Il sigillo del Palladio

Transcript

Il sigillo del Palladio
4 Il Parco dell’Erineo.., di Michele Tarantino
6 Gli ipogei. Così non si può!, di Grazia Maria Schirinà
Associazione Culturale
Gli Avolesi nel Mondo
Fondata nel 1998 da Michele D’Amico
Avolesi nel mondo
Rivista di arte, storia, cultura, attualità
Anno XIV n. 2 (33) - Dicembre 2013
Edizioni proprie
Presidente Grazia Maria Schirinà
Direttore responsabile Eleonora Vinci
COMITATO DI REDAZIONE
Sebastiano Burgaretta - Michele Favaccio - Maria Giallongo
Grazia Maria Schirinà - Nella Urso - Eleonora Vinci
IN COPERTINA
Ipogeo di Avola Antica - Foto di Sebastiano Munafò
FOTOGRAFIE
Corrado Bono - Nino Campisi - Antonio Dell’Albani
Elio Distefano - Angelo Gorgone - Sebastiano Munafò
HANNO COLLABORATO
Corrado Appolloni - Sebastiano Artale - Giuseppe Brisindi
Sebastiano Burgaretta - Maria Teresa Caparelli - Roberta Coffa
Umberto Confalonieri - Sebastiano Consiglio
Sebastiano Di Maria - Michele Favaccio - Angelo Fortuna
Costanza Lutri - Giorgio Morale - Gaetano Munafò
Corrado Piccione - Paolo Randazzo - Maria Concetta Ripullo
Ignazio Roiter - Giuseppina Rossitto - Grazia Maria Schirinà
Nella Sorbello - Giovanni Stella - Michele Tarantino
Carmine Tedesco - Nella Urso - Corrado Vella
Eleonora Vinci - Alessandro Zagarella
HANNO CONTRIBUITO
Banca Agricola Popolare di Ragusa - Laboratori Campisi
Group - La Bottega dell’Arte - Pasticceria Tre Bontà
Registri Buffetti - Caffè Girlando - Ottica Rossitto - Baskin
REDAZIONE
Avola, via Felice Orsini, 3 - Tel. 0931.832590 - Fax 0931.834522
Registrazione al Tribunale di Siracusa n. 9/2000 del 26/05/2000
La redazione declina agli autori la responsabilità di quanto
viene affermato negli articoli.
I testi per la prossima rivista corredati da eventuale materiale fotografico
dovranno essere inoltrati all’indirizzo di posta elettronica
[email protected]
Impaginazione e stampa:
Grafiche Santocono - Tel. 0931.856901
[email protected]
Chiuso in tipografia il 31 dicembre 2013
Sedi associative: via Felice Orsini, 3 - 96012 Avola (SR)
c/o studio Monello, via Chiana, 87 - 00198 Roma
Associazione:
Il contributo annuo associativo, di euro 40,00 per i soci
ordinari residenti ad Avola e di euro 60,00 per i soci
benemeriti o non residenti, dall’1 gennaio può essere
effettuato solo con Bonifico Bancario: codice IBAN
IT22U0503684630CC0341241705
presso Banca Agricola Popolare di Ragusa.
I soci under 30 usufruiranno dello sconto del 50%.
www.gliavolesinelmondo.it - e-mail: [email protected]
7 Avola alla fine del XIX secolo, di Michele Favaccio
10 Il mio incontro con padre Frasca, di Sebastiano Consiglio
13 Incontro con l’arte.., di Maria Concetta Ripullo
14 Cronaca di una sicilianità.., di Umberto Confalonieri
15 Libri in vetrina
16 Noto: Passata Memoria.., di Angelo Fortuna
18 Antonella e le altre.., di Eleonora Vinci
19 Una nuova legge a tutela della donna, di Nella Urso
21 La professione di.., di Sebastiano Burgaretta
23 Giuseppe Bianca a 130 anni.., di Corrado Piccione
24 I carri di Tespi ad Avola, di Gaetano Munafò
I
Mio tesoro lontano Carmelina, di Corrado Appolloni
V Il patriottismo dei cappellani militari, di Corrado Vella
VIII Lu rui dicembri 1968, di Sebastiano Artale
25 Viva la bicicletta, di Roberta Coffa
26 La scuola che non c’è. O no?, di Carmine Tedesco
27 Un oro avolese al Mondiale 10 Dance
28 Perle d’Asia, di Alessandro Zagarella
30 Zia Angelina e il quartiere, di Sebastiano Di Maria
30 A mia madre, di Nella Sorbello
31 Oriente e occidente.., di Ignazio Roiter
33 A Supereco, di Sebastiano Burgaretta
34 Le opere di Elia Li Gioi.., di Eleonora Vinci
35 Mass media, dalla carta al web, di Umberto Confalonieri
36 Evoluzione di un microcosmo.., di Giuseppina Rossitto
39 Un avolese nel mondo, di Giuseppe Brisindi
40 Innamorati all’infinito, di Giovanni Stella
41 Trinacria Park: il sogno è qui!, di Giorgio Morale
42 Elvira Seminara e.., di Paolo Randazzo
43 Annotazioni su Voci altre, di Angelo Fortuna
46 Note su Effatà, di Costanza Lutri
47 Il sigillo del Palladio, di Grazia Maria Schirinà
48 Agli “angeli” dell’ U. O..., di Maria Teresa Caparelli
SOMMARIO
2 Le nostre attività, di Grazia Maria Schirinà
EDITORIALE
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
Le nostre attività
di Grazia Maria Schirinà - Foto di Corrado Bono
G
uardando tutte le belle iniziative concretizzate durante
il secondo semestre del 2013,
mi viene il desiderio di ricorrere per
un po’ ad una pausa: un momento
di sano ozio, quell’otium litteratum,
dedicato alle humanae litterae, di cui
Cicerone nelle Tuscolanae disputationes
dice che non c’è niente di più dolce:
«quid est autem dulcius otio litterato?..»
(V 36: “cosa c’è di più dolce dell’ozio
letterario?..”). Dopo quindici anni di
frenetica attività all’interno della nostra
Associazione, dalla sua fondazione ad
oggi, indipendentemente da quelli che
saranno gli esiti delle prossime elezioni
triennali, che andremo a fare nel corso
del prossimo trimestre, vorrei potermi
dedicare alla lettura e alla scrittura, per
un momento di riflessione personale.
Oggi si corre troppo, si scrive tanto e
si legge poco; lo studio, fatte le debite
eccezioni, diventa una perdita di tempo
per giovani poco inclini al sacrificio
e per adulti sempre più impreparati
ad assolvere ai loro compiti. Forse un
momento di riflessione non farebbe
male a nessuno: l’urgenza delle cose da
fare deve sempre lasciare il posto alla
qualità degli interventi da proporre. In
verità questa è stata e sarà sempre la
nostra condotta, per lasciare al futuro
esempi concreti di uomini e donne che
si prodigano per il bene della cultura
del popolo nostro e non solo. Quindici
anni di attività non sono pochi… Chi ha
avuto la bontà di seguirci dall’inizio sa
quanti e quali progressi abbiamo fatto,
migliorando e qualificando sempre
più i nostri interventi nel territorio; noi
dalla sede centrale in Avola abbiamo
lavorato e studiato mentre gli “amici”
soci ci hanno supportato con i loro
interessantissimi scritti. Virtualmente
siamo stati anche in America, in
Argentina, dove abbiamo partecipato
alla settimana di Cultura Siciliana,
nel mese di novembre… Da luglio ad
oggi mi è difficile proporre gli eventi
organizzati concedendo il nostro logo
e sostegno, per questo le riproporrò in
fotogrammi, come da qualche numero
faccio. Mi preme però dire di una
novità riguardante la festa patronale
(soprattutto per gli amici che non
abitano ad Avola), alla quale mi sento
legata. Si registra che da quest’anno,
annualmente per l’ottava di Santa
Venera, si svolgerà una processione
per mare che porterà la statua della
Patrona per tutto il litorale avolese, con
approdo al molo di Marina Vecchia,
con contestuale celebrazione della S.
Messa. L’esperimento fatto al riguardo
quest’anno è stato emozionante: la città
ha riscoperto la sua vocazione marinara
e gli artigiani si sono prodigati. Sarebbe
auspicabile per il nuovo anno la ripresa
delle attività commerciali, artigianali e
contadine, che sono state il fulcro della
nostra economia e che hanno reso Avola
grande grazie alla laboriosità della sua
gente, che ha lavorato con attenzione e
senso del tempo e della misura. Intanto
continua l’espletamento del progetto su
“La Costituzione e i Padri Costituenti”
proposto al pubblico il 27 agosto. Ci
riprenderemo quello che abbiamo
perso? Me lo auguro.
Cortile del Palazzo di Città, 15 luglio
Presentazione di Giallo d’Avola
di Paolo Di Stefano
Da dx Sebastiano Burgaretta, l’autore,
la presidente, il relatore Ettore Randazzo,
il sindaco Giovanni Luca Cannata
A dx Giuseppe Floridia introduce
la conferenza su Archimede
A sx: 4 agosto 2013, Marina Vecchia di Avola
- Santa Venera e il suo popolo ovante.
La statua è stata voluta e realizzata da
Paolo Fugali. Foto di Nino Campisi
2
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
27 agosto : Presentazione del Progetto su
“La Costituzione e i Padri Costituenti” e distribuzione
della Rivista. Da dx Michele Tarantino, il sindaco,
Campisi, Umberto Confalonieri
Conviviale di san Martino e presentazione
del volume Sentieri di Corrado Marescalco.
Da dx Corrado Marescalco, Maria Antonietta
Emmolo, Giuseppe Di Mari, la presidente
Sala Frateantonio, 7 dicembre - Avvio per le
scuole del progetto su “La Costituzione…”
Da dx Angela Grande, Umberto Confalonieri,
la presidente, Simona Lo Iacono, Costanza Lutri
(Foto di Elio Distefano)
Il prof. Paolo Giansiracusa
relaziona sul volume
Il Carretto Siciliano nella
Civiltà Artigiana
presentato il 15 dicembre
nella Sala Frateantonio
La presidente
e Nino Savarino,
autore del volume
L’ispirazione
permanente
presentato nella
Sala Frateantonio
il 21 dicembre
Sebastiano Cicciarella, in partenza per esibirsi il 2 Novembre
2013 a New Britain in occasione della celebrazione dei 100
anni dell’associazione di siciliani “GENERALE AMEGLIO”,
riceve dal sindaco G. L. Cannata, alla presenza di familiari,
della presidente dell’Associazione e del presidente della Pro
Loco Giuseppe Corsico (a dx), una targa commemorativa da
consegnare al presidente dell’Associazione americana
(Foto di Antonio Dell’Albani)
3
SEZIONE
ROMANA
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
Il Parco dell’Erineo:
un sogno di mezza estate
di Michele Tarantino - Foto di Sebastiano Munafò
Palmento di epoca
storica da definire
L
a gita, a Ravula veccia, come dicevamo da ragazzi, era stata
programmata per la cortese attenzione che presso gli amici, all’uopo
da me convocati, s’era guadagnata una
mia proposta, utile, per quel che penso, a potenziare l’attrazione turistica
della nostra Avola nello spicchio della
Sicilia sudorientale, che già si avvale
del potente richiamo turistico delle vicine Siracusa e Noto. In breve, questa
la proposta che la nostra associazione
“Gli Avolesi nel Mondo” dovrebbe portare all’Amministrazione comunale:
la realizzazione di un parco di idonee
dimensioni centrato sulla presenza di
acqua corrente; una fontana artistica
in mezzo al verde del parco alimentata
dalla sorgente Miranda, attinta prima
che il prezioso liquido vada a confluire
nell’antica “vasca” per immettersi nelle condotte dell’acquedotto comunale.
Si punta sul fascino che esercita, specialmente nei mesi estivi – quelli della
presenza dei vacanzieri – acqua pura e
corrente: da saziarsene per sedare l’arsura, mentre si passeggia nei viali del
parco e attingerne pochi litri da portare
a casa. Sono convinto, per averla bevuta
giovanissimo ai rivoli, che scorrevano
4
a fondo cava Cannalivari, in occasione
delle non rare escursioni, che includevano la cattura di granchi d’acqua dolce snidati dai candidi massi bagnati dai
tanti ruscelletti d’acqua dolce (la cava
si conosceva anche come re setti funtani), che quell’acqua possiede le qualità
che potrebbero elevarla alla dignità di
acqua sorgente minerale. Il realizzando
parco potrebbe chiamarsi “Parco naturale dell’Erineo” – dal nome del fiume
d’Avola, che scorreva ricco prima che
il corso venisse interrotto dalla frana di
un costone del Monte Gisina a causa
del disastroso terremoto del 9 gennaio
1693. Oltre alle menzionate passeggiate
nei brevi percorsi in mezzo al verde –
l’accesso dovrebbe essere rigorosamente interdetto ai mezzi di trasporto, da
lasciare in sosta a debita distanza – il
parco dovrebbe offrire luoghi di intrattenimento vario: penso a un anfiteatro
di modeste dimensioni lasciato a disposizione di oratori improvvisati, attori
dilettanti di prosa, musicisti non professionali di strumenti non chiassosi – al
bando gli amplificatori ed il baccano
assordante – ed altri improvvisati spettacoli. Il parco – ovviamente pubblico
– potrebbe ospitare appositi eleganti
stand per la vendita di selezionati prodotti della gastronomia siciliana: vino,
mandorle, olio d’oliva, conserve, pane
di casa et similia.
Gestito dal Comune, con un leggero
sovrapprezzo dei selezionati prodotti
in vendita, potrebbe contribuire, almeno in parte, a coprire le spese di mantenimento della struttura. Consapevole
delle scarse risorse comunali, che basterebbero per bloccare ogni iniziativa: “non abbiamo una lira!”, anche se
progetti, come quello sul quale intendo
intrattenervi, dovrebbero far sperare in
un “ritorno” animato dal richiamo turistico – sul quale città come Avola, prive
quasi del tutto di altre fonti di guadagno
capaci di raggiungere vantaggi collettivi, debbono poter contare – ho pensato
anche a un finanziamento ottenuto con
l’offerta di obbligazioni comunali distribuite ai piccoli risparmiatori, allettati
da discreti tassi di interesse e dall’dea di
far cosa utile per la collettività: le obbligazioni potrebbero essere decennali con
stacco semestrale di cedole, fatti ovviamente salvi i limiti agli indebitamenti
degli enti locali, ai sensi dell’art.204 del
Testo Unico, D.Lgs.18.8.2000 n.267 e
successive modificazioni: da ultimo,
art.11 bis legge 9.8.2013 n.99.
E torniamo, accantonando per il momento le mie “fantasticherie”: ho una
buona autostima e posso correre il rischio di farmi dare del visionario, alla
progettata gita a Ravula veccia.
Scopo originario era quello di ispezionare i luoghi per una prima sommaria
esplorazione della fattibilità del parco:
rimane infatti, la necessità di un progetto tecnico che l’Associazione dovrebbe
far approntare per illustrare decentemente la proposta al Comune. Meta,
il territorio circostante alla sorgente
Miranda. Non avevo idea di quali interessanti sviluppi avrebbe potuto avere,
come ebbe, la gita. Dunque, quasi al
termine del periodo che avevo destinato
alle mie ferie estive, il 30 agosto u.s., di
buon’ora un gruppetto di amici, che mi
piace pensare convinti della bontà della
proposta del Parco dell’Erineo, si diede
appuntamento in contrada Risicone,
dove si trova la mia modesta residenza
avolese. Con me c’erano Michele Favaccio, Corrado Piccione e Vincenzo
Basile. Il quinto componente, Emilio
Lo Giudice, ci aspettava sul posto dal
quale avremmo iniziato a scendere per
pervenire al fondo cava dove la sorgente
Miranda, già intubata, scorre per essere convogliata verso l’antica “vasca”, a
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
sud-est, per un paio di Km, verso Avola. Lasciate le autovetture, scendemmo
lungo il costone sud della Cava “Scannasucci”. Per poco più di duecento metri ci servimmo di uno scomodo sentiero, di recente parzialmente bonificato
da benemeriti volontari. Ci portammo
a pochi metri dall’anfratto dal quale
l’abbondante acqua sorgente esce, già
intubata, allo scoperto. Da quel punto, o in altro più idoneo lungo tutto il
percorso fino alla “vasca”, si potrebbe
innestare la derivazione per fornire acqua alla fontana del parco. È chiaro che
la scelta del punto di derivazione è in
funzione dell’area nella quale dovrebbe
sorgere il parco. In modo da rendere il
meno dispendioso possibile il condotto
derivato, ma avendo altresì a disposizione un terreno, di non meno di due
o tre ettari, agevolmente acquistabile
dal Comune di Avola, specie di questi tempi di scarsissimo interesse per
l’imprenditoria agricola, e non molto
distante dalla Città. La risalita, dopo
una gradita sosta per dissetarci a una
piccolissima sorgente che sgorga, chiara e dolce, all’aperto dall’interno di un
modesto anfratto (forse un primo assaggio dell’acqua del parco!) fu abbastanza
impegnativa per me, che da qualche lustro ho lasciato l’età giovanile.
La rifarei, ora che so quello che mi
aspetta.
Tornati alla sommità: poco più di m 400
sul mare, Basile e Lo Giudice si misero
alla guida del gruppetto per un terreno
brullo, nel quale la roccia – la pietra
bianca degli Iblei – si alterna con radi
tratti di terra battuta, dove la vegetazione bassa si presentava totalmente secca
con qualche ciuffo di erba: verdi cespugli di ampelodesmo (saracchio, liama),
erica e timo, origano e finocchio selva-
tico, ospitante copiosamente lumachine (i vavaluci ) e altre erbe aromatiche.
Unica traccia visibile di attività agricola
– pastorizia, lo sterco di bovini portati
a pascolare. Le nostre guide, veterani
escursionisti, buoni conoscitori di quella parte meridionale dei monti Iblei, ci
avevano promesso che ci avrebbero fatto scoprire tracce di antichissimi abitatori della zona. Lì dove ci trovavamo, a
qualche km dal luogo dove sorgeva, prima di essere devastata dal terremoto del
1693, Avola Antica con il suo fortilizio,
il castrum Abolae dell’elenco di castelli
demaniali di Sicilia redatto nel maggio
del 1272 dalla Curia di Carlo d’Angiò,
non credevo potesse aver trovato dimora una popolazione più antica, come
mi rese palese quello che avremmo visto nel corso della residua passeggiata.
“Guardate attentamente qui”, ci disse
ad un tratto Enzo Basile, indicandoci il
terreno sul quale stavamo camminando
e che a me era parso privo di alcunché
che potesse meritare particolare attenzione: rivolsi lo sguardo a terra e riconobbi, emergente dalla pietra, l’appena
affiorante risultato dell’opera dell’uomo: un rettangolo di modeste dimensioni: circa metri due di lunghezza per
uno, seguiva in ricercata continuità, altra forma geometrica: una circonferenza con un raggio di più piccole dimensioni. “Cosa pensate potesse essere”, ci
chiese Enzo, ammiccando con sguardo
complice verso il Lo Giudice, evidentemente a conoscenza di quello che
celava quella strana architettura. Per
rispondere alla nostra ignara curiosità,
si diedero entrambi a rimuovere superficialmente la terra racchiusa da quelle
due figure. Il vuoto che ben presto si
determinò, mise in evidenza due scavi
praticati nella roccia impermeabile per
dar vita ad un piccoDa sx Michele Tarantino, Vincenzo Basile,
lo palmento: la vasca
Corrado Piccione, Michele Favaccio ed
rettangolare era fatta
Emilio Lo Giudice.
per ospitare a tempo
di vendemmia l’uva
che era stata raccolta
da vicini vigneti per
esservi pigiata. Un
pertugio prossimo al
fondo consentiva il
passaggio del mosto
ricavato dalla pigiatura, quasi certamente prodotta pestando
con gli arti inferiori,
nella danza bacchica
riprodotta in tantissimi dipinti, nel secon-
do più basso e profondo recipiente: una
modesta vasca cilindrica, il pozzetto di
raccolta di un ancestrale palmento. Certamente scomodo, dal momento che
avrebbe richiesto il pescaggio del mosto
con recipienti di svuotamento. Un manufatto di nessuna pretesa estetica ma
capace di emozionare per la testimonianza che ci dà dell’opera dell’uomo,
nostro antico antenato, intento a sfruttare per vivere quel poco che riusciva a
piegare alle sue esigenze. La natura dello strumento ci fa fare alcune considerazioni: doveva servire a uomini stanziali,
residenti nelle immediate vicinanze, fa
pensare a una comunità di scarsissime
risorse vissuta parecchi secoli prima di
noi, incapace di serie trasformazioni e
per ciò costretta ad utilizzare quello che
la natura le offriva operando i modesti
interventi che era in grado di effettuare. In vero, palmenti costituiti da una
vasca larga e poco profonda con pareti
di mattoni o calcestruzzo sovrapposta
a un recipiente di raccolta del pigiato,
pur sempre antichi, e ormai superati,
risalgono a epoca in cui l’uomo aveva
dimestichezza con manufatti di muratura: se non ricordo male se ne può vedere uno presso il ristorante Augustus,
a poche centinaia di metri da Avola,
sulla statale per Noto. Che si trattasse di
comunità lo fa pensare non solo il fatto
che raramente in epoche in cui si era
esposti a violenze e depredazioni, ben
più frequentemente che ai tempi nostri,
l’uomo abitava isolato, ma ancora l’aver rinvenuto, a pochi metri dal primo,
un secondo palmento di pari modestissime fattezze e dimensioni. Ancor più
conforta la tesi della presenza di una
collettività quanto sto per dire. Il “pezzo forte” ci venne riservato per ultimo.
Simpaticamente intenti a sorprenderci, i nostri amici che ci guidavano, ci
portarono davanti all’apertura di una
grotta, semi nascosta dalla disordinata
vegetazione spontanea. Ci abbassammo per entrare e, una volta abituati alla
semioscurità, ci scoprimmo in presenza di una sepoltura collettiva ipogea.
Qui l’intervento dell’uomo era stato
ben più incisivo che per i rudimentali
palmenti di che anzi. Era stata ricavata
una parete più avanzata rispetto al fondo dell’anfratto. Una sorta di “altare”
impreziosito da un varco presente ad
altezza d’uomo – pensai ai bizantini,
ricordando le tombe che avevo potuto
visitare a Pantalica, ma nel nostro caso
non c’è traccia di pitture murarie.
Alle pareti laterali dell’anfratto e dietro
5
“l’altare”, giacigli costituiti
da stretti gradoni, evidentemente destinati a ricevere i
defunti, predisposti al sonno
eterno. Se ne contano sei. La
sistemazione del cadavere che
vi si praticava è, all’evidenza,
del tipo primitivo, in assenza
di sarcofago: i gradoni o giacigli che potevamo osservare
sono, in vero, troppo stretti
per poter ospitare una bara
di legno o di altro materiale.
Altre protezioni del corpo del
defunto, pur possibili in quei
giacigli, non sono proprie del
mondo latino: né la mummificazione degli egizi, né la fasciatura degli ebrei. È dunque
probabile che i cadaveri vi venissero adagiati coperti dagli
indumenti che portavano da
vivi e di consueto accompagnati da qualche oggetto che
era stato a loro caro in vita:
usanza non estranea a fenici,
greci e romani. Abbandonati
alla decomposizione naturale,
è da ritenere fossero destinati
a lasciar posto ai futuri morti, previo incenerimento. Il
processo di divisione fra decomposizione e conservazione sarebbe durato nei secoli a
venire, come risulta evidente
dal cimitero ecclesiale della
cripta della Chiesa Madre di
Avola. A noi moderni risulta
arduo accettare l’insalubrità di
simili sepolture, ma che fosse
così ce lo rivela in tempi non
molto distanti, “l’astanteria”
del cimitero della Matrice, or
ora ricordato, dove i cadaveri
venivano sistemati in una specie di trono: a sedere, in modo
da favorire la depurazione,
mediante il rilascio delle viscere. Una volta scarnificati passavano all’attiguo sotterraneo
ossario. La dimensione che
deve essere propria del presente scritto, destinato alla nostra
Rivista non mi consente di andare oltre. Resta, pertanto tutto da argomentare sul numero
e sulla storia di quegli uomini
primitivi venuti ad abitare gli
Iblei prima che si costituisse
l’aggregato di Avola Antica.
6
RIFLESSIONE
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
Gli ipogei.
Così non si può!
di Grazia Maria Schirinà
Foto di Sebastiano Munafò
M
i piace riflettere su alcuni culti, e in
particolare sul culto dei morti, in questo periodo antecedente il Natale, dedicato
appunto ai defunti. In un mio testo, di recente pubblicato, tra il serio e il faceto, mi
soffermo sui Lari e sui Penati, che difendono il focolare domestico, vegliando sui propri cari. Forse è la disaffezione verso i nostri
progenitori che sta portando allo sfascio le
famiglie? Forse i nostri Sacri Penati, come li
chiamava Virgilio, si girano dall’altra parte,
per non volere vedere lo scempio che viviamo in questi nostri giorni, lasciando nell’incuria anche luoghi deputati al rispetto, non
rispettando noi stessi né chi ci ha preceduto.
La mia riflessione è rivolta al degrado morale, sociale e politico, e all’abbandono di alcuni siti storici che dovrebbero essere testimonianza fedele del passato, più o meno glorioso, dei nostri padri, i quali hanno lasciato
testimonianza di sé anche con la costruzione
di monumenti che, bontà loro, e non nostra,
sono pervenuti fino a noi.
Certamente, dal punto di vista archeologico, sarebbe una scoperta di non poco valore,
se riuscissimo a trovare in piedi ancora un
monumento, una domus, alla luce del sole
(vuoi per i trafugatori, che smerciano impunemente e tranquillamente quanto trovano
incustodito, vuoi per i terremoti e, non ultimo, vuoi anche per l’incuria). Passeggiando
per Occhiolà o per Siracusa o per Lentini,
mi riferisco ovviamente alla zona archeologica, capita di imbattersi in cocci, che lasciano perplessi. Se potessero parlare, quanti dei
muri delle nostre abitazioni (anche i “blocchetti”) starebbero muti? Molti dei muri a
secco delle nostre zone sono costruiti con
materiale riciclato; potrebbe essere una gran
cosa, se non si trattasse di pezzi di colonne o, comunque, di pietre che hanno avuto
l’attenzione dell’uomo di altra epoca. Cosa
voglio dire… Quando sono andata a visitare
Tarquinia e dintorni, o quando sono scesa
negli ipogei altrimenti chiamati catacombe,
ho sentito come un brivido, e non perché
quei luoghi fossero dei cimiteri, in verità profanati (anche se per motivi di studio), bensì
perché in quei luoghi ho sentito il rispetto
massimo per l’anima dell’uomo, il credo di
uomini come noi che hanno attribuito, in
tempi remoti, importanza a quell’entità che
ci rende quelli che siamo: uomini vivi; allo
spirito, cioè. E ho rispettato e riverito, con
tutta la mia sensibilità, quei luoghi e quegli
uomini. Poi ho visto crollare i muri di Pompei e, nel tempo, mi sono arrovellata, per
scoprire perché nessuno si fosse mai interessato alla storia della mia città, che tanto amo
e per la quale mi spendo.
Una volta uno storico mi disse; “Se non vi
muovete voi del luogo, la storia può essere
scritta in modo distorto. Dovete muovervi
voi”. E un altro della Sovrintendenza, al
quale mi rivolsi, mi accennò a una mancata volontà politica di spendere nella nostra
zona. Certo i tempi oggi non sono dei più
felici per “spendere”, ma quando, qualche
giorno fa, accompagnata da amici, sono scesa dentro uno dei tanti ipogei, nascosti nelle viscere, in verità molto superficiali, della
nostra montagna, accanto al rispetto per chi
quei luoghi ha voluto, ho sentito urgere in
me il bisogno di gridare al mondo che non si
può, così non si può permettere! Non si può
permettere di lasciare corrompere ancora
dal tempo quei tesori, che ci sono stati trasmessi e dinanzi ai quali molti girano altrove
lo sguardo. Svegliamoci!
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
di Michele Favaccio
D
opo il disastroso terremoto del
1693 e la conseguente ricostruzione di Avola nel nuovo sito,
in pianura, ad opera del capomastro
Antonio Vella, sotto la guida dell’architetto regio, padre gesuita Angelo Italia,
molto si è scritto da parte di illustri studiosi e autori, che ne hanno tratteggiato
la crescita e lo sviluppo, nel corso degli
anni. Una fonte, abbastanza autorevole
è il Dizionario Topografico della Sicilia di
Vito Maria Amico e Statella tradotto e
annotato da G. Di Marzo, nel 1855, da
cui è possibile attingere, a largo raggio,
notizie sugli eventi che hanno interessato la città, fino a qualche anno prima
dell’unificazione del Regno d’Italia. Nel
secolo XIX la gran parte degli stati europei, consapevoli della necessità di disporre di cartografia affidabile e aggiornata, per servire non solo le esigenze di
carattere militare, ma anche quelle di
sviluppo tecnologico e sociale, aveva costituito degli organismi incaricati della
esecuzione di lavori di inquadramento
geometrico e di rilevamento cartografico dei loro territori. In particolare, il Regno d’Italia, a causa delle vicende storiche, all’atto della sua unificazione non
disponeva di un adeguato servizio cartografico, in quanto il lavoro dei singoli
stati era disomogeneo. Fu necessario
quindi iniziare un lavoro di rilevamento
su tutto il territorio nazionale affidato
a ufficiali di artiglieria e ingegneri del
regio esercito. I lavori iniziarono subito
dopo il 1861, e a partire dal 1868, affluirono a Firenze, dove nel 1882 fu
costituito, alle dipendenze del Ministero
della Guerra, l’Istituto Geografico Militare (IGM), che accorpò, dopo l’unificazione, tutti gli uffici topografici dei vari
Stati in cui era stata divisa l’Italia.
