casa futura pietra_artisti e opere in mostra

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casa futura pietra_artisti e opere in mostra
BIZHAN BASSIRI
TEHERAN, 1954. Attualmente vive tra Roma e San Casciano dei Bagni, Siena.
Quella di Bassiri è una Gesamtkunstwerk tanto epica quanto utopica, incontro delle due grandi culture orientale e
occidentale. Durante il proprio percorso, iniziato in Italia, Bassiri ha costruito un pensiero generativo all'insegna delle
intuizioni poetiche e delle illuminazioni provenienti dal rapporto riflessivo con la natura e l'arte, da lui definito
“pensiero magmatico”, culminato con la stesura di un “Manifesto del pensiero magmatico” (1984) tuttora in via di
sviluppo (1986-2015). Secondo la sua visione, la creatività è un vulcano inarrestabile e indefinito che, attraverso la
materia, elabora immagini eterne. La forza creativa si individua nell’utilizzo della cartapesta, superfici di alluminio,
ferro o bronzo, elementi lavici ed elaborazioni fotografiche, nell’intento di coniugare il linguaggio artistico con quello
poetico, letterario, teatrale e musicale; un cratere sempre aperto, costituito da scuri rilievi solidificati e da una
superficie liquefatta intrisa di suggestioni, drammi, ricordi, speranze, sogni, frammenti di una pullulante totalità
interiore. La sua produzione si distingue per cicli tematici: Le Evaporazioni, le Erme, gli Specchi solari, i Leggii, le
Meteoriti, le Bestie, i Dadi della sorte, le Serpi.
Giunto a Roma nel ’75, si forma all’Accademia di Belle Arti sotto la guida di Toti Scialoja. Comincia a esporre nel 1981, partecipando
a mostre personali e collettive. Dal 1990 si dedica alla stesura di testi e alla realizzazione dei quadri scenici di numerosi concerti,
realizza interventi permanenti in numerose sedi artistiche (Parco-Museo di scultura all’aperto a Ozieri, Sassari, 1995), università
(Cassino, 1996) e spazi pubblici (Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato, l’Ars Aevi Museum di Sarajevo ed in piazza
Matteotti a San Casciano dei Bagni). Tra le numerose mostre personali si segnalano quelle presso il Centre d’Art Contemporain di
Thiers, il Kunstmuseum di Borholms, il Collegium Artisticum di Sarajevo, Il Centro d’Arte Contemporanea BM di Instanbul. Nel 2015
gli è stata dedicata una grande mostra personale - Motlaq (L'assoluto)- al Museo d'Arte Contemporanea di Tehran in Iran.
BIZHAN BASSIRI
Erma, 2005
Ferro, grafite, lava
180 x 50 x 30 cm
Studio Oredaria, Roma
Bassiri esprime un rapporto dialettico con la forza creativa della natura non appena viene a contatto col Vesuvio nel
1978, osservandone quel punto dove “il profondo e la superficie della terra si toccano, cioè la parte sensibile che è
appunto il cratere, lì dove la ferita è sempre aperta”. È lì che ha sentito la condizione magmatica come fosse il sangue
che circolava nelle vene e il cervello nella sua condizione creativa, “un tempio dove i fantasmi prendono corpo e le
pietre paiono sommi animali”. Sono opere, queste, in cui è chiara la spinta verso la totalità ed esprimono il rapporto
dell’artista con l’amore, la nascita, la morte e il destino, secondo un linguaggio in cui è presente l’incontro tra gli
opposti: il moderno e l’antico, il cosmico e il terreno, la luce e le tenebre.
FILIPPO BERTA
Treviglio/BG, 1977
L’opera di Filippo Berta è da sempre dominata da una dialettica di opposti che si esplica nella ricerca di un confine
identitario. La definizione di se stessi, e del territorio in cui si è immersi, non è mai un gioco pacifico, è piuttosto un
dedalo di strade, piazze e vicoli dell’anima da attraversare, uno stato di tensione e lotta in cui lo scontro con l’altro è
conflitto senza sosta. L’artista analizza queste dicotomie, attraverso il video, le installazioni e le performance collettive
e presenta costantemente un crinale fatto di dualismi, immaginato in scenari desolati e quasi asettici. La distanza,
l’articolarsi delle differenze e i continui passaggi, tra i protagonisti delle sue opere, creano la narrazione discontinua di
un universo nomade. Una sperimentazione concettuale in cui evidenzia un conflitto tra forze opposte, dominate
sempre da un recondito desiderio di sopraffazione e sopravvivenza, come nella sua opera pluripremiata Homo homini
lupus.
Vincitore del Premio Maretti 2014 a La Habana (Cuba), è stato finalista al Talent Prize di Roma. Nel 2008 è tra i vincitori del Premio
Internazionale della Performance alla Galleria Civica di Trento. Ha esposto al Museo MADRE di Napoli, al Jonkopings Lans Museum,
alla Staedtischegalerie di Brema, al State Museum of Contemporary Art di Salonicco, al Museo di Pori, al Vandalorum Museum di
Varnamo, al Victoria Art Center di Bucarest, al Center for Cultural Decontamination, CZKD di Belgrado, al Matadero Centro Creativo
Contemporaneo di Madrid, alla Galleria 400 di Chicago ed al National Brukenthal Museum di Sibiu. Ha inoltre partecipato alle
Biennali di Thessaloniki, di Praga e di Mosca (Young Art). Ha preso parte a residenze presso la Fondazione Ratti di Como,
Fondazione Spinola Banna e al Careof di Milano, ai Festival di Sarajevo, International Konst Film in Svezia, Corpus 3 a Napoli,
Performance Festival di Thessaloniki, Romaeuropa Festival (Digital Life) di Roma, Tulca After the fall di Galway e European
Performance Art Festival di Varsavia.
FILIPPO BERTA
Territori #2, 2015
Performance
Realizzata presso la Valle dei Dinosauri di Altamura/BA
Courtesy by Filippo Berta/Eclettica Cultura dell’Arte/Soprintendenza Archeologia della Puglia
Il video in mostra documenta - mediante riprese aeree effettuate con un drone e riprese di dettaglio dal basso - la
performance collettiva Territori#2, realizzata dall’artista presso Cava Pontrelli, nota come Valle dei Dinosauri ad
Altamura. Alcune persone “in conflitto”, astanti su una distesa ghiaiosa, cercano di tracciare con i piedi il confine di un
proprio luogo entro cui esprimersi. Lo scontro tra individualità crea un territorio comune dato da forme singole
discordanti, ben vsibili dall’alto, riflettendo la difficoltà dell’affermazione del singolo nella complessa rete delle
relazioni sociali. È un dualismo disarmonico in cui le persone comuni sono invitate a ripensare il significato di “confine”
attraverso movimenti corporali istintivi e reiterati, dai cui passi, striscianti sul brecciolino, scaturiscono rumori. La
performance avviene non casualmente nei pressi della cava, in modo tale da racchiudere in un’unica voce tracce dalla
preistoria - le migliaia di orme di dinosauri, risalenti a 80 milioni di anni fa - e presente contemporaneo.
