Pagine da NON SPARATE SUL CANTAUTORE
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Pagine da NON SPARATE SUL CANTAUTORE
Tu quante persone hai al seguito? «Undici. Io presento al mio pubblico un’azienda di undici persone. Prendi un tassinaro: per fare cinquanta chilometri quanto ti prende? 40.000 lire. Giusto? Per spostarsi di seicento chilometri ti prende 500.000. Giusto? Noi di tassinari ne abbiamo undici. Quindi il nostro prezzo, 1.500.000, è un prezzo coerente: siamo un’azienda di undici persone che fa spettacolo.» Ma esiste una scuola romana dei cantautori? «La mania è nata da quelli di Milano, che, convinti che esisteva una scuola di Roma, hanno inventato una scuola di Milano: ma a Roma non c’è mai stata. Scusa, ci si ritrovava ogni tanto a suonare al Folk Studio una canzoncina, però alla fine a scrivere le canzoni eravamo ognuno a casa nostra. Sì, ci si vede ogni tanto, ci si telefona, ciao Antonello, andiamo a mangiare insieme? E si parla di calcio.» Francesco De Gregori Lo chiamano il Principe. Il mio guaio è che questa intervista si fa nella solita osteria di Trastevere. E beviamo di brutto. E la storia siamo proprio noi, ma soltanto quando beviamo, quando ci togliamo la maschera. E dunque le sue parole non sono proprio da sangue blu della musica leggera, ma da cantastorie. Parliamo del tuo ritorno in pubblico… Dopo due anni di completo silenzio, hai inciso un nuovo disco. Perché? «Insomma, ci sono delle scadenze discografiche. Per un anno io non mi sono sentito di rispettarle. Avrei dovuto far uscire un disco esattamente un anno fa, però non avevo le canzoni belle abbastanza, da farlo uscire. Ne avevo due-tre, che poi sono uscite adesso. Le altre le ho scritte nell’anno che è venuto dopo. Sono stato molto a casa, a Roma. Mi sono messo a leggere libri, sono andato al cinema, ho visto degli amici; mi sono fatto nuovi amici, ho lasciato vecchi amici, quelli che normalmente si lasciano, che lasciamo tutti. In realtà io non saprei dirti cosa ho fatto in questi due anni. Ho fatto delle cose estremamente normali. Cioè, pensavo che tra tre-quattro anni avrei fatto un altro disco, però non pensavo che ne avrei fatto uno subito. Poi ho scritto questa canzone, Generale, non so bene perché… E questa cosa m’ha dato una 162 verifica. L’ho fatta sentire a un amico che stava per caso qui, dentro casa. Il mio amico ha detto “è bella”, ma tanto io lo sapevo che era bella e che mi piaceva, e allora, da quel momento, mi sono detto “facciamo un disco” e ho rimesso insieme un po’ tutto quello che avevo, tutto quello che non avevo scritto ma che avevo in testa, varie idee, perché uno le pensa le cose anche nell’arco di due anni e le lascia stare dentro la testa. E in tre-quattro mesi ho scritto un sacco di roba, addirittura ho dovuto tagliare due-tre pezzi da questo disco, registrati e poi levati. Ho sempre scritto canzoni, solo che lo facevo con grande distacco. Le scrivevo e poi dicevo: sì, ma non me ne frega niente. Sì, però va bene per farle sentire ai miei amici, ma non mi va di farla pubblica, perché… È poi non so, dipende dalla canzone in generale o in particolare, oppure dipende da un mio cambiamento di mentalità nei confronti di questo pubblico fantomatico, ma alla fine ho deciso che invece no, questa è una canzone che voglio far sentire anche a quelli che non conosco di persona e allora facciamo un disco. La Rca era contentissima e anche questo conta. E il mio mestiere è quello di fare dischi, in definitiva.» Parliamo del concerto in cui fosti contestato. «Il concerto del pomeriggio fu un concerto strano, perché c’era un pubblico molto giovane, tutto educato, seduto… Non direi nemmeno che fu un bel concerto, fu un concerto. La gente presa così, in maniera abbastanza passiva. Paragonata a quello della sera, fu un bel concerto. La sera fu un casino spaventoso, anche perché venne fatto con le luci accese in sala. Il Palalido di Milano è allucinante, come posto. Acustica pessima, c’era molta gente e c’era una tensione…» Le luci accese in sala perché c’erano delle avvisaglie? «Perché c’erano avvisaglie… Gli organizzatori avevano paura.» Non credo per il prezzo del biglietto. «Costava 1.500 lire, quindi non credo che fosse per il prezzo del biglietto. Però la sera prima eravamo a Pavia; anche lì il biglietto era a 1.500 lire e anche lì buttarono giù il palasport, era tutto di vetro. Sfondarono