Questo breve scritto prende spunto da
una carta topografica dell’Istituto Geografico Militare, mappata nel 1867-68,
appena qualche anno dopo l’unificazione del Regno d’Italia, da parte dei mappatori ingegneri Cantalupi, Corbara,
Gravaghi, Parone, dal capitano Cadolini, dai disegnatori maggiore Pollano e
colonnello Cera e aggiornata dal tenente Cavicchi nel settembre del 1897, dopo
il completamento della linea ferroviaria
Siracusa-Noto. Il territorio di Avola era,
ed è compreso, fra il fiume Cassibile a
nord, il mare Ionio a est, il fiume Asi-
STORIA
LOCALE
Avola alla fine del XIX secolo
naro a sud e un allineamento irregolare, volti a migliorare la viabilità della traza ovest, che parte dal fiume Asinaro, a zera Siracusa-Modica e dal progetto che
est di Noto, costeggia Cozzo Carrube, avrebbe visto la realizzazione della linea
Cozzo Marotta, Cozzo Meti, lambisce ferroviaria Siracusa-Noto.
la città di Noto lungo il Vallone S. Gio- La toponomastica mostrava una figura
vanni fino al Colle S. Elia (dove si trova- esagonale con una grandissima piazza
no i ripetitori TV) e termina a Case Mon- al centro e altre quattro minori, dispozella di pietra (quota 501), nei pressi del ste rispettivamente, due al centro dei
belvedere di Cava Grande del Cassibile. fianchi australe e settentrionale e due
Nel 1846 equivaleva a 3.894,771 salme agli angoli orientale e occidentale, con
agrarie e oggi occupa un’area di circa 74 le due grandi vie che fanno capo al bachilometri quadrati. La carta topogra- ricentro della piazza maggiore. Nel suo
fica in esame è a scala 1 a 50.000: due circondario furono costruiti nel 1844 il
centimetri misurati con un righello equi- camposanto e il macello, che deve essere
valgono alla distanza di un chilometro dello stesso periodo o antecedente, visto
sul terreno. Aggiornata nel 1897, due che nel mercato della piazza centrale si
secoli dopo la ricostruzione di Avola nel vendevano prodotti della macellazione.
nuovo sito, dimostra come già la città Il suo territorio era percorso da una seabbia abbandonato la sua forma regola- rie di strade sterrate interpoderali che
re, con un accentuato sviluppo a occi- collegavano, il piccolo centro abitato
dente e a sud. A parte l’attuale via Rug- a sud con la Ballata o Calabernardo, a
gero Settimo che corre parallela alla via ovest con Contrada Bochini e proseguiManzoni, le altre vie e quindi le relative va verso Noto, sotto forma di tratturo e
costruzioni disegnano un agglomerato a nord con le contrade Fontana-Petrache si sviluppa, si direbbe oggi, senza ra-Gallina, a ridosso del fiume Cassibiun preciso piano regolatore. Il primo le. La viabilità principale era rappreseninsediamento nel nuovo sito prevedeva tata da due trazzere di una certa imporl’alloggiamento di 5.069 persone nel tanza: la strada per Avola Vecchia che,
1714, che diventeranno 10.934 nel 1861 partendo da Piazza S. Giovanni, si inere 13.860 nel 1892. Come si può vedere, picava lungo il vecchio tracciato, e che
in circa un secolo e mezzo la popolazio- inizialmente doveva essere un sentiero o
ne è quasi triplicata, da qui la necessità una mulattiera, per una lunghezza di 11
di reperire nuovi spazi abitativi.
chilometri, fino a Case Monzella di pietra,
L’espansione verso sud e ovest è stata dove terminava la punta più avanzata
determinata dalla presenza di
un’ampia zona acquitrinosa ad
est, compresa fra l’agglomerato
e il mare che rendeva insalubre
l’ambiente a causa dell’acqua
stagnante e che è rimasta tale
fino agli anni Sessanta, denominata ancora oggi Pantanello,
ormai urbanizzata. Invece nella
rimanente parte del territorio
è presente un’ampia pianura, molto fertile e lontana dal
mare; questa localizzazione
consentiva di proteggere gli alberi di medio fusto (mandorlo,
ulivo, vigneti e frutteti in genere) dai venti marini e meglio
si prestava, a una coltivazione
intensiva delle graminacee (frumento, orzo, ecc.).
Infine questa scelta potrebbe
essere stata influenzata dalla Carta topografica dell’IGM scala 1:50.000 ed. 1867 agg. nel 1897
pianificazione degli interventi
7
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
del territorio e la strada sterrata Siracusa-Modica. In Sicilia erano state realizzate, a partire dal 1778, le Regie Trazzere in terra battuta, che collegavano i
centri più importanti dell’isola, mentre
le altre zone erano servite da strade secondarie, percorribili a dorso di mulo o
con lettighe. Solo nel 1825 il governo
borbonico pose le basi per realizzare un
sistema viario più moderno e stanziò
delle somme per trasformare le strade
secondarie in strade provinciali; in questo progetto fu inserita la Siracusa-Avola-Noto. Il nuovo tracciato, che come il
vecchio attraversava Avola, richiese nel
1837-39 un lavoro di livellamento della
piazza che dovendo mettere sullo stesso piano l’attuale corso Garibaldi e il
corso Vittorio Emanuele, determinò un
dislivello fra il piano stradale e la chiesa
Madre1. Le strade sterrate inizialmente
erano prive di ponti, per cui i tratti in
corrispondenza dei fiumi dovevano essere guadati; nel 1815 furono costruiti
i ponti di Sgangaporta2 e di Cavonazzo
(Cravonazzo) sulla strada per Noto, nel
1839 quello di Borgellusa sulla strada per
Siracusa, mentre nel 1854 fu realizzato
il ponte di Cavolata (Cavalata) sulla strada per Noto3. La lunghezza della strada
era di 31 chilometri e la distanza si misurava a partire da Siracusa. Le strade
più importanti erano dotate di edicole
religiose: all’uscita di Avola, sulla strada per Noto, c’era l’edicola di Santa Venericchia, oggi scomparsa, mentre sulla
strada per Calabernardo, l’edicola di
San Marco, le quali davano il nome alle
contrade. L’apertura della provinciale,
molto più agevole della precedente, incrementò il trasporto su ruote, facendo
passare in secondo piano la strada che
univa il corso Garibaldi con Marina di
Avola: questo tratto aveva rappresentato
per Avola una arteria di vitale importanza perché univa la città al porto, da dove
partivano le navi per Messina, Malta,
Londra, il nord Europa, Napoli, la Toscana e la Liguria. Infatti tutti i prodotti
agricoli (olio, mandorla, vino, carrube,
frumento, orzo e miele ecc.) venivano
esportati via mare. La carta topografica,
con l’aggiornamento del 1897, riporta il
tracciato della linea ferroviaria Siracusa-Noto-Ragusa. La costruzione di questa tratta avvenne con ritardo rispetto al
resto della Sicilia, perché fu inquadrata
tra quelle cosiddette complementari:
queste dovevano essere costruite con
un contributo da parte degli enti locali.
Nel 1883 venne appaltato il tratto Siracusa-Noto, della lunghezza di 30,7 chi-
8
lometri e affidato per la costruzione e la dipartivano due corsi d’acqua che congestione alla Società per le Strade Fer- fluivano, rispettivamente, nel Vallone
rate della Sicilia, subentrata alla Società Mammanelli e nel Vallone Bochini: il
per le Strade Ferrate Calabro-Sicule ed primo sfociava a mare, un chilometro
entrò in esercizio il 5 aprile del 1886. In più a sud del Mammaledi, con il nome
questa tratta furono realizzate le stazio- di torrente Eughini, mentre il secondo
ni ferroviarie di Cassibile e Avola, men- che scorre sotto il ponte di Cavalata,
tre quella definitiva di
Noto fu inaugurata il
20 settembre del 1887.
Con l’apertura di questa tratta e quindi con
il congiungimento al
resto delle ferrovie
che raggiungevano il
continente, il porto di
Avola venne a perdere la sua importanza,
ma continuò l’attività
della tonnara, che da
giugno a ottobre era
molto fiorente.
Nel 1865 venne edificata, su progetto
dell’ingegnere Rizza,
la torretta che domina la piazza princiCarta topografica dell’IGM scala 1: 50.000 ed. 1970.
pale, dove nel 1866 fu
installato l’orologio
pubblico, molto utile per un paese agri- si ingrotta a sud di Contrada Palma,
colo. Nel triennio 1872-75 venne edifi- dando luogo a sorgive, nella contrada
cato il teatro Garibaldi e nel 1892-95 il Piccio, alimentando diversi pozzi e fonMercato Comunale coperto, progettati tane. A nord della provinciale Avola e realizzati entrambi dall’architetto e Castello di Avola Vecchia, scendevano
ingegnere avolese Salvatore Rizza e nel verso il mare la cava Bugliolo (Bugliola),
1885 venne dato il via libera alla costru- il Vallone Elanici (Lannito), il Vallone
zione dell’ospizio-ospedale, nell’area Giastrito (Cava Campana), la Cava Budel vecchio convento dei Padri Cappuc- mano (Ombra/Unica), la Cava di Fassio
cini, intitolato al canonico Giuseppe (Tangi) che davano origine a torrenti
Di Maria. Il territorio di Avola è par- che convogliavano le acque in pianura.
ticolarmente fertile e ubertoso, grazie La presenza di questi numerosi corsi
alle numerose sorgive che sgorgano dal d’acqua, oltre a irrigare il terreno, alisottosuolo. Già nella carta topografica mentava diversi mulini che venivano utidel 1867 erano presenti numerose sor- lizzati per la macina del grano o per la
genti che davano origine a diversi fiumi lavorazione delle cannameli, coltivate in
o torrenti. Se prendiamo come linea di maniera intensiva nel nostro territorio
demarcazione la strada Avola-Avola fino a tutto il 1800. Così sempre nella
Vecchia si distinguono: a sud la Cava carta topografica del 1867 riscontriamo
di Carnalivari, alimentata dalla sorgente la presenza del mulino di Pisciarello,
Miranda, che seguendo le linee del ter- fra il colle S. Elia e il chilometro 5, nei
reno e gli anfratti sfociava appena a sud pressi del Castello di Avola Vecchia, il
di Marina di Avola (sulla vecchia carta mulino di Mezzo e il mulino della Cava,
non è riportato alcun nome, sulle nuo- nei pressi della contrada Archi, dove si
ve questo corso nella parte alta prende lavoravano in particolare le cannameli. È
il nome di Resegone (Risicone) e vicino opportuna una precisazione: oggi questi
al mare è chiamato Mammaledi). In corsi d’acqua sono asciutti e convogliaparticolare a casa Spineta di quota 379 no solo le acque torrentizie, in caso di
m. s.l.m. iniziava un corso d’acqua, il piogge abbondanti. Ma se questi torrentorrente Talibelli che confluiva nel tor- ti erano e sono asciutti, da dove proverente Pisciarello, nei pressi del serbatoio niva l’acqua che serviva il territorio di
di Contrada Archi, mentre dalle pendici Avola? Oggi, come nel 1867 e nei secoli
di Colle S. Elia e di Cozzo Pagliarelli si precedenti troviamo, a fattore comune,
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
Sicilia Antiqua ed. 1720
un nome: Miranda.
Miranda è una sorgente riportata sulla
carta topografica del 1970, che alimenta dal 1900 la città di Avola e si trova a
sud della provinciale Avola-Avola Antica al chilometro 10 circa, da dove inizia
la Cava di Carnalivari. Questa sorgente
sgorga a quota 300 m.s.l.m., in un bacino, circondato da Cugno Agosta, di
quota 476, Casa Romano di quota 493,
Casa Azzolini di quota 497 e Case Giordano di quota 456, dove confluiscono la
Cava Giordano, la Cava Serpente, la
Cava Spineta e altri valloni minori. È
un immenso bacino che raccoglie le acque provenienti dalle pendici dei monti
Iblei, dai numerosi rivoli ingrottati che
si dipartono dal fiume Manghisi, ben
visibili nella fase iniziale, che successivamente scompaiono, e dalle acque delle diverse cave che insistono nella zona
montana. Dagli antichi storici è riportato che il fiume Miranda è detto anche
Erineo, per cui è possibile immaginare
che dalla sorgente Miranda abbia avuto
origine il fiume Erineo.
Con il terremoto dell’11 gennaio 1693,
successe che il Cozzo Gisini e il Cozzo Serra
cozzarono4 sicché parte della montagna Gisini si sprofondò sino al letto del fiume Erineo,
nel punto detto, oggi, Cava di Carnevale. Il
fiume Erineo scomparve ...
A seguito del terremoto è possibile che il
corso del fiume Erineo sia stato sommerso da montagne di terra e le sue acque
scomparvero alla vista dell’uomo, ma
sicuramente trovarono un nuovo corso
nel sottosuolo, ingrottandosi. Dall’esame della carta topografica del 1897
si può dedurre che il corso del fiume
Erineo potrebbe coincidere con l’attuale tracciato che, partendo dalla Cava di
Carnalevari, lambisce il lato sud di Cozzo Tirone, dove prende il nome di torrente Pisciarello e seguendo le curve di
livello, raggiunge la pianura con il nome
di Risicone, attraversa la S.S. 115 nei
pressi del chilometro 384, (Cravonazzo)
e sfocia a mare con
il nome di torrente
Mammaledi, a sud
di Marina di Avola. Antichi storici
e cartografi hanno
posizionato il fiume Erineo a nord
di Avola, verso Siracusa; il de Burigny5 nel descrivere
il litorale di Avola
così si esprime:
indi sono notabili, la
Spiaggia di Avola,
dove si incontrano
da’ battelli gli scogli
della Punta del Cane,
il Faraglione, le impetuose acque, che sgorgano dentro la Grotta del Ciavrello, la Cala
Perciata, il Capo Negro e la Foce del Fiume
Miranda, detto dagli Antichi Erineo, e da
Saraceni Burgibillusu, il quale sorge sotto le
colline, ov’era l’antica Abola.
In effetti nella zona di Borgellusa esiste
un torrente, dove è stato costruito il canale di gronda che in caso di precipitazioni abbondanti, raccogliendo le acque
che discendono dalla Cava Bugliola e da
altri valloni, arriva fino a mare, mentre
in periodi di siccità dà luogo a sorgive
sulla spiaggia, dette Tremoli. Tuttavia
non essendo state individuate, ad ovest e
a nord della vecchia Avola sorgenti importanti che abbiano potuto dare origine a corsi d’acqua di una certa rilevanza
è da presumere che l’Erineo si trovasse a
sud di Avola e coincidesse con l’attuale
torrente Risicone-Mammaledi.
Oggi Avola ha una
popolazione di circa 33.000
abitanti, ha continuato a
crescere disordinatamente,
ma, nonostante ciò, il suo
centro storico continua a
mantenere quel fascino di
città-fortezza, che la rende
unica nella sua struttura.
Pianta di Avola attuale
NOTE
1
Francesca Gringeri Pantano, Quando la piazza Maggiore era mercato, “Avolesi
nel Mondo”, Anno XIII, n. 2 (31) dicembre 2012;
2
Il ponte di Sgangaporta si trova sulla SS115 al Km 383,5, subito dopo
la contrada Cravonazzo. La localizzazione è certa perché risulta da un
documento del luglio 1808 a firma del capomastro Andrea Palermo,
incaricato dal conte di Priolo, Depositario del Regno e Regio Sovrintendente
sulle strade, di preparare i materiali per la riedificazione di quel ponte diruto
nella Cavuzza, cosiddetta del Cravonazzo, come altresì per il nuovo ponte
da stabilirsi nel vallone di Sgangaporta… Sulla carta topografica del 1897,
al Km 26,5 (in contrada Puzzi), sulla strada di Noto, è riportato un altro
ponte denominato Cavalata, che fu costruito solo nel 1854. (Notizia fornita
da Francesca Gringeri Pantano)
3
Vito Maria Amico e Statella, del 1855. Dizionario topografico della Sicilia;
4
Giuseppe Pignatello, Avola dalla Preistoria al Duemila, Santocono editore
-2007.
5
Jean L. de Burigny, Storia Generale di Sicilia tradotto dal francese dal signor
Mariano Scasso, Palermo, Stamperia reale MDCCLXXXVI.
9
MEMORIE
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
Il mio incontro con padre Frasca
di Sebastiano Consiglio
T
utto ebbe inizio il primo ottobre
1954. Da bambino io e la mia
famiglia, composta da papà
Paolino, dalla mamma Cosentino Paola
(Lina) e dai miei due fratelli Corrado
e Salvatore, abitavamo in una casa in
affitto in via Bengasi n. 27, all’angolo
con la via Oberdan detta a strada ro
uttaru. Scendendo sulla sinistra, infatti,
dove la strada si allarga, all’angolo vi
era la bottega di falegnameria del sig.
Carmelo Piccione, specializzato nel
fare botti per il vino; scendendo ancora
di pochi metri c’è l’incrocio con la via
Manzoni e, proprio di fronte, al civico
35, uno degli ingressi del vecchio
mercato, oggi Biblioteca Comunale.
A quel tempo tutta la gente del paese
vi andava a fare la spesa, dato che i
commercianti di generi alimentari
avevano lì dentro le loro botteghe; sotto
e dentro il loggiato, all’interno della
galleria, si vendeva il pesce. Mio padre
aveva la macelleria. Noi siamo macellai
da diverse generazioni, a partire dal
lontano 1720, quando da Noto venne
ad Avola il sig. Consiglio Corrado di
Michele e di Naddone Angela, che il
6 ottobre 1720, nella Chiesa di San
Giovanni Battista, sposò una ragazza
avolese di nome Rizza Maria di Marco
e di Puccio Nicoletta; fu lui ad aprire la
prima macelleria ad Avola nella Piazza
Maggiore, adesso Piazza Umberto I.
Quella mattina mamma mi svegliò
prima del solito, dicendomi che dovevo
aiutarla a portare la pentola grande (a
pignata ranni) piena del sanguinaccio,
che lei e papà avevano preparato e
cotto in macelleria. Mi alzai subito
contento, essendo l’addetto alla vendita
del sanguinaccio, perché mi mettevo
davanti alla macelleria di papà a vanniari,
per attirare l’attenzione della gente che
veniva al mercato. Dopo la colazione
che la mamma mi aveva preparato, un
po’ di latte con orzo e un pezzo di pane
duro del giorno prima, prendemmo
la pentola e ci avviammo al mercato;
appena arrivati la posizionammo
sulla sedia davanti all’entrata della
macelleria, ma, quando stavo iniziando
a vanniari, mia madre mi bloccò
dicendomi: Ianuzzu, viri ca ni nama gghiri
a casa, u sai ca stamatina ti na gghiri a scola.
Io risposi iu a scola nun ci vagghiu, u sai ca
10
Disegno di Armando Nigro
agghia iutari o papà se no tutta la genti si ni
và accattarisi a carni e u sangunazzu ‘ndò
zù Paulinu. Zio Paolino era omonimo di
mio padre, in quanto cugini di secondo
grado perché i loro nonni, Michele e
Gioacchino, erano fratelli; poiché le
loro macellerie erano confinanti, era
inevitabile che vi fosse una certa invidia
nello svolgere l’attività. Io, infatti, ogni
tanto e di nascosto, andavo a sbirciare
se nella macelleria di zio Paolino vi
fossero più clienti che in quella di papà.
Avendo sentito ciò che accadeva fuori
dalla bottega tra me e mia madre, mio
padre uscì fuori e mi disse: Ianuzzu,
vatinni a scola e nun ti preoccupari.
Dallo sguardo minaccioso di mio padre
capii che era meglio non insistere, così
mia madre mi prese per mano e mi
condusse a casa, dove mi fece indossare
il grembiule blu col fiocco bianco.
La cartella di cartone era pronta, ma
io intenzione di andare a scuola non
ne avevo. Mio padre, non vedendoci
passare, immaginò ciò che succedeva,
per cui venne a casa e, appena entrato,
udendo i miei piagnistei, si tolse
una scarpa e me la lanciò contro.
Rapidamente mia madre mi fece da
scudo e fu lei a essere colpita; ciò fece
rabbonire mio padre, che, comunque,
mi intimò di andare a scuola nell’arco
di cinque minuti; se non mi avesse
visto passare dalla bottega, mano nella
mano con mia madre in direzione della
scuola, mi avrebbe riempito di botte.
Tutto questo mi convinse, e con un gran
nodo alla gola andai a scuola.
La scuola intitolata a “De Amicis”
si trova al viale Lido, adesso viale
“Corrado Santuccio”: io la vedevo
come un calvario; tutto facevo tranne
che stare attento e studiare, anche
se mia madre non si stancava mai di
ripetermi che, se mi fossi impegnato a
scuola, da grande avrei potuto diventare
una persona importante. Il mio pensiero
però era altrove: al mercato, al mattatoio
(macello), ad aiutare mio padre.
Purtroppo anche la mia maestra, sig.ra
Aminta Calvo Scirpa, si era accorta di
quanto fossi distratto e disinteressato
alle sue lezioni: ad ogni piccolo sbaglio
spesso, infatti, fioccavano in punizione
bacchettate sulle mani o stare in
piedi dietro la lavagna con due grandi
orecchie d’asino di cartone fatte da lei
stessa; tutto questo provocava le risate
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
dei miei compagni di classe col risultato
che io mi comportavo sempre più da
monello, disturbando anche i compagni
di banco. Alla fine finivo con l’essere
“trasferito”, da solo, all’ultimo banco.
Un giorno, la maestra mi interrogò
e, come era prevedibile, non seppi
rispondere; mandandomi a posto,
mi disse che l’indomani sarei dovuto
andare a scuola accompagnato da mia
madre; un mio compagno vicino di
banco, approfittando della distrazione
della maestra, mi esclamò: Consiglio,
sei un asino e io, pieno di rabbia, mi
avventai su di lui, riempendolo di botte.
La conseguenza fu che la maestra mi
cacciò fuori dalla classe.
Il giorno dopo andai a scuola ma, al
suono della campanella, non entrai:
cominciai cosi con le assenze, ovvero
a caliarimi a scola; trascorrevo il tempo
giocando tutta la giornata nei dintorni
del viale Lido e, quando gli altri
uscivano da scuola, mi incamminavo
verso casa. Tutto questo però durò solo
poco tempo, perché un amico di mio
padre, vedendomi in giro quando invece
avrei dovuto essere a scuola, lo avvertì
e così un giorno, mentre mi trovavo in
piazza Umberto I a controllare l’orario
dell’orologio della torretta, in attesa che
i miei compagni uscissero da scuola,
una figura mi si accostò dicendomi:
Attia picciriddu, m’ha diri chi ura è ca iu
nun ci viru bonu? (Ragazzino, mi dici che
ore sono, perché non ci vedo bene?).
All’udire quella voce impallidii, perché
era quella di mio padre e, girandomi
per guardarlo, sapevo già cosa sarebbe
accaduto. Mio padre mi chiese cosa
facessi in piazza e perché non ero a
scuola; io non ebbi il coraggio di parlare
e, a quel punto, arrivarono un paio di
ceffoni; mi fece salire sulla bicicletta e
ci avviammo verso il mercato, dove era
rimasta mia madre. Arrivati, piangendo,
corsi subito da mia madre che,
vedendomi con le guance rosse e con i
segni delle dita, accennò una reazione
in mia difesa contro mio padre, il quale,
essendoci persone presenti, diede una
sberla anche a lei, col risultato che sia io
che mia madre, piangendo, ci avviammo
verso casa. Ricordo nitidamente che mi
disse mia madre: Perché mi fai questo,
Januzzu!
Per giustificarmi, inventai una grande
bugia e le dissi che, siccome un ragazzo
più grande, mentre andavo a scuola,
mi fermava, prendendomi a botte, non
riuscivo ad arrivare in tempo. Mamma
credette alla mia storia. L’indomani
fu lei ad accompagnarmi e, durante
il tragitto, mi chiese di segnalare se
avessimo incontrato il ragazzo di cui le
avevo parlato; ovviamente questo non
avvenne.
Giunti in classe, la maestra, anche per
la presenza di mia madre, fece un lungo
elenco circa il mio comportamento
non consono alle regole scolastiche,
rammaricandosi per il fatto di non essere
riuscita a controllarlo. Ci pensò subito
mia madre a calmare le invettive della
maestra e, forte come era di carattere,
mi fece promettere che da allora avrei
dovuto rigar dritto; io promisi, anche
per il rimorso che sentivo a causa
dello schiaffo che per causa mia aveva
ricevuto da mio padre. Per circa un
mese andò tutto bene: stavo attento alle
lezioni e in classe stavo composto.
Ma la mala sorte è sempre in agguato. Un
giorno un compagno, che abitava in via
Mazzini, con cui percorrevo la strada
per andare a scuola, mi fece arrivare in
ritardo, perché, essendosi comportato
male, doveva andare accompagnato
dalla madre, che si fece aspettare, per
completare alcune faccende domestiche.
Arrivati a scuola, la mamma del mio
compagno bussò più volte prima che la
porta della mia classe venisse aperta; la
maestra con disappunto raccontò alla
donna il comportamento scorretto del
figlio e solo alla fine si accorse della
mia presenza domandandomi: e tu cosa
hai avuto di tanto importante da arrivare
in ritardo? Invano la mamma del mio
compagno tentò di giustificarmi, la
maestra non volle sentire ragioni e mi
cacciò fuori dalla classe. Il pensiero
mi portò subito alla mamma; pensavo
infatti, pur senza averne la colpa, di aver
deluso le sue aspettative. Ricominciai
allora a girovagare tra il viale Lido e
la campagna vicina con la paura di
essere visto da qualcuno che l’avrebbe
poi raccontato a mio padre. A un certo
punto decisi di andare in centro e,
arrivato in piazza Umberto I, per paura
di essere notato, entrai in Chiesa Madre
dalla porticina laterale con la speranza
che lì avrei trovato un posto al sicuro.
Mentre ero assorto nei miei pensieri e
con la suggestione, che la penombra e
la grandezza della chiesa mi avevano
procurato, vidi dall’uscio della sagrestia
uscire un omone vestito tutto di nero: era
padre Antonio Frasca; spaventato, fuggii a
gambe levate. Il giorno dopo ritornai in
chiesa e questa volta, invece di sedermi
sul banco, mi nascosi in un luogo molto
stretto che mi dava più sicurezza: dopo
appresi che era il confessionale! Per diversi
giorni andò avanti così, fino a quando
padre Frasca non si accorse della mia
presenza: astutamente, per non farmi
scappare, avendo capito che attraverso
i fori della grata del confessionale
controllavo l’ingresso della sagrestia,
fece il giro, uscì dalla porta che va su
vicolo Buonarroti, rientrò in chiesa
dall’ingresso principale e mi colse
di sorpresa alle spalle! Lo spavento
che provai fu tanto, ma padre Frasca
non perse tempo nel tranquillizzarmi
dicendomi: Non avere paura, non ti
mangio mica! Ti vedo sempre qui in chiesa,
perché non vai a scuola?
Tra le lacrime lo supplicai di non dire
nulla ai miei genitori, gli confidai
quanto fossi addolorato per non aver
mantenuto la promessa fatta a mia
madre a causa della maestra che,
ingiustamente, mi aveva cacciato dalla
Padre Frasca in occasione
della Festa degli alberi
11
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
scuola. Al termine del mio racconto
padre Frasca mi rassicurò dicendomi:
Adesso ti accompagno a scuola, così vedremo
se la maestra non ti farà entrare in classe!
Giunti a scuola, mi chiese quale fosse
la mia classe e, dopo avergliela indicata,
bussò fino a quando la maestra venne
ad aprire. Notai bene come la maestra
fosse rimasta impietrita, vedendomi
accompagnato da padre Frasca. Era
evidente che i due si conoscessero bene,
perché il sacerdote la chiamò per nome,
rimproverandola aspramente per il suo
comportamento. Vani furono i tentativi
della maestra per giustificarsi, in quanto
padre Frasca ribadì subito che non era
ammissibile cacciare fuori dalla scuola
un bambino di sei anni e mezzo, vista la
grande responsabilità che questo gesto
comportava; avrebbe dovuto credere alla
mamma del mio compagno, che aveva
giustificato il mio ritardo. Dopo, fu lo
stesso padre Frasca ad accompagnarmi
al banco. Iniziò così la mia amicizia con
padre Antonio Frasca.
Quel giorno, terminate le lezioni, prima
di uscire dalla classe, la maestra mi prese
per un braccio avvisandomi di stare
attento e di comportarmi bene, perché
altrimenti me l’avrebbe fatta pagare; io
non curandomi delle minacce mi avviai
verso casa. Finalmente in pace con me
stesso, prima di tornare a casa, passai dal
mercato e, vedendo che mia madre non
era nella macelleria, andai direttamente
a casa e le raccontai quanto era accaduto;
lei però rimase incredula e per questo la
invitai ad andare a parlare col sacerdote.
Quel pomeriggio affidò i miei fratelli
Corrado e Salvatore alla zia Saveria
(Sciaveria), moglie dello zio Michele
Consiglio, il quale possedeva un’osteria
(a putia ro vinu) anch’essa al mercato, in
corrispondenza dell’unica entrata lato
via Manzoni n. 31, nella quale tutti i
commercianti dopo una giornata di duro
lavoro si incontravano, discutendo tra
loro mentre consumavano un bicchiere
di vino e un uovo sodo. Lasciati i miei
fratelli ci incamminammo verso la
Chiesa Madre. Vedendoci arrivare,
padre Frasca fece un sorriso e confermò
tutto quanto avevo già raccontato.
