilità, la cui complessità e gravità non è rilevabile se non quando siamo chiamati in prima persona ad occuparcene.
PER UNA RIFLESSIONE: TRA IL FAMILIARE ED IL SUBALTERNO,
UN LAVORO AMBIGUO
Le Acli Colf durante l’ultimo mandato hanno provato a mettere a tema la questione dell’incontro con l’altro, nella consapevolezza che il contesto domestico (o della
cura) costituisce un osservatorio privilegiato per chi voglia prendere in esame le dinamiche
culturali connesse ai fenomeni migratori. E questo per una molteplicità di ragioni.
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
Prime fra tutte, quelle di ordine strutturale che aprono, di fatto, spazi alla manodopera immigrata, creando i presupposti perché si produca una “frontiera nell’intimità”, ossia un confine che mette in relazione elementi diversi. La domesticità, intesa
come spazio fisico e soprattutto come luogo di vita, diventa dunque un ambito interessante da indagare, a partire dagli effetti che produce sulle persone e sulla società. Sono
tanti, infatti, i fattori che ruotano intorno ad un’azione quotidiana, a tal punto che in
essa si mettono in gioco anche le identità e la cultura di individui che si trovano ad
interagire in una nuova dimensione di senso.
Tali nuovi vissuti quotidiani richiedono di ricercare il giusto significato per
concetti quali multiculturalismo, integrazione, intercultura, di cui oggi si è forse diffusa
una versione ingenua che ha prodotto rappresentazioni fin troppo ottimistiche dell’incontro con l’altro.
Fra le pareti domestiche si sviluppano relazioni di forte prossimità in cui entrano
in gioco dinamiche complesse. Ci sono ambiti – quelli delle faccende domestiche soprattutto – in cui prevale una dimensione strumentale: si vende e compra lavoro. Lo
scambio è tra prestazione e controprestazione. La casa diventa luogo di lavoro eterodiretto.
A questo livello la conflittualità della relazione non è legata tanto, o soltanto, ad appartenenze culturali diverse.
Quel che è in gioco è la percezione dei ruoli propri e altrui all’interno di una relazione di genere. Nel conflitto che ne deriva la differenza etnica (“sono costretta ad insegnarle perché è straniera”) può venir usata strumentalmente per capovolgere la gerarchia
delle posizioni domestiche. Si pretende che l’interazione produca “acculturazione unidirezionale” e che questa per la domestica sia migliorativa.
Ci sono ambiti in cui invece la logica dei rapporti non è più strumentale, ma
prevale la dimensione affettiva. La condivisione dello spazio domestico ne è un esempio
concreto. A partire dagli anni Ottanta, la domanda nel settore dei servizi si è modificata.
L’immigrata non arriva più soltanto per rispondere ai bisogni dell’alta borghesia, presso
la quale aveva una funzione di status symbol, ma soprattutto per assicurare assistenza
domiciliare a persone anziane. In questo caso la domanda di servizi proviene soprattutto
da famiglie appartenenti alla media e piccola borghesia che non hanno alcuna tradizione
di assistenza domestica.
La presenza di donne straniere dentro lo spazio domestico crea dunque una situazione inedita tanto per le immigrate quanto per le datrici/datori di lavoro e mette in
crisi la rappresentazione dello spazio domestico come luogo simbolico e concreto dei
legami familiari. Per essere accolta nello spazio domestico locale la “straniera” deve
allora trasformarsi in “una di famiglia”. «Le immigrate – nota Adelina Miranda – sono
chiamate a gestire un confine “mobile’”, ad allungare e ad accorciare le distanze in
modo pragmatico e a seconda delle circostanze». «I confini – diceva Barth - non sono
stabiliti una volta per tutte in base a criteri definiti. Il confine è il mezzo attraverso cui
di volta in volta definire il contesto dell’interazione».
Ed è questa interazione non solo contrattuale, ma anche emotiva, intima, il
centro della nostra riflessione come associazione Acli Colf; un’interazione che rende il
rapporto/relazione di lavoro sempre uguale e diverso.
15
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
1.2 Il lavoro di cura nel welfare che cambia
16
Il lavoro domestico e di cura è un settore sensibile per l’Italia, un paese in cui
l’endemica fragilità dello Stato sociale ha determinato una crescente internalizzazione
della cura da parte delle famiglie, generando un modello di welfare auto-prodotto e
auto-gestito. Come sottolineato in precedenza, a fronte del mancato potenziamento dei
servizi sociali e dell’assenza di significative riduzioni degli oneri a suo carico, la famiglia
ha dovuto e saputo auto-gestirsi, rivolgendosi ad un’offerta transnazionale di manodopera femminile, che ha risposto in maniera pronta, concreta ed efficace alle sue
necessità.
La famiglia ha storicamente supplito alle carenze dello Stato sociale, operando
in qualità di rete primaria della società, capace di assumere su di sé le responsabilità
legate ai compiti di cura dei propri componenti, tanto da essere indicata in varie epoche
come uno dei soggetti più solidi per la tutela sanitaria e sociale del Paese. Tale orientamento, che trova il suo fondamento nel tessuto culturale e nel dettato del nostro codice
civile (art. 433), ha però in parte contribuito a rallentare lo sviluppo di adeguate politiche
a sostegno della famiglia, rafforzandone l’agire in una forma di autosufficienza.
La famiglia si è vista così attribuire nel tempo un ruolo di supplenza, di sussidiarietà, che, senza nulla togliere alla sua importanza e al significato dei luoghi familiari
in cui la persona nasce e cresce, non sempre ha avuto effetti sociali positivi. Responsabile
non è la famiglia, ma un “impianto familista negativo” (Guerra 2011) che ha connotato
il modello di welfare italiano, i cui limiti sono sempre più evidenti. Assistiamo dunque
alla crisi non della famiglia, ma piuttosto dell’organizzazione familiare rispetto ai
bisogni di cura. Come più volte le Acli Colf hanno sottolineato, alcuni dei fattori che
hanno contribuito a determinare questa crisi possono ricondursi ai mutamenti sociali e
demografici che stiamo attraversando:
• la contrazione del tasso di natalità e il progressivo invecchiamento della
popolazione, nella fattispecie l’aumento degli anziani e dei grandi anziani
non più o non completamente autosufficienti, con patologie gravi che richiedono cure infermieristiche ad alta intensità;
• i cambiamenti delle forme di convivenza che non sempre permettono di ricorrere al sostegno dei propri familiari (aumentano ad esempio il numero di
persone anziane che vivono da sole e diminuisce il potenziale di supporto
delle reti primarie);
• la conciliazione dei tempi, ovvero la riduzione dei tempi di cura e l’assenza
di politiche del lavoro efficaci in grado di favorire la conciliazione tra lavoro
e famiglia, soprattutto nei casi in cui sono necessarie cure costanti e di lungo
periodo.
Vediamo dunque come il lavoro domestico di cura si coniuga con importanti
questioni sociali, che ci obbligano a riflettere su temi come quello della qualità della
vita e della promozione di politiche socio-sanitarie che tengano in considerazione tali
cambiamenti, andando incontro ai bisogni delle famiglie e dei cittadini.
Le famiglie si sono organizzate, abbiamo visto, rivolgendosi alla manodopera
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
straniera; scelta che la politica italiana ha rincorso per tutto il primo decennio del 2000,
essendo la questione strettamente legata anche al tema delle migrazioni e delle politiche
migratorie. Sono stati anni in cui diversi provvedimenti hanno cercato di “sanare” le
situazioni di irregolarità ed illegalità dei molti cittadini stranieri che, già presenti in
Italia, lavoravano anche nel settore domestico. Oltre alle “sanatorie” ci si è avvalsi dei
“decreti flussi” utilizzati in modo strumentale e tradendo la ratio della legge, secondo la
quale questi ultimi dovrebbero avere come risultato l’ingresso regolare di lavoratori necessari a soddisfare le esigenze espresse dal mercato del lavoro e non la regolarizzazione
di chi è già presente in Italia. Un “tradimento” in qualche modo obbligato vista l’improbabilità, se non l’impossibilità, di fare incontrare la domanda e l’offerta di lavoro in
base alle modalità previste dal Testo Unico, secondo il quale tale incontro e il successivo
accordo per un futuro contratto tra le parti dovrebbero avvenire mentre il lavoratore è
ancora all’estero. La previsione di questo meccanismo ha inciso negativamente anche
sul valore sociale e sulla regolarità dei rapporti di lavoro domestico, in quanto sono stati
e sono spesso il paravento preferito per regolarizzare chi, di fatto, non è un lavoratore
domestico. Inoltre, tali provvedimenti hanno comportato tutta una serie di difficoltà
(burocratiche, economiche, gestionali), soprattutto per le stesse famiglie/datrici di lavoro
(in particolare per gli anziani soli) che volevano “mettere in regola” il loro lavoratore
che già si trovava in Italia. Almeno in questo settore del mondo del lavoro una soluzione
avrebbe potuto essere la reintroduzione dello sponsor, che era già presente nella TurcoNapolitano e poi eliminato dalla Bossi-Fini. Una soluzione di questo tipo avrebbe,
infatti, evitato a molte famiglie di vivere la schizofrenia derivante dalle difficoltà incontrate nel conciliare la volontà di regolarizzare la propria assistente familiare (“Vogliamo
lei, perché lei è brava”), e le complicazioni che invece implicano una sanatoria o un decreto flussi, se non altro per le lunghe tempistiche che prevedono.
Guolo ben spiega questi anni in cui parte della propaganda politica non ha
aiutato il Paese e le persone a comprendere i cambiamenti culturali verso cui l’Italia
procedeva: propaganda intervenuta più che per dare risposte per iniettare paura, facendo
della sicurezza nei confronti dell’altro (non importa chi esso sia) un cavallo di battaglia
per ottenere consensi. Nonostante ciò, gli italiani già erano in grado di cogliere questo
processo di globalizzazione non solo dei beni, ma anche delle persone, che si declinava
in ultima analisi nell’assumere personale straniero, fossero essi lavoratori domestici,
operai, ingegneri, architetti, camerieri, muratori. Da parte loro, molte associazioni come
le Acli Colf parlavano di “Casa della mondialità”, e molte altre s’impegnavano per
“stare” nei processi e assimilare tali cambiamenti importanti per un processo di crescita
e di consapevole convivenza nel rispetto dell’altro.
La presenza di manodopera straniera obbliga inoltre a riflettere sui legami d’interdipendenza tra i paesi di origine e di destinazione, tra le donne e uomini che vivono
la migrazione e i loro regimi di welfare. Una delle metafore più celebri in materia fa riferimento alla così detta “catena globale della cura”: donne straniere che dovendo far
fronte a gravi condizioni economiche e famigliari emigrano inserendosi nel mercato
della cura, poco strutturato e formalizzato, di altri paesi. Ciò permette alle donne dei
paesi di destinazione di inserirsi in altri settori del mondo del lavoro, con un notevole
17
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
18
risparmio per il welfare pubblico, grazie alla delega parziale della cura al mercato privato. Allo stesso tempo nei paesi di emigrazione si crea un vuoto di cura nelle famiglie
di origine e nei sistemi di welfare locali che, nei migliori dei casi, viene colmato da altre
donne che non possono emigrare o che scelgono di rimanere in patria. Ciò impone una
riflessione sull’interdipendenza tra sistemi di welfare situati ai poli del processo migratorio
e sul lavoro di cura “qui” e “lì”, affinché tale processo sia realmente sostenibile per le
donne che emigrano e per le famiglie che rimangono (come i children left behind), e
non sia un vettore di aumento di diseguaglianza e di precarietà sociale.
In questo scenario, come le Acli Colf hanno più volte ribadito, a venire meno
non è solo la piena tutela dei diritti di chi cura ma anche di chi viene curato: l’esistenza
di un welfare auto-prodotto, informale, e a volte illegale, va ben oltre il principio di sussidiarietà e di regolazione da parte del pubblico, minando il principio fondamentale
contenuto nell’art. 3 della Costituzione «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione
di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»; articolo
sviluppato in numerose disposizioni costituzionali, tra cui la tutela della salute nell’art.
32 «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse
della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti».
Se l’organizzazione dei servizi per la cura e l’assistenza alle persone (siano
esse bambini, persone portatrici di disabilità, anziani soli) viene meno e non si investe
nello sviluppo di servizi per i cittadini, anche l’universalità del diritto alla salute potrebbe
non essere più una certezza, viste le tendenze di espansione di un mercato della cura privato e parallelo. Quest’ultimo - come già sottolineato dalle Acli Colf (cfr. Tesi congressuali
2009) - pone una serie di fattori di rischio: il disincentivo a investire nel settore pubblico
e il conseguente peggioramento di servizi socio-sanitari legati alla cura; il prevalere di
un mercato privato della cura molto costoso e riservato a pochi, oppure scadente, poco
controllato e non programmato dal pubblico; il prevalere delle leggi di mercato, rispetto
al principio di un welfare solidale, che può portare alla deresponsabilizzazione dei
cittadini verso la comunità, scaricando tutti gli oneri della cura sulle famiglie sempre
meno in grado di farsene carico da sole.