ALVIN CURRAN
Providence/Rhode Island - Stati Uniti, 1938. Vive a Roma.
Musicista e compositore, è uno dei massimi esponenti nel panorama musicale sperimentale: abbattendo stereotipi
linguistici, sconfina in spazi sonori e territori performativi, svolge una ricerca formale atta allo sviluppo sociale, politico
e spirituale; nella sua musica fa spesso uso di elettronica e suoni recuperati dalla realtà. Trasferitosi a Roma nel 1965,
allievo di Elliott Carter, di cui è stato trascrittore musicale, è co-fondatore del collettivo di musicisti radicali e
sperimentali “Musica Elettronica Viva” (1966-1971) e fin d'allora si è relazionato con la ricerca musicale e visiva del
mondo intero, stringendo un intenso rapporto di lavoro e di amicizia con John Cage, di cui oggi è considerato l'erede
principale. Avrà contatti con Franco Evangelisti da cui sarà influenzato, e con Giuseppe Chiari, autore di spericolatezze
sonore dal sapore Neo-Dada e Giacinto Scelsi; frequenterà le domeniche free jazz del Folkstudio di Harold Bradley e gli
spettacoli del Beat '72, rimanendo entusiasta della scena romana. Il rapporto tra Alvin Curran e RAM Radioartemobile
comincia nel 2006 con la committenza per il Sonambiente Festival di Berlino dell'installazione Gardening with John
1.1, che fino ad oggi è stata presentata in dodici spazi pubblici europei, musei, accademie e festival.
Tra le collaborazioni recenti: Gardening with John, con Zerynthia Associazione per l’Arte Contemporanea, installazione del 2006
riproposta in occasione di “Brera in Contemporaneo” presso l’Accademia di Belle Arti di Brera (2015), Passi, installazione audio
visiva in collaborazione con l’artista Alfredo Pirri presso il Museo del Novecento di Firenze (2015), Mev’s glass piano nell’ambito di
Proposte sonore, Festival Internazionale di Arte Sonora di Roma (2015), Beams 2, Tectonics Festival, Reykjavik Opera House,
Reykjavík, (2015), Rooms with attitude, Hochschule für Musik, Berlino (2015), Maritime rites, Monafoma a Hobart, Australia (2015),
Maritime rites, Porto di Palermo, Palermo (2015).
ALVIN CURRAN
Concerto preistorico, 2015
Documentazione da performance realizzata presso il Dolmen La Chianca di Bisceglie
Tech manager Antonio Trimani Studio
Courtesy RAM_radio arte mobile, Roma/Eclettica Cultura dell’Arte/Soprintendenza Archeologia della Puglia
Il Dolmen La Chianca di Bisceglie, che risale all'Età del Bronzo, è il luogo che ha ospitato il Concerto preistorico e
un'installazione sonora site-specific appositamente ideata da Curran in collaborazione con la RAM Radioartemobile.
La costruzione megalitica consiste in una cella sepolcrale quadrangolare coperta da un lastrone di pietra e un corridoio
antistante, il dromos, segnato sul terreno da una teoria di pietre. Per la sua conservazione eccellente, il complesso
preistorico costituisce un unicum nel panorama italiano ed è di grande interesse in quello europeo. Il Concerto
preistorico è stato realizzato con l’intervento esecutivo della Corale “Il Gabbiano”, diretta da Gianluigi Gorgoglione, e
un gruppo di percussionisti dell’Associazione “Il Preludio” guidati da Romolo Anastasia e dal rapper-dj Papaceccio;
l’esecuzione è stata registrata e trasmessa da RAM LIVE, http://live.radioartemobile.it/ insieme ad un vasto materiale
d'archivio, consultabile in podcast, riguardante l'artista. Il concerto con coro e percussioni si colloca nella vasta ricerca
in cui l'autore fin dagli anni ‘70, abbandonando teatri convenzionali, ha coinvolto ampi spazi esterni come laghi, porti,
fiumi e grotte, suoi laboratori naturali. “La mia musica è una cosciente riflessione sul mio rapporto con la storia
musicale umana – che risale – cosi dicono gli esperti – a circa 40.000 anni fa. Perciò quello che appare arcaico,
primitivo e perfino naif nel mio lavoro è nient’altro che un prodotto di questa riflessione... ora che vengo ispirato da
questo sito, dal Dolmen di Bisceglie, non cerco di evocare un passato sonoro inconoscibile, piuttosto cerco di creare un
presente contemporaneo sonoro, vivace e riconoscibile dagli stessi antenati di allora... ” (A.C.)
PIETRO DI TERLIZZI
Bisceglie/BT, 1959. Vive e opera a Bisceglie.
A partire dagli anni settanta, sperimenta diverse tecniche espressive, canalizzando i propri interessi nell’ambito della
contaminazione e del nomadismo linguistico, facendo dialogare tra di loro scultura, ceramica e design. Attualmente
sembra privilegiare un formalismo di stampo classicista, con il recupero di una forma sintetica della figura e degli
oggetti quotidiani che arricchiscono la scena, il tutto proiettato in una dimensione senza tempo; sono composizioni
dove l’attimo appare congelato, disegni e pitture minimali anche ridotte a microcosmo, se su tela, che esaltano lirismo
e intimismo; situazioni raccontate dalla semplificazione del segno, da una stesura piatta del colore, preferibilmente
solare e meridiano; tracciate su carta da spolvero, se in grandi dimensioni, sono caratterizzate da una figurativismo
statico e privato dell’espressione dei volti – memore di rimembranze prerinascimentali - in una tensione mirante a
modulare un equilibrio tra ricerca e tradizione.
