M.Tavoni Dante

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M.Tavoni Dante
LETTURE CLASSENSI
Volume 41
Dante e la lingua italiana
a cura di Mirko Tavoni
LONGO EDITORE RAVENNA
ISBN 978-88-8063-753-0
© Copyright 2013 A. Longo Editore snc
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Printed in Italy
Premessa
Questo breve ciclo di letture classensi illustra il tema generale Dante,
il linguaggio e la lingua italiana toccandone alcuni aspetti meno noti e
rinfrescandone altri più canonici grazie a nuovi punti di vista.
La prima lettura sintetizza qualche risultato saliente del lungo studio dedicato da Mirko Tavoni al pensiero linguistico di Dante. In particolare, i contrapposti concetti di volgare e di latino vi ricevono
un’interpretazione nuova, che supera la presunta contraddizione fra
l’idea di latino come gramatica, lingua artificiale internazionale, e
l’idea di latino come «lingua nostra», lingua di “noi” Latini cioè di noi
Italiani; e mette invece in evidenza il solidale primato che tanto il latino quanto il volgare conferiscono all’Italia in una prospettiva imperiale già elaborata nel De vulgari eloquentia, diversi anni prima che
Enrico VII si affacci all’orizzonte. A ciò si aggiunge una riflessione
sul ruolo che il latino come lingua onirico-oracolare gioca negli psicodrammi messi in scena nella Vita nova, e che riemerge nella battuta
di esordio dell’allocuzione di Cacciaguida nel XVI del Paradiso: una
sorta di trasfigurazione psichica del latino come varietà alta, e altra rispetto al linguaggio naturale, della diglossia.
La lettura di Claudio Giunta è anch’essa il distillato di una lunga
fedeltà, quella prestata dallo studioso alla lirica di Dante. Qui “linguaggio della lirica amorosa” è interpretato essenzialmente come retorica della lirica amorosa: Giunta mostra, su una campionatura
essenziale di testi, come si traduca in pratica il motto «“i’ mi son un
che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro
vo significando”» (Pg XXIV 52-4): cioè attraverso quale messa in
scena dell’io, e conseguentemente attraverso quale lessico e quali strategie testuali, Dante rivoluzioni l’assetto della lirica cortese, aprendo la
strada a Petrarca.
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Premessa
Rita Librandi, la maggiore esperta di “scienza volgare” dei primi
secoli, affronta il rapporto di Dante con il linguaggio scientifico mettendo a confronto la testualità, ancora alquanto stereotipa, dei principali trattati volgari due-trecenteschi di astronomia con l’organizzazione
sintattico-testuale del Convivio, e poi con la scienza calata in poesia
della Commedia. Il confronto fa risaltare la ben diversa originalità della
scrittura dantesca, che già nel Convivio non si pone nell’ottica del volgarizzamento ma in quella più ambiziosa dell’elaborazione filosofica
originale, in rapporto diretto e di emulazione con le fonti latine dell’aristotelismo e della Scolastica e coi prosatori antichi, sperimentando
modalità argomentative tutt’altro che ripetitive; e infine fonde anche la
componente scientifica entro l’onnicomprensiva latitudine semantica
del poema sacro.
Lorenzo Tomasin, infine, ripercorre la storia della parola italiano e
delle parole circostanti a partire da Dante su su per i secoli successivi,
producendo un originale inquadramento di Dante come “padre” non
solo della lingua italiana ma anche dell’idea di lingua italiana; e, con
il De vulgari eloquentia, come ricorrente punto di confronto, per lo
più scandaloso, per la “questione della lingua” militante fino all’Ottocento. Inoltre Tomasin rilancia il confronto fra teoria e prassi linguistica
di Dante, commisurando le idee del De vulgari con la lingua della
Commedia, per tentare di verificare quanta discontinuità o quanta continuità ci sia fra le prime e la seconda: una prospettiva di ricerca ristretta alle forme garantite dalla rima, essendo molto problematica, in
assenza di autografi, la veste linguistica del poema quale ci si presenta
attraverso i rami settentrionali e fiorentini della sua tradizione.
Questo volumetto si presenta dunque come una introduzione alle
idee linguistiche di Dante, alla loro secolare proiezione nella “questione della lingua”, e ad alcuni aspetti della lingua prosastica e poetica di Dante: una introduzione agile ma aggiornata e ricca di spunti
originali.
Mirko Tavoni
MIRKO TAVONI
Università di Pisa
CHE COSA ERANO IL VOLGARE E IL LATINO
PER DANTE
(6 ottobre 2012)
1. Il concetto di volgare e il concetto di latino1
È abbastanza comunemente noto che Dante, come tutti al suo
tempo, aveva un’idea molto diversa dalla nostra su che cosa erano,
nella loro essenza, il volgare e il latino; e di conseguenza un’idea
molto diversa dalla nostra circa il rapporto storico che intercorreva fra
l’una e l’altra lingua.
Dante era lontanissimo dal concepire ciò che per noi è ovvio, cioè
che il latino era la lingua parlata da tutti, diciamo in Italia, nell’antichità; così come il volgare (con ciò intendendosi la somma dei volgari
esistenti all’epoca) era la lingua parlata da tutti, in Italia, al tempo di
Dante; ovvero che entrambe le lingue, ognuna all’epoca della propria
fioritura, erano, come diciamo oggi, lingue storico-naturali; e che il
volgare derivava dal latino, cioè che risultava dal secolare processo di
trasformazione del latino come lingua parlata, gradualmente verificatosi attraverso l’ininterrotto tramandarsi del linguaggio da una generazione all’altra fra la Tarda Antichità e il Medioevo; il che siamo
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Per un approfondimento delle idee qui sintetizzate mi permetto di rimandare
al mio commento al De vulgari eloquentia, in DANTE ALIGHIERI, Opere, edizione diretta da M. SANTAGATA, I, Milano, Mondadori (I Meridiani), 2011, pp. CCXICCXXXV (Introduzione), 1067-1547 (Testo, traduzione e commento), e a un paio
di altri miei lavori: Volgare e latino nella storia di Dante, in Dante’s Plurilingualism: Authority, Knowledge, Subjectivity, Ed. by S. FORTUNA, M. GRAGNOLATI and
J. TRABANT, ICI Berlin Institute for Cultural Inquiry, 2-4 april 2009, Oxford, Legenda, 2010, pp. 52-68; e Il concetto dantesco di “unità” linguistica e le prime intuizioni di una “nazione” italiana, in Pre-sentimenti dell’Unità d’Italia nella
tradizione culturale dal Due all’Ottocento. Atti del Convegno di Roma, 24-27 ottobre 2011, Roma, Salerno Editrice, 2012, pp. 23-48.
