Sul Tutto - Società Italiana di Studi Araldici
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Sul Tutto - Società Italiana di Studi Araldici
N. 32 – Anno XVIII – Dicembre 2012 – Pubblicazione riservata ai soli Soci Attività della società Sabato 6 ottobre si è svolto nel palazzo Gondolo della Riva, ospiti del nostro consocio Pietro Gondolo della Riva il nostro XXX convivio scientifico con al presenza di numerosi soci. Dopo il saluto del Presidente ed il suo ringraziamento al padrone di casa per la disponibilità dimostrata nei confronti della Società, il Dott. Gondolo ha illustrato brevemente il significato degli stemmi che adornano la sala in cui si svolgeva il convegno e tutti relativi ad alleanze matrimoniali. pseudo tali sorto negli anni scorsi e dell’azione in atto per frenare un’attività che ha del malaffare. Il prof. Luigi Alzona ha svolto un intervento dl titolo Testimonianze araldiche di Patrizi Genovesi alla corte papale nel Seicento: i Costaguta/ Costaguti ricco di spunti d’interesse storico-araldici; il socio Michelangelo Ferrero ha presentato un lavoro enciclopedico e del tutto inedito Piemontesi all’Università di Padova (14001565) nel quale sono raccolti tutti i dati relativi alla presenza di studenti o docenti di origine piemontese nel periodo indicato, opera certosina di ricerca che potrà essere valido strumento per ulteriori studi. Giorgio Casartelli Colombo di Cuccaro è intervenuto sul tema Riferimenti piacentini negli stemmi di Cristoforo Colombo di Cuccaro scopritore delle Americhe, argomento che da parte di un appassionato conoscitore della materia ha messo in evidenza aspetti inusuali e che possono sfuggire riguardo l’araldica legata a Colombo ed alla sua discendenza. Gabriele Reina ha parlato sul tema Il mausleo di Desaix al Gran San Bernardo ricordando la genesi dell’opera voluta da Napoleone per onorare la memoria dell’amico che gli aveva procurato, lasciandoci la vita, una delle sue più celebri vittorie. Prima dell’intervallo per la colazione si è avuto l’intervento di Andrew Martin Garvey dal titolo La Royal Navy a Napoli nel 1742, l’araldica di alcuni comandanti le navi, si è così ricordato un episodio storico poco noto, risalente alla guerra di Successione d’Austria, quando le navi inglesi per far cessare l’intervento del Regno di Napoli, allora da poco sotto lo scettro di Carlo III di Borbone, a favore di Spagna e Francia si presentarono nel Golfo di Napoli minacciando di bombardare la città. Alla ripresa dei lavori è intervenuto Alberto Gamaleri Calleri Gamondi con una importante relazione dal titolo Feudo-Feudalesimo e società feudale nel diritto medievale e nell’incivilimento europeo, argomento trattato, malgrado la sua ponderosità, con gusto e leggerezza che ha tenuto ben attenti i presenti. Ha poi parlato Enzo Modulo Morosini sul conclave svoltosi nella Abbazia di S. Giorgio Maggiore a Venezia Arma Gondolo della Riva: Successivamente ha avuto inizio il convivio vero e proprio, durante il qual sono state illustrate sinteticamente dieci relazioni, tutte di notevole interesse. Per primo è stata data la parola al consocio Alberto Lembo, che attualmente fa parte di una commissione presso il Ministero degli Affari Esteri che fra l’altro si occupa della determinazione dei criteri per il riconoscimento degli Ordini cavallereschi. L’intervento dal titolo Repubblica e nobiltà ha riguardato i problemi connessi con i titoli nobiliari, il trattamento da loro previsto dalla Costituzione repubblicana e il proliferare di ordini cavallereschi a Chiesa dell’Abbazia di S. Giorgio Maggiore a causa dell’occupazione di Roma da parte dei Francesi, iniziato nel 1799 e conclusosi nel 1800 con l’elezione Pio VII, illustrando gli stemmi dei Cardinali presenti, quello della Venezia austriaca, ove la coda del leone è abbassata, il titolo dell’intervento è ovviamente complesso S.Georgii Maioris Venetiarum Pridie Idua martii MDCCC “Annuntio vobis gaudium magnum Papam habemus … Pius VII” . La loro storia si svolse, sempre, gloriosa innestandosi nelle vicende della città di Alessandria e, poi, della nazione. Re, papi, imperatori, si compiacquero di ricompensarli con le più alte onorificenze nobiliari e cavalleresche ed essi ebbero titolature di principi, marchesi, conti e baroni di moltissime signorie feudali. I Guasco originari della Provenza ebbero, quale capostipite, un certo conte di Vasco. In Monferrato furono signori di Alice e di Belmonte e, successivamente, ottennero la contea di Gavi, nel genovesato, ed il marchesato di Castelletto nell’alessandrino (stato di Milano). Molti personaggi della famiglia furono vescovi alessandrini e capitani al servizio di Spagna. Tra gli antichi vogliamo ricordare Scipione Guasco che partecipò, nel 1094, alla crociata in Terrasanta ed ivi morì, nel 1099, sotto le mura di Antiochia. Fu ricordato da Torquato Tasso, nel suo poema: “La Gerusalemme liberata”. Uberto Guasco signore di Alice, valoroso condottiero ed uno dei più importanti cittadini di Alessandria nel sec. XIII che fu anche detto: « il primo degli alessandrini».Rimasto nelle cronache della sua città per aver fatto prigioniero il marchese Guglielmo di Monferrato che, rinchiuso in una gabbia di ferro, appeso all’archivolto della casaforte dei Guasco, finì miseramente i suoi giorni in Alessandria, il 6 febbraio 1292. Stemma di Pio VII Paolo Edoardo Fiora di Centocroci ha presentato una relazione di grande interesse araldico dal titolo Ampliamenti d’arme, cimieri e concessioni corredata da numerose figure che hanno suscitato grande interesse e che si sarà certamente lieti di poter leggere nella sua interezza negli atti del convegno. Angelo Scordo ha chiuso l’incontro con un intervento dal titolo “Le famiglie nobili di Reggio Calabria” di Pasquale Catanoso . Al termine il saluto del Presidente che non ha mancato di rinnovare oltre ai più fervidi ringraziamenti per la partecipazione anche di richiedere ai Consoci il loro contributo di pensiero per la rubrica studi del nostro sito internet e per il Arma notiziario antica ( Sul Tutto. V): MdB trinciato Un’antica famiglia alessandrina: i GUASCO È noto che le più cospicue ed illustri casate riferibili ai vari stati compresi nell’impero romano-germanico trassero la propria origine da pochi ed antichissimi personaggi, per lo più di sangue regio, i cui discendenti, diedero origine, nel corso del tempo, a nuove famiglie, generalmente individuabili dal nome del loro feudo o da qualche soprannome guerresco o di carica o di qualità fisica o morale. Uno dei gruppi più insigni è quello dei Manfredingi, di sangue regio, congiunto, per via femminile, alla casa carolingia. Da questo gruppo discesero con altre nobilissime casate subalpine: i di Biandrate, i di San Bonifacio, i Rati-Opizzoni, i Barbavara, i Trotti, gli Avogadro e venendo a quelle che concorsero alla fondazione di Alessandria, i Dal Pozzo, i Canefri, i Calcamuggi, i Firuffini, gli Zoppi ed i Guasco di Belmonte e di Sezzé. Per questa remotissima origine, sono dunque, i Guasco, di sangue regio. 