Allora abitavano al Lido
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Allora abitavano al Lido
Marco Toniolo AUTORITRATTO AGLI ALBERONI Allora, da poco sposati, abitavano al Lido, in via Jacopo Da Riva, affacciati su San Lazzaro degli Armeni. Gianni e Caterina stavano passeggiando verso gli Alberoni, in quel pomeriggio d’inverno del 1962 in cui l’aria pareva riscaldarsi per un anticipo di primavera. Mentre erano equidistanti da laguna e mare, in mezzo ad una fitta vegetazione, ai margini di un prato incolto, trovarono un relitto di camioncino abbandonato ad arrugginire. Gianni, che portava sempre con sé la macchina fotografica, chiese alla moglie di posare con lui per un autoritratto. Appoggiata l’inseparabile Hasselblad su un muretto, l’autoscatto dopo dieci secondi li immortalò in una posizione distaccata, seri, quasi cupi; eppure i loro sguardi erano fieri, quello di Caterina appagato per l’inizio della sua prima gravidanza, quello di Gianni umilmente consapevole del proprio valore. Ma era come se entrambi sapessero che lui avrebbe dovuto lasciare Venezia entro alcuni anni, per trovare lavoro a Milano come fotogiornalista. In questa città era solo un fotoamatore, non veniva remunerato; nel capoluogo lombardo sarebbe diventato Gianni Berengo Gardin. Faceva parte del circolo “La Gondola” assieme ad altri nomi veneziani come Bepi Bruno, Bolognini, Del Tin, Scarpa, Milozzi e inizialmente anche Fulvio Roiter, ma aperto anche ai forestieri come Paolo Monti. Erano fotografi che, sulle orme del neorealismo cinematografico, andavano a scandagliare la cruda realtà sociale italiana, fino in sperduti paesini del Sud, curando comunque che le loro stampe avessero una gradevolezza formale. Già dal 1958 a Dorsoduro frequentava la casa di Peggy Guggenheim, una poliedrica intellettuale e collezionista statunitense che si era trasferita sul Canal Grande. Ca’ Venier dei Leoni era ritrovo di artisti che vivevano o passavano per Venezia, come Giuseppe Santomaso, l’istriano Zoran Music e sua moglie Ida Barbarigo, il poeta Ungaretti e il compositore Luigi Nono, che lo aveva soprannominato Berengo Cardellin, in omaggio alla leggerezza musicale che gli evocava. Gianni li fotografava tutti, uno per uno, nei loro studi, nelle loro case, riuscendo a estrarre da loro espressioni e intenzioni comunicative che ancora molti anni dopo sarebbero state esposte nelle grandi gallerie d’arte europee. Uno dei suoi soggetti preferiti era il pittore Tancredi, Tancredi Parmeggiani, originario di Feltre: c’era qualcosa in quell’uomo che affascinava l’intuito di Gianni: la determinazione a raggiungere la fama, l’inquietudine senza tregua. Qualche anno dopo Tancredi si sarebbe suicidato a Roma, gettandosi nel Tevere. A Dorsoduro, c’era anche lo studio di Emilio Vedova che gli regalava qualche disegno in cambio dei ritratti fotografici che Gianni gli faceva. Emilio era solito esaminare le istantanee di Gianni capovolgendole per studiarne le masse dei chiaroscuri, per verificare che fossero equilibrate. Erano passati vent’anni da quando Gianni aveva immortalato se stesso e Caterina vicino al rottame di furgoncino. Francesco aveva visto quella fotografia in una mostra a Ca’ Giustinian, e ne era rimasto colpito. L’analisi di una fotografia permette di intensificare l’esperienza, acuisce l’esperienza del sentire, del percepire i sentimenti. Quella era un’immagine da cui sprigionava un’intensa malinconia, la sensazione dell’impossibilità di realizzare qualsiasi progetto, la maledizione della condanna all’incertezza. Gianni lì aveva trentuno anni, solo tre in più di quanti ne avesse Francesco ora, ma avendo già perso molti capelli sembrava più attempato. Francesco era un pittore, e forse perché ancora molto giovane, del tutto sconosciuto. Eppure nei suoi dipinti vi era la tradizione coloristica veneziana coniugata con tutte le ricerche d’avanguardia del Novecento. Anche a lui sarebbe servita una donna intraprendente, capace nelle pubbliche relazioni, abile nel parlare, indomita negli affari, insomma in grado di portarlo alla notorietà, come, quando frequentava l’Accademia, sentiva dire della moglie e assistente del suo docente, Emilio Vedova. Assorto in questi pensieri, fra le dune deserte degli Alberoni un lunedì pomeriggio, Francesco non si era reso conto che era giunta da poco sulla spiaggia anche una ragazza, la quale stava più in là verso la riva del mare, distesa a prendere il sole. Quando si alzò per dirigersi verso la battigia, la vide meglio: aveva indosso solo le mutandine da bagno, un bel fisico solido, non troppo alta, i capelli castani scuri a caschetto. Quando la giovane si inoltrò nell’acqua, camminando per qualche metro per poi immergersi e nuotare, lui non esitò: uscì dal suo riparo e, incurante della sua nudità, la imitò andando però ad una certa distanza da lei, per non essere inopportuno. Si guardavano da una ventina di metri, continuando a nuotare ciascuno per i fatti propri, ma fortemente incuriositi dalla singolare presenza altrui, immergendosi e riemergendo. Francesco praticava anche lo stile a delfino, e ciò catturò definitivamente l’attenzione di Rita, incuriosita anche dal fatto che lui non portasse il costume, proprio come il protagonista di un vecchio film di Tinto Brass. Uno dopo l’altro risalirono sulla spiaggia, senza però riuscire a rivolgersi una parola. Si ridistesero sui loro asciugamani, il tempo di far evaporare le goccioline salate. Era abbastanza tardi, ormai verso sera. Si rivestirono, e fu allora, sulla via per andare alla fermata dell’autobus, che i loro cammini s’incrociarono. Ma non sapevano cosa dirsi. Erano già nella corriera in partenza, quando Francesco le chiese “Ho un panino portato da casa, ne vuoi un pezzo?”