Alla ricerca del tempo perduto - UniFI
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Alla ricerca del tempo perduto - UniFI
Alla ricerca del tempo perduto: gestione del tempo e scelte riproduttive Letizia Mencarini e Maria Letizia Tanturri Dipartimento di Statistica, Università di Firenze [email protected]; [email protected] Introduzione Con l’entrata nella vita di coppia, i tempi individuali si modulano secondo le esigenze e le strategie non solo personali, ma anche familiari. I compiti che normalmente una coppia di tipo coniugale deve svolgere nel corso della vita comune, riguardano il lavoro retribuito, il lavoro di cura e di riproduzione e i lavori domestici. La ripartizione del tempo individuale e l’organizzazione familiare sono quindi strettamente legati. Il sistema di genere interno alla famiglia determina la divisione del lavoro fra uomini e donne. Tali ruoli di genere, che permeano l’organizzazione familiare, sono un importante aspetto dell’identità socio-culturale e solo di recente sono stati posti al centro dell’analisi delle possibili determinanti della bassissima fecondità dei paesi del Sud Europa. Con questo lavoro vogliamo da una parte descrivere l’organizzazione familiare e i tempi di vita di un campione di madri prima e dopo la nascita dei figli, dall’altra verificare, con i dati di indagine a disposizione, se esiste un legame tra l’organizzazione familiare e il comportamento fecondo, in particolare nelle coppie a doppio reddito. L’ipotesi da verificare è che in un contesto, come quello italiano, di scarsità di servizi esterni di cura dei figli e di asimmetria di genere nella divisione dei compiti familiari, le donne più sottoposte al peso della doppia presenza in famiglia e nel mercato del lavoro abbiano una fecondità più bassa di coloro che invece ne sono “alleviate” da un maggior ricorso ai servizi e aiuti esterni o, più semplicemente, dalla condivisione dei compiti domestici e di cura con il partner. Questo pone interrogativi sugli effetti che avrebbero sul comportamento riproduttivo politiche di pari opportunità volte a favorire la conciliazione tra lavoro e famiglia in chiave di equità di genere. I dati qui analizzati provengono da un’indagine svolta, alla fine del 2002, nell’ambito del progetto di ricerca “La bassa fecondità italiana tra costrizioni economiche e cambio di valori” in cinque città capoluogo di provincia (Firenze, Messina, Padova, Pesaro e Udine), su un campione di oltre 3300 madri (di età variabile, ma tutte con almeno un figlio in terza media), intervistate attraverso un questionario autocompilato, consegnato ai loro figli a scuola. I dati raccolti, pur non consentendo un’analisi dettagliata dei tempi di vita1, e cogliendo solo in parte la dinamicità dell’organizzazione personale e familiare associata ai cambiamenti del corso di 1 Sarebbero necessari dati provenienti dalla registrazione quotidiana di appositi diari del tempo (Rego 2002). vita2, offrono comunque la possibilità di tracciare un quadro, sebbene solo “attraverso gli occhi delle donne”, della divisione del lavoro nelle coppie e dei principali mutamenti successivi alla nascita dei figli. Le donne intervistate, infatti, hanno fornito informazioni sul proprio tempo libero e su quello del partner e sulla partecipazione alla vita domestica e alla cura dei figli del proprio partner. Per ciascun aspetto, le informazioni riguardano il periodo precedente all’arrivo di ciascun figlio e la variazione successiva. Il nostro studio ha escluso dall’analisi donne con situazioni particolari, come madri sole o “stepfamilies”, selezionando solo le donne in costanza di coppia stabile, vale a dire dove il padre era lo stesso per tutti i figli e, per facilitare i confronti sui mutamenti nel corso del tempo, solo quelle che vivevano insieme al partner anche prima della nascita dei figli. Le donne considerate sono quindi circa il 98% del campione totale. 1. Chi ha perduto il proprio tempo? 1.1 Una premessa: uso del tempo e sistema di genere L’uso del tempo per donne e uomini dipende dalle fasi del corso di vita, dalla partecipazione o meno al mercato del lavoro e dalla tipologia dell’attività svolta, ma presenta di solito anche forti differenziazioni per genere, soprattutto nell’ambito familiare. Sono le norme sociali secondo il sistema di genere prevalente, infatti, che prescrivono una certa divisione del lavoro e delle responsabilità tra donne e uomini, garantendo differenti diritti e obblighi per essi (Mason 2001). In ogni società, quindi, si attribuisce un certo valore a ciò che in quel particolare contesto si ritiene appropriato per il genere femminile e maschile (Presser e Das 2002). Il tempo, risorsa limitata, può essere suddiviso per comodità di analisi in tre tipologie principali (Gershuny, 2000): il tempo per il lavoro remunerato, il tempo per il lavoro non remunerato (il “tempo obbligatorio” in famiglia relativo alle attività domestiche o di cura) e il tempo per sé (divisibile in tempo “necessario” di attività di cura personale e tempo libero, anche se questa distinzione non è sempre netta). La suddivisione dei tempi di vita quotidiana si differenzia secondo il genere, le fasi del corso di vita (giovane, centrale o anziana), l’appartenenza ad un contesto sociale e lo status sociale individuale. Dagli anni ‘60 ad oggi, ad esempio, è stata evidenziata nel mondo sviluppato una tendenza verso una minore quantità di tempo libero, una maggiore proporzione di tempo remunerato e una convergenza dell’uso del tempo tra diverse nazioni, tra gruppi sociali (con un rovesciamento del gradiente status-tempo libero a sfavore, recentemente, 2 I dati a disposizione contengono alcuni aspetti retrospettivi ma non la ricostruzione completa delle biografie familiari e lavorative 1 delle classi elevate3) e tra uomini e donne (Gershuny 2000). La convergenza tra tempi maschili e femminili però è ancora incompleta per la permanenza -pur con enormi differenziazioni- del fenomeno della maggiore specializzazione femminile nel lavoro non pagato. Le donne in generale, lavorano per il mercato più che in passato e hanno ridotto il tempo per il lavoro non remunerato, ma lo hanno fatto meno che proporzionalmente, comprimendo di conseguenza il loro tempo libero; gli uomini, invece, hanno aumentato di poco il loro coinvolgimento nei compiti familiari. Teoricamente le modalità di suddivisione dei tempi familiari e dei ruoli nella coppia possono essere collocate secondo un ipotetico continuum tra due modelli antitetici: quello tradizionale, dove la specializzazione dei ruoli familiari è netta secondo il genere, e quello dell’equità di genere, cioè dell’assoluta simmetria dei ruoli in coppie a doppio reddito. Il primo modello (“male breadwinner model” o “family wage model” o “Becker’s specialization model”), è caratterizzato da “famiglie a ruoli segregati, con un’organizzazione complementare e indipendente dei ruoli” (Micheli 2002), dove il padre lavora mentre la madre sta a casa per occuparsi dei figli. Il principio alla base di questo modello è che sia più efficiente la specializzazione dei ruoli, esistendo in ogni caso una naturale differenziazione tra uomini e donne, che richiede che l’uomo sia il “produttore” e la donna sia colei che svolge le funzioni riproduttive e di cura (Becker 1981, McDonald 2000a). Nell’altro modello, detto anche della “contrattazione cooperativa”, le famiglie sono a ruoli