2 Arma antica (prima del sec. XV): trinciato cuneato d’oro e d’azzurro sotto un capo d’argento carico di due branche di leone strappate, in banda quella di sinistra, in sbarra, quella di destra, tenenti entrambe un anello d’oro in cui è incassato un diamante. Cesare Guasco signore di Alice, valoroso condottiero e commissario generale delle fortezze del patrimonio apostolico. Il papa Pio V, suo conterraneo, lo nominò governatore di Ancona che difese contro gli attacchi turcheschi e, nel 1566, per manifestargli il proprio apprezzamento, concesse a lui ed ai suoi discendenti, di porre l’arma papale nella propria e di caricarla, vieppiù, con il gonfalone di Santa Chiesa. Cesare Guasco morì in Ancona nel 1568 e colà fu sepolto in Duomo. Bernardo Guasco fu senatore di Milano. Cesare Guasco giureconsulto di fama. Francesco Guasco professore di leggi in Pavia. Manfredo podestà di Tortona. Orazio Podestà di Asti. Tutti nel XVI secolo. Arma moderna (dal sec. XV): inquartato; nel 1° e nel 4° di rosso a due branche di leone d’oro strappate, in fascia, in fascia; quelle di destra rivolte, tenenti tra le stesse, un anello d’oro in cui è incassato un diamante; nel 2° e nel 3° tagliato cuneato d’azzurro ed oro; sul tutto: di rosso, al gonfalone pontificio d’oro, caricato di due chiavi poste in croce di S. Andrea, con gli ingegni in alto e addossati, quella di destra d’oro e l’altra d’argento. Lo scudo: addossato all’aquila bicipite. Cimiero: un leone nascente e coronato d’oro, tenente, con la branca destra, un anello come quello nello scudo. Motto:C’EST MON DESIR. Tra le figure più importanti del casato spicca: Don Carlo Guasco marchese di Solero e governatore del Basso Monferrato che, nel 1644, sposò, a Gand, la principessa Enrichetta di Lorena, vedova del proprio cugino Ludovico di Lorena principe di Lixheim e Phalsburg. Nel contratto matrimoniale, gli sposi, fecero una donazione vicendevole: «in caso di morte, tutti i beni dell’uno, sarebbero passati all’altro». In aggiunta, la principessa, stabilì che avrebbe lasciato al consorte ed ai figlioli, che dal loro matrimonio fossero nati, anche il principato. Inoltre dispose che in difetto di eredi diretti, il principato medesimo, sarebbe spettato al più anziano rappresentante dei Guasco e, quindi, alla sua discendenza. L’imperatore Ferdinando III convalidò tale accordo, ed elevò, per buona misura, Carlo Guasco, alla dignità di principe del Sacro Romano Impero e lo dichiarò, altresì, principe del sangue. Ebbe trattamento di Altezza Serenissima. Morì nel suo castello di Brucht, presso Anversa, nel 1650. Particolare interessante, sotto il profilo storico-nobiliare, è costituito dal fatto che, il titolo di principe, pur molto diffuso negli stati italiani, non fu mai conferito da Casa Savoia a famiglie piemontesi, sebbene, in Piemonte, siano esistite e tuttora sono presenti, casati della più alta nobiltà ”originaria”. In Piemonte furono insigniti della dignità principesca, solamente gli Imperiali di Francavilla (principi di Montafia); i Ferrero-Fieschi (principi di Masserano); i Dal Pozzo (principi di Cisterna detti, poi, della Cisterna) ma, tutti, di nomina pontificia, poiché, questi feudi, erano tutti sotto il dominio diretto della Sede Apostolica (vere e proprie “enclaves” poste nei domini monferrini e sabaudi). Don Carlo Guasco, altro di questo nome, fu marchese di Serralunga, consigliere e senatore del duca di Mantova e di Monferrato Vincenzo Gonzaga. Diresse le fortificazioni della città di Casale e colà morì nel 1615. Don Giovan Francesco Guasco conte di Clavieres, nacque nel 1708, fu generale comandante in capo dell’esercito austriaco durante la guerra dei sette anni e si distinse nelle battaglie di Kollins, Breslau ed a Moys, al comando dei granatieri della guardia imperiale. Nel 1758 ottenne il grado di luogotenente maresciallo di campo. Nel 1759 fu nominato governatore di Dresda. Morì a Koenigsberg nel 1763. Don Francesco Guasco-Gallarati marchese di Bisio e Francavilla fu “maire” e poi sindaco di prima classe di Alessandria. Fu “principe” dell’accademia degli Immobili e barone dell’ Impero nominato direttamente da Napoleone I, successivamente fu gentiluomo di camera di Carlo Alberto e cavaliere dell’Ordine Civile di Savoia. Nato ad Alessandria nel 1783 ivi morì nel 1860. Per successione nobiliare aveva aggiunto, al proprio cognome, quello dell’antico casato milanese dei Gallarati insignito dei titoli di marchesi di Cerano e conti di Piola e di Desio. Don Emilio Guasco-Gallarati marchese di Bisio e di Francavilla, conte di Frascaro, nato al castello (materno) di Murisengo nel 1878 e morto in Alessandria nel 1976, ottenne, con motu proprio, di S.M. il re Vittorio Emanuele III, il rinnovamento del titolo di Principe, il 27 novembre 1933. Appassionato studioso di storia e genealogia, Don Emilio, coadiuvò il padre, Don Francesco, nella stesura del Dizionario feudale degli antichi stati sardi e della Lombardia, pubblicato dalla biblioteca della società storica subalpina e nella compilazione della preziosa opera: Tavole Genealogiche di Famiglie Nobili Alessandrine e Monferrine che, rimasta interrotta alla morte del proprio genitore, portò a compimento da solo. Nel 1925, il governo, lo decorò della medaglia d’oro per i benemeriti della pubblica istruzione. Con il di lui figlio, il principe don Francesco (1914 – 1991) celibe, nato dal matrimonio del padre con la contessa Silvia Manin, patrizia veneta, si venne ad estinguere questo illustre e millenario casato alessandrino. Alberto Gamaleri Calleri Gamondi L’ultima carica della Cavalleria Italiana Col il presente articolo non si intende raccontare la storia del reggimento Cavalleggeri di Alessandria per il quale si rimanda ad un’altra occasione, ma rievocare un episodio della II Guerra Mondiale che per motivi più che altro politici non venne mai messo in luce. Così mentre numerose sono le rievocazioni relative alle imprese di alcuni nostri reggimenti a cavallo, quali quelle di Novara e Savoia nella campagna di Russia, nulla o quasi da parte cultori di storia militare si ricorda dell’impresa dei Cavalleggeri di Alessandria impegnati nella guerra in Croazia, contro le bande partigiane locali. Qui si riprende l’interessantissima conferenza tenuta dal tenente colonnello Franco Brunetti , in sede di presentazione del libro “Le ultime sciabole” di Fulvio Flumis del quale si riporta la parte relativa alla carica di Poloi, sunteggiando i preliminari per evidenti motivi di spazio. Il reggimento mobilitato all’entrata in guerra dell’Italia venne inquadrato nella 1^ Divisione Celere Eugenio di Savoia, il 13 aprile del 1941 entrò in Croazia dove non ebbe a dover superare significative resistenze. In seguito nel’estate di quell’anno si scatenò nell’intera Jugoslavia un guerriglia che assunse ben presto dimensioni imponenti, rispetto alla quale i reparti italiani dislocati in Croazia non erano considerati truppa di occupazione ma si vestivano dello status di “truppe stanziate nel 3 territorio di uno stato indipendente amico”. In tale periodo di tempo le attività del reggimento appaiono confluire in una gamma di azioni che si potrebbero definire di polizia, incentrate soprattutto nel controllo delle rotabili, nella scorta convogli e in perlustrazioni durante le quali erano frequenti scontri a fuoco. Il giorno di Natale del 1941 avvenne il cambio del comando di reggimento che venne assunto dal colonnello Antonio Aimone-Cat. L’inverno particolarmente rigido portò ad una sorta di stasi, nella primavera 1942 si ebbe il ritorno in sella del reggimento e la prosecuzione delle operazioni previste o imposte dalla situazione, con una crescente intensificazione durante l’estate e a settembre con ricognizioni che portarono a scontri con gli elementi partigiani, sempre più attivi e più audaci. Con il 1° di ottobre ebbe inizio un importante ciclo operativo che durò sino al 23 ottobre, ma per Alessandria la partita si giocò il 17 ottobre. La Redazione fiumi, era stata segnalata una consistente presenza di partigiani, che aveva portato alla decisione di effettuare una operazione finalizzata a ripulire tutta la zona. L’azione di sorveglianza proiettava Alessandria lungo una fascia di territorio che si sviluppa lungo la riva sinistra del Dobra, in pratica a sud dell’attuale autostrada che collega Karlovac a Fiume. Le operazioni lungo il Dobra durarono quattro giorni e non diedero alcun risultato anche se le fonti informative confermavano la presenza di circa 600 partigiani. Al termine dell’azione il reggimento rientrò a Generalski Stol, e venne inquadrato in un raggruppamento mobile costituito da un battaglione di Camicie Nere, due squadroni di carri leggeri e una batteria di artiglieria. Al comando del raggruppamento venne posto il generale Mazza, che ricopriva l’incarico di Vice Comandante della 1^ Divisione Celere. Le puntate a vuoto dei giorni precedenti non convincevano i comandi superiori. Il nemico c’èra si doveva riprendere la ricerca. Il generale Lomaglio, Comandante della 1^ Divisione Celere, decise di riportare in azione i cavalleggeri spingendoli più in profondità nel territorio. L’ordine fu di raggiungere Perjasica da Generalski Stol, quindi effettuare una puntata in direzione sud verso Primislje, anche se il terreno su cui agire si prestava alle imboscate, il percorso era obbligato, non vi erano possibilità di effettuare manovre laterali e l’obiettivo da raggiungere era posto a circa 20 km di