Dopo rinnovai la promessa che sarei
stato un bravo alunno. Mia madre
ringraziò padre Frasca per quanto aveva
fatto e lui, prima che andassimo via, le
domandò in quale Chiesa andasse la
domenica a Messa. Mia madre rispose:
Col mestiere di mio marito si lavora tutta
la settimana, domenica mattina compresa
e, considerando anche i lavori domestici,
12
non c’è tempo per andare a Messa. Padre
Frasca ascoltò in silenzio, poi le disse:
Non preoccuparti, Dio vede e provvede
e se tu lo cerchi, lo trovi pure a casa tua.
Poi rivolgendosi a me disse: Domenica
ti aspetto in chiesa e, dopo la Messa, ti
accompagno alla Stella Maris, così anche tu
potrai far parte dei lupetti. Quell’intrigante
esperienza mi servì da lezione per
molto tempo, per impegnarmi in ogni
occasione e per comportarmi bene a
scuola e con la maestra; soprattutto
imparai a osservare il mondo e la cruda
realtà che da bambino mi circondava.
Ricordo quando, un giorno, la maestra
distribuì la tessera per la mensa
scolastica (u mangiari). Il refettorio
era negli scantinati della scuola e si
pranzava dopo le lezioni. Si mangiava
un po’ di riso/pasta con legumi e un
panino con un po’ di formaggio. La
mensa era riservata ai ragazzi più
poveri, io ne rimanevo escluso, perché
figlio di commerciante. Mi sarebbe
piaciuto poter mangiare con il mio
compagno di banco, che aveva la tessera
il quale, vedendomi triste mi spiegò:
Vedi Consiglio, tu adesso quando arrivi a
casa trovi da mangiare; io, se la maestra
non mi avesse dato la tessera, arrivato a casa
non so se avrei trovato qualcosa da mangiare
perché mio padre è da più di un mese che
non lavora; pensa che mia mamma tutti i
giorni va ai Cappuccini (Piazza Francesco
Crispi) dalle Suore Vincenziane, le quali
preparano la minestra per le persone povere
che sono tante e per questo bisogna mettersi
in fila; a volte capita che, quando arriva il
turno di mia madre, la minestra sia già
finita e lei torna a casa in lacrime con la
pentola vuota e dobbiamo ringraziare il
buon cuore di qualche vicina di casa, se si
riesce a mangiare qualcosa. Ai ragazzi
poveri la scuola, a volte, forniva anche
le scarpe e anche questo era per me
motivo di invidia, ma ero un bambino
e non capivo cosa fosse la povertà, non
facevo caso a quanti venivano a scuola
con le scarpe rotte o col buco nella suola
o addirittura scalzi. Allora la miseria e
la mancanza di igiene personale erano
dilaganti ma, grazie a Dio, non era
il mio caso. Ricordo quando, per un
paio di volte la settimana, mi recavo
da zia Corradina, sorella di papà, per
pulirmi col pettine stretto i capelli dai
pidocchi, che prendevo in classe; tutto
questo durò fin quando mio padre mi
portò dal barbiere e mi fece rasare a
zero i capelli (a tunna). Il 2 novembre
in occasione della commemorazione
dei defunti, la maestra ci accompagnò
nell’antico cimitero monumentale e,
lungo tutta la strada, in ambo i lati, che
da piazza “Francesco Crispi” conduce
fino al cimitero, vi era una moltitudine
di persone anziane, che chiedevano
pietosamente l’elemosina. Terminato
l’anno scolastico ricevetti una grande
e brutta sorpresa: fui bocciato, pur
essendomi comportato bene e avendo
studiato con interesse; era evidente
che la maestra non aveva “digerito” il
rimprovero di padre Frasca! Mi toccò
ripetere l’anno della prima elementare
1955-1956, questa volta però, sotto
la guida della maestra Mariannina
Moscuzza Ciulla, venni promosso. Dal
1958 la strada tra me e padre Frasca si
divise per molto tempo; mio padre aprì
una macelleria a Noto, in via Principe
Umberto vicino la Chiesa del Crocifisso
(o cianazzu), ma fu un fallimento.
Provammo anche a Cassibile, ma
anche qui gli affari non andarono bene
e dovemmo ritornare ad Avola, questa
volta sul corso Vittorio Emanuele,
angolo via Santa Lucia (quartiere
stazione). Da qui comincia un’altra
storia.
Successivamente
incontrai
padre Frasca al Corso Garibaldi in
modo del tutto casuale: entrambi
stavamo varcando l’uscio dell’ufficio di
consulenza del maresciallo Luminoso
ed essendo di qualche passo più avanti,
entrai per primo; entrato pure padre
Frasca, mi riprese, dicendomi di essere
un maleducato, per non avergli ceduto
il passo (credeva molto nel rispetto
dovuto a ciò che rappresentava). Per
mia fortuna, il maresciallo Luminoso,
che aveva visto l’accaduto, intervenne
in mia difesa, additando il sacerdote
come privilegiato ed autoritario. Di
certo l’anziano prete non mi aveva
riconosciuto e ciò nonostante questo
fatto mi aveva turbato. Il 22 novembre
1970 morì mio padre e, poiché ero il
maggiore dei fratelli, dovetti gestire le sue
tre macellerie: ne fui molto fiero. Correva
l’anno 1982 ed era una fredda serata di
novembre, quando un mio cliente portò
la notizia della morte di padre Frasca.
In un baleno si presentarono alla mia
mente tutti i momenti passati insieme
dal primo incontro fino a quell’ultimo,
durante il quale mi era anche sfuggita
una battutaccia poco riverente. Nel mio
cuore però non posso fare a meno di
custodire quanto padre Frasca, con le
sue parole e con le sue azioni, trasmise
a quel bambino, insegnandogli a saper
leggere nelle esperienze della vita, per
crescere.
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
ARTE
Incontro con l’arte nella Chiesa del
Carmine ad Avola
di Maria Concetta Ripullo
L’
interrogativo che ciascuno di significato, che, nella creazione artistinoi si pone quando osserva ca, è il significato di immagine come
un lavoro che viene definito espressione dell’artista creatore, della
“artistico”, attraverso il quale il mondo sue speranze e dei suoi tormenti, delle
sensibile-materiale viene riconosciuto armonie e degli squilibri, delle altezze
come ricchezza significativa, è: che e degli abissi del suo essere; insomma
cos’è l’opera d’arte? Nell’osservare il l’arte come si rivolge allo spettatodipinto di Maria Magro, che la stessa re-fruitore, così in essa parla l’artista:
ha donato alla chiesa del Carmine di è un vero e proprio “dialogo di senso’’
Avola, mi sono chiesta quali dinami- fondato sulla comunicazione che coche sottendono la produzione artistica. Per formulare un’ipotesi di risposta
consideriamo due fattori:
il soggetto che intenziona,
cioè che osserva quello che
gli si presenta, e l’oggetto
intenzionato che gli sta innanzi. Se l’arte è creare un
mondo possibile, un mondo
in immagine nelle sue varie
forme, cioè immagine della
percezione, della memoria,
della fantasia, del linguaggio pittorico o poetico o musicale, a ragione essa rinvia
al rapporto di esperienza
tra soggetto e mondo. Afferma Lyotard che lo spessore
espressivo dell’opera d’arte
“è da vedere e non da leggere, si mostra e non si dice”.
In questo processo espressivo si sviluppa un dialogo tra
l’interpretare-sentire e l’interpretare-costruire.
L’immagine che ci si presenta è segno di un sentire intersoggettivo in cui l’uomo,
universalmente, si ritrova
nell’uomo; nel particolare, in
quel particolare artistico, ritroviamo il sentimento universale condiviso e comune
a tutti i soggetti umani, dello stupore di fronte alla gioia
o al dolore, al bello o all’orrido, all’odio o all’amore cui
l’immagine osservata ci rinvia. Così ci rendiamo conto
che l’universale per l’estetica
sta nella condivisione, ciò
fonda la sua scientificità:
cioè l’universalità dell’arte
è nella possibilità che tutti
Maria Magro, La Creazione, olio su tela cm 240x100
noi abbiamo di ricostituire il
stituisce il bisogno profondo insieme
al bisogno del fare-creare caratterizzanti l’esperienza artistica. L’orizzonte
dell’arte comprende un mondo di oggetti che sono una realtà a cui lo spirito dà significato ed è accessibile a
un nuovo spirito. Altro elemento che
costituisce lo spartiacque tra oggetto
semplicemente percepibile e oggetto
estetico è il puro piacere che l’opera
d’arte suscita nell’osservatore; infatti il contatto tra
soggetto e oggetto è caratterizzato in maniera costante
da piacere o dispiacere, a
cui corrispondono le corrispettive prese di posizione
di assenso o rifiuto. Il dipinto, occasione di queste
mie riflessioni, rinvia alla
natura dell’essere umano,
che, attraverso il fare, si manifesta come espressione di
quella Potenza Creativa che
lo ha originato e lo ha voluto Suo concreatore nel mondo umano. Per ritornare ai
particolari del dipinto di
Maria Magro situato sulla
parete di sinistra della chiesa del Carmine di Avola, è
da notare che in esso l’autrice ha voluto raffigurare
le varie fasi della creazione,
espresse dapprima con un
caleidoscopio indistinto di
colori che man mano, differenziandosi, caratterizzano
gli astri e gli esseri viventi
in vario grado, cui Adamo
ed Eva, con la loro opera,
danno voce e dignità. L’autrice si mette in gioco, per
manifestare e comunicare
la sua volontà del fare per
la comunità ecclesiale che,
indirettamente, è chiamata
a “lavorare” per rendere più
bello e accogliente quel luogo di incontro e di condivisione umana, per costruire
un dialogo fraterno con uomini e donne di “buona volontà’’, parrocchiani e non
solo…
13
VITA
ASSOCIATIVA
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
I
Cronaca di una sicilianità ritrovata
di Umberto Confalonieri - foto di Sebastiano Munafò
ncontrarsi e confrontarsi sulle esperienze appena trascorse, è sempre
piacevole, soprattutto, in simpatica
compagnia e di fronte a un bel tramonto siciliano. È questa, ancora una volta,
l’intenzione dei meeting internazionali
de “I Siciliani nel Mondo” e de “Gli
Italiani nel Mondo”, tenutisi, rispetti-
Cerami
14
vamente nelle città di Cerami e Capizzi
il 10 e l’11 agosto. Incontri annuali che,
consentendo il rientro in terra madre
di molti siciliani oramai abitanti del
mondo, permettono di conoscere, approfondire e ammirare le bellezze nostrane che pure gli occhi dei siciliani di
residenza disconoscono. Un’opportunità
permessa grazie all’impegno costante
del dott. Pietro Paolo Poidimani, presidente de “Gli Italiani nel Mondo” e
della prof.ssa Rosa Di Bella, presidente
dei “I Siciliani nel Mondo”. L’edizione
2013 è la dodicesima negli annali della
manifestazione, che, nonostante il passare degli anni, mantiene viva la formula di confronto delle esperienze annuali
e della convivialità classica tra amici di
vecchia data. La scenografia scelta per
l’anno 2013 è il lembo di terra che intercorre tra le oramai furono province di
Enna e Messina, e in modo particolare
i due piccoli centri, già su richiamati,
di Cerami e Capizzi. Itinerari storici,
etno-antropologici, religiosi e culinari
hanno coinvolto i partecipanti, che, al
tempo stesso, hanno manifestato solidarietà alle amministrazioni locali, perché sempre più dimenticate dalle istituzioni; raggiungere i due centri sembra
quasi un’odissea omerica: strade dissestate, carenza d’illuminazione, tornanti pericolosi. Diventa unico e accorato
l’appello degli organizzatori e degli amministratori nell’invocare un’attenzione
politico-istituzionale maggiormente costante, presente e non limitata alla tornata elettorale del momento.
È stata la cittadina di Cerami ad
aprire i lavori nel pomeriggio del 10
agosto, dove, alla presenza di autorità
locali e presidenti del mondo culturale
Capizzi
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
e associazionistico nazionale, si è aperto un dibattito,
moderato dal dott. Pietro Paolo Poidimani, sulle realtà
siciliane presenti e radicate nel Mondo, si pensi all’Australia,
alla Turchia, all’America, all’Irlanda, e all’Italia stessa. Un
confronto sulle attività associative appena conclusesi, visto
il periodo estivo, un’opportunità per stringere collaborazioni
e permettere l’avvio di percorsi socio-culturali nuovi.
Un’occasione per ricordare due avvenimenti importanti:
il 950esimo anniversario della battaglia di Cerami, la cui
relazione è stata affidata alla prof.ssa Di Bella, e il 70esimo
anniversario dello sbarco alleato sulle coste siciliane. Per
quest’ultima ricorrenza la parola è andata a Rosalba Scifo,
italo-canadese impegnata nello studio della storia locale,
che ha permesso la realizzazione di una manifestazione
internazionale con la presenza di militari e istituzioni canadesi
che hanno ripercorso il cammino siciliano dei loro antenati
nelle ore dello sbarco. La serata è terminata con la consegna
dei riconoscimenti a coloro che sono stati, e sono ancora,
viva voce della sicilianità. Premio anche alla memoria dello
scrittore Giuseppe Schirinà, padre della presidente de “Gli
Avolesi nel Mondo”, la quale ha voluto ripercorrere l’ultima
e postuma tappa letteraria del padre, il Diario brontese.
Il secondo appuntamento ufficiale, quello de “Gli Italiani
nel Mondo”, ha avuto come scenografia la Sala Consiliare
del Comune di Capizzi. Un’occasione, ancora una volta, per
dare spazio al confronto sulle realtà socio-culturali che testimoniano la propria Storia Patria. Spazio ai personaggi noti
della Storia italiana, come Giovanni Boccaccio e Gabriele
D’Annunzio, ma anche alle realtà folcloristiche (religiose)
dell’entroterra siciliano, unici e vivi momenti per attivare il
turismo e tramandare quel fil rouge della storia di ciascun
popolo. Un momento anche per riannodare il dialogo con le
nuove generazioni che, per testimoniare la storia, la cultura
e il proprio impegno civile, devono, necessariamente, uscire
dal tracciato domestico e sentirsi impegnati culturalmente,
visto che per cultura si vuole intendere, interamente, tutto ciò
che inerisce allo scibile umano. Le due giornate hanno visto il passaggio del Triangolo di Luce tra le amministrazioni
ospitanti dell’edizione 2013, ovvero Capizzi e Cerami, e la
Città di Alcamo, protagonista del prossimo meeting, fissato
nel 2014.
Libri in vetrina
Si ringraziano gli autori e i lettori che hanno fatto pervenire i loro testi. La Redazione si scusa se, per motivi di
spazio, non è stato possibile inserirli tutti, ma si provvederà nel tempo. Tra gli altri, hanno arricchito la nostra
biblioteca i seguenti volumi:
15
RICORRENZA
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
Convegno internazionale sullo sbarco degli Alleati in Sicilia del 1943
Noto: Passata Memoria e Futura Memoria
di Angelo Fortuna - Foto di Angelo Gorgone
C
i sono nella storia dei popoli
eventi traumatici che, più in
profondità degli altri, per circostanze particolari collegate al contesto
socio-culturale del tempo, segnano una
radicale cesura nella vita dei singoli e
delle comunità, determinando una frattura tra un prima e un dopo, che è doveroso analizzare per capire il senso dei
fatti e i mutamenti dei modi di essere
delle persone.
A livello di macrostoria non per nulla
lo spartiacque dell’avventura dell’uomo
sulla terra è segnato dall’incarnazione
di Gesù Cristo, per cui, da due millenni, l’evoluzione del genere umano viene considerata secondo che i fatti che
ad essa si riferiscono siano avvenuti
prima o dopo l’Evento per eccellenza,
avanti Cristo e dopo Cristo, ante Christum natum e post Christum natum. A
livello locale, siciliano, con particolare
riguardo al Sud-Est per quanto di nostra competenza (Avola, Noto, Pachino, Rosolini, Portopalo, Ispica, Pozzallo), la microstoria è stata fortemente
influenzata, 70 anni fa, da un prima e
da un dopo. È per questo che si avverte
la necessità, più ancora che l’opportunità, di sottolineare e interpretare il senso
del grande evento, nel bene e nel male,
rappresentato dallo sbarco degli Alleati sulle nostre coste, il 10 luglio 1943.
La prospettiva storica, che consente di
valutare adeguatamente la portata degli
eventi a 70 anni dai drammatici giorni dell’invasione anglo-americana, ci
I premi
permette di discernere il quadro di una siano avvenuti ante Anglorum irrupgrande svolta, che giustifica una netta tionem o post Anglorum irruptionem,
suddivisione della microstoria locale.
prima o dopo lo sbarco anglo-americaSappiamo oggi con la certezza testimoniata dall’evidenza
Steve Gregory
dei fatti storici che quel temuto sbarco, che fu giustamente
denominato invasione, si tradusse, dopo la fine del secondo
conflitto mondiale, in qualcosa
di profondamente innovativo
per la nostra vita, prendendo,
tra l’altro, l’aspetto della liberazione dal totalitarismo, senza
con ciò voler negare, sottovalutare o, peggio, banalizzare
la drammaticità degli eventi
che seguirono al più grande
dispiegamento di navi e strumenti militari mai concepito e
portato ad esecuzione dall’inizio della storia umana, da una
parte, sul teatro del mare Ionio,
con particolare riferimento al
tratto di costa che no. Un’interpretazione simile dell’inva da Avola a Capo vasione manu militari della Sicilia da
Passero, ove operò parte degli Alleati è ampiamente valil’Ottava Armata bri- data dalla lunga serie di manifestazioni
tannica, e, dall’altra, e cerimonie che si sono svolte a cavallo
sulla costa che da Li- del 10 luglio 2013 per ricordare il 70°
cata e Gela arriva fin Anniversario dello sbarco.
nei pressi di Portopa- Emerge fra tutte le celebrazioni, per
lo, in cui sbarcarono i ampiezza di prospettive culturali, spimilitari della Settima rito di pace e fratellanza universale, il
Armata Americana. Convegno storico culturale, “Passata
Mi chiedo insomma Memoria a Futura Memoria: 1943,
se non sia necessa- lo sbarco degli Alleati in Sicilia”, prorio solennizzare gli mosso congiuntamente dal Comune di
eventi del Novecento Noto e dall’associazione “Siciliani nel
di tutto il Sud-Est si- Mondo”, autorevolmente rappresentata
Mons. Angelo Giurdanella, il sindaco di Noto
dott. Corrado Bonfanti e il dott. Pietro Paolo Poidimani
ciliano secondo che dal presidente Pietro Paolo Poidimani,
16
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
svoltosi a Noto il 7 luglio 2013 nell’am- to il Premio
pio cortile dell’ex-Convitto Ragusa. Annuale InDopo un’ampia appassionata disamina ternazionale
delle ragioni del Convegno a cura di Pie- P r o s e r p i n a
tro Paolo Poidimani che, indirettamen- 2013 per la
te, ha fatto anche luce sull’impegno da sua ecceziolui profuso nella organizzazione dell’e- nale attività di
vento, il sindaco di Noto, dott. Corrado photographer
Bonfanti, non si è limitato a un arido dello sbarco.
saluto istituzionale, ma, cogliendo gli Identico Preaspetti positivi insiti nell’autorevole mio, ritirato
presenza di personalità italiane, cana- da mons. Andesi e statunitensi, ha chiarito come il gelo GiurdaConvegno offra anche l’occasione per nella, vicario
far conoscere a livello globale le im- generale, in
mense risorse monumentali, artistiche e assenza del
ambientali di Noto e di tutto il Distretto vescovo Stadel Sud-Est, titolare della più vasta con- glianò, è sta- Phil Stern coi figli e nipoti. A sx Rosa Di Bella
centrazione al mondo di beni culturali. to assegnato
Molto apprezzati i saluti istituzionali di alla Diocesi di Noto per la benemerita ore dallo sbarco. Le targhe sono state
Daniele Marconcini, presidente dell’as- azione di pacificazione e di dialogo tra ritirate dalla prof.ssa Giuseppina Ignaccolo, vice presidente del Consorzio unisociazione “Mantovani nel Mondo”, di occupanti e popolazione siciliana.
Giuseppe Conac, presidente dell’asso- Non potevano mancare nella solenne versitario di Siracusa, dal neo sindaco
ciazione “Amici della Città di Noto nel occasione i riconoscimenti, sotto forma di Rosolini, dott. Corrado Calvo e dal
Mondo Terra di Ducezio e di Rocco Pirri”, di targhe della Memoria, consegnati ai vicesindaco della Città di Avola, al
che opera a Milano, ma anche quello parenti del glorioso sottotenente netino quale l’ha consegnato la prof.ssa Gradel simpaticissimo canadese Steve Gre- Luigi Adorno, eroicamente caduto il 10 zia Maria Schirinà, presidente dell’asgory, presidente Operation Husky 2013 luglio 1943 ad Avola, e ai congiunti di sociazione “Gli Avolesi nel Mondo”.
(come è noto, Husky fu denominata nel Vincenzo Barone, nativo di Modica e Una ulteriore targa sarà consegnata alla
1943 l’operazione dello sbarco in Sici- caduto a Marzamemi nella stessa data Base Americana di Sigonella (CT), in
lia, che, impegnò, nelle zone di compe- fatale. Altri riconoscimenti sono stati memoria dei Marines e Aviatori Alleatenza già precisate, la Settima Armata consegnati alla Città di Avola, “Città ti caduti durante lo sbarco. Non si può
Americana agli ordini del gen. Patton martire” nei giorni dello sbarco alleato, concludere senza citare ancora una vole l’Ottava Armata Britannica, guidata alla Città di Pachino, prima città libera- ta l’organizzatore principale del Convedal gen. Montgomery). Gli eventi bel- ta dagli Alleati, in memoria dei militari gno, Pietro Paolo Poidimani, grazie al
lici e le ripercussioni sui siciliani sono italiani caduti nella tragica occasione, quale la rievocazione di un atto di guerstati oggetto delle relazioni di Michele alla Città di Rosolini, in ricordo del ra e dunque di violenza si è trasformato
Favaccio, che ha svolto il tema dello Summit del Comando italiano del 16° in un inno alla pace e alla comprensio“Sbarco alleato nei ricordi dei milita- Corpo d’Armata Sicilia Orientale, tenu- ne dei popoli.
ri italiani” e del sottoscritto che, sulla tosi a Rosolini il 9 luglio 1943 a poche
base di idonea documentazione,
Il pubblico
ha esaminato l’impatto traumatico dello sbarco alleato sulla
popolazione siciliana.
L’arrivo del novantaquattrenne
Phil Stern, il fotografo delle star
del cinema internazionale, da
Marylin Monroe a Sophia Loren, circondato da figli e nipoti,
è stato accolto da unanime simpatia e relativi applausi. Ezio
Costanzo, giornalista, storico e
docente universitario, dopo aver
precisato che Phil Stern era al
seguito della Settima Armata
Americana, ha annunciato la
preparazione di un film-documentario, “Sicilia 1943 – Lo
Sbarco Alleato”, basato in gran
parte sulla cospicua documentazione fornita da Phil Stern.
Proprio a lui è stato consegna-
17
ATTUALITÀ
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
Antonella e le altre... vittime di femminicidio
di Eleonora Vinci
allo scorso ottobre
la legge italiana riconosce un nuovo
reato: il femminicidio. Dai
tempi biblici dei primi figli di
Adamo ed Eva, quando Caino uccise per invidia Abele, si
è usato il termine fratricidio,
ma mai l’equivalente femminile, se l’assassinio vede “protagoniste” due sorelle. Il termine omicidio deriva, guarda
caso, da una lingua “morta”:
l’unione del vocabolo homo con
il vocabolo cidium; il significato
in lingua odierna sarebbe: l’uccisione di un uomo per mano di
un altro uomo. E l’omicidio si è
esteso a tutti i casi che riguardavano la popolazione, uomini e
donne, vittime di questo reato.
Con la violenta soppressione delle donne, verificatasi negli ultimi
anni, in modo così drammaticamente ripetitivo, il reato è diventato di genere, e quindi l’introduzione nel sistema giustizia del femminicidio è apparso improcrastinabile, allo
scopo di contenere questo ignobile
dilagante fenomeno di abbrutimento
dell’essere umano.
D
…allora il Signore Dio fece
scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli
tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto.
Il Signore Dio formò con
le costole, che aveva tolte
all’uomo, una donna e la
condusse all’uomo”
(Genesi 2,21-22)
Quella che si sarebbe dovuta mantenere come unione di carne e di spirito
e, comunque, unione complementare
per l’equilibrio del pianeta, oggi, che
dati alla mano, solo nel 2013 oltre
cento donne, circa dieci al mese, sono
state uccise da fidanzati, mariti, compagni ed ex, sembra aver perso il suo
18
ernet
Foto tratta da int
valore di sacralità, tanto da fare scattare un piano antiviolenza, per il quale
sono stati stanziati dal Governo dieci
milioni di euro per azioni di prevenzione, educazione e formazione per
contrastare il femminicidio.
Dai mass media un bollettino di guerra: Silvia, 39 anni, trovata nel congelatore, arrestato il compagno; Marta
uccisa a Cuneo dall’ex marito a colpi di pistola; Tiziana, 30 anni, uccisa
a Lambiano dal marito a coltellate;
Rosy uccisa a Palermo dall’ex convivente; Lucia, 31 anni, accoltellata a
Trento dall’ex fidanzato e rinchiusa
nel bagagliaio della sua auto; Irma,
33 anni, casalinga di origine albanese,
uccisa a coltellate dal marito davanti
alle figliolette di 8 e 10 anni; Olga, 62
anni, trovata a pezzi in uno scatolone nei pressi di Foligno; Fabiana, 16
anni, bruciata ancora viva a Corigliano dal fidanzatino diciassettenne;
Samantha, 35 anni, trovata a Frosinone murata viva in una casa in uso
al compagno che, invece, indagato,
aveva denunciato di averla gettata in
un corso d’acqua dopo l’improvvisa morte per malore; Olena, 50
anni, di nazionalità ucraina, trovata a
Polla, con la gola recisa e poi data alle
fiamme. E, ancora: a Milano, albanese lancia la moglie dal nono piano; ad
Agrigento un uomo ha ucciso la moglie a colpi di pistola nella piazza del
mercato; ad Avola, Antonio, più volte
denunciato per violenza, minacce e
maltrattamenti dalla moglie Antonella, 48 anni, l’ha uccisa a fucilate, sotto
gli occhi del figlioletto di 4 anni, perché colpevole di volerlo lasciare, per
poi rivolgere l’arma contro sé stesso.
Solo con me, mai senza di me, sembrano
sottolineare, affondando la lama di un
coltello in quei corpi che hanno tanto amato, indirizzando pallottole, per
spezzare la vita in chi quella vita non
vuole più condividere con chi le schiaffeggia, le sfregia, le umilia, le tiene segregate, le perseguita, per imporre un
possesso mascherato d’amore. Non
è servito denunciare per mettersi in
salvo e, incredibilmente, ancora oggi,
dopo il caso di Antonella, un giovane
stalker avolese, che ha minacciato con
un coltello l’ex compagna, madre del
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
proprio figlioletto, le ha danneggiato
l’auto a colpi di bastone. Inseguito e
arrestato dalle forze dell’ordine, è stato, il giorno dopo, rilasciato, col solo
obbligo di non avvicinarsi all’abitazione della vittima e di tenersi lontano dai
luoghi da lei frequentati; purtroppo è
stato ampiamente dimostrato, dai tragici fatti, che ciò non è deterrente per
quanti, troppi, sottopongono le loro
donne ad atti violenti.
Con la legge sul femminicidio diventa aggravante proprio la relazione affettiva con la vittima, ed è applicabile
al maltrattamento in famiglia e a tutti
i reati di violenza fisica commessi in
danno o in presenza di minorenni o
di donne in stato di gravidanza. Ora
c’è l’arresto obbligatorio, se le forze
dell’ordine sorprenderanno una persona nell’atto di commettere maltrattamenti in famiglia, l’allontanamento
d’urgenza dalla casa familiare e il divieto di avvicinarsi nei luoghi frequentati dalla persona offesa con l’utilizzo
del braccialetto elettronico, per controllare i destinatari di tale provvedimento. Nel caso di atti persecutori sarà
possibile ricorrere alle intercettazioni
telefoniche. Le pene saranno più severe, aumentando di un terzo nei casi più
gravi, e la vittima sarà informata sull’iter giudiziario della sua vicenda, tanto
da consentirle di conoscere le varie fasi
del processo a carico del suo persecutore, in modo tale da essere al corrente
in caso di una sua imminente scarcerazione. Considerato che, nel passato,
parecchie vittime di maltrattamenti in
famiglia, per il “quieto” vivere, hanno
poi ritirato le denunce (come Rosaria,
che, appena dimessa dall’ospedale, ha
dichiarato di voler perdonare il suo
compagno, che l’aveva pestata, ed è
rimbalzata agli onori della cronaca in
quanto il suo avvocato, per protesta,
ha rinunciato al caso), ma sono state
ugualmente uccise dal congiunto, la
querela sarà irrevocabile in caso di alto
rischio per la persona, specie in presenza di gravi minacce con armi.
La legge ha tenuto conto del fatto che
la violenza domestica può essere fisica,
sessuale, psicologica ed economica, diretta contro una donna solo perché è
donna, e la violenza contro le donne è
oggi considerata, finalmente, una violenza dei diritti umani.