Letture Classensi 41, giugno 2013
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anche abituati a rappresentarci attraverso le metafore della lingua latina come lingua-madre e del volgare come lingua-figlia (anche senza
spingerci alle metafore conseguenti, che pure ci sono familiari, per
cui diciamo che l’italiano è una lingua viva mentre il latino è una lingua morta).
Il primo capitolo del De vulgari eloquentia definisce nei termini seguenti, con estrema lucidità, le nozioni di latino e di volgare, nozioni
che erano condivise al tempo di Dante, ma che non troviamo focalizzate con altrettanta nitidezza in nessun altro testo coevo. Ed è evidente
che queste nozioni sono del tutto diverse dalle nostre (I i 2-5):
(2) Sed quia unamquanque doctrinam oportet non probare, sed suum
aperire subiectum, ut sciatur quid sit super quod illa versatur dicimus,
celeriter actendentes, quod vulgarem locutionem appellamus eam qua
infantes assuefiunt ab assistentibus cum primitus distinguere voces incipiunt; vel, quod brevius dici potest, vulgarem locutionem asserimus quam
sine omni regula nutricem imitantes accipimus. (3) Est et inde alia locutio secundaria nobis, quam Romani gramaticam vocaverunt. Hanc quidem secundariam Greci habent et alii, sed non omnes: ad habitum vero
huius pauci perveniunt, quia non nisi per spatium temporis et studii assiduitatem regulamur et doctrinamur in illa.
(2) Ma, poiché nessuna dottrina ha l’obbligo di dimostrare l’esistenza e
l’essenza del proprio soggetto, bensì quello di spiegarlo in tutti i suoi
aspetti, perché si sappia che cos’è ciò di cui tratta la nostra dottrina diciamo rapidamente che chiamiamo parlar volgare quello che i bambini
acquisiscono con l’uso da chi si prende cura di loro quando cominciano
ad articolare le parole; ovvero, come si può dire più in breve, definiamo
parlar volgare quello che assorbiamo, al di fuori di qualunque regola,
imitando la nutrice. (3) Abbiamo poi un altro linguaggio, di secondo
grado, che i Romani hanno chiamato “grammatica”. Questo linguaggio
di secondo grado lo possiedono i Greci e altri popoli, ma non tutti: pochi
infatti arrivano a padroneggiarlo, dato che non riusciamo a farne nostre
le regole e a divenirne esperti se non col tempo e attraverso uno studio assiduo.
Il volgare e il latino, come si vede, sono concepiti come due lingue
qualitativamente diverse, appartenenti a due tipi di linguaggio, ovvero due modi di espressione linguistica (locutio) ontologicamente
distinte. Il volgare appartiene alla locutio vulgaris, cioè all’espressione linguistica naturale: la locutio vulgaris è, semplicemente, il lin-
Che cosa erano il volgare e il latino per Dante
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guaggio, facoltà tipica ed esclusiva del genere umano. Il latino invece
appartiene alla locutio secundaria, artificialis, cioè a un tipo di espressione linguistica di secondo livello inventata dall’uomo, fondata non
sull’usus naturale ma sulla ratio, su una codificazione riflessa creata
da filosofi e grammatici. Il volgare viene appreso naturalmente dal
bambino, semplicemente stando immerso nel linguaggio della propria famiglia; il latino invece viene appreso attraverso lo studio di regole artificiali: tanto che il termine gramatica indica sia la
grammatica, l’insieme di queste regole artificiali, sia la lingua latina
stessa, che non è lingua materna di nessuno ed è la lingua il cui apprendimento si identifica con l’apprendimento di questo insieme di
regole artificiali. Data questa diversa natura delle due lingue, il volgare
è instabile, destinato inevitabilmente a mutare nel tempo e nello spazio; il latino, in quanto sottratto all’uso, è invece stabile nel tempo e
attraverso lo spazio.
È dunque evidente che il volgare non può derivare dal latino: questo sarebbe stato un assoluto controsenso, nella logica degli uomini del
Medioevo. È piuttosto vero il contrario: il latino è stato costruito artificialmente da filosofi e grammatici, ovviamente sulla base del linguaggio naturale, cioè imponendo al volgare una griglia di regole
razionali esplicite, precisamente allo scopo di costruire una lingua che
resistesse alla intrinseca mutevolezza del linguaggio naturale e dunque funzionasse come un formidabile strumento di civiltà, capace di
garantire la comunicazione a distanza, di conservare la memoria storica e di tramandare e sviluppare i saperi attraverso il tempo.
Date queste due definizioni contrastive, Dante opera uno straordinario ribaltamento dei valori. Mentre nel primo libro del Convivio, composto poco prima, aveva ripetuto lo scontato giudizio che il latino, che
sta all’apice di questo percorso di costruzione linguistica della civiltà,
è più nobile del volgare, di cui è in effetti un raffinamento razionale (il
latino è «sovrano… per nobilità, perché lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile», Cv I v 7), qui egli dichiara il volgare meno nobile del latino:
(4) Harum quoque duarum [s’intende locutionum] nobilior est vulgaris:
tum quia prima fuit humano generi usitata; tum quia totus orbis ipsa perfruitur, licet in diversas prolationes et vocabula sit divisa; tum quia naturalis est nobis, cum illa potius artificialis existat. (5) Et de hac nobiliori
nostra est intentio pertractare.
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(4) Di questi due [s’intende linguaggi], il più nobile è quello volgare: sia
perché è stato usato dal genere umano per primo; sia perché ne fruisce il
mondo intero, per quanto sia diviso in diverse pronunce e in diverse parole; sia perché ci è naturale, mentre l’altro è, piuttosto, artificiale. (5) È
di questo nostro linguaggio più nobile che intendiamo trattare.
L’inaudita audacia militante di Dante, a tal punto determinato a promuovere il volgare, trova il suo fulcro, la leva per scardinare l’assetto
linguistico costituito della cultura, nel concetto filosofico-teologico che
l’arte è inferiore alla natura, perché la natura è direttamente figlia di
Dio, mentre l’arte – prodotto dell’uomo, il quale è creatura di Dio – è
più lontana da Dio: «sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote», come dirà
Dante in If XI 105.