Tale situazione è aggravata dall’attuale scenario socio-demografico, ben lontano
da quello che ha visto nascere il Servizio Sanitario Nazionale nel 1978. In 35 anni i
cambiamenti sono stati profondi e l’Italia del 2013 è fatta da relazioni sociali il cui
tessuto è sempre più allentato, da rapporti di lavoro sempre più flessibili e precari, da
persone - non solo anziane - che vivono situazioni di grave disagio, rinunciando anche
a curarsi perché non riescono a pagare le cure necessarie.
Rispetto alle cure domiciliari, lo scenario che si prospetta pone dunque un grave
problema di equità sociale, per il semplice fatto che non tutti possono permettersi un’assistente familiare e di ricevere cure adeguate presso la propria abitazione o in un ambiente
domestico.
Ciò non è compatibile con uno Stato responsabile che dovrebbe garantire il
diritto alla cura quale bene primario di ogni cittadino. Ragionare sulla riforma delle po-
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
litiche socio-assistenziali del Paese significa, pertanto, non solo stabilire i fondi da investire, ma definire politicamente la direzione in cui far evolvere la società, superando, nel
caso in esame, i limiti di un welfare fai da te, che esalta le differenze tra chi ha risorse
(monetarie, relazionali, ecc.) e chi non ne ha.
È arrivato il momento di promuovere un Welfare che cambia, che cambia in sé
per ciò che propone e cambia la società per le prospettive che offre. Un welfare realmente inclusivo e universale, i cui interventi non cerchino di gestire aspetti settoriali o
creino differenze a livello generazionale, sociale e territoriale. In cui le politiche non
rincorrono un mercato privato che sta portando alle estreme conseguenze la dimensione
dell’ “auto-gestione”. Governando dunque anche questo settore del mondo del lavoro in
un’ottica sistemica, intaccandone la sostanziale separatezza dal welfare pubblico e collocandolo all’interno della rete dei servizi, quella che le Acli Colf chiamano “Rete della
Cura”, si può pensare di superare l’inadeguatezza dell’attuale sistema e definire un
nuovo modello di cura alla persona che il Pubblico saprebbe e potrebbe controllare e
gestire per assicurare dignità, equità, sostegno a chi cura e chi viene curato.
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Il lavoro di cura nel welfare che cambia
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2. Lavoro domestico e di cura tra informalità
e riconoscimento professionale
2.1 Verso una nuova professione
All’interno del luogo domestico è andata delineandosi la presenza di una nuova
figura professionale che, mettendo a disposizione il suo tempo, le sue competenze, la sua disponibilità, la sua umanità, ha colmato un vuoto di cura. Lo sviluppo socio-assistenziale del
lavoro domestico ha contribuito alla nascita dell’assistente familiare, la cosiddetta “badante”:
una nuova figura il cui profilo e le cui caratteristiche professionali, mansioni, competenze si
sono andate definendo nel corso del tempo a partire dall’esperienza, attraverso un processo
che è ancora in atto. È una professione in bilico tra antiche sapienze e nuove competenze, in
grado di rispondere ai bisogni di assistenza di chi oggi per scelta personale e/o della famiglia
viene assistito presso la propria abitazione. È vero che il lavoro domestico di cura prestato in
maniera continuativa a domicilio, a favore di persone anziane, ammalate, non autosufficienti,
ha saputo e sa offrire una risposta alle esigenze delle famiglie bisognose.
Allo stesso tempo le istituzioni si attardano a chiarire quale sia il profilo professionale
e il ruolo dell’assistente familiare. Secondo una ricerca condotta da R. Sarti ed E. De Marchi
nel 2009, gli interventi che vanno verso il riconoscimento di tale figura professionale sono
stati caratterizzati da proposte su base regionale e locale; mancano ancora però linee guida a
livello nazionale. Il cuore del problema sta dunque proprio nell’assenza di una chiara
definizione del profilo professionale del lavoratore domestico che ne definisca ruoli,
compiti e quindi anche le competenze utili per svolgere il lavoro di assistenza familiare.
Il riconoscimento formale della figura del lavoratore domestico valorizzerebbe la
professionalità delle assistenti familiari, darebbe visibilità sociale al lavoro prezioso che
svolgono e per il quale devono essere competenti. E la competenza in questo settore non è
solo una questione di conoscenze, ma significa anche essere in grado di applicarle nelle situazioni che di volta in volta si presentano nella normalità problematica della vita quotidiana.
Una delle competenze che molte lavoratrici ritengono fondamentale per svolgere questo lavoro è - come afferma Ana - “ (…) la pazienza”.
Pazienza e ascolto – precedentemente citati – diventano fondamentali nell’assistenza
e nella gestione del luogo domestico (ad esempio, si pensi alla cura delle patologie cognitive
dell’anziano o al rispetto di come devono essere trattati gli spazi della casa). Altra capacità
segnalata quando si condividono gli spazi domestici è la comprensione e il rispetto reciproco,
considerando che spesso entrambi i soggetti della relazione sono “fragili”.
Formare professionalmente le lavoratrici nel settore domestico, ed in particolare nel
lavoro di assistenza, significa dunque qualificarle e, parafrasando Ivo Lizzola, “farsi carico
delle due fragilità”, quella della famiglia/datore di lavoro e quella delle lavoratrici/lavoratori.
2.2 Le informalità del mercato del lavoro domestico
Quando parliamo di mercato del lavoro pensiamo a qualcosa di regolato, soprattutto
per quanto concerne la ricerca di personale e l’offerta di lavoro, in particolar modo se si
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
devono ricoprire dei ruoli delicati o si hanno delle mansioni di responsabilità. Tuttavia, in
Italia, quello della domanda e dell’offerta di lavoro rimane uno dei settori più flessibili e deregolati, essendo perlopiù basato sul passaparola, quando non degenera in meccanismi clientelari o in forme illegali di compravendita di posti di lavoro.
Anche il settore domestico è caratterizzato dall’informalità. In particolare sono tre
le informalità del mercato domestico e di cura.
Informalità della domanda. Nell’esprimere i propri bisogni, le famiglie hanno informalmente e indirettamente delineato la figura professionale di cui necessitano; una figura
che prevede una serie di mansioni e capacità non facilmente riassumibili. Le politiche
legate all’assistenza alla persona a domicilio non hanno però saputo anticipare i tempi e le
necessità delle famiglie e, senza tenere in debita considerazione la complessità del settore,
si sono concentrate nell’assicurare prestazioni pre-determinate e standardizzate, condizionate
fortemente da vincoli di budget e comunque delimitate a spazi temporali ben definiti (come
interventi infermieristici e socio-assistenziali programmati, accesso a centri diurni, ricoveri
temporanei, ecc.).
Per di più si tratta di prestazioni attinenti strettamente la vita biologica degli
assistiti, che non tengono conto di altro tipo di bisogni (psicologici, relazionali, ecc.). Senza
dubbio si tratta di interventi a volte fondamentali per poter dare sollievo alla famiglia, ma
non risolutivi per le situazioni più gravi di assistenza continuativa. Queste ultime necessitano
di una presenza costante, di assistenza ad intero ciclo diurno, di tipo parafamiliare, che
coinvolge attori esterni, attraverso modalità che devono tenere in considerazione anche la
sfera relazionale e il luogo in cui vengono svolte.
Informalità dell’offerta. Il lavoro dell’assistente familiare va al di là di rigidi protocolli: questo pone in essere una cura complessiva rivolta non solo alla persona assistita, ma a
tutto il suo contesto familiare, alla sua casa, all’intero ambiente di vita quotidiana e relazionale.
Tuttavia, questa figura professionale, nonostante la sua rilevanza sociale, si è andata
affermando nell’informalità (anche contrattuale) e sulla necessità di un ruolo, piuttosto che
attraverso una risposta strutturata del pubblico ai bisogni di cura delle famiglie. Ciò è dimostrato dal fatto che ad oggi, malgrado gli interventi positivi (creazione di albi, riconoscimento
di crediti formativi, ecc.) intrapresi da varie regioni (Rusmini 2011), l’assistente familiare
non ha ancora un suo specifico profilo professionale definito a livello nazionale né sono stati
individuati dei criteri minimi relativi alla formazione per chi opera in questo settore.
Informalità dell’incontro tra domanda e offerta. Il lavoro domestico e di cura
rappresenta un settore del mercato del lavoro che si è spesso sviluppato attraverso vie informali di accesso: «Anche fra le lavoratrici italiane e le stesse famiglie è consuetudine ricercare un posto di lavoro domestico tramite conoscenze o il passaparola» (Turri 2010). Il
volano del passaparola, del “Conosci qualcuno?”, si basa sul fatto che le relazioni familiari,
amicali o comunitarie, sono spesso preferite ad un collocamento che negli anni si è dimostrato
inefficace (Giudice, Mariani, Izzo 2004). Inoltre, prevedendo questo settore rapporti fiduciari
forti, diventa fondamentale la ricerca di “qualcuno di cui fidarsi” cui delegare le persone
più importanti della propria vita e lasciar custodire gli spazi più intimi e privati.
La ricerca Ismu/Censis conferma che il rapporto tra lavoratori e datori di lavoro è
un rapporto per lo più diretto, che dal reclutamento (solo il 19,1% delle famiglie si avvale
21
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
di intermediari) alla sua gestione quotidiana è improntato sulla fiducia reciproca, unico elemento considerato irrinunciabile per entrambe le parti. La ricerca fa inoltre emergere come
vi sia una sottovalutazione del valore delle competenze dell’assistente domestico sia da
parte delle famiglie (al momento della selezione del collaboratore, rispetto al campione di
analisi, solo l’8,8% considera come elemento prioritario l’esistenza di una qualche attestazione di qualifica professionale), che dei lavoratori (solo il 14,3% ha seguito un percorso
formativo finalizzato al lavoro che svolge, e ciò malgrado ben il 60,2% dei collaboratori si
occupi della cura ed assistenza ad una persona anziana).
La risposta alla diffusa informalità e sottovalutazione delle competenze necessarie
per svolgere tale lavoro, non può prescindere da un cambiamento culturale, ma necessita
anche di azioni coordinate sul territorio, sia a livello locale che nazionale.
2.3 Promuovere un lavoro dignitoso
SUPPORTARE DOMANDA ED OFFERTA
22
Nella prospettiva di rendere il mercato del lavoro in generale, e quindi anche il
settore domestico e di assistenza alla persona, più rispondente alle esigenze di chi cerca e di
chi offre lavoro, possono essere considerate le modifiche apportate dal Collegato lavoro del
2010 nella parte in cui promuove e facilita forme di intermediazione lavorativa, consentendo
anche alle realtà sociali più prossime ai cittadini di essere soggetti attivi rispetto ai servizi di
ricerca, di collocamento e accompagnamento al lavoro. Ciò è significativo perché vi è la
possibilità di intervenire promuovendo e organizzando forme virtuose di collocamento e di
accompagnamento al lavoro che possano meglio rispondere alle esigenze dei soggetti
implicati, in rapporto anche con il contesto socio-familiare in cui si trovano inseriti.
È chiaro come la famiglia/datore di lavoro non cerchi solo un nome e un curriculum
competente, ma “la persona giusta” che sia in grado di vivere all’interno del luogo domestico
nel rispetto delle relazioni in esso presenti. Allo stesso modo, al lavoratore non basterà ricevere un salario a fronte della firma di un contratto prescindendo dalle relazioni di
prossimità con cui si dovrà confrontare, ma desidererà trovare un luogo in cui si sentirà soprattutto rispettato. Se comprensione e rispetto sono condizioni auspicabili per entrambe le
parti, non sempre tali condizioni riescono a realizzarsi o ad essere mantenute nella quotidianità. Diventa dunque fondamentale il ruolo di accompagnamento di un soggetto terzo
che non intervenga solo al momento del matching o della stipula del contratto di lavoro, ma
che sia in grado di leggere oltre i bisogni espressi e i curricula analizzati, supportando la
relazione di lavoro prima, durante e dopo la sua cessazione, tenendo in considerazione
anche il fatto che tale lavoro, proprio per il luogo in cui viene svolto, è difficile da valutare
e monitorare.
L’esperienza ci porta a dire come, per essere efficiente, l’inserimento lavorativo
debba risultare da un percorso di accompagnamento. Innanzitutto un’attenta analisi e comprensione dei bisogni della famiglia/datore di lavoro aiuta a creare la cornice entro cui
andare a definire le mansioni che il lavoratore dovrà svolgere e i carichi di lavoro spettanti.
Ciò è utile, non solo per capire cosa dovrà fare il lavoratore, ma soprattutto per responsabilizzare la famiglia stessa rispetto a situazioni lavorative complesse e non gestibili da una
RICONOSCERE LA FIGURA PROFESSIONALE
Sulla scorta delle numerose analisi e riflessioni sul lavoro domestico di cura promosse in questi anni, come Associazione sosteniamo la necessità di dare impulso alla realizzazione delle reti sociali della cura che tengano in considerazione l’assistente familiare
quale punto della rete stessa, in base alle competenze riconosciute.