Una nuova legge a tutela
della donna
di Nella Urso
È
ormai noto che col termine
femminicidio ci riferiamo a tutti
quei casi di omicidio in cui una
donna viene uccisa da un uomo, per
motivi relativi alla sua identità di genere. Il termine femicide veniva usato già
nel 1801 in Inghilterra, per indicare
l’uccisione di una donna.
In Italia non esiste un osservatorio
nazionale sul fenomeno come in altri
paesi, per esempio Spagna e Francia:
i dati vengono raccolti da associazioni
e gruppi di donne che si basano esclusivamente sulle notizie riportate dai
mass-media. Tale metodologia fa supporre una forte sottostima dei dati, in
quanto non tutti gli omicidi vengono
riportati dalla stampa, per cui qualsiasi conteggio risulta approssimativo. È
un’attività impegnativa, perché l’elenco va aggiornato giorno dopo giorno.
Il fenomeno, di dimensioni planetarie, non può essere più sottaciuto e
il 15 maggio 2011 è stata sottoscritta a Istanbul dai membri del Consiglio d’Europa la “Convenzione sulla
prevenzione della violenza contro le
donne e la lotta contro la violenza
domestica”. Tuttavia è previsto che la
convenzione entrerà in vigore (cioè diverrà vincolante per gli Stati membri
del Consiglio d’Europa) solo dopo che
almeno dieci stati membri l’avranno
ratificata: fino ad ora solo quattro stati
hanno fatto propria la legge (Albania,
Montenegro, Portogallo, Turchia); a
essi si è aggiunta l’Italia dal 16 luglio
2013. Il legislatore non è in grado di
risolvere da solo fenomeni di emergen-
za sociale complessi come la violenza
di genere e il femminicidio, ma può indicare una via e offrire gli strumenti
adeguati per percorrerla. È quello che
è accaduto l’11 ottobre 2013 con l’approvazione della legge sul femminicidio, che associa alle misure repressive
importanti iniziative sul fronte culturale, a partire dalla scuola. È solo educando i nostri ragazzi al rispetto reciproco che possiamo sperare in un reale
passo avanti, nel nostro Paese, per ciò
che concerne i rapporti tra uomini e
donne. Con il sì definitivo dell’aula
del Senato è stato approvato il decreto che contiene le misure per contrastare il femminicidio. Il testo è passato
con 143 si e 3 no, con una votazione
in tempi record. Tante le polemiche,
perché per la fretta, causa la scadenza
(14 ottobre), non si è potuta apportare
alcuna modifica al testo. Tra le misure
adottate: le vittime straniere avranno il
diritto al permesso di soggiorno come
sorta di atto umanitario; le donne che
non possono permettersi un avvocato, godranno del patrocinio gratuito;
cospicue somme di denaro sono state
stanziate per i centri antiviolenza. La
violenza di genere presuppone che ci
sia un genere dominante e uno dominato. Oggi l’emancipazione della
donna (partecipazione attiva alla vita
pubblica, inserimento nel campo del
lavoro e della formazione, la presenza nelle più alte cariche dello Stato e
nelle imprese, ecc.) è una realtà che
la sottrae a una forma di sottomissione patriarcale, restituendole un ruolo
19
Jakub S Chikaneder, Omicidio in casa,1890
comprimario nella società, quindi pari
dignità. Così l’uomo, abituato a ricoprire un ruolo dominante, reagisce scompostamente, vedendosi espropriato dei
propri privilegi. Oggi la donna, oltre a
essere madre, svolge un ruolo determinante all’interno della società, al pari
dell’uomo ed è quindi meno propensa
ad accettare vessazioni o limitazioni alle
sue prerogative; vuole affermare la propria personalità, vivere i cambiamenti
della società in continua evoluzione ed
è quindi meno vulnerabile e non sottostà a ricatti più o meno palesi. Il genere dominante non comprende o non
vuol comprendere la portata di questi
cambiamenti e riconduce il tutto a una
sminuita autorità, per cui, quando non
riesce a comporre un dissidio, a evitare
una delusione o di fronte a un tradimento della moglie o della compagna, diventa violento e sfoga il suo risentimento contro la donna che ha osato trasgredire. Per cambiare questo stato di cose,
per fermare questa spirale perversa che
porta ad assimilare la donna a un corpo, a un oggetto del quale l’uomo può
disporre a suo piacimento, è necessario
un cambiamento culturale profondo.
Possiamo dire che i primi timidi segnali
sono iniziati nel 1981, con l’abolizione del delitto d’onore. Grazie a diversi gruppi di pressione e al movimento
femminista, con la legge n. 452 del 5
agosto 1981, si rimediò a questa stortura. Fino ad allora la società patriarcale
considerava la donna un oggetto, la cui
esistenza si consumava all’interno delle
mura domestiche. Viveva uno stato di
sottomissione, e il suo compito, in linea
di massima, si estrinsecava nell’occuparsi a tempo pieno della famiglia, nel
partecipare alle attività contadine e pro-
20
creare: basta pensare che solo nel 1946
ha avuto riconosciuto il diritto al voto.
In una società maschilista, l’uomo poteva tradire, la donna no. Il legislatore
aveva previsto una riduzione di pena per
il marito che uccideva la moglie adultera, in quanto la trasgressione era considerata una gravissima provocazione e
bisognava salvaguardarne l’onore. Un
altro passo importante è stato compiuto
con la legge n. 66 del 15 febbraio 1996
sulla violenza sessuale, che per la prima
volta definiva lo stupro un reato contro
la persona e non contro la morale. La
legge prevede inoltre una raccolta di
dati necessari, per definire la dimensione del fenomeno delittuoso; l’accoglienza della vittima di violenza nei punti
di Pronto Soccorso, per la valutazione
del rischio, sia da parte degli operatori
sociali sia delle forze dell’ordine; il contrasto alla scorretta rappresentazione
della donna nelle immagini televisive;
l’informazione e la prevenzione della
violenza contro le donne nelle scuole e
la promozione dell’eguaglianza di genere. Su tutti questi aspetti sono chiamati
a operare i Centri antiviolenza che dovranno svolgere un lavoro capillare, il
quale diventa sempre più delicato, nella
gestione di un problema purtroppo sempre più drammaticamente presente nella società attuale. In Italia i primi centri
antiviolenza sono nati solo alla fine degli anni Novanta. Tra le più importanti
è giusto ricordare la “Casa delle donne
per non subire violenze” di Bologna e
la “Casa delle donne maltrattate” di Milano. Oggi sono diverse le associazioni
che lavorano sui vari tipi di violenza di
genere. Queste, consce del ruolo che
svolgono in campo nazionale, si sono
riunite nella “Rete nazionale dei Centri
antiviolenza e delle Case delle donne”.
Nel 2008 è nata una federazione nazionale che riunisce 63 Centri, denominata
“D.i.R.e.: Donne in Rete contro la Violenza alle donne”, che fa parte dell’organizzazione europea WaVe: Women
Against Violence Europe, con sede a
Vienna che raccoglie 4.000 Centri antiviolenza e D.i.R.e. di 45 Paesi europei.
Nella nostra provincia è molto attiva
l’Associazione “Le Nereidi”. Fondata
e diretta da Raffaella Mauceri, ha sede
presso la “ASL 8” di Siracusa e gestisce
cinque centri antiviolenza e sette sportelli di collegamento, che offrono sostegno e aiuto legale, psicologico e sociale
a donne e bambini vittime di maltrattamenti e abusi. I Centri antiviolenza “Le
Nereidi” costituiscono nel loro genere
un caso unico in Italia; in nessuna provincia italiana, infatti, esiste una rete di
cinque Centri e sette sportelli di collegamento strategicamente distribuiti nel
territorio, per essere vicini alle donne di
tutta la provincia. Uno dei centri periferici opera nel nostro Comune col nome
di “Doride”, ed è stato inaugurato nel
2012. L’agosto scorso anche in Avola
si è consumato un caso di femminicidio-suicidio, in seguito al quale, la presidente del Centro Dorotea Romano così
si è espressa: I percorsi di separazione fra
coniugi sono molto delicati e possono sfociare
in tragedia, per questo faccio appello a tutte
le donne in difficoltà, affinché si rivolgano a
noi e si lascino aiutare. Noi esistiamo – continua la Presidente – proprio per fornire
assistenza psicologica e legale alle donne vittime di maltrattamenti e, nei casi gravi, ci
mettiamo in contatto anche con case rifugio,
collaboriamo con le forze dell’ordine e con le
istituzioni per non far sentire le donne sole e
abbandonate.
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
di Sebastiano Burgaretta
A
novant’anni e più andava ancora visitando gli ammalati che ne
richiedevano le cure o solo magari un semplice consulto.
Era assai stimato da tutti come medico
e come uomo, un padre di famiglia era
considerato il dott. Vincenzo Mangano,
uomo d’altri tempi, che della professione
medica aveva fatto l’impronta peculiare
e fondante della sua persona e della sua
vita. Trattava i malati suoi pazienti col
profondo rispetto che si deve alla dignità
di ciascun uomo, quale che sia la condizione in cui questi si trovi a vivere. Era
la persona oggetto della sua attenzione e
delle sue cure, perciò egli era sempre disponibile, quando lo chiamavano, e non
tardava mai più del necessario nell’andare a visitare chiunque avesse bisogno
di lui, usando modi e cortesia umana di
stampo raro. S’intratteneva seduto a parlare con calma, e talora anche a scherzare, col malato e con i suoi familiari,
attento a tutto quanto gli veniva detto e
a mettere il paziente in condizione psicologica ottimale, ai fini di un contatto
relazionale e professionale che fosse il
più proficuo possibile. Toccava, palpava
con le mani, trattava familiarmente, ma
con serietà professionale inappuntabile,
le persone sofferenti, senza ritrosie né
titubanze. Non si tirava mai indietro,
neanche di fronte a piaghe purulente o
a condizioni igieniche precarie, che nel
passato erano assai comuni. Il tatto era
per lui sapiente strumento di diagnosi e
per il malato veicolo di conforto ancorché d’incipiente terapia. La fretta non
era contemplata durante le visite che
faceva a domicilio, e non c’erano per
lui ore proibite o riservate. Di giorno, di
notte, col sole, col vento, col sereno, con
il temporale il dott. Mangano andava da
tutti e dappertutto, spingendosi fin nelle
masserie di campagna, un tempo servendosi di una carrozzella e di uno gnuri che
teneva alle sue dipendenze, successivamente in automobile con autista, ma avventurandosi talvolta anche da solo alla
guida della sua Lancia Appia, quando
l’autista aveva il turno di riposo.
Sapeva operare piccoli interventi chirurgici di ogni tipo ed era un esperto e
ricercato ostetrico. Molte donne si sentivano rassicurate dalla sua assistenza e lo
preferivano alle mammane, le ostetriche
professionali che allora erano in tutti i
paesi. E ciò, nonostante nella cultura e
nella mentalità del popolo avere partorito col dottore, come si usava dire, significava avere avuto difficoltà e complicazioni durante il parto, cosa che era ritenuta pregiudizievole e quasi menomante
per le donne, il cui massimo motivo di
orgoglio era poter vantarsi per tutta la
vita d’aver dato alla luce i figli con l’assistenza della sola mammana, senza
l’intervento del dottore, il quale, oltre a
essere un esperto d’ordine superiore addetto proprio ad affrontare e risolvere i
casi difficili e complicati, in ultima analisi era pur sempre un uomo, che si faceva intervenire in una circostanza nella
quale si voleva che fossero tutte donne
le assistenti della partoriente. In certi
strati popolari era un irrinunciabile punto d’orgoglio, assai simile a quello che
induceva certe madri a esporre, dopo la
prima notte di nozze delle figlie, le lenzuola sporche del sangue verginale delle
spose a dimostrazione dell’illibatezza
delle loro figlie, a buon diritto presentatesi all’altare con abito e velo bianchi.
Il dott. Mangano, tastando il pancione
di una gestante o solamente guardandolo col suo occhio esperto, era in grado di prevedere il sesso del nascituro.
Quando poi osservava una donna negli
ultimi mesi di gestazione, raramente si
sbagliava e a ragione tutti in paese potevano dire al riguardo: Se l’ha detto il dott.
Mangano, è certo.
Tutte queste cose avevano fatto di
quel medico una figura nobile
e familiare al tempo stesso,
da rispettare quasi con
venerazione e alla quale potersi rivolgere con
fiducia in ogni momento e in ogni emergenza
medico-sanitaria. Era
un’autorità di cui fidarsi ed era molto
amato dalla gente.
Non per nulla lo
salutavano tutti in
paese
dicendogli
con deferenza: Voscenza benedica!
Molto spesso dalle famiglie povere non si
faceva pagare e anzi
allungava la mano,
per lasciare il dena-
RACCONTO
La professione di Vincenzo Mangano
ro necessario a comprare le medicine per
le cure dei malati. Con questi gli capitava di vivere in empatia e li seguiva umanamente, anche quando ormai erano
guariti, mantenendo con loro rapporti
cordiali. Numerosi furono i bambini e i
fanciulli che, su richiesta dei loro genitori, vennero tenuti a battesimo o presentati alla cresima dal dott. Mangano, che
non rifiutò mai anche questa personale
cortesia a quanti gliela chiedessero per la
stima che avevano di lui e per il bene che
gli volevano.
Nonostante la completa dedizione al suo
lavoro, egli non lasciava trapelare a casa
sua, all’ora del pranzo e della cena, le
sole in cui i familiari potevano vederlo,
nulla di quanto andava vivendo e introiettando nel contatto con i malati in giro
per il paese. Distingueva con puntiglioso
rigore, nell’esercizio della sua professione, il pubblico dal privato e non voleva
che i suoi familiari subissero i contraccolpi delle situazioni gravi che egli affrontava quotidianamente e che voleva
restassero deposito e retaggio suoi personali soltanto. Del resto i suoi figli erano
stati educati dalla loro madre a non fare
domande a papà sul suo lavoro e a lasciarlo pranzare in tranquillità. C’erano
però delle volte in cui ogni cautela e ogni
riguardo in famiglia risultavano vani, e
ciò succedeva quando il dottore rientrava assai stanco e provato, al punto da rinunciare a prendere cibo, per ritirarsi in
camera a distendersi e riposare,
in attesa di riprendere, verso le
ore quindici, il giro delle
visite. Talvolta, con discrezione e senza far
motto, andava direttamente a chiudersi
in bagno, dove finiva per rimettere quel
po’ di cibo che aveva
ingerito la mattina a
colazione. Capivano tutti
allora che quella era stata
una giornata particolarmente dura, con
qualche caso piuttosto grave, se il
loro congiunto,
pur così esperto
e così controllato, aveva empatizzato col ma-
21
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
lato al punto da somatizzare il disagio
vissuto nel contatto con la malattia e i
suoi segni esteriori.
Dopo che andò in pensione, il dott.
Mangano non poté e non volle di fatto
ritirarsi a vita privata, perché, ricercato
com’era, dovette continuare a visitare e
curare i malati, che a lui si rivolgevano
per la grande stima e fiducia che avevano
verso di lui. Ciò gli permise di coltivare,
come sempre aveva fatto, buoni rapporti
con tutti e di mantenersi lucido e attivo
per lunghi anni ancora.
Aveva superato i novanta, quando gli
fu chiesta dal prof. Canto, che con la
propria famiglia era stato da sempre
suo paziente, la cortesia di visitare una
signora lombarda, moglie di un suo
carissimo amico scrittore, narratore tra
i più grandi in Italia e vincitore proprio
quell’anno del premio Strega, il quale
con la consorte era in vacanza in paese,
ospite del professore. Da alcuni giorni
la donna aveva accusato un malessere
insistente allo stomaco e s’era dovuta
arrendere all’idea, inizialmente da lei
scartata, di ricorrere all’aiuto di un
medico, per quanto bravo e di provata
esperienza professionale. Il medico cui
ricorrere per i casi difficili e delicati,
specialmente proprio per i problemi di
natura gastro-intestinale, in paese era da
sempre notoriamente il dott. Mangano,
che nella fattispecie, per la sua bravura,
era consultato da pazienti provenienti
anche da altre province. Da lui perciò,
previa richiesta telefonica, furono
accompagnati lo scrittore e la consorte.
La visita durò quasi un’ora, e, alla fine di
essa, i due coniugi uscirono ricreati nello
spirito e pieni di meravigliato stupore,
come raccontarono con soddisfazione
all’amico, il quale era rimasto in sala
d’attesa, per la professionalità, l’umanità,
la capacità d’ascolto e d’interlocuzione,
l’attenzione, il tatto, la grazia con cui il
medico li aveva accolti e aveva visitato
la signora, alla quale aveva rilasciato
la diagnosi del malessere e la relativa
prescrizione terapeutica.
22
I due furono colpiti dalla sensibilità e dal
rispetto con cui il dottore aveva trattato
la paziente, mettendola subito a suo agio
e, al momento opportuno, tastandole
ventre e addome con grande delicatezza
e servendosi di un lindissimo panno di
lino bianco, che andava delicatamente
spostando a mano a mano che esplorava con le dita e con i palmi delle mani
il corpo della donna. Un medico d’altri
tempi – lo definì lì per lì lo scrittore – di
uno stampo professionale e di una misura umana altrove ormai introvabili.
Peraltro non ha permesso che lo pagassimo a conclusione della accuratissima
visita – raccontò all’amico – ritenendosi
compensato dall’onore che gli abbiamo
fatto rivolgendoci, dietro tuo interessamento, a lui per questa nostra necessità.
La cosa non mi sorprende più di tanto
– gli rispose l’amico – poiché conosco
bene la statura dell’uomo che sta dentro
il medico. E volle raccontare allo scrittore e a sua moglie una vecchia storia di
famiglia, risalente a cinquant’anni prima, quando, lui non ancora nato, negli
anni della seconda guerra mondiale, la
propria madre, ch’era rimasta sola con i
due figli maggiori allora bambini, poiché
il marito era in guerra, s’era gravemente
ammalata di tifo. In quella circostanza
il dott. Mangano, medico di famiglia,
l’aveva curata, anche quando la donna
aveva finito i soldi che le aveva lasciato
il marito, prima di partire richiamato
alle armi. A un certo momento, non potendo più pagare le visite del medico né
l’acquisto dei medicinali, la donna, che
dopo mesi di cure mostrava finalmente
segni di ripresa e si avviava alla guarigione, rischiava di non poter completare la
terapia.
Genitori compresi, i parenti di lei, alcuni dei quali in buone condizioni economiche, s’erano, uno dopo l’altro, defilati
davanti alla necessità di reperire il denaro necessario all’acquisto dei medicinali.
Anzi, convinti che la loro congiunta sarebbe presto morta, parlando fra di loro,
in presenza della stessa donna che giace-
va a letto sofferente con gli occhi chiusi
ma a mente vigile e con buon udito, si
lasciavano andare, preoccupati com’erano, ad amare considerazioni, arrivando
a dire: E se Venerina, questo il nome della donna, muore, dove finiranno questi due
bambini? Chi se li dovrà prendere in casa?
Che fine faranno, visto che non si sa se il loro
padre è vivo, è morto, se nemmeno tornerà
dalla guerra..?
Davanti a questa emergenza, con gesto
deciso e quasi indispettito, per l’atteggiamento dei parenti della signora Venerina, i quali avevano espresso anche a lui
direttamente le loro perplessità e le loro
preoccupazioni, il dott. Mangano decise di continuare a curare a oltranza la
donna a sue spese e di procurarle anche
tutti i farmaci necessari, incoraggiato e
fiducioso, com’era da parte sua, per i risultati che le cure avevano fino ad allora
prodotto. E in effetti la signora Venerina
guarì da quella grave forma di tifo.
Quando, a guerra finita, tornò dalla prigionia, trascorsa in campo americano
prima e francese dopo, suo marito cominciò subito a lavorare. Coi primi soldi che guadagnò si recò a casa del dott.
Mangano, perché intendeva saldare il
debito contratto dalla moglie, in sua assenza, a causa della malattia. Ebbene,
il medico non volle prendere nemmeno
una lira e anzi ringraziò il reduce per il
gesto di riconoscenza che aveva avuto
verso di lui, non appena tornato a casa
dopo cinque anni di assenza dovuta alla
guerra. Gli augurò di godersi quei soldi,
impiegandoli in altro modo per i suoi
bambini e per la famiglia tutta.
Lo scrittore, ulteriormente ricreato da
questi dettagli e confermato nell’opinione che del medico s’era fatto, disse con
convinzione all’amico:
Io mi ricorderò di questo
medico e voglio scrivere,
prima o poi, un racconto
su di lui.
ANNIVERSARIO
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
Giuseppe Bianca a 130 anni dalla morte
di Corrado Piccione
G
iuseppe Bianca è
fra i più conosciuti nel mondo della
cultura, anche se oggi è quasi
dimenticato dai suoi conterranei e sconosciuto alle nuove
generazioni.
La colpa di tutto ciò è da attribuirsi a noi adulti, che non
abbiamo saputo mantenere
in vita i valori storici, sociali
e culturali dei nostri antenati,
che sono emersi nei vari settori
delle scienze. Lucrezio paragonava il ciclo della vita e della
storia allo scambio della fiaccola che i tedofori compiono
durante una corsa; la fiaccola
della vita, che ogni generazione trasmette a quella successiva. La cultura, la storia, il
miglioramento sociale, sono di
vitale importanza per una realtà che vuole svilupparsi. Puntare sull’educazione dei giovani, è fondamentale perché essi
rappresentano il futuro. Vorrei
citare un episodio accaduto
tempo fa durante una conferenza avente per tema “La natura”; su una diapositiva, dove
era raffigurato un fiore e sotto
il quale si evidenziava il nome
di “G. Bianca”, il relatore, pur
essendo avolese ed esperto
in botanica, non sapeva che
la G. corrispondesse al nome
Giuseppe e non Giovanni: una
grave lacuna imperdonabile.
La memoria storica non va
mantenuta solo a scuola e dai
genitori nel ricordare il passato attraverso i nostri discorsi;
sono le lapidi, i busti, le intitolazioni di strade, a ricordarci
gli uomini illustri del passato.
È opinione diffusa che Avola,
essendo stata cittadina di estrazione feudale, priva di un ceto
medio-borghese culturalmente
progredito, non abbia avuto
delle tradizioni culturali. Purtroppo Avola non ha avuto il
culto di ricordare i suoi figli
più illustri.
Tra la fine dell’Ottocento e gli
23
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
inizi del Novecento ad Avola
vi fu una fiorente attività culturale giornalistica; ne è testimonianza la pubblicazione di
periodici e quotidiani come: Il
Diritto, L’Occasione, La Frusta,
Il Tribuno, La Sveglia, Il Risveglio, La Verità, Il Prometeo e Il
Paese, quest’ultimo settimanale a vocazione politico-amministrativa e letteraria, stampato presso la tipografia Eugenio
Piazza.
L’edizione del 22 novembre
1883 fu dedicata interamente
a Giuseppe Bianca e al suo
elogio funebre, fatto da Vincenzo Perez, in occasione
della scomparsa dell’amico e
celebre concittadino. Sempre
nello stesso settimanale, in
una successiva occasione, il
Perez scriveva testualmente:
…tempo verrà, e non lontano,
che la figura veneranda del nostro
illustre concittadino sarà ritratta
intera. Per ora, nel lutto profondo
della Patria, nella commozione
dell’animo desolato, non abbiamo per quel sepolcro che corone
d’alloro e lacrime ardenti.
A 130 anni dalla sua morte,
mi piace riportare quello che
Il Paese, giornale politico–amministrativo–letterario, il 22
novembre del 1883 dedicò in
occasione della sua morte.
Giuseppe Bianca aveva cessato di vivere il 12 novembre.
Il giornale riporta molti necrologi dei vari amici e conoscenti del grande botanico. Dopo
aver detto tanto sul Bianca,
non posso esimermi dal mostrare a tutti il predetto giornale.
Nel numero citato vi è anche
una versione latina del Bianca dell’ode manzoniana “Il 5
maggio”.
Da qualche tempo mi sono
accorto con grande rammarico che nella scuola a lui dedicata è scomparso dall’atrio
d’ingresso il busto che ne ricordava i tratti fisici e le date
di nascita e di morte; al suo
posto ora c’è una scala.
24
di Gaetano Munafò
U
n giorno, leggendo sul “Sole 24
ore”, un articolo su Silvio Berlusconi riguardante la trasmissione di
Michele Santoro, che lui paragonava a un
lugubre carro di Tespi, mi riportai con la
mente a quando, da piccolo, ebbi l’occasione
di vedere i carri di Tespi ad Avola.
Nel 1936, una mattina (avevo già 9 anni
compiuti), verso la metà di luglio, trovandomi insieme ai miei compagni al lido per fare
il bagno, in piazza “Esedra” vidi dei camion
che scaricavano dei materiali, in gran parte di
legno. Verso mezzogiorno, ritornando verso
casa, mi accorsi che gran parte di materiale
era già stato montato. La curiosità fu tale che
mi spinse a sapere qualcosa di più. Il personale addetto ai lavori mi disse che si trattava
di un teatro ambulante, chiamato carro di Tespi, e che, proprio quella sera, si doveva dare
la prima recita. Di pomeriggio, incontratomi
con gli altri compagni in piazza “Vittorio
Veneto” (piazza “Tre leoni”), dove spesso
giocavamo al calcio, decidemmo di andare a
vedere. Gli amici più vicini a me erano: Sebastiano Consiglio, mio compagno di scuola, Gino Scifo, Michele Giallongo, Salvatore
Scaglione e tanti altri, tutti più grandi di me.
Ci incontrammo verso le ore 20:00 in piazza “Tre leoni” e ci incamminammo verso il
viale Lido: lo spettacolo iniziava alle 21:30.
MEMORIE
I carri di Tespi ad Avola
Quando arrivammo a metà strada, ove c’era
una vecchia casa agricola, ci accorgemmo
che lì si controllavano i biglietti d’ingresso al
teatro. Essendone noi sprovvisti, Sebastiano
Consiglio, che era sempre quello che prendeva le decisioni, propose di penetrare nella
campagna e raggiungere il teatro eludendo
così il controllo. Arrivati dove era sistemato il
teatro, dato che era tutto chiuso attorno con
teloni, noi da un fianco, dove non ci vedeva
nessuno, visto che ormai era buio, uno alla
volta alzavamo il telone e, strisciando carponi, entravamo. La prima sera ricordo che recitarono l’Aida di Verdi. L’indomani a scuola
ne parlammo con il maestro, che si chiamava
come me Gaetano Munafò. Con piacere egli
ci spiegò cosa erano i carri di Tespi; eravamo
in quarta elementare. Si chiamavano così dal
nome di chi li aveva ideati, un antico drammaturgo greco, Tespi. I carri erano dei teatri
ambulanti. Nel 1929 il fascismo aveva fondato l’Opera Nazionale Dopolavoro, per dare
spettacoli in tutta Italia a prezzi contenuti,
per creare posti di lavoro e diffondere nello
stesso tempo la propaganda fascista. Il primo
carro di Tespi fu inaugurato a Roma nel 1929
e mise in scena l’Oreste di Alfieri; dopo la prima recita nella Piazza del Pincio, partì per
dare spettacoli in tutta la penisola.
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
RIFLESSIONE
Viva la bicicletta
di Roberta Coffa
H
o sempre amato i proverbi
“antichi”, quelli che mia
nonna ama inserire in ogni
tipo di discussione.
“Non tutti i mali vengono per
nuocere”. Prendiamo, ad esempio,
l’ormai famigerato “caro-benzina”.
Chi l’avrebbe mai detto che avrebbe
portato con sé anche qualcosa di
positivo… Eppure è così! Non ho mai
visto girare per Avola tante biciclette
come quelle che si vedono in questo
periodo. E la cosa mi riempie di gioia,
dato che ho sempre amato l’attività
fisica e il rispetto dell’ambiente.
La bicicletta: uno strumento che
unisce in sé quanto di più positivo si
possa ritrovare in un comune mezzo
di trasporto. Fa bene alla salute,
all’ambiente e alle nostre tasche! Il
mezzo eco-sostenibile per eccellenza,
dalle potenzialità in parte trascurate
da chi potrebbe, invece, come noi
avolesi, metterle in luce tutte.
Abituati a vederla per lo più in uso a
turisti e a ragazzini, che la utilizzano
come gioco estivo, non riusciamo ad
allargare i nostri orizzonti e ad esaltare
la sua funzionalità. La bicicletta
dovrebbe, infatti, essere utilizzata
da tutti noi per le comuni attività
quotidiane, come andare a lavoro
o svolgere le piccole commissioni
di tutti i giorni. Tanto più che la
morfologia territoriale del nostro
paese ne consente un uso pressoché
illimitato. Nessuna salita ripida o
discesa pericolosa, nessun notevole
dislivello tra un capo e l’altro.
Anche le condizioni meteorologiche
della nostra cittadina ne favoriscono
l’utilizzo. A eccezione, infatti, di
quei pochissimi mesi di “freddo”,
non più di tre, la bicicletta potrebbe
essere tranquillamente utilizzata tutto
l’anno.
Dovremmo essere proprio noi giovani
a dare l’esempio, imitando, a nostra
volta, quanto avviene già da tempo in
altre realtà della nostra stessa penisola,
in città dove, magari, non godono
neanche di quelle condizioni ideali
che abbiamo la fortuna di vantare qui
da noi.
E se dovesse essere proprio la necessità
di lasciare a casa le automobili per
sostituirle con la cara vecchia bicicletta
abbandonata da chissà quanto tempo
in garage, magari per l’incedere
inesorabile del “caro-benzina”, che
ben venga!!