Questa visione del rapporto storico fra il volgare e il latino, che doveva essere la visione comune all’epoca di Dante, era del resto presupposta già in un passo della Vita nova (XXV 3-4; 16 3-4 ed. Gorni;
interpunzione mia):
(3) … prima è da intendere che anticamente non erano dicitori d’ amore
in lingua volgare, anzi erano dicitori d’ amore certi poete in lingua latina;
tra noi dico, avvegna forse che tra altra gente addivenisse e addivegna ancora, sì come in Grecia, non volgari ma litterati poete queste cose trattavano. (4) E non è molto numero d’ anni passati, che apparirono prima
questi poete volgari; ché dire per rima in volgare tanto è quanto dire per
versi in latino, secondo alcuna proporzione. E segno che sia picciolo
tempo, è che se volemo cercare in lingua d’ oco e in quella di sì, noi non
troviamo cose dette anzi lo presente tempo per CL anni.
Qui, infatti, Dante sente il bisogno di dire che anticamente non
c’erano poeti d’amore in volgare in quanto dà per scontato che il volgare esisteva anche anticamente, poniamo al tempo di Virgilio. Anticamente, chi voleva scrivere poesia si trovava dunque davanti la stessa
opzione che si trovava davanti Dante stesso, cioè di scrivere «in lingua volgare» o «in lingua latina», ponendosi nel primo caso come
«poeta volgare», nel secondo come «poeta litterato». In questo brano
si manifesta per la prima volta – implicita ma inequivocabile – la presupposizione che la diglossia latino / volgare esisteva già nell’antichità. La differenza è che anticamente nessun poeta scelse di scrivere
in volgare (almeno nel mondo latino e in quello greco: forse fra altri
popoli questo è avvenuto, ma Dante lo ignora). I primi che inaugura-
Che cosa erano il volgare e il latino per Dante
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rono questa opzione (s’intende nel mondo latino) furono i primi poeti
in lingua d’oc, 150 anni prima, per la nota motivazione:
(6) E lo primo che cominciò a dire sì come poeta volgare, si mosse però
che volle fare intendere le sue parole a donna, alla quale era malagevole
d’ intendere li versi latini. E questo è contra coloro che rimano sopra altra
matera che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal
principio trovato per dire d’ amore.
Se la «lingua volgare» non fosse esistita anticamente accanto alla
«lingua latina», il discorso non darebbe senso.
2. “Italianità” del latino, “latinità” del volgare
Richiamo l’attenzione sulle parole di Dante, appena citate (VE I i 3),
«Est et inde alia locutio secundaria nobis, quam Romani gramaticam
vocaverunt». In queste parole affiora per la prima volta l’uso terminologico, che ricomparirà più volte nel corso del trattato, di gramatica nel
senso di ‘lingua latina’.
Si tratta di un uso terminologico tipicamente, se non esclusivamente,
italiano, che ha origine all’interno della diglossia medievale, più precisamente all’interno della parte volgare della diglossia, e riflette l’identificazione del latino, che non è lingua materna di nessuno (tanto che si
è persa memoria che mai possa esserlo stato), con lo studio scolastico
della prima arte del Trivio, nel quale consiste il suo apprendimento.
Più precisamente ancora, questo uso terminologico nasce nell’ambito eminentemente contrastivo dei volgarizzamenti, sia di testi letterari, sia degli statuti cittadini dei Comuni toscani2. Così negli Statuti
senesi del 1280-97: «per li detti tre omini fussero fermati, di buona léttara di testo, e non in grammatica»; negli Statuti senesi del 1305: «De
scrívare le dette Constituzioni per gramatica e per volgare debbiano èssare scritte in uno libro di carte di capretto, o vero di pecora, per gramatica; e in uno altro libro de semelliante carte debbia èssare scritto per
volgare»; negli Statuti fiorentini del 1310-13: «debiano fare asemplare
2
Tutte le citazioni sono desunte dalla banca dati del TLIO – Tesoro della Lingua
Italiana delle Origini, presso l’Opera del Vocabolario Italiano, consultabile online
(http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/), dalla quale si possono desumere le edizioni di riferimento
di ogni testo.
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questo statuto in volgare, sì che quelli che ignorano e non sanno gramatica possino tutti capitoli di questo constituto leggere e [int]endere
per volgare». Così in una cronaca come il toscano Libro fiesolano,
1290-1342: «a la prima furono due luoghi vi si puse nome in prulari e
chiamasi in gramatica Pise»; «però che Siena … si tiene in gramatica
e dicesi el suo nome in plulari Sene».
E così in vari volgarizzamenti fiorentini. Bono Giamboni, Orosio,
1292: «Incominciasi lo libro primo di Paulo Orosio, raccontatore di
Storie, translatato della grammatica in volgare per Bono Giamboni»;
«il libro settimo delle Storie contra gli accusatori de’ cristiani si finisce benavventuratamente; translatato della grammatica in volgare per
Bono Giamboni». Zucchero Bencivenni, Esposizione del Paternostro,
XIV in.: «che elli parla a Dio patrolianto metà in francesco, e metà in
gramatica»; «cioè una virtude bella e buona che l’uomo appella in
grammatica masuetudine, o benignitade, cioè dolzore di cuore». Andrea Lancia, Eneide volgarizzata, 1316: «e io poscia, ad istanzia di te,
non molto lievemente, di grammatica in lingua volgare traslatai». Sette
arti liberali di Seneca volgarizzate, 1325 (?): «utilità, e correzione di
tutti coloro, che in questo libro leggeranno, i quali non sanno gramatica». E in un volgarizzamento messinese: Giovanni Campulu, Libru
de lu dialagu de sanctu Gregoriu, 1302-37: «si intitula ‘Lib[ru] [de] lu
diala[gu] de sanctu Gregoriu’, lu quali si esti traslatatu da
gra[m]at[ica] in vulgaru pir Frati Iohanni Campulu de Missina, de
[l’ordine de li] frati minuri».
È quanto mai sintomatico che Dante attribuisca questo uso terminologico, tipico frutto della diglossia del suo tempo, ai Romani antichi, che ovviamente mai avrebbero potuto concepirlo. È questa forse
la spia più acuta della ipostatizzazione che Dante opera: cioè l’assolutizzazione acronica, o almeno l’amplissima, indefinita estensione
nel tempo, della diglossia in cui erano immersi Dante e gli uomini
della sua età.
