Sul Tutto - Società Italiana di Studi Araldici

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Sul Tutto - Società Italiana di Studi Araldici
N. 32 – Anno XVIII – Dicembre 2012 – Pubblicazione riservata ai soli Soci
Attività della società
Sabato 6 ottobre si è svolto nel palazzo Gondolo della Riva,
ospiti del nostro consocio Pietro Gondolo della Riva il nostro
XXX convivio scientifico con al presenza di numerosi soci.
Dopo il saluto del Presidente ed il suo ringraziamento al padrone di casa per la disponibilità dimostrata nei confronti della
Società, il Dott. Gondolo ha illustrato brevemente il significato degli stemmi che adornano la sala in cui si svolgeva il convegno e tutti relativi ad alleanze matrimoniali.
pseudo tali sorto negli anni scorsi e dell’azione in atto per frenare un’attività che ha del malaffare. Il prof. Luigi Alzona ha
svolto un intervento dl titolo Testimonianze araldiche di Patrizi Genovesi alla corte papale nel Seicento: i Costaguta/
Costaguti ricco di spunti d’interesse storico-araldici; il socio
Michelangelo Ferrero ha presentato un lavoro enciclopedico e
del tutto inedito Piemontesi all’Università di Padova (14001565) nel quale sono raccolti tutti i dati relativi alla presenza
di studenti o docenti di origine piemontese nel periodo indicato, opera certosina di ricerca che potrà essere valido strumento per ulteriori studi. Giorgio Casartelli Colombo di Cuccaro è intervenuto sul tema Riferimenti piacentini negli stemmi di Cristoforo Colombo di Cuccaro scopritore delle Americhe, argomento che da parte di un appassionato conoscitore
della materia ha messo in evidenza aspetti inusuali e che possono sfuggire riguardo l’araldica legata a Colombo ed alla sua
discendenza. Gabriele Reina ha parlato sul tema Il mausleo di
Desaix al Gran San Bernardo ricordando la genesi dell’opera
voluta da Napoleone per onorare la memoria dell’amico che
gli aveva procurato, lasciandoci la vita, una delle sue più celebri vittorie. Prima dell’intervallo per la colazione si è avuto
l’intervento di Andrew Martin Garvey dal titolo La Royal
Navy a Napoli nel 1742, l’araldica di alcuni comandanti le
navi, si è così ricordato un episodio storico poco noto, risalente alla guerra di Successione d’Austria, quando le navi inglesi per far cessare l’intervento del Regno di Napoli, allora da
poco sotto lo scettro di Carlo III di Borbone, a favore di Spagna e Francia si presentarono nel Golfo di Napoli minacciando di bombardare la città.
Alla ripresa dei lavori è intervenuto Alberto Gamaleri Calleri
Gamondi con una importante relazione dal titolo Feudo-Feudalesimo e società feudale nel diritto medievale e nell’incivilimento europeo, argomento trattato, malgrado la sua ponderosità, con gusto e leggerezza che ha tenuto ben attenti i presenti. Ha poi parlato Enzo Modulo Morosini sul conclave
svoltosi nella Abbazia di S. Giorgio Maggiore a Venezia
Arma Gondolo della Riva:
Successivamente ha avuto inizio il convivio vero e proprio,
durante il qual sono state illustrate sinteticamente dieci relazioni, tutte di notevole interesse. Per primo è stata data la parola al consocio Alberto Lembo, che attualmente fa parte di
una commissione presso il Ministero degli Affari Esteri che
fra l’altro si occupa della determinazione dei criteri per il riconoscimento degli Ordini cavallereschi. L’intervento dal titolo
Repubblica e nobiltà ha riguardato i problemi connessi con i
titoli nobiliari, il trattamento da loro previsto dalla Costituzione repubblicana e il proliferare di ordini cavallereschi a
Chiesa dell’Abbazia di S. Giorgio Maggiore
a causa dell’occupazione di Roma da parte dei Francesi, iniziato nel 1799 e conclusosi nel 1800 con l’elezione Pio VII,
illustrando gli stemmi dei Cardinali presenti, quello della Venezia austriaca, ove la coda del leone è abbassata, il titolo dell’intervento è ovviamente complesso S.Georgii Maioris Venetiarum Pridie Idua martii MDCCC “Annuntio vobis gaudium magnum Papam habemus … Pius VII” .
La loro storia si svolse, sempre, gloriosa innestandosi nelle
vicende della città di Alessandria e, poi, della nazione.
Re, papi, imperatori, si compiacquero di ricompensarli con le
più alte onorificenze nobiliari e cavalleresche ed essi ebbero
titolature di principi, marchesi, conti e baroni di moltissime
signorie feudali.
I Guasco originari della Provenza ebbero, quale capostipite,
un certo conte di Vasco.
In Monferrato furono signori di Alice e di Belmonte e,
successivamente, ottennero la contea di Gavi, nel genovesato,
ed il marchesato di Castelletto nell’alessandrino (stato di
Milano).
Molti personaggi della famiglia furono vescovi alessandrini e
capitani al servizio di Spagna.
Tra gli antichi vogliamo ricordare Scipione Guasco che
partecipò, nel 1094, alla crociata in Terrasanta ed ivi morì, nel
1099, sotto le mura di Antiochia.
Fu ricordato da Torquato Tasso, nel suo poema: “La Gerusalemme liberata”.
Uberto Guasco signore di Alice, valoroso condottiero ed uno
dei più importanti cittadini di Alessandria nel sec. XIII che fu
anche detto: « il primo degli alessandrini».Rimasto nelle
cronache della sua città per aver fatto prigioniero il marchese
Guglielmo di Monferrato che, rinchiuso in una gabbia di ferro,
appeso all’archivolto della casaforte dei Guasco, finì miseramente i suoi giorni in Alessandria, il 6 febbraio 1292.
Stemma di Pio VII
Paolo Edoardo Fiora di Centocroci ha presentato una relazione di grande interesse araldico dal titolo Ampliamenti d’arme,
cimieri e concessioni corredata da numerose figure che hanno
suscitato grande interesse e che si sarà certamente lieti di poter
leggere nella sua interezza negli atti del convegno. Angelo
Scordo ha chiuso l’incontro con un intervento dal titolo “Le
famiglie nobili di Reggio Calabria” di Pasquale Catanoso .
Al termine il saluto del Presidente che non ha mancato di rinnovare oltre ai più fervidi ringraziamenti per la partecipazione
anche di richiedere ai Consoci il loro contributo di pensiero
per la rubrica studi del nostro sito internet e per il Arma
notiziario
antica (
Sul Tutto.
V): MdB
trinciato
Un’antica famiglia alessandrina: i GUASCO
È noto che le più cospicue ed illustri casate riferibili ai vari
stati compresi nell’impero romano-germanico trassero la propria origine da pochi ed antichissimi personaggi, per lo più di
sangue regio, i cui discendenti, diedero origine, nel corso del
tempo, a nuove famiglie, generalmente individuabili dal nome
del loro feudo o da qualche soprannome guerresco o di carica
o di qualità fisica o morale.
Uno dei gruppi più insigni è quello dei Manfredingi, di sangue
regio, congiunto, per via femminile, alla casa carolingia.
Da questo gruppo discesero con altre nobilissime casate subalpine: i di Biandrate, i di San Bonifacio, i Rati-Opizzoni, i Barbavara, i Trotti, gli Avogadro e venendo a quelle che concorsero alla fondazione di Alessandria, i Dal Pozzo, i Canefri, i
Calcamuggi, i Firuffini, gli Zoppi ed i Guasco di Belmonte e
di Sezzé.
Per questa remotissima origine, sono dunque, i Guasco, di
sangue regio.
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Arma antica (prima del sec. XV): trinciato cuneato d’oro e
d’azzurro sotto un capo d’argento carico di due branche di
leone strappate, in banda quella di sinistra, in sbarra,
quella di destra, tenenti entrambe un anello d’oro in cui è
incassato un diamante.
Cesare Guasco signore di Alice, valoroso condottiero e commissario generale delle fortezze del patrimonio apostolico.
Il papa Pio V, suo conterraneo, lo nominò governatore di
Ancona che difese contro gli attacchi turcheschi e, nel 1566,
per manifestargli il proprio apprezzamento, concesse a lui ed
ai suoi discendenti, di porre l’arma papale nella propria e di
caricarla, vieppiù, con il gonfalone di Santa Chiesa.
Cesare Guasco morì in Ancona nel 1568 e colà fu sepolto in
Duomo.
Bernardo Guasco fu senatore di Milano.
Cesare Guasco giureconsulto di fama.
Francesco Guasco professore di leggi in Pavia.
Manfredo podestà di Tortona.
Orazio Podestà di Asti.
Tutti nel XVI secolo.