È stato assistente di Alighiero Boetti nel 1981 e ha ricoperto diversi ruoli in ambito accademico. Intraprende un’intensa attività
espositiva, supportata dal consenso d’importanti critici d’arte, quali Crispolti, D’Avossa, Bignardi, Bonito Oliva, Cortenova,
partecipando a importanti rassegne di arte contemporanea nazionali (testimonianze del suo lavoro si trovano nell’esposizione al
“Targetti Art Light collection”) e internazionali (le mostre personali a Francoforte e a NewYork, in “Prototypezero”). Nel 2011 è
invitato dal curatore Vittorio Sgarbi alla selezione pugliese nel Padiglione Italia della 54° Biennale d’Arte di Venezia. A seguito della
nomina a professore ordinario, ha presato servizio - prima di essere nominato alla cattedra di Anatomia a Foggia - nelle Accademie
di Frosinone, Bologna, Roma, Milano. Attualmente ricopre l’incarico di Dirigente settore AFAM-Miur, come Direttore Didattico
presso l’Accademia di Belle Arti di Foggia.
PIETRO DI TERLIZZI
Moscacieca, 2016
Graffito in terra rossa e allumina su multistrato di pioppo
Dimensioni ambientali (2 pannelli di 500x200 cm circa)
Courtesy Piero di Terlizzi
Opera site specific - nata per colocarsi sulle pareti frontali delle due salette, gemelle e contigue, le “alcove” di Palazzo
Tupputi - riassume sinteticamente linguaggio, concetti e ricerca attuale di Di Terlizzi. Nasce quasi come una antica
sinopia dai rimandi pompeiani, per la stesura realizzata con scarni segni a terra rossa e allumina e una texture tonale e
grafica che rimanda alla cifra stiistica dell’autore. Il tema dell’abitare e della convivenza è espresso in modo insieme
inquietante e giocoso, mediante il vedo e non vedo del “gigante” disteso, crocifisso e occultato da una casa disegnata
come nell’immaginario naif; al maschio, di dimensioni sovrumane, fa da controcanto la discreta figura di donna seduta
sul tetto, in posizione fetale, in atteggiamento di riposo riflessivo. Un ribaltamento di ruoli, dove sulla forza di una
mascolinità impersonale, prende il sopravvento l'autorevolezza del pensiero femminile, che rende vincente il
cosidetto sesso debole.
JIMMIE DURHAM
Arkansas - USA, 1940. Vive e lavora a Berlino.
Scultore, poeta, scrittore, per le tematiche affrontate è considerato uno dei maggiori esponenti di un’arte vicina
all’antropologia, in quanto interessato alle questioni legate al post-colonialismo (è stato dal 1973 al 1980 attivista
politico dell’American Indian Movement, direttore dell’International Indian Treaty Council e rappresentante alle
Nazioni Unite). La riflessione, prodotta nei suoi oltre quarant’anni di lavoro, ha attraversato la cultura occidentale in
ogni direzione, a partire dal teatro e dalla performance negli anni ‘60 e ‘70, quando l’esperienza artistica iniziava ad
aprirsi al dibattito sociale e politico a favore dei diritti civili. Dagli anni ‘80 la sua produzione si articola anche in
sculture, assemblages ed installazioni, spesso realizzate con materiali di recupero, filtrando lo sguardo sulla società
contemporanea attraverso la sua cultura personale. Dal 1994, anno in cui si è stabilito in Europa, il suo lavoro si è
concentrato sulle relazioni tra architettura, monumentalità e narrative nazionali.
Jimmie Durham ha partecipato alle maggiori rassegne internazionali, tra cui Documenta IX, Kassel e le Biennali Sidney, Gwangju, di
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Taipei, Taiwan, di Sydney,del Whitney Museum, di San Paulo e di Venezia fin dal 1999 (le 55 , 51 , 50 , 49 e 48 ). È autore di
numerosi saggi - di cui Kala Press ha pubblicato un’importante antologia nel 1993, A Certain Lack of Coherence - di pubblicazioni di
anti-architettura e di scritti polemici, come The American West, un attacco alla mitologia di “cowboy e indiani”, pubblicato per
l’omonima mostra alla Compton Verney (UK) del 2005. Tra le panoramiche significative della sua produzione, Jimmie Durham,
pubblicata da Phaidon nel 1995 e, in occasione della retrospettiva al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, Pierres rejetées,
catalogo del 2009 delle opere realizzate in Europa.
JIMMIE DURHAM
Stoning the Refrigerator, 1996
Video, 3’23’’
Courtesy Maria Teresa Alves/Jimmie Durham Production.
Nell’opera, Jimmie Durham colpisce un frigorifero con delle pietre, fino a distruggerlo, rendendolo inutilizzabile. Il
frigorifero – oggetto considerato di scarso valore estetico ma elemento di uso quotidiano nella società del benessere –
osteggia l’azione dell’artista e si impone con la sua materia non semplicemente corruttibile: agli occhi dell’artista esso
assurge a simbolo del consumismo che imperversa nel mondo contemporaneo e che sembra sempre più difficile da
offendere, sradicare ed eliminare. Spesso l’artista nei suoi lavori sottopone l’oggetto ad un’azione distruttiva: se in
questo caso, dopo una settimana, il frigorifero bersagliato risulta completamente compromesso, in un’altra nota
opera incombe su un’Ape un enorme masso e la piccola vettura motorizzata cede lentamente sino ad appiattirsi al
suolo, inservibile, resa inadatta alla sua normale funzione.
TONY FIORENTINO
Barletta, 1987. Vive e lavora a Milano.
È stato definito “artista alchimista” per la sua volontà di attivare un processo creativo attraverso la modificazione di
diversi materiali (acetato, piombo, zinco…) sottoposti ad una continua evoluzione strutturale. Installazioni di candele
votive così come creazioni di habitat chimici, costruiti ad hoc e immersi in acqua distillata, costituiscono lo sguardo
ambiguo e surreale di un artista che ha raccolto diverse suggestioni in Italia e all’estero. Quelli di Fiorentino sono
complessi meccanismi che inducono a scrutare i suoi orizzonti materici in modo capillare: vegetazioni in teche
ricoperte di acqua distillata, architetture in divenire e resti di oggetti di cui sfugge la vera essenza, perché molteplice
essa può rivelarsi. Sono ramificazioni e visioni “liquide” della contemporaneità, come reperti da consegnare a futura
memoria.
