A Serena A Giulia, e all`eredità d`amore che ci ha
Transcript
A Serena A Giulia, e all`eredità d`amore che ci ha
PROLOGO A Serena A Giulia, e all’eredità d’amore che ci ha lasciato La lettera apparve tra le carte del faldone 75, dopo cinque giorni passati a scorrere documenti ingialliti e decifrare grafie illeggibili nella sala di consultazione dell’Archivio di Stato di Neuchâtel. Due fogli spessi, privi di busta e ben ripiegati, ma diversa da tutte le altre: il sigillo di ceralacca rossa era intatto. Impostata in Francia l’8 ottobre 1837, a Montreuil Sous Bois, era diretta al generale Alexandre Charles Perrégaux, a Costantina, in Algeria. Pervenuta a Bona il 17 ottobre, non era stata consegnata. Alcune righe trasversali, una sorta di annullo frettoloso, avevano barrato l’indirizzo del destinatario. Rotta la ceralacca e spiegati i fogli, la carta apparve lucida e l’inchiostro di un nero brillante. Condannato a vivere ancora, si rivelava il fantasma intrappolato dentro quelle righe, fidente e ignaro. “Tre settimane dopo un incidente domestico, trovo finalmente la forza di scrivervi, mio caro Charles, per esprimervi tutta la mia riconoscenza per le vostre costanti e ripetute attenzioni. Sappiate, mio solo e unico amico, che il gusto della vostra bontà è pari al mio affetto per voi, che è stato e sarà l’unico sentimento della vita a pesarmi sul cuore, dove ogni battito è per voi. [omissis] 7 IL GENERALE FRANCESE PROLOGO Sarò tranquilla solo quando entrerete a Costantina... ancora di più, quando lascerete questa maledetta Africa... e verrete dalla vostra pri gioniera del cuore, che vi mostrerà la felicità di rivedervi. Non riesco più a scrivere, addio Charles, un pensiero per colei che vi ama teneramente e saprà strapparvi da ogni pericolo. Per sempre vostra. Fedora.” Tra le centinaia di lettere contenute nei nove faldoni del Fond Perrégaux, non vi era traccia di altre missive di Fedora, né cenno dei loro sentimenti, niente che potesse illuminare il volto di quella donna sconosciuta. Eppure il rapporto epistolare con Fedora era intenso: la donna già l’8 ottobre conosceva la destinazione di Costantina; il generale Perrégaux e l’Armata si erano posti in movimento per raggiungere quella città solo il primo ottobre. Il materiale d’archivio, fino a quel momento, aveva rivelato delle persone e dei luoghi quasi quanto avrei potuto vedere con i miei occhi; dopo quella lettera le ombre si erano fatte reticenti e ogni ricostruzione pareva fallace e con dati incerti. Per la prima volta consideravo che un’altra mano avesse già frugato nelle memorie, occultando quanto non doveva essere conosciuto. Solo la lettera di Fedora, mai aperta e confusa tra le carte del generale restituite dall’Algeria, era passata inosservata. Ma come mi era venuta incontro tutta questa storia ? L’estremo ingresso del Cimitero Monumentale di Cagliari, prima della via Dante, conduce alle sepolture chiamate, un tempo, degli acattolici. Sotto le ombre di alcuni palmizi, un’iscrizione in lingua francese, una pietra chiara, si cela ostinatamente alla lettura, sbiadita dal sole e dal tempo. Severa e massiccia, reca impresso, nella parte superiore tondeggiante, uno stemma nobiliare in un fine disegno di foglie di quercia e di alloro. Ai lati, due torce rovesciate. La memoria di un generale dell’Armata francese, ferito a morte in Algeria, arrivato dal mare e sepolto il 7 novembre 1837 nel cimitero del Lazzaretto di Cagliari, è affidata a poche parole. Una storia da scavare, che mette radici nell’immaginazione e conduce altrove in luoghi misteriosi e stranieri. Per chi è nato in un’isola, la rada, il porto, la spiaggia, segnano il punto più vicino di tutto ciò che è lontano. Il mare talvolta concede approdo al