Arma moderna (dal sec. XV): inquartato; nel 1° e nel 4° di
rosso a due branche di leone d’oro strappate, in fascia, in
fascia; quelle di destra rivolte, tenenti tra le stesse, un
anello d’oro in cui è incassato un diamante; nel 2° e nel 3°
tagliato cuneato d’azzurro ed oro; sul tutto: di rosso, al
gonfalone pontificio d’oro, caricato di due chiavi poste in
croce di S. Andrea, con gli ingegni in alto e addossati,
quella di destra d’oro e l’altra d’argento.
Lo scudo: addossato all’aquila bicipite.
Cimiero: un leone nascente e coronato d’oro, tenente, con
la branca destra, un anello come quello nello scudo.
Motto:C’EST MON DESIR.
Tra le figure più importanti del casato spicca:
Don Carlo Guasco marchese di Solero e governatore del
Basso Monferrato che, nel 1644, sposò, a Gand, la principessa
Enrichetta di Lorena, vedova del proprio cugino Ludovico di
Lorena principe di Lixheim e Phalsburg.
Nel contratto matrimoniale, gli sposi, fecero una donazione
vicendevole: «in caso di morte, tutti i beni dell’uno, sarebbero
passati all’altro».
In aggiunta, la principessa, stabilì che avrebbe lasciato al consorte ed ai figlioli, che dal loro matrimonio fossero nati, anche
il principato.
Inoltre dispose che in difetto di eredi diretti, il principato medesimo, sarebbe spettato al più anziano rappresentante dei
Guasco e, quindi, alla sua discendenza.
L’imperatore Ferdinando III convalidò tale accordo, ed elevò,
per buona misura, Carlo Guasco, alla dignità di principe del
Sacro Romano Impero e lo dichiarò, altresì, principe del sangue.
Ebbe trattamento di Altezza Serenissima. Morì nel suo castello di Brucht, presso Anversa, nel 1650.
Particolare interessante, sotto il profilo storico-nobiliare, è costituito dal fatto che, il titolo di principe, pur molto diffuso
negli stati italiani, non fu mai conferito da Casa Savoia a famiglie piemontesi, sebbene, in Piemonte, siano esistite e tuttora
sono presenti, casati della più alta nobiltà ”originaria”.
In Piemonte furono insigniti della dignità principesca, solamente gli Imperiali di Francavilla (principi di Montafia); i
Ferrero-Fieschi (principi di Masserano); i Dal Pozzo (principi
di Cisterna detti, poi, della Cisterna) ma, tutti, di nomina pontificia, poiché, questi feudi, erano tutti sotto il dominio diretto
della Sede Apostolica (vere e proprie “enclaves” poste nei domini monferrini e sabaudi).
Don Carlo Guasco, altro di questo nome, fu marchese di Serralunga, consigliere e senatore del duca di Mantova e di Monferrato Vincenzo Gonzaga. Diresse le fortificazioni della città
di Casale e colà morì nel 1615.
Don Giovan Francesco Guasco conte di Clavieres, nacque
nel 1708, fu generale comandante in capo dell’esercito austriaco durante la guerra dei sette anni e si distinse nelle battaglie
di Kollins, Breslau ed a Moys, al comando dei granatieri della
guardia imperiale.
Nel 1758 ottenne il grado di luogotenente maresciallo di campo. Nel 1759 fu nominato governatore di Dresda. Morì a
Koenigsberg nel 1763.
Don Francesco Guasco-Gallarati marchese di Bisio e Francavilla fu “maire” e poi sindaco di prima classe di Alessandria.
Fu “principe” dell’accademia degli Immobili e barone dell’
Impero nominato direttamente da Napoleone I, successivamente fu gentiluomo di camera di Carlo Alberto e cavaliere
dell’Ordine Civile di Savoia.
Nato ad Alessandria nel 1783 ivi morì nel 1860.
Per successione nobiliare aveva aggiunto, al proprio cognome,
quello dell’antico casato milanese dei Gallarati insignito dei
titoli di marchesi di Cerano e conti di Piola e di Desio.
Don Emilio Guasco-Gallarati marchese di Bisio e di Francavilla, conte di Frascaro, nato al castello (materno) di Murisengo nel 1878 e morto in Alessandria nel 1976, ottenne, con
motu proprio, di S.M. il re Vittorio Emanuele III, il rinnovamento del titolo di Principe, il 27 novembre 1933.
Appassionato studioso di storia e genealogia, Don Emilio,
coadiuvò il padre, Don Francesco, nella stesura del Dizionario
feudale degli antichi stati sardi e della Lombardia, pubblicato
dalla biblioteca della società storica subalpina e nella compilazione della preziosa opera: Tavole Genealogiche di Famiglie
Nobili Alessandrine e Monferrine che, rimasta interrotta alla
morte del proprio genitore, portò a compimento da solo.
Nel 1925, il governo, lo decorò della medaglia d’oro per i
benemeriti della pubblica istruzione.
Con il di lui figlio, il principe don Francesco (1914 – 1991)
celibe, nato dal matrimonio del padre con la contessa Silvia
Manin, patrizia veneta, si venne ad estinguere questo illustre e
millenario casato alessandrino.
Alberto Gamaleri Calleri Gamondi
L’ultima carica della Cavalleria Italiana
Col il presente articolo non si intende raccontare la storia del
reggimento Cavalleggeri di Alessandria per il quale si rimanda
ad un’altra occasione, ma rievocare un episodio della II
Guerra Mondiale che per motivi più che altro politici non venne mai messo in luce. Così mentre numerose sono le rievocazioni relative alle imprese di alcuni nostri reggimenti a cavallo, quali quelle di Novara e Savoia nella campagna di Russia, nulla o quasi da parte cultori di storia militare si ricorda
dell’impresa dei Cavalleggeri di Alessandria impegnati nella
guerra in Croazia, contro le bande partigiane locali. Qui si
riprende l’interessantissima conferenza tenuta dal tenente colonnello Franco Brunetti , in sede di presentazione del libro
“Le ultime sciabole” di Fulvio Flumis del quale si riporta la
parte relativa alla carica di Poloi, sunteggiando i preliminari
per evidenti motivi di spazio.
Il reggimento mobilitato all’entrata in guerra dell’Italia venne
inquadrato nella 1^ Divisione Celere Eugenio di Savoia, il 13
aprile del 1941 entrò in Croazia dove non ebbe a dover superare significative resistenze. In seguito nel’estate di quell’anno
si scatenò nell’intera Jugoslavia un guerriglia che assunse ben
presto dimensioni imponenti, rispetto alla quale i reparti
italiani dislocati in Croazia non erano considerati truppa di occupazione ma si vestivano dello status di “truppe stanziate nel
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territorio di uno stato indipendente amico”. In tale periodo di
tempo le attività del reggimento appaiono confluire in una
gamma di azioni che si potrebbero definire di polizia, incentrate soprattutto nel controllo delle rotabili, nella scorta convogli e in perlustrazioni durante le quali erano frequenti scontri a
fuoco. Il giorno di Natale del 1941 avvenne il cambio del
comando di reggimento che venne assunto dal colonnello Antonio Aimone-Cat.
L’inverno particolarmente rigido portò ad una sorta di stasi,
nella primavera 1942 si ebbe il ritorno in sella del reggimento
e la prosecuzione delle operazioni previste o imposte dalla
situazione, con una crescente intensificazione durante l’estate
e a settembre con ricognizioni che portarono a scontri con gli
elementi partigiani, sempre più attivi e più audaci.
Con il 1° di ottobre ebbe inizio un importante ciclo operativo
che durò sino al 23 ottobre, ma per Alessandria la partita si
giocò il 17 ottobre.
La Redazione
fiumi, era stata segnalata una consistente presenza di partigiani, che aveva portato alla decisione di effettuare una operazione finalizzata a ripulire tutta la zona.
L’azione di sorveglianza proiettava Alessandria lungo una fascia di territorio che si sviluppa lungo la riva sinistra del Dobra, in pratica a sud dell’attuale autostrada che collega Karlovac a Fiume. Le operazioni lungo il Dobra durarono quattro
giorni e non diedero alcun risultato anche se le fonti informative confermavano la presenza di circa 600 partigiani.
Al termine dell’azione il reggimento rientrò a Generalski Stol,
e venne inquadrato in un raggruppamento mobile costituito da
un battaglione di Camicie Nere, due squadroni di carri leggeri
e una batteria di artiglieria. Al comando del raggruppamento
venne posto il generale Mazza, che ricopriva l’incarico di Vice
Comandante della 1^ Divisione Celere. Le puntate a vuoto dei
giorni precedenti non convincevano i comandi superiori. Il nemico c’èra si doveva riprendere la ricerca. Il generale Lomaglio, Comandante della 1^ Divisione Celere, decise di riportare in azione i cavalleggeri spingendoli più in profondità nel
territorio. L’ordine fu di raggiungere Perjasica da Generalski
Stol, quindi effettuare una puntata in direzione sud verso Primislje, anche se il terreno su cui agire si prestava alle imboscate, il percorso era obbligato, non vi erano possibilità di
effettuare manovre laterali e l’obiettivo da raggiungere era posto a circa 20 km di distanza.