Impariamo a cogliere
il bello anche dalle
cose negative! Al di là
dell’aspetto economico,
impareremo, in tal
modo, a rispettare
di più noi stessi, la
nostra salute e quella
della nostra Avola,
che si presenterebbe
sicuramente più
invitante per i visitatori
e più a misura delle
nuove generazioni.
25
ATTUALITÀ
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
La scuola che non c’è. O no?
di Carmine Tedesco
Il titolo è volutamente
provocatorio.
Per mia scelta, volendo
e dovendo fotografare
la situazione di grossa
emergenza in cui
versa da tempo e
segnatamente oggi il
mondo della scuola in
tutti i suoi aspetti.
La speranza, però, non si arrende. Noi
della vecchia guardia, quantunque ormai
solamente come osservatori esterni,
non abbiamo mai smesso di sperare e
pregare perché le cose della scuola possano e debbano, anno dopo anno, cambiare, rivitalizzarsi, migliorare. Tuttavia, anche l’inizio di questo nuovo
anno scolastico, nonostante le proposte
innovative contenute nel Decreto legge
n. 104/2013 del Governo Letta – attualmente in discussione alla VII Commissione della Camera per la conversione
in Legge –, non presenta elementi sufficienti, finanziari e non, per fugare le
preoccupazioni e le attese degli addetti
ai lavori (Dirigenti, personale, genitori,
utenti).
Il fatto è che l’attuale clima politico,
unitamente alla congiuntura economica
che l’Italia attraversa, distraggono chi di
dovere dal dare la necessaria attenzione
alle questioni di politica scolastica. Da
qui, puntualmente, il perpetuarsi degli
interrogativi degli interessati, destinati
ad appesantire lo sconforto e aumentare
le perplessità. Tutto questo, nonostante
la industria scolastica sia tra le principali
industrie del Paese, in quanto coinvolge, per numero di addetti e per risorse,
oltre la metà della popolazione. Sebbene condizioni, nel bene e nel male, nolenti o volenti, l’esistenza di ciascuno
di noi, essa rimane ancorata all’ultimo
posto – lo dico con sofferenza – nelle
scelte politiche degli ultimi anni. Il
motivo – si fa per dire – è molto semplice: è un’industria economicamente
improduttiva (ovviamente secondo la
distorta vulgata popolare). Non ci si
26
rende conto (o non si vuole rendersene
conto) che la scuola, accanto e unitamente alla famiglia, è la più influente
e indispensabile delle industrie; da essa
dipendono il destino del popolo e dei
singoli, della produzione e della ricerca, dello sviluppo e delle conquiste, del
progresso scientifico, della letteratura,
della civiltà in generale dell’intera Nazione. È ormai universalmente condivisa la convinzione che là dove c’è una
scuola funzionante, protetta e accudita
i problemi, tutti i problemi, vengono a
risolversi quasi da soli, senza forzature e interventi esterni, perché alla base
delle azioni personali e/o collettive c’è
la fedeltà a se stessi, ai principi, alla comunità, alla Patria.
Per converso, la cronaca di questi tempi
avvilisce la scuola coi soliti problemi, fa
nascere tante domande e tante incertezze, frena la speranza. Pure quest’anno il
nostro sistema scolastico nazionale ripropone il passato e il futuro si presenta
tenebroso e inquietante; gli scolari e gli
studenti – anche universitari – corrono
seriamente il rischio di dovere crescere
e formarsi in una società debole e sotto
l’influsso di una classe politica litigiosa e mediamente inefficiente. Nessuno,
dico nessuno, ha il coraggio (o il potere)
di affrontare i numerosi, gravi e annosi
problemi che attanagliano la scuola: risorse economiche ed edilizia scolastica,
organico del personale e messa in sicurezza degli edifici, formazione iniziale
e in itinere dei docenti, seria selezione
delle professionalità, reale autonomia
didattica e organizzativa, partecipazione sostanziale delle famiglie. Queste e
altre questioni – tutte interdipendenti
– non sembrano essere all’ordine del
giorno degli interventi legislativi nazionali e locali, se si fa eccezione per gli
spunti interessanti inseriti nel citato DL
n.104. Noi, come sempre fiduciosi, ci
auguriamo che le buone intenzioni in
esso espresse non si disperdano, come
purtroppo l’evaporazione inspiegabile
di tante popolarmente condivise iniziative legislative degli ultimi anni ci
ha insegnato, assestando l’ennesimo
schiaffo all’istruzione da parte della
politica. L’orizzonte della scuola, oggi,
non è per niente rassicurante. Bisogna,
comunque, che ciascuno di noi si senta
pars costruens del rinnovamento e del
potenziamento di tutti i suoi settori per
quel che può e per quello che sa fare.
Non c’è più il tempo, per andare alla
ricerca di questo o quel responsabile
dei ritardi o delle inadeguatezze, delle
discrepanze e del disordine in atto: è
impellente che ciascuno di noi si chieda
se ha fatto quel poco che poteva fare;
né c’è il tempo per pensare di affidare
le sorti della nostra scuola all’intervento provvidenziale del salvatore speciale:
tutti, in misura e qualità diverse, dobbiamo sentirci responsabili della situazione in cui oggi versa la scuola e tutti
dobbiamo scuoterne le fondamenta per
elevarne la dignità compromessa; è in
gioco non solo il destino della Nazione
ma ne va anche della dignità personale,
della indipendenza di ciascuno, dell’orgoglio di essere cittadino italiano. Risulterebbe comodo e semplice accusare
dello sfascio attuale i partiti, questo o
quel governo, questo o l’altro ministro,
la legislazione attuale o la precedente,
le traballanti condizioni economiche
del Paese, la crisi internazionale, l’instabilità politica, l’inconcludenza del
potere esecutivo, gli interessi di parte
dei politici. Ciascuno di noi ha una fetta di responsabilità. Interroghiamoci,
allora, cercando di dare – ciascuno a sé
stesso – una risposta accettabile.
Come cittadini, cosa
abbiamo fatto per
prevenire o tamponare
il presente scadimento?
Ci siamo impegnati a
proporre, indirizzare,
costruire? Abbiamo solo
criticato o anche suggerito
rimedi? Quale appoggio
abbiamo fornito agli
operatori scolastici per
affrontare al meglio il
gravoso peso del dirigere
e dell’insegnare?
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
Nota aggiuntiva
Con l’approvazione del Senato,
il 7 nov. 2013, il Dl n. 104 è stato
convertito in Legge. Tra l’altro,
essa prevede l’assunzione di
69.000 docenti – di cui 26.000
di sostegno – e di 16.000 unità
di personale ATA per il triennio
2014/2016, con un impegno di
spesa di ben 450 mln di Euro.
Ma le novità sono parecchie e
interessanti. Conviene a tutti,
anche ai genitori, leggere la
nuova Legge con attenzione.
Un oro avolese al
Mondiale 10 Dance
DANZA
Siamo in pace con la nostra coscienza, per avere operato come
soggetti portatori di diritti e di
doveri soggettivi, civili e sociali? Abbiamo pensato di più a
noi stessi e meno al benessere
della collettività? Siamo convinti sostenitori dei principi democratici che siamo chiamati a
trasmettere ai nostri allievi? E
li pratichiamo o ci limitiamo a
predicarli? Siamo persuasi che
l’educazione, la cultura e la civiltà di una generazione dipendono anche da noi e non solo
dagli altri? Siamo fermamente
convinti che dobbiamo lasciare
ai nostri figli una scuola, una
società e un’Italia migliore di
quelle che stiamo vivendo noi?
Siamo consapevoli che prima
di guardare a ciò che fanno gli
altri dobbiamo pensare a ciò
che facciamo noi singolarmente? Viviamo il fuggevole presente con ignavia o con operosità?
Come osservatori distaccati o
come operatori responsabili?
Come individui o come comunità? Con egoismo o con generosità? Guardiamo il futuro
con fiducia o con svilimento?
Ognuno si dia delle risposte. E
poi ripartiamo: la scuola c’è!
ndr
A
Pomezia Terme si sono
svolti i “Campionati del
Mondo 10 Dance WDSF
World Championship PD” e Salvo
Caruso e Ketty Cultrera, coppia
di ballerini professionisti della
FIDS (Federazione Italiana Danza
Sportiva affiliata CONI) hanno
vinto l’oro. Si tratta di una coppia
di giovani ballerini siciliani (lui
avolese e lei floridiana) che ballano
insieme da quindici anni; dalle
città d’origine si sono trasferiti
a Pisa dieci anni fa per lavorare
da professionisti. Nel corso di
questi anni hanno meritato tanti
premi; dopo essere stati nel 2010
vice campioni italiani e nel 2011
mondiali, dal 2011 al 2013 si sono
sempre classificati come campioni
d’Italia, sempre nella stessa
specialità 10 Dance. La premiazione
è stata effettuata dal Presidente
della Federazione Italiana Danza
Sportiva, Christian Zamblera. La
coppia, superba nelle prestazioni
e affiatata, porta alto non solo
il nome dell’Italia, ma anche
quello della regione e delle città
di appartenenza. Ad Avola il 29
dicembre il Sindaco ha consegnato
una targa a Salvo Caruso come
attestato di stima per l’onore che
ha fatto alla città natale.
Il 29 novembre 2013 al Palasport di Pomezia
Di seguito riportiamo la classifica finale del Mondiale 10 Dance del Roma Open 2013:
1. Salvatore Caruso - Concetta Cultrera (Italia);
2. Philipp Hanus - Siri Kirchmann (Germania);
3. Marco Cuocci - Provvidenza Gebbia (Italia);
4. Yvo Eussen - Elisabeth Novotny (Svezia);
5. Steeve Gaudet - Marioara Cheptene (Francia);
6. Anton Silantev - Olga Akopova (Russia).
27
REPORTAGE
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
Perle d’Asia
di Alessandro Zagarella
Il Mekong, immenso fiume d’Asia,
scorre nel buio lungofiume,
mentre
l’enorme luna piena si specchia sul
livore
dell’acqua,
accarezzando con
la sua luce gli edifici caratteristici dalle forme allungate,
così orientali, che
risplendono d’oro.
Gli stessi colori dipingono il palazzo
reale, tra le statue di
Buddha dagli occhi
di zaffiro che compongono il tesoro
della dinastia regnante. Nel labirinto degli scintillanti
edifici, gli occhi si
perdono tra il verde
dei giardini e l’intensa cromatura gialla
degli appartamenti del sovrano.
Ventidue ore di volo separano dall’Europa la Perla d’Asia, come ai tempi
d’oro era definita Phnom Penh. Giungendo fin qua, da Bangkok o Hanoi, il
Paese dall’alto sembra un grande pantano, una risaia immensa, dove le piogge
danno vita ad acquitrini paludosi senza
orizzonte, in cui scorrono le poche venature nere di asfalto che collegano il
nulla della campagna al traffico delle
città. Una marea di veicoli e persone alimentano le arterie in un disordine ordinato di intrecci, incroci, vicoli.
Nella periferia sud, costeggiando lo stadio olimpico, verso il mercato russo, tra
templi buddhisti, trasportatori di ghiaccio e improbabili estetiste che sul ciglio
della strada accolgono le loro clienti su
una sedia di plastica e qualche smalto,
gli odori delle fogne a cielo aperto diventano un’abitudine. Le strade, ora di terra
battuta, sono quelle segnate dai coloni
francesi nel tentativo di ridare un assetto
razionale a questa città. I russi, che durante la guerra fredda tenevano sotto la
loro sottile coperta anche questa terra,
si ritrovavano in questo cumulo di lamiere in cui l’acquisto di un velo di seta
diventa esperienza di vita, così lontano
dai circuiti del consumismo, così vicino
ai prodotti che affollano le nostre vetri-
Phnom Penh, Palazzo Reale
N
eri. Brillanti come perle, riflettono il magnesio che illumina
a lampi l’acqua della fontana,
fiume disegnato al centro della hall.
Neri i suoi occhi, i capelli d’ebano, la
pelle di miele, in capo al suo abitino
nero si sporge, sorridendo, al giovane
concierge, consegnandogli un mazzetto
di Reis1. Qui, davanti alla porta, seduto al mio tavolo occidentale, accanto
una famiglia – madre, figlioletto, figlia
e padre – dorme tra i cartoni adagiati
sul ciglio della strada. Una montagna
di rifiuti blocca l’autobus che cerca di
passare all’altro angolo dell’Avenue
Charles-de-Gaulle, nome di lontana eco
francese, mentre l’insegna in cirillico del
ristorante di fronte racconta il recente
passato vissuto all’ombra del gigante sovietico: Cambogia.
L’umidità nell’aria annacqua l’arancione dei lampioni che illuminano la notte
di Phnom Penh2. Odori di verdure grigliate, cavallette arrostite e vermi bolliti dal bar a fianco, la birra thailandese
Singha mi riporta un po’ all’Europa,
con la sua confezione rossa – riprende
la maglia dei Diavoli Rossi di Manchester, non lo crederesti ma il calcio arriva
fin qui, a questo angolo di mondo dove
qualche australiano e anziani occidentali, cercano gambe giovani, fin troppo,
per soddisfare i loro istinti.
28
“I matrimoni qui si celebrano al massimo entro i quattordici anni”, l’età del
sesso arriva prima e il giovane cambogiano che parla perfettamente inglese, a
bordo del suo tuk-tuk3, mentre ti porta
in giro nel buio del quartiere Chaktomuk, tra le migliori case della capitale,
ti spiega che essere una prostituta-bambina non è uno scandalo. C’è una famiglia da tirare avanti e, qui, solo se hai
qualche soldo puoi permetterti di passare una notte in compagnia o di sposarti,
altro che amore.
Il mercato centrale, giallo con la cupola azzurra al centro, ha spento da molte
ore le sue luci, lasciando posto al cobalto di un’alba che non tarderà molto
ad arrivare. Di giorno odori irripetibili,
volti sorridenti, donne che ti invitano
con un cenno a comprare nella loro bancarella repliche del lusso occidentale: i
cambogiani sembrano essere tranquilli,
nonostante i piedi nudi, il poco riso da
mangiare a pranzo e i massacranti turni
di lavoro, dalle primi luci del mattino
alle ultime della sera. Sorridono perché
hanno ben impressa in mente la fortuna della vita, giovani generazioni, figlie
dei sopravvissuti al regime dei Khmer
Rossi4 che, come ricorda il crudissimo
Museo del Genocidio di Tuong Slel, si
nutriva della pulizia etnica di troppi innocenti.
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
dove i nerissimi templi
di Angkor, l’area sacra
più vasta al mondo5, si
nascondono sotto la natura, oltre i fossati d’acqua scavati più di mille
anni fa dai mitologici
sovrani Khmer. Perfettamente simmetrici, dalla
sagoma inconfondibile,
d’arenaria e laterite, si
stagliano confusi tra gli
immensi alberi della foresta, testimoni dell’uomo
di ieri per l’uomo di oggi.
Dentro, i bassorilievi narrano eventi non troppo
distanti dai nostri miti,
divinità bellissime che
combattono diavoli in oceani di latte.
Gli incensi accendono gli angoli bui, tra
Indù e Buddha, mentre lo spirito si apre
respirando numi. Le piogge improvvise
sferzano la terra, allagando completamente le strade di sabbia che collegano
un complesso all’altro, colorando l’at-
Phnom Penh,
Kampuchea Krom
Boulevard
ne. Sono le campagne di questo Paese
che ospitano le produzioni delocalizzate dei manufatti in cotone di molte multinazionali dell’abbigliamento, così sia.
E superando le campagne, con un vecchio aereo a elica di memoria sovietica, si sale fino alle giungle del nord
mosfera di quei toni che gli esploratori francesi ammirarono duecento anni
fa, sorpresi da opere di così imponente
bellezza. Da Angkor Wat, ad Angkor
Tom, dal Bapuhon, fino a Bayon: le radici degli alberi si confondono alle fondamenta, nell’unica unione possibile tra
uomo e natura, anima e spirito. In questi luoghi di culto di un sovrano ormai
dimenticato, un Buddha dorme sul lato,
nel retro di un palazzo, mentre quattro
volti identici, neri di pietra, si ripetono
nelle guglie, che guardano al cielo. Neri,
come perle, come gli occhi di una donna troppo bambina che infila il rotolo di
banconote nel taschino del concierge,
come se fosse un gioco, consegnandogli
con l’altra mano la chiave della stanza
nella quale lavorava fino a qualche minuto fa. Mi sfiora accanto, sorride. Un
ragazzo su una vecchia motocicletta
la aspetta sul ciglio della strada, lei lo
bacia e salta dietro, sparendo più in là,
nell’umida alba in cui un sole d’Asia dai
toni porpora abbraccia indifferente questa città, la fine di un mondo.
Siem Reap, Angkor Wat
NOTE
La moneta locale cambogiana è il Reis (del valore di circa 2 $
USA). I dollari statunitensi sono, di fatto, la seconda valuta locale.
1
Phnom Penh deve il suo nome alla sua fondatrice, Penh. Il nome
della città significa, infatti, “Monte di Penh”.
2
Il tuk-tuk è un pittoresco taxi a tre ruote utilizzato in quasi tutta
l’Asia, della quale può essere considerato un simbolo cittadino.
Il nome deriva molto probabilmente dal rumore del motore
generalmente a due tempi di estrazione motociclistica. Della stessa
estrazione è anche l’impostazione di guida, infatti nel piccolo
abitacolo destinato al guidatore è presente un manubrio anziché un
volante automobilistico.
3
Così venivano chiamati i componenti del Partito Comunista di
Kampuchea, partito politico comunista cambogiano, fondato nel
4
1951, che governò la Cambogia dal 17 aprile 1975 al 9 gennaio 1979
con il terribile regime del dittatore Pol Pot. Il partito dei Khmer Rossi
è associato al genocidio cambogiano avvenuto tra il 1975 e il 1979,
che avrebbe causato la morte di circa 2,5 milioni di persone attraverso
carestia, lavori forzati ed esecuzioni. Fu uno dei regimi più violenti del
XX secolo ed è a oggi il regime con la più alta percentuale tra popolazione
e numero di morti (20%).
5
La maggioranza dei templi più noti e visitati è concentrata in un’area di
circa 15 per 6 km, 5 km a nord di Siem Reap, ma l’area totale definibile
come Angkor è molto più vasta: il Parco Archeologico di Angkor si
estende su 400 km² e comprende siti come Kbal Spean, distante 40 km
dalla zona centrale.
29
Zia Angelina
e il quartiere
di Sebastiano Di Maria
Cuncittina… unni sta partennu
to figghiu..? Così gridava la zia
Angelina (anni 79), alla vista del
piccolo Tanino (anni 6) che si stava
imprudentemente allontanando
da casa, distante quasi cento
metri. La via Bellinzona, prima
di sfociare nella via Lincoln,
si restringeva a causa di una
costruzione fuori linea, creando
un piccolo enclave, all’angolo
del quale insisteva il monolocale
della zia Angelina. Chiunque
percorreva quel tratto di strada
era costretto a “pagare pedaggio”
alla curiosa ma vigile nonnina. La
regola, naturalmente non valeva
per tutti; per gli uomini adulti non
c’era problema, perché non stava
bene che una donna, per quanto
avanti negli anni, si intromettesse
nei fatti di un uomo; era un codice
antico, rispettato da sempre. Ma
le donne, i giovani e i bambini di
qualsiasi età avevano “l’obbligo”,
transitando nei paraggi, di riferire
i motivi dell’allontanamento dal
quartiere e se le motivazioni non
erano convincenti si incappava
nella immediata verifica con
la famiglia di appartenenza,
come nel caso di Tanino.
Spesso era meglio dichiarare
spontaneamente la propria meta
perché, in caso contrario, anche
svoltato l’angolo, venivi raggiunto
dall’immancabile richiesta urlata:
…unni sta iennu?.. Tanto, perché
la zia Angelina, se non era
seduta fuori della porta, anche
dall’interno della casa aveva
un’ampia visuale sull’esterno,
data la particolare posizione
30
POESIA
RIFLESSIONE
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
A mia madre
(che ho perso in tenera età)
di Nella Sorbello
dell’armadio dotato di un grande
specchio. La zia Angelina dormiva
solo qualche ora a notte e quindi
il suo osservatorio era attivo
dall’alba a sera inoltrata, perciò
nessuno passava inosservato. Tale
comportamento, in paese, non
era un caso isolato; dappertutto
c’era una zia Angelina, una zia
Marietta, una zia Lucietta, una
zia Vannina… che esercitavano
un vero e proprio controllo del
quartiere, a maglie strettissime.
Era una rete di mutua protezione,
in aggiunta ai naturali permessi
familiari. Ne soffriva, è vero, la
privacy, ma i benefici, specie per
i più piccoli, erano sicuramente
superiori al disagio di essere
interpellati dalla zia del posto.
Questo appena quarant’anni fa,
e oggi? A stento un buongiorno
o buonasera col vicino di
pianerottolo, anche se non
disdegniamo di sbirciare i passanti
dalla finestra. Sicurezza: chi può
affermare di sentirsi al sicuro
anche in casa propria? Per strada,
in banca, negli aeroporti e in tutti
gli uffici siamo quotidianamente
spiati, filmati e intercettati da tanti
“grandi fratelli”, eppure scippi,
furti e stupri non si contano più.
In tanti, con pervicace ottusità,
invocano un massiccio intervento
dell’Esercito e misure penali
belluine (... ci vulissi a pena ri
morti!..); invece è necessario
ricostruire – sulle orme della zia
Angelina – il perduto controllo
del territorio e rinvigorire il
legame di solidarietà umana,
ridotta, purtroppo, al lumicino.
Q
uante volte t’ ho cercata disperatamente
lungo la mia strada tortuosa e buia...
T’ ho chiamata ripetutamente: tu non c’eri!..
Ho desiderato la tua presenza
quando sono diventata “donna” e,
soprattutto, quando sono diventata “mamma”.
T’ ho chiamata a gran voce: tu non c’eri!..
Sono stata bistrattata, umiliata, picchiata
ed avrei voluto, almeno per una volta,
poggiare la mia testa sul tuo petto
per dare libero sfogo al mio pianto:
tu non c’eri!..
Il mio sguardo ha spaziato a lungo per
vederti e rincorrerti: tu non c’eri!..
Spesso, di notte, ho cercato di ricostruire
il tuo volto, il tuo fisico, il tuo sorriso:
tutto mi è apparso labile,
appena percettibile!..
Ero troppo piccola quando mi hai lasciata
e i ricordi non sono più nitidi.
Mamma, ti ho chiamata spesso e tu
mi hai risposto soltanto in sogno!
***
Sguardo triste ed errabondo:
è quello di una bambina rimasta
sola al mondo!
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
La nostra rivista dedica, in questo numero, un servizio al pittore russo Oleg Supereco, autore degli
affreschi della cupola della cattedrale di Noto, ospitando un contributo critico di Ignazio Roiter e
una poesia di Sebastiano Burgaretta
ARTE
Oriente e occidente nella pittura di
Oleg Supereco
di Ignazio Roiter - Foto tratte dal volume Oleg Supereco
Processione della Croce, olio su tela 376x245 cm
O
leg Supereco non ha preoccupazioni mondane, possiede uno
spirito libero e genuino e non
cede all’annebbiamento della cultura
che oggi attribuisce a se stessa la qualità
dell’infinito. Attraversa incolume l’arte
concettuale, concreta, performativa, metafisica, l’astrattismo formale, l’iperrealismo, il minimalismo, il nuovo realismo,
la pop-art, la transavanguardia. Non
entra negli intricati nodi dei sentimenti
collettivi, non alza la voce contro l’uomo predatore e dissacratore, non apre gli
occhi sui campi piagati, senza vermi né
fermenti, massicciamente azotati. Non
si rivolta contro le tenaglie del denaro,
che strozzano il pianeta e vietano la
compassione con quella amoralità perfino inconsapevole che indulge di se stessa. Eppure l’artista deve per necessità e
per vincoli interpretare questo mondo
così poco degno di fiducia. Iconoclasti
per resistenza all’alluvione d’immagini che consumano gli occhi, gli artefici
di oggi propongono le installazioni, le
performances e altri soggetti e oggetti, sui
quali poggia la loro denuncia dolorosa:
la terra brucia e il futuro è già pronto a
punirci. I nostri figli pagheranno salato
il debito che abbiamo preparato; anzi:
stanno già seduti sulle rovine del vecchio
Eden, ridotto a pozzanghera e a paesaggio losco. È inutile, dunque, chiedere
all’arte di far rinascere la categoria della
bellezza o almeno di pronunciarsi su di
essa, ora che è stata confinata nei musei
e nelle chiese. In queste dimore classiche
si fanno le code per riposare gli occhi e
rinascere nello spirito. Qui non sconfessiamo il nostro credo anche se increduli,
non scambiamo Dio per un vitello d’oro
e, apostati nel mondo, forse ritroviamo
il senso di appartenenza alla cristianità.
Al pari delle riserve paesaggistiche che
affannosamente cerchiamo, i quadri e gli
affreschi di un tempo innalzano il loro
splendore sulla scogliera dell’antichità,
roccaforte dei tesori divenuti universali.
Ma un Caravaggio o un Rembrandt, nostri coetanei, farebbero oggi la fine della
vecchia armonia tonale, gloria della musica nei secoli d’oro. Non reggerebbero
davanti all’arte contemporanea perché
considerati fuori moda e pertanto inutili.
È infatti lo spirito del tempo a formare
il “gusto”, parola che fa rabbrividire per
l’infedeltà con cui dirige e manipola le
nostre scelte. Il desiderio di una rinnovata e visibile bellezza ci pesa davvero
come la pena di averla perduta; le menti
31
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
geniali non vi sono orientate e divagano inermi tra sentieri che si perdono in
forme espressive di debolezza luminosa.
Loro rischiano, nonostante la ricerca e
l’affanno che essa richiede, di essere lanterne gracili, che non versano emozioni
nutrienti nel calice della nostra noia. Il
contenuto della creatività e la sua forma espressiva sembrano separati. In
altre parole l’opera
compiuta ci costringe a uno sforzo
di comprensione e
di accettazione ed
è preceduta da una
propria finalità dimostrativa. Chiede
la nostra condivisione, ci manda
un avvertimento,
incalza la nostra
disattenzione, ma
spesso le idee che
la sorreggono sono
pretese. I linguaggi
sembrano nascere
e perire infruttuosi
o esplodere come
il fulmine, per poi
lasciare dietro di sé
l’odore del bruciato. Consumiamo
con l’alibi dell’occhio
impegnato
il “prodotto”, ne
cerchiamo l’aspetto originale e il
messaggio da condividere; alla fine
sentiamo più acutamente la nostalgia di Caravaggio
e di Rembrandt.
Gli odori aspri e i
fermenti
eccessivi della creatività
contemporanea
si mescolano agli
autentici profumi
del passato. L’Occidente non totalitario, progressista,
tollerante e moderno si nutre alla fonte
di quella che Solzenicyn definisce “volgarità” e l’arte di oggi ne è la necessaria
testimonianza. Nella smisurata prateria
del possibile aspettiamo, dunque, che
succeda qualcosa: forse altre invenzioni,
che ci spostino altrove, verso dei confini
inesplorati, anche se prossimi alla banalità e al fallimento tra le braccia delle
32
mode. Ma l’ideale artistico della bellezza
raffigurato nel viandante che nella notte
dell’inconsapevolezza e dell’ignoranza
cerca con la lanterna il giusto cammino,
è un’allegoria di un passato sulla soglia
del ridicolo. L’arte è diventata prassi, officina, fabbrica, laboratorio e la pittura
figurativa è stata confinata nelle ferraglie
mineamente a noi, valicando le pericolose vie dei secoli in un solo balzo. Attraverso le loro opere continuano a donare
al mondo un’interpretazione intima e
sacra della verità. In loro ci consoliamo,
in loro amiamo, in loro preghiamo, in
loro ritroviamo il senso della cristianità.
Oleg Supereco è certamente un’anomalia e una frattura
nel tessuto disordinato del pensiero
c o n t e m p o r a n e o,
bisognevole di capire quanto di ammirare nuovamente.
Dispiega
volutamente altrove le sue
ali leggere. Eppure
questa freschezza
non può essere uno
stordimento e una
cecità colpevole di
fronte all’angoscia
che morde la nostra
vita. Lui viene dalla Russia, dove la
venerazione per le
icone ha mantenuto
e sviluppato la santità della persona,
la cui dignità del
volto è l’immagine
del Dio fatto carne. L’accostamento dei due mondi
del sacro – russo
e occidentale – ha
prodotto un artista
che forse un giorno
sarà dichiarato miracoloso. Ora non
possiamo pronunciare questa parola
diversamente
da
una speranza. Oleg
è “indietreggiato”
all’arte figurativa,
per rifondare una
tradizione che la
Chiesa universale
tiene nella più alta
e
Assunzione della Vergine, olio su tela 217x143 cm considerazione
promuove: Cristo,
del passato, dove saldamente resistono in fasce o in croce, i suoi Santi e Martiri
i viventi e sempre risorgenti artisti che manifestano la sostanza del nostro cresolo la storia colloca prima di noi.
do. È necessario che noi vediamo non
Noi siamo i loro custodi. I nostri occhi attraverso i simboli e l’astrattismo, ma
fanno rivivere Michelangelo, Raffaello, vigorosamente con gli occhi bene aperLeonardo, Dürer, Vermeer. Sono gli in- ti ciò che giustifica la creazione, perché
carnati immortali dell’arte, incorrotti nel serva la nostra fede e aliti con lo Spirito
braciere dove altri ardono o sono già ce- sulla nostra fragilità. Il Verbo ci ha donere. Fuori e oltre il tempo giungono ful- nato per primo la perfetta icona nella
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
contorta per essere sanata,
attraversiamo la morte per
diventare gloriosi. I discepoli
accanto al Redentore sono i
due aspetti della stessa persona. Siamo noi, ora distratti e
increduli oppure toccati dalla Grazia che ci trafigge gli
occhi. Quegli alveoli sono,
dunque, la nostra speranza,
anche se è il lume ondeggiante della lanterna, perché
ci prosciugano le lacrime, ci
santificano anche solo per
un istante, ci fanno sentire
bisognosi e miseri, ma grandi
nell’amore Trinitario. Se davanti alle mani risorte e sempre piagate riusciamo a balbettare sottovoce “miserere!”
forse un giorno, al banchetto
dei Cieli, Dio stesso ci servirà
con i suoi domestici d’eccellenza: i Serafini.
