mancini rune venetico - Piattaforma Unica della didattica
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Marco Mancini LA ‘VIA DEL FERRO’ ALLE RUNE: UN NUOVO CAPITOLO NELLA STORIA DELLA SCRITTURA the origin of the fuþark remains to this day the most baffling of all its mysteries (Ralph W.V. Elliott, Runes. An Introduction, Manchester, Manchester Univ. Press, 1959, p. 3) I sentimenti di amicizia che mi legano a Federico Albano Leoni mi hanno indotto a correre un rischio gravissimo. Ho pensato, infatti, di festeggiarLo offrendoGli un contributo dedicato al settore di studi con cui, come avete ascoltato dal bell’intervento di Paolo Ramat, Federico ha inaugurato la propria lunga e brillante carriera di linguista e di linguista storico in modo particolare, il settore della germanistica. Fin qui nulla di strano. Sennonché io non sono un cultore di scienze germanistiche e temo, perciò, che il mio regalo si trasformi in carbone. Non perché Lui sia stato cattivo ma perché io sarò stato inadeguato al cómpito. Insomma: chiedo comprensione al Festeggiato. Sappia Federico che contano soprattutto il gesto e l’affetto con i quali oggi partecipo a questo Incontro in Suo onore. Auguri Federico! Agli inizi della Sua produzione scientifica Federico Albano Leoni si è occupato più volte degli usi e delle funzioni della scrittura in àmbito germanico. Un simile interesse maturò in modo quasi naturale a partire dai primi studi attorno all’edizione del Primo Trattato Grammaticale Islandese, un testo nel quale, come è noto, le questioni ortografiche (latinografiche, in maniera particolare) e fonologiche costituiscono l’oggetto di attente riflessioni e di proposte interessanti e innovative. Quello dei rapporti che intercorrono fra il piano della fonìa e il piano della grafia ha rappresentato un filone di ricerche che attraversa molti studi di Albano Leoni sino a quelli più recenti dedicati alla fonetica sperimentale. In un lavoro comparso negli Atti della SLI del 1977 sull’interpretazione delle grafie alfabetiche nella fonologia diacronica delle lingue (Fonetica storica e grafetica storica) Albano Leoni sottolineava assai giustamente: 1 quando ricostruiamo i suoi di una lingua antica attribuendo alle lettere il valore che noi oggi abbiamo ricostruito per la lingua ch fornisce l’alfabeto, saltiamo una mediazione linguisticamente molto importante (anche se, nella maggior parte dei casi, destinata a rimanere ignota) perché è quella in cui è avvenuta la reinterpretazione del rapporto lettere/suoni già all’interno della lingua di partenza, se immaginiamo l’alfabetizzazione come opera di indigeni, o della lingua di arrivo, se la immaginiamo opera di stranieri (Albano Leoni 1977:90-91). A questa considerazione Federico ne aggiungeva una più specifica, esemplificandola con due casi prototipicamente distanti: quello della scrittura gotica del IV sec. d.C. (creata da un singolo erudito, il vescovo di fede aria Wulfila) e quello della scrittura runica. Alla luce della personale competenza in questi due àmbiti Albano Leoni riteneva fosse scorretto postulare nella fase d’inizio di una tradizione alfabetica un rapporto biunivocamente perfetto fra lettera da un canto e referente fonologico dall’altro, rapporto che sarebbe il frutto di una vera e propria “invenzione” da parte del πρῶτος εὑρετής (un termine, quello di “invenzione”, che nella storia delle scritture andrebbe usato con parsimonia): «tale invenzione complessiva – scrive Albano Leoni – non si verifica mai: si hanno invece processi di trasposizione di sistemi alfabetici da una lingua a un’altra che avvengono attraverso progressivi e lenti adattamenti» (Albano Leoni 1977:92). Lo scenario reale che domina in casi come questi (cito ancora) è quello «delle situazioni bilingui, delle interferenze, delle interpretazioni, nel quale l’ipotesi di una specularità grafico/fonetica arcaica non ha ragion d’essere» (Albano Leoni 1977:92). A nostro avviso simili ragionamenti sono tanto più rilevanti se ci si concentra sulla questione dell’origine delle rune germaniche. Su tale argomento Federico, nei suoi lavori (ad esempio l’articolo sulla semantica di termini-chiave quali rún e stafr in norreno, Albano Leoni 1972, o quello apparso una decina di anni più tardi Sulle denominazioni dello scrivere nelle lingue germaniche, Albano Leoni 1983), propende decisamente per la tesi ‘nordetrusca’ che, del resto, vanta una buona schiera di sostenitori nel nostro Paese oltre che in Germania. Sono passati quarant’anni dacché sono stati pubblicati i suddetti contributi di Albano Leoni. La bibliografia dedicata alle origini delle rune si è incrementata in modo a dir poco impressionante, come spesso accade nelle nostre discipline quando un problema è assai intricato. Epperò, curiosamente, la situazione ermeneutica non è mutata di molto. Anzi non è mutata affatto, e di progressi ne sono stati fatti davvero pochi. Uno dei motivi, a mio giudizio, sta precisamente nel fatto che quel prezioso suggerimento sul piano metodologico avanzato da Federico tanti anni fa circa i momenti iniziali di una tradizione scrittoria – incluso il fuþark - non sembra affatto essere stato raccolto o elaborato negli studi runologici. Proverò a fare il punto sulla questione dell’origine delle rune. Svolgerò il mio ragionamento aiutandomi con una serie di considerazioni sulla trasmissione e sull’etnografia delle scritture. Abbozzerò, infine, un’ipotesi esplicativa che combacia perfettamente con quanto riportato in alcuni passi del De origine et situ Germanorum, l’unico trattato ‘etnografico’ conservatoci dall’antichità latina, redatto da Tacito attorno al 98 d.C. Ivi rifluirono notizie storiche e informazioni ricavate da parecchie fonti anteriori, prima fra tutte i Bella Germaniae di Plinio il Vecchio, un resoconto in 2 prima persona delle campagne contro i Frisoni e i Cauci condotte sotto il comando di Corbulone lungo il limes renano (47 d.C.). «No runological problem – ha scritto Bengt Odenstedt – is so controversial as the question of the origin of the runic script, and the answers so far provided differ greatly» (Odenstedt 1990:145). L’incremento degli ultimi decenni dei giacimenti epigrafici, specie più arcaici (si pensi alle scoperte delle iscrizioni contenute in depositi votivi di armi nelle paludi danesi di Illerup, Nydam nello Jutland, a Vimose in Fionia o a Thorsberg nello Schleswig-Holstein a sud del confine attuale fra Germania e Danimarca) non ha alterato di fatto il quadro delle ipotesi sin qui formulate. Come è noto oggi disponiamo di quasi settemila iscrizioni di cui approssimativamente 450 risalenti al periodo nordico antico (fra il 200 e il 700 d.C.), incluse circa duecento brattee. Approssimativamente 25 iscrizioni sono databili agli inizi del III secolo d.C. e sono state rinvenute «across an astonishingly large area, from Scandinavia and North Germany to Eastern Europe» (Loijenga 2003:27). L’unico reale progresso scientifico in questo àmbito è costituito dalla cancellazione dell’ipotesi continuista sull’origine delle rune, ossia della tesi di quanti ritenevano che questa scrittura fosse una invenzione locale, sviluppatasi progressivamente dalle antichissime simbologie pre-scrittorie in uso nell’Europa preistorica. Pur lasciando qualche traccia moderna, ad esempio nel volume di Ellis, una ipotesi del genere, alimentata a suo tempo da ideologie malsane (basterebbe pensare al bizzarro volume uscito nel 1938 Das Geheimnis der Runen di Guido von List), è giustamente apparsa destituita di ogni fondamento e relegata nella soffitta della scienza assieme alle speculazioni magico-cabalistiche sulla funzione delle rune. Tre sono le ipotesi che continuano a confrontarsi con inesorabile ciclicità: la ‘grecaì, la ‘latina’, la ‘nordetrusca’. Malgrado presuppongano tutte il medesimo archetipo remoto (le scritture alfabetiche o, più precisamente, le fonografie segmentali mediterranee, una tesi di per sé autoevidente sia per la funzione sia per l’aspetto dei segni), si dividono poi nell’individuare il predecessore immediato della serie runica. E non di rado il tono dei conflitti fra gli studiosi assomiglia a quello dei seguaci delle tre religioni monoteistiche: ci si professa tutti della dinastia di Abramo ma si finisce col disputare su ogni cosa. È difficile, specie in questo àmbito, sottrarsi all’impressione che già Musset manifestò con franchezza anni fa, ossia che «la runologie reste, dans une large mesure, une science conjecturale, et, comme les runologues sont assez peu nombreux, le profane a trop souvent l’impression d’une succession de thèses personnelles, voire de modes, lancées par quelques grands noms et s’usant à mesure que leurs auteurs vieillissent» (Musset 1965:21). Già Ludwig Wimmer, pioniere nella decifrazione e interpretazione del fuþark, alla luce delle variazioni grafemiche presenti nelle epigrafi arcaiche e studiate oggi con estrema acribia da Odenstedt, Seebold e da altri, postulò l’esistenza di un unico archetipo formato da ventiquattro segni la cui datazione predocumentaria resta, tuttavia, molto incerta. La presenza di regole d’uso coerenti sia nel tratteggio prevalentemente angoloso e leggero, sia nella direzione di scrittura (che è libera, sinistrorsa, destrorsa e, talvolta, βουστροφηδόν) confermano la discendenza da un alfabeto princeps la cui serialità appare costante fin dalle prime documentazioni del 3 fuþark (con rarissime eccezioni negli