Perjasica
F. Korana
F. Mreznica
F. Mreznica
Primislje
F. Korana
Il Reggimento Cavalleggeri di Alessandria
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La carica di POLOJ
Dal 6 ottobre Alessandria abbandonò i consueti impegni di
vigilanza e scorta per vedersi inserito in un raggruppamento
mobile a cui viene affidato il compito di esplorare, scoprire e
segnalare le forze partigiane. Poi, una volta che la cavalleria
avesse agganciato e fissato i ribelli, sarebbero intervenute le
Divisioni “Lombardia” e “Cacciatori delle Alpi”. In pratica la
mobilità dei cavalleggeri doveva costringere gli avversari a
svelarsi determinando la localizzazione delle forze e la loro
consistenza.
L’area nella quale operava Alessandria è quella dell’attuale
confine fra Croazia e Slovenia nel territorio che i fiumi Dobra,
Mreznica e Korana chiudono in un abbraccio a sud-ovest
dell’abitato di Karlovac. In questo territorio racchiuso tra i
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I dieci giorni trascorsi senza difficoltà con le ampie battute suscitarono negli uomini una certa fiducia e forse anche un senso di superiorità. I partigiani, se c’erano, non dimostrarono alcuna intenzione di accettare il combattimento. Alle ore 09.30
del 16 ottobre iniziò il superamento del fiume Mreznica a 3
km da Generalski Stol. La marcia dei cavalleggeri avveniva
secondo le norme di sicurezza con una formazione a losanga
che vedeva in avanguardia il 4° squadrone, il 3° alla destra e il
2° a sinistra, mentre al centro avanzavano lo squadrone comando e quello mitraglieri. Dopo un quarto d’ora, dalla estremità dell’ala destra un plotone del 3° squadrone venne fatto
segno a raffiche di armi automatiche e di fucile. Il reggimento
che si trovava a metà strada fra Generalski Stol e Perjasica in
un luogo chiamato Orescansko era entrato in contatto con una
parte della retroguardia dei partigiani, circa 60, appostati die-
tro una cresta. Il plotone ingaggiato risalì al coperto la
collinetta e il suo comandante si rese conto che per eliminarli
non v’era altra soluzione che caricare. I partigiani, vestiti in
kaki, bustina tre punte, stella rossa al fregio, si arresero; appartenevano alla “Udrane Brigade” (brigata d’assalto), l’esercito regolare della resistenza. Si legge nel diario storico:
«Gli squadroni hanno trovato un terreno difficile ma l’addestramento è buono e sopperisce alle difficoltà di una orografia che non si può proprio definire di campagna. Inoltre solo i
reparti montati hanno potuto avere ragione di decine di uomini bene armati con il movimento rapido, con l’urto, con il balzo offensivo, con la manovra d’impeto che ha sostituito la
massa di fuoco».
Il reggimento rientrò a Perjasica avendo perso due cavalli ed
avendone avuti feriti 5. Il generale Mazza però confermò l’ordine originario di raggiungere Primislje. Alle 14.00 Alessandria si rimise in marcia con la consueta formazione losanga
lungo la strada sterrata che si sviluppa quasi parallela al fiume
Korana. Al colonnello Aimone Cat era lasciata autonomia di
giudizio: raggiungere Primislje se possibile, decidere quindi se
rientrare alla base o pernottare sul posto, secondo la situazione contingente. Il movimento procedette spedito ed indisturbato per una decina di km, fino alla biforcazione che da Poloj
porta a a destra su Primislje e a sinistra a Veljun, dopo aver attraversato il fiume Korana sul ponte di Cika. Era questo un
punto delicato, proseguendo la marcia si lasciava scoperto il
fianco sinistro da cui potevano infiltrarsi bande partigiane e tagliare la strada al reggimento durante la fase di rientro.
Il colonnello Aimone Cat decise di portare tutti gli squadroni
al ponte ed occupare le posizioni sui costoni della riva sinistra
del fiume per costituire basi di appoggio di fuoco. Intorno alle
16.00, Alessandria era di nuovo a contatto con forze avversarie, gli equipaggi carri segnalavano colpi di arma da fuoco
provenienti dalle alture della sponda opposta del fiume. Il
comandante decise di battere con il fuoco delle mitragliatrici
le alture circostanti. I partigiani risposero con il fuoco di armi
pesanti e con il tiro di mortai mentre piccoli gruppi nemici
cercavano di portarsi sui fianchi e sul tergo del reggimento.
Non restava che effettuare uno sganciamento per vanificare la
manovra avversaria. Nel frattempo si cercava il collegamento
radio con il comando superiore che veniva meno così come
veniva a mancare il collegamento con la batteria di artiglieria,
che era rimasta nei dintorni di Perjasica, e che sarebbe dovuta
intervenire in caso di difficoltà o di forte presenza di forze nemiche. Mancando i collegamenti si dovette tornare al vecchio
sistema del portaordini, che in motocicletta doveva andare a
riferire al generale Mazza sulla situazione, chiedere l’intervento dell’artiglieria e comunicare che il colonnello Aimone
Cat intendeva di rimanere sul posto per non doversi sganciare
con il buio con il nemico sempre più incalzante. Dopo 4 ore il
portaordini tornò con le nuove disposizioni: il reggimento poteva permanere in zona ma il giorno successivo doveva raggiungere Primislje e infine rientrare su Perjasica e procedere
alla distruzione del ponte.
Il generale Mazza non aveva colto la gravità degli eventi se
riteneva ancora necessaria e possibile la puntata su Primislje e
se credeva che le forze sul posto fossero in grado di distruggere il ponte. Intanto alle 18.00 l’artiglieria iniziò a battere le
alture sulla riva destra del fiume laddove era stato richiesto il
suo intervento, senza però poterne verificare l’efficacia in
quanto il reggimento si era sganciato dalle posizioni sulle quali era stato attaccato. Gli squadroni avevano ripiegato ed era
stato evitato l’accerchiamento. A quel punto il colonnello
Aimone decise di rientrare a Perjasica che raggiunse alle nove
di sera senza ulteriori problemi, e si presentò a rapporto dal
generale Mazza. Il bilancio delle perdite della giornata era di
due cavalleggeri feriti, 7 cavalli uccisi e 3 feriti .
In poco meno di 12 ore Alessandria aveva affrontato due
combattimenti ed in particolare nel secondo il era venuto a
contato con forze superiori e dotate di armi pesanti riuscendo
a sventare con una manovra ben coordinata l’accerchiamento e
la distruzione. Era ormai chiaro che tutta l’area compresa tra i
fiumi Mreznica e Korana era interessata al movimento di unità
partigiane ben equipaggiate che intendevano assicurarsi il controllo delle vie di comunicazione gravitanti a sud di Karlovac.
Alla luce degli obiettivi avversari sarebbe stato necessario rivedere la pianificazione ed avere una maggiore disponibilità
di forze, ma per Alessandria la missione era sempre la stessa:
costringere il nemico a svelarsi. Il 17 ottobre il reggimento
doveva quindi percorrere la stessa via su cui si era già tanto
impegnato, spingersi fino a Primislje, costituire l’elemento di
forza di un raggruppamento che inquadrava il 3° squadroni
carri leggeri, una sezione di artiglieria ed un battaglione Camicie Nere. Si trattava di replicare le operazioni del il giorno
precedente.
Il 17 ottobre la sveglia suonò all’alba. In tutti c’era la premonizione che sarebbe stata una giornata campale dopo che al
ponte di Cika il nemico si era svelato numeroso e ben organizzato. Ma bisognava pensare anche ai cavalli, più di 600,
che da due giorni non bevevano. Si decise di provvedere a
questa esigenza in vista delle operazioni e che il reggimento
scendesse a scaglioni su una spiaggetta ideale per un’abbeverata. Dopo aver preso tutte le misure di sicurezza alle 07.30
ebbe iniziò questa attività, effettuata per squadrone, per la
quale si impiegarono due ore e mezza, in condizioni assai critiche per un reggimento di cavalleria in operazioni. Tuttavia fu
solo nella fase finale dell’abbeverata, mentre i reparti si stavano allontanando dal fiume che il nemico attaccò di nuovo. I
plotoni e gli squadroni appiedati che avevano già concluso
l’operazione diedero copertura agli altri che balzarono in sella
e si sottrassero all’attacco. Lo scontro non fu però senza conseguenze, appena montato a cavallo venne colpito mortalmente il tenente Novi-Ussai.