. Temeva di ricevere un ferma e scostante rifiuto del suo invito, invece Rita rispose: “Sì, grazie”, con un sorriso inaspettato. Rita si era da poco laureata in architettura, e collaborava per qualche ora al giorno con uno studio di colleghi più anziani. Abitava nella zona del porto commerciale, a Santa Marta, da sola, in un monolocale. Quella sera Francesco non andò da lei, ma si scambiarono i numeri di telefono e gli indirizzi anagrafici. Questo dava un senso preciso di concretezza, di identificazione, di partecipazione e di coinvolgimento responsabile. Erano ancora lontani i tempi in cui i giovani si sarebbero scambiati anonimi numeri di cellulare e sfuggenti indirizzi elettronici. All’indomani sarebbe dovuto partire per la metropoli lombarda, anche lui come in passato Gianni e tanti altri in cerca di riconoscimento professionale. Ma sarebbe tornato presto, e sarebbe corso a Santa Marta, a casa di Rita, accolto con dolcezza a cena e poi nella camera da letto. Com’era appagante essere accolto da una veneziana, una concittadina portatrice di una cultura antica, arricchita lungo i secoli da influssi greci, bizantini, orientali ma anche mitteleuropei. Una cultura piena e variegata, raffinata, che per quanto riguarda le donne aveva avuto un grande esempio storico nelle cortigiane, intellettuali colte e libere di gestire la sessualità, anche se spesso in cambio di compensi. In fondo anche il matrimonio poteva essere considerato una forma di prostituzione perenne della casalinga la quale dipendeva, anche se era proprio lei ad amministrarle, dalle finanze del marito. Si trattava soltanto di differenti declinazioni assunte dal desiderio sessuale rispetto alle convenzioni sociali. Il desiderio sessuale, motore e carburante dell’amore. Suo nonno, poco prima dello scoppio della Grande Guerra, andava a trovare la fidanzata, la futura moglie che stava nella casa bianca proprio sulla Punta di S.Giuliano, con la sua barca a remi, a forza di braccia, lungo un canale che partiva da sotto casa sua, in via Caneve a Mestre. E ora lui, disperso nell’anonima e frettolosa metropoli milanese, ogni settimana tornava a Venezia, da Rita. Assieme andarono un paio di volte ancora agli Alberoni, nell’oasi naturale lontano dallo stabilimento balneare dove si confondevano con la sabbia, le erbe e gli arbusti. Avrebbero partecipato anche all’inaugurazione della mostra del fotografo Robert Mupplethorpe a Palazzo Fortuny. Un evento importante per la città, un incontro imbarazzante per Francesco: pur senza conoscerlo, Robert quella sera lo aveva fissato intensamente per dei lunghissimi attimi, come se lo immaginasse un possibile modello. Nella sua celebrazione del corpo disvelato, il newyorkese era sempre alla ricerca del modello ideale in cui si combinassero un volto interessante con una forte personalità. Ma le foto di Mupplethorpe erano trasgressive, ritraevano nudi maschili e femminili esibiti sia nella loro muscolatura che negli organi genitali. Addirittura vi era un autoritratto dell’artista, vestito soltanto di un corpetto nero che s’infilava il manico di una frusta nell’ano. Quelle fotografie rappresentavano una voragine infernale capace di risucchiare tutto, trasformare la bellezza e creare mostri sconosciuti con aspetti meravigliosi. Il giovane era attratto dall’arte del più adulto Robert, ma nello stesso tempo ne era spaventato. A Rita non sfuggì il muto dialogo di sguardi fra i due, ma non chiese alcuna spiegazione né fece alcun commento. Il giorno dopo, nel tardo pomeriggio, invitò Francesco a seguirla lì vicino, sempre a Santa Marta, in quello che era stato un negozietto di macelleria, e che ora veniva usato come laboratorio per la libera creatività da lei e una sua amica. Lo fece accomodare nel soppalco, lo fece stendere, su un materasso ricoperto da una tela variopinta, lo spogliò, incominciò ad accarezzarlo, a palparlo, ad esplorare ogni parte del suo corpo e, quando lui come inebetito si consegnò alla sua volontà quasi facendo le fusa, lo penetrò con le dita, a lungo, fino a renderlo sempre più morbido, esclamando con entusiasmo e sorpresa: “Guarda! Sembra una figa!”. Dopo che Rita ebbe sfogato il suo desiderio maschile, fu la sua volta, e Francesco lo fece con studiata dolcezza e rinnovata perizia, poiché ora sapeva cosa si provava. La storia d’amore non durò a lungo: lei decise di dedicarsi ad amori saffici, lui per qualche tempo avrebbe trovato un’altra veneziana disposta ad accoglierlo il venerdì sera di ritorno dalla terra lombarda. Alla fine dovette sposare una milanese.