Tentazione, olio su tela 40x60 cm
forte la speranza e rifonda nella coppa
d’oro le proprie origini, la tradizione
e il grande lascito occidentale. Non è
più buono di noi, non prega più di noi
e non ha meno vizi e più virtù di noi,
ma sente più acutamente e persistentemente la presenza di Dio. Lo avverte
con maggiori lucidità e penetranza.
Questa energia, da inviato speciale, gli
crea un obbligo, che tradotto su carta,
tele e intonaci diventa testimonianza,
testamento, lascito e una gloria in nomine Domini. Il senso del sacro impregna l’ordine del suo mondo, dalla Basilica di san Marco alle vedute veneziane, dai paesaggi russi ai volti sconosciuti dei ritratti fino all’immaterialità
allegorica e sospinge l’ideazione oltre
l’eleganza delle forme e lo sfarzo dei
colori. Confinati in un deserto senza
verità avevamo sete del volto di Dio,
degli uomini e della terra. Forse la nostra piccola lanterna non di artefici,
ma di semplici viandanti ha illuminato il ritrovo dove l’anima si riposa.
Se ci sentiamo perduti nell’angoscia o
inermi nel dubbio soffermiamoci sulla
sua “Cena in Emmaus”.
Guardiamo i fori decomposti delle
mani di Cristo, segno di una morte
mai dimenticata sul legno, ferite fatte
visibili da Oleg Supereco nel corpo
glorioso della Resurrezione. Attraverso quelle slabbrature entrano i nostri
dolori e si ricompongono nella gioia,
sono accolte le nostre miserie per diventare ricchezza, passa la nostra vita
A Supereco
POESIA
sacra Sindone. Nel lino della sua sepoltura l’Artista supremo ha reso visibili le sue piaghe. L’occhio sconvolto,
ma credente, è avvicinato alla Grazia
quando scorge l’abisso e la contraddizione della Croce nell’Immagine non
pittorica ma figurativa, umanissima
e trascendente. Non possiamo più dimenticare che siamo sanati dal quel
martirio. Dio conosce e pesa la nostra
incredulità. La Passione impressa nel
lenzuolo ha la potenza delle parole rivolte all’inflessibile Tommaso: “Metti
qui il tuo dito e guarda le mie mani;
tendi la tua mano e mettila nel mio
fianco; e non essere incredulo, ma credente!”. Le icone imitano con infinite
variazioni il volto sindonico; aspirano
alle sue dolcezze e forza terrene e ultraterrene. Nel “Salvatore non fatto da
mani” e nella “Trinità” di Andrej Rublëv la tensione al sublime raggiunge
l’estasi. Se l’icona è sacralità sempre
rinnovata del Magistero orientale, la
chiesa cattolica ha accettato e promosso le diversità degli stili per farle proprie e accreditare ogni singolo genio
alla cristianità. E se siamo inorriditi
dal cadavere di Cristo del Mantegna,
la Crocifissione di Grünewald e di Velazquez ci fanno comprendere che la
nostra storia è rimessa unicamente nelle mani di Dio e che dovremmo aver
pietà di noi stessi. Ora si comprende
perché Oleg è un pittore figurativo. La
sua biografia che è per noi la sua opera appartiene alla creatività che rende
di Sebastiano Burgaretta
tupore della carne fatta volo
nell’epos di grazia vera che trionfa,
nomen ancora omen più che mai,
nodo d’amore mistico che viene,
profetico portento d’unione,
S
1
la luce d’oriente che irrompe.
2
,
Pantocrator negli uomini incappato,
di sgarbi e vanità ridotto a segno.
Libera in te la gloria vivente
nel segno amato di contraddizione.
L’Eterno vive nella contingenza,
Presenza d’orazione al tuo pennello,
Michele e Raffaele ora con te
avvolti sono lievi nella danza.
Musica a modulare l’armonia
del tocco ricomposto all’unità.
NOTE
1
2
Bello buono e vero
L’Eterno vive nella contingenza
33
ARTE
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
Le opere di Elia Li Gioi
in esposizione nel Montenegro
di Eleonora Vinci
A
quattro anni dalla celebrazione
del centenario del Futurismo si
è tenuta a Porto Montenegro,
dal 5 luglio al 15 agosto, una mostra
di opere futuriste, pop e della scuola di
piazza del Popolo, realizzate da artisti
contemporanei, che operano in diverse
direzioni. “Dal Futurismo ai percorsi contemporanei” è l’evento ideato
dall’Associazione Culturale M.I.C.RO,
presieduta da Claudio Cantella, grazie
alla direzione artistica di Maurizio Scudiero.
L’arte del primo Novecento prodotta
da Carlo Carrà, Gino Severini, Enrico
Prampolini, Fortunato Depero, Pippo
Rizzo, Giulio D’Anna e Vittorio Corona, quella di metà e fine secolo firmata
Tano Festa, Andy Warhol e Mimmo
Rotella si è ben sposata con l’arte del
nostro Elia Li Gioi, che ha presentato
quattro opere datate 2012: Verde ecologico, 28x45, olio su tavola, Omaggio a
Martinetti, due tele 80x80, 21 e 37 Roma,
Piazza San Pietro, 134x78, tutte realizzate con tecniche miste.
La collezione di varie opere pittoriche
e scultoree, realizzate con tecniche diverse, che ben applicano il concetto di
libera espressione con risultati che vedono sempre affermare la sensibilità individuale, ha riunito un numero considerevole di artisti di fama internazionale,
dove la presenza di Elia Li Gioi ben si
colloca. L’artista si è formato all’Accademia di Belle Arti di Firenze, con
il maestro Primo Conti per la pittura
e Rodolfo Margheri per la grafica. Le
sue prime affermazioni risalgono alla
Mostra fiorentina nel 1965, dove si ag-
Elia Li Gioi con a sx il curatore della mostra Maurizio Scudiero
e il direttore del Naval Heritage Collection Drazen
34
giudicò il Primo premio per la pittura,
successivamente, alla V Mostra Universitaria del Palazzo delle Esposizioni di
Roma con il Primo premio “Medaglia
d’oro del Presidente della Repubblica”;
nel 1967, grazie a una Borsa di studio
ad Amsterdam, ha frequentato la Rijksakademie Van Belldende Kunsten. Studi e premi che, rafforzati dall’esperienza
quasi cinquantennale, gli sono valsi la
conquista dell’altra sponda dell’Adriatico, dove sorge un villaggio marino internazionale in pieno sviluppo, che ha avuto anche l’ambizione di ospitare tanti
capolavori dell’arte contemporanea, la
Pop Art americana e la sua espressione
romana con la Scuola di Piazza del Popolo. Giancarlo Carpi, critico e storico
d’arte, in uno degli interventi inseriti nel
catalogo della Mostra, ha osservato che
il “pittore della pace”, come è definito
Li Gioi …sotto la citazione del Futurismo
ritrova una dimensione impressionistica che
spazia formalmente dall’astrattismo alla tecnica fotodinamica… e, concludiamo noi,
con rinnovato successo.
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
di Umberto Confalonieri
I mass media sono mezzi
di comunicazione di massa
attraverso cui è possibile
diffondere un messaggio
secondo le caratteristiche
proprie del mezzo, senza che
sia necessaria l’interazione
personale.
Dal XIX secolo in poi si sono susseguite nuove invenzioni, quali il telegrafo, il
telefono, per il quale si è aperta una disputa italo-americana, poi conclusasi a
favore dell’italiano Meucci, e il cinema.
Nel ’900, il secolo delle masse, i mass
media sono entrati nelle case private,
prima con la radio, poi con la televisione, infine con internet; media, questi,
che hanno cambiato inevitabilmente le
abitudini quotidiane di un numero sempre maggiore di persone. Si ricordi anche che questo è stato il secolo dei grandi regimi dittatoriali, voluti, sostenuti
e acclamati dalle masse; alla base del
fascismo, del nazismo e del comunismo
vi sono idee e movimenti differenti, che
hanno, però, portato all’acclamazione
del dittatore come risultato finale di un
lungo lavorio propagandistico. Il movimento prima, il regime dopo, hanno
avuto un massiccio appoggio da parte
della popolazione, grazie a un uso particolare dei media esistenti al momento,
la radio, i giornali, il cinema e ancora,
in minima parte, la televisione. Si pensi alle tante foto, ritoccate peraltro, che
ritraggono Benito Mussolini davanti a
folle oceaniche, o a Hitler, protagonista
di parate in pompa magna per esaltare
la sua figura. In entrambi i casi sono
stati adibiti ministeri adatti e adattati a
occuparsi della propaganda, la cui unica
preoccupazione è stata la trasposizione
scrupolosa del contenuto delle veline,
o comunicati stampa emessi dai Ministeri medesimi, da parte dei giornali o
di qualsiasi altra testata radiofonica o
meno. No ad alcuna libertà; i regimi
hanno così sopravvissuto solo con il
consenso del popolo. Tema, quello del
consenso popolare, che è stato sempre
assai dibattuto, anche in questioni prettamente economiche e pubblicitarie.
Ecco che nella categoria dei mezzi di
comunicazione rientrano di diritto anche manifesti, cartelloni, slogan e spot
pubblicitari, radiofonici e televisivi;
s’informano i clienti dell’esistenza di
un prodotto, convincendoli che quello
sia il migliore del settore presente nel
mercato, eliminando così la concorrenza. Sorge immediata una domanda: Può
fondersi l’interesse economico con l’arte, con
l’eleganza estetica? La risposta è positiva,
è ciò cui, infatti, si è assistito con il fenomeno artistico degli anni ’60, Pop Art,
il cui maggiore esponente è stato Andy
Warhol. L’artista conferisce alla sua
opera un’assoluta centralità comunicativa, adottando tecniche di produzioni
industriali dell’immagine (si pensi alla
bottiglia Coca-Cola o alle confezioni
cornflakes Kellogg’s come motivi ricorrenti delle sue opere). Allo stesso modo,
Warhol ha trattato i volti di personaggi
noti dello spettacolo e della politica del
momento. Naturalmente la pubblicità
televisiva, iconografica, radiofonica, o
la pubblicità online deve attirare l’attenzione di colui che guarda, o ascolta,
per tale ragione vi è sempre uno studio
preliminare e approfondito nella scelta
dei colori e nella combinazione degli
oggetti. Molte volte si è assistito, però,
all’inserimento di veri e propri messaggi subliminali, dal latino sub limen, ovvero messaggi non visibili chiaramente,
inseriti con il solo intento d’influenzare
inconsapevolmente l’inconscio dell’uomo. Da un punto di vista fisico, infatti,
l’uomo non è in grado di percepire visivamente e chiaramente il messaggio,
poiché occultato e trasmesso troppo
velocemente, ma attenzione, è percepito ugualmente dalla retina, per essere rielaborato successivamente dalla
mente. Situazione simile si è riscontrata
nell’ambito uditivo con l’inserimento di
frasi, o singole parole, apparentemente senza alcun senso, celando, però,
se riascoltate al contrario, un ulteriore
messaggio. Recentemente sono stati
esaminati alcuni cartoni animati di una
nota casa cinematografica e si è constatata la presenza di messaggi subliminali
a sfondo sessuale. Le ripercussioni che
si hanno a livello dell’inconscio sono
notevoli e a volte anche pericolose1.
Tra i mass media la televisione ha ricoperto un ruolo di primaria importanza
negli ultimi decenni, basti pensare che
ha avuto il grande merito di unificare
linguisticamente l’Italia, appianando
così la percentuale di analfabeti presenti
COMUNICAZIONE
Mass media, dalla carta al web
nel territorio nazionale, i quali preferivano esprimersi in vernacolo piuttosto
che in italiano. Tra i programmi televisivi che hanno determinato tale fenomeno, si ricorda Non è mai troppo tardi,
condotto dal maestro Alberto Manzi.
La cortesia, l’educazione, la capacità
oratoria, con cui il presentatore-maestro è entrato nelle case degli italiani,
hanno delineato perfettamente le qualità dell’oratore, pedagogo e maestro, di
cui ci parla Marco Fabio Quintiliano, il
più celebre retore e professore dell’età
dei Flavi2. La sua figura può benissimo ricalcare quella dell’abile educatore
quintilianeo; Manzi si è preoccupato,
infatti, di insegnare, con amore e dedizione, le basi della lingua italiana, contribuendo a fortificare la comunicazione e la cultura nazionale. Nonostante
la funzione educativa che la televisione
ha ricoperto, sul piccolo schermo sono
state trasmesse sit-com, reality, film,
che poco hanno a che fare con la sfera
educativa. Agli inizi del nuovo millennio è apparso un fenomeno assai strano
e alquanto bizzarro, il Grande Fratello;
in Italia il programma è giunto alla sua
dodicesima edizione, gli ascolti sono
oramai notevolmente calati, ma le intenzioni iniziali, prettamente legate a
uno studio antropologico-sociale, sono
state sopraffatte dal business derivatone
successivamente. Si osserva, infatti, la
vita di un gruppo di uomini, obbligati
a rimanere chiusi in una casa-studio televisivo e a sopportare una convivenza
forzata con gli altri coinquilini. Il nome
del programma vanta, però, una storia
diversa e ben più nobile, legata all’espe-
35
rienza letteraria di George Orwell, che
nel 1948 non avrebbe immaginato la
degenerazione del suo Big Brother in
1984. La televisione è stata anche il
mezzo che, se pur raramente, ha tenuto incollati gli uomini di tutto il mondo per ore e ore. È il caso della missione Apollo 11, che è stata la prima
a portare un essere umano sulla superficie lunare. L’equipaggio dell’Apollo
11, composto da Armstrong, Collins
e Aldrin, è stato lanciato il 16 luglio
1969, ma lo sbarco è avvenuto il 20
luglio. La magia dei satelliti ha reso
possibile una trasmissione dal vivo
globale che ha affascinato milioni di
persone. La bellezza delle immagini, trasmesse in quel lontano 1969, o
delle voci finalmente udibili a km di
distanza, mediante l’uso del telefono e della radio, rappresenta uno dei
più importanti e notevoli sviluppi fisici nell’ambito della comunicazione.
L’esperienza della radio, avviata da
Guglielmo Marconi, ha ottenuto un
grandissimo successo mediante l’uso
delle onde elettromagnetiche, procedimento usato, con i notevoli sviluppi,
nel mondo comunicativo moderno,
dove la vera svolta è rappresentata da
internet; grazie ad un click, il mondo
è in comunicazione, le notizie, come
le immagini, si trasmettono molto più
rapidamente di una volta. Questo,
naturalmente, ha i suoi vantaggi, ma
anche numerosi svantaggi. Si è persa,
oramai, la bellezza di sfogliare una rivista, un giornale, un libro, sentire l’odore della carta, guardare i colori delle
immagini stampate.
Si pensi alle vecchie lettere, con le
quali i fidanzati, magari a km di distanza, tenevano vivo il loro amore,
ai vecchi diari e alle tante riviste cul-
36
turali e letterarie, precursori di iniziative e rivoluzioni nazionali. Ne è un
esempio il Conciliatore, giornale ottocentesco che contribuì a formare l’Italia, tra le cui firme illustri si citano
Federico Confalonieri e Silvio Pellico.
Anche nell’ambito letterario la carta
stampata ha da sempre rappresentato
un intermediario di comunicazione
importante ed essenziale, nicchia di
pensieri e di riflessioni di molti autori. Gabriele D’Annunzio, l’esteta, il
vate della lingua italiana, ha mantenuto, durante tutta la sua esperienza
letteraria, vivo il contatto con le riviste e i giornali, apportando anche un
notevole contributo al giornalismo
italiano, il quotidiano La Tribuna e Il
Mattino di Napoli ne sono un esempio. Altra importante penna italiana
che ha contribuito a dare un notevole
impulso alla comunicazione cartacea,
è stato Umberto Saba, il quale, dopo
aver scritto la sua opera principale, il
Canzoniere, pubblica le sue raccolte
successive, ovvero Preludio e canzonette,
Autobiografia, I prigioni sulla rivista torinese “Primo Tempo”. Nonostante il
poco apprezzamento iniziale nei confronti della città fiorentina, è la rivista
“Solaria” a dedicargli un numero monografico nel 1928. Nel ‘46 Saba, sulle
pagine della rivista “Fiera Letteraria”,
rimprovera a Croce di anteporre il valore estetico di un’opera d’arte al suo
contenuto. L’excursus fin qui proposto
vuole evidenziare come l’uomo ha, sì,
determinato un notevole sviluppo in
un campo necessario, come quello comunicativo, ma avverte nel suo intimo
la necessità di comunicare con l’altro
senza perdere la bellezza emozionante di uno sguardo, di un sorriso o di
un abbraccio, goduto, ovviamente, dal
vivo senza alcun intermediario tecnologico.
NOTE
L’inconscio è stato scoperto e approfondito da Sigmund Freud (Moravia 1856 –
Londra 1939), il primo ad affermare che la
maggior parte della vita mentale si svolge
fuori dalla coscienza e a livello dell’inconscio, diviso in due zone, quella dei ricordi,
ovvero il preinconscio, e quella del rimosso, che comprende gli elementi psichici
stabilmente inconsci.
2
L’autore nacque verso il 35 d.C. a Calahorra, nella Spagna nordorientale; l’ascesa al trono di Vespasiano ne determinò
la fortuna, perché, l’imperatore istituì cattedre di retorica, e Quintiliano fu chiamato per una di queste. Morì nel 96 d.C.
1
SOCIETÀ
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
Evoluzione
di un
microcosmo
relazionale:
il vicinato
di Giuseppina Rossitto
sera, mi soffermo lungo la mia strada, guardo il mio palazzo e quelli
adiacenti. Mi allungo con lo sguardo oltre la curva e immagino quello che
altre volte ho visto, un pezzo di collina
in cui, dopo gli anni Cinquanta, sono nati
condomini signorili e ville padronali di
grande prestigio.
Il mio palazzo è stato costruito nel 1955:
una storia lunga quanto la mia stessa vita.
Tuttavia, non l’ho vissuto che per metà dei
suoi anni: il mio cammino è stato attraversato da diverse case, a partire da quella na-
È
radici, attecchendo.
La domanda mi viene spontanea: chi sono
i miei vicini?
via, passo in rassegna tutti i condomini con
cui condivido lo stabile. A essere sincera non ricordo tutti i loro nomi, forse mi
fermo alla metà. Arrivai in questo palazzo
grazie a un annuncio di vendita sul “Carlino”. A me l’appartamento non piaceva
più di tanto, inoltre il prezzo d’acquisto era
il doppio che in altre zone della città, ma
aveva un grande giardino e una porzione di
collina: quel verde era importante quanto
avere una stanza in più, avendo un bambino piccolo, che sarebbe cresciuto respirando aria buona. La signora che aveva abitato
dei suoi giorni, mi dissero i vicini, era una
donna assai singolare. Aveva tanti gatti e
un cane ed era estrosa quanto a pittura e
a scrittura, una vecchia insegnante in pensione. Della sua vena artistica mi accorsi
a mie spese, ci vollero più mani di tempera per imbiancare le pareti giallo oro che
aveva decorato a mano libera, con strisce
verticali ondulate di almeno tre colori, in
luogo di usare la carta da parati. Per chi
mi conosce, capirà che forse non è un caso
se noi attraversiamo campi di persone che
ci somigliano, – può parlarsi di destino? –
poiché anch’io ho un’accesa passione per
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
avrebbero avuto due bambini maschi. Il
loro arrivo, accolto da me con estremo
favore, fu compromesso, per fortuna per
breve tempo, da un incidente durante i
lavori di ristrutturazione, che furono ben
più incisivi e lunghi dei nostri. Mentre
allattavo il mio piccolo sprofondò una
bagno e, fra calcinacci e una nuvola di
polvere che riempì ogni mobile e tappeto
della sala, l’unica cosa che riuscii a distinguere fu la gamba del muratore che
sfogo in un enorme trombe d’oil in sala,
ricreando forse ciò che più mi manca
della casa natale: un terrazzo che guarda
al mare. Ma è dei miei vicini che devo
parlare, non della mia casa, per quanto
io pensi che sia proprio la tipologia della
La mia casa, date le caratteristiche di chi
l’aveva abitata in precedenza, compresi
gatti e cani, l’adattamento che aveva subito già in fase di costruzione e ora noi,
di origine meridionale, e con un bambino
piccolo che sicuramente avrebbe fatto rumore, generava in alcuni condomini una
certa distanza: appartamento di serie B e,
probabilmente, anche chi lo abitava, non
essendo doc. “Marocchini” allora era la
denominazione che veniva usata per chi
veniva dal sud di Roma. La prima volta
che sentii in giro quel termine, oltretutto detto da un operaio, in una zona tanto
degradata della città che era veramente
duro pensare di viverci, fui sorpresa perparlavo bene l’italiano, essendo persona di
cultura, come potevano scambiarmi per
straniera! Anni dopo, ascoltando un’intervista a Eugenio Scalfari, mi sentii accumunata a lui, quanto meno per il fatto
che, trovandosi, credo, a Sanremo, disse
che lo chiamavano “Napoli”, lui che è
nato a Civitavecchia. Andando più giù
di Roma, quindi, non poteva che esserci l’Africa! La tranquillità acquisita dai
vecchi proprietari – loro, sì, natii – fu turbata subito dai lavori di sommaria ristrutturazione che di lì a poco facemmo, per
volle del tempo perché buttassero giù il
rospo. Per fortuna un anno dopo arrivarono due coniugi psichiatri. Il marito aveva
due ragazzine dal precedente matrimonio
dal quale era rimasto vedovo, e presto
chiamare i pompieri per mettere in sicurezza. Ma l’increscioso incidente non
lese i nostri futuri rapporti che furono
armoniosi, per quelle piccole complicità
che nascono dall’avere dei bambini. Le
nostre case mantenevano le porte aperte
per consentire il transito dei piccoli da
un appartamento all’altro. La pizza che
preparavo io prendeva spesso la via del
primo piano e i tortellini della suocera,
ricchi di abbondante noce moscata, prendevano la via del nostro.
Il giardino divenne il regno dei bambini. Non c’era l’esigenza di controllarli
più di tanto, solo che non venissero giù
per la discesa del passo carraio di volata
con i tricicli e, più tardi, con le bici, la
moto elettrica della polizia o la gip dei
pompieri. Già, il giardino! Sembrerebbe
il luogo di maggior armonia di un condominio, e invece, spesso, è causa di
diatribe, soprattutto quando è frequentato da bambini, che come si sa rumorosi
le amate e intoccabili ortensie o contro le
saracinesche; o quelle corse con rumore
assordante, che solo le mamme possono
sopportare, con lo skateboard lungo il
passo carraio; l’accaloramento che seguiva alle partite di calcetto da un capo
all’altro del giardino che richiamavano
altri bambini del condominio accanto; la
ghiaia che veniva continuamente smossa
dai loro piedini. Chissà quanti altri motivi, veri o ingigantiti, creavano l’accesa
reazione della signora dell’ultimo piano.
Non una, non due, non tre furono le sgrialle vie di fatto, buttando loro un secchio
d’acqua fredda in testa. Usò anche parole fulminanti: “Non siamo mica ai Prati
di Caprara!”
Il senso di quella imprecazione non mi
fu subito chiaro, quei prati li conoscevo,
una bancarella di meridionali dove ven-
devano frutta e verdura fresca e a buon
mercato. Quello che imparai fu invece
che, dietro quei prati, ai margini di caserme e capannoni abbandonati e di terreni
ferroviari e aeroportuali, un lunedì, furono svegliati all’alba, e fatti uscire a uno a
uno da vecchie tende e rifugi di cartone
e di plastica e catapecchie tirate su tra i
ville dell’ex terreno militare, appunto di
via Prati di Caprara, ai margini della città
e della dignità.
Questa volta non fu facile perdonare, era
troppo, anche se l’offesa veniva da una
vecchia acida accecata dalla gelosia,
dall’animo abbrutito da una disgrazia che
che rendeva un familiare inabile e lontano da ogni forma di svago.
Da quel giorno il suo appellativo fu “strega”, avrebbe meritato “razzista”, come
forse nell’animo lo è, ma era una parola
che non volevo che i bambini imparassero, non così presto. Adottai la stessa
strategia che Meryl Streep, in un belliscon il marito che l’aveva schiaffeggiata:
pur amandolo moltissimo, non gli rivolse
più la parola se non per interposta persocolpiva nel valore in cui credeva, il rispetto. Così fu anche per me: il rispetto!
Solo a distanza di lunghi anni, in segno
proprio di quel rispetto per la sua età, e
cosciente delle disgrazie che l’avevano
provata, incontrandola, viso a viso, accennai e accenno ancora un saluto forIl condomino che invece amavo vedere
in giardino era il signore del piano di sopra, sempre intento a curare il prato, le
nove mazzetti e ce li portava appena
aveva sentore che eravamo in casa. Lo
ricordo sempre vecchio, sorridente. La
moglie era piccola e invalida. Non potendosi muovere dal letto o dalla sedia
a rotelle, lo chiamava in continuazione e
con una voce da invidiare a una cantante
lirica. E lui pazientemente la raggiungeva. La signora morì serenamente, il marito superò i cento anni, tanto che per il
centesimo compleanno ricevette la visita
del sindaco che gli conferì un riconoscigentile, cordiale signore del piano di sopra serenamente ci ha lasciati, in silenzio,
37
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
come era sempre vissuto, e forse con il
sorriso ormai sdentato, sulle labbra.
Della sua famiglia è rimasta la nipote,
una donna che rispetto molto. Anche lei
invecchia e da anni è assistita da signore
dell’est con le quali ha rapporti molto alla
pari. Mi ricorda molto mia madre: sa fare
tante cose, cucire, ricamare… A volte,
ma è più spesso una scusa per andarla a
salutare, mi rivolgo a lei, per lo più di domenica, perché mi presti qualche rotolino
ne è ben fornita, benché non li usi più da
tempo. Quando glielo riporto è un’altra
occasione per vederla e fare due chiacchiere veloci e in piedi. Andarla a trovare
mi sembra di violare l’intimità nella quale si è rifugiata, forse per non far vedere
il tempo che passa, che rende sempre più
fragili e inermi. Crescendo, i ragazzi hanno preso strade diverse, scuole diverse,
sport diversi, sicché quei rapporti fatti di
Natali festosi a caccia di regali lasciati al
suono di una campanella e di lanterne accese sui davanzali, e di momenti estivi al
mare sono venuti a mancare. Le pizze non
sono più salite e neanche i tortellini sono
scesi. I rapporti sono diventati formali, di
cortesia. Spesso faccio un confronto fra
gli attuali rapporti fra vicini, oramai quasi
inesistenti, e quelli di un tempo, anche in
altre case che ho abitato. Noto una discreta differenza, ma è pur vero che si cambia
con il passare del tempo. Andando indietro oltre i venticinque anni che ho trascorso in questa casa, mi ritrovo ancora
su un colle, sul “Colle” di Cesena, dove
suosa villetta a schiera Anche lì, vi era un
meraviglioso giardino e un orticello con
un albero di nespole giapponesi sul retro.
Il paesaggio era meraviglioso soprattutto
nella stagione autunnale per il colore che
assumevano le foglie e per la nebbiolina
che offuscava l’aria rendendo tutto opaco, soprattutto la mattina, quando alle
cinque dovevo uscire di casa per raggiungere la stazione e prendere il treno delle
sei e venti per Bologna, per timbrare il
cartellino alle sette.
La nostra permanenza a Cesena fu di quasi quattro anni. Il tempo per relazionarmi
con chi mi stava attorno non era molto,
uscendo alle cinque del mattino e ritornando alle cinque del pomeriggio, lasso
alle cure della baby sitter e alla supervisione della mia cara vicina Anna. Anna
era una vicina meravigliosa. Aveva un’at-
38
tenzione verso il mio bambino massima,
come di persona di famiglia. Mi riferiva
le manchevolezze della baby sitter e mi
suggeriva quando era tempo di cercarne
un’altra. Il marito era un uomo sempre
allegro e il mio bimbo stava bene anche
con lui. Avevano una ragazza, così esuberante che la sentivi scendere le scale
facendo due gradini per volta. Alta, bionmassima di vita dei suoi genitori. Qualche tempo dopo che ci eravamo trasferiti
a Bologna, Anna un giorno mi telefonò
ta mi disse: “Cristina non c’è più!” Pensai che fosse partita, pazzerella com’era
e sempre vogliosa di dire e fare la sua.
Ma il senso non era quello. Un sabato
sera, mentre era di ritorno con un’amica
dal mare, un ragazzo ubriaco alla guida
contro la loro utilitaria. Nell’incidente, le
due ragazze morirono sul colpo; sbalzate
oltre il parabrezza, trovarono riposo eterno nel campo che, ironia della sorte, era
proprio il loro. Non riuscimmo a profferir
parola alcuna, solo un pianto dirotto ci
prese entrambe; mozzicavamo le parole
in bocca e quando la voce usciva a tentoni si aggiungeva qualche particolare al
racconto.