A Perjasica il rancio fu frettoloso, bisogna raggiungere Primislje. Alle 13.00 Alessandria iniziò il movimento in formazione a losanga 1° squadrone in testa, 2° a sinistra, il 4° a destra, il 3° in retroguardia e al centro lo squadrone comando
con lo stendardo, lo squadrone mitraglieri e la sezione di artiglieria con l’autocareggio, composto da 6 autocarri, una ambulanza e l’auto del comandante. La presenza dei veicoli sarebbe stata d’impaccio nella manovra una volta che gli squadroni furono costretti ad entrare in combattimento, ma le esigenze logistiche ne consigliavano la presenza. Dopo un’ora e
mezzo si raggiunse Poloj, si era a metà del percorso, quando
improvvisamente il nemico si rivelò sulle alture di sinistra, a
nord-est. Vennero chiaramente avvistati piccoli gruppi di uomini che apparivano a tratti, con spostamenti coordinati e si
muovevano nell’intento di assumere uno schieramento. Ad alcuni cavalleggeri sembrò di udire canti, grida e perfino il suono di una fisarmonica e di trombe. I partigiani certi di avere la
superiorità numerica ed i fianchi sicuri, avevano scelto uno
strano modo di palesarsi. Il colonnello Aimone Cat, pratico di
guerra non convenzionale, già sperimentata in Etiopia, intuì il
comportamento dell’avversario, tipico di chi agisce per bande:
il nemico avrebbe cercato di manovrare per colpire il reggimento sui fianchi e se non si fosse fermato lo avrebbero attaccato alle spalle e cercato di chiudere la via del ripiegamento.
Decise allora di interrompere la marcia per chiarire la situa5
zione arrestando il reggimento a quota 249, che dominava la
strada che la sfiorava con andamento ovest-est. Il vantaggio
della posizione era assicurato dalle profonde doline che circondano la quota, in cui era possibile mettere al riparo i cavalli e schierare i cavalleggeri appiedati sugli orli dominanti le
doline stesse a protezione dei fianchi. La formazione a losanga attuata nella marcia si rivelò propizia in quanto ogni squadrone assunse lo schieramento difensivo previsto nel momento in cui si effettuò l’interruzione del movimento. I due pezzi
di artiglieria vennero schierati in modo da battere alla distanza
di 1 km le quote dove erano stati avvistati i partigiani.
In circa mezz’ora il reggimento attuò lo schieramento previsto
e dopo aver costituito una linea difensiva con dei centri di fuoco la assicurò dalla sorpresa con posti avanzati di osserva zione e allarme. Mosse che si dimostreranno particolarmente efficaci nel primo impatto con il nemico e costituirono le premesse del salvataggio del reggimento nei momenti confusi e
drammatici che seguirono.
Il colonnello Aimone Cat in quel momento aveva alla mano
solo i suoi cavalleggeri, i carristi e gli artiglieri, il battaglione
Camicie Nere era in posizione retrostante e per tutta la durata
del combattimento il coordinamento con esso venne a manca
re.
I partigiani nel frattempo iniziarono da nord a scendere dalle
alture e giunsero a contatto con il 1° squadrone, che copriva il
lato avanzato dello schieramento, e col 2° che era posizionato
a nord. Lo scontro si fece subito deciso, le raffiche delle armi
automatiche si abbatterono sulle postazioni dei cavalleggeri
che alle 15.15 contavano i primi due caduti: Alberto Brandolin
ed Elio Bonandin. La risposta del raggruppamento fu immediata, i due pezzi di artiglieria spararono ad alzo zero sui gruppi di partigiani dislocati sulle pendici delle alture e si videro i
primi effetti dei proietti da 75 mm sugli attaccanti che iniziano
a pagare il prezzo della loro temerarietà.
I partigiani a questo punto furono costretti ad attaccare, le
scelte operate dal colonnello Aimone Cat avevano sconvolto i
loro piani che prevedevano di intrappolare il reggimento al trivio di Bukovac, una volta che questo fosse sceso nella conca,
invece lo dovevano affrontare frontalmente di altura in altura.
Di fronte a questa imprevista reazione di Alessandria, i partigiani si aprirono sulla loro sinistra fino a bloccare il tratto di
valle ad est, lungo il quale si proseguiva per Primislje, e intensificarono lo sforzo offensivo da nord.
In questa fase il comandante del 1° squadrone, il capitano Petroni,, si dovette difendere sulla fronte e sui lati, accortosi poi
che lo squadrone correva il rischio di venire accerchiato chiese
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e ottenne il rinforzo tre carri leggeri per battere con le mitragliatrici di bordo gli avversari e consentire, alle 16.30, lo sganciamento su posizioni più sicure.
Il colonnello Aimone Cat, sicuro ormai che l’obiettivo dei partigiani fosse la distruzione del reggimento, cercò di segnalare
la situazione al generale Mazza che si trovava ancora a
Perjasica. Ma anche in questa occasione la radio non riuscì a
garantire le comunicazioni come già avvenuto al ponte di Cika
e si dovette di nuovo ricorrere alle staffette motocicliste. Alle
15.35 il colonnello comunicava: «Impossibile andare avanti.
Siamo attaccati da molte forze, quasi circondati a circa 1 km
prima del bivio del ponte di ieri. Tirare con artiglieria al bivio
e alture dominanti. Urgono munizioni. Sfilano sulla nostra
sinistra tendendo verso Perjasica».
Alle 15.40 partì la seconda comunicazione: «Mia avanguardia
impegnata rapidissimo combattimento quasi circondata per
tre quarti. Attaccati anche su alla sinistra della colonna nella
sua direzione di marcia. Adesso anche alla mia destra qualche elemento. Sono in cerchio su posizione in parte buona, in
parte no perché ero in marcia. In questo momento combattimento si calma, ma non c’è da fidarsi per ripiegamento.
Battaglione Camicie Nere è rimasto dietro di noi in formazione apertissima sarebbe stato utile suo giungere qui.»
Prima che arrivassero a destinazione queste due segnalazioni,
il generale Mazza, d’iniziativa raggiunse, il comando di Alessandria, alle ore 15.45, per accertarsi della situazione. Nel
frattempo le segnalazioni arrivavano al comandante della divisione Celere, generale. Lomaglio, che non comprese la gravità della situazione e ribadì di continuare, ad ogni costo, la puntata su Primislje.
Al generale Mazza, comandante del raggruppamento decise
allora di impiegare il battaglione Camicie Nere per continuare
nella missione, ma la manovra non riuscì. Il battaglione finì a
ridosso delle posizioni di Alessandria senza riuscire ad aprire
la via verso Primislje; al generale non rimase allora altro da
fare che comunicare al comando di divisione che era impossibile proseguire nell’avanzata. Improvvisamente sul luogo
degli scontri appare il capo di SM della Divisione, maggiore
Sallustri, per accertarsi della situazione e riferire al generale
Lomaglio. Questo intrecciarsi di contatti e di ispezioni che
evidenziava come da parte del comando di Divisione non si
percepisse la gravità della situazione che non era provocata da
un’azione di disturbo, ma di distruzione, determinò una pericolosa impasse che ritardò un tempestivo arretramento.
Il generale Mazza rimase sul posto con il colonnello. Aimone
Cat e terminò l’ispezione allo schieramento. A quel punto era
chiaro che i partigiani avrebbero cercato di circondare la piana
per impedire ad Alessandria ogni possibilità di ripiegamento.
Alla trappola si sarebbe potuto tentare di sfuggire se l’intero
reggimento fosse riuscito in pochi minuti a montare a cavallo,
ma il terreno circostante non favoriva il successivo movimento al galoppo e, pertanto, c’era il rischio di una catastrofe. La
soluzione più sensata era quella di restare sul posto a quota
249, consolidarsi, respingere ogni ulteriore attacco, attendere
le prime luci del’alba nella speranza che giungessero dei rinforzi. Anche perché la cavalleria non era idonea a combattere
di notte al buio. Vennero diramati primi ordini per la difesa
sul posto ed il 2° e 3° squadrone iniziarono a retrocedere dalle
rispettive posizioni per saldarsi sulla linea di schieramento di
quota 249. Erano in atto i movimenti quando giunge la notizia
che l’ambulanza con alcuni feriti, tra cui il tenente Calvani, ed
i primi due caduti era stata attaccata sulla strada per Perjasica
a 5 km di distanza. Il veicolo sanitario, scortato da due carri
leggeri, era stato attaccato dai partigiani. Esso poi, con l’in-
tervento dei carri, riuscì a proseguire la sua marcia verso
Perjasica ma era ormai chiaro che i ribelli stavano chiudendo
la via del ripiegamento ed era troppo tardi per tornare indietro.