alfabetarî, come nel caso delle sequenze rispettivamente *perþō ᛈ e *īwaz ᛇ, *dagaz ᛞ e *ōþilan ᛟ a Kylver che compaiono con ordine inverso per ciascuna coppia a Vadstena e Grumpan). Tutte e tre le ipotesi sull’origine della scrittura runica hanno precedenti ottocenteschi; nessuna si può dire abbia realmente finito col prevalere. Ciascuna, infine, appare legata a tradizioni di studio geograficamente ben determinate. Esiste una scuola che predilige l’ipotesi di un’origine greca delle rune, variamente declinata (Bugge, von Friesen, Kabell, Antonsen, Morris, Miller). Una scuola, assai nutrita, che sostiene l’ipotesi di un’origine latina (Wimmer, Pedersen, Agrell, Askeberg, Moltke, Page, Düwel, Odenstedt, Williams). Infine una scuola, oggi soprattutto italo-tedesca, che sostiene un’origine ‘nordetrusca’ (Marstrander, Hammerström, Krause, Rix, i nostri Prosdocimi, Gendre, Marchese, Poli), un’idea che è stata fatta propria anche da studiosi francesi come il Musset, inglesi come Elliot, americani come Markey, australiani come Mees. Non è mia intenzione, ovviamente, ripercorrere i contenuti specifici di queste tre diverse posizioni. Chi volesse avere un’idea complessiva degli argomenti in gioco può ricorrere con profitto a tre pubblicazioni relativamente recenti: l’articolo di Knirk dedicato alle rune nello Handbook of the North Germanic Languages; il primo, ricco capitolo del volume di Morris Runic and Mediterranean Epigraphy (da leggersi in parallelo con l’importante recensione-articolo di Odenstedt); e, soprattutto, l’ottima rassegna di Bernard Mees su The North Etruscan Thesis of the Origins of the Runes comparsa nello “Arkiv” del 2000. Ivi anche la nutrita bibliografia di riferimento, oramai secolare. I due difetti principali, a mio modo di vedere, contenuti in tutte – sottolineo – tutte le ipotesi sull’origine delle rune consistono da un canto in una ricostruzione eccessivamente meccanica e storicamente implausibile delle modalità di trasmissione, dall’altro in una teoria altrettanto meccanica e forzosa della invenzione dei segni (delle ‘etimologie’ delle figurae, per esprimerci con il metalinguaggio dei grammatici latini). La questione non mi pare si ponga nel caso della teoria ‘greca’. Se si tralasciano i tentativi più antichi (Bugge, von Friesen) che, come è stato osservato già da Pedersen, Krause e Musset, sono inaccettabili sia per motivi cronologici (alla luce dei ritrovamenti di testi della seconda metà del II sec. d.C. una inventio gotica appare impossibile) sia per motivi funzionali (un modello corsivo per le epigrafi runiche, apposte per lo più su instrumenta e con funzioni raramente usuali, è «assurdo» come scriveva Gendre), restano in piedi solo le affermazioni di Antonsen (tutte abbastanza vaghe, per la verità) e, soprattutto, quelle del suo allievo Miller e di Morris. Di Miller, in realtà, converrà parlare a proposito della teoria latina o ‘mista’. Quanto a Morris, più che concentrarsi su alcune bizzarrie derivazionali (greco <w> *fehu f, greco <q> *ingwaz ng, greco <r> *raidō r) come fa Odenstedt nella sua recensione/articolo, sarà sufficiente sottolineare l’evidente infondatezza di una ipotesi che postula la trasmissione (anteriormente al 400 a.C.!) del presunto alfabeto greco alle genti germaniche lungo le rotte commerciali transmarine e terrestri. Dello stesso tenore gli argomenti di Antonsen. Per giustificare la tesi ‘greca’ 4 prima mette in dubbio la durata del periodo ‘buio’ anteriore alle prime documentazioni runiche («findless period») che, secondo lui, potrebbe esser durato anche quattro secoli! Quindi, contro la tesi latina, sostiene che «no regard is given to the fact that all such signs (and also all such capitals) can be derived from Greek models», il che è ovvio, sul piano superficiale, vista la storia dell’alfabeto latino. Ma della ‘via greca’ Antonsen non fornisce alcun reale supporto storico-documentario. Si noti poi - cosa grave - che anche lui, come Morris, ritiene che le rune f (*fehu) e r (*raidō) implichino archètipi greci, la qual cosa nel primo caso è impossibile sul piano dei valori fonologici (e sembra di capire che Antonsen ignori totalmente l’origine digrafica di latino <f> da <wh>), nel secondo è impossibile sul piano della forma della lettera. Derivazione dal greco: ma da quale alfabeto? le varianti regionali proprie della scrittura nella Grecia sia continentale sia insulare e coloniale vanno pur individuate e, soprattutto, vanno motivate sul piano del contatto culturale. Eppoi: perché i commercianti? Questo delle vie commerciali è un motivo ricorrente nella bibliografia runologica. Molti sono convinti che la trasmissione dell’alfabeto e delle sue complesse regole d’uso (si pensi al ductus o a convenzioni quali l’omissione della nasale anteconsonantica, la grafia scempia anche in sutura di morfema ecc.) sia stato semplicemente il frutto di un contatto commerciale tra genti germaniche e di volta in volta, Greci, Latini o popolazioni alpine. Conviene confutare immediatamente questa tesi della ‘via commerciale’ alle rune. Tutti convengono sul fatto che postulare l’esistenza di un singolo ‘creatore’ della scrittura runica (come sosteneva ad esempio Wimmer) equivarrebbe a trasformarla in una scrittura irrelata coi modelli mediterranei anche se, come osserva Prosdocimi, rispetto ai parametri sui quali si giudica normalmente della formazione di una scrittura, «è legittimo parlare di creazione autoctona delle rune, anche se in termini diversi da quelli del passato» (Prosdocimi 2004:489). Se von Friesen per la nascita delle rune pensava ancora a contatti fra Greci e Goti lungo le coste del Mar Nero, Morris ritiene che la cognizione della scrittura greca da parte dei Germani sarebbe avvenuta lungo le rotte dell’ambra, dal Baltico al Mediterraneo. Entrambe le ipotesi, come si è accennato, appaiono infondate per motivazioni che sono insieme di cronologia e di mancanza di reali contatti culturali. Ma è soprattutto tra i propugnatori della ipotesi latina che la trafila ‘commerciale’ gode di grande favore. Il motivo è presto detto. È ben noto, infatti, che le prime relazioni durature tra popolazioni germaniche e genti romane in epoca augustea, a séguito delle campagne renane di Druso prima (12-9 a.C.) e di Tiberio e di Germanico poi (4-16 d.C., intramezzate dal massacro delle tre legioni di Publio Varo nella Silua Teotoburgensis nel settembre del 9 d.C.), furono essenzialmente di natura commerciale con qualche limitata presenza di contingenti germanici nelle fila delle legioni e, specularmente, con una significativa presenza di soldati romani negli avamposti lungo il Reno. Talvolta quegli stessi soldati, dopo aver messo su famiglia con qualche donna locale, al termine del servizio finivano coll’insediarsi stabilmente nelle terre che venivano concesse ai veterani lungo il limes: è il caso, ad esempio, del popolamento degli agri decumates. 5 Si parla generalmente dell’epoca augustea (o, forse, poco prima) come data di nascita delle rune perché, alla luce delle dinamiche note di trasmissione e di diffusione della scrittura, volendo anche ignorare documentazioni precoci come la fibula di Meldorf (prima metà del I sec. d.C.) e il frammento di Osterrönfeld (I sec. d.C.), questo torno di tempo deve necessariamente aver corrisposto alla fase di incubazione della scrittura. Non si spiegherebbe altrimenti l’ampia diffusione geografica del fuþark nella sua versione canonica con le prime tipizzazioni locali come quelle di h (*hagalaz), k (*kaunaz), e (*ehwaz), r (*raidō), o ng (*ingwaz) già in epigrafi del II-IV sec. d.C.: «so mature are they that probably a century or so of runic history lies behind them» (Page 1987:9). Secondo Odenstedt, che ricalca un’analoga posizione espressa da Moltke, «it is far more likely that it [scil.: the runic script] was created by a group of people: these may have been merchants, as assumed by Moltke, or Germanic soldiers who had been in Roman service. The inventors must of course have known Latin well, both the script and the language […] we know that there were lively cntacts between Germania libera and the Roman provinces at that time» (Odenstedt 1990:169-170). A essere precisi Moltke rivendicava alle popolazioni danesi, lontane dagli insediamenti renani, la primogenitura delle rune: in tal caso l’alfabeto latino avrebbe funzionato non da fonte diretta quanto piuttosto da principio ispiratore. Si tratta di un dettaglio: le suggestioni latine sarebbe giunte comunque attraverso i flussi commerciali. Di tenore analogo le osservazioni di Williams, un altro tenace sostenitore della ipotesi latina: «considering the time and the place from which the oldest runic inscriptions are known, an alphabet model is most likely to be found among the Romans» (Williams 1997:179) e ancora «the point in time at which the Romans attained their maximum territory thus coincides with the earliest point at which the runes are likely toh ave been created […] trade was important to both sides; furs, slaves and amber were exchanged for glass and wine, utensils of bronze and later on, above all, for gold» (Williams 1997:180). In sostanza, secondo questi autori, il contatto commerciale fra tribù germaniche e Romani da Giulio Cesare in poi (di cui esistono diverse testimonianze letterarie, fra l’altro) non poteva non indurre alcuni individui illuminati e appartenenti alle élites della società germanica a imitare