Alla ragazza dalla chioma dorata/ che
squarcia l’aria come puledra… negli
anni, dedicai dei versi. La morte della
giovane mi ha fatto prendere coscienza
di quanto sia profondo il dolore di una
madre e di un padre di fronte alla perdita
un mare senza fondo. I racconti di Anna,
i silenzi di Oliviero, la perdita di senso
della dimensione del reale che ha invaso
ogni azione della mia ex vicina di casa,
poeta. A loro ho dedicato versi, di ritorno
da visite che ho fatto loro. Davanti alla
tomba di Cristina, la prima volta che andai a trovarli, vidi Oliviero appartarsi, e
io indietreggiai al suo gesto. Nel suo silenzio lessi il suo stato d’animo. L’amore
che quel padre provava per la sua creatura perduta mi fece sentire orfana, perché
non conoscevo la tensione di quel sentimento. Il dolore di Anna si esprimeva
logorandosi e spegnendosi ogni giorno di
più. In una delle ultime visite che le feci,
mentre ascoltavo le sue parole di sconforto, eppure alternate con quel suo modo di
sorridere e persino di ridere, guardavo in
giro per la casa, sopra i mobili, alle pareti,
in ogni angolo, in ogni sedia c’era ancora
qualcosa che faceva avvertire la presenza della ragazza dalla chioma dorata. Mi
sentivo impotente di fronte al suo dolore. C’era solo da sperare nell’oblio che
accompagna il tempo. Ma il suo tempo
era più lento del treno che presi io al ritorno, dove scrissi versi dedicati alla mia
vicina e amica, per la sua Vita marcata
da inerzia pura,/ confusione, passiva impotenza/ e dal peccato di sopravvivenza.
Quelli che ho narrato sono solo alcune
microcosmo di relazioni di vicinato negli ultimi ventinove dei trentacinque anni
passati in Emilia Romagna. Ma ho immagini impresse nella memoria di altrettante
persone, amiche e non, che ho incontrato
come vicini, per scelta o mio malgrado.
Ripercorrendo il tempo, mi accorgo che
i rapporti erano forse più intensi. Tale intensità non è da imputare sempre al carattere delle persone o al trascorrere del
tempo, che giudichiamo molto veloce,
quanto a un cambiamento della cultura
e dei valori ai quali si adegua il nostro
percorso di vita. Noi siamo indotti dalla
società consumistica e globale a superare
mo avere, vedere, toccare. Questo a tutti i
livelli di età e in ogni luogo, benché ancora possa farsi un distinguo fra piccoli centri, dove si conduce una vita provinciale
più calma e circoscritta, città e metropoli.
Che i cambiamenti siano inevitabili è pavoluzione del microsistema di relazioni.
Naturalmente, come per tutti i fenomeni,
si fanno passi avanti e passi indietro. Viviamo un’era in cui ci sentiamo destabilizzati. Abbiamo rinunciato alle famiglie
allargate a favore di quelle nucleari e ora
anche queste sembrano sfaldarsi; abbiamo puntato tutto sul lavoro, sull’indipendenza da contesti territoriali giudicati
oggi si parla in politica e in sociologia di
condominio solidale è perché stiamo scoprendo che manca il tessuto di solidarietà
che l’uomo, dall’età della caverna in poi,
ha sempre cercato. La vita di gruppo, di
relazioni è quello a cui tutti puntiamo. La
politica, la cultura, le mode hanno molto
da reinventare, perché non c’è dubbio che
di una casa abbiamo tutti bisogno, e dove
c’è casa c’è sempre un vicino, magari con
un verde giardino. E perché no, se possiamo goderne l’aria pura che genera.
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
di Giuseppe Brisindi - Foto Archivio Scifo
ESPERIENZE
Un avolese nel mondo
Alfredo è nato ad Avola
il 1° Aprile 1972.
Si pose da subito il dilemma
della comunicazione
perché tutti i parenti
credettero che fosse
uno scherzo: il pesce di
Aprile! A parte ciò, Alfredo
crebbe bene.
Era un bambino tranquillo, mai un capriccio… ma aveva un carattere determinato. Io ero il suo vicino di casa, le
nostre famiglie erano in ottimi rapporti
e quindi il mio è stato un buon punto
di osservazione durante la sua crescita.
Il nonno paterno aveva l’hobby della
pesca che presto gli contagiò e attendendo insieme, in silenzio, che il pesce
abboccasse, gli trasmise la virtù della
pazienza. Il nonno materno invece, ne
coltivava la manualità: sotto la sua guida, Alfredo costruì per il trenino elettrico un plastico, che tutti i suoi compagni ammiravano. Più tardi fu la volta
dell’aeromodellismo: ancora una volta
nonno e nipote assemblavano i modellini degli aerei, montavano il motorino e
andavano al campo di volo: certamente
i piccoli aerei al loro ritorno erano piuttosto malconci.
Tutto questo per dire che il ragazzino
era estremamente ricettivo e coglieva
al volo la possibilità di fare nuove espe-
Chicago da una Chrysler
2007, Goreme in Cappadocia
rienze. Poi venne il tempo dei ciclomotori e delle motociclette e con essi anche
la curiosità di guardare come erano fatti “dentro”, sempre più appassionatamente, fino a trasformare il garage di famiglia in una specie di officina-ritrovo
per ragazzini-amici aspiranti centauri.
All’epoca, alla classica domanda:
“Cosa vuoi fare da grande?” egli senza
esitare rispondeva: “il meccanico”.
Crescendo, consolidò questo legame
con il mondo delle moto e dei motori,
sviluppando delle abilità pratiche accompagnate da approfondimenti sugli aspetti teorici. Ogni tanto
commetteva
anche
qualche imprudenza,
come, ad esempio, le
scorrazzate lungo l’alveo della Cava Grande
con la KTM, la sua
moto preferita.
Quando superò la licenza liceale, scelse
Ingegneria Meccanica
perché, mi disse, “Io
solo quella voglio fare’’(mi faceva piacere
che il mio giovane “vicino di casa” si preparasse a diventare un
mio futuro collega).
Finita l’Università, a seguito di un colloquio, lo chiamò la Fiat, allo stabilimento di Pomigliano d’Arco (NA). A
Pomigliano stabilì anche la sua prima
residenza di lavoratore fuori Avola.
Sappiamo tutti che i napoletani sono
un po’ imprecisi e un po’ invadenti nei
rapporti quotidiani; ma lui ci rideva su
e andava diritto per la sua strada.
Da Pomigliano passò a Torino e fu un
salto di qualità. La direzione lo inserì
in un gruppo di ingegneri di progetto,
fornendogli libri specifici da studiare,
ma lui, alla fine della giornata lavorativa, andava a trovare gli operai anziani, ascoltando le loro esperienze che gli
erano fonte di riflessioni. Altra occasione (del programma di formazione ed
esercitazioni varie per oliare la mente)
di cui fece tesoro fu una spedizione guidata da colleghi della Fiat sulle Alpi di
Torino. Si trattava di arrampicarsi per
sentieri rocciosi, difficili, aggrappandosi a mani nude per arrivare indenni alla
meta. Alfredo studiò il percorso e iniziò
l’arrampicata.
Qui accadde un fatto significativo. Il
collega che lo seguiva era in difficoltà,
quindi lo chiamò e gli chiese di aiutarlo.
Alfredo rispose prontamente di sì, riuscendo anche a completare la sua scalata, facendo provare la stessa emozione
all’amico.
39
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
stato bene ed ha avuto modo di provare
se stesso come cittadino del Mondo. Ritornato a Torino, lo
attendeva l’esperienza
americana. Infatti a
Torino si era deciso di realizzare una
joint-venture tra Fiat
e Chrysler: si trattava
di rinnovare i modelli,
ridimensionare i volumi, conservando un
ottimo comfort, minimizzando consumi ed
emissioni: in questo, si
sa, gli italiani sono da
sempre all’avanguardia. Non più macchine mastodontiche, difficilissime da rottamare, ma vetture snelle
che si districassero in
città turbinose.
Prima un periodo di
brevi trasferte, avanti
e indietro dagli USA e
poi, ancora una volta,
la FIAT gli propose un
lungo trasferimento:
due anni e mezzo a Detroit.
L’esperienza americana con
l’attività lavorativa, i rapporti
con le persone, la conoscenza
dei paesaggi naturali, è stata
per lui molto utile e gratificante: per testare i nuovi modelli delle nuove automobili si
è dovuto spostare nei luoghi
anche più reconditi e sconosciuti degli U.S.A.
Questa parentesi a lui è piaciuta e servita molto perché
ha avuto modo di conoscere
da vicino la società americana,
vivendo fianco a fianco con
colleghi bravi, di diverse parti del mondo e, al ritorno dal
lavoro, osservare una realtà
multiforme, dinamica e veloce nei tempi.
Ha avuto da CHRYSLER una
valutazione eccellente che
lo ha sicuramente motivato.
Nel frattempo si è sposato e,
se non sbaglio, Alfredo Scifo
pensa già a una nuova trasferta di lavoro, insieme alla moglie,.. magari in Cina.
La sua esperienza iniziale
come avolese nel mondo si
svolse in giro per l’Europa,
spesso in circuiti automobilistici, nell’ambito di un
gruppo - interaziendale (Mercedes, Bmv, Fiat, etc) di progettisti, dove collaborò, per
conto della sua azienda, alla
stesura di protocolli/normative di sicurezza da applicare
nella costruzione delle autovetture del Vecchio Continente. Poi gli fu offerto di andare in Turchia, dove la Fiat è
partner in una grande azienda nazionale “TOFA ” con
stabilimento di produzione
di automobili per il mercato
nazionale, furgoncini e macchine agricole, a Bursa. In
quell’occasione gli amici che
sono andati a trovarlo hanno
sperimentato che, come egli
ci aveva anticipato, l’ospitalità del popolo turco è tale, da
ricordare anche quella di noi
siciliani così come la bellezza
naturale di alcuni luoghi.
Qui, per due anni e mezzo,
nonostante la lontananza, è
40
ARTE
Prove in Arizona
Innamorati
all’infinito
di Giovanni Stella
C
osa bella e mortal passa e non dura. Così Francesco
Petrarca col famoso verso che ha coinvolto nei secoli quanti si sono interessati al tema dominante
dell’umana effimera bellezza. Eppure… pochi tratti di carboncino. L’arte del togliere, di tutto ridurre all’essenziale, eliminando il superfluo, come anche Sigmund Freud
avvertiva. L’arte… appunto. Quella cosa che, frutto da
mani d’uomo, sfugge alla sorte sintetizzata nel verso di
Petrarca. In quei pochi tratti c’è tutta l’essenza della vita.
Due esseri umani, un uomo e una donna: seduti su una
spiaggia, di spalle; lei lo abbraccia ai fianchi. Davanti il
mare sconfinato, infinito, dietro l’occhio discreto (o forse no) di chi guarda… Sono due ragazzi forse, due esseri
umani di certo. Gli innamorati è il titolo che l’autore Mario Zuppardo, pittore eclettico, poliedrico, artista vero, ha
dato a questa sua opera che per me rimane il punto più
alto della ingegnosità dei suoi lavori. Quel quadro – in copia s’intende; l’originale è custodito nella cassaforte, che
dico? nel cuore dell’autore – campeggia, unico, nella mia
camera da letto. È riportato nella copertina del mio libro Il
rigattiere e l’avventore e anche nella copertina interna dell’opera omnia, il macrotesto, Una vita (opere 1989-2003). A
guardare quel dipinto mi riempio gli occhi (e mi accorgo
che riempie anche gli occhi di chi lo osserva). Gli parlo,
gli recito versi. In verità li recito a me stesso: famosi, creati
da grandi poeti e, anche talvolta di più modesti, i miei. Gli
uni e gli altri, comunque, mi lavano il cuore. Gli innamorati, dunque. Che dire? Se dovessi scrivere quel che mi viene
di pensare, allora non poche righe ma un intero volume
occorrerebbe per riportare le impressioni, le emozioni, le
commozioni che quei tratti di carbone, segnati da mani
d’artista, hanno reso su un bianco cartoncino, riempiendolo in modo completo, definitivo, pittoresco, artistico e,
perché no?, poetico. Sì, quei segni sono poesia pura, autentica, assoluta, che si libra nell’aria ondeggiando come
una piuma. Ma sono anche simili a note musicali che sprigionano da uno strumento sia esso un violino, un pianoforte, un violoncello… o da un’intera orchestra diretta da
Riccardo Muti. Ora Mario mi ha fatto un dono irripetibile
e irrinunciabile. Mi ha fatto vedere – e i miei, si badi, non
sono …i grandi occhi…, né …il radioso, innamorato stupore
di Nausicaa – una sua ulteriore elaborazione e libera interpretazione dell’opera. Non solo quei semplici, splendidi,
tratti di carboncino. Ma stavolta il dipinto è diventato una
policromia di colori. Non più la sabbia immobile, ma il
mare culla quei due che s’amano. In fondo ai loro sguardi
…una siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo
esclude… Il poeta di Recanati, dello …infinito silenzio… che
…tra questa immensità s’annega il pensier.., stavolta è colui
che guarda e da voyeur osserva, apprezza, trasmette agli
altri le sensazioni ad alta voce – o, se volete, ad alto verso – a quanti hanno a cuore la durata dell’opera d’arte.
L’arte che, da mani d’uomo mortal, mai passa. E per Gli
innamorati e per quanti se ne coinvolgono nella visione …
il naufragar m’è dolce in questo mare.
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
di Giorgio Morale
U
n giallo, un noir, un romanzo
realistico, un romanzo psicologico con sfumature horror: questo e altro è Trinacria Park di Massimo
Maugeri, un pastiche di generi che compongono una sorta di roman philosophique capace di svolgere un approfondito
discorso cum figuris sul nostro tempo. Il
romanzo inizia con un nostos, topos tra i
più ricorrenti e produttivi della narrativa
siciliana, da Verga a Brancati, da Vittorini a D’Arrigo. Il ritorno all’isola anzi
trova espressione emblematica in una
scrittura controllata che ben esprime la
piena del sentimento:
Quando mette piede a terra Gregorio Monti avverte qualcosa di simile a un capogiro.
Senso di disorientamento, forse, renderebbe
meglio l’idea. Lui lo chiama effetto isola…
Non è un capogiro, no. E nemmeno senso di
disorientamento. È altra cosa, l’effetto isola.
È amore per il luogo in cui si è nati, è nostalgia per un passato irrisolto, è senso di colpa
per scelte incerte e opinabili. È tutto questo e
altro ancora (pp. 16-17).
La narrazione prosegue con un indiavolato intreccio di storie e personaggi dominato da grande sapienza compositiva,
che vede i preparativi, la realizzazione
e l’inaugurazione del Trinacria Park, un
parco divertimenti degno di fare concorrenza a Disneyland. Il luogo è quel
di Montelava, una piccola isola siciliana
mantenutasi selvaggia e dimenticata dalla storia e dal progresso. L’epilogo vede
la dissoluzione del progetto.
Questa in estrema sintesi la storia, condotta da tre donne assimilate alle tre
Gorgoni del mito; nella quale non c’è
episodio, dialogo, descrizione che non
apra squarci di significato. Il tutto tenuto
insieme da una scrittura solida che alterna scene e sommari, flash back e anticipazioni, brani lirici e riflessioni. Ugualmente grande è la capacità mimetica nel
rendere l’idioletto dei vari personaggi:
il monologo interiore di Manuel Veltri
ossessionato dai sensi di colpa, la parlata romanesca e siciliana di un regista e
di un’attrice impegnati nell’isola per la
realizzazione di un film, la retorica dei
discorsi del politico di turno, il delirio
della terrorista. Ne risulta una vicenda
avvincente come un giallo, attraverso la
quale l’autore realizza un apologo sulla
società contemporanea e sulla nostra civiltà, scorciandone il profilo dall’età del
mito ai giorni nostri e facendo della Sicilia non solo una metafora ma il simbolo
di una civilizzazione e di una condizione umana affermata con un sillogismo:
È l’uomo moderno a essere individualista…
(Io – e i siciliani) sono individualista… i siciliani sono molto moderni. (p. 75)
Massimo Maugeri ha occhi aperti alla
cultura contemporanea e al contempo
alla tradizione della sua terra, pertanto
applica all’epoca post-moderna la sofisticheria siciliana per dimostrarci che,
per quanto avanti si possano spingere i
tempi, la Sicilia è sempre lì ad aspettarci
con la sua antropologia e con un destino
profetico che parte da lontano: essere un
ponte naturale che unisce popoli e culture, un
ponte creato dalla natura e che al contempo incarna il sogno vivente dell’età
della globalizzazione. E adesso questo
sogno ha una realizzazione: il Trinacria
Park, nel quale il sogno diventa realtà.
Un sogno reclamato come bisogno da
soddisfare, secondo i dati forniti dal marketing e dall’industria del divertimento,
e in cui confluisce tutto, dalla Storia al
Mito, per essere miscelato per i fini superiori del profitto.
Un sogno frutto di una meravigliosa miscellanea di storia, tradizione, arte, spettacolo,
cultura, tecnologia (p. 160). Così il Parco
offrirà in pochi chilometri quadrati una
sintesi della Sicilia e della sua storia, disponibili all’umanità nella riproduzione
RECENSIONI
Trinacria Park: il sogno è qui!
virtuale di una copia di fronte alla quale
il vero scolorisce. Così il mondo vero diventa una favola, anzi una favola al quadrato, visto che un intero canale televisivo è dedicato a riprendere e diffondere
la vita del Parco e la sua buona novella.
Così questa favola diventa l’epilogo di
una civiltà che comincia con il Mito e
si conclude con il trionfo della tecnica:
alla confluenza di un traffico di uomini e
merci, di interessi criminali e politici, di
risorse tecnico-scientifiche e artistiche,
benedetto dallo star system internazionale e dai poteri nazionali e locali.
Diventa un progetto politico-culturale –
Il sogno è qui – (p. 127) a cui vengono affidati speranze di palingenesi e desiderio
di rivalsa e di riscatto del sud. Un sogno
in fondo al quale però si teme la ripetizione di antichi mali: la possibilità che
anche il Trinacria Park sia l’ennesima illusione, il frutto di una nuova manipolazione, la nuova cattedrale che alimenterà
nuovi e più aridi deserti.
D’altra parte cos’è il Trinacria Park se non
un’alterazione dell’isola in cui è sorto, occupandone l’intero spazio? (p. 171)
La morte sembra costituire un nocciolo
di verità sottostante a questa finzione.
Marina Marconi conduce la diretta televisiva dal Parco ma tra una battuta e
l’altra pensa alla morte del padre. L’attore Manuel Veltri recita e intanto ha fissi
in mente i corpi morti di moglie e figlio.
Monica Green esercita il suo potere di
direttore del Parco ma nasconde sotto
la facciata la morte dei genitori. C’è una
cosa che vi accomuna dirà Angela Metis la
morte di qualcuno che avete amato (p. 185).
Questa idea sembra trovare conferma
nello scoppio dell’epidemia che scombina tutti i piani e miete vittime anche
illustri nel Parco, senza nessun rispetto
per i rapporti sociali, come è nella sua
tradizione storica e letteraria. Sembra di
assistere al crollo di tutte le apparenze e
all’emergenza di una verità che giace al fondo, che sancisca il trionfo della naturalità
dei flussi corporei e della fisiologia.
Ma anche nella morte penetra la falsità e
l’indecenza, basti pensare alle scene che
precedono la morte dei genitori di Monica Green, che pure sono celebrati campioni dell’industria cinematografica hollywoodiana. Basti pensare a come risultino infondati i sensi di colpa nutriti da
Manuel Veltri, quando scopre che non
41
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
per amore del marito che
l’aveva trascurata la moglie
ha ucciso sé e il figlio. E
basti pensare a come l’industria dello spettacolo si
appropri della stessa colossale tragedia dell’epidemia
che sconvolge il Parco: Siamo nell’occhio di un ciclone…
L’unica possibilità di salvezza
è conquistarsi uno spazio nel
suo centro esatto e raccontarlo.
In altri termini: la tragedia è
colossale, i danni incalcolabili,
ma una trasmissione di questo
tipo assicurerebbe introiti pubblicitari immensi (p. 187). La
conclusione da una parte ci
dice che la verità è fittizia,
che ciò che sembra non è ciò
che è (p. 217). Dall’altro
l’isola ritorna ad additarci
un destino: “È tutto, l’Isola.
Tutto e il contrario di tutto”
(p. 224), a ricordarci che
non sempre è facile discernere ciò che è falso da ciò che è
immaginario. O immaginato (p. 224). Anche quello
che è stato contrabbandato
come uno scoop destinato
ad attribuire una autentica
benemerenza culturale al
Parco, il ritrovamento di
un antico poema sulle tre
Gorgoni, si manifesta essere un falso. E il canto struggente di E vui durmiti ancora
di Formisano e Calì, che
Gregorio Monti sente mentre lascia l’isola chiudendo
il cerchio degli eventi aperto dal suo ritorno, esprime la conferma di questa
duplicità: siamo immersi
in un sogno – o un sonno
– amoroso: dormire… forse
anche sognare, l’impedimento
è qui.
42
Elvira Seminara e lo strano caso
delle morti nolenti
di Paolo Randazzo
C’
è un buon libro da qualche mese
negli scaffali delle librerie: si tratta de La penultima fine del mondo il
romanzo che la giornalista e scrittrice catanese
Elvira Seminara ha pubblicato per le romane
edizioni “Nottetempo”.
È importante segnalare
che l’autrice è insieme
giornalista di vaglia e
scrittrice: le tipologie di
scrittura che attengono
a queste professioni,
infatti, notiziari e raramente riescono a convivere in modo fecondo
come in questo caso (da
una parte, nella scrittura
giornalistica, l’aderenza
alla realtà, dall’altro la
potenza creativa che si
serve anche della realtà per costruire mondi altri). Il romanzo di
cui parliamo si dispiega a partire da una formidabile idea narrativa: il caso di un paese
siciliano di appena ottomila anime improvvisamente e definitivamente attraversato da
una serie numerosa e ininterrotta di suicidi
misteriosi e non determinati (o anticipati)
da alcun particolare e apparente tormento o
dramma esistenziale o sociale. Suicidi caratterizzati, al contrario, da un enigmatico sorriso accennato sulle labbra, morti “nolenti”,
quasi uscite di scena discrete quando si sia
compreso che la pessima qualità del copione
non giustifica più la recita.
Questo il motore narrativo e da qui, senza
mai smarrire l’assoluto rigore metaforico, il
romanzo propone sino alla fine una straordinaria varietà di toni, atmosfere, punti di vista:
l’ironia, la comicità, amara fino al sarcasmo,
della prima parte (la stampa nazionale e internazionale che si accampa nel paesotto, la
rumorosa e vuota pornografia di talkshow,
il solito codazzo di turisti, guardoni e speculatori d’ogni risma, per poi fuggire tutti,
immediatamente, quando si decreta un ferreo
silenzio stampa per evitare eventuali epidemie
mondiali del misterioso
malanno), quindi la piega
metafisica e umbratile che
la narrazione assume nella seconda parte, laddove
la vita del paese sembra
rinchiudersi in sé stessa e
introiettare definitivamente un diverso rapporto tra
vita e morte. Ecco, questo
è il nodo concettuale: se
non si dà più un senso alla
morte (come accade nelle
nostre società) è il senso
stesso della vita che perde
pregnanza e, di fatto, non
ha più senso vivere e battersi se non per rompere (anche paradossalmente scomparendo)
il volgare e pseudo-vitalistico incantesimo
che ci avvolge. Omogeneamente a questa
parabola narrativa ci sono almeno altre tre
caratteristiche che rendono notevole questo
romanzo: la scelta di legare la vicenda a una
dimensione interamente provinciale della
contemporaneità, quasi a significare che la
perdita di senso che il mondo attraversa non
consente paradisi appartati o comode vie di
fuga; quindi la qualità e il ritmo della scrittura che, eccettuate alcune cadute di tensione,
resta sempre colta, consapevole e duttile; infine la capacità dell’autrice di disegnare dei
personaggi (Margherita, il prete Don Cristoforo, lo scrittore, il barista) che conservano
un’autonoma misura di verità anche quando
la narrazione s’inerpica sui più scoscesi e
nebbiosi sentieri della metafora.
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
Annotazioni su Voci altre
di Angelo Fortuna - Foto di Corrado Bono
V
engono da distanze apparentemente siderali, dagli spazi immensi, silenziosi e imponderabili
dell’umano, dai gironi infernali di una
casa di detenzione, che il confuso vociare del mondo relega ai margini della
cosiddetta società civile per non esserne
disturbata nei suoi riti e nella quotidianità della sua indifferenza, quell’indifferenza che apparve tenera, anziché tragica com’è, soltanto a Jean Meursault, lo
“Straniero” di Camus, chiamato a pagare con la vita il suo alienante vagabondaggio, sfociato nell’assurdità dell’omicidio gratuito, e la sua estraneità ai modi
di essere dei “normali”.
L’opera poetica Voci altre di Sebastiano
Burgaretta (Melino Nerella Edizioni,
2012), con prefazione di Paolo Di Stefano, composta di perfetti endecasillabi,
che solennizzano i drammi messi in scena e la lingua adottata, rifugge da forme
di pietismo lesive della dignità dell’umanità marginale descritta, e, grazie alla
sofferta esperienza dell’autore, risale e
percorre le erte della compassione e della
solidarietà. Il che gli consente di scavare
delicatamente nei cuori delle persone e
di individuare ferite lancinanti nonché
squarci di profondo sentire che ricollegano i fratelli auto-emarginatisi, per aver
percorso i facili sentieri della devianza,
all’umanità in faticoso cammino verso
la redenzione. È questa una delle principali ragioni per cui l’opera è dedicata “a
quanti, dentro e fuori, cercano sé stessi”.
Per esempio, a coloro che si trovano dinanzi a un presepe preparato con canne
di palude, materiale povero, in sé senza
valore. Eppure in questo presepe, frutto
dell’entusiasmo dei detenuti che hanno
fornito la materia prima, i calamici rizomi,
per realizzarlo, si riflette il mondo intero. Il
riferimento è all’uomo, canna pensante
di pascaliana memoria, che dà il senso e
la misura della grandezza e della miseria
della persona: L’homme n’est qu’un roseau
mais c’est un roseau pensant (“L’uomo non
è che una canna, ma è una canna pensante”, scriveva Blaise Pascal). Canne,
foglie e segatura illuminano a giorno il
Natale, nella misura in cui il presepe così
concepito esprime il sogno del possibile
riscatto, l’apertura dei sentieri dell’assoluto per l’uomo in bilico tra il tutto e il
nulla. Nello smarrimento, nel grigiore
dei giorni senza sole, i volti dei bambi-
ni, speranza del mondo, tengono viva
l’attesa dell’umanità dolente nei luoghi
di detenzione, in cui è cada dia omnino
uguale all’altro. Pur nell’abisso del male/ in
vita scandagliato, la dignità della creatura
umana, immagine di Dio, non perde il
suo straordinario valore. Il prefatore riprende a ragione un endecasillabo che il
poeta mette in bocca a un condannato
per mafia, che ha già alle spalle una trentina d’anni di carcere: Stu strazzu i dignità
nul-l’agghju persu (Non l’ho perso questo
straccio di dignità).
Sì, perché anche “nei luoghi oscuri del
martirio”, per usare l’espressione di
Paolo Di Stefano, il riscatto è sempre
dietro l’angolo, a patto di far luce sulla
grandezza dell’uomo che, pascalianamente, è fondata sul pensiero e sulla ragione, il cui ultimo e più importante passo consiste nel “riconoscere che c’è
un’infinità di cose che la sorpassano”. E
che cosa c’è di più degno dell’uomo del
perdono che il bene contagia/ in cuori inariditi,/ non consumati ancora/ dall’amorosa
arsura? Ma qual è la differenza tra noi e i
detenuti, da cui ci separano alcune inferriate? Sono forse in grado questi cancelli
di costituire una barriera insuperabile tra
la loro e la nostra nudità? Smarriti nel
mistero del cosmo, non è questione di
numero di grate, ma piuttosto di ricomposizione dei contrasti per procedere in
interiore tenerezza verso la libertà. Da
dove viene quella fragilità che spiazza
alla radice e annichilisce l’uomo? Allorquando sperimentiamo il vuoto di coscienza, sintomo ed effetto delle ferite
inferteci dal male, è fatale essere colti da
quell’umidità, ê canneddha ri l’ossa gelo
acuto, che si avverte oltrepassando il
quarto cancello del carcere di Noto, che
bello sembra esteriormente, ma cu c’è-ddhi rintra li vai li viri. Riprendendo un concetto caro a papa Francesco, il carcere è
una periferia geografica ed esistenziale,
dove la luce fioca alla scacchiera/ schermata
in fondo al pasadero non basta a ridare serenità a un aplastado figlio senza luce. L’impotenza sembra regnare in quel luogo di
dolore. Malgré tout, il Verbo, evangelicamente parlando, che nessun delitto, per
quanto atroce, può spegnere completamente nel cuore dell’uomo, resiste in
questa periferia dell’umano, pronto a riemergere. Si precisa qui la concezione
cristiana di Sebastiano Burgaretta, per
cui nulla è senza rimedio perduto di ciò
che Cristo è venuto a riscattare a caro
prezzo. La possibilità di riemergere, di
rivedere la luce è reale, allorché il volontario che testimonia la sua fede in quel
luogo di detenzione resta sbalordito dinanzi alla confessione-considerazione di
un detenuto: Nessuno mai mi parlò di me/
nessuno mai mi disse: Dio t’ama. Ecco
come l’interiorizzazione dell’amore di
Dio verso ciascuna persona può rendere
nuovi i colori dell’arcobaleno: “Io faccio
nuove tutte le cose”. Il poeta registra il
lamento di chi brancolava nel buio: Cieco
il passo mio in tanti anni/ sul verso quotidiano andò vagando,/ fuori cercando quello
ch’era dentro./La strada fu la mia famiglia,/
tutto da lì venne il mio presente,/ bianco e
nero insieme computati. Dopo anni perduti
al seguito di un’insensata routine senza
avvertire il richiamo del vero, del giusto,
del bello, lo specchio riflette ora un’immagine in rovina, e però “risorgente”,
perché la rinascita è possibilità reale alla
sequela di Cristo. È ricorrente in Burgaretta il tema dell’amore che, pudicamente praticato nel nascondimento, rende
effettiva la sua fraterna pietas, che illumina gli occhi spenti degli ospiti della
casa di detenzione. C’è all’origine una
determinata volontà di condivisione, ricercata e conquistata infine grazie a una
lettera di accettazione della sua istanza
di volontariato. L’obiettivo, di alto spessore umano, è una fusione di anime: Vita
43
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
Da sx Paolo Di Stefano, Sebastiano Burgaretta, Grazia Maria Schirinà e Sebastiano Lo Monaco
tua compenetrata in vita mia,/ il pieno subentrato al buco nero. Dov’è il pieno?