L’attenzione verso la qualifica di tale figura è oggi testimoniata anche dall’aumento
delle Regioni che hanno definito uno standard formativo minimo per le assistenti familiari
(oggi sono in tutto 14 – cfr. Tab.4).
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
persona sola (assistenza h24 di persone allettate, con gravi patologie, sette giorni alla settimana). Dal lato del lavoratore, capire il background da cui proviene, le sue competenze e
aspirazioni è funzionale per non disattendere aspettative o frustrare aspirazioni (alcune
donne straniere, ad esempio, non aspirano a svolgere il lavoro di babysitter, perché ricorda
troppo i figli lasciati a casa, aumentando dunque il loro peso di sofferenza causato dalla
lontananza).
Oltre ad analizzare i profili di datori di lavoro e lavoratori, sarà inoltre utile supportare
entrambi per la stipula del contratto di lavoro e la sua gestione, affinché sia correttamente
applicato. Un affiancamento che però non dovrebbe riguardare solo la sfera contrattuale, ma
anche gli aspetti emotivo-relazionali del rapporto lavorativo. Alcuni esempi. Il peggioramento
delle condizioni di salute dell’assistito può determinare la necessità da parte del lavoratore
di avere una formazione mirata rispetto ai nuovi compiti assistenziali che si assumono. Un
aumento dei carichi di lavoro per la presenza di due persone da accudire con patologie gravi
nello stesso ambito domestico può prevedere l’inserimento di altre figure professionali per
gli aumentati compiti di cura. O ancora la necessità di supporto psicologico del lavoratore
che assiste persone con patologie psichiche o fisiche molto gravi .
Capire dunque le mutate condizioni lavorative e trovare delle ulteriori forme di sostegno per l’assistito, promuovere percorsi formativi finalizzati ad una professionalizzazione
del lavoratore, trovare delle modalità di sostegno e reciproca comprensione nelle diversità
della vita quotidiana, sono tutte azioni che fanno parte di un accompagnamento, di un tutoraggio familiare che va al di là del mero incontro tra domanda ed offerta.
Nella logica di promuovere interventi nel settore del lavoro domestico e di cura
quanto più omogenei possibile, che favoriscano l’emersione del lavoro nero, l’accesso alla
formazione, il sostegno alle famiglie, l’incontro tra domanda ed offerta e la gestione del rapporto di lavoro domestico, è da segnalare il Programma Assap, avviato a partire dal 2010 dal
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Un esempio positivo che promuove l’inserimento lavorativo e la qualificazione professionale nel settore dei servizi di cura e di assistenza
attraverso percorsi di politiche attive del lavoro.
Dall’esperienza, come Acli Colf e Patronato ACLI (soggetto accreditato per l’intermediazione di manodopera), ci sembra che questi interventi siano utili per ridurre quelle
forme poco ortodosse di passaparola, se non di caporalato che anche in questo ambito
ancora sussistono; nonché per favorire lo sviluppo di proposte formative in contesti in cui
non erano presenti e, ovviamente, per dare un impulso significativo alla legalità e all’emersione del lavoro nero.
23
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
Tab. 4 • Gli standard formativi minimi per le assistenti familiari nelle diverse Regioni
Regione
Abruzzo
Campania
Emilia-Romagna
Friuli Venezia Giulia
Lazio
Liguria
Lombardia
Marche
Molise
Piemonte
Puglia
Toscana
Umbria
Valle d’Aosta
Durata del percorso formativo in ore
400
120
120
200
120 corso breve + 300 corso standard
200
160 corso base + 100 corso 2° livello
100
200
200 (si usa il primo modulo OSS)
400
220
150 + stage
120
Fonte: Rusmini – Elaborazioni da normativa regionale (anno 2013)
24
Per le Acli Colf la questione del riconoscimento professionale rimane centrale:
partendo dall’individuazione delle mansioni che le assistenti devono svolgere, devono
potersi definire i moduli formativi che, a loro volta, devono fornire specifiche competenze
di settore certificabili.
La formazione deve inoltre essere pensata andando incontro alle esigenze di
tutte quelle lavoratrici e lavoratori che a causa del poco tempo, degli impegni lavorativi
e familiari, non riescono ad intraprendere percorsi formativi strutturati (ad esempio non
possono lasciare da sola per molte ore la persona anziana che assistono). Ci sono, infatti,
dei nodi critici della formazione professionale nel settore del lavoro domestico che possiamo così riassumere:
• difficoltà a frequentare corsi di formazione durante l’orario di lavoro;
• frequenti abbandoni per impegni lavorativi e/o famigliari;
• poco interesse da parte delle lavoratrici e lavoratori domestici a professionalizzarsi
nel settore domestico di cura, soprattutto quando i progetti migratori sono di
breve periodo o vengono immaginati tali;
• poco interesse a formarsi in un settore senza garanzie di progressione di
carriera o di riconoscimento sociale dell’attività formativa svolta;
• poco interesse da parte delle famiglie a far partecipare lavoratrici/lavoratori a
corsi di formazione in quanto sottraggono ore al lavoro.
Oltre alla formazione in aula e alla certificazione delle competenze all’interno
di percorsi formativi riconosciuti, altro strumento utile da introdurre sarebbe la validazione
delle competenze, ovvero una sorta di certificazione delle competenze acquisite durante
l’esperienza lavorativa utile al fine del riconoscimento professionale (ad oggi vi sono
alcune esperienze interessanti che stanno lavorando in questo senso; cfr. Cooperativa
Anziani e non solo e il progetto “Pari 2007”, sperimentazione per la certificazione delle
competenze delle assistenti familiari). Ciò sarebbe in linea anche con le nuove disposizioni
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
europee in materia (Cfr. il Decreto sul Sistema Nazionale di Certificazione delle competenze d.lgs n. 13 del 16/01/13 e www.isfol.it/Area Formazione e Apprendimento/Validazione e certificazione delle competenze).
Prendendo spunto dall’esperienza, per l’articolazione dei contenuti dei percorsi
formativi ci sembrano rilevanti quattro aree di interesse:
1) Culturale-Istituzionale: nozioni di educazione civica, mediazione interculturale, studio della rete dei servizi socio-sanitari e delle figure professionali in essa operanti,
basi della normativa in materia di assistenza socio-sanitaria.
2) Normativa: conoscenza dei diritti e dei doveri del lavoratore, della persona
assistita e dei familiari, del CCNL lavoratori domestici, dei principali istituti relativi alla
previdenza e alla normativa fiscale (basi di legislazione in materia di immigrazione per
i cittadini stranieri).
3) Tecnico-operativa: conoscenza di economia domestica, cura dell’anziano,
del bambino, delle persone disabili; mobilizzazione, elementi di anatomia e fisiologia,
tecniche di spostamento e sollevamento, igiene della persona, preparazione e somministrazione dei pasti, controllo della corretta assunzione dei farmaci o della somministrazione della terapia prescritta dal medico, nozioni di pronto soccorso, geriatria, studio
delle patologie più frequenti negli anziani, igiene domestica, governo della casa, conservazione dei cibi.
4) Linguistico-Relazionale: la psicologia dell’anziano, le tecniche di comunicazione, le modalità relazionali, la gestione delle emozioni e la capacità di ascolto e di
comprensione, la prevenzione e mediazione dei conflitti.
Per cittadini/e stranieri/e possono essere previsti anche corsi supplementari di
lingua italiana, laddove possibile con specifico rilascio della certificazione della conoscenza linguistica.
L’assistente familiare è, dunque, un operatore che collabora con la persona assistita e con la sua famiglia e:
• interagisce con le attività domestiche e di aiuto alla persona;
• si attiene alle norme di cortesia e di rispetto nei rapporti interpersonali gestendo
la propria emotività;
• sa orientarsi nel contesto familiare di riferimento;
• cura la pulizia, l’igiene e il riordino degli arredi e dell’ambiente;
• osserva e segnala alla famiglia (o in assenza di un referente della famiglia, a
personale di assistenza dei servizi socio-sanitari o direttamente al medico di
base) mutamenti nelle condizioni di salute della persona assistita;
• controlla la corretta assunzione di farmaci o presta aiuto alla somministrazione
della terapia prescritta dal medico;
• accudisce e assiste la persona nelle attività della vita quotidiana in ambiente
domestico;
• aiuta nell’igiene personale, rispettando usi e abitudini personali;
• collabora alla gestione della casa, alla preparazione e somministrazione dei
pasti, osservando le norme igienico-sanitarie;
• collabora alle attività di approvvigionamento di generi alimentari o altri;
25
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
26
• accompagna la persona nell’accesso ai servizi esterni o ad altre necessità della
vita quotidiana;
• presta compagnia e aiuto, anche in caso di ricovero in struttura assistenziale
od ospedaliera;
• collabora in attività volte al mantenimento o al recupero di rapporti sociali;
• lavora in rete con i familiari o con altre figure di riferimento;
• interagisce con gli altri operatori del settore socio-assistenziale.
L’assistente familiare non è però un elenco di mansioni. Le necessità di cura
dell’assistito e l’ambiente domestico nel quale è inserito determinano la priorità di
alcune mansioni rispetto ad altre, di quelle che nel CCNL vengono indicate come
“mansioni prevalenti” (cfr. art. 10 Inquadramento dei lavoratori, da cui ne deriva anche
il rispettivo inquadramento contrattuale).
In generale, ci sembra dunque prioritario il riconoscimento del profilo professionale dell’assistente familiare, che ancora non è stato normato a livello nazionale.
Anche attraverso la formazione dei lavoratori domestici e il riconoscimento del profilo
professionale della categoria, passa la promozione del lavoro domestico e di cura, il suo
riconoscimento non solo formale, ma anche culturale, e una maggiore attenzione anche
verso i bisogni delle famiglie.
L’Italia è stata uno dei pochi e primi paesi a mostrarsi sensibile alla tutela del
lavoro domestico, anche in tempi in cui padroneggiava l’arbitrio della famiglia, allora
borghese, che disponeva con benevolenza e discrezione dei possibili benefici da concedere alla lavoratrice, spesso costretta a sopportare condizioni di lavoro durissime.
Già, infatti, negli anni ’40-’50 le Acli, dapprima attraverso il lavoro della Commissione
femminile e poi con l’organizzazione dei GAD – Gruppi Acli Domestiche – si attivarono
per sanare le ingiustizie subite dalla categoria, facendosi promotrici delle riforme necessarie per superare la discriminazione e il servilismo.
È sotto questa forte pressione attivista, non solo aclista, che si concretizzò l’approvazione di alcune normative fondamentali per la tutela della dignità del lavoro domestico: la legge n. 35 del 1952 che estendeva alle domestiche l’assicurazione obbligatoria
contro le malattie, la legge 940 del 1953 che riconobbe il diritto alla tredicesima, nonché
la legge 339 del 1958 “per la tutela del rapporto di lavoro domestico” che rappresenta
una importante pietra miliare nel riconoscimento della categoria, fino all’approvazione,
nel 1973, del primo contratto collettivo nazionale di categoria. Ciò è stato possibile,
grazie alla dichiarazione di incostituzionalità, nel 1969, della norma del codice civile
che vietava la contrattazione collettiva nell’ambito domestico, da sempre denunciata e
rivendicata dalle Acli Colf (la richiesta di abolizione era stata assunta come rivendicazione
prioritaria nell’Assemblea congressuale delle Acli Colf nel 1967).
Nel passaggio da “serva” a “collaboratrice ed assistente familiare” (Sarti 2011),
le lavoratrici hanno indubbiamente conquistato, con non poca fatica, diritti contrattuali
che erano scontati per altre categorie, ma lo scenario attuale non è privo di elementi che
da decenni mantengono e, addirittura, incentivano lo stato di precarietà e illegalità che
caratterizza il lavoro domestico, di fatto discriminando le lavoratrici e i lavoratori del
settore. Soprattutto il profilo giuridico generale del lavoratore domestico risente fortemente del contesto culturale e sociale dell’epoca in cui ha iniziato a formarsi e che intendeva il lavoro di cura esternalizzato come subalterno e marginale rispetto al ruolo
fondamentale della donna e della famiglia, comunque esercitato in un “luogo”, la
famiglia, appunto, da sempre considerato “intimo”, “fiduciario”, lontano dalle tensioni
e dagli antagonismi che si creano nell’impresa.
È in ragione di tali caratteristiche che tutta la disciplina sul rapporto di lavoro
domestico ha rappresentato, e rappresenta per molti versi ancora, “un mondo a sé”,
un ambiente dove molta parte delle normali regole che governano la dinamica di un
rapporto di lavoro, comprese quelle previdenziali e assistenziali, sono affievolite, se
non addirittura del tutto soffocate (Basenghi e Sarti, 2010). Col tempo, si è finito dunque
per elaborare normativamente una figura di lavoratore domestico “per sottrazione”
ovvero prevedendo normative sempre più garantiste e attente ai diritti, per tutti i lavoratori
… ad esclusione di quelli domestici.
Di fronte al crescente “bisogno di cura” delle famiglie, tale assetto giuridico appare superato e avulso dalla realtà lavorativa e sociale che caratterizza il presente.