la scrittura latina mediante le rune: «given the contact with Roman culture, it would be a strange thing indie if some Germanic individual had not been impressed by the Roman art of writing and tried to imitate it», conclude Henrik Williams (Williams 1997:181). Una variante di questa teoria ‘anticulturale’ sull’origine del fuþark è quella che potremmo chiamare la ‘via militare’ alle rune. Sostenuta da Gad Rausing tale ipotesi è stata di recente approfondita in un paragrafo dell’ottimo volume della Looijenga Texts and Contexts of the Oldest Runic Inscriptions. Qui l’autrice si sofferma a lungo sul ruolo che potrebbero aver rivestito i veterani stanziati nelle aree della Germania inferior, in guarnigioni del medio e basso Reno. Questi mercenari di lingua germanica, appartenenti alle tribù del basso Reno (soprattutto Ubii e Batavi) e 6 parzialmente alfabetizzati in latino, trasformatisi in mercanti «at the basis of the weapon-trade from Rome to the North», dovettero poi diffondere la nuova scrittura e trasmetterla alle élites guerriere della Fionia e del Sjælland. La ferma convinzione di un vaglio delle rune attraverso i canali commerciali e/o attraverso quelli militari – entrambi latinografi - ha condotto a ricostruzioni che talvolta rasentano il grottesco. Si veda la seguente pagina tratta da un intervento di Rausing. Merita di essere citata per intero in quanto rappresenta la trascrizione in termini fantapragmatici, per così dire, della trafila ‘commerciale/militare’: è probabile che il soldato barbaro al servizio di Roma non leggesse né poesia né letteratura e che fosse poco avvezzo ai volumi in latino. Era in grado probabilmente di leggere le iscrizioni sui monumenti, sulle monete e sulle pietre sepolcrali tracciate a lettere maiuscole, ma quasi certamente aveva più familiarità con l’antica scrittura corsiva romana, così come era vergata nei secoli I e II d.C. […]. Era questa la scrittura adoperata nelle relazioni e nella corrispondenza e sembra che, nel II secolo d.C., essa fosse straordinariamente uniforme in tutto l’impero. Esistono delle somiglianze fra questa scrittura e l’antico futhark? Facciamo l’ipotesi che un centurione a riposo in Danimarca o nella Scania volesse scrivere un messaggio nella propria lingua: aveva adoperato per lungo tempo delle stecche di legno per scrivere in latino e sapeva facilmente costruirsi un calamo, ma non aveva probabilmente la gomma arabica che, assieme al carbone e all’acqua, costituiva l’ingrediente per la fabbricazione dell’inchiostro. Quasi certamente aveva con sé un coltello ed è abbastanza facile incidere delle linee su una superficie lignea piana. Le forme curve delle lettere romane si addicono alla scrittura a penna ma non a quella incisa su legno. Per questo il nostro ipotetico centurione raddrizzò tutte le curve o le sostituì con degli angoli. Infine completò B e D per eliminare ogni possibile fraintendimento, mutando tutti i tratti orizzontali in tratti obliqui (Rausing 1997:23). Non starò a discutere sulle ingenuità di cui è costellata questa pagina di Rausing. Si va dal presunto bagaglio letterario dell’inventore delle rune alla granitica certezza che il tizio dovesse per forza essere un germano in pensione, per di più stanziatosi in Danimarca e sicuramente un centurione! Un soldato semplice evidentemente non era all’altezza del gravoso cómpito. A parte le facili ironie e a parte il fatto che per il I secolo d.C. la presenza di militari di origine scandinava e, più in generale, germanica nell’esercito romano era un fatto eccezionale (a differenza di quanto si verificherà a partire dal III secolo d.C.; il caso di auxiliares come Arminio e il suo clan meritò sintomaticamente più di una citazione), è l’intera ricostruzione culturale che in sé appare assurda. Il bisogno di scrittura ‘germanica’ (quello che la Looijenga chiama «the urge for writing») nascerebbe in modo spontaneo in un (super)individuo già alfabetizzato che impiegava normalmente e leggeva altrettanto normalmente la scrittura latina. Non si capisce in base a quale necessità comunicativa costui avrebbe dovuto inventare la scrittura runica, una necessità tanto pressante che lo avrebbe addirittura spinto a trascrivere la propria lingua in una grafia escogitata ex novo. In primo luogo, come ha dimostrato Christoph Rüger, la circolazione della scrittura in area renana «recht klein war», ed era limitata alla burocrazia militare (sempre e necessariamente in latino), alla presumibile corrispondenza dei soldati (come si può arguire per analogia con quanto avveniva a Vindolanda in Britannia o a Bu Ndjem in Egitto), al circuito mercantile (bolli, tegole), alle epigrafi sepolcrali o ai 7 monumenti con funzione dedicatoria che spesseggiano nelle diverse località delle province germaniche. Ad esse vanno aggiunte anche le rozze iscrizioni di proprietà dei militari nelle diverse guarnigioni. Nulla ci porta a ritenere che potessero ricorrere specifici atti scrittorî in dominî tali per cui gli scriventi si decidessero improvvisamente ad abbandonare la grafia latina e a crearne una encoria. Le rune più antiche si trovano incise su tipologie di oggetti che escludono recisamente la maggior parte dei circuiti comunicativi che in àmbito germanico, a differenza di quanto avveniva in quello latino, restavano affidati all’oralità: comunicazioni e interazioni quotidiane, informali ma anche messaggi solenni, monumentali, politici, celebrativi o religiosi. Le primissime rune compaiono incise pressoché unicamente su oggetti mobili, trasportabili e di un qualche pregio, frutto di scambi simbolici tra personaggi di rango elevato o su armi deposte in luoghi di culto (spade, manici di scudi, punte di lancia). L’àmbito è quello privato; si trattava di veri e propri status symbols, come è stato scritto, che impreziosivano i ktèmata indipendentemente dal fatto che fossero poi deposti in corredi tombali o in luoghi cultuali come le paludi dell’attuale Danimarca. Dobbiamo a un recente contributo di Klaus Düwel una presentazione efficace delle profonde divergenze tra le due culture alfabetiche, quella romana e quella germanica, per molti versi due universi scrittorî distantissimi fra loro (Düwel 2004). Dunque, al momento della creazione delle rune, non si può parlare di semplice imitazione di usi romani che, semmai, si verificò in epoca più tarda allorché nuove funzioni testuali vennero attribuite progressivamente alla grafia encoria dei Germani. In secondo luogo non si vuole certo negare l’esistenza di un solido e fiorente commercio lungo il limes renano. Stanno a dimostrarlo a sufficienza i ricchi corredi tombali nei quali numerosissimi sono i reperti di fattura romana (specie campana): fibbie, vasi di bronzo e di argento, vasellame di vetro, ceramiche di vario genere, e, soprattutto, armi. Il tutto a documentare un’intensa e fiorente attività dei negotiatores romani che presenta risvolti addirittura sorprendenti come osservava Malcolm Todd. Il punto è che l’insieme di tali circostanze non costituisce affatto condizione necessaria e sufficiente per la trasmissione della scrittura. La storia complessa e articolata della diffusione degli alfabeti regionali greci nell’Italia antica dimostra che solamente contatti duraturi, solamente la presenza di emporia stabili o di insediamenti di natura coloniale che favoriscono la circolazione e l’integrazione culturale, religiosa in primo luogo, rappresentano le reali condizioni di possibilità della trasmissione di un alfabetario. Le merci si scambiano senza alcun bisogno di ricorrere alla scrittura. Semmai è l’inventario delle merci (che è una sorta di Listenwissenschaft) che può, a lungo andare, richiedere l’impiego di mezzi scrittorî, come insegna la storia delle grafie del Vicino e Medio oriente antico. A differenza di quanto sostengono i teorici dell’origine latina del fuþark, la scrittura è una tecnologia che non viene acquisita mai da un’altra cultura per pura imitazione o per miracolosa contiguità: «quello della scrittura – rammentava Cardona - è, tra i vari apprendimenti, il più rigidamente formalizzato» (Cardona 1981:115) e presuppone complesse scelte di natura ideologica, sociale e identitaria, spesso basate sull’esclusione e la distanza rispetto ai modelli, veri o presunti, come avviene nel 8 caso delle scritture celtiche, leponzie in primo luogo, studiate da Solinas e Prosdocimi e, molto probabilmente, nel caso del cuneiforme ‘ario’ di Dario l’Achemenide. Scelte che non sono certo affidate al solo contatto fra individui interessati alle mere transazioni commerciali. Nel mondo germanico, semmai, l’attenzione va focalizzata sulla grande mobilità che caratterizzava gli artigiani che confezionavano gli oggetti iscritti e, soprattutto, sul ruolo delle rune in quanto valore aggiunto negli scambi simbolici intertribali, anche a forte distanza, e nei circuiti religiosi (su oggetti dedicati alle divinità e stipati in luoghi comuni di culto). La scrittura deve essere insegnata in modo organico e in modo altrettanto organico deve essere appresa: «dal punto di vista della scrittura come insegnamento/apprendimento, la prospettiva è necessariamente quella del maestro, cioè della tradizione. Ciò vale sia per la trasmissione interna sia per la trasmissione esterna, cioè per l’adattamento di un alfabeto ad una varietà linguistica già analfabeta. L’insegnamento/apprendimento come prospettiva del maestro implica conservatività