distanza. Perjasica F. Korana F. Mreznica F. Mreznica Primislje F. Korana Il Reggimento Cavalleggeri di Alessandria 1 La carica di POLOJ Dal 6 ottobre Alessandria abbandonò i consueti impegni di vigilanza e scorta per vedersi inserito in un raggruppamento mobile a cui viene affidato il compito di esplorare, scoprire e segnalare le forze partigiane. Poi, una volta che la cavalleria avesse agganciato e fissato i ribelli, sarebbero intervenute le Divisioni “Lombardia” e “Cacciatori delle Alpi”. In pratica la mobilità dei cavalleggeri doveva costringere gli avversari a svelarsi determinando la localizzazione delle forze e la loro consistenza. L’area nella quale operava Alessandria è quella dell’attuale confine fra Croazia e Slovenia nel territorio che i fiumi Dobra, Mreznica e Korana chiudono in un abbraccio a sud-ovest dell’abitato di Karlovac. In questo territorio racchiuso tra i 4 I dieci giorni trascorsi senza difficoltà con le ampie battute suscitarono negli uomini una certa fiducia e forse anche un senso di superiorità. I partigiani, se c’erano, non dimostrarono alcuna intenzione di accettare il combattimento. Alle ore 09.30 del 16 ottobre iniziò il superamento del fiume Mreznica a 3 km da Generalski Stol. La marcia dei cavalleggeri avveniva secondo le norme di sicurezza con una formazione a losanga che vedeva in avanguardia il 4° squadrone, il 3° alla destra e il 2° a sinistra, mentre al centro avanzavano lo squadrone comando e quello mitraglieri. Dopo un quarto d’ora, dalla estremità dell’ala destra un plotone del 3° squadrone venne fatto segno a raffiche di armi automatiche e di fucile. Il reggimento che si trovava a metà strada fra Generalski Stol e Perjasica in un luogo chiamato Orescansko era entrato in contatto con una parte della retroguardia dei partigiani, circa 60, appostati die- tro una cresta. Il plotone ingaggiato risalì al coperto la collinetta e il suo comandante si rese conto che per eliminarli non v’era altra soluzione che caricare. I partigiani, vestiti in kaki, bustina tre punte, stella rossa al fregio, si arresero; appartenevano alla “Udrane Brigade” (brigata d’assalto), l’esercito regolare della resistenza. Si legge nel diario storico: «Gli squadroni hanno trovato un terreno difficile ma l’addestramento è buono e sopperisce alle difficoltà di una orografia che non si può proprio definire di campagna. Inoltre solo i reparti montati hanno potuto avere ragione di decine di uomini bene armati con il movimento rapido, con l’urto, con il balzo offensivo, con la manovra d’impeto che ha sostituito la massa di fuoco». Il reggimento rientrò a Perjasica avendo perso due cavalli ed avendone avuti feriti 5. Il generale Mazza però confermò l’ordine originario di raggiungere Primislje. Alle 14.00 Alessandria si rimise in marcia con la consueta formazione losanga lungo la strada sterrata che si sviluppa quasi parallela al fiume Korana. Al colonnello Aimone Cat era lasciata autonomia di giudizio: raggiungere Primislje se possibile, decidere quindi se rientrare alla base o pernottare sul posto, secondo la situazione contingente. Il movimento procedette spedito ed indisturbato per una decina di km, fino alla biforcazione che da Poloj porta a a destra su Primislje e a sinistra a Veljun, dopo aver attraversato il fiume Korana sul ponte di Cika. Era questo un punto delicato, proseguendo la marcia si lasciava scoperto il fianco sinistro da cui potevano infiltrarsi bande partigiane e tagliare la strada al reggimento durante la fase di rientro. Il colonnello Aimone Cat decise di portare tutti gli squadroni al ponte ed occupare le posizioni sui costoni della riva sinistra del fiume per costituire basi di appoggio di fuoco. Intorno alle 16.00, Alessandria era di nuovo a contatto con forze avversarie, gli equipaggi carri segnalavano colpi di arma da fuoco provenienti dalle alture della sponda opposta del fiume. Il comandante decise di battere con il fuoco delle mitragliatrici le alture circostanti. I partigiani risposero con il fuoco di armi pesanti e con il tiro di mortai mentre piccoli gruppi nemici cercavano di portarsi sui fianchi e sul tergo del reggimento. Non restava che effettuare uno sganciamento per vanificare la manovra avversaria. Nel frattempo si cercava il collegamento radio con il comando superiore che veniva meno così come veniva a mancare il collegamento con la batteria di artiglieria, che era rimasta nei dintorni di Perjasica, e che sarebbe dovuta intervenire in caso di difficoltà o di forte presenza di forze nemiche. Mancando i collegamenti si dovette tornare al vecchio sistema del portaordini, che in motocicletta doveva andare a riferire al generale Mazza sulla situazione, chiedere l’intervento dell’artiglieria e comunicare che il colonnello Aimone Cat intendeva di rimanere sul posto per non doversi sganciare con il buio con il nemico sempre più incalzante. Dopo 4 ore il portaordini tornò con le nuove disposizioni: il reggimento poteva permanere in zona ma il giorno successivo doveva raggiungere Primislje e infine rientrare su Perjasica e procedere alla distruzione del ponte. Il generale Mazza non aveva colto la gravità degli eventi se riteneva ancora necessaria e possibile la puntata su Primislje e se credeva che le forze sul posto fossero in grado di distruggere il ponte. Intanto alle 18.00 l’artiglieria iniziò a battere le alture sulla riva destra del fiume laddove era stato richiesto il suo intervento, senza però poterne verificare l’efficacia in quanto il reggimento si era sganciato dalle posizioni sulle quali era stato attaccato. Gli squadroni avevano ripiegato ed era stato evitato l’accerchiamento. A quel punto il colonnello Aimone decise di rientrare a Perjasica che raggiunse alle nove di sera senza ulteriori problemi, e si presentò a rapporto dal generale Mazza. Il bilancio delle perdite della giornata era di due cavalleggeri feriti, 7 cavalli uccisi e 3 feriti . In poco meno di 12 ore Alessandria aveva affrontato due combattimenti ed in particolare nel secondo il era venuto a contato con forze superiori e dotate di armi pesanti riuscendo a sventare con una manovra ben coordinata l’accerchiamento e la distruzione. Era ormai chiaro che tutta l’area compresa tra i fiumi Mreznica e Korana era interessata al movimento di unità partigiane ben equipaggiate che intendevano assicurarsi il controllo delle vie di comunicazione gravitanti a sud di Karlovac. Alla luce degli obiettivi avversari sarebbe stato necessario rivedere la pianificazione ed avere una maggiore disponibilità di forze, ma per Alessandria la missione era sempre la stessa: costringere il nemico a svelarsi. Il 17 ottobre il reggimento doveva quindi percorrere la stessa via su cui si era già tanto impegnato, spingersi fino a Primislje, costituire l’elemento di forza di un raggruppamento che inquadrava il 3° squadroni carri leggeri, una sezione di artiglieria ed un battaglione Camicie Nere. Si trattava di replicare le operazioni del il giorno precedente. Il 17 ottobre la sveglia suonò all’alba. In tutti c’era la premonizione che sarebbe stata una giornata campale dopo che al ponte di Cika il nemico si era svelato numeroso e ben organizzato. Ma bisognava pensare anche ai cavalli, più di 600, che da due giorni non bevevano. Si decise di provvedere a questa esigenza in vista delle operazioni e che il reggimento scendesse a scaglioni su una spiaggetta ideale per un’abbeverata. Dopo aver preso tutte le misure di sicurezza alle 07.30 ebbe iniziò questa attività, effettuata per squadrone, per la quale si impiegarono due ore e mezza, in condizioni assai critiche per un reggimento di cavalleria in operazioni. Tuttavia fu solo nella fase finale dell’abbeverata, mentre i reparti si stavano allontanando dal fiume che il nemico attaccò di nuovo. I plotoni e gli squadroni appiedati che avevano già concluso l’operazione diedero copertura agli altri che balzarono in sella e si sottrassero all’attacco. Lo scontro non fu però senza conseguenze, appena montato a cavallo venne colpito mortalmente il tenente Novi-Ussai. A Perjasica il rancio fu frettoloso, bisogna raggiungere Primislje. Alle 13.00 Alessandria iniziò il movimento in formazione a losanga 1° squadrone in testa, 2° a sinistra, il 4° a destra, il 3° in retroguardia