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
3. Costruire una nuova professione
superando ogni logica sottrattiva
27
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
L’area dei servizi di cura e di assistenza rappresenta ormai un grande e importante
bacino occupazionale: per colf, assistenti familiari, baby sitter, addetti alle pulizie, l’occupazione è cresciuta del 53% in dieci anni (Censis/Ismu). In questa è presente un’ampia
area di lavoro totalmente irregolare e “grigia”, su cui è oggettivamente difficile ottenere
dati certi. Nell’ambito di alcune ricerche svolte dall’IRS, si stima che l’irregolarità contrattuale riguarderebbe oltre i due terzi delle assistenti familiari presenti nel nostro paese:
oltre un quarto (26%) straniere irregolarmente presenti sul territorio italiano e dunque
per questo prive di contratto; mentre oltre un terzo (36%), pur risiedendo regolarmente
in Italia perché italiane, straniere con permesso di soggiorno o comunitarie, lavorano
senza contratto (Pasquinelli e Rusmini, 2013).
Come si è visto, in questi ultimi anni il legislatore si è interessato del lavoro domestico soprattutto in ragione delle esigenze di regolarizzazione e di emersione legate
al fenomeno del lavoro irregolare, specie dei lavoratori stranieri. Chiaro segnale, questo,
che il lavoro di cura, soprattutto in regime di co-residenza, è sempre stato percepito
come un lavoro di “ripiego”, transitorio, un’occasione di lavoro e di prima integrazione
per stranieri in cerca di riscatto e fortuna nel nostro paese, che richiede dedizione e sacrificio, soprattutto della propria vita personale e familiare. Un lavoro poco appetibile
perché precario, socialmente poco valorizzato e assistito da poche tutele, oltretutto difficilmente rivendicabili, nel rapporto uno a uno in cui si svolge.
3.1 Importanti segnali di cambiamento
28
Nel corso degli ultimi anni, ad interventi incisivi riguardanti il regime giuridico
speciale di questo rapporto di lavoro, si sono preferite misure marginali rispetto al
nucleo essenziale della fattispecie normativa, rimasta sostanzialmente intatta nelle sue
origini.
È da dire che il legislatore, probabilmente accortosi della rilevanza anche economica
del fenomeno del lavoro di cura, ha negli ultimi tempi, seppur “a spot”, abbandonato la
logica sottrattiva con cui lo trattava, “dimenticandosi” di escludere esplicitamente il lavoro
domestico dalle novelle legislative che hanno in qualche modo riguardato il mondo del
lavoro. Ricordiamo:
• l’introduzione del certificato telematico in caso di malattia ad opera dell’art.
25 Legge 4 novembre 2010 n. 183, meglio conosciuta come collegato Lavoro1;
• la Riforma Fornero nella parte che modifica i trattamenti di sostegno al reddito
per la disoccupazione involontaria, introducendo la nuova ASPI, ha introdotto
un “contributo di licenziamento” per tutti i casi di interruzione di un rapporto
di lavoro a tempo indeterminato per causa diversa dalle dimissioni, gettando
nel panico tutti i datori di lavoro domestico che si trovavano costretti a interrompere il rapporto di lavoro con la propria colf o assistente familiare nell’imminenza dell’entrata in vigore della norma2;
• l’introduzione della procedura di convalida delle dimissioni e della risoluzione
consensuale del rapporto di lavoro, introdotta dal 12 luglio 2012 sempre dalla
c.d. Riforma Fornero, che ha previsto anche per il rapporto di lavoro domestico
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
la necessità di attivare un meccanismo diretto ad accertare la genuinità della
volontà del lavoratore contro la pratica delle dimissioni in bianco3, pur comunque, per effetto del “collage” normativo di sovrapposizione delle norme,
escludendo che ad esse si applichi la tutela “speciale” della procedura di convalida dinanzi alla Direzione Provinciale del Lavoro, in caso di dimissioni nel
periodo “protetto” della maternità.
Si tratta per la maggior parte, però, d’interventi che equiparano i rapporti di
lavoro esclusivamente da un punto di vista amministrativo, aggiungendo, cioè, adempimenti burocratici o irrigidimenti che vanno in direzione esattamente opposta alle esigenze
di snellezza e celerità nelle procedure, che richiederebbe la natura privata e familiare
del datore di lavoro, senza nulla o poco aggiungere alla sostanza del godimento di diritti
e tutele dei lavoratori. Per contro, alcuni importanti provvedimenti dimostrano come il
legislatore non abbia ancora abbandonato la logica “sottrattiva” e, anzi, continui a dimostrare una scarsa attenzione alle tutele di questa categoria di lavoratori.
Si pensi ancora alla parte del collegato Lavoro che ha provveduto alla riformulazione dell’art. 3 D.L. 22 febbraio 2002 n. 12, escludendo i datori di lavoro domestico
dall’applicazione della maxi-sanzione in caso di impiego di lavoratori subordinati senza
preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro4.
Importanti passi avanti verso la “normalità” del rapporto di lavoro domestico,
che intendono “alzare l’asticella” dei diritti e delle tutele a questa categoria di lavoratori,
possono invece essere individuati:
• nella Convenzione OIL 189/2011 di Ginevra;
• nel rinnovo del CCNL;
• nell’attivazione l’intervento della CASSA COLF.
LA CONVENZIONE ILO 189/2011 DI GINEVRA
Il 16 giugno 2011 la Conferenza Generale dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro, organismo delle Nazioni Unite riunito con sede a Ginevra) ha
adottato la Convenzione 189 (C189) e la Raccomandazione5 201 (R201) sulle lavoratrici
e lavoratori domestici.
La C1896 si applica a tutti i lavoratori domestici con ciò intendendo ogni
persona che svolge un lavoro domestico nel quadro di una relazione di lavoro in
maniera non occasionale o sporadica. Essa si pone l’obiettivo di far in modo che gli
stati membri dell’ILO ratifichino e adottino misure volte ad assicurare in modo efficace la promozione e la protezione dei diritti umani di tutti i lavoratori domestici,
nonché a rispettare, promuovere e realizzare i principi e i diritti fondamentali nel lavoro.
In particolare, si vogliono garantire (art. 3):
a) la libertà di associazione e l’effettivo riconoscimento del diritto di contrattazione collettiva;
b) l’eliminazione di ogni forma di lavoro forzato o obbligatorio, che in alcuni
casi può tradursi in moderne schiavitù o può essere veicolo per nascondere
forme di tratta di esseri umani;
c) l’effettiva abolizione del lavoro minorile anche in questo settore, ancora
29
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
30
presente in molte parti del mondo;
d) l’eliminazione della discriminazione in materia di impiego e di professione,
riconoscendo il lavoratore domestico al pari degli altri lavoratori.
O ancora devono essere adottate misure volte ad assicurare che:
• i lavoratori domestici beneficino di un’effettiva protezione contro ogni forma
di abuso, di molestia e di violenza (art. 5);
• godano di condizioni di occupazione eque nonché di condizioni di lavoro dignitose e, ove siano alloggiati presso le famiglie, di condizioni di vita decorose
che rispettino la loro vita privata (art. 6);
• siano informati delle loro condizioni di occupazione in maniera appropriata,
verificabile e facilmente comprensibile, preferibilmente, ove possibile, per
mezzo di un contratto scritto (art. 7);
• l’uguaglianza di trattamento tra i lavoratori domestici e l’insieme dei lavoratori
per quanto riguarda l’orario normale di lavoro, il compenso delle ore di lavoro
straordinario, i periodi di riposo quotidiano e settimanale e i congedi annuali
pagati, tenuto conto delle particolari caratteristiche del lavoro domestico (art.
10);
• beneficino del sistema di salario minimo, ove tale sistema esista, e che la remunerazione venga fissata senza discriminazione fondata sul sesso (art. 11);
• garantire la sicurezza e la salute sul lavoro dei lavoratori domestici (art. 13);
• condizioni non meno favorevoli di quelle applicabili all’insieme dei lavoratori
in materia di sicurezza sociale, ivi compreso per quanto riguarda la maternità
(art. 14).
Sono inoltre previste disposizioni particolari:
• per i minori: ogni paese membro deve fissare un’età minima per i lavoratori
domestici, non inferiore a quella prevista dalla legislazione nazionale applicabile all’insieme dei lavoratori. Inoltre, deve adottare misure volte ad assicurare
che il lavoro svolto da lavoratori domestici di età inferiore ai 18 anni non li
privi della scolarità obbligatoria o comprometta le loro possibilità di proseguire
gli studi o di seguire una formazione professionale (art. 4);
• per i migranti: la legislazione nazionale deve prevedere che i lavoratori domestici migranti reclutati in un paese per svolgere un lavoro domestico in un
altro paese debbano ricevere per iscritto un’offerta di lavoro o un contratto di
lavoro valido e che espliciti le condizioni di occupazione di cui all’articolo 7,
prima di varcare le frontiere nazionali per svolgere il lavoro domestico (art.
8).
Il dato innovativo rappresentato da tale Convenzione è che per la prima volta
l’Organizzazione Internazionale del Lavoro si è occupata delle lavoratrici e dei lavoratori
domestici, dando così un segnale forte dal punto di vista sociale e culturale. Ciò costituisce
un passo fondamentale nel cammino di riconoscimento di un lavoro spesso invisibile:
“il lavoro domestico è un lavoro” con dignità e diritti pari a qualunque altro lavoro, uno
strumento internazionale di rivendicazione e tutela di tali diritti.
In tal senso, la C189 dà voce in particolare a tre priorità:
IL NUOVO CCNL SULLA DISCIPLINA DEL LAVORO DOMESTICO
Dopo più di un anno di trattativa le organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative, Federcolf, Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs, lo scorso 9
aprile 2013 hanno finalmente siglato l’accordo per il rinnovo del CCNL con le associazioni datoriali Fidaldo e Domina. Entrato in vigore il 1° luglio 2013, scadrà il 31
dicembre 2016 e, in caso di mancata disdetta di una delle parti, il contratto s’intenderà
tacitamente rinnovato per un triennio.
Si tratta di un CCNL all’insegna della crisi. Più volte nel corso della trattativa,
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
• promuovere l’emersione del lavoro nero e la diffusione della legalità nel
lavoro domestico, tenendo in considerazione la particolarità del settore di
impiego, soprattutto quando legato alla cura della persona (anziani, disabili),
ovvero promuovere un rapporto di lavoro dignitoso per chi cura e chi viene
curato;
• garantire equità di trattamento per tutti i lavoratori domestici, migranti e
non, superando le discriminazioni che si generano per cause legate alla nazionalità,
alla permanenza, alle diversità culturali;
• far uscire le lavoratrici e i lavoratori domestici da forme di isolamento ed
esclusione, che spesso caratterizzano questa professione, promuovendo la diffusione delle informazioni e la partecipazione della categoria alla vita comunitaria.
Pertanto la Convenzione ha avuto un grande eco a livello internazionale con la
promozione di Campagne come la “12by12” dell’ITUC (Confederazione Internazionale
dei Sindacati) per ottenere la ratifica della Convenzione da parte di 12 paesi entro la fine
del 2012, a cui hanno aderito molti altri enti ed associazioni, tra cui anche le Acli Colf e
la Federazione ACLI Internazionali.
Sinora ci sono state 14 ratifiche: dieci paesi le cui ratifiche sono registrate
presso l’ILO (Uruguay, Filippine, Isole Mauritius, Italia, Nicaragua, Paraguay, Bolivia, Guyana, Sud Africa e Germania) e quattro che hanno terminato il loro processo
di ratifica a livello nazionale, ma per i quali ancora necessita la registrazione presso
ILO affinché la ratifica possa dirsi avvenuta (Colombia, Ecuador, Repubblica Dominicana e Costa Rica).
Il fatto che l’Italia sia stata tra i primi paesi a ratificare la Convenzione non
toglie, anzi sottolinea, gli ostacoli che proprio la legislazione italiana pone all’applicazione della 189 da vari punti di vista:
• sicurezza sociale e previdenza: il problema della retribuzione convenzionale e
degli importi pensionistici irrisori;
• maternità: non è prevista la maternità facoltativa;
• malattia: indennità solo per brevi periodi.
Per quanto concerne l’Italia, dunque, la C189 non stravolge la normativa, ma
pone delle questioni importanti non solo da un punto di vista culturale, rispetto al riconoscimento della piena dignità del lavoro domestico e di cura, ma anche per quanto
concerne l’uguaglianza di trattamento tra lavoratori.
31
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
di fronte alle richieste, anche incalzanti dei sindacati, le parti datoriali hanno rilevato
come in un periodo di forte difficoltà per le famiglie non fosse possibile effettuare
riconoscimenti aventi ricadute di carattere economico. Ciò è visibile nell’accordo
raggiunto per l’aggiornamento delle retribuzioni: il nuovo CCNL prevede un sistema
di indicizzazione delle retribuzioni annuale pari all’80% delle variazioni del costo della
vita rilevate dall’Istat, affidato ad una Commissione Paritetica costituita dalle parti sociali, che all’inizio di ogni anno provvede alla rivalutazione delle retribuzioni per ogni
categoria e dell’indennità di vitto e alloggio. Con il rinnovo contrattuale si imponeva
l’aggiornamento delle retribuzioni per il recupero totale della perdita del potere di acquisto dei salari (quel 20% rimasto escluso dall’aggiornamento automatico) che le
parti sociali hanno concordato di recuperare nell’arco di tre anni a partire dal 1/1/2014,
secondo tabelle che verranno via via rese pubbliche.