anche oltre l’ottimalità da ottenere mediante cambiamenti del rapporto grafia-fono etc.; […] la prospettiva vale anche per la creazione di nuove scritture: i maestri sono per definizione quelli della scrittura-fonte; […] il nuovo alfabeto è adattato non secondo le necessità della nuova lingua, ma secondo le prospettive della vecchia, che possono essere le negative per la nuova» (Prosdocimi 1990:164). Queste affermazioni di Aldo Prosdocimi, contenute in un noto saggio sulla trasmissione della scrittura nell’Italia antica, poi ripreso e ampliato in un recente Convegno viterbese, aiutano a saldare il percorso delle nostre riflessioni. Non sfuggirà, infatti, che qui Prosdocimi sta dicendo esattamente quel che diceva Federico Albano Leoni quarant’anni fa e che rammentavo all’inizio di questa relazione. L’inerzia della tradizione domina i rapporti tra grafia e fonia, anche al momento della costituzione di una nuova tradizione alfabetica. Pertanto qualunque considerazione che muova da presunte esigenze di economicità interna o di funzionalità referenziale che presiederebbero alla definizione di una serie alfabetica – si trattasse della scrittura etrusca, venetica, latina o del fuþark - al di fuori della tradizione e delle modalità della sua trasmissione è un semplice miraggio. Prosdocimi si limita ad aggiungere – elemento però decisivo - che una tale inerzia storica si spiega nella prospettiva della trasmissione da parte dei ‘datori di scrittura’, cioè dei maestri che insegnano, non dei parlanti che apprendono a scrivere la propria lingua. Se ciò è vero, i ‘datori’ della scrittura runica non possono certo essere identificati con i Runenmeister tanto cari alla runologia tradizionale. Costoro, abituati a percorrere lunghi tragitti attraverso la Germania libera per vendere i prodotti della loro arte, impararono la scrittura in luoghi deputati e organizzati a diffonderla, luoghi che, viste le funzioni originarie delle rune, inclusa quella cleromantica di cui parla Tacito in un brano notissimo (Germania 10, 1), dovevano corrispondere a dei santuari. Impararono la scrittura dai possessori del corpus princeps originario, quel corpus dottrinario di cui entravano a far parte anche «lettere o varianti di lettere che non compaiono nella documentazione» e che venivano comunque recitate nella ripetizione mnemonica tipica delle fasi dell’apprendimento. Che questi luoghi di apprendimento non possano 9 corrispondere alle guarnigioni lungo il Reno pare accertato alla luce di quanto si è detto. Di ciò dirò fra poco. Prima, però, un cenno ai risvolti formali dell’ipotesi ‘latina’ sull’origine delle rune. Prevale oggi la tesi di chi come Wimmer per primo e, dopo di lui, Askerberg, Moltke, Odenstedt, Looijenga (ma anche, in parte, Miller) fanno discendere le rune dalle lettere della capitale maiuscola di epoca imperiale. La vecchia tesi di Agrell, infatti, di una derivazione dalla corsiva romana appare per molti versi e per motivazioni analoghe a quelle che hanno condotto alla confutazione dell’ipotesi greca di von Friesen, inaccettabili. Sorprende che questa ipotesi (fra l’altro inconcepibile in sede di trasmissione scolastica della scrittura) sia stata infelicemente ripresa da Rausing (Rausing 1992). Non mi soffermerò sulle singole trafile, opinabili come sono, ma sui principî che le sottendono. Le riassumo comunque qui di séguito per comodità: RUNA Wimmer/Pedersen Askeberg Moltke Odenstedt ᚠ ᚢ ᚦ ᚨ ᚱ ᚲ ᚷ ᚹ ᚻ ᚾ ᛁ ᛃ ᛇ ᛈ ᛉ ᛋ ᛏ ᛒ ᛖ ᛗ ᛚ ᛜ ᛞ F V D A R C X Q H N I G Y P Z S T B E M L new letter new letter F V D A R C X P H N I G Z new letter Y S T B E M L new letter new letter F V D A R C X ?P H new letter I new letter new letter new letter new letter S T B M M L new letter new letter F V D A R C X P H N I G Z new letter Y S T B E M L Q new letter ᛟ O O O O 10 Sia nell’ipotesi di Moltke sia in quella di Askeberg, Odenstedt, Looijenga esiste una discrasia tra le funzioni dei segni dell’alfabeto latino e quelle manifestate nel fuþark. Anche Wimmer, che faceva risalire l’alfabeto runico all’intera serie latina con l’eccezione di <k>, era costretto a ipotizzare diverse ‘rifunzionalizzazioni’ dei segni latini (ad esempio <q> *þurisaz þ, <x> *gebō g). In questi autori l’identificabilità formale, come criterio euristico, fa aggio sull’originario rapporto grafema-fonema dell’alfabeto latino. L’unica differenza è che per Moltke sette segni dell’alfabeto latino sarebbero stati abbandonati e sostituiti con nuove creazioni dal Runenmeister di turno. Odenstedt (l’ultimo a formulare una ipotesi ‘latina’ coerente e sistematica) postula identità di forma e di valore in quindici casi (ma senza spiegare capovolgimenti di lettere rispetto ai presunti archètipi come per *ūruz u e *laukaz l, o scarse rassomiglianze come nel caso di n e <n>); in sette vi sarebbe accordo formale ma non funzionale (*þurisaz þ rispetto a <d>, *gebō g rispetto a <x>, *wunjō w rispetto a <p>, *jēran j rispetto a <g>, *īwaz ï rispetto a <z>, *algiz R rispetto a <y>, *ingwaz ng rispetto a <q>) mentre due sole rune sarebbero invenzioni ex novo (* perþō p e *dagaz d). L’ipotesi di Odenstedt appare a prima vista razionale in quanto, a differenza di quel che pensa Miller (Miller 1994:66), non sostiene in alcun caso che la scrittura runica sia il combinato di due filoni formali. Ma i tre principî euristici che adotta finiscono col trasformarsi, in realtà, nell’assoluta arbitrarietà: (1) le lettere tendono a persistere anche se non indicano specifici suoni; (2) nuove lettere sono create solamente se quelle esistenti non sono sufficienti; (3) nuovi suoni sono normalmente rappresentati attraverso vecchie lettere rifunzionalizzate. In queste speculazioni etimologiche (si sarebbe tentati di definirle metaforicamente ‘varroniane’) si vìola precisamente il principio rigido della tradizione che presiede a qualunque trasmissione di serie alfabetiche. I maestri di scrittura non erano tecnicamente in grado di operare un previo azzeramento funzionale con conseguente reimpiego arbitrario di singoli grafemi per indicare realtà fonologiche estranee a quelle dei maestri stessi, quasi che la percezione dei segmenti fonologici potesse prescindere dalla scrittura. Nella riflessione delle culture parzialmente alfabetizzate non esiste il fonema separato dal grafema; esiste il segno grafico con i valori fonetici connessivi attraverso la lettura ripetitiva e la conseguente memorizzazione. Non si può insomma ritenere che un presunto ‘inventore’ delle rune abbia prima scorporato i referenti fonologici dai segni latini, abbia riapplicato arbitariamente quegli stessi segni ‘liberi’ a nuovi referenti (l’inventario fonematico del protogermanico nordoccidentale come sostiene Antonsen). Questo non è avvenuto neppure al momento dell’invenzione dell’alfabeto greco, visto che il principio della mater lectionis operò, nel caso delle vocali, secondo l’acrofonia dei grafònimi, come è stato dimostrato da Ignace Gelb. In definitiva il principio della riattribuzione ‘a tavolino’ di valori fonologici a segni di altre tradizioni scrittorie può valere per il sillabario cherokee inventato dall’indiano analfabeta Sequoyah, ma non 11 vale mai in sede di trasmissione delle scritture storiche. Dunque non vale neppure per il fuþark. Ora, se non si è in grado di dimostrare che la struttura dell’intero corpus dottrinario dell’alfabeto latino sia stata effettivamente e coerentemente trasmessa ai parlanti lingue germaniche (e non è possibile), l’ipotesi latina, già difficilmente accettabile per motivi storici come si è visto, appare insostenibile. Resta a questo punto l’ipotesi ‘nordetrusca’. In tal caso sembrano difettare più le motivazioni e le trafile storico-culturali, laddove le etimologie formali dei singoli segni appaiono più soddisfacenti e più coerenti sul piano sistemico. Ma anche qui i problemi non mancano. Innanzitutto, come ha sottolineato Bernard Mees, chi, come Moltke o Miller, ha provato a confutare la tesi ‘nordetrusca’ si è accanito su un bersaglio-fantasma. Un alfabeto ‘nordetrusco’ in quanto tale non esiste, se si applica questo nome alle varie culture grafiche alpine e subalpine in epoca preromana (la coniazione del termine, un iperonimo classificatorio, si deve, come è noto, al Pauli). Esistono bensì tipizzazioni locali dell’alfabeto etrusco settentrionale (ben chiare dopo il ritrovamento dei cippi di Rubiera), culturalmente ed etnograficamente distinte, che fanno riferimento a bacini linguistici differenti: retico, celtico-leponzio, camuno e, naturalmente, venetico. Nessuna di queste scritture sembrerebbe rappresentare un archètipo unitario e soddisfacente delle rune germaniche. In nome di un’innegabile ‘aria di famiglia’ che accomuna fra loro gli alfabeti nazionali alpini e subalpini gli studiosi hanno fatto ricorso a una sorta di florilegio di segni ‘nordetruschi’ per spiegare di volta in volta le singole rune, cavando i presunti archètipi ora da questa ora da quella tradizione alfabetica. Dinnanzi a simili tentativi da parte di Marstrander, Hammarström, Arnzt Eric Moltke ebbe buon gioco a stigmatizzare in toto l’origine ‘nordetrusca’, affermando che essa presupponeva assurdamente inventori del fuþark che se ne andavano in giro per le Alpi a raccattare segni alfabetici a dritta e a manca («the inventor would have had to wander from one Alpine tribe to another»). In effetti ancor oggi i sostenitori della tesi ‘nordetrusca’ non riescono a sottrarsi