Ed ecco come Dante descrive l’“invenzione” della gramatica, cioè
della lingua latina (VE I ix 11):
Hinc moti sunt inventores gramatice facultatis: que quidem gramatica nichil aliud est quam quedam inalterabilis locutionis ydemptitas diversibus temporibus atque locis. Hec cum de comuni consensu multarum
gentium fuerit regulata, nulli singulari arbitrio videtur obnoxia, et per
consequens nec variabilis esse potest. Adinvenerunt ergo illam ne, propter variationem sermonis arbitrio singularium fluitantis, vel nullo modo
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vel saltim imperfecte antiquorum actingeremus autoritates et gesta, sive
illorum quos a nobis locorum diversitas facit esse diversos.
Da questo sono stati spinti coloro che hanno scoperto la facoltà della
grammatica: la quale grammatica non è altro che una sorta di inalterabile
identità della lingua attraverso tempi e luoghi diversi. Questa, poiché è
stata regolata per consenso comune di molte genti, non appare esposta all’arbitrio individuale di nessuno, e di conseguenza non può neanche essere mutevole. L’hanno trovata, dunque, per evitare che, a causa del
variare della lingua, fluttuante secondo l’arbitrio dei singoli, non potessimo in alcun modo, o potessimo solo imperfettamente, attingere il sapere
e la storia degli antichi, ovvero di coloro che la diversità dei luoghi rende
diversi da noi.
Si è soliti confrontare questo passo del De vulgari eloquentia con
quest’altro del De regimine principum (II ii 7) di Egidio Romano, trattato certamente noto a Dante, in cui il filosofo della Sorbona sembra
identificare il latino nella lingua internazionale dei dotti, potremmo
dire la lingua delle Università e della Scolastica:
Videntes enim philosophi nullum idioma vulgare esse completum et perfectum, per quod perfecte exprimere possent naturas rerum, et mores hominum, et cursus astrorum, et alia de quibus disputare volebant,
invenerunt sibi quasi proprium idioma, quod dicitur latinum, vel idioma
literale, quod constituerunt adeo latum et copiosum, ut per ipsum possent
omnes suos conceptus sufficienter exprimere.
Infatti i filosofi, vedendo che nessun idioma volgare era completo e perfetto, tale da poter esprimere attraverso di esso le leggi della natura, i costumi degli uomini, il corso degli astri e gli altri argomenti di cui volevano
disputare, inventarono per sé quasi un idioma proprio, che si chiama latino, ovvero idioma grammaticale; e lo costruirono così ampio e copioso
da poter esprimere adeguatamente, attraverso di esso, tutti i loro concetti.
A somiglianza di questa concezione di Egidio, anche la concezione
dantesca del latino, quale formulata nel De vulgari eloquentia, è stata
assimilata a una sorta di “esperanto” («cum de comuni consensu multarum gentium fuerit regulata…»). Ma, così estremizzando il carattere artificiale e internazionale del latino, risulta difficile capire
l’altissimo valore esemplare che Dante – e per la prima volta proprio
nel De vulgari eloquentia (II iv 3, II vi 7) – assegna ai poeti “tragici”
latini, Virgilio Ovidio Stazio Lucano: come può avere risonanze emo-
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tive così vive, spessore culturale così profondo, e così alto magistero
stilistico, una poesia scritta in una lingua totalmente altra dal linguaggio naturale che Dio ha donato all’uomo come sua più esclusiva
facoltà?
Più in particolare, se il latino è un “esperanto” risulta contraddittoria l’“italianità” del latino, espressa nel modo più chiaro da Sordello
nel momento del suo incontro con Virgilio (Pg. VII 16-17):
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… e poi chinò le ciglia,
e umilmente ritornò ver’ lui,
e abbracciòl là ’ve ’l minor s’appiglia.
«O gloria d’i Latin», disse, «per cui
mostrò ciò che potea la lingua nostra,
o pregio etterno del loco ond’io fui,
qual merito o qual grazia mi ti mostra?».
Come può, il latino, essere contemporaneamente la lingua internazionale dei dotti e la lingua nostra, di noi Latini, cioè di noi italiani?
Su questa presunta contraddizione ha fatto leva Gustavo Vinay3, sostenendo che la bizzarra idea di latino formulata nel De vulgari eloquentia sarebbe circoscritta a quest’opera, indotta dalla contingente e
strumentale volontà di contrapporre nel modo più netto volgare e latino; e che in tutto il resto della sua produzione, compreso il Convivio,
Dante si sarebbe attenuto a una visione più ragionevole delle cose, in
pratica coincidente con la nostra.
Questa teoria di Vinay è sicuramente sbagliata. L’idea della derivazione del volgare dal latino si farà strada solo 130 anni più tardi, e
faticosamente, nel diversissimo universo culturale degli umanisti italiani4, e non era accessibile alla cultura dell’età di Dante.
L’apparente contraddizione si risolve tenendo presenti i tre brani
del De vulgari eloquentia in cui Dante afferma che i tre volgari d’oc,
d’ oïl e di sì derivano da un unico idioma babelico (I viii 5); ribadisce
il concetto sottolineando il lessico comune dei poeti “trilingui” romanzi (I ix 3); e, all’interno di questo nostro idioma divenuto triplice,
3
G. VINAY, Ricerche sul «De vulgari eloquentia». 1. Lingua artificiale, naturale e
letteraria, «Giornale storico della letteratura italiana», 136 (1959), pp. 236-274 e 367-388.
4
Per la prima volta nella discussione del 1435 fra gli umanisti Leonardo Bruni e
Biondo Flavio: Cfr. M. TAVONI, Latino, grammatica, volgare. Storia di una questione
umanistica, Padova, Antenore, 1984.
Che cosa erano il volgare e il latino per Dante
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sottolinea il primato che viene al volgare di sì dal fatto che gli “inventori” del latino presero appunto sì come base per coniare la particella affermativa del latino, sic (I x 1):
Totum vero quod in Europa restat ab istis, tertium tenuit ydioma, licet
nunc tripharium videatur: nam alii oc, alii oïl, alii sì affirmando locuntur,
ut puta Yspani, Franci et Latini. Signum autem quod ab uno eodemque
ydiomate istarum trium gentium progrediantur vulgaria, in promptu est,
quia multa per eadem vocabula nominare videntur, ut “Deum”, “celum”,
“amorem”, “mare”, “terram”, “est”, “vivit”, “moritur”, “amat”, alia fere
omnia (I viii 5).
