2006 numero 8 Dicembre

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2006 numero 8 Dicembre
2016 numero 2 – Marzo
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Picciotti carissimi,vasamu li mani.
a quella sospensione. Si sentì brancicato sopra il
vestito: e non seppe mai se un momento prima o un
momento dopo o nello stesso momento in cui lui
cominciava a modellare il corpo di lei sopra il
vestito, a brancicarla, a cercarla. Per l’intensità
con cui le sue mani sentivano, ebbe in un lampo
l’immagine di sé cieco: e che quel corpo
limpidamente si disegnasse nella sua mente soltanto
per i segni che il tatto ne trasmetteva. Lungamente
si baciarono. Poi Candido sentì e vide, vide nella
sua profonda e dolcissima cecità, se stesso e il
mondo diventare una sfera di liquida iridescenza, di
musica.”
Ho dovuto aspettare che si formasse il mio, ormai
autonomo e insindacabile, giudizio per ritrovare
Sciascia, almeno cinque anni dopo quel consiglio.
Finite le letture da antologia incrinate dalla
divisione in sequenze dei brani, sorde a ogni
sfumatura della voce degli autori.
La voce: prima di tutto dovrebbero insegnarci a
sentirla e a riconoscerla (o a non leggere proprio).
Alle elementari; tantissimo alle medie, fino a
intriderci di suoni sensati e giusta armonia;
trionfalmente e ormai sfondando tutti gli orizzonti
del piacere (nel “furore dell’esercizio”), al liceo.
Perché vera lettura non c’è se non si arriva a
individuare la voce che pre-scrive il libro (e lo
rende, quindi, necessario), a riconoscere dalla sua
assenza il testo da accantonare.
“I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a
quel modo ch’è ditta dentro vo significando”: non è
la sintesi della poetica dello stilnovismo, ma di ogni
poetica. Sciascia, dunque.
Il romanziere più perfetto, più clamorosamente
pedagogico del Novecento.
Quello che dovrebbe stare in cima a tutte le liste di
libri da consigliare ai giovani.
Per lo stile, certo, tagliente e insieme lirico; duro,
grave, lapidario e insieme capace di finezza e
meraviglia, di sorrisi quasi buddici.
Ma soprattutto per l’indole, l’indocile sincerità, la
grande passione del vero, la nostalgia di un operare
sociale (politico) all’insegna dell’onestà più limpida
e temeraria.
Esercizi di ammirazione. Leonardo Sciascia
sublime narratore della disperazione sociale
Ricordo lo spaesamento della quarta ginnasio.
La professoressa che consigliava libri, i classici da
scuola.
Li prendevi in mano e li trovavi di una noia
impossibile.
Nella lista c’era anche Leonardo Sciascia. Il giorno
della civetta, non altro.
Magari dopo Moravia.
Magari dopo Simone de Beauvoir o cose peggiori e
mal tradotte dell’Ottocento.
Non lo prendevi neanche in mano, Sciascia, perché
ti avevano già stroncato prima.
E rischiavi di non leggere:
“La luce dell’alba intrideva la campagna, pareva
sorgere dal verde tenue dei seminati, dalle rocce e
dagli alberi madidi: e impercettibilmente salire
verso il cielo cieco.”
O non leggere:
“Ecco che un’infermiera, passandogli davanti, per
uno sfaglio improvviso del treno Candido se la sentì
aderire e pesare come se la parete alla quale lui si
appoggiava
fosse
diventata
pavimento.
Istintivamente mosse le braccia a impedirle di
cadere, a tenerla sopra di sé: e fu come se il treno
fosse rimasto agganciato a quel brusco movimento,
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Dalla prima all’ultima sua pagina, quello che
Sciascia cerca è verità.
Ed è perfino ridicolo
pensarlo scrittore di ‘cose di mafia’.
La mafia è occasione, per Sciascia, al massimo
pretesto. Il crimine da condannare è la malvagità
umana, che si contorce in ipocrisia, che si affila in
invidia, che si organizza in risentimento, che si
esalta nel negare e nel reprimere (o deprimere, che è
lo stesso). Il capitano Bellodi si rompe la testa
cercando di sciogliere il viluppo di interessi che la
mafia siciliana amministra da decenni con serena
consapevolezza, ma soffre soprattutto nel
riconoscere in quale palude di ignavia sprofondino i
suoi passi.