Trasferitosi dalla Puglia a Carrara, dove ha frequentato l’Accademia ed è stato assistente di Fabio Cavallucci alla locale Biennale di
scultura nel 2010, da subito esterna la voglia di fondare uno spazio autogestito nel quale sperimentare nuove opportunità. In
residenza ad Atene, grazie ad una borsa di studio per frequentare l’Anotati Skoli Kalon Tecknon, quindi in Olanda con Giorgio
Andreotta Calò alla Rijksakademie, nel 2012 si trasferisce a Londra per un workshop alla Tate; attualmente vive a Milano per
dedicarsi a un lavoro d’introspezione e ricerca. È vincitore del Talent Prize 2015.
TONY FIORENTINO
Dominium Melancholiae
Sculture polimateriche
3 box in vetro (160 X 55 X 55 cm per 300 kg ognuno)
Courtesy by Tony Fiorentino/Galleria Doppelgaenger, Bari
Fiorentino è partito da un’analisi dell’opera “Melacholia I”, realizzata da Albrecht Dürer nel 1514, in cui ha intravisto,
nella veduta marina con piccole navi, la laguna di Venezia. La sua riflessione è stata che “Saturno, e più
particolarmente ogni cometa a lui legata, era considerato responsabile delle inondazioni e delle alte maree. Si può
affermare con sicurezza che ogni cometa che figura in una rappresentazione della Melanconia deve essere una di
queste comete saturnine, di cui è detto espressamente che minacciano il mondo con il Dominium melancholiae. Perfino
in testi cuneiformi babilonesi era stato considerato un fatto certo che una cometa con la testa rivolta verso la terra
preannunziasse alta marea ed era il melanconico, in particolare, che sapeva prevedere simili catastrofi (dal libro
Saturno e la malinconia di Panofsky).” L’opera, pertanto, è costituita da teche in vetro nelle quali è realizzato una sorta
di albero di Saturno, una “vegetazione chimica” che si sviluppa mediante l’immersione di un materiale come lo zinco
in una soluzione chimica di acqua distillata e acetato di piombo: ne nascono delle foglioline di piombo che lo rivestono
completamente e creano nuove forme imprevedibili che originano un blocco scultoreo, amorfo, di colore grigio scuro.
Una scultura “mutante” e una materia che, apparentemente inerte, diviene invece allusiva della volubilità dell’umore:
l’umore malinconico, in particolare, in quanto la parola "umore" è traducibile in greco con il termine“ygrós”, ovvero
liquido.
UGO LA PIETRA
Bussi sul Tirino/Pe, 1938. Vive e lavora a Milano.
Noto come grande sperimentatore, Ugo La Pietra, è artista, designer, architetto e ricercatore nella grande area dei
sistemi di comunicazione”, è attivo fin dagli anni Cinquanta, attraversando diverse correnti, senza poter essere
circoscritto in nessuna di esse: ha operato dentro e fuori le discipline dichiarandosi sempre "ricercatore nelle arti
visive", artista anomalo e scomodo e quindi difficilmente classificabile. Influenzato dal jazz, dall’arte brutalista e da
quella informale, si è rivolto sempre verso la definizione del rapporto tra uomo e ambiente, discostandosi da una mera
rappresentazione stereotipata connessa al sistema dell’arte. Il disegno, la fotografia, ma anche gli “extra media”
(performance, interventi, urbani, films, video) sono stati gli strumenti privilegiati per sviluppare un processo volto al
recupero della memoria, della territorialità, dei valori legati alla nostra identità, ridefinendo ogni volta il tradizionale
rapporto "opera-spettatore", realizzando strumenti di conoscenza (modelli di comprensione). Con le sue ricerche dal
1960 ha attraversato diverse correnti: artistiche ("arte segnica", "arte concettuale", "arte ambientale", "arte nel
sociale", "narrative art", "cinema d'artista", "nuova scrittura", "extra media", "neo-eclettismo", architettura e design
radicale). Ha comunicato e divulgato il suo pensiero e le sue esperienze attraverso un'intensa attività didattica ed
editoriale. Si è fatto promotore di gruppi di ricerca (Gruppo del Cenobio, Gruppo La Lepre Lunare, Gruppo Design
Radicale, Global Tools, Cooperativa Maroncelli, Fabbrica di Comunicazione, Libero Laboratorio) e di attività espositive
coinvolgendo un grandissimo numero di operatori (artisti, architetti,derigners).
Riassumere l’attività di Ugo La Pietra, in Italia è all’estero, è impresa immane: a cominciare da quella intensa didattica come
professore presso diverse Università e Accademie; dal 1973 ha diretto numerosi film; ha realizzato più di 900 mostre personali e
collettive partecipando alla Biennale di Venezia nel 1970, 1978, 1980, alla Triennale di Milano nel 1968, 1972, 1979-80-81, 1993,
1996, 2007. 2015; ha esposto inoltre al Museum of Modern Art di New York, al Centro Pompidou di Parigi, al Museum of
Contemporary Craft di New York, alla Galleria Palazzo Galvani di Bologna, alla Neue Galerie di Graz, a Palazzo dei Diamanti di
Ferrara, alla Fortezza da Basso a Firenze, alla Fondazione Ragghianti di Lucca, al Museé Departemental di Gap, al Museum Für
Angewandre Kunst Colonia, al Museo Nordio Linz, al Museo della Permanente di Milano, al Royal College of Art di Londra, alla
Biennale di Chateauroux, alla Biennale di Albisola, alla mostra “Masterpieces” - Palazzo Bricherasio, Torino , allo Spazio Oberdan
(Cineteca Italiana), al Museo di Villa Croce a Genova, alla Fondazione Orestiadi di Gibellina, alla Fondazione Mudima di Milano, al
FRAC Centre di Orléans, al MIC di Faenza. È stato costituito l'Archivio Ugo La Pietra che raccoglie le opere e i documenti del Maestro
organizzati nelle discipline: Arte, Architettura, Design, Arti Applicate, Musica, Didattica, Editoria. L'Archivio è aperto alle richieste di
studiosi, critici e ricercatori per consultazione e prestito delle opere. L'Archivio si rivolge inoltre a coloro che possiedono un'opera di
Ugo La Pietra e vogliono autenticarla e inserirla nell'Archivio ufficiale.
UGO LA PIETRA
La riappropriazione della città, 1977 - Ed. Centre Georges Pompidou
film 16 mm, b/n e colore, sonoro, 29’41’’, 4:3
Courtesy by Ugo La Pietra e Archivio Fondazione Cineteca Italiana.