Al di là di alcune particolari novità, dunque, il nuovo CCNL è stato assunto
quale occasione per precisare e specificare alcuni aspetti che evidentemente risultavano ancora molto controversi nella sua applicazione e per adeguare le sue previsioni
ad alcune novelle legislative degli ultimi anni.
È indubbio che il CCNL rappresenta un importante elemento normativo di sostegno e tutela del lavoro di cura, contribuendo in modo determinante a fornire una
cornice chiara e precisa ai diritti e alle tutele da attuare all’interno del rapporto di lavoro,
a prescindere da una effettiva volontà della parte datoriale di darne applicazione: non è
infatti necessaria l’espressa adesione da parte dei datori di lavoro alle Associazioni stipulanti il CCNL di categoria perché questo abbia efficacia giuridica.7
LE PRINCIPALI NOVITÀ DEL CCNL
32
1) MATERNITÀ (NUOVO COMMA 2 ART. 39)
Ferma restando l’impossibilità di licenziamento per l’intero periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, il preavviso di licenziamento che avvenga
entro il 31° giorno dalla fine del periodo di congedo obbligatorio viene raddoppiato.
2) PERMESSI e CONGEDI FORMAZIONE (NUOVO ART. 9)
In considerazione della introduzione di particolari obblighi formativi per il rinnovo del permesso di soggiorno, si è specificatamente previsto che il monte
ore annuo di 40 ore di permesso retribuito, spettante ai lavoratori in servizio
da almeno un anno presso lo stesso datore di lavoro, comprenda la partecipazione a tali attività formative.
PERMESSI NON RETRIBUITI PER GRAVI E DOCUMENTATI MOTIVI (NUOVO COMMA 2
ART. 19)
Per gravi e documentati motivi il lavoratore potrà richiedere un periodo di
sospensione extraferiale senza maturazione di alcun elemento retributivo
per un massimo di 12 mesi. Il datore di lavoro potrà, o meno, convenire con
la richiesta.
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
CONGEDO MATRIMONIALE (NUOVO COMMA 4 ART. 23)
Il lavoratore potrà scegliere di fruire del congedo matrimoniale anche non in
coincidenza con la data del matrimonio, purché entro il termine di un anno
dalla stessa e sempreché il matrimonio sia contratto in costanza dello stesso
rapporto di lavoro.
PERIODO DI CONSERVAZIONE DEL POSTO PER MALATTIA ONCOLOGICA (NUOVO COMMA
6 ART. 26)
I periodi di conservazione del posto del lavoro in caso di malattia saranno aumentati del 50% in caso di malattia oncologica, documentata dalla competente ASL.
3) I LAVORATORI SUPPLENTI (NUOVO COMMA 9 ART. 15)
Il datore di lavoro che abbia in servizio uno o più lavoratori a tempo pieno,
addetti all’assistenza di persone non autosufficienti, inquadrati nei livelli CS o DS,
potrà assumere in servizio uno o più lavoratori, conviventi o meno, da inquadrare
nei livelli CS o DS, con prestazioni limitate alla copertura dei giorni di riposo dei
lavoratori titolari dell’assistenza.
4) NORME IN MATERIA DI SICUREZZA SUL LAVORO (NUOVO ART. 27)
Particolare attenzione è riservata dal nuovo CCNL alla sicurezza del lavoro, un
tema purtroppo spesso sottovalutato nella gestione del rapporto di lavoro domestico per la coincidenza dell’ambiente lavorativo con l’ambiente familiare,
come tale non sottoposto alle regole del T.U. in materia di sicurezza nell’ambiente di lavoro.
Ci sono però regole minime di sicurezza, su cui il nuovo CCNL vuole sensibilizzare
i datori di lavoro domestico, anche in funzione di “educazione culturale” dei
datori di lavoro e dei lavoratori: viene, così, affermato il diritto dei collaboratori
familiari ad un ambiente di lavoro sicuro e salubre, sulla base di quanto previsto
dalla legislazione vigente, e in particolare, si menziona il dovere del datore di
lavoro di:
• garantire la presenza sull’impianto elettrico di un adeguato interruttore differenziale (il “salvavita”);
• informare la colf circa eventuali rischi esistenti nell’ambiente di lavoro, relativi
anche all’uso delle attrezzature ed all’esposizione a particolari agenti chimici,
fisici e biologici. All’ente Bilaterale Ebincolf è demandato il compito di elaborare
un apposito documento da consegnare all’atto dell’individuazione delle mansioni da svolgere, e quindi al momento dell’assunzione.
5) COMMISSIONI TERRITORIALI DI CONCILIAZIONE (NUOVO ART. 46)
La Legge 4 novembre 2010, n. 183 meglio conosciuta come “Collegato lavoro”, ha rivoluzionato la materia delle conciliazioni in questo settore abolendo
la conciliazione preventiva obbligatoria presso la DPL competente e introducendo un’ampia gamma di “conciliazioni facoltative”, fra cui era stata prevista
la possibilità di svolgere tale attività “presso le sedi e con le modalità previste
33
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
34
dai CCNL sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative” (412-ter cpc).
In adeguamento a tale normativa il nuovo art. 46 prevede che “Per tutte le
vertenze individuali di lavoro relative all’applicazione del presente contratto, le
parti esperiranno, prima dell’azione giudiziaria, il tentativo di conciliazione, di
cui all’articolo 410 e seguenti del Cod. Proc. Civ., presso l’apposita Commissione
territoriale di conciliazione, composta dal Rappresentante dell’Organizzazione
sindacale e da quello della Associazione dei datori di lavoro, cui, rispettivamente, il lavoratore ed il datore di lavoro siano iscritti o conferiscano mandato.
La conciliazione, produce fra le parti gli effetti di cui all’art. 2113, 4° comma,
codice civile, e dovrà risultare da apposito verbale.”
L’art. 2113 c.c., prevede un generico diritto del lavoratore di chiedere l’annullamento di dichiarazioni di rinuncia o di transazione eventualmente espresse a
favore del datore di lavoro, aventi ad oggetto diritti inderogabili, derivanti da
leggi o contratti collettivi, entro 6 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro o
di sottoscrizione, se successiva. Tale diritto viene meno se però tale accordo o
rinuncia viene maturato all’interno di una specifica procedura dotata di particolare “sostegno” al lavoratore, tale che si possa sostenere che tale accordo o
rinuncia sia maturato nella piena consapevolezza dei diritti rinunciati.
La commissione territoriale di conciliazione è uno strumento diretto in tal senso.
6) CONTRATTAZIONE DI SECONDO LIVELLO
Anche nel lavoro domestico fa ingresso la contrattazione di secondo livello, da
concludere di norma nell’ambito regionale o delle città metropolitane, e che
riguarderà le materie della retribuzione in natura ovvero il vitto e l’alloggio, e
della formazione professionale, materie su cui quindi sarà possibile introdurre
una normativa personalizzata da regione a regione.
7) CHIARIMENTI RIPOSO INTERMEDIO GIORNALIERO
(NUOVO COMMA 4 ART. 15)
Nei rapporti di lavoro in regime di convivenza durante il riposo diurno, che va
goduto per almeno due ore giornaliere, è stata chiarita e specificatamente
prevista la possibilità per le lavoratrici di uscire liberamente di casa, salvo accordi
specifici contrari e fatta salva in ogni caso la destinazione di tale intervallo al
recupero psicofisico.
La formulazione del comma sottolinea la necessità che tale orario sia destinato all’effettivo riposo con un duplice aspetto: da un lato la lavoratrice non potrà uscire
per andare a lavorare altrove, dall’altro anche nel caso di permanenza presso
l’abitazione la lavoratrice deve comunque potersi dedicare alle proprie personali
attività (leggere un libro, guardarsi un programma televisivo, ecc…). A seconda di
come viene svolta, anche l’attività di mera vigilanza può essere considerata attività
lavorativa, se non consente alla lavoratrice di dedicarsi ai propri affari, e soprattutto
se la stessa deve rimanere “a disposizione” del datore di lavoro.
Una delle discriminazioni più pesanti che le lavoratrici si trovano ad affrontare
nello svolgimento del loro rapporto di lavoro è l’esclusione dalla fruizione di una minima
tutela previdenziale in caso di malattia.
L’indennità di malattia nel rapporto di lavoro domestico rimane totalmente a
carico del datore di lavoro, senza alcun intervento di sostituzione, sostegno, o integrazione
da parte dell’INPS. Ciò crea notevoli difficoltà nell’attuazione del rapporto di lavoro
che colpiscono entrambe le parti: naturalmente la lavoratrice si trova sprovvista di retribuzione proprio nel momento in cui si trova in una situazione di fragilità, quando ne
avrebbe più bisogno, ma dall’altro il datore di lavoro, con cui si instaura spesso un rapporto affettivo, si trova smarrito e titubante, soprattutto in situazioni di malattia grave e
prolungata.
A tale situazione hanno cercato di porre rimedio le parti sociali, dapprima con
l’introduzione, nel CCNL, del periodo di conservazione del posto8 e dell’indennità di
malattia a totale carico del datore di lavoro per un periodo limitato e commisurato all’anzianità di servizio9, che il nuovo CCNL ha provveduto a raddoppiare in caso di malattia oncologica10. Successivamente, dal 1 Luglio 2010, le parti sociali hanno attivato
l’importante strumento della Cassa Colf11, concludendo un processo di gestazione delineato già nel CCNL approvato nel 2007, e che garantisce alcune prestazioni sostitutive
e/o integrative a favore delle parti.
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
LA CASSA COLF
3.2 Proposte in materia fiscale e previdenziale
UNA NUOVA FISCALITÀ. DETRAZIONE DELL’INTERO COSTO DEL LAVORO DOMESTICO E DI CURA E ASSISTENZA ALLA PERSONA NON AUTOSUFFICIENTE
La leva fiscale rappresenta sicuramente uno degli strumenti da utilizzare, congiuntamente agli altri di cui si parlerà in seguito, per spezzare il circolo vizioso di irregolarità ed evasione che caratterizza ancora oggi il rapporto di lavoro domestico.
È necessario creare forme di condivisione delle convenienze della regolarizzazione attraverso, in primis, una revisione delle regole sul trattamento fiscale della spesa
sostenuta dalle famiglie per l’assistenza alla persona non autosufficiente, consentendo
la detrazione o, ancora meglio, la deduzione di tutte le spettanze retributive e degli oneri
contributivi relativi.
Si tratta innanzitutto di un imperativo morale cui dovrebbe rispondere lo Stato
in un sistema sanitario e sociale che non riesce a raggiungere e a dare risposte concrete
ed efficaci alle necessità di cura e di assistenza delle persone più deboli. È giusto che lo
Stato, nell’attesa di una gestione e regolazione dell’assistenza familiare attraverso la
strutturazione servizi adeguati, riconosca le spese che le famiglie si assumono, visto il
risparmio che il sistema delle assistenti familiari consente a favore delle finanze pubbliche.
Una tale coraggiosa riforma, accompagnata da una maggiore fruibilità dei diritti delle
lavoratrici/lavoratori domestici, incentiverebbe infatti la corretta formalizzazione del
rapporto di lavoro domestico, facendolo uscire dall’area del sommerso, nero o grigio
che sia, e spezzando l’intrecciarsi di connivenze reciproche tra le due parti.
35
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
UN PRELIEVO FISCALE ALTERNATIVO PER IL LAVORO DOMESTICO
Ad oggi, il sistema previsto per la generalità dei lavoratori, composto da una dichiarazione annuale (modello UNICO), con possibilità di rateizzazione dell’onere fiscale
in poche rate, non tiene sufficientemente conto delle particolarità di questo rapporto di
lavoro.
Il fatto di effettuare una prestazione lavorativa non soggetta a sostituzione
d’imposta impone il pagamento di rate elevate, in quanto concentrate in un determinato
periodo dell’anno. A questo si aggiunge la precarietà del lavoro domestico che, pur essendo un rapporto di lavoro di natura subordinata, è legato alle condizioni di salute
dell’assistito o alle particolari esigenze di sostegno, a volte transitorie, della famiglia.
Delle due l’una: per agevolare il pagamento degli oneri fiscali anche alle lavoratrici
domestiche o si ipotizza l’introduzione anche per i datori di lavoro domestico degli obblighi di sostituzione di imposta (con trattenimento dei relativi oneri direttamente in
busta paga), oppure si sperimentano nuove forme di prelievo fiscale che privilegino
l’immediatezza del versamento e una gestione semplificata, nel rispetto delle caratteristiche di subordinazione del rapporto di lavoro.