Infine, tutto quanto resta in Europa al di fuori di questi due domini, lo
tenne un terzo idioma, benché oggi esso appaia diviso in tre: infatti alcuni
per affermare dicono oc, altri oïl, altri sì, come gli ispani, i francesi e gli
italiani. E il segno che i volgari di queste tre genti derivano da un solo e
medesimo idioma è evidente, dato che essi denominano molti concetti
con le stesse parole, come “Dio”, “cielo”, “amore”, “mare”, “terra”, “è”,
“vive”, “muore”, “ama”, e quasi tutti gli altri.
***
Trilingues ergo doctores in multis conveniunt, et maxime in hoc vocabulo
quod est “amor”. Gerardus de Brunel: «Si ·m sentis fezelz amics, / per ver
encusera amor»; Rex Navarre: «De fin amor si vient sen et bonté»; Dominus Guido Guinizelli: «Né fe’ amor prima che gentil core, / né gentil
<cor> prima che amor, natura» (I ix 3).
I maestri delle tre lingue, dunque, concordano in molti vocaboli, e soprattutto in questo: amor. Giraut de Borneil: «Si ·m sentis fezelz amics,
/ per ver encusera amor»; il Re di Navarra: «De fin amor si vient sen et
bonté»; messer Guido Guinizelli: «Né fe’ amor prima che gentil core, /
né gentil <cor> prima che amor, natura».
***
Triphario nunc existente nostro ydiomate, ut superius dictum est, in comparatione sui ipsius, secundum quod trisonum factum est, cum tanta timiditate cunctamur librantes quod hanc vel istam vel illam partem in
comparando preponere non audemus, nisi eo quo gramatice positores inveniuntur accepisse sic adverbium affirmandi: quod quandam anterioritatem erogare videtur Ytalis, qui sì dicunt (I x 1).
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Poiché il nostro idioma oggi è diviso in tre, come si è detto sopra, all’atto
di fare un confronto interno fra le tre varietà nelle quali si è differenziato,
procediamo con tanta esitazione a soppesarle che, comparandole, non
osiamo anteporre questa o quella o quell’altra parte, se non per il fatto che
i fondatori della lingua grammaticale hanno assunto sic come avverbio
affermativo: il che sembra assegnare un certo primato agli Italiani, che dicono sì.
Nei primi due brani Dante dice che i tre volgari d’oc, d’oïl e di sì risalgono allo stesso idioma babelico, perché altrimenti non si spiegherebbero le tante concordanze lessicali che li uniscono. Nell’esemplificare
con sette vocabula che sono eadem nei tre volgari, e particolarmente con
il lemma amor, nel momento in cui l’autore espone questi lemmi nella
lingua del trattato, cioè in latino, né lui stesso né il lettore possono fare
a meno di notare che non solo i tre volgari, ma anche il latino coincide
nelle stesse parole. Il latino certamente non è la lingua madre dei tre volgari, ma la sua base lessicale è la stessa.
Il terzo brano dice che una ragione di superiorità del volgare di sì su
quelli d’oc e d’oïl è che i positores della gramatica, cioè della lingua latina, quando si trattò di scegliere la particella affermativa (che in tutto il
trattato ha un particolarissimo valore identificante), scelsero sic – cioè la
parola “grammaticale” corrispondente al volgare sì. S’intende che avrebbero invece potuto adottare una forma “grammaticale” corrispondente a
oc o a oïl (che so, HOC, oppure HOC ILLUM…), nel qual caso a potersene
gloriare sarebbero i provenzali (che Dante chiama Yspani) o i francesi.
La conclusione mi sembra alquanto evidente, e appunto a portata
di mano. La gramatica, s’intende latina, cioè la lingua latina, è stata
inventata dopo la diversificazione – forza incessante e inevitabile dopo
Babele, come spiega il cap. ix. Proprio questa è la ragion d’essere
della gramatica, quella di funzionare come rimedio alla variabilità,
come dice il passo di I ix 11 citato sopra. Dunque la gramatica latina
è stata “regolata” «de comuni consensu multarum gentium». Ma
Dante non vuol dire che sia stata “regolata” per consenso di tutte le
genti sulle quali il latino, ai suoi tempi, si estende come lingua di cultura. L’Impero era di là da venire, e così i contatti con i Germani e gli
Slavi. La gramatica latina è stata invece formata, prima di Terenzio,
Cesare, Cicerone ecc., entro i confini del solo idioma babelico “romanzo”. Le “molte genti” di cui i positores hanno tenuto conto sono
solo loro – cioè siamo noi: la gramatica latina viene formata all’interno dell’ydioma tripharium che è nostro, «illud tantum quod nobis
Che cosa erano il volgare e il latino per Dante
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est ydioma» (I ix 1), «triphario nunc existente nostro ydiomate» (I x 1).
Dunque l’esperanto, in realtà, non è affatto un buon termine di paragone. Gli uomini non hanno fatto nessun tentativo, attraverso la inventio gramatice facultatis, di travalicare i confini di incomunicabilità
prodotti dal castigo babelico, non hanno tentato di costruire una lingua artificiale diciamo “interbabelica”. L’artificialità della gramatica
deve essere intesa in senso limitato, perché ogni lingua grammaticale
è stata inventata all’interno di un unico ceppo linguistico. Nel caso
dell’idioma babelico “romanzo”, in particolare, Dante aveva una ottima conoscenza sia delle tre lingue volgari in cui si era diversificato
sia della gramatica latina che era stata costruita come rimedio a tale
diversificazione; ed era in condizione di vedere, come ha visto, che la
base lessicale di queste “tre lingue più una” era la stessa.
Se così stanno le cose, il latino è artificiale e, nello stesso tempo, è
«lingua nostra». Non c’è nessuna contraddizione e, a quanto risulta,
non c’è neanche nessuna evoluzione del pensiero di Dante su questo
tema. C’è, nel De vulgari eloquentia, una importantissima focalizzazione teorica, ma non c’è, dall’inizio alla fine della storia intellettuale
di Dante, un cambiamento nella visione dei fatti storici riguardanti il
latino e il volgare.
Dunque Dante, che pure ha familiarità con Egidio Romano, non
condivide la sua visione scolastica-parigina del latino come “idioma
dei filosofi”. L’idea di Dante, così precisata, si rivela invece molto vicina, direi straordinariamente vicina, a un passo che si suole citare accanto a quello di Egidio Romano a commento di VE I ix 11, cioè la
versione versificata del Tresor di Brunetto Latini, che recita5:
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5
Sicome dicono i saggi,
ne la latina parlaura à diversi linguaggi:
uno linguaggio ànno l’Italici e un altro i Tedeschi,
e altro quelli d’Inghilterra e altro i Francieschi,
e tutti sono della parlaura latina comunemente.