e al centro lo squadrone comando con lo stendardo, lo squadrone mitraglieri e la sezione di artiglieria con l’autocareggio, composto da 6 autocarri, una ambulanza e l’auto del comandante. La presenza dei veicoli sarebbe stata d’impaccio nella manovra una volta che gli squadroni furono costretti ad entrare in combattimento, ma le esigenze logistiche ne consigliavano la presenza. Dopo un’ora e mezzo si raggiunse Poloj, si era a metà del percorso, quando improvvisamente il nemico si rivelò sulle alture di sinistra, a nord-est. Vennero chiaramente avvistati piccoli gruppi di uomini che apparivano a tratti, con spostamenti coordinati e si muovevano nell’intento di assumere uno schieramento. Ad alcuni cavalleggeri sembrò di udire canti, grida e perfino il suono di una fisarmonica e di trombe. I partigiani certi di avere la superiorità numerica ed i fianchi sicuri, avevano scelto uno strano modo di palesarsi. Il colonnello Aimone Cat, pratico di guerra non convenzionale, già sperimentata in Etiopia, intuì il comportamento dell’avversario, tipico di chi agisce per bande: il nemico avrebbe cercato di manovrare per colpire il reggimento sui fianchi e se non si fosse fermato lo avrebbero attaccato alle spalle e cercato di chiudere la via del ripiegamento. Decise allora di interrompere la marcia per chiarire la situa5 zione arrestando il reggimento a quota 249, che dominava la strada che la sfiorava con andamento ovest-est. Il vantaggio della posizione era assicurato dalle profonde doline che circondano la quota, in cui era possibile mettere al riparo i cavalli e schierare i cavalleggeri appiedati sugli orli dominanti le doline stesse a protezione dei fianchi. La formazione a losanga attuata nella marcia si rivelò propizia in quanto ogni squadrone assunse lo schieramento difensivo previsto nel momento in cui si effettuò l’interruzione del movimento. I due pezzi di artiglieria vennero schierati in modo da battere alla distanza di 1 km le quote dove erano stati avvistati i partigiani. In circa mezz’ora il reggimento attuò lo schieramento previsto e dopo aver costituito una linea difensiva con dei centri di fuoco la assicurò dalla sorpresa con posti avanzati di osserva zione e allarme. Mosse che si dimostreranno particolarmente efficaci nel primo impatto con il nemico e costituirono le premesse del salvataggio del reggimento nei momenti confusi e drammatici che seguirono. Il colonnello Aimone Cat in quel momento aveva alla mano solo i suoi cavalleggeri, i carristi e gli artiglieri, il battaglione Camicie Nere era in posizione retrostante e per tutta la durata del combattimento il coordinamento con esso venne a manca re. I partigiani nel frattempo iniziarono da nord a scendere dalle alture e giunsero a contatto con il 1° squadrone, che copriva il lato avanzato dello schieramento, e col 2° che era posizionato a nord. Lo scontro si fece subito deciso, le raffiche delle armi automatiche si abbatterono sulle postazioni dei cavalleggeri che alle 15.15 contavano i primi due caduti: Alberto Brandolin ed Elio Bonandin. La risposta del raggruppamento fu immediata, i due pezzi di artiglieria spararono ad alzo zero sui gruppi di partigiani dislocati sulle pendici delle alture e si videro i primi effetti dei proietti da 75 mm sugli attaccanti che iniziano a pagare il prezzo della loro temerarietà. I partigiani a questo punto furono costretti ad attaccare, le scelte operate dal colonnello Aimone Cat avevano sconvolto i loro piani che prevedevano di intrappolare il reggimento al trivio di Bukovac, una volta che questo fosse sceso nella conca, invece lo dovevano affrontare frontalmente di altura in altura. Di fronte a questa imprevista reazione di Alessandria, i partigiani si aprirono sulla loro sinistra fino a bloccare il tratto di valle ad est, lungo il quale si proseguiva per Primislje, e intensificarono lo sforzo offensivo da nord. In questa fase il comandante del 1° squadrone, il capitano Petroni,, si dovette difendere sulla fronte e sui lati, accortosi poi che lo squadrone correva il rischio di venire accerchiato chiese 6 e ottenne il rinforzo tre carri leggeri per battere con le mitragliatrici di bordo gli avversari e consentire, alle 16.30, lo sganciamento su posizioni più sicure. Il colonnello Aimone Cat, sicuro ormai che l’obiettivo dei partigiani fosse la distruzione del reggimento, cercò di segnalare la situazione al generale Mazza che si trovava ancora a Perjasica. Ma anche in questa occasione la radio non riuscì a garantire le comunicazioni come già avvenuto al ponte di Cika e si dovette di nuovo ricorrere alle staffette motocicliste. Alle 15.35 il colonnello comunicava: «Impossibile andare avanti. Siamo attaccati da molte forze, quasi circondati a circa 1 km prima del bivio del ponte di ieri. Tirare con artiglieria al bivio e alture dominanti. Urgono munizioni. Sfilano sulla nostra sinistra tendendo verso Perjasica». Alle 15.40 partì la seconda comunicazione: «Mia avanguardia impegnata rapidissimo combattimento quasi circondata per tre quarti. Attaccati anche su alla sinistra della colonna nella sua direzione di marcia. Adesso anche alla mia destra qualche elemento. Sono in cerchio su posizione in parte buona, in parte no perché ero in marcia. In questo momento combattimento si calma, ma non c’è da fidarsi per ripiegamento. Battaglione Camicie Nere è rimasto dietro di noi in formazione apertissima sarebbe stato utile suo giungere qui.» Prima che arrivassero a destinazione queste due segnalazioni, il generale Mazza, d’iniziativa raggiunse, il comando di Alessandria, alle ore 15.45, per accertarsi della situazione. Nel frattempo le segnalazioni arrivavano al comandante della divisione Celere, generale. Lomaglio, che non comprese la gravità della situazione e ribadì di continuare, ad ogni costo, la puntata su Primislje. Al generale Mazza, comandante del raggruppamento decise allora di impiegare il battaglione Camicie Nere per continuare nella missione, ma la manovra non riuscì. Il battaglione finì a ridosso delle posizioni di Alessandria senza riuscire ad aprire la via verso Primislje; al generale non rimase allora altro da fare che comunicare al comando di divisione che era impossibile proseguire nell’avanzata. Improvvisamente sul luogo degli scontri appare il capo di SM della Divisione, maggiore Sallustri, per accertarsi della situazione e riferire al generale Lomaglio. Questo intrecciarsi di contatti e di ispezioni che evidenziava come da parte del comando di Divisione non si percepisse la gravità della situazione che non era provocata da un’azione di disturbo, ma di distruzione, determinò una pericolosa impasse che ritardò un tempestivo arretramento. Il generale Mazza rimase sul posto con il colonnello. Aimone Cat e terminò l’ispezione allo schieramento. A quel punto era chiaro che i partigiani avrebbero cercato di circondare la piana per impedire ad Alessandria ogni possibilità di ripiegamento. Alla trappola si sarebbe potuto tentare di sfuggire se l’intero reggimento fosse riuscito in pochi minuti a montare a cavallo, ma il terreno circostante non favoriva il successivo movimento al galoppo e, pertanto, c’era il rischio di una catastrofe. La soluzione più sensata era quella di restare sul posto a quota 249, consolidarsi, respingere ogni ulteriore attacco, attendere le prime luci del’alba nella speranza che giungessero dei rinforzi. Anche perché la cavalleria non era idonea a combattere di notte al buio. Vennero diramati primi ordini per la difesa sul posto ed il 2° e 3° squadrone iniziarono a retrocedere dalle rispettive posizioni per saldarsi sulla linea di schieramento di quota 249. Erano in atto i movimenti quando giunge la notizia che l’ambulanza con alcuni feriti, tra cui il tenente Calvani, ed i primi due caduti era stata attaccata sulla strada per Perjasica a 5 km di distanza. Il veicolo sanitario, scortato da due carri leggeri, era stato attaccato dai partigiani. Esso poi, con l’in- tervento dei carri, riuscì a proseguire la sua marcia verso Perjasica ma era ormai chiaro che i ribelli stavano chiudendo la via del ripiegamento ed era troppo tardi per tornare indietro. Per farlo si sarebbe dovuto combattere nelle condizioni più sfavorevoli, ed ecco che alle 18.00 arrivò l’ordine del