tutto.» Anche lì senza motivo? «Per me è stato un episodio violento proprio perché incomprensibile. Alla fine se uno mi dà un pugno e io so perché me lo ha dato, questo mi fa meno male di uno che mi dà un pugno e non riesco a spiegarmi il perché.» Insomma, tu eri già abbastanza scosso da questa cosa di Pavia. «Ero un po’ innervosito, mi rendevo conto che c’era qualcosa di strano. Pavia era il primo, Milano il secondo. Quindi questo concerto 163 con questo palalido stracolmo, io ero in una situazione strana perché era la prima volta…» Che pubblico c’era? «C’era un pubblico abbastanza ben disposto, entusiasta. Era il primo concerto dopo il successo di Rimmel, quindi la gente non mi aveva mai sentito prima.» Tranne la tournée estiva dell’anno prima… «Sì, però il disco non era andato ancora così bene, cioè durante l’estate non avevo avuto successo di massa, decretato dalla classifica. Il disco andava bene, ma insomma non era il primo disco in classifica. Invece il concerto a Milano fu fatto quando il disco stava in classifica da quaranta settimane. Quindi per me era una sensazione strana. Ero a disagio anche per questo. Era una soddisfazione, però una cosa talmente nuova che non sapevo nemmeno come comportarmi. Vedevo la gente che applaudiva appena io entravo sul palco, cosa che non era mai successa prima. Prima che io cantassi applaudiva, poi c’erano queste luci accese. Poi era la prima volta che suonavo con un gruppo perché prima, per esempio, suonavo sempre solo con la chitarra. Quindi da una parte ero eccitato e contento di questi musicisti che suonavano con me, d’altra parte ero preoccupato per le prove… Sai era la seconda serata quindi non ero ancora ben pronto, insomma avevo anche dei problemi musicali, di resa musicale. Però tutto sommato, il concerto andò, per quanto possibile, bene, in questa bolgia di questa eco brutta, queste vetrate, queste luci accese in sala…» Queste luci accese in sala chi lo aveva deciso, la polizia… «No, la polizia non c’era proprio, è stata l’organizzazione.» Vuoi chiarirla in modo definitivo? «Sai per me rimane un episodio abbastanza lontano, io sono molto tranquillo. Innanzitutto fu un’aggressione non fu una contestazione, chiariamo i termini. La contestazione è quando tu prendi una persona e gli contesti delle cose, per esempio, tu hai fatto questo, questo e quest’altro; perché, hai fatto male. Un’aggressione è quando io ti prendo a cazzotti e ti dico che sei stronzo… Quella fu un’aggressione, cioè non ci fu nessun dialogo, nessun tentativo di chiarire le mie posizioni rispetto alle posizioni di quelli che erano venuti sul palco. Comunque voglio dire che fu un episodio che mi ha addolorato molto, mi ha fatto star male, ma adesso dopo due anni mi sembra superato anche alla luce di tante cose gravi che sono successe, che stanno succedendo in tutta Italia, a livelli più importanti di quello della musica. Allora poteva anche essere una novità per me che ci fosse questa violenza, adesso no, non 164 Francesco De Gregori 165 mi stupisco più. Fu uno dei primi sintomi di tutta una serie di violenze che dovevano coinvolgere il mondo dei giovani.» Ritieni che ciò che è accaduto a Milano fu una cosa organizzata? «Ma non lo so… Io penso che un po’ sia dipeso anche dal tipo di canzoni che facevo io… Non diciamo politiche perché io di canzoni politiche in senso stretto non ne ho mai fatte. Le mie canzoni parlavano di problemi che riguardavano i giovani, quindi è stato facile pretendere da me o fingere di pretendere da me che pagassi la gente perché venisse a sentirmi, oppure che io dessi completamente l’incasso dei miei concerti a uno dei tanti gruppi di estrema sinistra, non lo so… E questa una cosa che io non reputavo giusta allora e non reputo giusta neanche adesso.» E oggi cosa è scattato? «L’età, direi l’età. Nulla di fondamentale nella mia vita, di diverso da prima. È proprio il fatto che uno cresce, gli spunta la barba. O cresce o invecchia; un’evoluzione oppure un’involuzione. Non so, comunque uno cambia. Fare un disco è molto difficile, me ne rendo conto ogni volta che ne faccio uno. Un disco deve avere uno standard di lettura, deve avere una chiave di interpretazione. Invece vomitare semplicemente delle proprie esperienze e metterle su un pezzo di carta o su un pezzo di plastica così nude e crude, può essere molto onesto dal punto di vista di rispecchiare se stesso, però