E sì addiviene delli Ebrei e dei Greci,
che ànno fra lloro diversità di gente,
e diversi linguaggi ànno tra lloro
5
A. D’ANCONA, Il tesoro di Brunetto Latini versificato, Roma, Tip. R. Accad. dei
Lincei, 1888 (Estratto da «Memorie della R. Accad. dei Lincei, Classe di scienze
morali, storiche e filologiche», s. 4., vol. 4., pt. 1, a. 1887), pp. 125-26 (è mia la numerazione dei versi).
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e perciò sono i Greci e li Ebrei sicome Latini costoro.
E perciò i Latini antichi e saggi
per rechare inn uno diversi linguaggi,
che s’intendesse insieme la gente,
trovaro la Gramatica comunemente;
e così gli Greci e lli Ebrei in loro parlaura
trovaro loro gramatica e loro scritura.
Ciascuno trovò sue figure e sua maniera.
Quella delli Hebrei fu la primiera
quella de li Greci fu la secondana,
quella de’ Latini fu la diretana.
E li Ebrei, secondo che trovo per scritto,
trovarono la loro gramatica in Egitto;
i Greci, secondo che l’antica storia contiene,
trovarono la loro gramatica ind’Athene;
i Latini, secondo il loro ydioma,
trovarono la loro gramatica a Roma.
In questo Tesoro versificato è da notare anzitutto l’opposizione terminologica linguaggi / parlaùra, omologa all’opposizione dantesca locutio vulgaris / locutio secundaria (linguaggi = ‘lingue volgari’,
parlaùra = ‘lingua comune, scritta, dotta, grammaticale, sovraordinata’). E i vv. 10-13 sono molto vicini alla formulazione del De vulgari
eloquentia: il “ritrovamento” della grammatica è, come in Dante, antico e coinvolge generalmente la popolazione (vv. 11-12); mentre in
Egidio ha i caratteri del latino internazionale della Scolastica. La grammatica viene costruita, come in Dante, unendo diverse lingue volgari
(v. 11); al v. 13 trovaro (ripetuto anche ai vv. 15, 21, 23, 25) richiama
adinvenerunt di I ix 11, e comunemente richiama «de comuni consensu
multarum gentium», e «gramatica que comunis est» di I x 2. Infine, i
vv. 10-13 includono perfettamente il significato che Dante esprime con
la frase «… quam Romani gramaticam vocaverunt».
Del resto, questa percezione del latino come «lingua nostra» pervade in pieno anche il De vulgari eloquentia. Traspare infatti, indirettamente ma con tutta forza, nel toponimo Latium adottato per
designare l’Italia (3 occorrenze), nell’aggettivo latius per identificare
il volgare italiano (7 occorrenze), e nell’aggettivo latinus-Latini per
significare (esclusivamente) ‘italiano-Italiani’ (8 occorrenze).
Questa marcata, originale strategia terminologica di Dante ha lo
scopo di accreditare il volgare di sì come volgare strettamente affine
al latino e gli Italiani come eredi dei Romani, soprattutto ai fini dei
Che cosa erano il volgare e il latino per Dante
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loro diritti imperiali. Anche nel De vulgari eloquentia, infatti, l’ideologia imperiale è perfettamente attiva: non c’è bisogno di aspettare il
IV del Convivio e la Monarchia. Basti pensare all’elogio sperticato
dell’imperatore Federico II e di suo figlio Manfredi nel cap I xii, e al
ruolo di fondatori loro attribuito per la nascita del volgare illustre.
Allo stesso tempo, nel De vulgari eloquentia Dante suggerisce fortemente la latinità del volgare di sì: lo fa attraverso la suddetta strategia terminologica, appositamente inventata e sistematicamente
adottata per veicolare questa idea; lo fa sottolineando che i gramatice
positores, nel costruire la gramatica latina, hanno tenuto particolarmente presente il volgare di sì (I x 1, passo citato e commentato
sopra); lo fa constatando, di conseguenza, che il volgare di sì «magis
videtur initi gramatice que comunis est» (“mostra di appoggiarsi di
più alla grammatica che è comune”), I x 2.
Sostenere la “latinità” del volgare di sì comporta sentire, per così
dire, l’ “italianità” del latino. Del resto, tutta la poetica del De vulgari
eloquentia è orientata all’imitazione della poesia “regolata” latina: in
generale («Idcirco accidit ut, quantum illos proximius imitemur, tantum rectius poetemur», “Accade perciò che, quanto più ci avviciniamo
a quelli, tanto più rigorosamente poetiamo”, II iv 3), e in particolare
nella sintassi («utilissimum foret ad illam [la supprema constructio]
habituandam regulatos vidisse poetas, Virgilium videlicet, Ovidium
Metamorfoseos, Statium atque Lucanum», ecc., “E forse sarebbe utilissimo, per familiarizzarsi con essa, aver visto i poeti regolati, vale a
dire Virgilio, l’Ovidio delle Metamorfosi, Stazio e Lucano”, ecc., II vi
7). Il che implica una percezione, anche piuttosto profonda, del latino
come «lingua nostra».
3. Risonanze emotive del latino
Per finire, a questa sintetica presentazione del pensiero di Dante
circa il latino e il volgare affianco una riflessione sull’uso espressivo
che Dante fa del latino all’interno della sua scrittura in volgare. O meglio, all’interno delle diverse tipologie di inserti latini che possono riconoscersi nelle opere volgari di Dante, mi soffermerò solo su un
aspetto, particolarmente carico di risonanze emotive, particolarmente
intimo, che credo si possa riscontrare in alcuni passi salienti della Vita
nova e in uno della Commedia. Cercherò con ciò di rilevare, accanto
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all’idea razionale di latino, una particolarissima connotazione psichica
ad esso associata in Dante scrittore.
Nel cielo di Marte, sede degli spiriti combattenti per la fede, Dante
incontra il proprio avo Cacciaguida, che qui gli rivela di essere stato cavaliere crociato e di aver subito il martirio in Terrasanta. Da un antenato così nobile, nel corso di un incontro entusiasmante che si protrae
dal XV al XVII canto del Paradiso, Dante riceve anzitutto un’accoglienza solenne che lo solleva molto in alto: da troppo tempo l’illustre
avo aspettava, avendola letta nel gran libro dell’universo, la visita del
suo discendente, nel quale Dio ha riversato una tale sovrabbondanza
della sua grazia da aprirgli da vivo le porte del Paradiso (Pd XV):
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Quale per li seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or sùbito foco,
movendo li occhi che stavan sicuri,
e pare stella che tramuti loco,
se non che da la parte ond’e’ s’accende
nulla sen perde, ed esso dura poco:
tale dal corno che ’n destro si stende
a piè di quella croce corse un astro
de la costellazion che lì resplende;
né si partì la gemma dal suo nastro,
ma per la lista radïal trascorse,
che parve foco dietro ad alabastro.