I colleghi, contenti di campicchiare, dello stipendio
che passa lo stato (quindi insofferenti di fronte a
ogni dubbio che si levi contro quello stesso stato).
La gente: gli attori che ingombrano il palcoscenico
delle nostre vite, che ci sbarrano la via
dell’orizzonte, che vorrebbero soffocarci, che si
avventano su di noi, inevitabilmente, perché spesso
ne dipendiamo, o dipendiamo da un loro tacito
consenso anche per sopravvivere biologicamente.
Il primo capriccio di un vicino di casa, o di un
parente storto, può essere calunnia, denuncia,
condanna, spoliazione, come sa bene Candido, il
protagonista dell’omonimo libello sciasciano del
’77. In tutti i suoi scritti il cuore generoso di
Sciascia sanguina di disperazione sociale (l’unico
socialismo in cui crederà fino in fondo, in questo
identico al Leopardi che parla di sé ne La ginestra).
Si salvano, nel panorama, alcune eccezioni, e mai
del tutto: il vecchio professor Roscio, oculista
valente e capace di saggezze che arrivano alla
concretezza dell’epigramma, di A ciascuno il suo,
dice e non dice, alza per un istante il velo di Maya e
poi preferisce approfittare anche di quello, al
culmine di una vita in cui poco gli era mancato, e se
lo appoggia sulle ginocchia. “Superficiale per
profondità” direbbe Nietzsche, ma Laurana-Sciascia
soffre di non poter avere alleata l’intelligenza del
professor Roscio e un po’ della tragedia verrà anche
da lì.
Tragedia che, assolutizzando, è il terrore che si
prova di fronte a un mondo ridotto a morta gora:
estenuato dal tirare avanti minuto degli ignavi e
dagli slanci abortiti delle intelligenze anche
corrusche, ma non eroiche, che smuoiono nel tempo
impoverendo l’umano con la loro diserzione (chi
può dirsi vivo non sa tollerare la diserzione: non
può, non vuole). E allora chi si salva, alla fine, per
Sciascia? Solo l’eroe, come sapevano i Greci,
“trafitto da un raggio di sole”.
È di eroi, tra mille nobili pudori e sprezzature, che
si occupa e occuperà sempre Sciascia (rispondendo
alla fatalità dell’“ognuno riconosce i suoi”), fino a
sigillarli tutti nel vice de Il cavaliere e la morte,
così simile a sé sofferente.
Perfino Aldo Moro è un eroe, di fronte ai traditori
che ne permettono il macello, dopo avergli fatto
corte intorno e aver dovuto a lui una catena di
favori che li aveva alzati fino ai vertici della società.
Eroe è il ‘monaco’, il solitario: appartato nella sua
stanza di commissariato, dietro la sua cattedra di
professore, nella sua prigione, o chissà dove, come
Majorana.
È ovvio, fisiologico, il distacco di Sciascia dal
comunismo, l’aver abbondato di ghigni amari verso
un’impostura così morbida e ben dissimulata,
impossibile da reggere per l’intelligenza onesta.
Tra i compagni che allontanano Candido dal partito
e il capomafia de Il giorno della civetta, il criminale
conclamato giganteggia.
La disperazione, alla fine: dopo mille ironie, dopo
innumerevoli sarcasmi. E’ l’amarezza sorda,
straziante di chi voleva disinnescare la malvagità
sociale e sente di non esserci riuscito, che quello
che ha bloccato a destra è dilagato a sinistra, e
viceversa. Ma le pagine di Sciascia non è alla
disperazione che portano il lettore: tutt’altro.
Sono un’esortazione potentissima a cercare anche
lui il farmaco che guarirà il mondo dai suoi mali.
E a quattordici, quindici anni è bene sapere che cosa
vale la pena fare da grandi.
Pubblicato il 22 gennaio 2016 da Anna K. Valerio
Alcune considerazioni personalmente maturate in
questi tanti anni di frequentazione col Maestro di
Regalpetra:
Non poteva essere,
irreggimentato.
né
soprattutto
restare,
Non votato alla “politica” per quel senso di libertà,
coerenza e senso critico di opposizione al potere.
A riprova l’immediata consonanza col PCI e
ciononostante la polemica con lo stesso partito.
La Sua idea di giustizia è priva di qualsiasi
accomodamento, di tentativi di mediazione, per non
parlare di qualsiasi compromesso o addirittura di
contaminazioni da imposture.