naufragio di una vita. La porta con sé fino a insabbiarla nei nostri lidi, e nessuno sa donde provenga, a chi sia appartenuta e dove abbia fatto naufragio. La sensazione di accostarmi a un’avventura umana singolare mi accompagnò in Francia negli archivi del Ministero della Guerra e poi a Neuchâtel, città natale di Alexandre Charles Perrégaux. Un teatro abbandonato si affollò di ombre. Contemporaneo di eventi che trasformarono violentemente il mondo, l’ufficiale sepolto a Cagliari aveva partecipato alle campagne di guerra napoleoniche, appoggiato la 8 9 IL GENERALE FRANCESE restaurazione monarchica e i tentativi autoritari dei Borboni, represso i primi moti liberali, fino alla colonizzazione dell’Algeria: un cursus honorum rapido e incalzante, nel quale si consumò vorticosamente la sua esistenza; un’ossessione implacata, quasi che la guerra coincidesse con la vita, fosse ineludibile come la vita; fino all’ultima missione in terra d’Africa, quando il sorriso spento della morte lo confuse sotto le mura di una città assediata, nell’ora più propizia, una mattina in cui nulla accadeva e il nemico era invisibile. 10 I I piedi dei marinai correvano veloci sui legni del ponte di coperta. Il tenente di vascello Pierre Auguste Jannin, comandante del bastimento a vapore La Chimère appartenente alla Marina del Re di Francia, aprí gli occhi, rimanendo disteso sulla cuccetta del suo alloggio. Dal succedersi di ordini brevi e secchi, di cui gli arrivava un’eco smorzata, capí che erano ormai in vista della costa sarda. Come se il vicino porto d’arrivo la rinvigorisse, un fremito percorreva la nave, inducendo marinai e passeggeri a salire in coperta e ad accostarsi alle murate per scrutare l’orizzonte. La Chimère era un battello particolare. Costruito per la navigazione a vela, una caldaia a vapore aveva aggiunto l’energia meccanica. Jannin ne aveva ottenuto il comando un anno prima e da allora attraversava il Mediterraneo, facendo la spola tra i porti francesi di Tolone, Marsiglia, Sète e la costa algerina. In mezzo al mare aveva maturato un silenzioso distacco che lo faceva più spettatore che partecipe della vicenda militare in corso. Le osservazioni sul carico del vascello e degli altri velieri, impiegati dalla Marina in un incessante andirivieni, lo avevano portato a contraddittorie riflessioni sulla minuta 11 IL GENERALE FRANCESE CAPITOLO I organizzazione della spedizione. Due volte al mese salpava dalla Francia. Sottocoperta erano alloggiati ufficiali e truppa dalle divise ordinate e variopinte; le stive celavano casse di armi lucide, barili di derrate alimentari, bottiglie di acquavite e tabacco trinciato. Ogni oggetto, anche il più insignificante, pareva possedere una evidente utilità, apparteneva a un ordine e suggeriva l’idea di una guerra dignitosa e pulita, per quanto lontana. I carichi del rientro smentivano quelle impressioni. Uniformi lacere e incrostate vestivano soldati pallidi. Sulle spalle giovani poggiavano teste da vecchi. Le ossa dei morti non tornavano a casa. Cosí la sensazione di un’ordinata forza in movimento si mutava nell’intuizione di uno sconosciuto e lontano disastro. L’ultimo viaggio era cominciato due giorni prima, il 4 novembre 1837, nel porto di Bona, in Algeria. La giornata era grigia. Il vento soffiava dal mare e copriva di vapore salato la faccia degli uomini. Il bastimento, prima di salpare alla volta di Tolone, aveva imbarcato trentadue passeggeri, tutti militari dell’Armata d’Africa, tra cui feriti e reduci dall’assedio di Costantina. Il molo era affollato di soldati. Arabi procedevano in fila indiana sulla passerella che collegava un veliero alla terraferma, reggendo sulla testa pelli di montone ancora fresche, su cui le mosche si