generale Lomaglio: «Ripiegare». Per il colonnello Aimone Cat questo era un ordine non più attuabile, ancora una volta il comando superiore non aveva chiara la situazione, il generale Mazza invece, rimasto presso il comando di reggimento, riteneva che non si potesse non obbedire ad un ordine superiore, esso andava eseguito e basta. Il comandante di Alessandria, consapevole dei rischi manifestò i suoi dubbi al generale. Ci fu un attimo di forte tensione tra i due ufficiali, poi prevalse il senso dell’ onore di soldati di fronte ad un ordine. Si doveva tornare indietro. Il ripiegamento per poter riuscire doveva essere attuato con tutte le predisposizioni necessarie: bisognava girare gli autocarri, attaccare i pezzi alle rispettive pariglie e assumere la formazione idonea a forzare lo schieramento nemico. Il movimento non poteva così cominciare prima di mezz’ora mentre i partigiani (più di mille) stavano completando l’accerchiamento. In una parola significava lanciarsi in un’impresa incerta, forse disperata, in condizioni di scarsa visibilità, con un nemico numeroso, ricco di armi automatiche che controllava la valle dalle alture e che aveva le avanguardie vicino alla strada. Alessandria si sarebbe messo alla testa del raggruppamento, il battaglione Camicie Nere in coda, i carri rimasti dovevano tenere sgombra la strada offrendo finché possibile appoggio di fuoco, dietro essi si sarebbero mossi gli autocarri mentre la sezione di artiglieria avrebbe seguito gli squadroni. A rapporto ufficiali fu stabilito che il 1° squadrone del capitano Petroni muovesse in avanguardia, il comando di reggimento, lo stendardo, lo squadrone mitraglieri del capitano Martucci di Scarfizzi e lo squadrone comando del capitano Calderoni subito dietro al centro, il 2° squadrone del capitano Alciator sulla destra a nord della strada, il 3° squadrone del capitano Comotti sulla sinistra. La sezione di artiglieria avrebbe seguito lo squadrone comando e avrebbe goduto della protezione del 4° squadrone del capitano Vinaccia in retroguardia. Alessandria nella formazione così ordinata andò incontro al suo destino. Erano le 18.30 del 17 ottobre 1942, ormai in piena sera il reggimento procedeva al passo, guardingo, in assoluto silenzio, occupando una fronte di 300 metri. I cavalli erano più di 700 e muovevano ai lati della strada. I carri leggeri e gli autocarri erano anch’essi in movimento. I veicoli in quel momento erano d’impaccio poiché legati alla strada e necessitavano di protezione. Di fatto limitavano la manovra dei cavalleggeri che avrebbero potuto scegliere di muovere fuori dal percorso obbligato. Tuttavia molti feriti dovettero in seguito la loro salvezza agli automezzi che li raccolsero e li portarono a Periasjca.. Il colonnello Aimone era convinto che l’attacco sarebbe scattato nel momento in cui il reggimento avesse raggiunto una chiesetta ortodossa, più o meno nel punto in cui era stata attaccata l’ambulanza, un km e mezzo più avanti quota 249. E fu così, i partigiani, più di mille uomini inquadrati in una Brigata di assalto (la II Brigata della LIKA), proprio in quel luogo avevano realizzato uno sbarramento di oltre due km, che bloccava la strada. Forti nuclei nemici si erano infiltrati dalle colline settentrionali con un movimento a tenaglia, in parti colare, da quota 317 di Veciljaca ne era sceso uno assai consistente che aveva preso posizione a nord della chiesetta e si era saldato con altri elementi scesi da quota 258 di Donje Visoka. ed avevano aggirato il reggimento, mentre era schierato a difesa, per andare a chiudere la via del ripiegamento. Venne l’ora di Alessandria. Il 1° squadrone del capitano Petroni era in prossimità del primo sbarramento quando la stretta valle si riempì dell’eco delle raffiche e degli schianti che aprirono il combattimento, ma il rimbombo degli spari fu sovrastato dalle note della carica. Il capitano Petroni aveva raggiunto quel destino che aveva firmato sulla sua tromba fin dai quieti giorni di Palmanova, aveva infatti fatto incidere sulla tromba dello squadrone la frase “«Sciabl-mano, Savoia». Egli scattò contro lo sbarramento avversario con tutto lo squadrone e alle sue spalle mossero al galoppo i 300 cavalleggeri, degli squadroni comando e mitraglieri, con lo stendardo e il colonnello Aimone Cat. Frontalmente e contemporaneamente caricarono anche il 2° squadrone del capitano Alciator, ed il 3° del capitano Comotti, rispettivamente a destra e a sinistra, e travolsero i nemici che stavano scendendo dalle pendici per rinforzare lo sbarramento. Il 4° squadrone del Cap. Vinaccia, in retroguardia, con l’incarico di proteggere l’artiglieria e gli automezzi non fece massa con gli altri squadroni, ma contenne gli attacchi dei partigiani sul retro della colonna caricandoli per ben quattro volte per offrire sicurezza al movimento degli elementi logistici. Al centro, per l’irruenza del 1° squadrone e il rinforzo degli altri due lo sbarramento attaccato venne superato e disperso, mentre il 4° squadrone percorse più volte la valle avanti e indietro evitando che i partigiani serrassero sotto, e fu in questa fase che subì le maggiori perdite, un terzo degli effettivi e la metà dei quadri fra cui lo stesso comandante. Sulla strada intanto muovevano, sotto il fuoco nemico, gli automezzi su cui si raccoglievano i primi feriti. 17 OTTOBRE 1942 1° SBARRAMENTO ore 18.30 2° 1° 4° 3° 1 Si poteva ritenere finito lo scontro? L’illusione durò poco. Si udirono altri spari, altre raffiche, poco più avanti, a circa un km verso Gornje Poloj, la Poloj alta, c’era un altro sbarramento nemico che attendeva uomini e cavalli. Per superarlo si effettuò una seconda carica, il colonnello Aimone Cat affidò lo stendardo allo squadrone mitraglieri e si portò là dove maggiore era il pericolo per esortare ed incitare i suoi cavalleggeri. La nuova carica fu furiosa, il galoppo allungato portò la schiera degli attaccanti in mezzo allo sbarramento, tra urla del nemico e lamenti dei feriti, e i cavalleggeri passarono di nuovo. In questa fase dell’azione venne ferito mortalmente il capitano Petroni. Non era ancora finita, un km più avanti, sulla strada che portava a Perjasica, c’era un ultimo sbarramento. La strada che adduceva al paese distante non più di 3 Km faceva una 7 curva, era un punto di obbligato passaggio ed il nemico vi preparò una trappola, stendendo sul terreno lunghi fili di ferro con appese delle bombe a mano liberate della sicura. Trappole artigianali ma di sicuro effetto. Riordinati i resti degli squadroni a cui, per inspiegabile richiamo si unirono i cavalli porta basti senza più guida, Alessandria caricò ancora, e superò la terza ed ultima linea di armi automatiche e bombe a mano. La carica a Poloj era conclusa, ranghi del reggimento, già compatto, si ricomposero del tutto con l’afflusso di uomini e cavalli che ritornarono alla spicciolata a Perjasica, spesso alcune ore dopo la conclusione dei combattimenti. Alla fine Alessandria perse 68 uomini di cui 4 ufficiali e 170 cavalli, 61 furono i feriti. Per gli altri reparti del raggruppamento si registrò la morte di due carristi ed il ferimento di 2 dei loro ufficiali, prezzo alto venne pagato anche dalla sezione di artiglieria che si dimostrò l’elemento più vulnerabile, con 12 vittime ed un ferito su una cinquantina di effettivi. Mentre non esiste un bilancio delle perdite del battaglione Camicie Nere. Nei giorni 18 e 19 ottobre, con rinnovata fierezza, il reggimento concorse con i reparti della Divisione Lombardia alla difesa dell’abitato di Perjasica stretto dalla minaccia nemica e provvide alla sicurezza della rotabile Generalskj-Perjasica, sulla quale transitavano le divisioni di fanteria avviate nella zona. Nel concludere questa rievocazione è opportuno chiedersi se: Poloj merita di essere ricordata come l’ultima carica della cavalleria italiana, o se si debba attribuire tale definizione alla più conosciuta carica del Savoia Cavalleria ad Isbuscenskij,? Fermo restando che non si tratta di assegnare un primato sportivo ma più semplicemente di determinare una verità storica senza nulla togliere all’eroismo delle azioni compiute. A mio parere si deve riconoscere ai Cavalleggeri di Alessandria di aver avuto l’occasione di effettuare l’ultima