Talvolta, a misura degli eventi, usa come cartina di
tornasole il “Cui prodest?” e se nell’immediato
possono evidenziarsi, seppur vaghi, elementi di
utilitarismo egoistico, immediatamente innalza
prepotente il muro della critica.
ra
2
Dall'Almanacco Bompiani 1938.
Aneddotica pirandelliana.
Continua il libro del nostro Umberto Gugliotta
IL ROSARIO DEL VESCOVO
Capitolo terzo
La sera del Premio Nobel (10-dic-1934)
Allorché tutti i giornalisti furono usciti, i nipoti del
Maestro fecero irruzione nello studio. Il più
grandicello si avvicinò al Nonno, e con l’aria di chi
ha ormai capito il motivo dell’insolito movimento
nella casa, domanda:
- Bisogna mettere la bandiera al balcone?
- No.
- E perché – domanda il bambino.
- Perché mica hanno dato a tutti il premio –
risponde Pirandello accarezzandolo. Qualche vicino
potrebbe lamentarsi.
Alla
terrazza si accedeva dall’ampia sala,
interamente affrescata, scelta da donna Gerardina,
in quell’occasione, per la cena; si trattava di un
lastrico di pietra lavica circondato da un muretto di
tufo nel quale erano state fissate a mo’ di sedile, su
tutti i lati e senza soluzione di continuità, alcune
lastre anch’esse di pietra lavica.
Situato proprio nel centro del vasto belvedere,
sorgeva un piccolo gazebo o, forse meglio, un
baldacchino non più grande di uno spazioso letto
matrimoniale che, coperto da tre vele triangolari di
tela marinara bianca, fissate ai legni da piccoli
marchingegni metallici, riparava una maestosa
antica poltrona di canna d’India ed un piccolo
tavolino addobbato, entrambi collocati su una
pedana a due gradini, ben illuminati da un prezioso
lume a petrolio posato su un apposito piedistallo
appena all’esterno della leggera costruzione.
Inoltre, su ciascuno dei quattro angoli del parapetto
che delimitava la terrazza, erano state collocate due
fiaccole che, nonostante la quantità complessiva,
diffondevano una luce talmente fioca da far
risaltare, come un faro nella notte, l’interno del
chiosco che ospitava il Vescovo, che pure era
rischiarato solo dalla fiamma di un po’ di petrolio.
Ogni tanto, qua e là, l’accensione di una sigaretta
rischiarava brevemente il volto di qualcuno.
Tuttavia, dall’intenso mormorio sparso nel buio, si
poteva intuire una presenza, maschile e femminile,
talmente numerosa da poter legittimamente pensare
che dei posti sui sedili di pietra non ne fosse rimasto
uno libero.
Al di là della cinta di tufo si intuiva l’esistenza della
rigogliosa vegetazione che circondava il palazzo e se
ne sentiva il profumato respiro; della cittadina, alla
quale i Savoia, sollecitati non si sa da chi, ma che è
possibile immaginare, avevano cambiato il nome da
Gardella in Altomare, le costruzioni più arroccate
non potevano essere viste ma solo indovinate per il
barbàglio fuggito da qualche finestra; di quelle più
vicine, le piante del parco celavano la presenza.
Di giorno l’occhio poteva spaziare a tutto tondo e se
qualcuno avesse voluto individuare i confini della
proprietà di don Gioacchino Tornabene Principe
d’Altomare, avrebbe dovuto tramutarsi in falco e
volare un giorno intero verso occidente. Ma donna
Gerardina, anche col buio, chiudendo gli occhi, se lo
avesse desiderato, sarebbe riuscita a ritrovare, strada
dopo strada, sentiero dopo sentiero, ogni più piccolo
anfratto e lì avrebbe sostato abbracciata al marito.
Le proprietà della nobile famiglia, confinanti a
La sera della consegna ufficiale, entrato nella Casa
dei Concerti di Stoccolma per ricevere il Premio
Nobel, Pirandello non riusciva a trovare la sala del
ricevimento. Ad un tratto vide uscire da un
corridoio un signore in uniforme e chiese a lui.
“Basta che mi segua” disse il gentile signore che
altri non era che il re Gustavo che stava appunto
recandosi alla cerimonia ufficiale.