congiunti o simmetrici, con un’organizzazione condivisa (Micheli 2002). Questo modello non implica un’eguaglianza tra i due soggetti di una coppia, ma soltanto che specifici ruoli non siano determinati in base al genere (cioè che si completi la scala delle possibilità dal modello “breadwinner” maschile a quello “breadwinner” femminile”). Dal punto di vista della razionalità e dell’efficienza economica ci si può immaginare che all’interno della famiglia ci possa essere una scelta razionale dei componenti tra mix alternativi di lavoro domestico e lavoro pagato (Gershuny 1995 e 2000). Si può sostenere, dunque, che ciascuno dei membri della coppia “adatti” la propria offerta di lavoro, fuori e dentro la famiglia alle decisioni dell’altro. Si possono quindi ipotizzare diverse strategie di “mutuo adattamento” (“scaling-back”): dalle famiglie con un solo percettore di reddito alle coppie in cui entrambi lavorano, ma solo uno fa carriera, fino alla “contrattazione continua” dei ruoli tra i partner nelle diverse fasi del ciclo di vita. Le maggiori opportunità per le donne sul mercato del lavoro, e la instabilità delle unioni stesse, hanno reso “meno conveniente” la specializzazione domestica (Anxo e Carlin 2002; De Santis e Livi Bacci 2001). L’aumento della partecipazione lavorativa femminile non ha però portato ad una conseguente redistribuzione dei compiti domestici e di cura, facendo sì che la cosiddetta “doppia presenza“ delle donne (Bimbi 1991 e 1995), sia diventata un vero e proprio “doppio peso”. Nel campo familiare e nella vita riproduttiva le regole del gioco sembrano quindi determinate da cause più complesse del semplice principio di razionalità economica. 3 Ma va tenuto conto che per alcune professioni puramente intellettuali è implicito nel tempo di lavoro una sorta di connotazione di “divertimento”, per altre lavori relegata al tempo libero (Gershuny 2000). 2 Le istituzioni legate alla famiglia e alla genitorialità cambiano molto lentamente e l’adattamento, da parte degli uomini, alla partecipazione lavorativa femminile è probabilmente possibile solo dopo un certo periodo di tempo di transizione (“lag adaptation model”; Gershuny 1995). Le cause della difficoltà, proprie degli uomini, ma spesso anche delle donne stesse, a cambiare le proprie visioni sui “corretti” ruoli di genere (Bernhardt 1993), scaturiscono da motivi che vanno dalle abitudini radicate degli individui (routine di donne e uomini), a meccanismi psicologici e di socializzazione che inibiscono l’azione maschile (bilanciamento dei poteri nella coppia, identità di genere, aspettative del gruppo dei pari, autostima), a difficoltà ad acquisire velocemente, da parte degli uomini, le capacità di produzione domestica. Ovunque, quindi, la divisione dei lavori domestici e di cura tra uomini e donne è influenzata dalla partecipazione al lavoro retribuito di entrambi i componenti della coppia (Gershuny 1995 e 2000), ma in tutti i paesi del mondo c’è una persistenza della specializzazione femminile nei lavori domestici. Solo nei paesi scandinavi è ormai consolidata l’abitudine maschile di svolgere in modo paritario le attività domestico-familiari (Gershuny 2000). 1.2 Organizzazione familiare e relazioni di genere asimmetriche La divisione dei compiti all’interno della famiglia, in particolare la conduzione di quelli che genericamente si possono definire “lavori domestici” e l’allevamento e la cura dei figli, sono gli elementi che distinguono l’organizzazione familiare. Ovviamente per le coppie dove la donna non ha un lavoro retribuito la divisione del lavoro è fortemente asimmetrica e i compiti domestici e di cura sono svolti prevalentemente o totalmente dalle donne. Dai dati della nostra indagine, le donne sono state classificate secondo la divisione nella coppia di lavoro domestico e lavoro fuori casa. Abbiamo messo a confronto il totale del campione di madri con il sottogruppo di madri “sempre” lavoratrici, cioè quelle madri che lavoravano prima della nascita dei figli e che hanno continuato a farlo costantemente anche dopo. In caso di mancata condivisione dei compiti domestici e di cura dei figli con i loro partner, sono proprio queste donne, infatti, che non avendo interrotto l’attività lavorativa sperimentano maggiormente il peso della doppia presenza se i partner non condividono le responsabilità familiari. Esse sono circa il 54% del campione intervistato4, sono più frequenti (oltre il 72%) tra le donne con un solo figlio e meno frequenti (33%) tra le donne con 3 o più figli. Le coppie “tradizionali” (si veda il grafico 1) sono quelle in cui la donna non lavora (un quarto del totale delle madri); le coppie del “doppio peso” quelle dove la donna lavora fuori casa e l’uomo non fa nulla (un quinto del totale delle madri e un quarto delle madri “sempre” lavoratrici); le coppie “collaborative” (pari alla metà del campione totale e al 67% del sottogruppo delle madri “sempre” lavoratrici) quelle dove la donna lavora e il partner “aiuta” in qualche occasione; le coppie “paritarie” quelle in cui anche gli uomini si occupano sempre o molto spesso dei compiti domestici 4 Oltre il 35% delle madri presenta una storia lavorativa discontinua e quasi 11% non ha mai lavorato. 3 (solo il 6% del campione totale e l’8% delle donne “sempre” lavoratrici). Tale classificazione è quella usualmente utilizzata anche da altre indagini: INF-2 (Bimbi e La Mendola 1999) e Quinto Rapporto IARD (Sartori 2002). I nostri risultati sono in linea con quelli già conosciuti5. Entrando più nel dettaglio, si può evidenziare come nel periodo precedente alla nascita dei figli neanche il 7% dei partner svolgeva “molto spesso” i lavori domestici e il 20% “abbastanza spesso”). La somma di tali percentuali (cioè partner che svolgeva “spesso o molto spesso” i compiti domestici) scende al 15% nel caso in cui la donna rispondente non abbia mai lavorato e salgono a poco più del 34% nel caso invece delle donne che hanno sempre lavorato. Dopo la nascita dei figli, secondo quello che rispondono le madri, nella maggior parte dei casi la partecipazione dei padri ai lavori di casa rimane invariata. Sono gli uomini con una partner “sempre” lavoratrice (si veda tabella 1), che già prima della nascita dei figli svolgevano frequentemente i compiti domestici, ad incrementare ulteriormente di circa un 30% il loro coinvolgimento. L’aumento di solito avviene dopo il primo figlio, mentre c’è per tutti un minore margine per incrementare la frequenza dei lavori domestici dopo il secondo e il terzo figlio6. Forti asimmetrie secondo il genere caratterizzano anche la cura dei figli. Nei primi tre anni di vita, in circa la metà dei casi, sono le madri che si occupano prevalentemente del figlio durante il giorno, con proporzioni crescenti secondo l’ordine di nascita del figlio. Per l’altra metà delle madri, la cura quotidiana diurna è affidata in proporzione quasi equivalente o ai nonni o altri familiari o invece a baby-sitter o asili7). 