UN SISTEMA PREVIDENZIALE TRA QUESTIONI IRRISOLTE
E PROSPETTIVE FUTURE
36
Il legislatore degli anni ‘70, rispetto al contesto sociale e previdenziale dell’epoca,
aveva agito con intelligenza. I metodi semplificati d’instaurazione del rapporto di lavoro,
di versamento dei contributi, gli importi modesti posti a carico dei datori di lavoro,
hanno sicuramente contribuito a regolarizzare tanti rapporti di lavoro domestico. La
convenienza era tale che è stato necessario contenere il fenomeno di rapporti di lavoro
domestico fasulli, finalizzati alla possibilità di effettuare versamenti contributivi per il
conseguimento delle prestazioni. Ma oggi, con l’esplosione del lavoro di cura questa
normativa mostra molti limiti.
Il sistema previdenziale delle lavoratrici/lavoratori domestici è imperniato
sul sistema delle retribuzioni convenzionali12 fissate annualmente dall’INPS, per fasce
retributive: le colf quindi si vedono calcolare le prestazioni previdenziali dovute dall’INPS
e dall’INAIL sulla base di retribuzioni che non corrispondono a quelle effettive ma sono
fissate convenzionalmente per fasce contributive, con l’effetto di una diminuzione a
volte anche consistente dell’entità delle prestazioni. Ciò è accentuato soprattutto per
le colf che effettuano più di 24 ore settimanali, che hanno diritto al versamento di contribuzione su una retribuzione convenzionale, non solo inferiore a quella effettivamente
percepita, ma inferiore rispetto a quella delle collaboratrici familiari che effettuano
meno di 24 ore settimanali.13
Se la pensione è la risultante dell’accantonamento contributivo per l’attività
svolta, è evidente che un lavoro parziale, basato su retribuzioni già effettivamente
modeste, che per le colf vengono addirittura sostituite da retribuzioni fittizie molto più
basse del reale, non potrà che dare risultati modesti. Tanto più se non sono più previste
integrazioni finalizzate ad acquisire in ogni caso una prestazione minima come è successo
per decenni in Italia con la pensione integrata al trattamento minimo.
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
E se ciò non bastasse, è da considerare che il sistema crea notevoli incongruenze
anche nel calcolo delle prestazioni di sostegno al reddito, temporanee e di cui sicuramente
le colf si avvalgono normalmente nella propria vita lavorativa per sostenere il proprio
reddito in situazioni di fragilità: disoccupazione, maternità, infortunio.
Il sistema delle retribuzioni convenzionali, penalizza fortemente le lavoratrici che svolgono un orario di lavoro prolungato oltre le 24 ore settimanali, non
solo falcidiando le prestazioni, con notevole riduzione degli importi percepibili, ma
rendendo conveniente, a parità di retribuzione, la riduzione delle ore di assicurazione. Il sistema di conteggio del versamento contributivo proprio del settore domestico,
distingue i rapporti di lavoro sotto le 24 ore settimanali, in cui i contributi sono calcolati
per fasce contributive, e i rapporti di lavoro superiori alle 25 ore settimanali, in cui
invece il contributo è fisso e di misura inferiore. È facile dunque comprendere da
dove nasce il malcostume, indotto dalla presente normativa, di assicurare la lavoratrice solo quanto basta per ottenere il pagamento del minor importo dei contributi:
la soglia delle 25 ore settimanali, pur essendo in presenza di rapporti di convivenza che
dovrebbero essere assicurati per 54/40 ore settimanali.
Al di là di questa specifica distorsione che crediamo debba essere prima o poi
dichiarata illegittima si pone, più in generale, il problema delle retribuzioni convenzionali
che non sembrano più trovare particolari giustificazioni. Tanto più con il sistema contributivo, dove l’importo della pensione, senza integrazioni di sorta, è direttamente commisurato al valore dei versamenti effettuati. È inutile mantenere un meccanismo che penalizza le pensioni di un settore che, già per se stesso, è ampiamente penalizzato.
Verrebbe forse meno anche la spinta “psicologica” a versare sulla classe di contribuzione
di importo inferiore. D’altra parte anche nel settore agricolo sono state recentemente
abrogate le retribuzioni convenzionali.
3.3 Questioni di equità: malattia, maternità
e diritti nel welfare transnazionale
L’INDENNITÀ DI MALATTIA
Dopo l’introduzione dell’indennità di malattia anche per i lavoratori (autonomi)
iscritti nella gestione separata INPS di cui all’art. 2 Legge 335/95, le lavoratrici domestiche
sono ormai le uniche a non poter usufruire di questo importante istituto di sostegno al
reddito, che interviene in un momento di particolare fragilità. Si tratta di un’esclusione che
rappresenta ormai un residuo discriminatorio e odioso, legato ad un contesto sociale e lavorativo delle collaboratrici domestiche che non esiste più e che deve poter essere superato,
rappresentando indubbiamente un forte incentivo alla connivenza tra datore di lavoro e lavoratore nell’instaurazione di rapporti di lavoro irregolari.
La combinazione dei due istituti della Cassa Colf, che comunque interviene in situazioni più gravi, e della indennità di malattia renderebbe effettivamente appetibile un
adeguato versamento contributivo, commisurato alle effettive ore di lavoro prestato.
In momenti di crisi è difficile pensare ad un sovvenzionamento di questa misura
con l’aumento delle tariffe contributive, ma il successo della Cassa Colf ci fa ritenere che i
37
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
38
vantaggi attendibili sarebbero di molto superiori. D’altro canto dall’esame delle tabelle dei
contributi dovuti dai datori di lavoro non domestici per i soggetti aventi diritto alle indennità
economiche di malattia si evince che, in linea generale, l’onere contributivo oscilla tra il
2,2 ed il 2,7%. Ciò, per la fascia che sarebbe indubbiamente più interessata a tale tipo di
tutela quella superiore alle 24 ore settimanali, si tradurrebbe in un aumento dei contributi
INPS di circa 3-4 centesimi di euro.
OMOGENEITÀ NELLA TUTELA DELLA MATERNITÀ
Il lavoro domestico – come evidenziato in apertura – è un settore a forte caratterizzazione di genere: il lavoro privato di cura è svolto quasi interamente da donne, prevalentemente straniere, che hanno un’età media di 42 anni, anche se con ampie variazioni:
le più anziane sono le europee dell’Est Europa (49 anni) e le italiane (48 anni)14.
La tutela della maternità, dunque, non può che essere una delle aspirazioni di un
sistema, come il nostro, che ha tra i suoi valori fondanti e fondamentali la tutela della
persona sia come singolo che nelle sue formazioni sociale, tra cui fondamentale e prima fra
tutte, appunto la famiglia.
Si tratta di una delle priorità poste all’ordine del giorno della Convenzione OIL, di
cui abbiamo già parlato e che impone, ancora una volta, la necessità di superare l’attuale sistema di tutela della donna in gravidanza, sia sotto il profilo del rapporto lavorativo che
sotto il profilo della tutela previdenziale.
Queste le principali e più importanti differenze che distinguono la tutela della maternità della lavoratrice domestica rispetto alla generalità dei lavoratori:
Limitazione del periodo di divieto di licenziamento, che non si applica fino all’anno di età del bambino. Se la decisione della Corte Costituzionale intervenuta nel 1994
sul punto15, può per certi versi essere condivisa nelle sue motivazioni fondamentali, non è
ammissibile e in contrasto con i diritti fondamentali della donna lavoratrice che la stessa si
trovi “alla porta” immediatamente dopo aver finito il congedo obbligatorio, spesso anche
in presenza di una volontà di continuare il rapporto di lavoro.
Fruibilità dell’indennità di maternità esclusivamente in presenza di alcuni requisiti contributivi minimi, consistenti in 52 contributi settimanali nei 24 mesi che
precedono l’inizio dell’astensione obbligatoria ovvero 26 contributi settimanali nei 12
mesi che precedono l’inizio dell’astensione obbligatoria. Nel contesto di precarietà in
cui si trova ad essere esercitato il rapporto di lavoro domestico imporre minimi contributivi
significa escludere una parte anche importante di lavoratrici che, nel momento in cui esercitano il loro diritto fondamentale di essere madre, si trovano escluse dalle tutele tipiche
della maternità.
Esclusione dell’astensione facoltativa c.d. “congedi parentali” nei sei mesi
successivi. Consentire alla donna di percepire una minima indennità in tale periodo, consentendo quindi di trovare accordi alternativi di riduzione dell’orario o nell’attesa di trovare
un’altra idonea e più compatibile occupazione.
LA QUESTIONE DELLA PORTABILITÀ DEI DIRITTI IN UN NUOVO WELFARE TRANSNAZIONALE
La previdenza del lavoro domestico sovrappone le alterità di cui abbiamo fin qui
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
parlato con le problematiche del lavoro e della tutela previdenziale applicabile agli stranieri,
visto che la maggior parte dei collaboratori familiari è di nazionalità non italiana. Rispetto
a quest’ultimo aspetto bisogna distinguere le situazioni in due fattispecie particolari.
a) I lavoratori stranieri che si stabilizzano in Italia e che resteranno in Italia
anche da pensionati.
Per essi non si pongono problemi rispetto alla generalità dei lavoratori domestici
italiani con i quali condividono, specie nell’ambito del sistema contributivo, esiti pensionistici
davvero modesti o addirittura insignificanti, anche in presenza di periodi assai prolungati
di lavoro domestico. Per i lavoratori stranieri soggiornanti in Italia vige il principio di
parità di trattamento con i lavoratori italiani.
b) I lavoratori stranieri che rientrano definitivamente in Patria.
La legge 189 del 2002, nota come legge Bossi-Fini, ha introdotto una serie di modifiche al Testo Unico delle disposizioni riguardanti la disciplina sull’immigrazione (D.lgs.
286/1998). In particolare, l’art. 22 del TU, come modificato dalla Bossi-Fini, ha previsto
una nuova disciplina in materia di trattamenti previdenziali per i lavoratori extracomunitari
che, cessata l’attività lavorativa in Italia, decidono di ritornare nel loro paese d’origine.
Prima dell’entrata in vigore della legge Bossi-Fini (9 settembre 2002), il lavoratore extracomunitario rimpatriato aveva due possibilità:
• ottenere, con i contributi versati presso forme di previdenza obbligatorie in Italia
e alla maturazione dei requisiti richiesti, le stesse prestazioni pensionistiche riconosciute ai lavoratori italiani, anche nel caso in cui non fosse vigente un accordo
di reciprocità con il paese d’origine;
• oppure richiedere il rimborso dei contributi versati in suo favore presso forme di
previdenza obbligatorie con una maggiorazione del 5%. Per ottenere il rimborso
era necessario, oltre alla cessazione del rapporto di lavoro e all’abbandono definitivo del territorio italiano, la mancanza di una convenzione internazionale in
materia di sicurezza sociale.
Con l’entrata in vigore della legge 189/200216, per i cittadini extracomunitari che
rimpatriano è venuta meno la facoltà di chiedere la liquidazione anticipata dei contributi
versati. La legge ha comunque garantito, in caso di rimpatrio, la conservazione dei diritti
previdenziali maturati nel nostro paese, ma prevedendo delle limitazioni che, di fatto, riducono la parità di trattamento con i lavoratori italiani assicurata dalla normativa precedente.
Dalla lettura del testo normativo si possono individuare tre punti essenziali:
• la possibilità di usufruire dei diritti previdenziali e di sicurezza sociale maturati
in Italia, anche se non sussistono accordi di reciprocità;
• la previsione di un requisito anagrafico fisso, stabilito ai 65 anni d’età;
• l’introduzione, entro l’ambito del sistema contributivo, di una deroga al requisito
minimo richiesto dalla legge 335/1995 (5 anni di contribuzione effettiva) per il
diritto alla pensione di vecchiaia.
L’Inps, partendo da un’interpretazione non condivisibile, che lega in maniera
unitaria questi tre elementi, con la circolare 45 del 2003 ha stabilito che la condizione per
ottenere un trattamento pensionistico maturato in Italia è legata sì al verificarsi della maturazione dei requisiti previsti dalla normativa vigente, ma comunque sempre al compimento
39
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
40
del 65° anno d’età. In altre parole, per un soggetto che scelga di rimpatriare l’età per
l’accesso ai trattamenti pensionistici è sempre previsto a 65 anni e tutto ciò che si verifica
prima di questa età non dà diritto ad alcuna prestazione, indipendentemente che il sistema
pensionistico di riferimento sia quello retributivo o contributivo.
Questa condizione penalizza, di fatto, le lavoratrici donne del settore privato non
più soggiornanti nel nostro paese, per le quali l’età pensionabile risulta così innalzata di 5
anni. Allo stesso modo, rimangono esclusi anche i trattamenti pensionistici c.d. “anticipati”,
conseguibili cioè prima del compimento dell’età pensionabile (le pensioni di invalidità, anzianità); l’Inps infatti nella circolare richiamata non menziona queste tipologie di pensioni.
Neppure la morte prematura (prima dei 65 anni) dopo il rimpatriato assicura ai superstiti la
pensione di reversibilità, nemmeno in presenza di figli minori.