(ricordataci dall’amico Renato Cesarò)
In Sud America
Nell’ultimo viaggio in America Latina, Pirandello
fu avvicinato da un operaio. I giornalisti non
riuscivano a spiegarsi chi fosse lo sconosciuto. E il
Maestro spiegò poi ch’era un operaio emigrato che
aveva voluto accertarsi che anch’egli fosse
siciliano, conversando con lui nel dialetto della sua
terra.
A Parigi
A Parigi ci fu un tempo che Pirandello era
popolarissimo. Appena entrava in un caffè o in un
teatro, tutti lo riconoscevano: Pirandellò, Pirandellò.
Egli sorrideva a codesta luce di gloria col suo
sorriso ironico e bonario e passava tra gli sguardi di
ammirazione con quel suo passo rapido, la persona
un po’ curva, il volto faunesco ombrato dal
cappellaccio grigio. Modesto e schivo, come
sempre. Ma gli piaceva che il direttore o il portiere
d’albergo lo salutassero al suo arrivo, chiamandolo:
“Mon cher maitre”.
E fu felice come un bambino il giorno che il
ragazzo dell’ascensore, richiesto da un cliente chi
fosse quel signore dal pizzetto bianco e dalla faccia
espressiva come quella di un vecchio hidalgo
spagnolo, il “parigot” solennemente rispose “le plus
grand ecrivain d’Italie”.
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levante con il mare, si estendevano, nella Sicilia
orientale, a sud, a nord e a ovest, talvolta sparse in
piccole contrade, talaltra raggruppate in enormi
tenute, su una vastissima superficie complessiva in
cui si alternavano riserve di caccia, terreni da
coltura e oasi di pace. Nelle decine di masserie,
sparpagliate nei punti nevralgici della campagne, le
bande di braccianti e mezzadri, sotto l’attenta guida
dei campieri, non avevano certo una vita facile;
dalla semina al raccolto, dalla cura delle piante al
trasporto ed al deposito dei frutti, dalla vendemmia
alle lavorazioni, tutto passava nelle loro mani ed
affaticava le loro braccia: olive, mandorle, uva,
foraggi, grano, carni, insaccati, cacio. Ogni ben di
Dio veniva stipato, lavorato e, in buona parte,
venduto.
In quei giorni di fine primavera il sole terminava il
suo quotidiano tragitto verso le diciannove e trenta:
l’oscurità, essendo ormai ben oltre quell’ora,
permetteva alle stelle di affacciarsi qua e là e alla
luna, uno spicchio, di fare la sua ruffianesca
apparizione. Da levante, il mare, distante non più di
sette, ottocento metri, mandava, con la frescura, il
battito della risacca insaporito dal sale.
Il Vescovo don Ignazio Tornabene d’Altomare
apparve sotto il baldacchino d’un tratto, quasi che,
per magia, si fosse lì materializzato; il chiacchierio,
per quanto smorzato, aveva coperto il fruscio
dell’elegante tonaca di raso nero allorché aveva
attraversato la fitta penombra della terrazza.
Sedette sull’ampia poltrona e ne accomodò i
cuscini. Poi rimase immobile per qualche minuto
prima di dire, quasi vedesse oltre il buio:
- Avanti!
Dal lato del muretto che dava sul parco si staccò,
emersa dalla semioscurità, la figura di una persona
che, dal portamento, sembrò essere un uomo;
percorse a lunghi passi silenziosi lo spazio che lo
separava dal baldacchino e si fermò sul limite della
pedana. Investito dalla luce del lume a petrolio che
permetteva di vederne i lineamenti del viso, si
rivelò, per l’appunto, un uomo: la barba lunga di
qualche giorno, quel che si poteva vedere di ciò
che indossava, le mani grosse e trascurate,
rivelavano le sue origini comuni.
- Avvicina! Disse don Ignazio.
L’uomo salì i due gradini della piattaforma che lo
separavano dal Monsignore e, senza pronunciare
parola, gli baciò la mano che questo gli porgeva,
quindi, indietreggiando, riprese il suo posto in
piedi davanti al Prelato, che parlò per primo.
Nessuno poteva udire quel che dicevano, perché
parlavano fitto fitto e sottovoce.
Solo dal gesticolare -molto più contenuto quello del
Vescovo- e dalle espressioni del viso si poteva
intuire qualcosa. In particolare era significativo
l’indice con il quale don Ignazio accompagnava la
veemenza di alcune sue parole, puntandolo contro
l’uomo. Sicuramente non parlavano di santi né di
beati, ma di cose di questo mondo.