avventavano in un lezzo rivoltante. Carri tirati da buoi e da muli attendevano poco lontano, in mezzo a uno sterrato sul quale turbinavano improvvisi polveroni. Un portaordini macilento, timoroso di attraversare l’oscillante passerella di legno tra la nave e la banchina, aveva recato la notizia che il generale Alexandre C. Perrégaux, ferito gravemente durante l’assedio, sarebbe stato imbarcato di lí a poco. Salirono a bordo il generale Fleury, anche lui reduce dalla presa di Costantina, il Duca di Moskova, i capitani Borel e Canrobert e altri ufficiali. Il comandante Jannin attendeva sul ponte di coperta. Indossava un ampio cappotto scuro dal bavero rialzato, guarnito da due file di bottoni un tempo dorati, i cui lembi svolazzavano al vento. Era un uomo vigoroso e corpulento. Il suo viso aveva tratti grossolani accentuati da una leggera butteratura, forse ricordo del vaiolo contratto nell’infanzia. La pelle abbronzata e precocemente invecchiata tradiva lunghe stagioni sotto il sole. A metà mattina dal barcarizzo avevano issato la lettiga ove giaceva il ferito. Il viso era scavato e giallo, attraversato da uno stretto bendaggio di lino, appena sopra gli occhi. Gli era cresciuta una barba rossiccia che non era stata più tagliata, forse per evitargli sofferenze. Le labbra socchiuse seguivano il ritmo di una respirazione affannosa. Solo gli occhi, attenti a quanto si muoveva intorno, tradivano una sensibilità integra. Lo accompagnava un chirurgo militare, avvolto in un pastrano nero aperto su un lungo grembiule bianco. Dal boccaporto spalancato arrivavano odori di vernice fresca, frammisti ai fumi della cucina. 12 13 IL GENERALE FRANCESE CAPITOLO I Quando alcuni marinai calarono la lettiga sottocoperta, l’ufficiale ferito parve raccogliere le ultime forze e, sollevata una mano dalle dita lunghe e smagrite, del colore della cera, si aggrappò a una ringhiera di legno, arrestando la discesa. Mosse le labbra in un tremito, come volesse parlare. Si accostò il medico, borbottando qualcosa, e allentò la stretta di quelle dita. La Chimère era pronta a salpare sulle acque increspate da una brezza tesa che trasmetteva al battello un dondolio nervoso. Tra le alberature e le funi correvano voci sibilanti e affrettate. Issate le ancore, scivolò fuori dal porto. Un vento soffiava a raffiche, sempre più forti e continue. Parte delle vele fu piegata, arrotolata e stretta con legature ai pennoni. Bona era ormai un punto lontano all’orizzonte, davanti era buio pesto. Le mani del timoniere stringevano con forza la ruota per mantenere la prua al vento. Nuvole nere si ammassarono da lontano e in breve drappeggiarono il cielo. In un fiotto di luce livida svaní il sole e l’aria si fece fredda. La pioggia arrivò fortissima e intermittente, facendo ribollire il mare e addensando intorno al bastimento acqua polverizzata. Al calare delle tenebre, il comandante Jannin impartí gli ordini per la rotta e fissò le comandate di servizio. Il vento, accompagnato da alti spruzzi d’acqua, urlava da padrone lungo il ponte e mozzava ogni parola sulle labbra degli uomini. Ogni tanto, nel buio impenetrabile, una grande luce fiammeggiava per pochi attimi e la nave si stagliava paurosamente inclinata, nel fragore del tuono che ne faceva tremare le connessure. Mancava poco all’alba quando, infreddolito e con la schiena dolorante, il comandante Jannin scese sottocoperta. Per non essere sbalzato sul pavimento dai bruschi movimenti di rollio, attraversò il corridoio ove si aprivano le cabine aggrappandosi alla ringhiera di ottone lungo la parete. Dalla porta socchiusa dell’alloggio del generale Perrégaux vide il chirurgo che tentava di far inghiottire al malato alcuni sorsi di medicinale. Costui, come si accorse della