Per farlo si sarebbe dovuto combattere nelle condizioni più
sfavorevoli, ed ecco che alle 18.00 arrivò l’ordine del generale
Lomaglio: «Ripiegare». Per il colonnello Aimone Cat questo
era un ordine non più attuabile, ancora una volta il comando
superiore non aveva chiara la situazione, il generale Mazza invece, rimasto presso il comando di reggimento, riteneva che
non si potesse non obbedire ad un ordine superiore, esso andava eseguito e basta.
Il comandante di Alessandria, consapevole dei rischi manifestò i suoi dubbi al generale. Ci fu un attimo di forte tensione
tra i due ufficiali, poi prevalse il senso dell’ onore di soldati di
fronte ad un ordine. Si doveva tornare indietro.
Il ripiegamento per poter riuscire doveva essere attuato con
tutte le predisposizioni necessarie: bisognava girare gli autocarri, attaccare i pezzi alle rispettive pariglie e assumere la
formazione idonea a forzare lo schieramento nemico. Il movimento non poteva così cominciare prima di mezz’ora mentre i
partigiani (più di mille) stavano completando l’accerchiamento. In una parola significava lanciarsi in un’impresa incerta, forse disperata, in condizioni di scarsa visibilità, con un
nemico numeroso, ricco di armi automatiche che controllava
la valle dalle alture e che aveva le avanguardie vicino alla
strada.
Alessandria si sarebbe messo alla testa del raggruppamento, il
battaglione Camicie Nere in coda, i carri rimasti dovevano tenere sgombra la strada offrendo finché possibile appoggio di
fuoco, dietro essi si sarebbero mossi gli autocarri mentre la sezione di artiglieria avrebbe seguito gli squadroni. A rapporto
ufficiali fu stabilito che il 1° squadrone del capitano Petroni
muovesse in avanguardia, il comando di reggimento, lo
stendardo, lo squadrone mitraglieri del capitano Martucci di
Scarfizzi e lo squadrone comando del capitano Calderoni subito dietro al centro, il 2° squadrone del capitano Alciator sulla destra a nord della strada, il 3° squadrone del capitano Comotti sulla sinistra. La sezione di artiglieria avrebbe seguito lo
squadrone comando e avrebbe goduto della protezione del 4°
squadrone del capitano Vinaccia in retroguardia. Alessandria
nella formazione così ordinata andò incontro al suo destino.
Erano le 18.30 del 17 ottobre 1942, ormai in piena sera il
reggimento procedeva al passo, guardingo, in assoluto silenzio, occupando una fronte di 300 metri. I cavalli erano più
di 700 e muovevano ai lati della strada. I carri leggeri e gli
autocarri erano anch’essi in movimento. I veicoli in quel momento erano d’impaccio poiché legati alla strada e necessitavano di protezione. Di fatto limitavano la manovra dei cavalleggeri che avrebbero potuto scegliere di muovere fuori dal
percorso obbligato. Tuttavia molti feriti dovettero in seguito la
loro salvezza agli automezzi che li raccolsero e li portarono a
Periasjca..
Il colonnello Aimone era convinto che l’attacco sarebbe scattato nel momento in cui il reggimento avesse raggiunto una
chiesetta ortodossa, più o meno nel punto in cui era stata attaccata l’ambulanza, un km e mezzo più avanti quota 249. E fu
così, i partigiani, più di mille uomini inquadrati in una Brigata
di assalto (la II Brigata della LIKA), proprio in quel luogo
avevano realizzato uno sbarramento di oltre due km, che bloccava la strada. Forti nuclei nemici si erano infiltrati dalle
colline settentrionali con un movimento a tenaglia, in parti
colare, da quota 317 di Veciljaca ne era sceso uno assai consistente che aveva preso posizione a nord della chiesetta e si era
saldato con altri elementi scesi da quota 258 di Donje Visoka.
ed avevano aggirato il reggimento, mentre era schierato a
difesa, per andare a chiudere la via del ripiegamento.
Venne l’ora di Alessandria. Il 1° squadrone del capitano Petroni era in prossimità del primo sbarramento quando la stretta
valle si riempì dell’eco delle raffiche e degli schianti che
aprirono il combattimento, ma il rimbombo degli spari fu
sovrastato dalle note della carica. Il capitano Petroni aveva
raggiunto quel destino che aveva firmato sulla sua tromba fin
dai quieti giorni di Palmanova, aveva infatti fatto incidere
sulla tromba dello squadrone la frase “«Sciabl-mano, Savoia».
Egli scattò contro lo sbarramento avversario con tutto lo squadrone e alle sue spalle mossero al galoppo i 300 cavalleggeri,
degli squadroni comando e mitraglieri, con lo stendardo e il
colonnello Aimone Cat. Frontalmente e contemporaneamente
caricarono anche il 2° squadrone del capitano Alciator, ed il 3°
del capitano Comotti, rispettivamente a destra e a sinistra, e
travolsero i nemici che stavano scendendo dalle pendici per
rinforzare lo sbarramento. Il 4° squadrone del Cap. Vinaccia,
in retroguardia, con l’incarico di proteggere l’artiglieria e gli
automezzi non fece massa con gli altri squadroni, ma contenne
gli attacchi dei partigiani sul retro della colonna caricandoli
per ben quattro volte per offrire sicurezza al movimento degli
elementi logistici.
Al centro, per l’irruenza del 1° squadrone e il rinforzo degli
altri due lo sbarramento attaccato venne superato e disperso,
mentre il 4° squadrone percorse più volte la valle avanti e indietro evitando che i partigiani serrassero sotto, e fu in questa
fase che subì le maggiori perdite, un terzo degli effettivi e la
metà dei quadri fra cui lo stesso comandante. Sulla strada
intanto muovevano, sotto il fuoco nemico, gli automezzi su
cui si raccoglievano i primi feriti.
17 OTTOBRE 1942
1° SBARRAMENTO
ore 18.30
2°
1°
4°
3°
1
Si poteva ritenere finito lo scontro? L’illusione durò poco. Si
udirono altri spari, altre raffiche, poco più avanti, a circa un
km verso Gornje Poloj, la Poloj alta, c’era un altro sbarramento nemico che attendeva uomini e cavalli. Per superarlo si
effettuò una seconda carica, il colonnello Aimone Cat affidò
lo stendardo allo squadrone mitraglieri e si portò là dove
maggiore era il pericolo per esortare ed incitare i suoi cavalleggeri. La nuova carica fu furiosa, il galoppo allungato portò
la schiera degli attaccanti in mezzo allo sbarramento, tra urla
del nemico e lamenti dei feriti, e i cavalleggeri passarono di
nuovo. In questa fase dell’azione venne ferito mortalmente il
capitano Petroni.
Non era ancora finita, un km più avanti, sulla strada che
portava a Perjasica, c’era un ultimo sbarramento. La strada
che adduceva al paese distante non più di 3 Km faceva una
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curva, era un punto di obbligato passaggio ed il nemico vi preparò una trappola, stendendo sul terreno lunghi fili di ferro
con appese delle bombe a mano liberate della sicura. Trappole
artigianali ma di sicuro effetto. Riordinati i resti degli squadroni a cui, per inspiegabile richiamo si unirono i cavalli porta
basti senza più guida, Alessandria caricò ancora, e superò la
terza ed ultima linea di armi automatiche e bombe a mano.
La carica a Poloj era conclusa, ranghi del reggimento, già
compatto, si ricomposero del tutto con l’afflusso di uomini e
cavalli che ritornarono alla spicciolata a Perjasica, spesso alcune ore dopo la conclusione dei combattimenti. Alla fine
Alessandria perse 68 uomini di cui 4 ufficiali e 170 cavalli,
61 furono i feriti. Per gli altri reparti del raggruppamento si
registrò la morte di due carristi ed il ferimento di 2 dei loro
ufficiali, prezzo alto venne pagato anche dalla sezione di artiglieria che si dimostrò l’elemento più vulnerabile, con 12 vittime ed un ferito su una cinquantina di effettivi. Mentre non
esiste un bilancio delle perdite del battaglione Camicie Nere.
Nei giorni 18 e 19 ottobre, con rinnovata fierezza, il reggimento concorse con i reparti della Divisione Lombardia alla
difesa dell’abitato di Perjasica stretto dalla minaccia nemica e
provvide alla sicurezza della rotabile Generalskj-Perjasica,
sulla quale transitavano le divisioni di fanteria avviate nella
zona.
Nel concludere questa rievocazione è opportuno chiedersi se:
Poloj merita di essere ricordata come l’ultima carica della cavalleria italiana, o se si debba attribuire tale definizione alla
più conosciuta carica del Savoia Cavalleria ad Isbuscenskij,?