carica di cavalleria del nostro esercito per diversi motivi, fra cui preminenti ritengo siano: - il primo di ordine temporale, avvenne 54 giorni dopo la carica di Isbuscenskij 24 agosto 1942; - il secondo, è dettato dal fatto che ad Isbuscenskij caricarono soltanto due squadroni su quattro, un altro attaccò appiedato ed un altro venne tenuto in riserva, mentre a Poloj caricò tutto il reggimento, con anche i cavalli carichi dei basti delle mitragliatrici, dei treppiedi, delle munizioni per costituire una più forte massa d’urto; ad Isbuscenskij inoltre lo stendardo non era con i due squadroni che caricarono, mentre a Poloj garriva fra i suoi cavalleggeri e fra le sciabole che puntavano sul nemico. Il fatto che l’evento non abbia goduto della giusta notorietà che avrebbe meritato per i motivi che sin detti in premessa non può modificare la realtà. Per concludere mi sembra di poter affermare che nell’occasione Alessandria a Poloj abbia mantenuto fede al proprio motto “IN PERICULO SURGO”. Franco Brunetti L’ex-libris, una piccola espressione d’arte È un piccolo foglietto di carta, più durevole della vita dell’ uomo, e piuttosto che un passatempo lo diremo una visita al tempo. Applicato sul risguardo interno della copertina di un volume, ha lo scopo di stabilire la proprietà del volume stesso. Alle origini, visto la preziosità degli incunaboli e dei manoscritti, l’ex libris era costituito da una scrittura a mano del 8 nome del possessore, accompagnato spesso da una frase di ammonimento alla restituzione, come: “…Hic liber est meus, quem mihi dedit Deus…”. Solo più tardi verso la fine del XV sec. incominciarono ad apparire ex libris costituiti da stemmi miniati per biblioteche monastiche, principesche e comunali. Nato come stemma di bottega delle stamperie che ciascun maestro depositava in un registro notarile della corporazione a cui apparteneva, l’ex libris vide la luce in concomitanza con la nascita della stampa di G Gensfleisch detto Guttenberg in Magonza, 1439-50. La prima tecnica di riproduzione è stata la xilografia o incisione su legno a rilievo. Su tale materiale, in genere di legno duro come il bosso o pero, viene realizzata la matrice con un disegno di cui si asportano i tratti bianchi risparmiando e mantenente i neri. Ne consegue che alla stampa , sotto la pressione di un torchio, la figura ne esce nitida “pura” con un netto contrasto tra il nero e il bianco. Ma ben presto la xilografia viene soppiantata da una nuova tecnica la calcografia, il cui nome deriva dalla parola greca kalkòs che significa rame. Sfruttando il metodo usato dagli orafi per cesellare i metalli, i tratti neri del disegno sono scavati su lastra levigata di rame e vengono riempiti di inchiostro nero. Poi successivamente la matrice, opportunatamente preparata, viene sottoposta alla pressione di due rulli e quindi avviene che la carta inumidita e protetta da un panno di flanella, riceve l’ esatta impronta del disegno della matrice. Infine alla fine dell’ Ottocento viene usata la litografia, dal greco lithos scrittura su pietra. Infatti consiste nel realizzare il disegno su una matrice di pietra liscia con particolari inchiostri e matite grasse per ridare poi il tutto al foglio pressato, trattenendo l’inchiostra tura solo in corrispondenza delle superfici e delle linee disegnate con materiale grasso. Quest’ultima tecnica grafica può essere considerata come arte incisoria che danno all’opera stampata, nel nostro caso l’ex libris, un fascino particolare. Analizziamo ora l’evoluzione iconografica ed i suoi contenuti. Nei primi ex libris la simbologia era sempre a carattere araldico, logicamente il tutto era strettamente legato alla nobiltà ed a una particolare classe sociale, visto il grande costo dei manoscritti e dei primi libri stampati. Un fatto curioso, quasi mai compare la scritta “ex libris” e li riconosciamo come tali unicamente perché sono stati ritrovati sul risguardo delle copertine di antichi volumi. Verso il Settecento sotto la spinta della Rivoluzione Francese e quindi l’annullamento dei titoli nobiliari, anche le insegne araldiche sono costrette a sparire. Sugli ex libris compare il mappamondo, simbolo della universalità enciclopedica dell’illuminismo. Con Napoleone appare la coccarda al posto dell’insegna gentilizia sormontata dal tocco al posto della corona. Infine si deve aspettare la nascita della Belle Epoque agli inizi del ‘900 e il forte desiderio di esprimersi della nuova società per ritrovare, negli ex libris, nuovi soggetti e figure. Così compaiono più spesso ornamenti floreali, architettonici, geometrici, simboli professionali, politici., a volte la semplice illustrazione di una frase, di un motto, di un personaggio, o paesaggio. C’è una riscoperta della xilografia, oltre agli incisori artisti di fama si cimentano nella realizzazione degli ex libris, pittori, scultori, architetti, illustratori, scenografi. E’ proprio di questo periodo la scelta universale dell’ablativo latino EX LIBRIS (o ex foliis o ex bibliothecae). A fronte del Book-Plate in inglese e del Bbibliothekezeiche tedesco, che sempre compare nelle piccole vignette. In Italia dobbiamo in gran parte a Gabriele D’Annunzio il merito della riscoperta dell’ex libris. Fortemente radicato nelle sue radici italiane, anima ed incoraggia la pubblicazione della rivista d’arte “Leonardo” che insieme ad Adolfo De Carolis, suo illu- stratore di tutte le opere letterarie, porta ai vecchi splendori rinascimentali l’arte xilografica. Oggi l’ex libris, al pari del francobollo,è diventato “l’oggetto proibito” di molti bibliofili e collezionisti, di nuovo riscoperto e ammirato grazie al fiorire di congressi internazionali a tema tica e da numerose mostre-mercato. Esso, strettamente legato al mondo del libro, ne condivide la storia ed il destino reso ancora più improbabile da una fredda e dilagante cultura informatica. Sintomatica è l’espressione di Jacopo Celli nella prefazione del libro” Gli ex libris Italiani” in cui dice:…l’ex libris rimane a testimoniare che l’unico e disinteressato amico della lieta e nella dolorosa sorte è stato e rimarrà il libro, muto discreto confidente consolatore e generoso, che non conosce il veleno della frode, che nel suo mutismo parla il lin-guaggio dell’anima … Al gentile lettore una pausa di riflessio ne…….! Xilografia di A.De Carolis ideata per la Prima Squadriglia Navale Italiana Xilografia ex libris di Bruno di Osimo Xilografia di A.De Carolis ideata per la squadriglia aerea di G.D’Annunzio chiamata la Serenissima Vincenzo Amorosi Araldica Ecclesiatica Lo stemma di SER Mons. Massimo Camisasca, F.S.C.B. Vescovo di Reggio Emilia – Guastalla Ecco l’ultima fatica araldica dell’amico Giorgio Aldrighetti per il nuovo Vescovo di Reggio Emilia-Guastalla Sua Eccel lenza Reverendissima Monsignor Massimo Camisasca. “Di rosso, all’albero della quercia al naturale, fondato su un mare di azzurro, ondato d’argento e accompagnato nel canton destro del capo dalla stella di otto raggi, d’oro. Lo scudo, accollato ad una croce astile d’oro, è timbrato da un cappello di verde, con cordoni e nappe dello stesso, in numero di dodici, disposte sei per parte, in tre ordini di 1, 2, 3. Sotto lo scudo, nella lista bifida e svolazzante d’argento, il motto in lettere maiuscole di nero: “OPUS IUSTITIAE PAX”. Lo stemma assunto dal novello presule - che riprende, in parte, quello della Fraternità San Carlo - carica le figure di un albero di quercia fondato su un mare e di una stella. La stella a otto raggi simboleggia le beatitudini evangeliche e l’astro del mattino, ovvero la Madre di Dio. Infatti, con l’invocazione “Ave, maris stella” (Ti saluto, stella del mare), l’inno della Chiesa esalta la Madre di Dio, che sta al fianco dell’uomo, indicandogli la via. Dato che nella sua esistenza storica essa precede il sole Cristo, come l’aurora precede la luce del sole, così Maria diviene la stella del mattino. La quercia, fondata su un mare, richiama, invece, il versetto tratto dal libro del profeta Geremìa (17,5-10), dove si afferma che è benedetto l’uomo che confida nel Signore. È come un albero piantato lungo un corso d’acqua, dove, verso la corrente, stende le radici. Il motto, invece, è un’espressione del profeta Isaia: “OPUS IUSTITIAE