5 Confronti dettagliati con le altre indagini non sono possibili perché qui non si hanno misure oggettive sui tempi e la qualità dei compiti svolti, ma solo una valutazione generica della partecipazione maschile tratta da giudizi generali delle donne in termini di scala di valore. Le informazioni raccolte sono di tre tipi: valutazioni a posteriori espresse in termini di scale di valore (ad esempio: il tempo libero della donna intervistata nel periodo della vita di coppia senza figli può essere valutato come “molto”, “abbastanza”, “poco” o “pochissimo”); valutazioni comparative tra le caratteristiche della rispondente e quelle del proprio partner (ad esempio: il tempo libero del partner nel periodo di coppia senza figli può essere valutato come “molto di più”, “un po’ di più”, “uguale” o “molto di meno” di quello della rispondente); valutazioni delle variazioni dopo l’arrivo di ciascun figlio riguardo al tempo libero dei genitori e alla partecipazione del padre ai compiti domestici e a quelli di cura dei figli (ad esempio: il tempo libero delle donne può essere valutato come “più di prima”, “come prima”, “meno di prima” o “molto meno di prima”). 6 Questo è dovuto ovviamente a quote marginali decrescenti di tempo ancora a disposizione, ma è probabile che dipenda anche dalle tendenza di alcuni padri a lavorare di più all’aumentare della dimensione familiare, forse le necessità economiche conseguenti alla maggiore dimensione familiare o forse semplicemente per motivi legati alla carriera lavorativa (si veda il successivo paragrafo per la quantificazione del fenomeno nel campione esaminato). 7 Non c’è modo, con le informazioni rilevate, di capire in che proporzione siano attuati diversi sistemi di cura dei figli. Ciò sarebbe stato importante soprattutto per capire l’organizzazione delle donne che hanno dichiarato di aver continuato a lavorare e allo stesso tempo di essersi occupate prevalentemente in prima persona del figlio, nei primi tre anni di vita. 4 Le donne hanno anche dichiarato, indipendentemente dall’attore prevalente della cura diurna, quanto il padre si è occupato di ciascun figlio8 (si veda tabella 2). Ciò è avvenuto “spesso” o “molto spesso” all’incirca nel 40% dei casi (per tutti gli ordini di nascita). Tale percentuale cresce di qualche punto per i padri con partner “sempre” lavoratrice (sebbene oltre il 10% degli uomini non si sia mai occupato dei figli, sebbene la moglie lavoratrice) e scende ben al di sotto del 30% per padri con partner non lavoratrice. Nella cura dei figli da parte dei padri non c’è una differenza rilevante secondo la parità. Nelle coppie a doppio reddito, invece, la partecipazione alla cura dei figli aumenta un poco con gli ordini di nascita, ma soprattutto tende nettamente ad aumentare con il titolo di istruzione dei padri9. Tra le donne “sempre” lavoratrici abbiamo poi contrapposto – in un modello di regressione logistica- quelle con un partner che svolgeva i compiti domestici con una certa frequenza (coppie simmetriche, o per lo meno tendenti alla simmetria), rispetto a quelle non paritarie (con partner che non svolgevano mai lavori di casa o solo in qualche occasione). I fattori significativi sulla simmetria dell’organizzazione della coppia rispetto ai compiti domestici sono pressappoco gli stessi sia prima che dopo la nascita dei figli (si veda la tabella 3). L’organizzazione simmetrica (o per lo meno la tendenza verso tale situazione) è una prerogativa delle donne più istruite (soprattutto la laurea è molto significativa), con un partner più frequentemente di titolo di studio intermedio, con un’occupazione di tipo impiegatizio10. Uomini con occupazioni di tipo elevato, e laureati, sono meno coinvolti nei lavori domestici. Essi potrebbero corrispondere bene alla tipologia di padri “coinvolti in teoria” di Giovannini (1998), cioè con ideali paritari ma con pochissimo tempo, ma è comunque difficile dire quanto queste coppie siano relativamente più o meno simmetriche rispetto alle altre, perché non ci sono informazioni sugli aiuti esterni a pagamento, probabilmente frequenti nelle famiglie che hanno alti livelli di reddito. La religione, fattore significativo, sembra una proxy di una sorta di effetto “altruistico”: a parità di tutti gli altri fattori considerati, le coppie dove gli uomini sono più praticanti sono le più simmetriche, mentre se sono le donne ad essere praticanti, i ruoli di genere sono più tradizionali e asimmetrici. Sono più frequentemente paritarie le coppie che coabitano o hanno coabitato prima del matrimonio, probabilmente perché questo comportamento è già di per sé segnale di una minore adesione ai valori tradizionali nella concezione della famiglia. Le condizioni economiche non sembrano di per sé influenzare molto la ripartizione per genere del lavoro non remunerato, anche se comunque buone condizioni economiche, o condizioni migliorate dopo la nascita del primo figlio, hanno un effetto positivo sulla simmetria. 8 Qui nella domanda era proprio specificato il senso “pratico” della cura: “cambiarlo, dargli da mangiare, metterlo a dormire, alzarsi di notte”. 9 Da recenti studi negli Stati Uniti è emerso lo stesso risultato: il livello di coinvolgimento dei padri con figli (in termini di cura, educazione, tempo speso con loro) dipende più che altro dal loro livello di istruzione (e aumenta all’aumentare di questo) e con il livello di reddito individuale delle madri (si veda Yeung and Stafford, 2003 e Sayer et al., 2003). 10 Questo conferma, almeno in parte, i risultati di Grillo e Pinnelli 1999 e Micheli 2002. 5 Del resto la simmetria dei ruoli sembra in parte un adattamento, compiuto da parte degli uomini solo perché necessario, probabilmente di fronte al poco tempo a disposizione delle loro partner lavoratrici o per il notevole aumento dei compiti domestici conseguente alla nascita di un figlio: prima della nascita dei figli, infatti, se la donna ha un lavoro per il quale “può scegliere liberamente quando lavorare”, questo risulta un elemento associato ad una minore simmetria dei compiti domestici. Messina, tra le realtà urbane dove sono stati raccolti i dati, è il contesto con una divisione dei compiti domestici più tradizionale e asimmetrica, confermando una già nota differenziazione del Meridione d’Italia (Cfr. ad esempio Sartori 2002). Grafico 1: Tipologia di organizzazione familiare, in relazione al lavoro in casa e fuori, nel periodo di vita di coppia in assenza di figli (valori percentuali). 8 paritaria 6 67 collaborativa 49 Madri "sempre" lavoratrici Tutte le madri 25 20 "doppio-peso" 0 tradizionale 25 0 20 40 60 6 80 Tabella 1. Partecipazione dei padri ai lavori domestici (partner di donne “sempre” lavoratrici): mutamenti all’arrivo dei figli Prima dei figli Dopo l’arrivo del figlio Mai o solo in qualche occasione (65.9%, N=1037) Abbastanza spesso o molto spesso (34.1%, N=537) + di prima = a prima - di prima Tot N + di prima = a prima - di prima Tot N Donne con 1 figlio Dopo il 1° 21.3 60.0 9.7 100 289 31.9 61.0 7.1 134 100 Donne con 2 figli Dopo il 1° 26.4 66.2 7.4 100 578 32.5 60.1 7.4 337 100 Dopo il 2° 18.9 65.9 15.2 100 594 21.4 59.0 19.6 332 100 Donne con 3 figli Dopo il 1° 21.7 73.6 4.7 100 148 29.0 63.0 8.0 66 100 Dopo il 2° 19.6 71.1 9.3 100 153 22.7 71.0 6.3 65 100 Dopo il 3° 22.1 66.1 11.8 100 154 17.4 67.0 15.6 64 100 Tabella 2. Partecipazione dei padri alla cura dei figli (partner di donne “sempre” lavoratrici): confronto per ordine di nascita e parità Si prendeva cura Donne con 1 Donne con 2 figli del figlio figlio Primogenito Primogenito Secondogenito Mai 18.2 11.5 11.7 A volte 39.4 40.2 41.1 Spesso o molto 42.4 48.3 47.1 spesso Tot 100 100 100 N 457 951 955 7 Donne con 3 figli Primogenito 13.3 42.7 44.0 Secondogenito 11.2 49.1 39.7 100 224 100 223 Terzogenito 9.6 42.0 48.4 100 223 Tabella 3. Tendenza