sua presenza, lo invitò a rimanere a distanza. Gli spiegò che la ferita alla testa doveva essersi infettata durante il viaggio di ritorno da Costantina. Purtroppo non poteva fare molto, se non cercare di sedare gli spasmi con il laudano. Jannin uscí dalla cabina, preda di una vaga sensazione di soffocamento. Non aveva più sonno e risalí sul ponte di coperta. L’aria fredda e lo sguardo indecifrabile del timoniere, perso in un punto imprecisato dell’orizzonte buio, lo rinfrancarono. Ordinò di ridurre ancora la velatura per dare forza al timone e ricevere le ondate nel modo meno violento. Nella giornata successiva, 5 novembre, le condizioni del mare peggiorarono per il moto ondoso aumentato. Nel cerchio dell’orizzonte mare e cielo si confondevano lividi, muraglioni d’acqua solcati da rughe bianche si rovesciavano sulle 14 15 IL GENERALE FRANCESE CAPITOLO I fiancate della nave che, ormai senza velatura salvo il trinchetto, rollava pesantemente faticando a mantenere la prua al vento. Sul ponte di coperta i marinai di guardia si erano legati alle alberature per non essere trascinati in mare dalle ondate e, lividi di freddo, attendevano solo di essere rimpiazzati. Sotto, nelle cabine, i passeggeri erano sopraffatti dal terrore e dal vomito. Le cuccette su cui molti giacevano erano state costruite utilizzando, come parete di fondo, il fasciame della nave. Il viso posato accanto al legno, a tratti udivano la morte sciaguattare a pochi centimetri, come soffio burrascoso proveniente da remote cavità, o gorgoglio seguito da un improvviso tonfo sordo. Un’ora dopo il tramonto sparirono le nuvole, per un vasto tratto del cielo. Jannin trafficò col sestante. Cercò pazientemente la costellazione dell’Orsa Minore e l’ultima stella della coda, la Polare. Aveva frugato il cielo infinite volte alla ricerca di quella stella e sapeva che sarebbe stata visibile a tempo debito. Misurò l’angolo verticale e conobbe l’altezza sull’orizzonte, e quindi la latitudine. Raffrontò il cronometro regolato sull’ora di Parigi con l’altro che teneva in mano e annotò la longitudine. Sopra una vecchia carta nautica tracciò due linee. Nel punto dove si intersecavano, in una lontananza perduta tra l’Africa e la Sardegna, La Chimère lottava con le onde, molto più a est di quanto lui avesse supposto. Una brusca inquietudine lo indusse a guidare fuori dalla tempesta nave e passeggeri. Fedele al mare, ne conosceva le collere improvvise e lo temeva anche quando la vasta distesa liquida si mostrava seducente, spandendo luminose sfumature dorate in un placido tramonto senza vento. Un bravo marinaio era capace di cogliere un avviso di pericolo e di trarsene fuori in tempo. Con la riga di legno tracciò una rotta fino all’imboccatura del golfo di Cagliari e ordinò al timoniere di accostare per nord ovest. A ridosso della costa sarda avrebbero trovato riparo dai venti e riassestato pennoni e armature spezzate. 16 17 La seconda notte di navigazione, dopo aver affiancato per alcune ore il timoniere alla ruota, lo sguardo rivolto al cielo per evitare che un temporale li cogliesse impreparati, Jannin discese nella cabina dove giaceva il generale. Un lume a olio dondolava, appeso al basso soffitto. Sul ponte di coperta qualcosa rotolava e le strutture di legno scricchiolavano e gemevano sotto i colpi delle ondate. Il malato aveva gli occhi sbarrati in una fissità vuota, stupefatta. Il respiro sibilante si era trasformato in rantolo. Il medico guardò il Comandante e scosse il capo. Rientrato nel proprio alloggio, Jannin attese a lungo il sonno. L’orologio da tasca ticchettava nel buio. Il rantolo, nella cabina IL GENERALE FRANCESE CAPITOLO I accanto, aveva improvvisi abbassamenti di tono, rimaneva sospeso in una pausa