Via via che le parole si susseguivano sempre e
comunque in un sussurro, il capo del povero cristo
scendeva verso il petto, fino ad appoggiarsi ad esso.
Quando ciò avvenne, il Monsignore offrì il bianco
del suo sorriso alle luce del lume e, atteggiando il
volto perfettamente ricomposto, tese il braccio e
porse la mano da baciare, cosa che l’uomo fece,
ricambiato con un rapido gesto di benedizione.
Dopo di ciò, il questuante andò al suo posto, il
sedile di pietra, mentre già una seconda ombra si
era alzata e avviata, anch’essa velocemente ed in
silenzio, verso la pedana.
Era dunque iniziato un andirivieni continuo fra il
muretto e il baldacchino e viceversa; il rituale,
talvolta un po’ più accentuato, talaltra un po’ più
scialbo, era tuttavia pressoché sempre lo stesso,
tanto che, se il buio fosse stato ancora più fondo, si
sarebbe potuto affermare che era sempre la stessa
persona a compiere quel tragitto; il dialogo era
sempre mormorato, ma qualche volta era possibile
captare a mezz’aria una parola sfuggita alla misura
delle corde vocali.
Era spontaneo pensare che i presenti si fossero
accordati di calzare ciabatte di pezza, ma l’idea,
anche se solo per quel poco che si vedeva, non
rispondeva al vero- tanto era assoluta l’assenza di
qualsiasi calpestio, ticchettio o altro.
Incuriosiva anche il perfetto sincronismo con cui
una, e una sola, persona si alzava dal suo sedile,
allorché intuiva che il colloquio di chi lo aveva
preceduto era terminato; sfuggiva alla ragione come
ognuno conoscesse il suo turno, considerato che,
apparentemente, non vi era alcunché a determinarlo.
Quest’alternarsi di individui, quasi un ping-pong
silenzioso, aveva, fors’anche per l’atmosfera che lo
avvolgeva, qualcosa di incomprensibile, di
misterioso, per quanto fosse certo che ciascheduno,
sostando davanti al Vescovo solo pochi minuti,
quattro o cinque al massimo, avanzasse una
richiesta, un favore; chi voleva un marito per la
figlia, chi un posto di lavoro, chi un consiglio per
aggiustare una lite oppure una punizione per chi
l’aveva offeso, magari per non cedere alla
tentazione di dargliela personalmente; qualche volta
veniva rassicurato, altre volte respinto, ma i criteri
non erano assolutamente conoscibili.
Tutto ciò non aveva un riscontro obiettivo, era
nell’aria, era un’intuizione ricavata da un gesto, dal
modo con cui il questuante baciava la mano di don
Ignazio, fors’anche dalla maniera adottata per
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impartire la benedizione, se sbrigativa o solenne.
La gente, tutta male in arnese, era lì da ore, prima
sotto il sole e poi esposta alla frescura della sera,
forse troppa; uomini e donne di ogni età, persino
bambini, mogli e mariti, padri e figli, qualcuno
malato, qualcuno troppo o troppo poco coperto, un
altro stracciato, un altro affamato. Chi voleva pane
e chi giustizia, però su questa terra e subito.
Il petrolio del lume era alla fine, lo si capiva dalla
dimensione della fiammella, e le torce, bruciato
l’intero stoppino, si erano spente; l‘odore della cera
e del petrolio, per quanto aromatizzati, smorzata la
brezza, ristagnava sulla terrazza, ormai illuminata
solo da un quarto di luna.
Quando la riunione volse al termine, piano piano,
dalla sala prospiciente, riecheggiarono i rumori,
dapprima esitanti, poi, lentamente, sempre più
determinati; invece nella terrazza tutti, eccezion
fatta per il mormorio che veniva dal baldacchino,
non emettevano più di un fiato.
All’interno la servitù aveva cominciato ad
accendere candele e lumi, ad apparecchiare la
tavola con gran risonare d’argenti e di cristalli.
- Monsignore sta per finire … tra poco tutta quella
gente attraverserà questa sala … ma questa sarà
l’ultima volta! D’ora in poi, se Monsignor Ignazio
vorrà ricevere, dovrà accontentarsi del piano terra,
al chiuso. La terrazza appartiene alla sala e la sala
non è corridoio, è sala!