a questa tentazione. Bernard Mees ricorre ora a segni retici ora a segni camuni ora a lettere venetiche. Identica procedura in Thomas Markey, un altro convinto fautore della tesi ‘nordetrusca’ che ha provato a consolidare anche con argomenti strettamente etimologici. Anche Krause, pur dichiarandosi un assertore della tesi in questione, arriva a postulare, come già altri prima di lui, un’origine mista ‘nordetrusco-latina’ per i grafemi runici: der Vegleich der einzelnen Runen mit entsprechenden nordetruskischen Buchstaben ergab, dass bei weitem nicht alle Runenformen aus der nordetruskischen, mit lateinischen Buchstaben durchstzenden Schrift erklärt werden können. Selbstverständlich bleibt in solchen Fällen die Annahme offen, dass der Schöpfer der Runenschrift seine Runenreiche nicht sklavisch einem bestimmten Musteralphabet entnahm, sondern mehr oder weniger die eigene Phantasie zur Bildung neuer Zeichen schweifen liess» (Krause 1993:41). Markey a sua volta, trattando degli elmi A e B di Negau, sostiene che 12 in the late La Tène period prior to Romanization (and wholesale adoption of the Roman alphabet), there seem to have been efforts toward formation of supra-dialectal regional koiné alphabets. Such efforts may be evidenced at the pre-Roman Celtic settlement on the Magdalensberg, the promontory above what became Roman Virunum just north of modern Klagenfurt. It is primarily within the context of these developments, namely, regional koiné alphabets and eastward graphemic drift, that we may profitably seek the origins of the Germanic runes (Markey 2001:83). Al centro di questa presunta κοινή grafica, per Markey, si collocherebbe l’alfabeto camuno. Ma, purtroppo, di una tale ipotesi non esiste alcuna prova, visto che la diffrazione degli alfabeti di origine etrusca nell’Italia alpina accenna esattamente al contrario, cioè alla mancanza assoluta di una qualche unitarietà grafica. Ciascun polo alfabetico rappresentava eo ipso una scrittura ‘nazionale’ a pieno titolo. Piuttosto bizzarra, infine, la tesi del «Quellenpluralismus» di Helmut Rix secondo cui la scrittura runica sarebbe strutturalmente una scrittura «eklektisch». Quello che rappresenterebbe il principale difetto della tesi ‘nordetrusca’, l’apparente irriducibilità delle rune a un’unica fonte alfabetica alpina, in Rix si trasformerebbe astutamente nell’argomento a sostegno più forte. Veicolo della nuova scrittura sarebbero stati i soldati di origine germanica in servizio presso le legioni in territorio alpino. Questi mercenari, una volta congedati, avrebbero condotto con sé nelle rispettive tribù testi redatti nelle differenti grafie (e lingue) alpine e apposti su oggetti facilmente trasportabili («auf leicht beweglichen Gegenstände»). Gli oggetti sarebbero stati poi deposti in luoghi comuni di culto: «dann kam – aus welchem Anlass, werden wir nie erfahren – jemand, der mit Heiligtum und wohl auch mit dem Anbringen von Sinnzeichen zu tun hatte, und insofern als Priester zu bezeichnen ist, auf den Gedenken, anstelle der Sinnzeichen Wörter in Buchstabenfolge zu schreiben, wie er sie in jenen norditalische geschriebenen, ihm von den Weihenden vorbuchstabierten Texten vor Augen hatte». L’ipotesi di Rix, ingegnosa e obiettivamente diversa dalla ‘via militare alle rune’ di Rausing, è però indifendibile. Mees l’ha criticata a fondo e con piena ragione. Basti dire che l’idea di mercenari germanici che se ne tornano a casa nell’Europa settentrionale con pezzi d’osso o di legno, armi o proiettili iscritti in alfabeti differenti e poi li accumulano in un luogo dove il (solito) inventore ne ricaverebbe la composta scrittura runica è francamente ridicola. La situazione parrebbe senza vie d’uscita: l’ipotesi ‘nordetrusca’ rischia di configurarsi come una soluzione residuale e abborracciata. In sostanza avrebbe ragione chi, come Musset, sostiene con estrema cautela che «on voi qu’il s’agit d’un faisceau de présomptions intéressantes mais non encore de preuves vraiment démonstratives» (Musset 1965:55). A rendere il tutto ancor più fragile si aggiunge l’imbarazzante presenza nel fuþark di grafemi che sembrano discendere indiscutibilmente dal latino – come notava Krause - quali *fehu (ᚠ), *raidō (ᚱ), *berkanan (ᛒ), e anche *ehwaz (ᛖ), *mannaz (ᛗ); secondo altri anche *ōþilan (ᛟ) accennerebbe a un’origine ‘antietrusca’ così come l’indicazione delle sonore (ma qui si tratta di un equivoco sull’impiego del termine ‘nordetrusco’ che, ovviamente, non 13 significa ‘etrusco’ tout court). Insomma: «to try to fill in the details on the evidence before us has not so far met with full success, and there is real danger that the plausible thesis of North Italic origin will be discredited by a too rush superstructure of detail that suffers from lack of solid evidence and a too patient desire to make what facts are available fit into a preconceived scheme» (Elliott 1963:11). Epperò, se si abbandona il paradigma ‘misto’ (la teoria di una mescidanza di caratteri ‘nordetruschi’ e/o latini), l’ipotesi - che chiamerò ‘alpina’ - acquisisce ben altra credibilità, a patto che si rispettino due precise condizioni: (1) una condizione ‘strutturale’ ovvero, in omaggio al Festeggiato, quella che potremmo chiamare la lex ‘Albano-Prosdocimi’: per modello prevalente un corpus princeps, arricchito di eventuali ‘lettere resuscitate’ con i relativi valori fonologici (sempre riconducibili al corpus), senza dover mai ricorrere ad arbitrarî scorpori fra singole lettere e referenze fonologiche; (2) una condizione ‘storica’: un percorso culturalmente e funzionalmente plausibile lungo il quale si sarebbe trasmessa la tradizione alfabetica che funse da modello per il fuþark. È un fatto acclarato che l’unica tradizione alfabetica di origine ‘nordetrusca’ dotata di un prestigio tale da valicare la dorsale alpina nei decenni immediatamente anteriori all’espansione augustea fu quella venetica. Il complesso dei lavori di Prosdocimi, Scardigli, Marinetti e di Maria Pia Marchese hanno delineato un contesto di cultura grafica che rappresenta sicuramente la condizione necessaria per il transito delle rune attraverso l’area alpina. Maria Pia Marchese, già in un lavoro del 1981, arrivava a ipotizzare una diretta connessione fra le speculazioni alfabetiche documentate dalle tavolette venetiche atestine presso il santuario della dea Reitia (indizio sicuro di meccanismi di apprendimento della scrittura «per syllabas») e «la localizzazione della matrice della formazione delle rune nell’area alpina alla fine del II sec. d.C.». La scelta come milieu dell’area venetica e di quelle ‘periferiche’ in modo specifico (carnica e cadorina a stretto contatto col Noricum e con la Pannonia superior) si giustifica anche per la diffusione di varianti alfabetiche venetiche al di là dei passi alpini. Non solo: in almeno un paio di casi, in una variante periferica e arcaicizzante dell’alfabeto venetico simile a quella delle iscrizioni di Idrija pri Bači (Idria della Baccia nell’attuale Slovenia) come ha dimostrato Prosdocimi, sono state redatte le epigrafi commissionate o forse redatte da individui di lingua germanica ritrovate sull’elmo B di Negau (odierna Ženjak in Slovenia) e a Würmlach sul Passo di Monte Croce Carnico in territorio austriaco (ted. Plöckenpass). Si potrebbe ben dire che il «Bindeglied» che mancava alle ricostruzioni di Pisani sia stato effettivamente ritrovato (Pisani 1969:412). Si noti però che per la Marchese «una cosa appare certa; e cioè che la matrice dell’alfabeto runico è duplice: da una parte norditalica, e più specificamente venetica, dall’altra, concomitante, latina» (Marchese 1980-1981:21). Di una tale duplicità di 14 fonti è convinto anche Marcello Meli: «il santuario di Reitia sopravvive fino al II-I sec. a.C. e proprio nell’ultima fase della sua attività si registra la presenza di tavolette alfabetiche con alfabeti venetico e latino. Questo fatto avrebbe favorito senz’altro la mutazione di segni propri dell’alfabeto latino» (Meli 1988:51). Lo stesso pensa, infine, Aldo Prosdocimi il quale è tornato di recente a parlare dell’origine delle rune alla luce di una nuova, interessante scoperta: alcune iscrizioni cadorine di dedica (che mostrano legami tipologici con quelle di Làgole di Calalzo, anche sul piano del canone e delle regole scrittorie) ritrovate ad Auronzo in un contesto archeologico sicuramente di natura religiosa. Il fatto cruciale è che queste epigrafi sono databili al I sec. dopo Cristo, in epoca tardissima e mostrano chiare tracce di interferenze con la scrittura latina (al pari di qualche altro raro caso già noto da Valle e da Gurina). Verrebbe così colmato lo iato cronologico tra il periodo di incubazione della scrittura runica e il suo possibile modello ‘venetico-latino’ di cui già parlava la Marchese: l’aspetto cronologico – scrive Prosdocimi - pare ora colmato dalla seriorità della veneticità alpina, specificamente cadorina; tuttavia la seriorità della veneticità è necessaria ma non sufficiente né primaria quale puro aspetto cronologico: ciò che è primario, da entrambi i fronti, sono i modi storici della realtà culturali espresse dalle scritture (alfabeto/i). Dal lato ormai romano c’è un recupero di veneticità il che implica ‘scuola’ di scrittura quindi conoscenza di più alfabeti, oltre quello romano e venetico, […] Le precondizioni culturali alla creazione dell’alfabeto runico c’erano tutte, in particolare c’era la