alla simmetria nei lavori di casa per le madri “sempre” lavoratrici, prima e dopo la nascita dei figli (risultati dell’analisi di regressione) Prima della nascita dei figli Il partner faceva lavori di casa Abbastanza o molto spesso (Y=1) 601 Mai o solo in qualche occasione (Y=0) 1342 Coefficienti Odds ratio -2,01 Var. dipendente Variabili espl. Intercetta Città di residenza Modalità (Rif : ME) FI PD PS UD Titolo di studio (rif. <= terza media) donna diploma laurea Titolo di studio (rif. <=terza media) partner diploma laurea Religiosità (rif. praticante) donna mai qualche volta Religiosità partner (rif. praticante) mai qualche volta Se coabita o ha coabitato in passato Ottime o buone condizioni ec. Condizioni ec (rif. immutate) famiglia dopo 1° Migliorate figlio Peggiorate Se la madre della donna lavorava dopo nascita figli Tipo occupazione (rif. alta) partner impiegato o insegn inf. Altro Tipo orario lavoro (rif. rigido) donna flessibile poteva scegliere Numero dei casi *** p <= .001 ** .001< p <= .005 0,83 0,69 0,44 0,92 Dopo la nascita del 1° figlio Il partner faceva lavori di casa Già prima o incrementato (Y=1) 5811 Né prima né incrementato (Y=0) 1191 Coefficienti Odds Ratio -2,25 *** *** ** *** 2,31 1,99 1,56 2,52 0,94 0,74 0,60 0,87 *** *** ** *** 2,56 2,08 1,81 2,38 0,31 ** 0,72 *** 1,36 2,06 0,52 *** 0,78 *** 1,69 2,19 1,36 0,98 0,18 * 0,07 1,20 1,08 1,70 1,09 0,61 ** 0,07 1,85 1,07 0,57 0,62 1,19 -0,05 ** -0,19 0,04 0,63 0,82 1,05 0,15 -0,12 * 1,21 0,92 0,26 ** -0,01 0,52 *** 0,08 -0,57 ** -0,47 ** 0,18 * 0,04 1,07 0,08 * 1,2 0,24 * 0,26 * 1,27 1,31 0,04 -0,21 * 1943 1,00 0,68 * .005 < p <= .1 8 0,57 *** 0,30 ** 0,13 -0,15 1772 1,77 1,36 1,13 0,84 1.3 La rivoluzione dei tempi alla nascita dei figli La divisione prevalentemente asimmetrica per genere, anche per le coppie a doppio reddito, dei compiti domestici e di cura dei figli, si riflette inevitabilmente nell’organizzazione del tempo individuale delle donne intervistate e dei loro partner. Da varie fonti (Indagini Multiscopo, Seconda Indagine sulla Fecondità in Italia 1996, Indagine Sociale Lombarda 2000, Rapporti IARD), pur in presenza di cambiamenti non trascurabili, emerge la persistenza in Italia di una netta polarizzazione tra ruolo riproduttivo per le donne e produttivo per gli uomini. L’Italia è una delle nazioni sviluppate dove i livelli di fecondità sono tra i più bassi del mondo, ma dove le donne hanno una media di ore di lavoro, sommando il lavoro retribuito e non, del 27% in più degli uomini (dati relativi al 1995, UNDP 1995 e 1999). Esiste una netta diversità tra donne e uomini rispetto alla proporzione di lavoro retribuito (34% femminile e 66% maschile) e lavoro non retribuito (le proporzioni per genere si invertono esattamente). In uno studio comparativo sui paesi della Comunità Europea, dai dati relativi al 1997, l’Italia si trova, insieme a Grecia e Paesi Bassi11, in fondo alla classifica sull’eguale distribuzione per genere di lavoro pagato e non pagato (Plantega e Hansen 1999). Inoltre, mentre l’organizzazione dei tempi femminili è notevolmente influenzata dall’entrata in unione, dalla presenza nella famiglia di bambini e dello stesso partner12, quella degli uomini rimane pressoché identica nelle diverse situazione familiari. Per le donne lavoratrici con un figlio piccolo questo si traduce quotidianamente in 3 ore e 20 minuti in media di lavoro in più dedicato alle attività domestiche e familiari (Palomba e Sabbadini 1997). I dati della nostra indagine evidenziano come quasi tre quarti delle madri, nell’anno precedente l’arrivo del primo figlio, hanno avuto “molto o abbastanza” tempo libero. Questa proporzione rimane quasi inalterata anche confrontando il gruppo di donne che non ha mai lavorato con quelle che hanno sempre lavorato (solo due punti percentuali di differenza). La percezione della quantità di tempo libero (perché in assenza di misurazioni quantitative di questo si tratta) è maggiore per le donne più istruite, di buone o ottime condizioni economiche, che fanno lavori più impegnativi (addirittura di più di quelle che non lavorano). Oltre che da una possibile diversa concettualizzazione di che cosa sia il tempo libero, ad esempio secondo gli stili di vita, questo risultato potrebbe essere frutto del maggior ricorso ad aiuti esterni, che “liberano” tempo altrimenti necessario per le normali attività domestiche. Riferendosi all’anno precedente alla prima nascita, 11 La classifica dei 15 paesi appartenenti alla Comunità Europea nel 1997 è stilata attraverso un indice composito di sei indicatori che riguardano il tasso di occupazione femminile rispetto a quello maschile, il tasso di occupazione dei madri con figli al di sotto dei 7 anni rispetto a quello dei padri; il tasso di concentrazione delle donne in posizioni lavorative elevate; i differenziali salariali per genere; la proporzione di donne, rispetto a quella degli uomini, che guadagnano meno della media del salario nazionale medio; le differenze per genere di tempo speso nella cura dei figli o di altri familiari. 12 Per le donne, il divorzio, ad esempio, porterebbe in media ad una riduzione del carico domestico (Palomba 1997). 9 circa la metà delle donne intervistate giudica il tempo dei loro partner maggiore del proprio, il 35% uguale e il 15% minore13. L’impatto della nascita dei figli sul tempo libero delle madri è ovviamente rilevante: in generale per circa 56% delle donne il tempo per se stesse è ”meno di prima” e per il 31% “molto meno” di prima dopo il primo figlio. Il tempo di cura dei figli entra in concorrenza con il tempo libero e con il tempo anche per il lavoro. Ovviamente sono le donne lavoratrici a contrarre di più la porzione di tempo libero, (oltre il 90% dei casi). La contrazione del tempo è, relativamente alla situazione pregressa, comunque più rilevante per il primo figlio (si veda tabella 4 per un’analisi per parità). A tale situazione le donne lavoratrici reagiscono, almeno in un quarto dei casi, diminuendo il tempo per il lavoro (si veda tabella 6), tanto di più se c’è flessibilità di orario o la donna ha libertà di scegliere quando lavorare. Anche in questo caso i margini di aggiustamento sono probabilmente limitati, tanto che la variazione negativa è più elevata per il primo figlio. Secondo le donne intervistate, anche per i padri (nel 46% dei casi) il tempo libero tende a contrarsi con la nascita dei figli. La compressione dei tempi maschili è maggiore se la donna lavora, per i padri di titolo d’istruzione più elevato e per gli uomini che, già prima dei figli, avevano poco tempo (o che comunque non avevano più tempo delle partner; si veda nel dettaglio la tabella 5). Per gli uomini, nel corso della vita familiare, la paternità sembra influenzare non tanto il tempo dedicato ai compiti familiari quanto quello per il lavoro retribuito. La nascita di un figlio (o di un figlio in più) per gli uomini, più spesso che per le donne, coincide infatti con un aumento delle ore di lavoro. Questa tendenza cresce per i figli di ordine successivo per i padri con parità finale più elevata, e con un lavoro con orario rigido. I padri con orari di lavoro flessibile sperimentano invece un incremento più forte dopo il primo figlio e incrementi invece decrescenti, sia secondo l’ordine di nascita dei figli che secondo la parità finale raggiunta (si veda tabella 7). L’impegno delle donne nel mercato del lavoro in una certa misura favorisce una maggiore condivisione dei partner nei ruoli domestici e di cura dei figli. Anche per le coppie a doppio reddito, il sistema di genere appare prevalentemente di tipo tradizionale costringendo le donne che, per vari motivi non sono propense ad abbandonare il mercato del lavoro, a contrarre in maniera sostanziale il tempo per sé e il tempo per il lavoro retribuito (ovviamente quando l’orario di lavoro non è rigido)14. 