lunghissima che ogni volta pareva l’ultima, poi riprendeva in un faticoso affanno. Accese una candela che teneva per abitudine accanto alla cuccetta e la fiamma vacillò, come se un’improvvisa corrente si fosse insinuata nel piccolo ambiente. Lo svegliò, intorno alle due del mattino, l’odore del fumo proveniente dalla candela appena spenta e, nel buio, avvertí il silenzio profondo e immutabile che gravava sulla nave. Bussò con un po’ d’incertezza alla porta dell’alloggio del generale e, non avendo udito risposta, spinse lentamente l’uscio. La differenza tra il riposo e la morte è labile, ma quando entrò nella cabina il comandante Jannin sapeva di averla innanzi. Il corpo di Alexandre C. Perrégaux giaceva composto nella cuccetta. Rimosse le lenzuola sudice dell’agonia; l’uniforme azzurra, senza altri fregi che i gradi sulle spalle, si piegava sulla sua magrezza, restituendogli una dignità stanca e stremata. Il viso, maschera scavata d’avorio, era reclinato indietro penosamente. Due o tre ufficiali vegliavano ritti negli angoli bui, mentre la cabina si riempiva di basse voci. Il lume appeso al soffitto, oscillando ai movimenti della nave, mutava le ombre sul volto del morto. A momenti ne ravvivava lo spento pallore e le palpebre semichiuse prolungavano l’impressione di una vita non ancora spenta. La notizia della morte del generale Perrégaux attraversò rapidamente la nave. Nel castello di prua, mentre l’alba rivelava un orizzonte con ampi squarci tra le nuvole, la ciurma parlottava. Avviluppavano gli uomini ricordi di viaggi lontani, le ombre dei morti di febbri strane, poi cuciti nel telo di una vela e consegnati in fretta al mare, con un buon peso ai piedi. Il nostromo raccontò di un ufficiale sepolto nel golfo di Biscaglia, nel mezzo di una bonaccia che sfiancava l’equipaggio. La sera il sacco bianco che lo conteneva galleggiava ancora intorno alla nave. Una superstizione improvvisa li portò a considerare la tempesta appena passata e il morto, quasi che costui fosse stato la ragione luttuosa di quel pericolo e di chissà quali sciagure a venire. In quel mentre apparve sul ponte il volto stralunato del medico. A gran voce, come spaventato e rivolto a un interlocutore inesistente, sollecitò la presenza del comandante della nave e dei più alti ufficiali presenti a bordo. Macchie verdastre e lividi gonfiori avanzavano sul cadavere assieme a un odore aggressivo. Asciugandosi con una pezzuola il sudore che gli imperlava la fronte, il medico chiese un seppellimento in mare, senza indugio. Il generale Fleury lo fissò come se non volesse credere a ciò che aveva sentito. Poi si allontanò di qualche passo ed ebbe un moto di stizza. Tra gli ufficiali cominciò una strana conversazione. Le voci si mescolavano o si interrompevano di colpo, lasciando un 18 19 IL GENERALE FRANCESE CAPITOLO I silenzio incerto. Qualcuno domandò quanto distasse la terraferma. Jannin osservò il mare. Il vento era calato e stimò che il battello poteva raggiungere il golfo di Cagliari in mezza giornata di navigazione. I presenti udirono il generale Fleury ordinare al comandante di interrompere la navigazione per dare sepoltura a Perrégaux. Il medico si allontanò scrollando le spalle. La morte va e viene tra le onde e induce i marinai a scongiurarne la presenza a bordo. Per il comandante Jannin il morto gravava sulla nave come un fardello ingiusto. Poco più tardi, davanti a una cassa di legno grezzo appena fabbricata, il maestro d’ascia attendeva. Quattro uomini sollevarono i capi del lenzuolo che conteneva il corpo del generale Perrégaux e lo adagiarono dentro la bara. Jannin indicò il coperchio di legno, poggiato su una parete della cabina, e ordinò di sigillare in fretta, dentro la cassa, il rancido