possibilità di mescolare per variare tra forme e contenuti delle lettere così da presentare una scrittura alfabetica che non mostrasse dipendenza da alcuna scrittura matrice, in particolare da quella romana che era il modello di riferimento egemone ma che si doveva, perché si voleva, negare, e questo era lo spirito ideologico di volontà-di-ricezione di una scrittura nazionale germanica (Prosdocimi 2006:189). Il dato rilevante di questo ritrovamento è l’abbassamento drastico della cronologia. Più in generale, appare comprovata la persistenza e la (relativa) vitalità della scrittura venetica in una fase che coincide con il periodo ‘buio’ che dovette precedere la creazione e la diffusione delle rune germaniche (sempre se si prescinde dai documenti ‘prerunici’ del I secolo d.C.). Trovo invece macchinosa ed artificiosa l’idea di una volontà di Abstand ‘a tavolino’ che avrebbe indotto i creatori del fuþark a «mescolare per variare» (Prosdocimi), gli archètipi grafemici, in particolare quelli venetici e quelli latini. Una simile ipotesi, oltre che eccessivamente raffinata e degna più di un sociolinguista consapevole che di un utente inconsapevole (lo notava anche Rix), contraddice l’idea stessa che Prosdocimi ha difeso altrove di trasmissioni integrali dei codici alfabetici. Non si parla infatti di nuovi segni aggiuntivi come nel caso dell’alfabeto sannita o di quello sabellico rispetto alla scrittura etrusca, o, ancora, come nel caso del greco copto integrato da grafemi demotici, tutti con valori referenziali del tutto ignoti all’alfabeto princeps. Lo stesso Antonsen è tornato a ribadire che coloro che creano una nuova scrittura «take over the entire writing system, which includes such intrinsic features as the direction of writing, interpunction, the lack of designation of nasals before tautosyllabic consonants, or of geminated consonants, and so forth» (Antonsen 2002:108). Si noti, di passaggio, che la mancanza di geminazione e la 15 direzione ora destrorsa ora sinistrorsa ora bustrofedica della scrittura caratterizzano il venetico (Lejeune 1974:180-181) ma non la grafia latina tardo-repubblicana. Solamente una esplicitazione delle trafile dai grafemi venetici a quelli runici può contribuire a chiarire il primo requisito da noi invocato, quello della sistematicità e coerenza del modello appreso e trasmesso. Quindi, identificato il suddetto modello, occorrerà verificare il secondo requisito, quello del percorso culturale. Sul piano grafemico le lettere del fuþark e i relativi modelli venetici vanno suddivisi in sei lotti differenti, mano a mano che l’intervento di riorganizzazione grafica si fa più incisivo rispetto all’archètipo. Si osserverà che la proposta qui formulata riconduce i 24 segni dell’alfabeto runico a ben 19 lettere della serie alfabetica venetica (cfr. lotti A-D) ossia all’intera serie ‘periferica’ con l’eccezione di <t> da theta, <p> da pi, <ś> da san; alle 19 lettere germaniche tratte dal venetico vanno aggiunte 2 rune frutto di possibili modificazioni interne allo stesso fuþark (o forse solamente una se consideriamo p *perþō tratta da <p> nella variante ‘coricata’ del Magdalensberg); altre 2 rune tratte probabilmente dall’alfabetario retico (lotto E) e 1 runa completamente inventata ex novo (lotto F). Il primo lotto (A) è caratterizzato da una semplice conversione dei corrispondenti segni-modello dell’alfabeto venetico con qualche modificazione ‘stilistica’ secondaria consistente nella cancellazione di tratti tondi od orizzontali (come nel caso di j * jēran o di a *ansuz ). lotto A (1) <l> = /l/ venetico ᛐ /l/ protogermanico; (2) <u> = /ŭ, ū/ venetici ᚢ /ŭ, ū/ protogermanici; (3) <o> = /ŏ, ō/ venetici ᛟ /ō/ protogermanico; (4) <j> = /j/ venetico, realizzato a Làgole come >>, ᛃ /j/ protogermanico; (5) <h> = /h/, /f/ (Làgole), /i/ (Idria) venetici, realizzato ‘a scala’ in epigrafi arcaiche e periferiche (Idria, Negau B) ᚻ /h/ protogermanico; (6) <s> = /s/ venetico per lo più a tre tratti ᛋ /s/ protogermanico; (7) <a> = /ă, ā/ venetici, realizzato nella variante con tratti paralleli (Opitergium, Padova, Cadore), ᚨ /a/ germanico; (8) <i> = /ĭ, ī/ venetici ᛁ /ĭ, ī/ protogermanici. Il secondo lotto (B) è contraddistinto da interventi più marcati sul tratteggio degli archétipi venetici, per lo più rotazione dei segni (e) o introduzione di allungamenti miranti alla realizzazione simmetrica dei grafemi runici (m): lotto B (9) <m> = /m/ venetico, nella variante cadorina e carnica a quattro tratti ᛗ /m/ protogermanico; (10) <e> = /ĕ, ē/ venetici, forse nella variante ‘coricata’ ritrovata sul Magdalensberg ᛖ /e/ protogermanico; Il terzo lotto (C) è quello senza dubbio più interessante; appare contraddistinto dall’applicazione di alcuni principî sistematici comprensibili solo alla luce della fonologia del venetico. 16 lotto C (11) la notazione della semivocale labiovelare protogermanica /w/ si spiega solamente se si muove dalla specifica natura dell’allofono fricativo [β] che doveva essere proprio di /b/ venetico in posizione intervocalica; è stato dimostrato di recente, infatti, che le sonore venetiche presentavano allofoni fricativi o approssimanti in posizione post-sonorante; il segno <b> venetico tagliato a metà (storicamente l’antico <Φ> prima greco poi etrusco), nella sua variante quadrangolare, costituisce dunque l’archétipo di ᚹ /w/; (12) la notazione dell’occlusiva labiale sonora in posizione postpausale o post-occlusiva (esattamente nella posizione presente nel grafonimo con funzione acrofonica *berkanan) richiese l’impiego di una ‘lettera morta’, <b>, privo di referenza fonologica in venetico ma evidentemente presente nella serie recitata dai maestri, come ha ribadito giustamente Prosdocimi nel caso della rinascita di omicron in venetico, donde runico ᛒ = /b/ protogermanico; (13) la notazione dell’occlusiva dentale sonora, mediante un ritocco simmetrico che ha aggiunto due aste verticali a destra e a sinistra, discende direttamente dal grafema ‘a croce’ che era caratteristico dell’area patavina e che, come è stato più volte ribadito, è un’evoluzione di antico tau etrusco che, nell’alfabeto venetico più arcaico indicava /d/; dunque venetico <d> runico ᛞ per protogermanico/d/; solamente la tipizzazione patavina dell’alfabetico venetico è in qualche modo raccostabile alla forma più antica di *dagaz; (14) la notazione dell’occlusiva velare sonora, mediante un intervento simmetrico sulle quattro aste del segno ‘a freccia’ (<χ> di origine eolica o ‘azzurra’, dunque figurativamente un <Ψ>) che nell’alfabeto venetico stava a indicare /g/, runico ᚷ = protogermanico /g/; (15) <n> venetico = /n/ ᛅ = protogermanico /n/; la variante runica ha eliminato il terzo tratto che tornava verso l’alto nell’archètipo venetico. Il quarto, quinto e sesto lotto (D, E, F) sono di complessa dichiarazione. Se si escludono rispettivamente la tredicesima runa (*īwaz, ᛇ), per la quale è ragionevole presumere una semplice variazione pertinente rispetto a *īsaz (ᛁ), e la quattordicesima runa (*perþϸō ᛈ = protogermanico /p/), per la quale esistono seri indizi di una diretta derivazione da b (anche se la pi trilaterale del Magdalensberg potrebbe essere un interessante archetipo del grafema runico), restano 7 rune da ricondurre al modello alfabetico del venetico. Di queste, quattro (k, R, r e f) si possono spiegare mediante il ricorso alla matrice venetica (lotto D); due (þϸ e t) accennano, per motivi interni al sistema venetico, a un modello retico (lotto E); una (ŋ) è una creazione ex novo (lotto F). lotto D (18) il segno ᚲ per /k/ protogermanico rappresenta un caso interessante e al tempo stesso istruttivo: il grafema, che ricorda la forma del gamma, è poco coerente con il contesto degli alfabeti ricavati dalla variante etrusca settentrionale ove, viceversa, domina esclusivamente il kappa, ma se si pone mente ai documenti atestini e al modo con cui veniva trascritto e appreso questo specifico segno alfabetico nelle tavolette ritrovate al santuario della Baratella, tutto diviene chiaro (cfr. ad esempio Es 25, Es 23, Es 27): il tratto verticale del kappa nella nota formula akeo, infatti, coincide perfettamente con il margine della casella ove veniva inscritto, permettendone una reinterpretazione identica al *kaunaz runico (la runa ᚲ dalla lettera venetica K); (19) il segno ᛉ per /R/ protogermanico è di certo ricavato dal segno zeta dell’alfabeto venetico princeps: ciò è dimostrato dal fatto che il segno è impiegato con il valore proprio della serie etrusca originaria e non con quello con cui era utilizzato nell’area atestina dove invece designava /d/; la variante non coricata di <z>, presupposta necessariamente dalla runa R,che presenta un’asta verticale e due tratti ‘a ventaglio’ che si dipartono dalla parte superiore, è frequente nell’alfabeto etrusco e nelle varietà alpine ma non ricorre in venetico; 17 (20) il segno ᚠ per /f/ protogermanico è quello che, probabilmente più di ogni altro, ha indotto a scartare l’ipotesi ‘nordetrusca’ e a propendere per quella latina, vista la perfetta coincidenza formale e referenziale; tuttavia occorre tener conto del fatto che già il sistema venetico tendeva alla semplificazione del digrafo originario <wh> impiegato per indicare /f/: a Làgole – dunque in area cadorina – la digrafia è ridotta al solo segno <h>, una semplificazione possibile perché, in modo perfettamente speculare a quanto avvenuto nel Latium Vetus, la