Fermo restando che non si tratta di assegnare un primato sportivo ma più semplicemente di determinare una verità storica
senza nulla togliere all’eroismo delle azioni compiute.
A mio parere si deve riconoscere ai Cavalleggeri di Alessandria di aver avuto l’occasione di effettuare l’ultima carica
di cavalleria del nostro esercito per diversi motivi, fra cui
preminenti ritengo siano:
- il primo di ordine temporale, avvenne 54 giorni dopo la
carica di Isbuscenskij 24 agosto 1942;
- il secondo, è dettato dal fatto che ad Isbuscenskij caricarono
soltanto due squadroni su quattro, un altro attaccò appiedato
ed un altro venne tenuto in riserva, mentre a Poloj caricò tutto
il reggimento, con anche i cavalli carichi dei basti delle mitragliatrici, dei treppiedi, delle munizioni per costituire una più
forte massa d’urto;
ad Isbuscenskij inoltre lo stendardo non era con i due squadroni che caricarono, mentre a Poloj garriva fra i suoi cavalleggeri e fra le sciabole che puntavano sul nemico. Il fatto che
l’evento non abbia goduto della giusta notorietà che avrebbe
meritato per i motivi che sin detti in premessa non può modificare la realtà.
Per concludere mi sembra di poter affermare che nell’occasione Alessandria a Poloj abbia mantenuto fede al proprio motto
“IN PERICULO SURGO”.
Franco Brunetti
L’ex-libris, una piccola espressione d’arte
È un piccolo foglietto di carta, più durevole della vita dell’
uomo, e piuttosto che un passatempo lo diremo una visita al
tempo. Applicato sul risguardo interno della copertina di un
volume, ha lo scopo di stabilire la proprietà del volume stesso.
Alle origini, visto la preziosità degli incunaboli e dei manoscritti, l’ex libris era costituito da una scrittura a mano del
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nome del possessore, accompagnato spesso da una frase di
ammonimento alla restituzione, come: “…Hic liber est meus,
quem mihi dedit Deus…”. Solo più tardi verso la fine del XV
sec. incominciarono ad apparire ex libris costituiti da stemmi
miniati per biblioteche monastiche, principesche e comunali.
Nato come stemma di bottega delle stamperie che ciascun
maestro depositava in un registro notarile della corporazione a
cui apparteneva, l’ex libris vide la luce in concomitanza con la
nascita della stampa di G Gensfleisch detto Guttenberg in
Magonza, 1439-50. La prima tecnica di riproduzione è stata la
xilografia o incisione su legno a rilievo. Su tale materiale, in
genere di legno duro come il bosso o pero, viene realizzata la
matrice con un disegno di cui si asportano i tratti bianchi
risparmiando e mantenente i neri. Ne consegue che alla stampa , sotto la pressione di un torchio, la figura ne esce nitida
“pura” con un netto contrasto tra il nero e il bianco. Ma ben
presto la xilografia viene soppiantata da una nuova tecnica la
calcografia, il cui nome deriva dalla parola greca kalkòs che
significa rame. Sfruttando il metodo usato dagli orafi per cesellare i metalli, i tratti neri del disegno sono scavati su lastra
levigata di rame e vengono riempiti di inchiostro nero. Poi
successivamente la matrice, opportunatamente preparata, viene sottoposta alla pressione di due rulli e quindi avviene che la
carta inumidita e protetta da un panno di flanella, riceve l’
esatta impronta del disegno della matrice. Infine alla fine dell’
Ottocento viene usata la litografia, dal greco lithos scrittura su
pietra. Infatti consiste nel realizzare il disegno su una matrice
di pietra liscia con particolari inchiostri e matite grasse per
ridare poi il tutto al foglio pressato, trattenendo l’inchiostra
tura solo in corrispondenza delle superfici e delle linee disegnate con materiale grasso. Quest’ultima tecnica grafica può
essere considerata come arte incisoria che danno all’opera
stampata, nel nostro caso l’ex libris, un fascino particolare.
Analizziamo ora l’evoluzione iconografica ed i suoi contenuti.
Nei primi ex libris la simbologia era sempre a carattere araldico, logicamente il tutto era strettamente legato alla nobiltà
ed a una particolare classe sociale, visto il grande costo dei
manoscritti e dei primi libri stampati. Un fatto curioso, quasi
mai compare la scritta “ex libris” e li riconosciamo come tali
unicamente perché sono stati ritrovati sul risguardo delle copertine di antichi volumi. Verso il Settecento sotto la spinta
della Rivoluzione Francese e quindi l’annullamento dei titoli
nobiliari, anche le insegne araldiche sono costrette a sparire.
Sugli ex libris compare il mappamondo, simbolo della universalità enciclopedica dell’illuminismo. Con Napoleone appare la coccarda al posto dell’insegna gentilizia sormontata
dal tocco al posto della corona. Infine si deve aspettare la nascita della Belle Epoque agli inizi del ‘900 e il forte desiderio
di esprimersi della nuova società per ritrovare, negli ex libris,
nuovi soggetti e figure. Così compaiono più spesso ornamenti
floreali, architettonici, geometrici, simboli professionali, politici., a volte la semplice illustrazione di una frase, di un motto,
di un personaggio, o paesaggio. C’è una riscoperta della xilografia, oltre agli incisori artisti di fama si cimentano nella realizzazione degli ex libris, pittori, scultori, architetti, illustratori, scenografi. E’ proprio di questo periodo la scelta universale dell’ablativo latino EX LIBRIS (o ex foliis o ex bibliothecae). A fronte del Book-Plate in inglese e del Bbibliothekezeiche tedesco, che sempre compare nelle piccole vignette. In
Italia dobbiamo in gran parte a Gabriele D’Annunzio il merito
della riscoperta dell’ex libris. Fortemente radicato nelle sue radici italiane, anima ed incoraggia la pubblicazione della rivista
d’arte “Leonardo” che insieme ad Adolfo De Carolis, suo illu-
stratore di tutte le opere letterarie, porta ai vecchi splendori
rinascimentali l’arte xilografica.
Oggi l’ex libris, al pari del francobollo,è diventato “l’oggetto
proibito” di molti bibliofili e collezionisti, di nuovo riscoperto
e ammirato grazie al fiorire di congressi internazionali a tema
tica e da numerose mostre-mercato. Esso, strettamente legato
al mondo del libro, ne condivide la storia ed il destino reso ancora più improbabile da una fredda e dilagante cultura informatica. Sintomatica è l’espressione di Jacopo Celli nella prefazione del libro” Gli ex libris Italiani” in cui dice:…l’ex libris
rimane a testimoniare che l’unico e disinteressato amico della
lieta e nella dolorosa sorte è stato e rimarrà il libro, muto discreto confidente consolatore e generoso, che non conosce il
veleno della frode, che nel suo mutismo parla il lin-guaggio
dell’anima … Al gentile lettore una pausa di riflessio ne…….!
Xilografia di A.De Carolis ideata per la Prima
Squadriglia Navale Italiana
Xilografia ex libris di Bruno di Osimo
Xilografia di A.De Carolis ideata per la squadriglia aerea
di G.D’Annunzio chiamata la Serenissima
Vincenzo Amorosi
Araldica Ecclesiatica
Lo stemma di SER Mons. Massimo Camisasca, F.S.C.B.
Vescovo di Reggio Emilia – Guastalla
Ecco l’ultima fatica araldica dell’amico Giorgio Aldrighetti
per il nuovo Vescovo di Reggio Emilia-Guastalla Sua Eccel
lenza Reverendissima Monsignor Massimo Camisasca.
“Di rosso, all’albero della quercia al naturale, fondato su un
mare di azzurro, ondato d’argento e accompagnato nel canton
destro del capo dalla stella di otto raggi, d’oro. Lo scudo,
accollato ad una croce astile d’oro, è timbrato da un cappello
di verde, con cordoni e nappe dello stesso, in numero di
dodici, disposte sei per parte, in tre ordini di 1, 2, 3. Sotto lo
scudo, nella lista bifida e svolazzante d’argento, il motto in
lettere maiuscole di nero: “OPUS IUSTITIAE PAX”.
Lo stemma assunto dal novello presule - che riprende, in
parte, quello della Fraternità San Carlo - carica le figure di un
albero di quercia fondato su un mare e di una stella.
La stella a otto raggi simboleggia le beatitudini evangeliche e
l’astro del mattino, ovvero la Madre di Dio. Infatti, con
l’invocazione “Ave, maris stella” (Ti saluto, stella del mare),
l’inno della Chiesa esalta la Madre di Dio, che sta al fianco
dell’uomo, indicandogli la via. Dato che nella sua esistenza
storica essa precede il sole Cristo, come l’aurora precede la
luce del sole, così Maria diviene la stella del mattino.