è meno onesto quando tu pensi di comunicare agli altri. Devi trovare un linguaggio, ecco. Forse, prima di Rimmel, manca il linguaggio nei miei dischi; da Rimmel in poi c’è, più o meno grezzo, infelice certe volte, però c’è una lingua, una strada. La gente ha scoperto De Gregori con Rimmel, perché era il momento e perché il disco era più piacevole all’ascolto. C’era un complesso che suonava dietro ma soprattutto perché era il momento, era molto divertente. Comunque fondamentalmente la gente l’ha scoperto perché non aveva niente di meglio da fare. Voglio dire che nessuno compra un disco per una ragione precisa o per una ragione profonda, per una necessità vitale. Bisogna un po’ ridimensionare la musica, i dischi, la vendita dei dischi; la gente sente la musica perché non ha niente altro da fare. Secondo me è così. Anche quelli che comprano i libri. Non è come andare alla partita di pallone; la partita di pallone è una necessità a un certo livello, invece i dischi sono una cosa in più. La partita di pallone o la manifestazione in piazza sono manifestazioni umane, vitali, mentre il disco lo compra chi non ha niente di meglio. Capisci quello che voglio dire… C’è gente che compra il disco perché se lo 166 va a cercare, perché ama quel tipo di musica, perché se lo studia, oltre che ricavarne un piacere. Però questa è la minoranza, gran parte della gente che compra un disco che riesce a vendere più di 50.000 copie, secondo me se lo compra perché non ha nulla da fare…» Oltre questo cambiamento che è venuto con l’età, tu ti senti diverso rispetto a due anni fa, non parlo solo come musicista e come compositore, ma come Francesco De Gregori… «Io non lo so. Se rivedo com’ero, mi rivedo più agitato, più insicuro, più ansioso; adesso ho rinunciato a molte cose e ne ho acquistate altre, soprattutto ho acquistato una serenità mia, mi sento abbastanza autosufficiente e questo è bello, autosufficienza in senso emotivo, sto bene da solo, e sto bene con gli altri e vedo molta più gente che non due anni fa. Due anni fa vedevo solo gente per lavoro, tutta gente che mi ricordava quello che io cantavo, quello che io scrivevo; adesso, per esempio, è un’eccezione vedere passare una sera a parlare del mio lavoro. Adesso io sono uno che fa questo strano lavoro di scrivere le canzoni e che poi, a parte questo… so quale è il mio lavoro, e quale è la mia vita normale; due anni fa forse non lo sapevo, pensavo che il lavoro fosse divertente e che la mia vita fosse un lavoro. Sbagliavo completamente.» Ora la dimensione vera tua, è questa… «Diciamo che questa è una dimensione molto comoda, per cui un po’ è già mia, un po’ cercherò di farla sempre più mia. Mi ci trovo bene, perché vedi, quando cominci a capire che scrivere una canzone non è solamente vomitarla fuori, ma fa anche parte del tuo lavoro, tutto sommato non è che ami di meno la canzone, ma ami senz’altro di più il tuo lavoro, perché lo identifichi come lavoro. È più dignitoso, diventa meno demoniaco, meno presuntuoso, e poi ho la fortuna di fare un lavoro che mi piace, anche se non è un lavoro riposante, però è bello, meglio che fare l’impiegato alla Camera dei deputati.» Usciamo sbronzi da Trastevere e il Principe mi saluta, mi giura eterna riconoscenza e se ne va barcollando. Lo rivedo due giorni dopo. Un giovane cantautore, dai modi di un dolce pedagogo, mi attende con ansia da lontano, in piedi nella campagna romana, come in una apparizione. Indossa blue jeans della generazione passata e le scarpe da tennis della prossima, sta perdendo i capelli come un giovane poeta degli anni Cinquanta e ha indosso una sfrontata maglietta a righe rosse e blu comprata in qualche boutique per hippy di plastica: è ancora lui, Francesco De Gregori, dalla barba d’un rosso longobardo e l’andatura 167 d’uno studente della struggente piccola borghesia. Tutto intorno è Roma, con le nuvole barocche alte nel cielo e piccoli monumenti di luminosità gialla sui monti lontani, opachi. È estate, e De Gregori è in questa pianura screziata, fuligginosa, periferica, accanto allo stabilimento della Rca dalle bandiere color Coca-Cola alte nel vento: ed è come se fosse sospeso a un attaccapanni, trasparente, mentre mi guarda scendere dal mio motorino Ciao con qualche sua leggera angoscia verso le interviste, la stampa, i giornalisti: che cosa possono volere da lui? Un sopravvissuto… Poi l’incontro, così