13 Inserendo in un modello di regressione la consonanza dei tempi di vita tra partner, il tempo libero maschile è giudicato uguale al tempo femminile con più frequenza al crescere del titolo d’istruzione dell’uomo. 14 Qui si confermano pienamente, dal punto di vista descrittivo, tutti i risultati di altre indagini relative al contesto italiano (Palomba e Sabbadini, 1995 e 1997; Grillo e Pinnelli, 1999). 10 Tabella 4. Il tempo libero delle madri “sempre” lavoratrici: mutamenti dopo la nascita dei figli Prima dei figli Molto abbastanza (74.5% N=1283) Poco pochissimo (25.5%, N=439) Dopo l’arrivo dei figli o + di prima = a prima - di prima , Molto – prima Tot N o + di prima = a prima - di prima Molto – prima Tot N 1 figlio Dopo il 1° Dopo il 1° 0.6 0.1 7.0 4.7 54.7 60.7 37.7 34.5 100 100 363 741 4.2 1.0 8.6 14.4 53.9 53.7 33.3 30.9 100 100 111 259 2 figli Dopo il 2° Dopo il 1° 0.3 0.4 7.6 8.7 47.9 62.7 14.2 28.2 100 100 740 179 0.9 4.7 14.1 21.6 48.8 48.7 36.2 24.9 100 100 257 69 3 figli Dopo il 2° Dopo il 3° 0 1.0 10.0 10.9 56.3 30.1 33.7 58.0 100 100 179 179 4.7 3.12 20.5 16.1 39.1 29.9 35.7 50.8 100 100 68 68 Tabella 5. Il tempo libero dei padri (partner di donne “sempre” lavoratrici): mutamenti dopo la nascita dei figli Partner di donne che hanno sempre lavorato (n=1597) Prima dei figli Dopo l’arrivo del figlio Molto o un + di prima po’ + di lei = a prima - di prima (51%, To N=814) N = a lei + di prima = a prima (37.2%, - di prima N=594) Tot N Molto o un + di prima po’ - di lei = a prima - di prima (11.8%, Tot N=189) N 1 figlio Dopo il 1° 5.7 60.5 33.8 100 240 0.0 48.1 51.9 100 152 0.0 28.1 71.9 100 49 2 figli Dopo il 1° 1.4 56.9 41.7 100 460 0.4 37.3 62.4 100 367 1.6 31.8 66.6 100 105 Dopo il 2° 2.9 49.6 47.5 100 458 1.4 35.6 63.1 100 364 0.6 34.9 64.5 100 109 3 figli Dopo il 1° 3.1 60.7 36.22 100 112 1.4 45.0 53.6 100 75 4.9 39.2 55.9 100 31 Dopo il 2° 1.6 55.6 42.8 100 111 0.0 43.9 56.1 100 75 0.0 37.6 62.4 100 30 Dopo il 3° 3.3 47.2 49.5 100 114 x 30.0 70.0 100 72 2.2 34.9 62.9 100 31 Tabella 6. Orario di lavoro retribuito delle madri “sempre” lavoratrici (secondo la tipologia di orario rigido o flessibile): mutamenti dopo la nascita dei figli Orario di lavoro Dopo all’arrivo dei 1 figlio prima dei figli figli Dopo il 1° Rigido + di prima 7.1 = a prima 63.6 (65.6%, - di prima 29.3 N=1026) Tot 100 N 283 Flessibile o poteva + di prima 9.3 scegliere = a prima 51.1 - di prima 39.6 (34.4%, Tot 100 N=539) N 161 Dopo il 1° 4.3 71.6 24.1 100 588 8.3 63.6 28.1 100 308 11 2 figli Dopo il 2° 7.6 68.4 24.0 100 602 13.1 64.1 22.8 100 304 Dopo il 1° 10.3 73.6 16.1 100 139 6.5 65.9 27.6 100 69 3 figli Dopo il 2° 9.0 74.5 16.5 100 141 4.3 83.2 12.5 100 70 Dopo il 3° 8.5 68.0 23.4 100 140 12.5 63.2 24.2 100 69 Tabella 7. Orario di lavoro retribuito dei padri (partner di donne “sempre” lavoratrici), secondo la tipologia di orario rigido o flessibile: mutamenti dopo la nascita dei figli Orario di lavoro Dopo all’arrivo prima dei figli dei figli Rigido + di prima = a prima (55.1%, - di prima N=164) Tot N Flessibile o poteva + di prima scegliere = a prima - di prima (44.9%, Tot N=697) N 1 figlio Dopo il 1° 12.1 85.6 2.3 100 217 22.7 67.4 9.9 100 203 Dopo il 1° 12.8 86.2 1.0 100 513 28.4 64.8 6.7 100 394 2 figli Dopo il 2° 23.6 74.5 1.8 100 514 18.1 64.8 17.1 100 404 Dopo il 1° 20.6 78.0 1.4 100 124 20.4 73.0 6.6 100 86 3 figli Dopo il 2° 23.8 75.1 1.1 100 122 14.4 79.5 6.1 100 90 Dopo il 3° 26.0 71.2 2.8 100 126 16.2 75.0 8.8 100 87 2. La bassa fecondità: adattamento e ricerca del tempo perduto? 2.1 La bassa fecondità e l’equità di genere all’interno della famiglia La ripartizione per genere dei tempi e dei compiti familiari può avere effetti sulla fecondità e in particolare implicare la ricerca volontaria di una bassa o bassissima fecondità? Il modello classico della transizione non analizza come la bassa fecondità sia legata ai cambiamenti nelle relazioni tra i generi (Presser e Das 2002). Taluni hanno sostenuto che il complesso processo di emancipazione femminile conduce di per sé alla bassa fecondità anche in contesti posttransizionali, e che quindi non sia possibile conciliare l’eguaglianza tra i generi e una fecondità non bassa (Keyfitz 1987). È ovvio che una più alta partecipazione al lavoro delle donne è legata in generale a più bassi livelli di fecondità, ma tale conclusione appare incompleta senza considerare il rapporto tra i partner, il grado di egualitarismo esistente, i ruoli dentro e fuori casa e la motivazione prevalente per il lavoro femminile (ad esempio se le donne lavorano solo per problemi economici o no; Mathews 1999). Non è difficile osservare, infatti, che, tra i paesi sviluppati sono proprio quelli con una bassissima fecondità ad avere un sistema di genere meno equo rispetto ai paesi a fecondità relativamente più alta (contrapponendo quindi i paesi del Sud con quelli del Nord Europa; McDonald 2000; si veda grafico 2). McDonald (2000a, b) ritiene che la bassissima fecondità possa essere frutto soprattutto di uno iato che si è creato in alcuni paesi sviluppati tra “alti livelli di equità di genere nelle istituzioni che hanno a che fare con gli individui”, cioè in particolare nel sistema di istruzione e nel mercato del lavoro, e “bassi livelli nelle istituzioni che hanno a che fare con le persone come membri delle famiglie”, cioè in particolare nella divisione dei compiti domestici e di cura15. 15 Tutto ciò è coerente anche con una lettura in termini di razionalità economica dell’evoluzione della fecondità: l’era del “baby-boom” può essere interpretata come una conseguenza della prevalenza del modello “bread-winner”, accettato sia da parte della famiglia che di tutte le istituzioni sociali ed economiche. 12 Da una parte, infatti, anche nei paesi del Sud Europa, c’è stato un aumento straordinario dei livelli d’istruzione femminile, tanto che le coorti più giovani di donne hanno livelli medi più alti di quelli dei coetanei maschi (ad esempio in Italia già a fine anni ’90 circa il 55% dei laureati era di sesso femminile, dati Istat). Le donne sono istruite secondo gli stessi standard degli uomini e per il mercato del lavoro (pagato) esattamente come gli uomini. Di conseguenza è ovvio che una proporzione sempre più alta di giovani donne, istruite, non costruisca più la propria “identità” sociale solo attraverso il matrimonio e la famiglia, ma voglia anche lavorare, conquistare l’autonomia economica, ricoprire anche altri ruoli rispetto a quello di moglie e madre (Piazza 2000 e 2003). Dall’altra parte, a questa crescente eguaglianza fuori della famiglia non ha corrisposto la stessa tendenza all’interno delle relazioni di coppia e delle famiglie. Nei paesi dove gli atteggiamenti delle famiglie sono rimasti più vicini al modello “male bread-winner”, dove il lavoro femminile trova limitazioni dalla mancanza di servizi di supporto alla famiglia, e dove l’organizzazione sociale rende difficile combinare lavoro e famiglia, i tassi di fecondità sono colati a picco (McDonald 2000b). Le opportunità per le donne in campo lavorativo possono infatti essere severamente compromesse proprio dall’avere figli (Scisci e Vinci 2002), e questa situazione, di per sé, può spingere alcune donne a ridurre il numero di figli o addirittura a rinunciare alla maternità16. Grafico 2: Associazione tra Tasso di Fecondità Totale (di periodo) e indice composito di 17 “empowerment” femminile (UNDP, 2000). 