La quercia, fondata su un mare, richiama, invece, il versetto
tratto dal libro del profeta Geremìa (17,5-10), dove si afferma
che è benedetto l’uomo che confida nel Signore. È come un
albero piantato lungo un corso d’acqua, dove, verso la
corrente, stende le radici.
Il motto, invece, è un’espressione del profeta Isaia: “OPUS
IUSTITIAE PAX”, frutto della giustizia sarà la pace (Is
32,17), ed è stato scelto dal presule perché gli sembra
riassuntivo di tutto quanto l’Antico e il Nuovo Testamento. La
storia di Israele è una ricerca della giustizia, una sete di essa.
Sete di quella giustizia che nasce dal rapporto vero con Dio,
per l’uomo e per il mondo. Tale giustizia, da cui nasce la pace
- cioè la comunione - è solo opera di Dio. A lui dobbiamo
chiederla, da lui implorarla. Giustizia e pace sono anche e
soprattutto due espressioni con cui il Nuovo Testamento, in
particolare san Paolo, chiamano Cristo: Cristo, nostra giustizia
(cfr. 1Cor 1,30; Fil 1,11; cfr. Rm 3, 21-26), Cristo, nostra pace
(cfr. Ef 2,14). Giustizia e pace sono anche le attese più
profonde del nostro tempo, le esperienze attraverso cui il
mondo interpella Dio e Dio risponde agli uomini.
La blasonatura e l’esegesi dello stemma è stata curata
dall’amico e noto araldista comm. Giorgio Aldrighetti - nostro
collaboratore - mentre l’ideazione, con le miniature
dell’insegna a colori (vedi foto), sono di Enzo Parrino,
Monterotondo (Roma).
Mons. Massimo Camisasca, F.S.C.B., è nato a Milano il 3
novembre 1946. Nel 1970 si è laureato in Filosofia presso
l’Università Cattolica di Milano con una tesi di Storia della
Teologia. Dal 1970 al 1978 ha ricoperto l’incarico di
Assistente presso la cattedra di Filosofia della menzionata
Università. Ha ricevuto l’Ordinazione presbiterale il 4
novembre 1975, come membro della Comunità Missionaria
"Paradiso" di Bergamo. Nel 1985 ha fondato la Fraternità
Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo,
9
riconosciuta dal Vicariato di Roma nel settembre 1985 e poi
eretta in Società di Vita Apostolica Clericale di diritto
diocesano nel 1989.Nel 1987 ha ottenuto la Licenza in
Teologia presso l’Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sul
matrimonio e famiglia della Pontificia Università Lateranense;
nel 1990 è stato nominato Adiutor secretarii specialis alla VIII
Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi e nel
1994 Uditore alla IX Assemblea del medesimo Sinodo. Nel
1990 è stato nominato Cappellano di Sua Santità e nel 1996
Prelato d’Onore di Sua Santità. Il 19 marzo 1999 la Fraternità
Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo è stata
dichiarata di diritto pontificio e Mons. Camisasca
riconfermato Superiore Generale della ste ssa Fraternità, ruolo
che ha ricoperto finora. È anche Consultore della
Congregazione per il Clero e di quella per gli Istituti di Vita
Consacrata e le Società di Vita Apostolica. Il 29 Settembre
2012 - nella festa dei santi arcangeli Michele, Gabriele e
Raffaele, Benedetto XVI lo ha eletto vescovo di Reggio
Emilia - Guastalla. L’ordinazione episcopale il 7 dicembre
nell’arcibasilica papale di San Giovanni in Laterano, Roma. I
soci SISA che lo desiderano posso contattare il socio Andrew
Martin Garvey per una copia del testo intero della brillante
esegesi con delle interessanti dettagli sull’araldica
ecclesiastica e sugli smalti e corredata con tutte le relative
note.
Andrew Martin Garvey
Sopra il portone al primo piano vi è la lapide recante la
dedica:
Araldica Architettonica
Ai fianchi della grande lapide vi sono dei festoni sopra i quali
vi sono, alla sinistra per chi guarda, l’aquila e, sulla destra, il
drago dei Borghese.
Chiunque abbia avuto il piacere di visitare Avignone avrà
visto e sarà stato piacevolmente colpito dal bellissimo palazzo
barocco che si trova davanti il maestoso Palazzo dei Papi.
PAVLVS V PONT OPT MAX
HAS AEDES
AVRO ARGENTO AERE FLANDO
FERIVNDO
AD VRBIS DECOREM EREXIT
ORNAVITQVE
CVRANTE
IO FRANC A BALNEO ARCH PATRAC
VICELEG
AVEN
ANNO M DC XIX
Il palazzo fu costruito nel primo quarto del XVII secolo su
commissione del Vice-Legato papale Giovanni Francesco
Guidi di Bagno. Non si sa chi è sta-to l’architetto perché gli
archivi della vice-legazione sono stati distrutti. Il palazzo ed è
dedicato, come si legge nel grande scritto, a Papa Paolo V
Borghese.
Il Palazzo della Zecca
Il Palazzo, che divenne successivamente la zecca papale o
Hôtel des Monnaies, e poi, dal 1860, il conservatorio, è su tre
piani con il piano terra con la facciata bugnata ed un portone
centrale e quattro finestre. I piani superiori sono privi di
finestre lasciando così un enorme fondo per la decorazione
araldica. Sulla balaustra vi sono quattro aquile non coeve.
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Al di sopra sulla parete esterna del terzo piano troneggia la
grande arma di Papa Paolo V sormontata dal triregno e
sorretto da due putti alati o angeli. La blasonatura dell’arma
Borghese è:
troncato, nel 1° d'[oro] all'aquila coronata; nel 2° d'[azzurro]
al drago alato d'[oro] reciso e sanguinante.
Arma Guidi di Bagno
inquartato in decusse di oro e di azzurro.
Si crede che lo stemma Borghese sia anche un omaggio al Legato a latere d’Avignone, Scipione Cafarelli (Legato negli anni 1606-1621), nipote del Papa, e comunemente detto “il Cardinale Borghese”.
Paolo V è già oggetto di numerosi articoli quindi vediamo gli
altri due protagonisti di questo tripudio araldico.
Scipione Caffarelli Borghese
Il Legato Titolare Scipione (1576-1633) fu il figlio di
Francesco Caffarelli e di Ortensia Borghese, sorella di Camillo Borghese, il futuro Paolo V). Scipione ebbe la porpora
cardinalizia un paio di mesi dopo la salita dello zio Camillo al
soglio di San Pietro avvenuto il 29 maggio 1605. Scipione fu
anche adottato dallo zio e cosi egli acquisì il diritto di usare il
nome e l'arme della famiglia Borghese.
Il vice legato invece, Giovanni Francesco Guidi di Bagno
(1578-1641) nacque a Firenze, figlio di Fabrizio, marchese di
Montebello e di Laura Colonna, figlia di Pompeo Colonna,
duca di Zagarolo. Giovanni Francesco fu nominato un prelato
di Sua Santità nel 1596, protonotario apostolico participantium. Egli fece anche parte della delegazione che accompagnò
il legato a latere Cardinale Ippolito Aldobrandini, durante la
missione in Francia per il matrimonio tra Enrico IV e Maria
de' Medici. Egli fu eletto vescovo titolare di Patras nel 1614 e
fu il Nunzio straordinario alla Corte Francese durante il pontificato di Gregorio XV e resse la vice-legazione ad Avignone
dal 1614 al 1621.Nel concistoro del 30 agosto 1627 fu creato
cardinale in pectore ebbe il poi il titolo di Sant’Alessio nel
1631. Morì nel 1641 e sua tomba è in Sant’Alessio in Roma.
Per chi volesse approfondire “l’araldica architettonica” si
rimanda all’interessantissimo contributo intitolato: “Architettura e Araldica. Appunti di storia, sociologia e arte” del nostro
vice-presidente Maurizo Bettoja al Convegno SISA-VIVANTSMOM (Torino)-CNI “L’Araldica dello Scalpello” del
27/11/2010, pubblicato negli Atti del Convegno, Torino, 2011
a cura di un'altro socio SISA Fabrizio Antonielli d'Oulx.
AMG - PA
CONVEGNO COLOMBIANO
“Colombo di Cuccaro, Fieschi e Cristoforo Colombo:
nuove prospettive di ricerca”
a Cuccaro Monferrato il 13 ottobre 2012
Nel 520° dalla scoperta del Nuovo Mondo si è celebrato a
Cuccaro Monferrato, organizzato dall’Associazione Centro
Studi Colombiani Monferrini CE.S.CO.M., con il patrocinio
del Comune di Cuccaro, il Convegno Colombiano “Colombo
di Cuccaro, Fieschi e Cristoforo Colombo: nuove prospettive
di ricerca”, per comunicare agli studiosi i nuovi sviluppi delle
ricerche svolte negli ultimi anni sull’argomento colombiano.