La voce di donna Gerardina, sicuramente rivolta a
qualcuno degli ospiti, era giunta all’aperto,
inconfondibile. Proprio come aveva voluto.
Tuttavia il destinatario non se ne diede cura, visto
che le parole della cognata avevano acceso un
sorriso canzonatorio sulle sue labbra.
"Ma perché non volete capire che l’amore di una
donna e l’amore del vino sono eccitanti con cui
l’anima anela a Dio, raggiunge la visione estatica e
scorge le sentinelle celesti?
E.L.Masters
CURNUTI A TARIFFA PUSTALI
‘Ntra la catiguria di li curnuti
l’urdinari su’ in granni quantitati
poi c’è l’espressi, ma li benvoluti
su’ chiddi cu li corna assicurati.
Chiddi ca ‘ntesta ci hannu corna ‘nfuti
sunnu curnuti aerei chiamati:
ma la razza chiù forti e chiù prigiata
su’ li curnuti a risposta pagata.
AdS
IL TE’ ATI
DA FORZA AI NERVI DISTESI........
Iu lu cunsigghiu ‘na jurnata ‘ntisi
di dda reclami ca fa tantu scrusciu,
ed accattai, nun badannu a spisi,
lu gran “ TE ATI “ e mi lu vippi a frusciu.
Ed ora aspettu li nervi distisi,
ma un risurtatu ancora nun canusciu:
Sunnu passati ormai diversi misi,
ma ogni nervu addivintò cchiu musciu...
……. Continua
AdS
SUNETTU MURALI
L’ANGOLO DELLA POESIA
La vita è passaggera, e li sciaguri
Dalla penna dell’autore della bella ELEGIA
SICILIANA pubblicata nella rivista di inizio anno, cioè
il nostro Socio prof. Gianfranco Barcella ecco:
sempri s’u all’omu prisenti e vicini,
e dispunennu Diu novi sciaguri,
l’omu va fabbricannu li ruini.
Di jornu in ghiornu, di mumenti ed uri
criscinu li dilitti, e nun c’è fini,
ma allura sintiremu li duluri,
quannu pirdemu l’ajuti Divini.
LA LIBERTA’
Godo della libertà del supremo scrutatore
che fende il cielo con lo sguardo e mira cheto
quel che giace sotto il ceruleo velo.
M’accheto a quella dolce vista e più non voglio
scrutare altrove. Il tremolio verdazzurro del mare
pare la luce dei precordi e m’è caro anche se svela
l’orma essiccata dei primitivi accordi.
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Lu propriu dannu a n’autru dannu chiama,
e chissu di lu primu è assaiu cchiù forti,
a ammatula un rimediu poi si brama.
E’ tiranna di nui la stissa sorti,
leva la vita, a cui la vita ama,
e a cui nun l’ama ci nega la morti.
AdS
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AMO
spenni assà e nenti manci.
Sparagnanu e cumparemu.
Sparagna la farina quannu la cascia è china…ca
quannu lu funnu pari nun vali cchiù lu
risparmiari.
Spenni picca e arricchirài, parla picca e
‘nzirtirài, mancia picca e campirai.
Stà bbeni e lamentati.
Stamu tuccannu lu funnu.
Stari cù ddù pedi ‘nti ‘nnà scarpa.
Statti cuetu.
Stenni pedi quantu linzolu teni.
Stritta nu tì veni e larga nun tì trasi.
Stuppa mi dasti e stuppa ti ‘filavu’….
tu mi tincisti e ju ti mascariavu.
Sugnu stancu mortu.
Sulità, santità.
Sunnu comu la ‘lazzata’ e ‘la tortula’.
Sulità…Santità.
Su sempri friddi: nasu di cani e mani di
varbera.
Sulu a la morti nun c’è rimediu.
Sutta la nivi pani….
sutta l’acqua fami.
Amo l’aria immobile che il vento scuote alla sera,
amo il profumo dei gigli
che perdono il polline al sole.
Amo il canto nascosto del merlo alla gazza veloce,
che spazia con l’ali distese nel cielo sereno.
E amo il tuo viso ridente
Che ombran le chiome leggiadre
E gli occhi che, chairi e soavi,
nascondono un mondo d’amore.
Io Amo.
Renato Cesarò
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DETTI E PROVERBI
Si vò ca l’amicizia si manteni,un cannistru
chinu di robba av’affari unu và e unu veni.
Si ‘nparadisu nun trovu a tìa, mancu ccì trasu.