Sì pïa l’ombra d’Anchise si porse,
se fede merta nostra maggior musa,
quando in Eliso del figlio s’accorse.
«O sanguis meus, o superinfusa
gratia Dei, sicut tibi cui
bis unquam celi ianua reclusa?»6.
Così quel lume: ond’io m’attesi a lui;
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui;
ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del mio paradiso.
Indi, a udire e a veder giocondo,
giunse lo spirto al suo principio cose,
“O sangue mio, o sovrabbondante grazia di Dio, a chi come a te fu mai schiusa
due volte la porta del cielo?”.
Che cosa erano il volgare e il latino per Dante
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ch’io non lo ’ntesi, sì parlò profondo;
né per elezïon mi si nascose,
ma per necessità, ché ’l suo concetto
al segno d’i mortal si soprapuose.
E quando l’arco de l’ardente affetto
fu sì sfogato, che ’l parlar discese
inver’ lo segno del nostro intelletto,
la prima cosa che per me s’intese,
«Benedetto sia tu», fu, «trino e uno,
che nel mio seme se’ tanto cortese!».
E seguì: «Grato e lontano digiuno,
tratto leggendo del magno volume
du’ non si muta mai bianco né bruno,
solvuto hai, figlio, dentro a questo lume
in ch’io ti parlo, mercè di colei
ch’a l’alto volo ti vestì le piume.
Perché Cacciaguida esordisce parlando in latino (vv. 28-30)? Si è
pensato che esibisca così una solenne insegna del suo essere un cavaliere crociato. Ma i crociati non parlavano latino fra di loro, semmai
francese, lingua franca, appunto, delle nazioni cristiane in Terrasanta.
Una ragione a favore dell’esordio in latino è il riprodurre alla lettera il
sintagma virgiliano «sanguis meus», con cui Anchise si rivolge a Enea
quando lo riceve nei Campi Elisi (Eneide VI 835), molto importante
per sancire con un precedente sommo la parentela fra Dante e il suo
avo, e insieme ribadire il parallelismo fra Dante ed Enea, entrambi visitatori dell’aldilà per volontà di Dio (cfr. If II 12-33). Ma, oltre a questa ragione specifica, l’esordio in latino in questo particolare contesto
– cioè in congiunzione con un sorriso paradisiaco di Beatrice, che fa
«toccar lo fondo / de la mia gloria e del mio paradiso» (vv. 31-36), e
prima che il discorso di Cacciaguida sprofondi in concetti incomprensibili per un mortale (vv. 37-42) – ottiene un particolare effetto suggestivo, come di lingua proveniente da una fonte soprannaturale, lingua
legata all’arcano.
Assomiglia, in questo, all’effetto che accompagna diverse battute
in latino della Vita nova, sempre in bocca a spiriti – gli spiriti dello
Stilnovo, che rendono la vita psichica uno psicodramma – o direttamente al dio Amore7. Così, anzitutto, nella prima manifestazione psi7
Cfr. CH. SINGLETON, The Use of Latin in the Vita Nuova, «Modern Language
Notes», 61, 1946, pp. 108-112.
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chica premonitrice del destino che soggiogherà Dante all’amore per
Beatrice (VN II 4-7; 1.5-8 ed. Gorni):
(4) In quel punto dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora nella secretissima camera del cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia nelli menomi polsi orribilmente; e tremando disse
queste parole: «Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur michi!»
[“Ecco un dio più forte di me, che venendo mi dominerà”]. (5) In quel
punto lo spirito animale, lo quale dimora nell’alta camera nella quale tutti
li spiriti sensitivi portano le loro percezioni, si cominciò a maravigliare
molto, e parlando spezialmente alli spiriti del viso, disse queste parole:
«Apparuit iam beatitudo vestra» [“È apparsa ormai la vostra beatitudine”]. (6) In quel punto lo spirito naturale, lo quale dimora in quella
parte ove si ministra lo nutrimento nostro, cominciò a piangere, e piangendo disse queste parole: «Heu, miser, quia frequenter impeditus ero
deinceps!» [“O me misero, che sarò spesso impedito d’ora in poi”]. (7)
D’ allora innanzi, dico che Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu
sì tosto a llui disponsata, e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtade
e tanta signoria per la vertù che li dava la mia imaginazione, che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente.
Così nel sogno in cui Amore si manifesta e annuncia a Dante l’instaurazione del suo potere assoluto su di lui; e parla stando nell’impressionante postura di reggere in braccio Beatrice nuda avvolta in un
drappo sanguigno mentre tiene in mano il cuore di Dante sanguinante
(VN III 3-5; 1.14-16 ed. Gorni):
(3) E pensando di lei, mi sopragiunse uno soave sonno, nel quale m’apparve una maravigliosa visione. Che mi parea vedere nella mia camera
una nebula di colore di fuoco, dentro alla quale io discernea una figura
d’uno signore, di pauroso aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta
letizia, quanto a ssé, che mirabile cosa era; e nelle sue parole dicea molte
cose, le quali io non intendea se non poche, tra le quali io intendea queste: «Ego dominus tuus» [“Io sono il tuo signore”]. (4) Nelle sue braccia
mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in
uno drappo sanguigno leggieramente; la quale io riguardando molto intentivamente, conobbi ch’era la donna della salute, la quale m’ avea lo
giorno dinanzi degnato di salutare. (5) E nell’ una de le mani mi parea che
questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta; e pareami che mi dicesse
queste parole: «Vide cor tuum» [“Guarda il tuo cuore”].