Dov’è il buco nero? Facile l’individuazione per il superficiale che sentenzia rimanendo fuori dalle mura, al di qua dei
cancelli: il pieno sono io, il buco nero
sono quelli che stanno lì dentro. Sartre
ha fatto scuola: “L’enfer c’est les autres”.
Difficile impresa, invece, per il poeta che
chiede aiuto, per esprimere i suoi stati
d’animo a lingue altre, per meglio ascoltare le “voci altre”: El mundo todo dividido
en dos/ en cada hombre que padeciendo sigue/ es aquel que se refleja frente a ti. Ma
non si ferma allo spagnolo, lingua da lui
particolarmente amata, idonea a comunicare la ricchezza polivalente della tenerezza interiore, la particolare coloritura dei suoi sentimenti, gli slanci verso
l’altro in cui specchia sé stesso. Burgaretta adotta anche, quando spinto da esigenze poetiche, la lingua materna siciliana, il greco, l’arabo, l’ebraico, episodicamente pure il latino, per descrivere la
molteplicità umana all’interno dei luoghi di detenzione. Non si tratta di volontà di dissimulazione, ma di desiderio di
penetrazione umana per meglio vivere il
dramma dell’altro che, come orso in
gabbia, fa su e giù nella sua cella, sguardi
rivolti al pavimento, remissivi, uniformi,
tutti uguali. Ma quanta umanità, quanta
ricchezza, quanta capacità di liberazione
in una terzina che registra una corrispondenza affettiva sconfinata: A un timido sorriso di saluto/ affidi una carezza
trasparente/ que llama viva lleva de tu alma.
Un fascio luminoso di sole che, entrando
attraverso una finestra, spazza via l’oscurità. Il riscatto è sempre dietro l’angolo per chi è attraversato dalla potenza
dell’amore. Lo stile complesso, penetrante, mai banale del poeta, anche grazie alle interferenze linguistiche accennate, impreziosisce il messaggio, dandogli adeguata estensione. Non poteva
Burgaretta passare sotto silenzio i mo-
44
menti tanto attesi di ricevimento dei familiari. Veramente capitale l’importanza di questi istanti, specialmente se coperti da quella riservatezza che consente
agli attori di aprire il cuore e di incamerare energie per sostenere la crudeltà
della lontananza. I secondini, pur nel rispetto dei loro complessi compiti, dovrebbero assecondare lo scambio di confidenze restando a debita distanza. Ma
non manca l’intraprendente “realista più
del re” che, con il suo andirivieni, narici
al vento e bieco/ nei tre metri/ all’uscio del
vano dei colloqui, impedisce ogni forma di
privacy con sospetti di chissà quali macchinazioni, segreti, complotti. No, decisamente no, la nostra nudità non è per lui./
Lontana, siderale dimensione,/ comprenderla non è in suo potere./ Neri complessi porta
sul groppone,/ la sua fisionomia financo
ignora,/ rendendo vana qui la sua persona.
Scorre liberamente il verso interpretando finezze dell’animo umano, che riscattano la mediocrità di soggetti senza coscienza. Giustificata l’esclamazione del
poeta: Casa querida al Padre sulla terra,/
con quanto tremore ti frequento! Eppure altro non è che un universo di some, in cui
pallidi volti sono votati alla ricerca di misura umana, un universo in cui spesso
domina la paura del domani che impedisce di vivere la luce interiore di cui ogni
detenuto, come ogni uomo, è portatore.
Bastano quattordici versi a Burgaretta
per esprimere poi gli artificiosi ostacoli
frapposti alla pietas dei volontari, cui
sono concesse due ore per il loro servizio ai carcerati. Il che rende remota ogni
giacenza di pietà. I molti cancelli da attraversare, uniti alla diffidenza dei secondini, alla loro superficialità e all’incapacità
o mancanza di volontà di trovare il detenuto destinatario della visita, tutto fa sì
che, a tempo scaduto, ti si comunichi
che la visita non è più possibile, che le
due ore concesse sono trascorse e che
non ti resta che tornartene a casa. D’al-
tra parte, anche quando riesci a conversare con il detenuto che hai richiesto,
sguardi di compatimento, dal primo quasi
all’ultimo gallone, non ti risparmiano
noie. Per i secondini sei solo una pietra
d’inciampo; a loro avviso non fai che
perdere tempo con questi delinquenti.
Non sanno che nulla … si perde sotto il
sole/ e tutto può rinascere dal niente. Sensibilità d’animo nel volontario impegnato
nel servizio ai detenuti fa rima con determinazione, con la convinzione che Dio
non dimentica alcuna delle sue creature,
perché tramite il sacrificio del Figlio ha
reso il riscatto possibile a tutti. Chi ha
una conoscenza anche solo esteriore della situazione carceraria sa che uno dei
momenti più orrendi è quello del bivacco
… bisettimanale di parenti dei detenuti,
arrivati da ogni dove. Allora una folla di
persone si contende alcune panche messe a disposizione dalla direzione; molte
di esse si sfogano, raccontando il loro
sventurato caso. C’è la moglie che si lamenta per essere stata trascinata nella
sventura dalla testardaggine del consorte, che mai volle ascoltare le sue giuste
lagnanze nel vederlo avviato sulla via
della devianza: … trent’anni ri cummogghju mi mittisti,/ cattiva sugnu ccô maritu
vivu. C’è pure, tra i detenuti, colui che
incontrando la madre, si autodefinisce
sbinturatu, consapevole della tribolazione, a cui l’ha condannata con i propri
errori. Non manca poi il giovane che, in
un gesto di abnegazione, rinuncia volontariamente alla ragazza alla quale un dì
giurò eterno amore. Non ha bisogno
Burgaretta dei cinque atti canonici della
tragedia per arrivare alla catastrofe. Gli
bastano poche pennellate, per esprimere
gli aspetti salienti del dramma. Il giovane detenuto innamorato, dopo la dura
condanna subita, comprende che non
può tenere legata a sé la bella diciannovenne. Sarebbe una crudeltà, un supplizio, considerata la lunghezza temporale
della sua pena. Ricorre allora a una bugia, necessaria anche se gli strappa il
cuore. Le comunica per lettera di essere
innamorato di un’altra: Salvifica bugia pagata cara,/ pago di tanta libertà donata,/ da
solo chiuso in bagno a sera piangi. In pochi
versi Burgaretta dipinge il delicato quadro di una bugia pietosa, ma sconvolgente per chi la pronuncia. Può il male convivere con il bene e la colpa con l’innocenza? La risposta è sì, anche se è più
facile osservare il fenomeno che spiegarlo. Nel misero condannato, il cui dolore
va diritto al cuore, il poeta legge il limpido azzurro dell’innocenza impressa agli oc-
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
chi tuoi. Veramente insondabile il mistero intrinseco alla persona umana, il bene
con il male coniugato, che, tuttavia, non
cancella la possibilità di trasformare l’urlo in spasimo d’amore,/ lo stesso che nel tempo t’ha salvato. Certamente, non si osservano né, tanto meno, si comprendono
tali sorprendenti fenomeni attraversando con occhio svagato cancelli, corridoi,
celle di un carcere. Occorre quella capacità di partecipazione silenziosa, di condivisione di cui il poeta dà prova, testimoniando delicata riservatezza in ogni
situazione. Egli sa che là dove c’è l’uomo c’è pure la coscienza, anche se, a volte, è difficile individuarla. Perfino il più
duro e apparentemente insensibile dei
condannati non riesce a nascondere la
sua delusione, se non arriva un atteso biglietto natalizio di auguri. La coscienza
o il semplice dubbio di essere condannato all’oblio consegna il suo animo confuso al disagio più profondo. Comprende
che il suo nome non è che una voce
smarrita nell’abisso, come tante altre
perdute nell’elenco morto/ d’un faldone serrato a più non posso/ per mesi e mesi in un
cassetto muto/ e poi dimenticato come niente. Non resta che scivolare negli oscuri
meandri d’un sogno fatto incubo tremendo.
L’umanità afflitta, che staziona nelle
case di detenzione, in seguito all’arrivo
in massa sulle nostre coste di derelitti,
provenienti dall’est e dal sud del mondo,
ha subìto un incremento. Il poeta registra la presenza di un giovane nativo di
Valona (Albania), che ha deturpato, ma
non perduto la sua dignità, con un’azione delittuosa. È importante annotare
come Burgaretta non si nasconda dietro
un facile innocentismo. Sa bene che le
persone che stanno dietro le sbarre, a
parte qualche raro caso, non sono esenti
da colpe anche gravi.
Come l’albanese, anche il giovane originario dello Yemen aspetta un gesto di
pietà, anche lui è inseguito dal fantasma
del passato, dei suoi errori. Per entrambi ha un gesto di misericordia, un forte
invito a non cedere alla fragilità. In quel
finale tu non cederai allo sconforto, c’è tutta la sua prossimità, la sua esortazione
a salvaguardare nella sventura la propria
ricchezza umana, che consiste nella certezza di essere comunque figli di Dio.
Non è una realtà scontata, perché lo
scorrere uguale dei giorni in stato di detenzione, oltre a recidere il filo che consente di vivere in pace con sé stessi, mette a rischio l’identità umana, quel rischio
che un gagliardo distico bilingue così
descrive: Sbarrato il flusso a la ventada nue-
va,/ persiste il male a divorarmi duro. Chi
avesse dubbi sulla tecnica, per così dire,
plurilinguistica del poeta, si soffermi un
istante sulla ventada nueva per constatare
come l’accostamento, in questo caso, italo-spagnolo, conferisca forza inedita alle
significazioni profonde dei due versi.
Venuto meno anche il pensiero di Dio, a
sera, non resta al detenuto che chiedere
la fine del suo patire nel sonno scivolando
alle sue braccia. Se c’è chi chiede al sonno un po’ di pace, c’è pure chi prende
atto di avere iniziato un cammino di liberazione grazie allo studio, iscrivendosi
all’Università e preparando le materie
del corso di laurea prescelto. Ha trovato
così un obiettivo per cui impegnarsi: Gli
anni passeranno in ogni modo,/ sarà dono
prezioso sublimarli,/ e tale dono in mano io
tengo. Varie e complesse, dunque, le presenze nel carcere di Noto; ciascun detenuto porta il peso dei suoi condizionamenti, la sua più o meno gravosa storia,
ma non sa che la sua avventura-sventura
è una fiamma che brucia nel cuore e nella mente del poeta, esperto in compassione, un potente stimolo alla sua crescita in umanità. Ecco che ora ascolta il
tragico interrogativo dell’immigrato che,
avendo appreso dello sbarco di trentatre
suoi connazionali nei pressi del lido di
Noto, si chiede se per caso non ci sia
tra loro suo fratello: Chissà se vive libero
e cammina/ o se il mare l’ha preso nel suo
letto? Non regge il suo cuore a quel pensiero, così come, ne siamo certi, quello
del volontario che l’ascolta. Un altro
figlio di Allah non si dà pace, vuol sapere perché si trova in gattabuia; giura
e spergiura di essere innocente. Non sa
che cosa rispondere il poeta, sconvolto
dalla sua fragilità che desnuda sin piedad
el alma mia. E come far sentire la propria
vicinanza a chi sa quanto lontano sia il
volto amato della sua Amina! C’è forse
possibilità di ristoro alla febbre che lo divora, consolazione per chi sente smarrito per sempre il senso della vita? È il momento per Burgaretta di riflettere sugli
oneri imposti alle sue spalle dalla scelta
di dare speranza spesso contro ogni possibilità di speranza. Che dire mai a chi,
pur sapendosi giustamente condannato
per questioni di mafia e pur sapendo
quanto vano sia il suo grido di rivolta,
si chiede cchi vita è ca scunci nta mpittusu?!
Molto meglio sarebbe il lavoro all’aria
aperta nei campi della Sardegna per chi,
convinto, afferma di aver conservato almeno un po’ della sua dignità. Quello
che arriva ad autodefinirsi la melma del
sociale, anche perché manca il rispetto per il
tuo vicino,/non ombra c’è di nuda umanità,
non si sottrae al canto dolente della perduta libertà, mentre attende la fine di sti
vintinov’anni/ unniçi misi e-bbintinovi iorna. Arrivate le Erinni, le Eumenidi e Nemesis, è doveroso ricercare e trovare in
sé il barlume d’oro che sopravvive, cioè
l’autenticità e i valori perenni dell’uomo.
È difficile tutto ciò per chi si porta in
seno la pena per aver lasciato i figli senza
padre, confessando la propria impotenza
di padre fuori ruolo. Maledetto il crimine
commesso ora che, nella notte, appare la
sua enormità. È tremendo il rimpianto
per chi non può più odorare i profumi
della sua terra, come il ciauru i nipiteddha, e per chi sa che è tagliato ogni sentiero per un suo ritorno nella terra d’origine e pensa che perfino Allah abbia
cancellato il suo nome. Il poema a cento
scene diverse con il comune denominatore della sofferenza e del pessimismo si
conclude con la lirica di soli undici versi, le cui due prime parole danno il titolo all’intera opera: Voci altre. Dichiara il
poeta che voci altre son quelle che tu odi,/
voci lontane eppur così vicine. Diffidenza,
paura, timori, non possono esimerci
dall’ascolto, la sera, quando pare il giorno
pianger che si more. Guardandole riflesse
allo specchio, la loro diversità svanisce
in favore della comune sostanza umana
che nessuna erranza, per quanto grave,
può eliminare. Nessuno meglio di Burgaretta, osservatore silenzioso, attento,
discreto, profondamente sensibile alle
loro angosce e vicende esistenziali, da
lui apprese senza giudicare ma, anzi,
con intensa partecipazione personale,
con fiducia, con amore, può testimoniarlo. L’esplosione della solidarietà, insieme alla pietà, al perdono e alla compassione, è salvifica.
Sebastiano Lo Monaco
45
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
Note su Effatà
di Costanza Lutri
Effatà è un romanzo storico che narra le
tragiche contraddizioni dei regimi totalitari del secolo scorso e gli avvenimenti conseguenti all’attuazione del sogno
hitleriano della “grande Germania”.
Nell’impianto e nella delineazione del
personaggio principale evoca un grande
romanzo storico del ‘900, “La storia”di Elsa Morante, per cui Nino di Effatà
come Useppe de La storia sono emblemi
di una condizione permanente di minorità di un’ infanzia negata a milioni di
bambini presenti negli scenari di guerra
del mondo. Sarebbe comunque riduttivo
non sottolineare il carattere psicologico,
didattico, essenzialmente etico del romanzo come l’afflato emotivo di cui è
pervaso, proprio della sensibilità dell’autrice che apre al lettore con disincanto
consapevole le pieghe della profondità del sentire, sia esso amore materno,
come nel caso di Nino, il bimbo di otto
anni, protagonista della storia, sia l’amore tout-court, come in Stasera Anna
dorme presto o la pietas che accompagna
l’esposta Francisca in Tu non dici parole.
E questo amore in Simona Lo Iacono
si traduce sempre in un tormentato rapporto con le parole: “parole per i ricchi e
parole per i poveri. Le une lette, scolpite,
recitate, belle bellissime, come cose che
non sono di questa terra. Le altre lorde,
bastarde e fetenti dell’alito di chi ha lo
stomaco vuoto” per Francisca, le altre
ancora “rimaste impigliate in qualche
infrattatura di tonsille” tutte nella testa
di Nino, perché Nino, apprendiamo in
modo laconico nell’esordio del romanzo, non può sentire e “parole e segnali…
non sa a quale lingua appartengano, inglese, italiano, siciliano. O forse le sogna
le parole ed è tutta un’illusione questo
credere che gli altri le dicano, questo
pensare che prima o poi lui e la gente
possano capirsi”. È qui che la macrostoria e la microstoria, come il romanzo e
la realtà, si intrecciano e si confondono
perché Nino, figlio di un ufficiale inglese della seconda Guerra mondiale e di
un’attrice siciliana tornata giocoforza a
Siracusa da Londra, con vaghe promesse di matrimonio da parte dell’amante,
Nino con la sua zazzera color del miele e il suo fare scanzonato malgrado
l’handicap, entra nella storia; vi entra
in modo inconsapevole, attraverso un
“fil rouge” che lo lega indissolubilmente
46
al passato, alla catastrofe senza riscatto
perpetrata dal nazifascismo. Quando
il 15 settembre del 1935 il regime hitleriano promulgò le leggi di Norimberga,
l’antisemitismo e il pregiudizio razziale
nei confronti degli ebrei raggiunsero il
loro apice, ma non solo, si trattava di
uno strumento per escludere da ogni
diritto gli ebrei ma anche tutte le minoranze discriminate in quanto non confacenti con gli ideali eugenetici del regime.
La legge al titolo I recitava: Legge per
la cittadinanza del Reich e attribuiva la
cittadinanza solo “all’appartenente allo
stato di sangue tedesco o affine…”, al
titolo II: “Legge per la protezione del
sangue e dell’onore tedesco”in nome dei
quali venivano vietati i matrimoni tra
Ebrei e cittadini tedeschi, i matrimoni
già celebrati erano ritenuti nulli, erano
proibiti i rapporti extramatrimoniali con
ebrei, era proibito persino avere domestici ebrei. Via, via, adeguandosi i vari diritti di famiglia, commerciale, del lavoro
alla legislazione razziale, seguirono decreti di espulsione degli ebrei dalle professioni, dalla proprietà, dall’esercizio
del commercio, dall’esercito. Il piano
di realizzazione della “razza ariana” si
spinse oltre: fu approvata la Legge sulla prevenzione della nascita di elementi
ereditariamente malati”. Il provvedimento fu il più radicale di altre misure
di igiene razziale limitative delle libertà
delle comunità di Rom e di zingari in
genere, dei neri, degli omosessuali, dei
portatori di malattie genetiche. Furono
considerati cittadini di classe B i tedeschi deboli di mente, gli schizofrenici, i
maniaco-depressivi, i malati di epilessia
gli affetti da “corea”, i ciechi e i sordi
ereditari, i portatori di malformazioni
fisiche e malattie ereditarie, gli alcolisti.
La legge sulla prevenzione prevedeva la
sterilizzazione e la polizia era autorizzata a fare irruzione nelle abitazioni e
prelevare l’interessato con la forza anche
in caso di minore e contro il parere dei
genitori. Anche ai bambini quindi fu riservato il programma Acktion T4. Ma
questa è un’altra storia, Nino Smith vive
nella Siracusa del dopoguerra, con le
sue “mutande di lana che fanno odore di
piscio”ed in tasca “tre code di lucertola
essiccate, un impasto di farina e acqua
rubato a donna Sarina — la padrona di
casa — una piuma di gallo e un mezzo
dente finto che ha spacciato per vero”,
vive con la madre, Dora Genesio, attrice
al teatro Luna, che da quando è tornata
da Londra ha cambiato nome, ha cambiato faccia e ha cambiato notti e poi
Nino, come ogni eroe che si rispetti ha
dei nemici: un nugolo di ragazzacci che
lo canzona per il suo handicap mentre
lui “legge tutto. Legge le labbra. E legge
gli occhi. E le mani che si stropicciano
o le gambe che tremano. Legge tutto,
Nino, il corpo è per lui un immenso libro che spiega, che dice. Che rivela”.
Nino infine ha anche un piano: comunicare, trovare mezzi di comunicazione,
in breve trovare le parole negate, desiderate, compresse nella mente, “ Nino
vuole riannodare la bocca alla radice dei
pensieri”, come dice l’autrice. La macrostoria lo risucchia, lo coinvolge, lo libera.
Accanto a Nino, l’ombra del suo doppio,
del bambino bruno sognato dall’autrice
impone un gesto di speranza, un atto di
totale dedizione. Nel progetto risolutivo Simona Lo Iacono non fa appello a
Tyche, ma a Themis, non alla fortuna
nella sua cecità e indifferenza, ma alla
giustizia, ritenendo necessario un riscatto, un contrappasso che la storia ha negato. Il processo di Norimberga e quello
di Gerusalemme si conclusero con una
serie di condanne a morte, alcune pene
detentive, qualche assoluzione. Né l’intera vita di Simon Wiesenthal e dei suoi
collaboratori del “Centro di documentazione ebraica”, dedicata a rintracciare i
criminali nazisti, sfuggiti alla cattura,
poteva bastare a dirimere il male assoluto perpetrato nella civilissima Europa
del XX secolo. Simona Lo Iacono affida
all’uomo la possibilità di interrompere
la catena dell’odio, di rigenerare le coscienze, attraverso un’assunzione di responsabilità che oltrepassa l’esperienza
dell’espiazione della colpa e si espande
in un autentico atto d’amore.
AAnno
nnoXIV
XIVnn. .21(33)
(32)- -DAIcembre
gosto 2013
2013
Il sigillo del Palladio
di Grazia Maria Schirinà
ell’ultimo numero della nostra
rivista si è scritto sulla visita
a Vicenza e dell’incontro col
nostro socio e amico Corrado Buscemi, del quale nel corso del 2009, in
collaborazione con la Fidapa di Avola e la sua presidente, Sara Morale,
abbiamo presentato il volume Il sigillo
del Palladio. Dino è nato ad Avola ed è
residente a San Bonifacio, in provincia
di Verona, dal 1965. Ci fa piacere, in
questa sede, visto che non l’abbiamo
fatto prima, darne una breve lettura.
Forse la nostra era va verso la riscoperta dell’antico, forse c’è un nuovo
bisogno di rapportarsi col passato, per
carpirne i segreti più intimi, andando
a frugare anche nell’intimo dell’uomo,
il cui mistero resta ignoto e pieno di
interrogativi. Hanno fatto scalpore, il
“Codice da Vinci”, “Angeli e Demoni”, il “Codice Carlo Magno”, etc.
Già da tempo, o meglio da sempre, le
avventure dell’uomo nell’ambito delle religioni e della mitologia, nei suoi
vari luoghi d’origine, hanno suscitato
interesse; le mappe dei tesori hanno
ispirato i più svariati autori e la ricerca della verità ha scosso l’interesse di
tutti. Esoterismo, archeologia, massoneria, ordini, tra cui primo quello dei
templari, gli Esseni e la loro cultura,
da sempre vengono guardati con distacco e timore o con amore e atten-
N
zione. Ma, in effetti, si tratta di storie
nella storia che tutti viviamo, di storie
che ci attraversano anche a nostra insaputa, ci coinvolgono e ci affiancano.
Non tutti hanno occhi per vedere, ma
a volte il caso, anche il più imprevedibile, come almeno ci sembra, ci porta
a conoscenze che lasciano sconvolti
e ci trascinano. Questo può avvenire
anche attraverso la lettura di un buon
libro, quale è Il sigillo del Palladio. Il testo si presenta, a prima vista, come un
romanzo poliziesco, con la scoperta di
un cadavere sui gradini della basilica
palladiana; vittima è un diplomatico
americano, ucciso in modo insolito:
con un compasso a doppia punta. Ma
già l’interesse viene catturato dalla figura di un giovane che si trova seduto
in un bar della stazione ferroviaria di
Vicenza, dall’apparenza quanto mai
insolita, soprattutto per i caratteri somatici che vengono abilmente descritti dal nostro autore, il quale procede
nella ricerca, attraverso le indagini del
commissario Reale, di origine siciliana. Questi, nell’espletamento delle sue
mansioni, si trova a essere coinvolto in
un’intrigata vicenda di carattere internazionale, alle prese con riti che pensava inesistenti o scomparsi, e paesaggi
reali e concreti. Viene ampiamente descritta la provincia di Vicenza, quasi in
un itinerario storico, per apprezzarne
Primavera 2009: da sx Francesco Magro, Assessore alla Cultura, l’Autore, Sara Morale
e Grazia Maria Schirinà (archivio Gli Avolesi nel Mondo)
le bellezze; segno, questo, che il nostro
autore si è inserito benissimo nel suo
ambiente d’elezione, ma segno anche
del grande amore che nutre verso questa sua nuova patria e le bellezze architettoniche e paesaggistiche che essa
presenta. In primis, l’attenzione verso
il Palladio, pseudonimo di Andrea di
Pietro, e la sua architettura. Grazie
alla centralità storica e personale del
Palladio, si attua una sorta di viaggio
a ritroso nel tempo con la ricostruzione del passato e l’indagine sempre più
accattivante, di eventi tra loro collegati
dal sottile filo coinvolgente del collegamento all’attualità. Oltre a Vicenza
l’azione si sposta, anche se per brevi
tratti, a Bruxelles, Napoli e Madrid,
ma anche qui il gusto per la ricerca e
la ricostruzione in spazi visibilmente
noti e riconoscibili, trasportano il lettore nella consapevolezza degli eventi.
“Un tesoro misterioso attraversa i secoli, perduto, cercato, scomparso, forse ritrovato. Un tesoro oggetto di molti
desideri, a volte portatore di morte”.
Il Sigillo del Palladio, che è di fatto un
thriller, offre ampi squarci di saggio
vero e proprio, per gli approfondimenti culturali che presenta, aprendo tuttavia anche la strada a molteplici ipotesi
che restano sospese, lasciando al lettore la curiosità della scoperta della verità. Un’opera intrigante e da leggere.
47
BUONA SANITÀ
Anno XIV n. 2 (33) - DIcembre 2013
Agli “angeli” dell’ U. O. di Malattie infettive
dell’Ospedale di Nocera Inferiore
di Maria Teresa Caparelli
S
pesse volte si sente parlare di malasanità e il personale ospedaliero
è tacciato di superficialità e incompetenza, per cui, quando si fa un’esperienza del tutto diversa, si ha l’obbligo
civile e morale di rivelare che non sempre è così.
Io, personalmente, posso testimoniare che nell’U. O. di Malattie infettive
dell’Ospedale di Nocera Inferiore è tutto
il contrario.
Nel suddetto reparto, infatti, la
professionalità e la serenità del
prof. Corrado riescono a rasserenare anche il cuore più inquieto;
il dott. Giordano, un “pozzo” di
esperienza e caparbietà che, benevolmente, ho soprannominato
l’ammazza virus è sempre tenacemente proteso nello sterminare
ogni forma di “invadenza”;
la dott.ssa Sullo dagli occhi
profondi e dal cuore tenero e il dott.
Tisi benevolo e accogliente verso
tutti, trasmettono serenità e fiducia
a chi è tormentato dalla malattia
e dalla sofferenza. Non ultimo è
d’uopo rilevare il senso del dovere,
l’attenta e assidua collaborazione
di tutto il personale paramedico ed
ausiliare.
Tutto ciò fa di questa unità l’eccellenza
ospedaliera che ogni degente vuole, spera e deve trovare.
La malattia affligge l’anima, il cuore e
il corpo del malato… e la vostra missione d’amore restituisce ciò che il dolore e
lo sconforto vogliono rubare… e io non
posso che dire grazie, mille volte grazie,
e augurare a tutti che il Signore ne renda
merito donando salute e santità di vita.
Diamo comunicazione del seguente progetto,
al cui svolgimento la nostra rivista si è impegnata a dare divulgazione
Datata “Firenze, 26 novembre 2013”, è arrivata “Al Rappresentante legale dell’Istituto e per conoscenza alla Sig.ra
Giuseppina Piccione Ist. di Istr. Sup. E. Majorana via Labriola 96012 Avola - SR” l’attesa approvazione di un progetto
presentato nel settembre 2013 a nome della docente citata. Pertanto, dal 7 al 18 aprile 2014 la prof.ssa Giusy Piccione, docente
di Storia e Filosofia all’I.I.S “E. Majorana” di Avola, sarà impegnata in un’esperienza all’estero (Francia) di grande valore
professionale e personale, grazie alla sua candidatura ad un progetto europeo, secondo un programma di apprendimento
permanente, Formazione in Servizio Comenius, che ha ricevuto l’approvazione e il finanziamento. La professoressa per due
settimane presso il Centro Cavillam di Vichy, associato all’Università di Clermont-Ferrand, parteciperà ad attività di
formazione in servizio avendo l’opportunità di:
- migliorare le competenze d’insegnamento
- ampliare le proprie conoscenze linguistiche
- raggiungere una più ampia consapevolezza dell’istruzione scolastica in ambito europeo.
48