Il film conduce lo spettatore alla riappropriazione dello spazio urbano attraverso un percorso mentale. Dall’analisi
delle scarse possibilità di intervento fisico (periferie urbane, orti spontanei, itinerari alternativi) attraverso la
decodificazione dei “luoghi deputati” (scoperta dei propri monumenti) si arriva alla lettura del “proprio spazio urbano”
(esercizio delle cinque mappe della città di Milano). Come afferma Paolo Meneghetti «…il cittadino Ugo La Pietra
rifiuta di adeguarsi alla logica del potere. Per vivere, e non sopravvivere, “basta” liberare l’istinto che è represso in tutti
e opporre ai codici imposti da fuori un modello mentale interno, capace di coordinare armonicamente tutti gli aspetti
dell’esperienza e dell’esistenza. Ecco allora che il cinema, e gli strumenti che il cinema offre, diventano un mezzo
indispensabile per analizzare e decodificare l’ambiente, registrare le tracce di un’attività creativa originale, smontare e
rimontare i topoi dell’architettura urbana, realizzare indicazioni di comportamento capaci di dar vita alla “propria”
città. A questo punto, però, il far cinema di Ugo La Pietra non è più solo opera d’arte su pellicola: le sue condizioni
strutturali, il rapporto in cui si mette col pubblico, la committenza, fanno de “La riappropriazione della città” non più
del cinema d’artista, ma cinema tout court (forse con la possibile aggiunta dell’aggettivo militante)…”
VITO MAIULLARI
Altamura/BA, 1961. Vive ad Altamura.
Legato alla pietra quale supporto privilegiato per avviare un approccio sinestesico alla materia, segue una ricerca
artistica sperimentale, accompagnata da un profonda conoscenza dell’antropologia e della natura. Ispirato a un
universo bucolico e ricco di memoria, Maiullari guarda al territorio in modo visionario e insolito, rappresentato in
opere costituite da pietre scalfite, spesso accostate a materiali recenti; un processo maieutico che rende la pietra
testimone di storia, raccontata anche attraverso i suoni e rumori della natura. Le tracce ambientali orientano la
creazione d’installazioni che vanno vissute, ascoltate e abitate e che sono generatrici di “poesia sonora”
Parallelamente, denuncia anche un problema sociale: l’incuria per il patrimonio paesaggistico, attuato nel tempo con
stravolgimenti geologici quali la frantumazione della pietra calcarea e l’abbandono di rocce divelte, che Maiullari
descrive con un processo mutisensoriale sempre in evoluzione. La sua ricerca, incentrata sulla versatilità d’utilizzo dei
materiali lapidei o d’altra natura, avviene anche in collaborazione con architetti e designer (la “Pecora-divano” esposta
al Museo della Triennale di Milano nel 2009, fusione impossibile tra mondo arcaico e tecnologico post-industriale) ed
è indirizzata allo studio, alla tutela e alla conservazione del territorio dell’Alta Murgia.
Docente di Scultura presso l’Accademia di BB AA di Bari, con la tesi sperimentale “La pietra dall’estrazione all’utilizzo”, dal 1980
partecipa a manifestazioni multimediali, restauri, originali progetti educativi e formativi e realizza imponenti opere pubbliche.
Nell’attività trasversale di Maiullari è eloquente il progetto esposto nel 1996 all’Expo Levante a Bari “Io amo la Murgia” o le
partecipazioni al “Festival della Terra delle Gravine”. È socio attivo del Centro Altamurano Ricerche Speleologiche e divulgatore
televisivo.Nel 2014, al MART di Rovereto ha partecipato al Festival interdisciplinare, di ispirazione ambientalista, “A seminar la
buona pianta”. La GAMEC di Bergamo, sotto la cura di Giacinto Di Pietrantonio, ha ospitato un suo iimportante interervento a
margine della grande retrospettiva su Malevich.
VITO MAIULLARI
Risonanze, 2015
Video da performance realizzata nella Cava Pontrelli - Valle dei Dinosauri ad Altamura/BA
Performance in cava: Vito Maiullari feat Luigi Morleo
Ambiente sonoro in mostra a cura di Carlo Mascolo
Riprese a cura di Salvatore Dimastromatteo
Courtesy by Vito Maiullari /Eclettica Cultura dell’Arte/Soprintendenza Archeologia della Puglia
L’immagine di una materia che ha sedimentato i suoni del tempo, liberati da un processo di disvelamento operato
dall’artista, prende forma attraverso un intervento molteplice, costituito da un’architettura sonora in cui, durante la
performance pubblica, le pietre sono state fatte risuonare grazie all’azione fisica del percussionista Luigi Morleo
insieme all’artista, nella cava dei Dinosauri di Altamura. Per forma e concezione, è un’opera che sintetizza passato e
presente istituendo un nesso inscindibile con il contesto ambientale dell’entroterra murgiano cui egli appartiene.
Adoperando materiali di risulta, come vecchie assi lignee di pedane da trasporto, Maiullari ha realizzato una sorta di
nicchia portatile, in cui colloca in sospensione pietre disancorate dalla gravità della terra, grazie all’uso di canne
leggere e flessibili in grado di sopportare peso e oscillazione della materia. È una sorta di sacro recinto, dove ogni
gesto rivela l’eco di un ambiente rupestre che si deposita in un registro digitale restituendo l’ancestrale partitura di
una perduta memoria. Al centro, natura, essenza, storia, cultura materiale, mezzo espressivo da fondere in infinite
nuove forme, ma anche elemento da valorizzare, sollecitando l’attenzione per patrimonio ambientale, spesso
violentato nel tempo con stravolgimenti geologici. Così, un lungo blocco di marmo scavato può divenire la cassa di
risonanza di un passato, di un luogo, di un’identità collettiva.
KEI NAKAMURA
Takorozowa/Giappone, 1976. Risiede in Giappone.
Kei Nakamura sintetizza nella pietra la sua riflessione sulla materia, intesa come declinazione minimale di forme e
linee. La loro eleganza grafica diffonde una riflessione sullo spazio, luogo fisico e psichico ricercato dall’uomo sin dalle
origini. La materia, plasmata, modellata, scolpita, scomposta e riassemblata, è epifania di un processo di ricerca legato
alla terra come luogo ancestrale, iniziatore di un viaggio evolutivo, in cui lo spettatore è catturato da una poetica di
elementi essenziali immersi in un catartico silenzio. Il vertice armonico è nel connubio tra passato e presente,
attraverso la simbiosi di natura e design immersa in un tempo rarefatto. Kei Nakamura trasmette il suo messaggio
attraverso un linguaggio essenziale, in cui sono presenti solo elementi primari, riconducibili alla sua idea; forme
eleganti e sobrie, una nitidezza concettuale impressa su una superficie scabra.