Sì vò passari la vita cuntenti,
statti luntanu di li parenti.
Si vò stari megliu lamentati.
Si a ogni cani ch’abbaia cì vò tirari ‘nà petra,
nun t’abbastanu vrazza.
Sì comu lu scrafagliu nnì la stuppa.
Si comu ‘nnà bannera di cannavazzu.
Si la ‘mmidia fussi guaddara,*
tutti fussimu guaddarusi.
Si li giuvini vulissiru,si li vecchi putissiru,
nun cì fussi cosa chi nun si facissi.
Si lu riccu nunn’è pazzu, lu poviru nun po’
campari.
Si non vò spuntunati…..nun hjri a caccia di
porcispini.
Si sapi dunni sì nasci,
nun si sapi dunni si mori.
Si ti vò ‘nzignari a ‘mpuviriri….
adduva l’omini e nun ci jri.
Si pì paura di li corva ‘un siminassimu linusa,
nun putissimu aviri la cammisa.
Siccu comu nnà carrubba.
Soggira cuteddu, nora grattalora.
Sorti e morti dunni và tì la porti.
Sparaci, babbaluci e funci,
* Il voluminoso rigonfiamento che interessa metà o tutto
lo scroto, con consensuale mascheramento del pene e
che al suo interno contiene per lo più intestino, altro non
è che la progressiva evoluzione di un’ernia inguinoscrotale trascurata, fortemente invalidante poiché viene a
limitare pesantemente l’attività lavorativa oltre che la
funzione sessuale, comportando anche disturbi
dell’evacuazione.
Walter Morando
6
un uomo disperato che tenta di resistere alla
mancanza di senso di ogni azione.
Quale è il senso se Berta vuole stare con lui e
invece dieci anni prima se ne è andata con un altro
lasciandogli il vestito appeso alla porta, tenuto lì
come il fantasma della sua presenza.
Quale è il senso se lei continua a cercarlo e lui può
non cercarla, quale è il senso se ogni volta che lui
aspetta lei non arriva?
Quale è il senso della lotta se ogni azione è
destinata al fallimento, se la distruzione e l’orrore si
affacciano ad ogni angolo di strada?
Quale è il senso se il capitano Clemm può dare in
pasto un uomo a suoi cani?
Ma l’uomo che conquista e uccide è uomo ancora?
Cos’altro è se non uomo? E’ lupo?
No, è uomo anch’esso.
Anziani piaceri
Sazio di sonno, apro gli occhi e dalla socchiusa
tapparella che guarda il mare si intuiscono solo i
colori della notte.
Lo sguardo va alla non più indispensabile sveglia e
le lancette dicono 03,30. Capita agli anziani.
Ma non è tempo di dormire.
Nel silenzio della notte, intervallato dai leggeri
sussurri di mia moglie, comincia una passeggiata in
punta di piedi fra le mura domestiche alla ricerca
dei piccoli amici.
Le due pile di libri che sono sul comodino non
soddisfano al momento questa esigenza di novità.
In un angolo della libreria ritrovo in un’ altra
edizione -non certo brillante- il libro portato
all’esame di letteratura italiana nel lontano1971.
Dovrei ricordarlo bene e invece…
Ma cosa avevo studiato?
Forse avevo sfogliato solo il Bignami….
Allora bisogna rileggere dal mio conterraneo il
siracusano Elio Vittorini Uomini e no.
Insomma sin dalle prime pagine trovo un ambito e
un componimento che mi appare del tutto nuovo.
In fondo è del 1945 un anno importante e la
narrazione è relativa all’inverno del 1944.
Siamo in pieno fascismo e in tempo di guerra.
In una Milano occupata dai tedeschi, lugubre e
attonita ma ancora indignata e capace di reagire,
l’autore racconta le vicende di un gruppo di
partigiani, impostando una riflessione sul senso
profondo della dignità dell’uomo e della vita.
Ed è attraverso le aspirazioni e le attività quotidiane
di uomini semplici e “normali”, quasi costretti a
farsi combattenti, che emerge l’atrocità della
violenza.
Uomini e no è il tentativo di dare voce a cose che
per anni erano state soffocate ed anche, per lo stile
con cui è scritto (l’autore che si presenta egli stesso
in prima persona come autore di quella storia e
dialoga con i suoi personaggi,) diventa una specie di
laboratorio della letteratura in cui mostrare
architetture nascoste.