16 In uno studio qualitativo sulle donne canadesi una parte delle donne più attente all’egualitarismo ha scelto la strada di rinunciare volontariamente alla maternità per mantenere un’organizzazione familiare simmetrica e per evitare la netta divisione di ruoli maschili e femminile, considerata peraltro da queste stesse donne inevitabile dopo la nascita dei figli per via di costrizioni esterne (Mathews 1999). L’effetto reciproco tra ruoli di genere e formazione della famiglia è dimostrata anche in Moors 2003. 17 L’indice “GEM”-gender empowerment measure- è costruito sulla base di indicatori della partecipazione delle donne alla vita politica ed economica di ciascun paese. 13 2.2. La gestione del tempo e le scelte riproduttive nelle coppie a doppio reddito: padri attivi e un figlio in più Se esiste una relazione, nei paesi sviluppati, tra asimmetria di genere all’interno delle famiglie e bassa fecondità, la principale ipotesi da verificare è se le donne che lavorano e contemporaneamente sperimentano in famiglia l’assenza di ruoli simmetrici e di un’organizzazione condivisa dei compiti domestici e di cura, hanno una più bassa fecondità rispetto alle donne lavoratrici con una minore compressione dei tempi e una maggiore partecipazione dei partner all’organizzazione familiare18. Abbiamo preso in considerazione tutti gli elementi relativi all’organizzazione familiare e dei tempi di vita fin qui analizzati (la quantità di tempo libero della donna e del suo partner prima della nascita dei figli e le variazioni successive; la partecipazione del partner ai lavori domestici prima della nascita del figlio e le variazioni; la partecipazione del partner alla cura dei figli; le variazioni dell’orario di lavoro di entrambi i genitori successive alla nascita dei figli), nonché le condizioni economiche della famiglia e le sue variazioni e alcune variabili di background di entrambi i partner. Con modelli di regressione logistica è stata calcolata la probabilità per le madri “sempre lavoratrici” che hanno avuto un figlio di passare al secondo e poi al terzo. I risultati sembrano verificare l’ipotesi iniziale18 (si veda tabella 8): nel gruppo delle donne “sempre” lavoratrici ci sono molte variabili relative al comportamento paterno che hanno, ceteris paribus, effetti significativi sulla probabilità di avere un secondo figlio. Esse sono l’incremento della partecipazione ai lavori domestici dopo la nascita del figlio (e risulta più importante la variazione positiva dell’impegno, piuttosto che la quantità di tale impegno prima della nascita dei figli); la frequente partecipazione del padre alla cura quotidiana del figlio neonato; l’aggiustamento del tempo nel senso di una contrazione del proprio tempo libero19. Il giudizio sulla quantità del tempo per sé da parte delle donne, e le sue variazioni alla nascita del primo figlio, non risultano invece 18 Ovviamente l’offerta lavorativa delle donne potrebbe essere vista anche come una variabile esogena rispetto al modello considerato, in quanto alcune donne potrebbero lavorare di più proprio perché vogliono pochi figli. 18 Nell’analizzare la probabilità di passaggio al secondo e al terzo figlio delle madri intervistate si sono considerati vari modelli, ad esempio donne che hanno sempre lavorato e casalinghe e tre modelli separati per tutte le donne, le sole donne di Messina, le rimanenti (nelle tabelle 8 e 9 sono riportati solo i risultati del modello con tutte le donne lavoratrici). I migliori adattamenti di entrambi i modelli si ottengono escludendo dall’analisi le donne messinesi: la città di Messina sembra differenziarsi per più alti livelli di fecondità, bassa partecipazione lavorativa delle donne ed estrema adesione alle norme tradizionali del sistema di genere, rispetto alle altri cinque città considerate, localizzate tutte nelle regioni del centro-nord Italia. 19 Dai dati della Seconda Indagine sulla Fecondità (INF-2) solo tra le casalinghe e le attive ultraquarantenni (ma non tra le più giovani) alcune dimensioni legate a partner più collaborativi aumentavano la probabilità di fare almeno due figli. 14 statisticamente significativi (del resto diminuisce moltissimo per tutte), mentre è più probabile che abbiano un secondo figlio le donne che non hanno diminuito, in conseguenza della nascita del primogenito, l’orario di lavoro. Significativo sulla probabilità di avere il secondo figlio anche il ricorso ai nonni o anche a servizi per l’infanzia o baby-sitter, come metodo prevalente di cura dei figli durante i primi 3 anni. La probabilità di passare al secondo figlio è anche positivamente associata a caratteristiche esplicative ormai “classiche” nel contesto italiano, quali la religiosità di entrambi i genitori, la residenza nella città di Messina piuttosto che nelle città considerate del centro-nord, l’istruzione più elevata del padre (tipica proxy del reddito) e il miglioramento delle condizioni economiche della famiglia nel periodo successivo al primo figlio (mentre non sono significative le condizioni economiche di partenza della coppia). Gli effetti sulla probabilità di passare dal secondo al terzo figlio (si veda tabella 9), per le donne “sempre” lavoratrici, sono simili a quelli evidenziati per la parità precedente per quando riguarda l’effetto positivo della partecipazione attiva da parte dei padri alla cura del figlio, in questo caso il secondo, alla contrazione del tempo libero paterno e alla sua partecipazione ai lavori domestici (per lo meno alla non diminuzione). Le madri che hanno dovuto diminuire il proprio orario di lavoro in conseguenza della seconda nascita hanno avuto meno frequentemente il terzo figlio. Di nuovo significativamente positivi, ceteris paribus, sono gli effetti della religiosità di entrambi i genitori e dell’istruzione del padre (in questo caso, per avere il terzo figlio, di quella bassa). 