La situazione si è aggravata a seguito delle innovazioni introdotte dal Decreto
Legge 201/2011 convertito dalla legge n. 214/2011, che ha innalzato il requisito anagrafico
dei 65 anni, a partire dal 1 gennaio 2012, a 66 anni ed è soggetto dal 2013 agli incrementi
per l’aspettativa di vita. L’Inps, infatti, ha sostenuto che la riforma è ispirata ad un generale
principio di armonizzazione e che pertanto anche i lavoratori extracomunitari, dal 1° gennaio
2012, conseguono il diritto a pensione di vecchiaia all’età di 66 anni, età soggetta all’adeguamento per la speranza di vita.
Dunque, il ritorno in Patria non consente una realizzazione di alcun beneficio
immediato: è necessario aspettare il requisito anagrafico. Le altre prestazioni previdenziali
previste in Italia non sono concesse. L’importo potrebbe essere modesto con un rischio di
dispersione della possibilità effettiva di far valere qualunque diritto una volta tornati in
patria, a maggior ragione se l’attività è stata regolare in modo solo parziale o intermittente.
Se ne deduce un problema assai rilevante: un concorso di fattori che rendono anche ogni rivendicazione di diritto molto aleatoria per la scarsità di risultati che alla fine si potrebbero
conseguire. Senza contare la difficoltà di far valere diritti in Italia dopo un rimpatrio,
un’eventualità davvero remota. Si pone dunque la necessità di un’importante opera di divulgazione tra i lavoratori stranieri finché sono in Italia, volta a promuovere la conoscenza
diretta dei diritti acquisiti.
Nel tentativo di avviarci verso una “non conclusione”, cerchiamo di richiamare
alcuni degli aspetti nevralgici di questo settore per proseguire il dibattito rispetto alle
sfide che rimangono ancora aperte. Come associazione poniamo dunque la nostra attenzione su alcune questioni ancora irrisolte:
• far emergere il lavoro domestico e di cura dalle ‘informalità’ che lo caratterizzano, promuovendo l’emersione del lavoro nero e grigio, e ottenere il pieno riconoscimento dei diritti per i lavoratori del settore, iniziando dall’indennità di malattia, dalla completa tutela della maternità e dall’abolizione dei meccanismi che
riducono la contribuzione.
• dividere il lavoro domestico di servizio dal lavoro di cura svolto per l’assistenza
alle persone non autosufficienti, facendo rientrare quest’ultimo all’interno di
politiche complessive della cura attraverso forme di coordinamento a livello
locale e nazionale, ovvero promuovendo una rete di servizi sociali di sostegno
alla famiglia, riconoscendogli una nuova veste normativa e contrattuale e delineando linee guida uniformi a livello nazionale. Sembra indispensabile la presa in
carico da parte del settore pubblico e dei servizi socio-sanitari della gestione e
della garanzia di tutela dei livelli di assistenza nei confronti delle persone più bisognose, degli anziani soli e degli ammalati che vengono curati presso le proprie
abitazioni.
• prevedere per la famiglia/datore di lavoro servizi idonei al fabbisogno di cura
a domicilio oltre che a meccanismi di sostegno al reddito, come l’intera detraibilità del costo del lavoro di cura. Questo si lega ad una riflessione più generale
che chiama in campo politiche per le famiglie e per il lavoro, congiuntamente a
nuove forme di sostegno anche in termini di conciliazione dei tempi di vita e di
lavoro.
• investire sulla formazione, sul riconoscimento delle esperienze maturate sul
campo e sulla certificazione delle competenze in una logica di progressione di
carriera, nonché sulla definizione di un profilo professionale per la categoria
che porti ad ottenere una qualifica formale su tutto il territorio nazionale.
Le Acli Colf continuano, dunque, a sottolineare l’importanza di promuovere le
“Reti della cura”, tenendo a mente i vari aspetti di tale settore del mondo del lavoro, da
quello contrattuale a quello relazionale, da quello formativo a quello istituzionale. Ciò
significa contrastare un mercato della cura spesso costoso, riservato a pochi, che non
garantisce il rispetto dei diritti di chi cura e di chi viene curato.
Dalla dimensione locale a quella internazionale, è quindi importante unire gli
sforzi per garantire il riconoscimento dei diritti di questi lavoratori e dei bisogni di assistenza di ogni persona, dando dignità al lavoro di cura e promuovendo politiche che
sappiano ascoltare ed agire per rispondere concretamente ai bisogni dei cittadini.
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
4. Conclusioni
41
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
La mission delle Acli Colf: prendersi Cura
del Lavoro di Cura in un percorso condiviso
Sulla base della loro esperienza, a partire dal 1945, e mantenendo la propria
identità associativa nelle ACLI, le Acli Colf continuano a promuovere il riconoscimento della dignità del lavoro domestico e di cura e a tutelare le lavoratrici e i lavoratori appartenenti alla categoria, sottolineando l’importanza di tale lavoro in
sé e per le implicazioni socio - economico - familiari che riveste a livello nazionale
e transnazionale.
Nel rispetto della loro mission le Acli Colf si pongono come obiettivo lo sviluppo
di forme di supporto e di affiancamento alla categoria, attraverso lo sviluppo di
servizi, di percorsi formativi professionalizzanti, di processi d’inclusione sociale
per far uscire questo lavoro dall’isolamento, dalla solitudine e dall’invisibilità, e
per qualificarlo.
I percorsi che portano alla realizzazione di tali obiettivi si sviluppano per noi
a partire dall’incontro con chi si avvicina alla nostra associazione nei nostri contesti
territoriali. Possiamo insieme compiere la nostra mission confrontandoci con le nostre
realtà associative, scambiare le esperienze realizzate, costruire insieme attività tenendo
in considerazione le esigenze e le particolarità che emergono a livello locale e partendo
sempre dalla promozione della partecipazione di lavoratrici e lavoratori del settore domestico e di cura.
In sinergia con gli altri settori del sistema ACLI, e in complicità con i servizi
che si occupano della gestione del rapporto di lavoro e della sua organizzazione (es. gestione buste paghe, stipula contratti, matching), possiamo dare fondamento e rispondere
agli obiettivi di base delle ACLI a partire dalla promozione associativa e culturale e
dalla formazione dei lavoratori.
Pertanto come Associazione proponiamo di:
1. Essere luogo di supporto e sensibilizzazione
per il lavoro domestico e di cura
42
Essere luogo di supporto e accoglienza per la categoria, lavoratrici e lavoratori
domestici e assistenti famigliari, per i caregivers, per le persone assistite e per le famiglie
datrici di lavoro.
1.1 AFFIANCAMENTO DELLE LAVORATRICI E LAVORATORI DEL SETTORE DOMESTICO
DI CURA NELLA PROMOZIONE E TUTELA DEI LORO DIRITTI, NEL RICONOSCIMENTO
DEI DOVERI, NELLA CONOSCENZA DELLE PRINCIPALI NORME IN MATERIA DI LAVORO DOMESTICO.
Il luogo dell’incontro associativo delle lavoratrici e dei lavoratori presso le sedi
Acli Colf e le nostre strutture ACLI è un punto privilegiato della rete del lavoro domestico
e della cura per consentire alla categoria di avere un luogo in cui poter ottenere informazioni utili e risposte ai molteplici quesiti rispetto alla normativa vigente. Un posto in cui
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
potersi raccontare e confrontare, instaurando rapporti fiduciari e relazioni positive.
Tale luogo diventa un canale importante per veicolare messaggi ed informazioni
preziose rispetto alla promozione della formazione professionale, nonché per iniziative
rivolte alla categoria dei lavoratori domestici promosse dalle Acli Colf e dal sistema
ACLI.
La logica che sta alla base di questa azione è sviluppare forme di collaborazione
tra soggetti del sistema Acli e altri attori presenti sul territorio rispetto al perseguimento
del comune obiettivo di garantire ai lavoratori un’adeguata formazione e, di conseguenza,
assicurare alle famiglie e alle persone assistite cure migliori.
Tale sensibilizzazione va inoltre indirizzata verso i caregivers familiari e le famiglie/datori di lavoro, coinvolti e responsabilizzati rispetto alle cure domiciliari prestate
ai loro cari.
1.2 SUPPORTO ALLA RELAZIONE/RAPPORTO DI LAVORO DOMESTICO E SVILUPPO
DI ADEGUATE FORME DI ACCOMPAGNAMENTO COME, AD ESEMPIO, IL TUTORAGGIO FAMILIARE NEL SETTORE DOMESTICO E DI CURA.
La disciplina sul rapporto di lavoro domestico, i diritti e doveri in capo alle
parti, i ruoli e mansioni nella gestione della relazione di lavoro: sono tutti aspetti importanti da conoscere e comprendere affinché sussista una positiva gestione della
relazione/rapporto di lavoro domestico.
Ma non basta. È necessario un accompagnamento al lavoro e un sostegno da un
punto di vista non solo contrattuale, ma anche psicologico e relazionale all’interno di un
rapporto/relazione di lavoro in cui spesso le fragilità che si confrontano e vivono il
comune spazio domestico sono due: quella del lavoratore e quella del datore di lavoro.
Il rapporto di lavoro domestico ed in particolare l’assistenza familiare prevede,
infatti, una prossimità e delle competenze che vanno oltre il mero contratto di lavoro.
Diventa dunque fondamentale accompagnare il lavoratore (e facilitare anche la
famiglia/datore di lavoro/persona assistita) nelle varie fasi del rapporto/relazione.
È necessario monitorare le principali problematiche, capire le criticità ed indirizzare correttamente tanto i lavoratori che i datori di lavoro in una corretta gestione del
rapporto/relazione.
Ci sembra dunque fondamentale sviluppare forme di accompagnamento al lavoro, di tutoraggio familiare nel settore domestico che tengano insieme i vari momenti del rapporto di lavoro:
• Accompagnamento al lavoro. “Accompagnare” il lavoratore significa innanzitutto affiancarlo attraverso il riconoscimento e il bilancio delle sue competenze,
cercando di aiutarlo nel valorizzare i percorsi formativi svolti o la validazione delle sue
esperienze sul campo, con l’obiettivo di potersi meglio inserire nel mondo del lavoro e
trovare l’impiego più adeguato. Un accompagnamento che può essere anche più mirato
e che si realizza attraverso il training on the job, ovvero una forma di accompagnamento
del lavoratore sul posto di lavoro (formazione in situazione) da parte di personale debitamente preparato.
• Informazioni per l’instaurazione del rapporto di lavoro. Nella fase d’inizio
43
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
del rapporto di lavoro è opportuno chiarire tutti gli aspetti contrattuali, i diritti e i doveri,
nonché far emergere i dubbi che le parti possono avere rispetto agli obblighi di legge e
al loro ruolo all’interno del rapporto di lavoro.
• Relazione e confronto con l’altro nella domesticità. Durante il rapporto di
lavoro è importante fornire supporto alle parti nel momento in cui vi siano difficoltà
derivanti dall’applicazione del contratto in merito ai reciproci compiti e responsabilità. È
inoltre fondamentale offrire un supporto per le lavoratrici e lavoratori sia da un punto di
vista psicologico (in particolare quando si occupano di persone anziane con patologie
anche gravi) sia da un punto di vista culturale (le differenze che emergono vivendo a
stretto contatto con l’altro diverso da noi possono far emergere conflitti e difficoltà di
comprensione che dovrebbero essere sciolti, superati, educando le parti alla reciproca
comprensione e alla gestione di tali diversità culturali).
• La fine del rapporto di lavoro. Il rapporto di lavoro può concludersi in modo
pacifico o in modo conflittuale a causa di violazione dei diritti o incomprensioni.
In questi casi è importante sostenere i lavoratori che vivono una situazione difficile in quanto parte lesa, promuovendo l’affermazione dei loro diritti. Tale supporto è
significativo anche nelle situazioni in cui la cessazione è avvenuta per cause non imputabili alle parti, come il decesso o il ricovero in strutture della persona assistita. Rispetto
al nostro ruolo, dobbiamo saper affiancare e dare supporto alle lavoratrici/lavoratori
anche in quella fase difficile che è l’accompagnamento alla morte e alla perdita della
persona assistita da parte di chi per anni le è stata a fianco.
2. Sostenere e realizzare Formazione
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Promuovere la formazione e il riconoscimento professionale dei lavoratori domestici e degli assistenti familiari.
Promozione ed organizzazione di corsi di formazione base e/o a vari livelli:
a) sulla base delle esigenze dei nostri associati e del contesto in cui si opera, in collaborazione con il sistema Acli, con gli Enti Locali, con le strutture pubbliche e
le altre associazioni del privato sociale;
b) prevedendo, laddove possibile, il riconoscimento dei crediti formativi
capitalizzabili per la certificazione delle competenze, utile per la frequenza di corsi successivi o più strutturati.