cancellazione di /h/ ha consentito l’alleggerimento del gruppo <wh> che era stato ereditato dall’alfabeto princeps etrusco anteriore al VI secolo a.C. Non è improbabile che, vista la disponibilità di un grafema runico w per /w/ (ᚹ da <b> venetico) e vista d’altronde la necessità di disporre del grafema runico h (ᚻ, si rammenti che in protogermanico, a differenza di quanto avvenne nel venetico tardo, la fricativa rappresentava un fonema ben integrato nel sistema), la digrafia originaria (comunque inammissibile in runico) si potesse risolvere attraverso una semplificazione che facesse sopravvivere il solo digammon; (21) il segno ᚱ che indica /r/ protogermanico sembra ben difficilmente riconducibile alla matrice originaria venetica che, analogamente ad altri sistemi dell’Italia antica, impiega un rho quasi privo di gambo verticale (in epoca arcaica, cfr. Es 120 da Lozzo o Is 1 da Idria della Baccia in ambiente carnico) o privo del tutto tanto da rassomigliare, in questa seconda forma, a un delta angoloso a tre tratti. Si deve però notare che la runa *raidō presenta una certa variabilità formale, talvolta con la svasatura inferiore più larga di quella superiore; Antonsen, in maniera convincente, ha identificato una variante praticamente identica al rho angoloso venetico ma aperta in basso precisamente nell’iscrizione protorunica più antica, apposta sulla Fibula di Meldorf, e su una bratteata trovata sull’isola danese di Fionia; si potrebbe pensare che la forma più comune sia il risultato di un successivo e inevitabile raccostamento al modello latino.mentre quella svasata in basso una sorta di forma intermedia tra quella originaria e quella più diffusa. Il quinto lotto (E) pertiene esclusivamente allo spinoso e sinora irrisolto problema dei segni per i fonemi dentale sordo (ᛏ che indica /t/ protogermanico) e interdentale sordo (ᚦ che indica /þϸ/ protogermanico): lotto E (22-23) se si contestualizza la segnatura di questi fonemi protogermanici all’interno dell’ipotesi venetica – e solo all’interno dell’ipotesi venetica – si può forse trovare una ratio soddisfacente. Un segno venetico ‘a croce’ per la dentale sonora (cfr. sopra n. 13) fu impiegato per indicare protogermanico /d/; da questo impiego e dal contemporaneo utilizzo di <z> nell’alfabeto princeps per indicare il protogermanico /R/ si deduce che il modello venetico cui attinsero i creatori delle rune non poteva essere quello atestino, bensì un modello più arcaico e periferico, presumibilmente cadorino o carnico. In entrambe queste aree, come osserva Prosdocimi, il segno per /t/ era costituito da un’asta tagliata da un trattino più o meno a metà, un grafema eccessivamente ambiguo in un sistema runico che già annoverava g (ᚷ) e n (ᚾ). Di qui il possibile, eccezionale ricorso a un grafema tratto dall’alfabetario retico, un sistema di scrittura la cui contiguità documentaria con l’ambiente venetico è ben dimostrata dalle iscrizioni sugli elmi di Negau. Il segno ‘a freccia’ (presente a Sanzeno) rielabora una tendenza delle tipizzazioni retiche a segnare la <t> mediante sovrapposizioni sull’apice dell’asta. L’impossibilità di ricorrere ad altri grafemi per fonemi dentali indusse probabilmente ad attingere una seconda volta al repertorio retico: la runa * þϸurisaz (ᚦ) deriva pertanto, per semplificazione simmetrica dal grafema ‘a sega’ che il retico documenta a Magrè con tre occhielli il cui valore fonologico, dopo gli studi di Pellegrini, Tibiletti Bruno e Alberto Mancini, appare equivalente a un fonema dentale sordo, sicuramente non-occlusivo. Il sesto e ultimo lotto (F) è costituito da un solo segno, ᛜ, la runa *Ingwaz che indicava la sequenza protogermanica [ŋg]. lotto F 18 (24) la peculiarità del valore del segno (su cui si è ampiamente speculato, anche sul piano della presunta etimologia formale), privo di qualunque riscontro in qualsiasi altra tradizione alfabetica, rende presso che certo che, in tal caso, ci si trova dinnanzi a una vera e propria invenzione. I dati formali confermano pienamente la centralità dell’area alpino-danubiana nella creazione e successiva diffusione dell’alfabeto runico: «la tecnologia della scrittura – scrive Diego Poli - si diffonde in un contesto interetnico fra popoli che acquisiscono coscienza della propria specificità e si trovano in ascesa nel momento in cui si trovano a orbitare verso l’area padano-veneta preromana e romana» (Poli 2010: 23). Dobbiamo sempre a Poli un recente e convincente inquadramento delle dinamiche che regolarono l’espansione della scrittura nel Noricum, una regione che Roma acquisì definitivamente nel 16 a.C. e che fu trasformata da Claudio in provincia romana a tutti gli effetti. Il Noricum funse da snodo commerciale e culturale tra la X Regio augustea e l’Europa latèniana in cui popolazioni celtiche e popolazioni germaniche si trovarono per secoli a stretto contatto. L’asse portante di questi contatti fu senza dubbio la rete viaria che i Romani, a séguito della fondazione della colonia di Aquileia (181 a.C.), irradiarono verso nord. La strada più importante di questa rete fu la Claudia Augusta che, in epoca imperiale, garantiva l’allacciamento a sud sia con la trasversale della Postumia sia con la costiera dell’Annia all’altezza dello snodo di Aquileia. Ma anteriormente all’apertura di questa via le zone alpine conoscevano già numerose direttrici di attraversamento. La più rilevante, nota come compendium nell’Itinerarium Antonini, era quella che toccava Tricesimo e giungeva al paese di Carnia donde si dipartivano due itinerari: uno orientale risaliva la valle del Fella e il canal del Ferro per arrivare a Santicum (Villach sulla Drava) e a Virunum (poco a nord dell’odierna Klagenfurth); l’altra , più a occidente, giungeva a Iulium Carnicum (Zuglio) e valicava il Passo di Monte Croce Carnico per discendere lungo la valle del Gail e raggiungere Aguntum (vicino la moderna Lienz). Questa digressione viaria non è fine a sé stessa. Lungo gli itinerari appena descritti, infatti, si snodava a nostro avviso un percorso di flussi commerciali legati a un bene preziosissimo, il ferrum Noricum, leggendario per la sua resistenza e impiegato nella fabbricazione delle armi. La strada del ferro, però, era anche costellata da centri religiosi, luoghi di culto interetnico nei quali già in epoca preromana, come ha intuito Prosdocimi, si incontravano Veneti, Romani, popolazioni celtiche come i… Le tappe di questo percorso sono in parte note e corrispondono perfettamente con le vie del commercio del ferro: Würmlach immediatamente a valle del Passo di Monte Croce e Gurina nel Gailtal, l’importante centro economico e politico in cima al Magdalensberg (forse l’antica Noreia) di cui si è portato alla luce recentemente un complesso impianto cultuale, un centro, peraltro, dove è ampiamente documentata la lavorazione dei materiali ferrosi del circondario. Il contesto storico-epigrafico relativo a quest’area di contatto fu già delineato da Maria Pia Marchese. In tutte queste località esistono tracce dell’impiego della 19 scrittura venetica: ciò vale per Würmlach, per Gurina ma anche per il Magdalensberg non ostante alcuni dubbi sollevati di recente sul frammento ceramico scoperto a suo tempo da Egger. A Würmlach, in almeno un’iscrizione (Gt 14), è presente un antroponimo germanico (Harto) accanto ad altre attestazioni ascrivibili al patrimonio onomastico celtico. I legami tra questi santuari e la stipe di Làgole di Calalzo nel cadorino, uno dei centri di scrittura più importanti dell’area venetica montana, è indubitabile e ciò porta a ritenere che, come a Este, anche questi santuari fungessero da luoghi di apprendimento e di diffusione della scrittura. Ne conosciamo relativamente molti, anche di recente individuazione: a Làgole di Calalzo nel Cadore, a Meggiaro vicino Este, in località Fornace vicino ad Altino, ciascuno focolaio di irradiazione di scritture su ex-voto o simili. In almeno un caso (Asolo), assai interessante, le incisioni alfabetiche fungevano da sortes, secondo l’autorevole opinione di Anna Marinetti, una «fenomenologia che trova solidarietà areale nella zona alpina/prealpina», specialmente retica. E la destinazione cleromantica non può non rammentare analoga destinazione delle notae di cui parla Tacito a proposito delle popolazioni germaniche (de origine et situ Germanorum 10, 1-3) e di cui si ha un interessante e preciso riscontro già per la metà del I secolo a.C. in un passo cesariano (de bello Gallico 1, 50 e, soprattutto, 1, 53). La scrittura venetica servì a trascrivere il nome di un germanofono almeno in un altro caso, quello della stipe con gli elmi di Negau la cui funzione di deposito religioso («external simbolic storage», Markey 2001:75) è stata definitivamente dimostrata da Thomas Markey. La scritta Harigasti teiwa dell’elmo B deposto attorno alla metà del I ecolo a.C., tuttavia, non è in grafia retica come erroneamente si ostina a credere Markey bensì in grafia venetica ‘periferica’, una grafia di cui Prosdocimi, dopo averne dichiarato la precisa collocazione paleografica, ha accertato la sopravvivenza sino al I secolo d.C., in piena epoca ‘protorunica’. Le analogie tra grafia venetica ‘periferica’ e rune germaniche sono state indicate con riferimento alle singole lettere. La logica deduzione è che, lungo la ‘via del ferro’ e nei santuari che ne segnavano le tappe, la scrittura venetica andava diffondendosi in concomitanza con l’apertura delle strade romane verso il Noricum, apertura che si può datare grosso modo attorno alla metà del secolo I a.C. Particolare rilievo, come si è detto, riveste l’attestazione di un frammento in chiara scrittura venetica sull’oppidum del Magdalensberg. Non sfugge l’importanza del reperto non solo per il ductus delle singole lettere ma anche per il reperimento in un’area strettamente connessa con il controllo del mercato del ferro in epoca tardo-latèniana. Attorno a quest’epoca il regnum Noricum costituiva un’entità politica minacciata dalla pressione dei Galli Boi e degli Elvezi. Cesare ci offre una prova evidentissima della tenace connessione culturale fra genti noriche e tribù germaniche che gravitavano attorno al medio corso del Reno: duae fuerunt Ariouisti uxores, una Sueba natione, quam domo secum duxerat, altera Norica, regis Voccionis soror, quam in Gallia duxerat, a fratre missam; utraque in ea fuga periit (de bello Gallico 1, 53). 