Dopo aver frequentato il corso di progettazione e design presso l’Istituto Superiore d’Arte per la porcellana e la
ceramica Arita Yogyo in Giappone e il Diploma di specializzazione nel 1997 si trasferisce in Italia per un’esperienza nel
campo di sculture in pietra e frequenta il Corso di tecnica della pietra a Serre di Rapolano, il paese nella provincia di
Siena dove si trovano le cave di travertino. Nel 1999 si trasferisce a Carrara dove consegue il Diploma di scultura
all’Accademia di Belle Arti. Ha partecipato a mostre in Italia e all'estero, ottenendo vari riconoscimenti e premi
internazionali.
KEI NAKAMURA E TOMMASO MARTIMUCCI
• Il centro storico di Altamura, la sua Compattezza
• La morfologia del sottosuolo, I banchi di Roccia
• Le pavimentazioni dei centri storici, Le Chianche
• Il Trullo F, la sua forma
• Il Trullo A, la sua aggregazione
Courtesy by Kei Nakamura e Tommaso Martimucci
Lo scultore Kei Nakamura ha analizzato le caratteristiche di un’antica cittadina pugliese come Altamura, la
stratificazione del sottosuolo murgiano, le tipiche pavimentazioni in pietra dei centri storici pugliesi, la struttura
morfologica e la tecnica costruttiva di una costruzione abitativa tipica pugliese, come il trullo e ha, quindi, realizzato le
sculture esposte, in dialogo con l’interpretazione architettonica dell’architetto Tommaso Martimucci ideatore di
questi aspetti di ricerca tra urbanistica, architettura e arti visive, anticipando quel percorso di Casa Futura Pietra che
proseguirà in una seconda edizione, nei prossimi mesi, continuando a interpretare in chiave scultorea e architettonica
altre caratteristiche tipiche del territorio pugliese e non solo.
JORGE PERIS
Alzira/Valencia, 1969. Vive e lavora a El Palmar/Valencia.
Nel suo lavoro, spesso attraverso grandi installazioni site-specific, sfida la sensibilità dello spettatore attraverso una
profonda modifica della convenzionalità fisica dello spazio. Combinando diversi linguaggi, tende ad amplificare la
sensibilità dello spettatore, mettendolo nella condizione di ripensare il proprio stesso ruolo all’interno dello spazio
espositivo. Nel quadro di un sistema “privato” di ricostruzione della natura, Peris accosta pietre, scorie, ruderi di
strutture architettoniche antiche e moderne, cercando e ristabilendo pesi ed equilibri, nella costruzione poetica dei
suoi Dolmen, la cui leggerezza compensa la gravità dei materiali di origine. E ciò che la natura restituisce all’artista
viene sviscerato, fuso in simbiosi e infine trasformato in oggetti dalla valenza magica, in un indefinito territorio tra
un’inclinazione ludica e una suggestione incantata. Il sale è uno degli elementi centrali di molte installazioni, a
testimoniare, nella sua natura precaria, l’equilibrio sottile tra forma e informe, tra geometria pura e caos. In una sorta
di sistema cronologico espanso, risultato di una cronologia che si ferma e riparte, Peris traduce e immagina le
traiettorie individuali di oggetti, dal loro riaffiorare da uno stato di sommersione e abbandono, al loro riapparire in
una dimensione nuova, artistica. L’artista controlla questo svolgimento, ne è arbitro, complice e spettatore, lasciando
che il tempo e la materia agiscano, si sedimentino su queste forme. Un processo che, paradossalmente, sembra non
comprendere la morte, pure presente e suggerita in quasi tutte le opere esposte: nella mostra, si assiste piuttosto
all’esaltazione di un ciclo vitale infinito, la descrizione di un passaggio di stato, il divenire di una nuova forma,
incarnazione allo stesso tempo di tutte le precedenti.
Tra le mostre recenti ricordiamo le personali Tamaris, Musée du château des ducs de Wurtemberg, Montbeliard nel 2012, a cura di
Aurelie Voltz, e Tamaris tenuta al Castello di Montbéliard; Aladas Almas, La Conservera Centro de Arte Contemporanea, Ceutí,
Murcia nel 2011; Micro, Aureo, Adela, MACRO, Roma nel 2010, a cura di Francesco Stocchi. Peris ha inoltre esposto al CA2M,
Madrid (2011); Fondazione Giuliani per l’Arte Contemporanea, Rome (2010); Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino (2008)
e al MARCO, Museo de Arte Contemporanea de Vigo, Spagna (2007)e Micro, Aureo, Adela del 2010 al MACRO di Roma.
JORGE PERIS
DOLMEN Sinfonia nr.7. Allegretto, 2015
Materiale lapideo
Courtesy Jeorge Peris /Magazzino Arte Moderna, Roma
Dolmen, Sinfonia nr.7, è un progetto che raccoglie il lavoro sviluppato dall’artista spagnolo negli ultimi quattro anni ed
esposto, per la prima volta nella sua complessità, negli spazi di Magazzino a Roma. L’isola di El Palmar, nel Parco
Naturale de la Albufera nei pressi di Valencia, è un luogo antico, legato a tradizioni millenarie, la cui vita è scandita dal
rapporto costante con l’acqua del mare che ne lambisce i bordi. Jorge Peris ha stabilito qui il suo studio, scandendo il
suo lavoro al ritmo e all’essenza del paesaggio, in un linguaggio delineato dalla sedimentazione, dalla stratificazione, e
dall’azione del tempo. Un Teatro della Natura, esteso e articolato, in cui Peris recupera i residui più diversi,
incanalandoli nell’alveo dello studio, luogo esclusivo in cui si materializzano oggetti e creature, sottratti alla loro
transitoria sospensione. "Trovo tutti i materiali sparsi intorno all’isola del Palmar, una selezione severa, un serpente
morto mi fa un occhiolino, un pezzo di rudere del Settecento mi rivela una immagine che concludo due anni dopo. Il
rudere aspetta, prima o poi viene in studio." L’opera in mostra è stata composta in loco dall’artista rimeditando il
concetto e l’assemblamento degli elementi seoondo una nuova suggestione, attraverso procedimentti chimici e fisici.
IRENE PETRAFESA
Bari, 1952. Vive e lavora ad Andria.