L’organizzazione di corsi di formazione di base va incontro alle esigenze di
tutte quelle lavoratrici e quei lavoratori che, a causa del poco tempo, degli impegni lavorativi e familiari non riescono ad intraprendere percorsi formativi più strutturati. La
realizzazione di corsi di base è il punto di partenza per avvicinarsi in maniera professionale a materie complesse, che posso trovare successivi approfondimenti attraverso
la partecipazione a corsi più strutturati e/o percorsi formativi per operatori sociosanitari.
La formazione dovrebbe trovare un’ampia diffusione a livello locale, in sinergia
con il sistema ACLI e, ove possibile, in collaborazione con enti pubblici e del privato
sociale che si occupano di lavoro domestico e di cura. Tale lavoro di qualifica dell’offerta
3. Promuovere partecipazione e cambiamento culturale
Diffondere una cultura consapevole del ruolo e dei compiti della categoria dei
lavoratori domestici e degli assistenti familiari, dell’importanza del lavoro di cura, attraverso il confronto con la categoria, la realizzazione di approfondimenti tematici, promuovendo reti e sinergie virtuose a livello locale, nazionale, internazionale per un
Welfare della cura qualificato e sostenibile.
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
e di miglioramento delle competenze in un settore importante come quello della cura
della persona è oggi particolarmente rilevante, in attesa che a livello nazionale vi siano
delle chiare linee per la definizione di un profilo professionale condiviso e comune su
tutto il territorio italiano, in particolare, per la definizione della figura dell’assistente
familiare.
I nodi critici della formazione professionale nel settore del lavoro domestico
sono vari e si possono riassumere nei seguenti punti:
• difficoltà a frequentare corsi di formazione durante l’orario di lavoro;
• frequenti abbandoni per impegni lavorativi e/o famigliari;
• poco interesse da parte delle lavoratrici e lavoratori domestici a professionalizzarsi nel settore domestico di cura, soprattutto quando i progetti migratori
sono di breve periodo o vengono immaginati tali;
• poco interesse a formarsi in un settore senza garanzie di progressione di
carriera né riconoscimento sociale dell’attività formativa svolta;
• poco interesse da parte delle famiglie a far partecipare lavoratrici/lavoratori a
corsi di formazione in quanto sottraggono ore al lavoro.
Oltre a queste criticità, aggiungiamo il tema del riconoscimento dei crediti
formativi, importante per possibili progressioni di carriera e per la certificazione
in entrata alla frequenza di corsi più strutturati (ad esempio come Operatori Socio
Sanitari). È dunque interessante promuovere partnership con Enti di formazione accreditati, come l’ENAIP, per fornire ai corsisti un utile strumento di riconoscimento e di
certificazione delle competenze.
Altro strumento utile da introdurre sarebbe la validazione delle competenze
ovvero una sorta di certificazione delle competenze acquisite durante l’esperienza lavorativa.
Un problema che continua a permanere è legato al riconoscimento del profilo
professionale, nello specifico dell’assistente familiare, che ancora non è stato normato a
livello nazionale e che dovrebbe trovare una sua definizione per il suo riconoscimento
non solo professionale/formale, ma anche sociale.
In generale, anche attraverso la formazione dei lavoratori domestici e il riconoscimento del profilo professionale per la categoria, passa la promozione del lavoro domestico e di cura, così come un cambio di atteggiamento a livello culturale rispetto a
questo tipo di occupazione.
Le principali aree su cui si possono sviluppare azioni formative sono: a)
culturale-istituzionale, b) normativa, c) tecnico-operativa, d) linguistico-relazionale.
45
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
3.1 PROMOZIONE DI MOMENTI DI CONFRONTO TRA LAVORATORI, CAREGIVERS,
FAMIGLIE/DATORI DI LAVORO E PERSONE ASSISTITE SUL TEMA DEL LAVORO DOMESTICO, SULL’ASSISTENZA FAMILIARE E SU TEMATICHE AFFINI.
I momenti di confronto e di approfondimento tematico sono uno strumento
utile per diffondere delle informazioni di base sul rapporto/relazione di lavoro domestico.
Ma incontri e momenti di confronto sono importanti non solo per informare:
sono occasioni preziose per aiutare le fragilità presenti in questa relazione/rapporto di
lavoro a meglio comprendere e a superare le criticità che si trovano a vivere nella quotidianità.
3.2 ORGANIZZAZIONE DI INCONTRI TEMATICI/CONVEGNI/CONFERENZE APERTE
ALLA CITTADINANZA SUL TEMA DEL LAVORO DOMESTICO, DELL’ASSISTENZA FAMILIARE E SU TEMATICHE AFFINI.
La sensibilizzazione rispetto al tema del lavoro domestico e di cura passa anche
attraverso la promozione di iniziative pubbliche di interesse collettivo che sono utili a
fornire una formazione culturale rispetto al lavoro domestico. Le tematiche da affrontare
in tali iniziative possono vertere sui temi del lavoro domestico e di cura o su questioni
affini di interesse a partire dalla relazione di assistenza e di cura nel luogo domestico
(alcuni esempi: invecchiamento della popolazione e bisogni di cura; sviluppo dei servizi
socio-assistenziali a livello locale; incentivi per le famiglie datrici di lavoro; ruolo dei
caregivers familiari; migrazioni femminili di cura; diversità culturali e confronto all’interno del luogo domestico; l’evoluzione dei diritti nel settore domestico dal CCNL alla
C189).
È importante aprirsi al confronto, iniziando dalla nostra associazione e promuovendo a vari livelli momenti, anche pubblici, di dibattito e di riflessione con gli enti
locali, i sindacati, le organizzazioni del privato sociale e di volontariato, per coinvolgere
e creare sinergie per la diffusione di una cultura della legalità, della conoscenza e del rispetto di questo settore del lavoro.
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“Al fine di assicurare un quadro completo delle assenze per malattia nei settori
pubblico e privato, nonché un efficace sistema di controllo delle stesse,
in tutti i casi di assenza per malattia dei dipendenti di datori di lavoro privati, per il rilascio e la trasmissione della attestazione di malattia si applicano le disposizioni di cui allo art. 55-septies del decreto legislativo 30
marzo 2001, n. 165. 1. Nell’ipotesi di assenza per malattia protratta per
un periodo superiore a 10 giorni, e, in ogni caso, dopo il secondo evento
di malattia nell’anno solare l’assenza viene giustificata esclusivamente
mediante certificazione medica rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il servizio sanitario nazionale.
2. In tutti i casi di assenza per malattia la certificazione medica è inviata
per via telematica, direttamente dal medico o dalla struttura sanitaria
che la rilascia, all’Inps e dal predetto Istituto è immediatamente inoltrata,
con le medesime modalità, al datore di lavoro.”Art. 25 Legge 4 novembre
2010 n. 183. Dal 13 settembre 2011 a colf che si ammala è dunque obbligata a comunicare il numero di protocollo del certificato medico.
2
La Circolare INPS n.140 del 14/12/2012 sottolineava come tale previsione si applicasse a “tutti i dipendenti di lavoro privato, indipendentemente dalla
tipologia di contratto di lavoro subordinato”, e dunque anche al rapporto
di lavoro domestico, conclusione rafforzata dalla previsione di cui all’art.
2 comma 2 della Legge istitutiva 28 giugno 2012 n. 92, che tra le esclusioni
non menzionava affatto il rapporto di lavoro domestico e familiare svolto
da colf e dalle assistenti familiari. È stato necessario un chiarimento del
Ministero del Lavoro, confermato dalla Circolare INPS n. 25 del 8/2/2013,
per escludere dall’applicazione della “tassa” il lavoro domestico, “a
causa della particolare peculiarità del rapporto di lavoro”.
3
“…l’efficacia delle dimissioni della lavoratrice o del lavoratore e della risoluzione
consensuale del rapporto è sospensivamente condizionata alla convalida
effettuata presso la Direzione territoriale del lavoro o il Centro per l’impiego
territorialmente competenti, ovvero presso le sedi individuate dai contratti
collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente
più rappresentative a livello nazionale.” Art. 4, comma 17, Legge 28/6/2012
n. 92.
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“3. Ferma restando l’applicazione delle sanzioni già previste dalla normativa in
vigore, in caso di impiego di lavoratori subordinati senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro da parte del datore
di lavoro privato, con la sola esclusione del datore di lavoro domestico,
si applica altresì la sanzione amministrativa da euro 1.500 a euro 12.000
per ciascun lavoratore irregolare, maggiorata di euro 150 per ciascuna
giornata di lavoro effettivo. L’importo della sanzione è da euro 1.000 a
euro 8.000 per ciascun lavoratore irregolare, maggiorato di euro 30 per
ciascuna giornata di lavoro irregolare, nel caso in cui il lavoratore risulti
regolarmente occupato per un periodo lavorativo successivo. L’importo
delle sanzioni civili connesse all’evasione dei contributi e dei premi riferiti
a ciascun lavoratore irregolare di cui ai periodi precedenti è aumentato
del 50%. 4. Le sanzioni di cui al comma 3 non trovano applicazione qualora, dagli adempimenti di carattere contributivo precedentemente assolti, si evidenzi comunque la volontà di non occultare il rapporto, anche
se trattasi di differente qualificazione. 5. All’irrogazione delle sanzioni am-
Il lavoro di cura nel welfare che cambia
note
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Il lavoro di cura nel welfare che cambia
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ministrative di cui al comma 3 provvedono gli organi di vigilanza che effettuano accertamenti in materia di lavoro, fisco e previdenza. Autorità
competente a ricevere il rapporto ai sensi dell’articolo 17 della legge 24
novembre 1981, n. 689, è la Direzione provinciale del lavoro territorialmente competente.” Art. 4, comma 1 Legge 4 novembre 2010, n. 183,
nuova formulazione dell’art. 3 D.L. 22 febbraio 2002, n. 12.
5
La Raccomandazione è strumento di attuazione in dettaglio della Convenzione.
6
La stessa sarà vincolante solo per i membri dell’OIL la cui ratifica sarà stata registrata.
La Convenzione entrerà in vigore il 5 settembre 2013, dodici mesi dopo la
registrazione della seconda delle due ratifiche richieste.
7
Vedi da ultimo Cassazione, Sez. Lavoro, 22 novembre 2010, n. 23618.
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“In caso di malattia, al lavoratore, convivente o non convivente, spetta la conservazione del posto per i seguenti periodi: a) per anzianità fino a 6 mesi,
superato il periodo di prova, 10 giorni di calendario; b)per anzianità da più
di 6 mesi a 2 anni, 45 giorni di calendario; c) per anzianità oltre i 2 anni, 180
giorni di calendario” Comma 4 art. 26 CCNL.
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“Durante i periodi indicati nei precedenti commi 4 e 6 decorre in caso di malattia
la retribuzione globale di fatto per un massimo di 8, 10, 15 giorni complessivi
nell’anno per le anzianità di cui ai punti 1, 2, 3 dello stesso comma 4, nella
seguente misura: fino al 3° giorno consecutivo, il 50% della retribuzione globale di fatto; dal 4° giorno in poi, il 100% della retribuzione globale di fatto.”
Comma 6 art. 26 CCNL.
10
“I periodi di cui al comma 4 saranno aumentati del 50% in caso di malattia oncologica, documentata dalla competente ASL” comma 6 art. 26 CCNL.
11
Art. 49 del nuovo CCNL.
12
www.cassacolf.it
13
Art. 1 del Decreto-legge 22 maggio 1993, n. 155 convertito in legge 19 luglio
1993, n. 243 (G.U. n. 118 del 22 maggio 1993 e G.U. n. 169 del 21 luglio 1993.
14
Si vedano le tabelle contributive dei lavoratori domestici pubblicate dall’INPS
per il 2013, Circolare 8 febbraio 2013 n. 25.
15
ISTAT 2011.
16
“Anzitutto, un divieto di recesso dal rapporto prolungato per ventun mesi,
quale quello previsto dal primo comma dell’art. 2 col solo temperamento della giusta causa, sarebbe un vincolo eccessivamente gravoso
per l’economia familiare. In secondo luogo, mentre per la lavoratrice
in un’impresa (o in uno studio professionale: art. 2238, secondo comma,
cod. civ.) il periodo di interdizione dal lavoro (art. 4 della legge n.1204)
comporta naturaliter l’assenza dal luogo di lavoro, invece per la lavoratrice domestica esso non determinerebbe per sé solo tale effetto:
occorre una norma che lo qualifichi come periodo di “congedo” e,
quindi, di sospensione del titolo di ammissione alla convivenza familiare,
le cui implicazioni pratiche durante questo periodo eccederebbero
ogni ragionevole tollerabilità di una famiglia media.” Corte Costituzionale, sentenza 7/3/1994 n. 86
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“Salvo quanto previsto per i lavoratori stagionali…, in caso di rimpatrio il lavoratore
extracomunitario conserva i diritti previdenziali e di sicurezza sociale maturati
e può goderne indipendentemente dall’esistenza di un accordo di reciprocità al verificarsi della maturazione dei requisiti previsti dalla normativa
vigente, al compimento del 65° anno d’età, anche in deroga al requisito
contributivo minimo previsto dall’articolo 1, comma 20, della legge 8 agosto
1995, n.335”. Nuovo art. 22, comma 13, Dlgs 286/1998.
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