tanfo della morte. “Poteva anche morire da un’altra parte” borbottò allontanandosi. Dopo l’avvistamento della costa sarda, il 6 novembre 1837, ristorato dal breve sonno e col pensiero rivolto ai nuovi compiti che lo attendevano, Jannin salí sul ponte di coperta. Fu investito dalla brezza marina fredda e pungente. Molti gab- biani si avvicinavano al bastimento con rauche strida, accompagnandolo in larghi giri. La nave filava ora con buona parte della velatura dentro un golfo vasto e quieto, e un semicerchio di montagne azzurre, nella sera che calava, sembrò lentamente chiudersi dietro la sua scia. A dritta, appena doppiato un promontorio scosceso, si delineò a perdita d’occhio una lunghissima striscia opalescente, al confine tra la terra bassa e il mare ormai scuro, per alcune miglia di sabbia bianchissima. Ancora durava la contemplazione di quel tratto di costa, e un secondo promontorio scivolò incontro a La Chimère. Uno sperone di roccia lo sovrastava. Come il battello si accinse a doppiarlo, ruotò con silenziosa grandezza davanti alla folla di passeggeri accalcata alle murate rivelando, sotto la punta di pietra, una brusca discesa del terreno che poi risaliva formando un’aspra gobba rotonda. La città apparve alta, ripida e solitaria, protesa verso un cielo di fuoco ricacciato dietro bastioni fortificati, torri bianche e cupole di chiese che il sole del tramonto fasciava con una tonalità di rosa. Sotto, davanti al molo, una miriade di barche. Arrivavano soffi di legno fresco, di pece per calafatare gli scafi, sentore di alghe marce, assieme al fumo di fuochi accesi agli usci delle case. Il vascello issò i segnali all’albero di mezzana e si fece riconoscere come bastimento della Marina francese. Le vele furono serrate, salvo la randa e il fiocco. Un marinaio corse a prua e cominciò a 20 21 IL GENERALE FRANCESE CAPITOLO I filare la funicella dello scandaglio gridando, a brevi intervalli, la profondità rilevata. Il vento era scemato e la nave avanzava lentamente, fendendo l’ombra azzurra della sera in un lieve fruscio d’acqua. Una guardia fu spedita alla ricerca del Console francese. Sul dorso di un asinello, con i piedi che sfioravano la terra, si avviò verso i bastioni della città vicina, pallida di luci tremolanti. Sciami di falene e zanzare si addensavano vorticando intorno alla luce gialla di una lanterna appesa all’ingresso del Commissariato di Sanità, in prossimità del molo. Due guardie, dai capelli neri e dai volti chiusi, giocavano ai dadi, sedute davanti all’edificio, mentre altre facevano cerchio motteggiando. Dentro uno stanzone spoglio, dal pavimento in terra battuta e le pareti imbiancate di calce, le mani del Commissario trattennero a lungo i documenti di bordo del vascello. Un viaggio dall’Africa alla Francia interrotto, all’apparenza, senza validi motivi, un morto nella stiva, il colera segnalato nel porto di provenienza. Il Commissario osservò perplesso quell’ufficiale della Marina del Re di Francia apparso inaspettatamente. Si passò la mano sul mento alcune volte, poi, occultando sospetto e malumore con l’obbedienza alle prescrizioni sanitarie, impose la quarantena a tutte le persone imbarcate sul bastimento. Estratto un foglio dal cassetto di un tavolo, intinse la penna nell’inchiostro e compilò una breve nota che chiese al comandante Jannin di sottoscrivere. Nel Civico Teatro di Cagliari che sorgeva davanti alla porta dei Leoni, a lato di Palazzo Boyl, andava in scena quella sera I Puritani, un’opera lirica in tre atti di Bellini, ultimo canto del Cigno Catanese, come la definí in quei giorni il critico musicale de “L’Indicatore Sardo”, un periodico locale. Nobiltà e popolo attendevano in un eccitato brusio l’inizio della musica, mentre