La sua passione artistica, intensificata a partire dal 2000, trae linfa dalla terra, dall’acqua, dal “graffio” degli elementi
naturali che svelano l’indefinitezza dei paesaggi dell’anima. Una pittura – colori a olio e tecnica mista, dai pigmenti
naturali - costruita su due livelli: l'emozione e il contingente. Dal costante timbro monotonale – bruni, grigi, registro
caldo dell'ambra e degli aranciati - l'opera è sintesi dell'evocazione d’immagini sedimentate nella memoria, ridotte a
tracce essenziali dal grafismo violento e rapido, impresse nella pittura sfaldata che pare declinare verso un codice
astratto, un impasto che diventa rarefatto e luminescente lì dove a emergere sono sagome ridotte a ombre e lo strato
gessoso cede il passo alla liquidità. Ricordano muri scalcinati, i fondi, sui quali con forza animistica è costruita la
struttura dell'opera: infinite linee di fuga parlano di paesaggi urbani visti dal basso o secondo una prospettiva
panoramica e piatta, memoriale più che concreta; quasi volontà di farsi narratrice della dimensione più oscura della
vita, in cui, le campiture piatte e i tocchi reiterati del pennello inquadrano un limbo di ombre passeggere, testimoni di
una memoria frammentata dall’aridità di valori contemporanei.
Attiva dal 2000, ha preso parte a numerose rassegne nazionali e internazionali presso gallerie d'arte e istituzioni pubbliche,
dapprima a Venezia, quindi a Roma (Palazzo delle Esposizioni, Palazzo Barberini), Brescia, Ferrara (Castello Estense), Atene, e
naturalmente in Puglia, dove è stata seguita dalla Galleria Spazio Sei di Monopoli che le ha dedicato anche una importante
personale nel 2013, Ànemos, spazio e tempo di un respiro, a cura di Mina Tarantini. Tra le altre personali, Tangenze Emozionali a
cura di Giusy Caroppo nel 2007, a Ferrara nel 2008 nell’ambito del Festival Città territorio, Nessuna Direzione presso 6°Senso Art
Gallery a Roma nel 2011 poi presentata al Palazzo Palmieri di Trani nel 2012, e l’importante antologica Tra terra e mare. Opere dal
2001-2014, a cura di Claudio Strinati e Nicolina Bianchi presso il Complesso del Vittoriano (Roma, 2014). Tra i premi: Primo premio
nella Rassegna Puri e semplici riflessi di Puglia (Bari, 2000), Premio Arte Mondadori a Milano, Premio Artista Europeo nell'ambito
della New Art Summer (Helsinki, 2003), Premio Segni d’arte al Centro Culturale dell'Ambasciata Egiziana a Roma (2008).
IRENE PETRAFESA
Bauxite/Cava dei Dinosauri/Asfalto, 2015
Tecnica mista: ossidi, pastelli e olio su tela
180x180 cm; spessore 3,5 cm
Courtesy by Irene Petrafesa
Ispirate ai toni e alle atmosfere cromatiche proprie del territorio pugliese, attingendo tuttavia alla memoria, le opere
multimix, bidimensionali e tendenzialmente monocrome, offrono concettualmente e “mimeticamente” una diretta
corrispondenza con i tre temi su cui è costruito il progetto Casa Futura Pietra, senza tuttavia risultare didascaliche,
attraverso la forza evocativa del colore e delle texture: bauxite, il colore della roccia sedimentaria che costituisce la
principale fonte per la produzione dell'alluminio e del ferro, una stesura dalla quale emergono come fantasmi delle
macchie allusive alle impronete della cava pontrelli ad Altamura, e un’opera sintetica in cui l’allusione al conglomerato
denominato asfalto, la struttura a fasce, il graffito impresso con un pastello dal colore fluo, narra la capacità di
Petrafesa di ascriversi a una generazione di “pittori” fieri della capacità evocativa di un medium antico quando
abbinato alla contemporaneità dell’informale, così legata all’interpretazione emozionale e cangiante del momento.
SERGIO RACANATI
Bisceglie/BT, 1982. Vive e lavora tra Milano e Miami.
Si distingue per la sua capacità di costruire relazioni tra arte, pratiche dell'attivismo politico antagonista, contesti
sociali e territoriali, attraverso un approccio performativo, installativo, partecipativo e relazionale. Con la sua ricerca,
mira a creare da una parte “strutture di supporto” per la coesione sociale e dall'altra immaginari poetico-sovversivi
che alimentano il "conflitto sociale”. Privilegia come medium l’immateriale, al fine di produrre opere d’arte dalla
natura provvisoria, che mettono in discussione il tradizionale contesto museale, sia dal punto di vista strutturale che
organizzativo. Centro del suo lavoro è la storia sociale dell’uomo, in relazione al paesaggio urbano, civile, politico e
architettonico, storia della quale analizza elementi collaterali e dimenticati, indagando le forme di conformismo e
integrazione; l'intento della sua pratica artistica è innescare processi di partecipazione attiva, al fine di poter realizzare
un'opera-azione corale che abbia ripercussioni sulla comunità locale.