Così nel sogno, rielaborazione e conseguenza di un episodio diurno
Che cosa erano il volgare e il latino per Dante
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del giorno precedente, in cui Amore ingiunge a Dante di abbandonare
la finzione delle donne dello schermo, accompagnando questa ingiunzione con una similitudine che rimane inspiegata tanto a Dante risvegliatosi quanto a noi lettori (VN XII 3-5; 5.10-12 ed. Gorni):
(3) Avenne quasi nel mezzo de lo mio dormire che mi parve vedere nella
mia camera lungo me sedere uno giovane vestito di bianchissime vestimenta, e pensando molto quanto alla vista sua, mi riguardava là ov’io
giacea; e quando m’avea guardato alquanto, pareami che sospirando mi
chiamasse, e diceami» queste parole: «Fili mi, tempus est ut pretermictantur simulacra nostra» [“Figlio mio, è tempo che si abbandonino i nostri simulacri”]. (4) Allora mi parea che io il conoscesse, però che mi
chiamava così come assai fiate nelli miei sonni m’avea già chiamato: e
riguardandolo pareami che piangesse pietosamente, e parea che attendesse da me alcuna parola. Onde io assicurandomi cominciai a parlare
così con esso: «Segnore della nobiltade, e perché piangi tu?». E quelli mi
dicea queste parole: «Ego tanquam centrum circuli, cui simili modo se
habent circumferentie partes; tu autem non sic» [“Io sono come il centro del cerchio, a cui i punti della circonferenza si rapportano in modo
uguale, ma tu non sei così”]. (5) Allora, pensando alle sue parole, mi
parea che m’avesse parlato molto oscuramente, sì che io mi sforzava di
parlare, e diceali queste parole: «Che è ciò, segnore, che mi parli con
tanta oscuritade?». E quelli mi dicea in parole volgari: «Non dimandare
più che utile ti sia».
La terzina in latino di Cacciaguida sembra proprio della stessa
stoffa di queste battute in latino degli spiriti e di Amore. Esse hanno
infatti queste caratteristiche comuni:
• sono voci interiori o soprannaturali, che parlano a Dante in sogno
o in visione ovvero in uno stato di percezione profondamente alterata;
• sono collegate alla presenza o alla figura di Beatrice;
• emergono confusamente (è usatissimo il verbo parere per esprimere la faticosa messa a fuoco, onirica, della precisa immagine e delle
precise parole);
• il latino vi emerge come lingua pregnante, la battuta in latino è il
culmine della visione, il cuore del messaggio che la visione comunica;
• la battuta in latino è così pregnante proprio grazie al fatto di essere in una lingua staccata dal tessuto linguistico circostante, rilevata
al di sopra di esso, connotata come lingua “altra”, nella quale si
esprime la fonte soprannaturale del messaggio;
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Mirko Tavoni
• le parole sono oscure, e necessitano di conseguenza di essere
chiarite in linguaggio più semplice: il fatto che Amore scende a parlare in volgare simboleggia infatti lo scendere al livello della capacità
di comprensione di Dante.
Tutte queste caratteristiche si ritrovano nella battuta di esordio di
Cacciaguida. Anch’essa, in particolare, oltre ad accompagnarsi al sorriso soprannaturale di Beatrice, è collegata alla profondità-oscurità
del dettato, si stempera una volta «sfogato… l’arco dell’ardente affetto» (vv. 43-44), e si chiarisce in una prosecuzione del discorso in
volgare, abbassata «inver’ lo segno del nostro intelletto».
Con ciò essa, da una parte, pone un attacco alto, soprannaturale:
connota subito la fonte imperscrutabile del messaggio, e significa subito
che quanto del messaggio si capirà è solo parte di un «concetto» più
ampio e profondo che «al segno d’i’ mortal si soprapuose» (vv. 41-42).
La voce di Cacciaguida è dall’inizio una voce divina, prima di caratterizzarsi come una precisa voce storica.
Ma con ciò, d’altra parte, Cacciaguida parla come una voce interiore
di Dante. Questo secondo effetto probabilmente non è un effetto voluto. La tecnica d’esordio adottata, che potremmo chiamare la tecnica
del latino onirico-oracolare, come nella Vita nova, svela alla sorgente
nella voce di Cacciaguida il contrario di ciò che essa vuol essere, e cioè
non una voce storica ma una voce profondamente soggettiva di Dante.
E il discorso di Cacciaguida in effetti è un concentrato di tutto ciò che
più profondamente Dante desidera sentirsi dire.
In che rapporto sta questo latino onirico, questa percezione psichica del latino, quale emerge dalla Vita nova e dal Paradiso, con
l’idea razionale di latino focalizzata nel De vulgari eloquentia? Naturalmente si tratta di fatti mentali di diversissimo ordine, non commensurabili, almeno non direttamente, ma credo che due osservazioni
si possano fare.
La prima è che questo confronto illumina la contrapposizione fra
la natura razionalista del De vulgari eloquentia, come del solidale
Convivio – i due testi cardine della fase filosofica centrale nella storia intellettuale di Dante (anni 1303-1306) – e la natura visionaria così
dell’esordio (Vita nova) come dell’esito conclusivo (Paradiso) della
storia di Dante poeta.
La seconda è che i due fatti mentali, nella loro radicale diversità,
hanno un tratto strutturale in comune, che il termine diglossia è ap-
Che cosa erano il volgare e il latino per Dante
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propriato a indicare. Fra le due lingue c’è infatti una differenza verticale, un dislivello, come tale percepito da tutti nel sistema della cultura in cui Dante è inserito, una alterità di cui Dante filosofo è il
teorico più lucido. Questa percezione culturale è coerente con la percezione psichica del latino come lingua verticalmente altra, che risuona da sopra (o da sotto) la lingua della normale comunicazione:
voce che parla, in sogno, dall’altezza di un nume oracolare, il dio
Amore; o, nello psicodramma della mente, dall’altezza di spiriti-dottori che oscuramente diagnosticano la forza ineluttabile dell’innamoramento; o, nell’ascesa oltremondana, dall’ineffabile altezza dello
spirito che suggella la missione visionaria del poeta. Ovvero, in tutti
questi casi, voce che parla dalla profondità psichica da cui scaturisce
l’ispirazione.
Indice
pag. 5
Presentazione
di Fabrizio Matteucci
»
7
Mirko Tavoni
Premessa
»
9
Mirko Tavoni
Che cosa erano il volgare e il latino
per Dante
(6 ottobre 2012)
»
29
Lorenzo Tomasin
Dante e l’idea di lingua italiana
(27 ottobre 2012)
»
47
Claudio Giunta
Ancora su Dante lirico
(10 novembre 2012)
»
61
Rita Librandi
Dante e la lingua della scienza
(17 novembre 2012)
Appendice
»
89
Gioachino Chiarini
Quattro cerchi, tre croci.
Tempi e silenzi della Divina Commedia
(9 settembre 2012)