l’orchestra accordava gli strumenti nel rincorrersi di note brevi e dissonanti. I signori dei feudi occupavano le due file superiori dei palchi, un universo distante che osservava dall’alto e sempre dall’alto si mostrava immobile e superbo, come in una composta liturgia. Avevano nomi altisonanti e titoli pomposi: Aymerich di Laconi, Manca di Villahermosa, Sanjust di Teulada. Campi di terra dura e riarsa e la fatica e il sudore dei contadini, che su quelle terre avevano piegato la schiena e condiviso la fame, si erano incrociati con i loro destini. In virtù di una singolare tradizione ciascun palco era assegnato a una dama che, precorrendo impensabili smanie di emancipazione, appariva 22 23 IL GENERALE FRANCESE CAPITOLO I come capo famiglia. Nel 1789 il numero delle dame patrizie aspiranti a un palco a teatro crebbe notevolmente, superando quello dei palchi: molte sarebbero finite nel loggione, quando la sorte non avesse voluto favorirle. Impossibile accontentarle tutte, il Luogotenente Regio aveva proposto di occupare in due uno stesso palchetto, ma senza risultato. Altro suggerimento prevedeva l’estrazione a sorte dei palchetti, ma non ci fu verso. Gli uomini si erano defilati dalla contesa, forse apprezzando che le mogli sfogassero in teatro istinti bellicosi. Il Luogotenente, persa la pazienza, aveva ordinato che tutto procedesse come nel passato e che i palchi spettassero a chi li aveva occupati nella precedente stagione. Aveva scritto quindi al Re, indicando nel sorteggio tra tutti i palchi disponibili la possibile soluzione. La trovata era passata alla storia col nome di insaccolamento promiscuo. Vittorio Amedeo III, mentre a Parigi il popolo si impadroniva della Bastiglia, aveva trovato il tempo di comporre la vertenza muliebre, accogliendo la proposta del Luogotenente. La rivolta teatrale era stata cosí sedata. Quella sera i lineamenti grevi dei volti dei nobili, appesantiti dagli sguardi stanchi e annoiati, a momenti erano mitigati da un lampo di sarcasmo, forse provocato dalla commiserazione per il nuovo che avanzava. L’anno prima avevano perso i feudi, ma poco male: Carlo Alberto aveva accollato ai Comuni, cui erano state cedute le terre, l’onere degli indennizzi, calcolati con indulgente larghezza. La giurisdizione civile e penale erano state avocate allo Stato e perfino il boia, in quell’inattesa ventata di progresso, aveva dovuto rinunciare a taluni arnesi. Le cosiddette esemplarità che accompagnavano l’esecuzione della pena capitale – squartamento, abbruciamento dei quarti e appiccamento della testa al patibolo, ma anche la marchiatura col ferro rovente, la bastonatura, la mutilazione della mano destra – erano state abolite. Visto dai palchi del Teatro Civico, l’antiquato regime pareva dovesse durare ancora, imbalsamato, sino alla fine dei secoli. Si alzò il sipario. La scena rappresentava il piazzale interno di un castello: a destra e a sinistra guerrieri armati, sullo sfondo le torri grigie. L’amore contrastato fra Arturo ed Elvira, al tempo delle contese civili nell’Inghilterra di Cromwell, avrebbe di lí a poco animato il palcoscenico. Nel teatro si fece silenzio e la musica attaccò con la cavatina di Colini (Riccardo) Ah per sempre io ti perdei, che ottenne numerosi applausi e la chiamata sul proscenio. Cosí pure applausi e chiamate ebbero Balzar (Giorgio) e la Pastori (Elvira) nel duetto Oh amato zio, o mio secondo padre. Piacque il delizioso quartetto della sortita di Ricciardi (Arturo) A te o cara, amor talora, ma non fu applaudito. A Cagliari un ben concertato andante, un poetico largo venivano ascoltati con diletto, ma i clamorosi segni di approvazione erano riservati alle cabalette, semplici e incisive con uniformi ritorni ritmici. 24 25