15 Tabella 8. Probabilità di passaggio al secondo figlio per le donne che hanno sempre lavorato Variabile dipendente Donne che hanno avuto 2 figli (Y=1) Donne che si sono fermate a 1 figlio (Y=0) Modalità Coefficienti 0,22 (Rif.ME) FI -1,12 *** PD -0,86 *** PS -0,58 ** UD -1,02 *** Variabili esplicative Intercetta Città di residenza Età Titolo di studio del partner Religiosità della donna 946 343 Odds Ratio 0,32 0,42 0,56 0,36 0,02 * (rif. <= 3° media) diploma laurea 0,02 0,46 ** 1,03 1,57 (rif. praticante) mai qualche volta -0,41 * -0,22 0,66 0,80 (rif. praticante) mai qualche volta -0,38 * -0,18 0,68 0,83 Variazione orario di lav della donna dopo il 1°f. (rif.: immutato) aumentato diminuito -0,29 -0,43 ** 0,75 0,65 Variazione orario del partner dopo il 1° f. (rif.: immutato) aumentato diminuito -0.13 -0,06 0,87 0,94 Chi si occupava prevalentemente del 1°f. nei primi 3 anni (rif.: la madre) asilo o babysitter nonni o altri fam. padre 0,28 * 0,30 * -0,35 1,32 1,36 0,69 Il padre si prendeva cura del 1° f. (rif.: mai) a volte spesso o molto spesso 0,35 ** 0,43 ** 1,42 1,53 (rif.: immutati) + di prima - di prima 0,16 0,04 1,17 1,03 Variazione tempo libero del partner dopo il (rif.: immutato) 1° f. + di prima - di prima -0,27 0,20 0,71 1,15 0,16 -0,21 1,17 0,81 Religiosità del partner Lavori di casa del partner dopo 1° figlio Variazione condiz. ec. famiglia dopo 1° f. (rif.: immutate) migliorate peggiorate Numero dei casi *** p <= .001 1289 ** .001< p <= .005 * .005 < p <= .1 16 Tabella 9. Probabilità di passaggio al terzo figlio per le donne che hanno sempre lavorato Variabile dipendente Variabili esplicative Intercetta Città di residenza Età Titolo del partner Religiosità della donna Religiosità del partner Variazione orario di lavoro della donna dopo il 2°f. Chi si occupava prevalentemente del 2°f. nei primi 3 anni Padre si prendeva cura del 2° f Variazione nei lavori di casa del partner dopo 2° f. Variazione nel tempo libero del partner dopo il 2° f. Variazione condiz. ec. famiglia dopo 2° f. Numero dei casi *** p <= .001 Donne che hanno avuto 3 figli (Y=1) Donne che si sono fermate a 2 figli (Y=0) Modalità Coefficienti -3,5 (Rif.: ME) FI -0,77 PD -0,34 PS -0,38 UD -0,51 0,08 (rif.: <=3° media) diploma -0,19 laurea -0,19 (rif.: praticante) mai -0,42 qualche volta -0,26 (rif.: praticante) mai -0,58 qualche volta -0,42 (ref.: immutato) aumentato -0,29 diminuito -0,85 (ref.: la madre) asilo o babysitter -0,07 nonni o altri fam. -0,17 Padre -0,22 (ref.: mai) a volte -0,19 spesso o molto spesso -0,33 (ref.: immutato) + di prima 0,12 - di prima -0,63 (ref. immutato) + di prima -0,26 - di prima -0,01 (Ref. immutate) migliorate 0,07 peggiorate 0,03 980 ** .001< p <= .005 * .005 < p <= .1 17 190 790 Odds Ratio ** * * ** *** 0,46 0,71 0,68 0,60 1,03 0,83 0,83 0,65 0,77 ** ** 0,55 0,66 ** 0,74 0,43 0,92 0,85 0,79 0,82 0,72 * 1,12 0,53 0,58 0,76 1,08 1,04 3. Il tempo perduto si può ritrovare? Possibilità e paradossi delle politiche L’analisi dei dati individuali dell’indagine sulle madri ha confermato, anche nei contesti urbani considerati, che l’organizzazione familiare prevalente è quella di tipo tradizionale asimmetrica per genere. Prima della nascita dei figli solo una minima parte (il 6% nel nostro campione) delle coppie ha, secondo le informazioni raccolte dalle donne intervistate, un’organizzazione tendente alla simmetria. Le implicazioni della nascita di un figlio sono in media negative in termini di uguaglianza di genere nella coppia: i padri, dopo la nascita dei figli tendono piuttosto ad aumentare il tempo per il lavoro remunerato, che quello speso nei compiti domestici o di cura dei figli. I risultati hanno comunque permesso di evidenziare un progressivo adattamento verso un modello di organizzazione familiare più egualitaria per genere di una parte delle coppie a doppio-reddito, più frequentemente in quelle di elevato livello socioeconomico, con la donna d’istruzione universitaria e l’uomo con un’occupazione di tipo impiegatizio. In queste coppie, la nascita di un figlio comporta “una rivoluzione” dei tempi e delle attività individuali molto simile per entrambi i neogenitori. Il risultato più importante delle nostre analisi, mai emerso con questa chiarezza per il contesto italiano, riguarda però le conseguenze della mancata simmetria di genere sulla fecondità delle coppie a doppio reddito. Fra le coppie con le donne in “costanza” di lavoro durante la vita riproduttiva, una situazione di asimmetria dei ruoli di cura e dei compiti domestici sfavorevole ai tempi femminili è associata, a parità di altri fattori quali istruzione, religiosità e partecipazione lavorativa, ad una minore fecondità. Nelle coppie a doppio reddito, quindi, un sistema di ripartizione dei compiti familiari più equilibrato per genere sembra favorire la fecondità, tanto che sono le coppie con padri più attivi nella cura dei figli e compiti domestici, ad avere più frequentemente un figlio in più. L’elemento più importante sembra la flessibilità, la capacità di adattamento e la disponibilità da parte degli uomini ad una, seppure parziale, redistribuzione dei compiti familiari di cura dei figli, di fronte alle nuove “emergenze”, in termini di tempi e compiti familiari, conseguenti alla nascita di un figlio, con una “doppia presenza” anche maschile. Ovviamente la fecondità delle coppie di tipo tradizionale, dove la madre non lavora, per lo meno nei primi anni di vita dei figli, è più elevata anche di quella delle coppie a doppio reddito con un’organizzazione familiare di tipo simmetrico. Il nostro risultato, fondato comunque su oltre la metà delle coppie analizzate, avvalora l’ipotesi che per l’Italia, come per altri paesi a bassissima fecondità dell’Europa mediterranea, una chiave di lettura della prevalente strategia in atto di riduzione del numero dei figli sia l’impossibilità di conciliare lavoro e genitorialità in modo egualitario per genere. La crescente partecipazione lavorativa delle donne, lo scarso adattamento degli uomini a questi cambiamenti e la conseguente “doppia-presenza” solo femminile, in un contesto sociale che continua a favorire la rete informale dei servizi di cura (sia per l’infanzia che per gli anziani) e in un mondo del lavoro rimasto sordo ai nuovi bisogni delle famiglie, hanno condotto a quella che è stata definita la “rivoluzione bloccata” della bassissima fecondità 18 (Hochschild 1989). Un sistema di genere più equilibrato potrebbe allora favorire una ripresa della fecondità consentendo alle coppie di realizzare i propri desideri. Un deciso avanzamento nel sistema di equità di genere è ostacolato, in Italia, come negli altro paesi mediterranei, da impedimenti di natura strutturale, organizzativa e culturale (Zanatta 2002): da una parte da abitudini e norme sociali che favoriscono il lavoro remunerato maschile rispetto a quello femminile, dall’altra dalla carenza di offerta di servizi di cura e da un regime del mercato del lavoro non sufficientemente flessibile. In Italia il sistema di politiche sociali e familiari che riguardano la conciliazione tra famiglia e lavoro, nel rispetto delle pari opportunità per genere, è altamente contraddittorio e frammentario (Saraceno 2002), e ha continuato a promuovere norme che indirettamente influenzano in modo negativo proprio la posizione lavorativa femminile (Trifiletti 1999). L’Italia risulta all’ultimo posto per posizione delle donne nel mercato del lavoro (Plantega e Hansen 1999). Una situazione lontana da quella dei paesi scandinavi, dove da anni le politiche sociali e familiari perseguono apertamente il fine dell’uguaglianza fra i sessi, dando priorità alla crescita del lavoro familiare dei padri21, ormai socialmente accettato, e incoraggiando le donne a partecipare al mercato del lavoro. Le politiche sono state efficaci, tanto che il peso dei figli è più egualmente distribuito tra padri e madri, e tra famiglia e comunità, rispetto a tutte le altre società occidentali. Misure per favorire la realizzazione dei desideri di fecondità da parte dei genitori (che in l’Italia sono molto più alti della fecondità realizzata) non possono allora trascurare politiche che favoriscano esplicitamente le pari opportunità di uomini e donne in famiglia e nel lavoro che promuovano l’equità di genere22. Va rimarcato del resto che anche politiche che non prendono esplicitamente in considerazione il tema dell’uguaglianza di genere ma che influenzano i benefici sociali e i tempi lavorativi non sono mai neutre rispetto alle relazioni sociali tra uomini e donna nel lavoro e in famiglia. È ovvio pensare da una parte a politiche per il lavoro, in termini di organizzazione dei tempi e dei congedi parentali, non legate al genere e, dall’altra, a misure di potenziamento dell’offerta di servizi di cura per l’infanzia e gli anziani (McDonald 2000, Gershuny 2000, Piazza 1991; Plantega e Hansen 1999, Saraceno 2002, Zanatta 2002, Gauthier 2002) Sono soprattutto le misure del secondo tipo che sembrano realizzare contemporaneamente l’obiettivo dell’equità di genere, della conciliazione tra famiglia e lavoro e della realizzazione di 21 Tanto che, ad esempio, i giovani uomini norvegesi risultano accollarsi il 42% dei compiti familiari (Casey 2002). 