caldo come tra due qualsiasi dei dodici apostoli, incerti per la mancata resurrezione di Gesù… Lentamente ci avviamo alla solita trattoria fuori porta per addetti ai lavori, dove un cameriere dai lineamenti popolari d’uno zingaro infelice ci propone come antipasto delle mozzarelle… De Gregori: «Cameriere, sia sincero: mi dica da quanti giorni queste mozzarelle sono nel frigorifero… Io lo so che le mozzarelle si possono conservare nel frigo dei ristoranti per mesi…» «Be’, guardi, sarà un cinque giorni.» «Ecco, la ringrazio per la sincerità: allora mi porti prosciutto e melone.» Così comincia il nostro incontro alla vigilia della nuova tournée di Francesco – al Picchio Rosso in Emilia, poi l’Altromondo, infine allo stadio Flaminio con Dalla – che conclude un’epoca, un mito, due estati e due inverni di teorie, di pietre e di miele. Personaggi e interpreti di questo caldo pomeriggio romano: Francesco De Gregori, Michele Mondella (produttore della Rca), Pierleoni (ufficio stampa), Cremonini (agente musicale e organizzatore dei nuovi concerti di De Gregori). De Gregori (mangiando il melone): «Tu mi racconti di Guccini comparso su una copertina di “Grand Hotel”, ma io mi ricordo Mino Reitano a fianco di Frank Sinatra… in vestaglia. C’era questa copertina con Mino Reitano accanto a Sinatra, e Reitano aveva in mano tutti i suoi dischi: tramite amici degli amici combinarono questo incontro con Frank Sinatra, quindi Reitano, emozionatissimo, prese i suoi dischi e andò da lui. Ma Frank Sinatra non ha mai capito un cazzo di quello che è successo: lui dormiva, poi lo svegliarono, arrivò Reitano che disse: “my records…” due minuti, tac tac, e lo fotografarono in vestaglia.» Questi giornalisti sono terribili… «Anche il sistema di parlare di De Gregori intervistando Paoli, Venditti, Lauzi chiedendo cosa ne pensano di me è abbastanza fallimenta168 re. Se dovete parlare di me dovete parlare delle canzoni, non di Finardi che fa i giochetti alle radio libere per sapere chi capisce i miei testi… O Venditti che dice che ho fatto questo disco per fare i soldi… Ha un taglio scandalistico. Accetterei piuttosto che mi dicessero: le tue nuove canzoni sono tutte delle stronzate. A me è sempre successo questo: delle mie canzoni non ha mai parlato nessuno. Amato, difeso, attaccato, ma nessuno che sente le mie canzoni. Molti giornalisti sono degli improvvisati, il critico cinematografico se deve parlare di un regista parla dei suoi film, non di quanto guadagna. E forse dopo averli visti.» Come ti spieghi tutto questo? De Gregori: «Manca una scuola che parli con cognizione di causa, con umiltà e curiosità.» Cremonini: «Occorre una critica dura, spietata, ma su quello che uno produce. È chiaro che c’è un aspetto sociologico, ma è un discorso a parte, non va mischiato. Francesco è sempre stato comunista, ha sempre votato per il Pci…» De Gregori: «Questo non c’entra un cazzo. Io per esempio, come lettore, dall’“Unità” mi aspetto un certo tipo di analisi diverse dai giornali che parlano di musica per fare dello scandalo o della moda: invece ho letto degli articoli anche sull’“Unità” che parlavano di Dylan non come di uno che tutto sommato per dieci anni ci ha dato qualcosa, ma di questo Dylan ormai vecchio che viene in Europa per rifarsi con la tournée dei soldi che ha perso con il suo ultimo film: non ce ne frega un cazzo. Devi parlare di Dylan, parla delle sue canzoni, del suo ultimo disco, di che è brutto, di che è bello, ma non veni’ a di’ quanto guadagna. Che cazzo me ne frega? Mi sembra stronzo come discorso.» Però, nel tuo caso, il tuo silenzio per due anni ha influito, s’è sovrapposto come immagine sociologica e di costume alla tua produzione… Questa tua immagine chiacchierata… «Certo, chiacchierata. Se chiacchiera a “Sorrisi e canzoni” non mi posso stupire, ma se, per esempio, chiacchieri tu sull’“Unità”…» Tutta la sinistra chiacchierava. «Dipende da cosa intendi tu per sinistra. Se la sinistra è “Linus”, lasciali chiacchierare… “l’Unità” vorrei vederla un attimo più attenta. Sono convinto che le canzonette sono un fatto di costume importante, che condizionano certi modi di pensare dei giovani, quindi bisogna parlarne molto, e con serietà, non snobbando. Invece “l’Unità” ti snobba. Bennato vende 500.000 copie, parla a 20 milioni di italiani, condiziona la gente. Non è un fenomeno di cui si possa ironizzare riducendo 169