20 In seno a questi rapporti si colloca il dato culturale fondamentale cui abbiamo fatto più volte cenno. In queste zone si produceva il ferro con cui erano temprate le armi romane quali spade, punte di lancia. Queste armi e gli artigiani che le fabbricavano dovevano viaggiare verso nord e i loro prodotti erano senza dubbio particolarmente apprezzati («runic writing – scrive la Looijenga – may have started as soldiers’ and/or craftsmen’s skill»). Troveremo poi questi stessi oggetti, frutto di bottino o altro, iscritti con rune germaniche nei depositi votivi del II secolo d.C.: it appears that the the knowledge of the production of strong iron weapons was not very widespread among the German tribes. This probably prompted the import of Roman swords. Lønstrup states that over 100 Roman swords have been found in the Illerup bog. The swords may have been bought, captured or obtained as gifts. This last possibility only applies in Germanic foederati near the limes, because they were involved in the defence of the Empire. The hundreds of brand-new swords which habe been found in Scandinavia and Germany, and partly also in Poland, have been obtained as merchandise (Looijenga 2003:92-93). È chiaro che di questa direzione di espansione della scrittura parla Tacito in un passo ben noto della Germania, basato molto probabilmente sulla testimonianza autoptica di Plinio di circa mezzo secolo prima: fuisse apud eos [scil. Germanos] et Herculem memorant, primumque omnium virorum fortium ituri in proelia canunt. Sunt illis haec quoque carmina, quorum relatu, quem barditum vocant, accendunt animos futuraeque pugnae fortunam ipso cantu augurantur. Terrent enim trepidantve, prout sonuit acies, nec tam vocis ille quam virtutis concentus videtur. Adfectatur praecipue asperitas soni et fractum murmur, obiectis ad os scutis, quo plenior et gravior vox repercussu intumescat. Ceterum et Ulixen quidam opinantur longo illo et fabuloso errore in hunc Oceanum delatum adisse Germaniae terras, Asciburgiumque, quod in ripa Rheni situm hodieque incolitur, ab illo constitutum nominatumque; aram quin etiam Ulixi consecratam, adiecto Laertae patris nomine, eodem loco olim repertam, monumentaque et tumulos quosdam Graecis litteris inscriptos in confinio Germaniae Raetiaeque adhuc exstare. Quae neque confirmare argumentis neque refellere in animo est: ex ingenio suo quisque demat vel addat fidem (de origine et situ Germanorum 3, 2). A proposito di questo brano Diego Poli ha giustamente osservato che si sta citando «il luogo della prima alfabetizzazione dei Germani, avvenuta per il mezzo ‘di lettere greche’» (Poli 2009:265). I commentatori per lo più non hanno compreso il valore preciso della testimonianza di Tacito. Eduard Norden, nel suo straordinario libro sulle origini germaniche nell’opera tacitiana, ritenne che più che di iscrizioni ‘nordetrusche’ (geograficamente non ben collocate) come pensava il Mommsen, Tacito si stesse riferendo alle iscrizioni in caratteri greci proprie delle popolazioni galliche di cui parlava anche Cesare (de bello Gallico 1, 29 e 6, 14). I commentatori hanno oscillato tra queste due ipotesi. Valmaggi rinviava ai «caratteri etruschi» di cui parlava genericamente Mommsen, e lo stesso faceva il Furneaux («probably the inscriptions were Etruscan; that language being akin to the Raetian and its alphabet from a Greek source»); nulla in Robinson e FehrleHünnerkopf; Schweizer-Sidler si limitavano a presentare sia l’ipotesi gallo-greca sia quella ‘nordetrusca’ senza prendere posizione; Lund rimanda alle iscrizioni greche di cui parlano «einige Antiquare»; Anderson metteva in dubbio tutte le interpretazioni 21 possibili, inclusa quella ‘nordetrusca’ in quanto «such inscriptions have not been found anywhere near the boundary bettween Germany and Raetia» e più o meno della stessa opinione è l’italiano Galli; quanto a Much, nel suo famoso commento alla Germania, propende per l’interpretazione ‘nordetrusca’ pur con seri dubbi sulla collocazione troppo a settentrione di queste epigrafi, escludendo comunque (e correttamente) qualunque possibile allusione all’impiego dell’alfabeto massaliota da parte dei Celti. Non molti progressi nei commentatori moderni: per Risari «potrebbe trattarsi o di scrittura retica o nord-etrusca (derivata da quella greco-calcidese di Cuma) o di iscrizioni celtiche in alfabeto greco»; anche Rives parla di «Gallo-Greek inscriptions»; Lenaz crede, forse, a «iscrizioni sepolcrali etrusche o celtiche in alfabeto greco». Oniga, infine, sembrerebbe preferire l’ipotesi che dietro questa espressione si celassero «le tracce epigrafiche dell’antica civiltà retica». Pare indubitabile che Tacito collochi le tracce dell’espansione dell’alfabeto verso nord al di qua del limes danubiano, più a occidente rispetto a quanto a noi risulta circa l’area di contatto transalpina fra cultura grafica venetica e popolazioni celtiche e germaniche. Ma si tratta di un’interpretazione solo parzialmente corretta. In primo luogo non si può parlare di iscrizioni greche (cioè galliche in grafia massaliota) sensu strictiore: queste testimonianze, infatti, sono documentate nell’area della Narbonense e non al confine germanico lungo il Danubio. In secondo luogo c’è un equivoco ermeneutico sulla dizione stessa di “lettere greche”. Poli ha acutamente osservato che «la menzione delle lettere greche appare essere un topos della interpretazione greco-romana, utilizzato per denominare indistintamente gli alfabeti “delle origini”» (Poli 2009:265). Una ricerca in corso di stampa dedicata alla citazione di testi protolatini presso gli storici romani (di cui ho anticipato i contenuti in due conferenze recenti) dimostra in maniera inoppugnabile che dietro l’espressione generica «Graecae litterae» si celavano per lo più scritture dal ductus arcaico, che sul suolo italico erano superficialmente prossime ai modelli etruschi e, di conseguenza, a quelli greci. Generalmente la direzione di scrittura di queste epigrafi, a quel che è dato capire, era sinistrorsa, un elemento che ne rafforzava la connotazione di estraneità e distanza culturale. In terzo luogo Tacito sembra impiegare la denominazione geografica (non geopolitica, cioè di vera e propria prouincia) di Raetia con un’accezione molto ampia che, evidentemente, inglobava il Noricum, la cui autonomia etnica non era più individuabile ai suoi tempi. Solo così si comprende quanto scrive all’inizio della Germania ossia che «Germania omnis a Gallis Raetisque et Pannoniis, Rheno et Danuvio fluminibus, a Sarmatis Dacisque mutuo metu aut montibus separatur» (de origine et situ Germanorum 1, 1). Pertanto il passo tacitiano combacia perfettamente con l’area di contatto interculturale che abbiamo provato qui a individuare. Le iscrizioni di cui parla (o, meglio, di cui parlava Plinio) sono iscrizioni in caratteri venetici. Se quanto detto è vero, Tacito non fa che confermare puntualmente la ricostruzione dei percorsi che hanno condotto la scrittura venetica ad essere insegnata in luoghi di culto delle Alpi orientali e trasmessa, attraverso gli artigiani del ferro (i primi Runenmeister a noi noti), alle popolazioni germaniche lungo il Reno. La 22 mobilità caratterizza i supporti sui quali vennero apposte le prime iscrizioni runiche, molte delle quali inesorabilmente perdute in quanto su materiali organici deperibili. Di contro all’argomento più frequentemente impiegato dai sostenitori della tesi latina contro la tesi ‘nordetrusca’ ossia la enorme distanza fra la presunta culla delle rune e le prime documentazioni, pertanto, «numerose sono le motivazioni che convincono a non caricare di peso probatorio l’assunto secondo cui ci debba essere prossimità geografica con i luoghi dei ritrovamenti delle prime iscrizioni» (Poli 2009:273). La scrittura runica veniva apposta su oggetti di impiego bellico che fungevano da status symbols delle nuove élite germaniche createsi grazie all’incremento di ricchezza nelle aree di contatto tra Roma e la Germania libera. L’impiego delle rune era funzionale non tanto all’indicazione della proprietà quanto alla valorizzazione degli oggetti destinati o allo scambio prestigioso o all’offerta votiva nelle paludi e nelle stipi scandinave. Tramontate la ‘via commerciale’ e la ‘via militare’ di impronta greco-latina, ecco dunque la ricostruzione – tutta ancora da studiare ed, eventualmente, da consolidare – di una possibile ‘via del ferro’ alle rune di diretta provenienza venetica. 23