22 Sono proprio questi i principi delle raccomandazioni della Comunità Europea: “l’obiettivo di perseguire la parità tra uomini e donne è necessario per compensare lo svantaggio delle donne nelle condizioni di accesso e partecipazione al mercato del lavoro e lo svantaggio degli uomini per le condizioni di partecipazione alla vita familiare” (nel Trattato di Amsterdam del 1999, come riportato da Zanatta 2002). L’unione europea parla di responsabilità parentali (e non materne), promuove la conciliazione tra lavoro e famiglia per uomini e donne, vede la partecipazione degli uomini alla vita familiare come un vantaggio e un diritto anche per gli uomini, un arricchimento personale, una risorsa in più per la propria identità 19 fecondità: da studi recenti è emerso che la fruizione dei servizi di infanzia, più che il ricorso ad esempio al part-time da parte dei genitori, sembra aver un impatto diretto sulla probabilità di avere un figlio in più23 (Baizan 2003). Le misure di flessibilità o riduzione degli orari di lavoro, e le regole relative ai periodi di astensione facoltativa24 e ai permessi per cura di familiari, sono altamente auspicabili e possono consentire alle famiglie di adattare il proprio tempo rispetto alle esigenza del ciclo di vita, ma se rivolte prevalentemente alle donne, esse hanno un impatto diretto sulle relazioni di genere, favorendo differenziali di responsabilità nel lavoro domestico e inibendo, di fatto, la formazione del capitale umano per le donne e, di conseguenza, le possibilità di equità di genere nel mercato del lavoro. Un orario lavorativo più breve delle donne che ricorrono al part-time risulta in un loro maggiore impegno nella gestione domestica, rendendo quindi la divisione del lavoro familiare ancora più asimmetrica (Gershuny 1995, Estes et al. 200325). Inoltre, in mercati del lavoro come quello italiano, dove c’è una sostanziale incomunicabilità tra mercato del lavoro flessibile e mercato del lavoro stabile, il part-time favorisce secondo alcuni (Perrons 1999, Saraceno 2002 e dati del Censis) un’ulteriore segregazione del mercato del lavoro per genere, comportando un’elevata precarietà e scarse opportunità di promozione, non consentendo né una redistribuzione del lavoro di cura né un cambiamento dei ruoli genitoriali. L’uguaglianza di genere nel lavoro può essere raggiunta solo se c’è una politica complementare sul lavoro (non pagato) di cura. Fino a che le responsabilità di cura continueranno ad essere viste come un ambito privato, l’ineguale divisione del lavoro non pagato si tradurrà in un’inevitabile ineguale posizione delle donne sul mercato del lavoro (Plantega e Hansen 1999) Un esempio a questo proposito è quello dei Paesi Bassi (Veenis 1998), dove la mancanza di politiche esplicite di cura è compensata da un regime di grande flessibilità dei tempi di lavoro (senza grosse penalizzazioni salariali né in termini di carriera), che ha finito per favorire però una forte disuguaglianza di genere nel lavoro non retribuito. 23 Proprio riguardo ai paesi del Sud Europa, un recentissimo studio (Baizan 2003) ha messo in chiara evidenza, in generale, il lavoro part-time non ha un effetto positivo sulla probabilità di avere un secondo figlio, mentre lo ha significativamente l’utilizzo si servizi per l’infanzia (in particolare l’uso di servizi a pagamento, perché di migliore qualità e soprattutto più flessibili rispetto all’orario). 24 L’efficacia sui ruoli genitoriali dei congedi parentali anche per gli uomini resta, invece, per ora, data la scarsa utilizzazione, meramente simbolica (Lanucara 2002). 25 Da dati di panel statunitensi emerge che se ad utilizzare le misure di flessibilità lavorativa o riduzioni di orario sono gli uomini, non c’è nessun effetto sul loro coinvolgimento nei compiti domestici e, quindi, nessun effetto redistributivo in termini di genere; se ad utilizzare le misure di flessibilità sono le donne l’effetto è che esse stanno più a casa, aumentando la quantità di lavori domestici e di cura svolti, con una sproporzione crescente di compiti familiari tra uomini e donne. Nel caso invece che i servizi di “childcare” siano presso il datore di lavoro della madre sia del padre, l’effetto è quello di uno sgravio netto di lavoro di cura, con l’effetto anche di una maggiore partecipazione lavorativa delle madri in termini di ore e con un conseguente effetto perequativo sulla distribuzione dei compiti domestici per genere. 20 Il potenziamento dei servizi di cura legati a fasi e situazioni specifiche della vita, cioè in presenza di bambini, anziani e disabili, è quindi a nostro avviso un importante elemento per la conciliazione tra famiglia e lavoro in chiave di eguaglianza di genere e un tema di politica pubblica (l’esempio della Gran Bretagna sembra dimostrare che il mercato da solo non sia capace di provvedere in maniera efficiente, Gershuny 2000). In una società ad “alto valore aggiunto” di coppie con elevata istruzione, poche donne sono preparate a rimanere a casa per fornire tali servizi su base informale e non retribuita, e si può immaginare che pochi uomini vogliano prendere il loro posto. Nel nostro paese la scarsità di servizi all’infanzia è nota e problemi di budget pubblico non contribuiscono a creare un ambiente politico favorevole allo sviluppo di tali servizi sociali, ma anzi la soluzione proposta a livello locale e governativo di fronte all’incremento della spesa sociale è proprio quella di “ri-dare” alle famiglie questi compiti di cura (Saraceno 2002). Ovviamente non si può sostenere contemporaneamente l’obiettivo di una maggiore uguaglianza tra i sessi e quello di cercare di rafforzare la rete informale del lavoro di cura (Piazza 1991). Inoltre, spesso la fruizione e il costo di asili o servizi vari per l’infanzia sono legati a criteri di selezione e graduatorie stilate in base al reddito congiunto dei genitori, introducendo quindi indirettamente elementi a sfavore del lavoro delle madri, con effetti di sostituzione tra reddito e lavoro femminile. Un decisivo passo in avanti verso un sistema di genere più equo può essere compiuto solo con l’aiuto di misure legislative che promuovano in modo attivo e diretto il coinvolgimento degli uomini nelle attività domestiche e di cura – ad esempio periodi di congedi parentali riservati ai soli padri-. Tali misure, se in un primo momento hanno essenzialmente una valenza simbolica, contribuiscono in maniera rilevante a determinare quei cambiamenti di mentalità che a loro volta possono condurre ad un effettivo mutamento dei comportamenti. 21 Bibliografia D. Anxo, P. 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