PAX”, frutto della giustizia sarà la pace (Is 32,17), ed è stato scelto dal presule perché gli sembra riassuntivo di tutto quanto l’Antico e il Nuovo Testamento. La storia di Israele è una ricerca della giustizia, una sete di essa. Sete di quella giustizia che nasce dal rapporto vero con Dio, per l’uomo e per il mondo. Tale giustizia, da cui nasce la pace - cioè la comunione - è solo opera di Dio. A lui dobbiamo chiederla, da lui implorarla. Giustizia e pace sono anche e soprattutto due espressioni con cui il Nuovo Testamento, in particolare san Paolo, chiamano Cristo: Cristo, nostra giustizia (cfr. 1Cor 1,30; Fil 1,11; cfr. Rm 3, 21-26), Cristo, nostra pace (cfr. Ef 2,14). Giustizia e pace sono anche le attese più profonde del nostro tempo, le esperienze attraverso cui il mondo interpella Dio e Dio risponde agli uomini. La blasonatura e l’esegesi dello stemma è stata curata dall’amico e noto araldista comm. Giorgio Aldrighetti - nostro collaboratore - mentre l’ideazione, con le miniature dell’insegna a colori (vedi foto), sono di Enzo Parrino, Monterotondo (Roma). Mons. Massimo Camisasca, F.S.C.B., è nato a Milano il 3 novembre 1946. Nel 1970 si è laureato in Filosofia presso l’Università Cattolica di Milano con una tesi di Storia della Teologia. Dal 1970 al 1978 ha ricoperto l’incarico di Assistente presso la cattedra di Filosofia della menzionata Università. Ha ricevuto l’Ordinazione presbiterale il 4 novembre 1975, come membro della Comunità Missionaria "Paradiso" di Bergamo. Nel 1985 ha fondato la Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo, 9 riconosciuta dal Vicariato di Roma nel settembre 1985 e poi eretta in Società di Vita Apostolica Clericale di diritto diocesano nel 1989.Nel 1987 ha ottenuto la Licenza in Teologia presso l’Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sul matrimonio e famiglia della Pontificia Università Lateranense; nel 1990 è stato nominato Adiutor secretarii specialis alla VIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi e nel 1994 Uditore alla IX Assemblea del medesimo Sinodo. Nel 1990 è stato nominato Cappellano di Sua Santità e nel 1996 Prelato d’Onore di Sua Santità. Il 19 marzo 1999 la Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo è stata dichiarata di diritto pontificio e Mons. Camisasca riconfermato Superiore Generale della ste ssa Fraternità, ruolo che ha ricoperto finora. È anche Consultore della Congregazione per il Clero e di quella per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica. Il 29 Settembre 2012 - nella festa dei santi arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele, Benedetto XVI lo ha eletto vescovo di Reggio Emilia - Guastalla. L’ordinazione episcopale il 7 dicembre nell’arcibasilica papale di San Giovanni in Laterano, Roma. I soci SISA che lo desiderano posso contattare il socio Andrew Martin Garvey per una copia del testo intero della brillante esegesi con delle interessanti dettagli sull’araldica ecclesiastica e sugli smalti e corredata con tutte le relative note. Andrew Martin Garvey Sopra il portone al primo piano vi è la lapide recante la dedica: Araldica Architettonica Ai fianchi della grande lapide vi sono dei festoni sopra i quali vi sono, alla sinistra per chi guarda, l’aquila e, sulla destra, il drago dei Borghese. Chiunque abbia avuto il piacere di visitare Avignone avrà visto e sarà stato piacevolmente colpito dal bellissimo palazzo barocco che si trova davanti il maestoso Palazzo dei Papi. PAVLVS V PONT OPT MAX HAS AEDES AVRO ARGENTO AERE FLANDO FERIVNDO AD VRBIS DECOREM EREXIT ORNAVITQVE CVRANTE IO FRANC A BALNEO ARCH PATRAC VICELEG AVEN ANNO M DC XIX Il palazzo fu costruito nel primo quarto del XVII secolo su commissione del Vice-Legato papale Giovanni Francesco Guidi di Bagno. Non si sa chi è sta-to l’architetto perché gli archivi della vice-legazione sono stati distrutti. Il palazzo ed è dedicato, come si legge nel grande scritto, a Papa Paolo V Borghese. Il Palazzo della Zecca Il Palazzo, che divenne successivamente la zecca papale o Hôtel des Monnaies, e poi, dal 1860, il conservatorio, è su tre piani con il piano terra con la facciata bugnata ed un portone centrale e quattro finestre. I piani superiori sono privi di finestre lasciando così un enorme fondo per la decorazione araldica. Sulla balaustra vi sono quattro aquile non coeve. 10 Al di sopra sulla parete esterna del terzo piano troneggia la grande arma di Papa Paolo V sormontata dal triregno e sorretto da due putti alati o angeli. La blasonatura dell’arma Borghese è: troncato, nel 1° d'[oro] all'aquila coronata; nel 2° d'[azzurro] al drago alato d'[oro] reciso e sanguinante. Arma Guidi di Bagno inquartato in decusse di oro e di azzurro. Si crede che lo stemma Borghese sia anche un omaggio al Legato a latere d’Avignone, Scipione Cafarelli (Legato negli anni 1606-1621), nipote del Papa, e comunemente detto “il Cardinale Borghese”. Paolo V è già oggetto di numerosi articoli quindi vediamo gli altri due protagonisti di questo tripudio araldico. Scipione Caffarelli Borghese Il Legato Titolare Scipione (1576-1633) fu il figlio di Francesco Caffarelli e di Ortensia Borghese, sorella di Camillo Borghese, il futuro Paolo V). Scipione ebbe la porpora cardinalizia un paio di mesi dopo la salita dello zio Camillo al soglio di San Pietro avvenuto il 29 maggio 1605. Scipione fu anche adottato dallo zio e cosi egli acquisì il diritto di usare il nome e l'arme della famiglia Borghese. Il vice legato invece, Giovanni Francesco Guidi di Bagno (1578-1641) nacque a Firenze, figlio di Fabrizio, marchese di Montebello e di Laura Colonna, figlia di Pompeo Colonna, duca di Zagarolo. Giovanni Francesco fu nominato un prelato di Sua Santità nel 1596, protonotario apostolico participantium. Egli fece anche parte della delegazione che accompagnò il legato a latere Cardinale Ippolito Aldobrandini, durante la missione in Francia per il matrimonio tra Enrico IV e Maria de' Medici. Egli fu eletto vescovo titolare di Patras nel 1614 e fu il Nunzio straordinario alla Corte Francese durante il pontificato di Gregorio XV e resse la vice-legazione ad Avignone dal 1614 al 1621.Nel concistoro del 30 agosto 1627 fu creato cardinale in pectore ebbe il poi il titolo di Sant’Alessio nel 1631. Morì nel 1641 e sua tomba è in Sant’Alessio in Roma. Per chi volesse approfondire “l’araldica architettonica” si rimanda all’interessantissimo contributo intitolato: “Architettura e Araldica. Appunti di storia, sociologia e arte” del nostro vice-presidente Maurizo Bettoja al Convegno SISA-VIVANTSMOM (Torino)-CNI “L’Araldica dello Scalpello” del 27/11/2010, pubblicato negli Atti del Convegno, Torino, 2011 a cura di un'altro socio SISA Fabrizio Antonielli d'Oulx. AMG - PA CONVEGNO COLOMBIANO “Colombo di Cuccaro, Fieschi e Cristoforo Colombo: nuove prospettive di ricerca” a Cuccaro Monferrato il 13 ottobre 2012 Nel 520° dalla scoperta del Nuovo Mondo si è celebrato a Cuccaro Monferrato, organizzato dall’Associazione Centro Studi Colombiani Monferrini CE.S.CO.M., con il patrocinio del Comune di Cuccaro, il Convegno Colombiano “Colombo di Cuccaro, Fieschi e Cristoforo Colombo: nuove prospettive di ricerca”, per comunicare agli studiosi i nuovi sviluppi delle ricerche svolte negli ultimi anni sull’argomento colombiano. Dopo i saluti del Sindaco di Cuccaro, Dott. Fabio Bellinaso, il Prof. Carlo Tibaldeschi dell’Università di Pavia, Presidente del Convegno, ha presentato l’iniziativa e ha coordinato e commentato gli interventi dei Relatori. L’Avv. Giorgio Casartelli Colombo di Cuccaro, Presidente del CE.S.CO.M., e socio S.I.S.A. ha introdotto il Convegno e ha sottolineato le nuove prospettive che si aprono relativamente alle ricerche già iniziate e parzialmente pubblicate, in dipendenza degli interessanti approfondimenti svolti negli ultimi tempi. Il Prof. Gianfranco Ribaldone ha presentato l’intervento, sulla storia dei Colombo di Cuccaro nel Quattrocento, soffermandosi in particolare sul periodo 1422–1444 inti-tolato: Le aderenze francesi dei Colombo di Cuccaro (1422-1444) Valois, Bourgogne, Bar, Anjou.. È poi intervenuto il Prof. Mario Traxino con la relazione: Bartolomeo delle Indie, Cristoforo Colombo e le fazioni genovesi, in cui ha affermato la necessità