Nel 2004 si forma a Milano presso l'Istituto Europeo di Design. Nel 2013 è invitato dal curatore Marcus Owens in Residenza Artistica
presso la Harvard Univercity di Boston, cui fa seguito la mostra Naturalism nel Museo di Storia e Scienze Naturali di Harvard; è
impegnato in Imagining new Eurasia Project a cura di Jihoi Lee presso Asia Culture Centre, Space 3. Tra le ultime residenze: nel
2014, la residenza “Mari tra le Mura” a cura del Museo d’Arte Contemporanea Pino Pascali, a Polignano dove ha realizzato il
progetto 0XX. Nel 2012 è stato in residenza al "Performance Space" di Londra e allo Z33 di Hasselt in Belgio. Nel 2011 alla MASTER
CLASS DEFAULT, curata da Ramdom, a Lecce dove tra i visiting curator vi era Alfredo Cramerotti, Andrea Lissoni, Lewis Biggs, Julia
Draganovic. Tra i premi: CENTRO-PERIFERIA (2014) a cura di Fedeculture; nel 2013 MOVIN'UP premio conferito dal MIBACT,
Direzione Generale delle arti e del paesaggio, dei beni architettoni e dello spettacolo dal vivo, e dal GAI; per la sezione
perforamance art nella YORK BIENNALE; Zona Franca Creativity a cura di Eclettica. Tra le recenti personali: 2014 "Between Memory
and History in Realms of Memory" curata da Charo Oquet presso Edge Zones Foundation a Miami Beach; I RAGAZZI FORMIDABILI a
cura di Pietro Gaglianò, presso la project room "Santa Reparata" a Firenze nel 2012; 2011 Resilient, operazione relazionale con il
Collettivo Le Macerie Baracche Ribelli. Tra le recenti collettive: 2013 "Off site / Not in place" curata da Cecilia Guida al MAC Museo d'Arte Contemporanea di Lissone. Miami Performance International Festival curato da Charo Oquet, Eliu Almonte e Pancho
Lopez presso Edge Zones Foundation a Miami. ERRORS ALLOWEN_MEDITERRANEA16, Niennale giovani artisti del Mediterraneo a
cura di C.Bank, A.Castiglioni, N.Laggoune, D.Leccas, S.Veze / L.Associations, M.Trulli and C.Zecchi. 2012 All the Knives - Any printed
story on request curata da Abake (collettivo curatoriale) presso lo Z33, Centro per l’Arte Contemporanea e Museo, Hassel (Belgio);
2012. Biennale di Berlino 7 all'interno del programma "Pre-Occupied". Attualmente lavora a un progetto nell'ambito del Maverick
Campus, la piattaforma dedicata alle pratiche che collegano l'arte all’intervento sociale, promossa dalla Fondazione SoutHeritage
per l'arte contemporanea di Matera
SERGIO RACANATI
[VLEN], 2015
Contex specific: installazione site specific, dimensioni variabili
mix media, film a colori durata 130', audio vidoe performance 37'
Courtesy by Sergio Racanati/Eclettica_Cultura dell’Arte /credits foto Marco Rick Albanese
La performance – diretta ed interpretata da Sergio Racanati insieme a Roberto Corradino, Teresa Vallarella e Adelaide
Di Bitonto – afferisce al passato adolescenziale dell’artista, alla condizione di un presente “esploso” – in cui sembrano
svaniti i riferimenti tradizionali – e ad un futuro “lontano” che vedrà, tuttavia, una sorte comune per l’intera
collettività, dal collasso totale sino alla nascita di una nuova esistenza. Ne deriva un film in cui performance, suono e
documentazione del paesaggio urbano non perdono le loro specificità linguistiche e il territorio biografico dell’autore
diventa la matrice narrante di tutta l’opera/azione, che abbraccia il sentire collettivo. Mirante a quella che chiama
“introspezione del territorio”, Racanati arriva a sondare sia l’ambiente naturale che l’ambiente antropizzato, per
giungere ad una sorta di “archeologia del presente”, mediante la rivitalizzazione di materiali, paesaggi e oggetti di
scarto ormai abbandonati, accumulati, persi, inutilizzati che, parallelamente alla performance e al film, costituiscono
l’installazione site specific: così l’artista riflette sul fenomeno multiplo di (ri)costruzione e (ri)significazione dello spazio
sociale condiviso e dello spazio intorno alla città di Bisceglie, guardando ai luoghi “costruiti” dall’incontro e
dall’interazione umana. Così [VLEN] tenta di “ricostruire” un possibile modello di fruizione del patrimonio dell’identità
comune del cittadino contemporaneo.
VEDOVAMAZZEI
Simeone Crispino (Napoli, 1962) e Stella Scala (Napoli, 1964). Vivono e lavorano a Milano.
Vedovamazzei è una terza identità creata nel 1991 dagli artisti campani Scala e Crispino, traendo spunto da una targa
trovata a Napoli. Autodefinitisi “operai dell’arte”, utilizzano una vasta gamma di supporti: scultura, pittura, acquerelli,
installazione, fotografia; manipolano i vegetali e intervengono sugli elementi naturali, spesso con la consulenza di
scienziati. Le loro opere, assolutamente eterogenee, attivano un corto circuito sul quotidiano che definisce una nuova
poetica di confuse identità e certezze. Spesso lo spettatore è di fronte alla natura ambigua delle cose che si dipana in
un limbo di giochi e sberleffi e sradica i limiti di una visione convenzionale. Il complesso impianto visivo legato alla
meraviglia, all’apparente impossibilità del comprendere un segno visivo in modo preciso, è affrontato con una
leggerezza impercettibile, spiazzando lo spettatore di fronte ad oggetti e segni di natura ambigua. In quest’ottica e in
questa modalità, prendono vita oggetti e immagini impossibili.
Dopo la mostra d’esordio presso l’Istituto Grenoble di Napoli (1991), il duo ha esposto in collettive e personali sia in Italia che
all’estero, tra cui le personali al Dublin Contemporary nel 2011, alla galleria Le Temple di Parigi, al Magazzino d’Arte Moderna di
Roma nel 2010, e prima ancora al Public Art Projects Art 38 Basel, al MADRE di Napoli alla Percymiller Gallery di Londra, al PrazDelavallade di Parigi. Nel 2015, la Fondazione Donnaregina per le Arti Contemporanee del Museo MADRE di Napoli, attraverso il
programma Matronato, ha patrocinato la mostra Vedovamazzei, organizzata a Capri, nella Certosa di San Giacomo. Vedovamazzei
hanno recentemente concepito un’azione intorno al lavoro La Fine di un lavoro mai fatto, esposto al MAXXI di Roma nell’ambito
della mostra Non Basta Ricordare di Hou Hanru.
VEDOVAMAZZEI
My weakness #2
Ceramica colorata, 119.4 × 152.4 × 53.3 cm
Courtesy by VEDOVAMAZZEI / Magazzino Arte Moderna, Roma
La scultura è la replica in ceramica di una pila di 18 vecchi materassi, caratterizzati da fodere di differenti materiali,
fantasia e pregio, composizione gemella dell’installazione “My weakness #1”, realizzata con reali giacigli di diversa
natura e provenienza, object trouvè sormontati, a mo’ di podio, da una bicicletta: “il mio debole” o “la mia debolezza”
- come meglio si voglia intendere la traduzione, data la connaturata ambiguità delle opere di Vedovamazzei che tanto
lasciano all'interpretazione individuale - racconta probabilmente di molle stanchezza o del difficile traguardo di un
riposo quotidiano irraggiungibile e instabile. Com’è nel modus operandi dei due artisti, la familiarità dell’oggetto viene
a spiazzare se è rappresentata in forma preziosa e miniaturizzata, come in questo caso, complicando i significati di
quei materassi che, come afferma Stefano Chiodi “equivalgono anche al peso di un’erudizione ingombrante, a un
sentimento archeologico, alla malinconia di cose troppo vissute, a un filtro posto tra sé e il mondo.”