Dopo i saluti del Sindaco di Cuccaro, Dott. Fabio Bellinaso, il
Prof. Carlo Tibaldeschi dell’Università di Pavia, Presidente
del Convegno, ha presentato l’iniziativa e ha coordinato e
commentato gli interventi dei Relatori. L’Avv. Giorgio Casartelli Colombo di Cuccaro, Presidente del CE.S.CO.M., e
socio S.I.S.A. ha introdotto il Convegno e ha sottolineato le
nuove prospettive che si aprono relativamente alle ricerche già
iniziate e parzialmente pubblicate, in dipendenza degli interessanti approfondimenti svolti negli ultimi tempi. Il Prof.
Gianfranco Ribaldone ha presentato l’intervento, sulla storia
dei Colombo di Cuccaro nel Quattrocento, soffermandosi in
particolare sul periodo 1422–1444 inti-tolato: Le aderenze
francesi dei Colombo di Cuccaro (1422-1444) Valois, Bourgogne, Bar, Anjou.. È poi intervenuto il Prof. Mario Traxino
con la relazione: Bartolomeo delle Indie, Cristoforo Colombo
e le fazioni genovesi, in cui ha affermato la necessità di rivalutare la figura di Bartolomeo Fieschi, detto delle Indie, stretto
collaboratore dell’Ammiraglio nel quarto viaggio di scoperta,
nel corso del quale gli salvò la vita, in seguito al naufragio in
Giamaica. Il Prof. Traxino ha inoltre collegato la storia della
scoperta colombiana con la lotta tra le fazioni che si svolgeva
in quegli anni a Genova e nella Liguria. L’Arch. Alessandro
Taidelli Palmizi con l’intervento: L’iconografia della morte di
Cristoforo Colombo, ha commentato in particolare il quadro,
proiettato in alta risoluzione, esposto nella Casa Museo Colón
di Valladolid, opera del pittore contemporaneo Rementeria,
che raffigura l’Ammiraglio sul letto di morte, attorniato dai
suoi familiari e dai più stretti collaboratori. In seguito è intervenuto il Dott. Sisto Capra, giornalista di Pavia, che con la relazione: Intervista impossibile a Cristoforo Colombo ha evidenziato come la figura dello Scopritore dell’ America sia nel
comune sentire della gente, ancora legata a una visione molto
superficiale, specie sull’origine della sua famiglia, svincolata
dalla seria ricerca scientifica, che si è sviluppata negli ultimi
anni, ancora in gran parte sconosciuta al grosso pubblico. Ha
concluso i lavori il Prof. Gianluigi Rapetti Bovio della Torre
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che ha evidenziato gli stretti rapporti tra il Monferrato e la
Liguria e i numerosi attacchi armati subiti dal Marchesato del
Monferrato, territorio ambito e stretto, nei secoli, nella morsa
tra il Ducato di Savoia e il Ducato di Milano.
GCCC
Sulla Savoia - Una lettera che lascia perplessi
Turin, 4 août 1859
Monsieur le Comte,
La presse étrangère s’est occupée dans ces derniers tems d’un
prétendu mouvement séparatiste qui se serait manifesté en
Savoie et qui aurait pris des proportions imposantes.
Je ne doute pas que les Légations de S.M. même sans avoir
reçu des éclairissemens détaillés à cet égard auront en soin de
reduir à leur juste valeur ces bruits que l’esprit de parti a cherché à répendre. Voyant toute fois que la polémique de certains
journaux exploite encore cet argument contre le Piémont, je
pense qu’il n’est pas hors de propos de donner aux représentants du Roi quelques explications pour les mettre à mesure d’apprécier et faire apprécier exaitement l’état des choses.
La Séparation de la Savoie est une de ces questions dont les
partis extrêmes s’emparent tour à tour dans des buts differents.
En 1848 au tems de la République Française, s’étaient les radicaux qui ne jugeaient pas assez libérales les institutions
constitutionnelles qu’un Roi Magnanime avait octroyées à son
peuple, révaient la démocratie pure avec le bonnet phrigieu
et demandaient par conséquent l’annexion à la France. Ils
grossissaient la voix mais ils s’agitarent dans le vide. Le bons
sens populaire fit prompte justice des ces véleités et les séparatistes durent cacher leur désappointement et leurs drapeaux pour se soustraire au ridicule de leur position. Dans les
annés suivantes, les radicaux voyant que la liberté survivait
chez nous difficultés du tems et qu’elle fonctionnait régulièrement et paisiblement se rallièrent au Gouvernement du Roi,
ou bien ils entrèrent dans les voies de l’opposition légale et
constitutionnelle. Ce fut alors que le parti rétrograde et clérical
s’empara du rôle d’agitateur. Ce parti ne fait pas à la vérité de
l’annexion à la France un question de principe, mais il l’a subordonné aux intérêts du moment, et il s’en sert comme d’un
instrument d’opposition et de menace contre le pouvoir. Il
parait q’après le préliminaires de Villafranca ces messieurs
ont espéré qu’un Ministère pris dans leur parti aurait été appelé aux affaires. Mais voyant qu’un cabinet libéral était remplacé par un autre cabinet libéral ils ne surent pas dissimuler
leur dépit. L’Italie Centrale leur fournit l’occasion et un
moyen de rédiger un programme. Si les populations des Duchés sont autorisées à exprimer leur vœux sur leur avenir,
pourquoi n’en serait il pas de même en Savoie? En raisonnant ainsi ils oubliaient un peu que le dans le centre de l’Italie
les souverains avaient quitté le pays en l’abandonnant à luimême et que les populations s’opposent à la rentrée des Princes, parce que elles sont persuadées que leur retour est incompatible avec les institutions libérales que les pays demandent.
Or ce n’est pas précisément aux institutions libérales que les
séparatistes savoisiens paraissent dévoués : et dans tous les cas
ce n’est pas la liberté qui maque au Piémont. Quoiqu’il en
soit, une réunion de meneurs eut lieu à Chambéry à fin de soumettre une pétition au Roi et demander la permission de faire
circuler des listes de souscription dans le sens de la séparation.
Mais ces messieurs ne sont pas tombés d’accord et la séance
fut levée après avoir reconnu qu’on aurait peut-être mieux fait
de mettre en avant les Députés de la Savoie. En effet le 28
juillet dernier dix ou douze députés ce sont réunis à Annecy.
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D’après les informations que le Gouvernement a lieu de croire
sures deux d’entre eux auraient posé franchement la question
de la séparation mais elle fut énergiquement repoussé par tous
les autres honorables membres de la Chambre. On rédigea
alors la pétition qui a été publié par le journaux et dans la
quelle on émait des vœux pour des reformes administratives
particulières à la Savoie. Voila les faits dans leur exacte vérité.
On parle d’une pétition couverte de onze mille signatures.
Cette assertion a été démêntée officiellement. On parle également d’agitation dans les villes et dans les campagnes. Mais
en réalité cette agitation n’existe que dans les colonnes des
journaux étrangers qui ont prêté la main au plan de campagne
organisé par quelques brouillons et par quelques membres du
clergé qui voudrait imposer au Piémont un Concordat à
l’autrichienne.
Il serait assez difficile de démêter les véritables intentions de
cette partie du clergé; car d’un côté rien n’indique que la France soit disposée à modifier son droit public ecclésiastique et
quant au Gouvernement du Roi il serait il serait heureux de
pouvoir signer avec la Saint Siège un concordat à l’instar de
celui de 1801. Du reste le voyage de LL.AA.RR. le Prince de
Piémont et le Duc d’Aoste, est venu à propos pour dissiper les
chimères de songe-creux. L’accueil plein de respect et
d’enthousiasme fait aux Princes prouve que la Savoie est
toujours la terre classique de la fidélité au Roi, et que les liens
que depuis huit siècles l’unifient au Piémont, ne sont point
relâchés. La vaillant Brigade de Savoie dans le champs de la
Lombardie a scellé encore une fois de son sang cette union
fraternelle. Le sang des enfants des Alpes a coulé pour la plus
sainte des causes avec celui des Piémontais et des volontaires
Italiens ; ils seront fiers d’appartenir désormais à une Royaume plus vaste et puissant, et d’avoir prêté au Roi le concours
de leur bras pour la délivrance de l’Italie. De son côté le Gouvernement de S.M. s’empressera de faire droit à toutes les
réformes légitimes qui pourraient être réclamées dans l’intéret
de l’administration intérieur de ce noble pays qui a été le berceau de la Monarquie et qui a constamment donné des témoignages les plus éclatants de son dévouement à la Dynastie du
Roi. Agréez … Debormida»
Archivio di Stato di Torino – Materie politiche estero – lettere Ministri Mazzo 65 – Due Sicilie
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