di rivalutare la figura di Bartolomeo Fieschi, detto delle Indie, stretto collaboratore dell’Ammiraglio nel quarto viaggio di scoperta, nel corso del quale gli salvò la vita, in seguito al naufragio in Giamaica. Il Prof. Traxino ha inoltre collegato la storia della scoperta colombiana con la lotta tra le fazioni che si svolgeva in quegli anni a Genova e nella Liguria. L’Arch. Alessandro Taidelli Palmizi con l’intervento: L’iconografia della morte di Cristoforo Colombo, ha commentato in particolare il quadro, proiettato in alta risoluzione, esposto nella Casa Museo Colón di Valladolid, opera del pittore contemporaneo Rementeria, che raffigura l’Ammiraglio sul letto di morte, attorniato dai suoi familiari e dai più stretti collaboratori. In seguito è intervenuto il Dott. Sisto Capra, giornalista di Pavia, che con la relazione: Intervista impossibile a Cristoforo Colombo ha evidenziato come la figura dello Scopritore dell’ America sia nel comune sentire della gente, ancora legata a una visione molto superficiale, specie sull’origine della sua famiglia, svincolata dalla seria ricerca scientifica, che si è sviluppata negli ultimi anni, ancora in gran parte sconosciuta al grosso pubblico. Ha concluso i lavori il Prof. Gianluigi Rapetti Bovio della Torre 11 che ha evidenziato gli stretti rapporti tra il Monferrato e la Liguria e i numerosi attacchi armati subiti dal Marchesato del Monferrato, territorio ambito e stretto, nei secoli, nella morsa tra il Ducato di Savoia e il Ducato di Milano. GCCC Sulla Savoia - Una lettera che lascia perplessi Turin, 4 août 1859 Monsieur le Comte, La presse étrangère s’est occupée dans ces derniers tems d’un prétendu mouvement séparatiste qui se serait manifesté en Savoie et qui aurait pris des proportions imposantes. Je ne doute pas que les Légations de S.M. même sans avoir reçu des éclairissemens détaillés à cet égard auront en soin de reduir à leur juste valeur ces bruits que l’esprit de parti a cherché à répendre. Voyant toute fois que la polémique de certains journaux exploite encore cet argument contre le Piémont, je pense qu’il n’est pas hors de propos de donner aux représentants du Roi quelques explications pour les mettre à mesure d’apprécier et faire apprécier exaitement l’état des choses. La Séparation de la Savoie est une de ces questions dont les partis extrêmes s’emparent tour à tour dans des buts differents. En 1848 au tems de la République Française, s’étaient les radicaux qui ne jugeaient pas assez libérales les institutions constitutionnelles qu’un Roi Magnanime avait octroyées à son peuple, révaient la démocratie pure avec le bonnet phrigieu et demandaient par conséquent l’annexion à la France. Ils grossissaient la voix mais ils s’agitarent dans le vide. Le bons sens populaire fit prompte justice des ces véleités et les séparatistes durent cacher leur désappointement et leurs drapeaux pour se soustraire au ridicule de leur position. Dans les annés suivantes, les radicaux voyant que la liberté survivait chez nous difficultés du tems et qu’elle fonctionnait régulièrement et paisiblement se rallièrent au Gouvernement du Roi, ou bien ils entrèrent dans les voies de l’opposition légale et constitutionnelle. Ce fut alors que le parti rétrograde et clérical s’empara du rôle d’agitateur. Ce parti ne fait pas à la vérité de l’annexion à la France un question de principe, mais il l’a subordonné aux intérêts du moment, et il s’en sert comme d’un instrument d’opposition et de menace contre le pouvoir. Il parait q’après le préliminaires de Villafranca ces messieurs ont espéré qu’un Ministère pris dans leur parti aurait été appelé aux affaires. Mais voyant qu’un cabinet libéral était remplacé par un autre cabinet libéral ils ne surent pas dissimuler leur dépit. L’Italie Centrale leur fournit l’occasion et un moyen de rédiger un programme. Si les populations des Duchés sont autorisées à exprimer leur vœux sur leur avenir, pourquoi n’en serait il pas de même en Savoie? En raisonnant ainsi ils oubliaient un peu que le dans le centre de l’Italie les souverains avaient quitté le pays en l’abandonnant à luimême et que les populations s’opposent à la rentrée des Princes, parce que elles sont persuadées que leur retour est incompatible avec les institutions libérales que les pays demandent. Or ce n’est pas précisément aux institutions libérales que les séparatistes savoisiens paraissent dévoués : et dans tous les cas ce n’est pas la liberté qui maque au Piémont. Quoiqu’il en soit, une réunion de meneurs eut lieu à Chambéry à fin de soumettre une pétition au Roi et demander la permission de faire circuler des listes de souscription dans le sens de la séparation. Mais ces messieurs ne sont pas tombés d’accord et la séance fut levée après avoir reconnu qu’on aurait peut-être mieux fait de mettre en avant les Députés de la Savoie. En effet le 28 juillet dernier dix ou douze députés ce sont réunis à Annecy. 12 D’après les informations que le Gouvernement a lieu de croire sures deux d’entre eux auraient posé franchement la question de la séparation mais elle fut énergiquement repoussé par tous les autres honorables membres de la Chambre. On rédigea alors la pétition qui a été publié par le journaux et dans la quelle on émait des vœux pour des reformes administratives particulières à la Savoie. Voila les faits dans leur exacte vérité. On parle d’une pétition couverte de onze mille signatures. Cette assertion a été démêntée officiellement. On parle également d’agitation dans les villes et dans les campagnes. Mais en réalité cette agitation n’existe que dans les colonnes des journaux étrangers qui ont prêté la main au plan de campagne organisé par quelques brouillons et par quelques membres du clergé qui voudrait imposer au Piémont un Concordat à l’autrichienne. Il serait assez difficile de démêter les véritables intentions de cette partie du clergé; car d’un côté rien n’indique que la France soit disposée à modifier son droit public ecclésiastique et quant au Gouvernement du Roi il serait il serait heureux de pouvoir signer avec la Saint Siège un concordat à l’instar de celui de 1801. Du reste le voyage de LL.AA.RR. le Prince de Piémont et le Duc d’Aoste, est venu à propos pour dissiper les chimères de songe-creux. L’accueil plein de respect et d’enthousiasme fait aux Princes prouve que la Savoie est toujours la terre classique de la fidélité au Roi, et que les liens que depuis huit siècles l’unifient au Piémont, ne sont point relâchés. La vaillant Brigade de Savoie dans le champs de la Lombardie a scellé encore une fois de son sang cette union fraternelle. Le sang des enfants des Alpes a coulé pour la plus sainte des causes avec celui des Piémontais et des volontaires Italiens ; ils seront fiers d’appartenir désormais à une Royaume plus vaste et puissant, et d’avoir prêté au Roi le concours de leur bras pour la délivrance de l’Italie. De son côté le Gouvernement de S.M. s’empressera de faire droit à toutes les réformes légitimes qui pourraient être réclamées dans l’intéret de l’administration intérieur de ce noble pays qui a été le berceau de la Monarquie et qui a constamment donné des témoignages les plus éclatants de son dévouement à la Dynastie du Roi. Agréez … Debormida» Archivio di Stato di Torino – Materie politiche estero – lettere Ministri Mazzo 65 – Due Sicilie Sul tutto periodico della SISA riservato ai Soci Direttore Alberico Lo Faso di Serradifalco Comitato redazionale Marco Di Bartolo, Andrew Martin Garvey,Vincenzo Pruiti, Angelo Scordo Testata del periodico di † Salvatorangelo Palmerio Spanu Indirizzi postali Direttore: Piazza Vittorio Veneto, 12 10123 Torino Redattore: Marco Di Bartolo, via IV novembre, 16 10092 Beinasco (TO) Sito Internet www.socistara.it Posta elettronica [email protected] [email protected] I contributi saranno pubblicati se inviati su supporto magnetico in formato word o via e-mail ai sopraccitati indirizzi. Quanto pubblicato è responsabilità esclusiva dell’ autore e non riflette il punto di vista della Società o della redazione. Gli scritti verranno pubblicati compatibilmente con le esigenze redazionali ed eventualmente anche in due o più numeri secondo la loro lunghezza. 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