Alla fine Enne2 finirà con il cedere alla tentazione
di “perdersi” ma solo in parte.
Poi, in mezzo all’orrore, gli altri uomini, anch’essi
causa di orrore, continueranno a battersi.
Uomini contro uomini.
“Chi aveva colpito non poteva colpire di più nel
segno. In una bambina e in un vecchio, in due
ragazzi di quindici anni, in una donna, in un’altra
donna; questo era il modo migliore di colpir
l’uomo. Colpirlo dove l’uomo era più debole, dove
aveva l’infanzia, dove aveva la vecchiaia, dove
aveva la sua costola staccata e il cuore scoperto:
dov’era più uomo. Chi aveva colpito voleva essere
il lupo, fa paura all’uomo. Non voleva fargli
paura? E questo modo di colpire era il migliore che
credesse di avere il lupo per fargli paura. Però
nessuno, nella folla, sembrava aver paura.”
"Essi avevano, ognuno, una famiglia: un materasso
su cui volevano dormire, piatti e posate in cui
volevano mangiare, una donna con cui volevano
stare; e i loro interessi non andavano molto più in
là di questo, erano come i loro discorsi. Perché,
ora, lottavano? Perché vivevano come animali
inseguiti e ogni giorno esponevano la loro vita?
Perché dormivano con una pistola sotto il cuscino?
Perché lanciavano bombe? Perché uccidevano?
(…) Perché, se non erano terribili, uccidevano?
Perché, se erano semplici, se erano pacifici,
lottavano? Perché, senza aver niente che li
costringesse, erano entrati in quel duello a morte e
lo sostenevano?"
Così, quasi per caso la storia diventa Storia,
attraverso le storie di ognuno e, in particolare,
attraverso la storia frustrata fra Berta e il capitano
Enne2, un partigiano attivo e coraggioso ma anche
Il libro è finito, con qualche momento di riflessione
sulla storia dei nostri genitori, della generazione
precedente la nostra, dove gli aguzzini trovano
irrazionalmente una loro dimensione di uomini
(malvagi) mentre gli altri confermano la loro dignità
del resistere e del combattere.
Ormai sono le otto e, nella commozione, il
calendario ci dice che è il 10 febbraio, la giornata
del ricordo.
Toh guarda caso.
ra
7
Torna in Sicilia anche la Testa di Ade.
Il Paul Getty Museum restituisce il reperto
trafugato a Morgantina
UNA VOLTA PER TUTTE
Tutti sanno che…
Il genere del nome che indica la specialità siciliana
a base di riso con la salsa di pomodoro e la carne (o
altro) divide in due l’isola: arancina (rotonda) nella
parte occidentale e arancino (rotondo o a punta,
forma che potrebbe essere ispirata dalla figura
dell’Etna) nella parte orientale, con l’eccezione di
alcune aree nella zona ragusana e in quella
siracusana. Il gustoso timballo di riso siculo deve il
suo nome all’analogia con il frutto rotondo e dorato
dell’arancio, cioè l’arancia, quindi si potrebbe
concludere che il genere corretto è quello
femminile: arancina.
Ma non è così semplice, e vediamo perché.
Origini
Le origini di questa pietanza si vorrebbero far
risalire al tempo della dominazione araba in Sicilia,
che durò dal IX all’XI secolo.
Gli arabi avevano l’abitudine di appallottolare un
po’ di riso allo zafferano nel palmo della mano, per
poi condirlo con la carne di agnello prima di
mangiarlo; da qui la denominazione metaforica: una
pallina di riso con la forma di una piccola arancia
(< ar. nāranj).
Come si legge nel Liber de ferculis di Giambonino
da Cremona (curato da Anna Martellotti, 2001),
tutte le polpette tondeggianti nel mondo arabo
prendevano il nome dalla frutta a cui potevano
essere assimilate per forma e dimensioni (arance ma
anche albicocche, datteri, nocciole); il paragone con
le arance era naturale in Sicilia dato che l’isola ne è
sempre stata ricca.
In realtà però non ci sono tracce di questa
preparazione nella letteratura, nelle cronache, nei
diari, nei dizionari, nei testi etnografici, nei ricettari
e così via prima della seconda metà del XIX secolo:
essa dunque compare in età assai più recente di
quanto si potrebbe pensare.
Per di più, si dovrà osservare che nel Dizionario
siciliano-italiano di Giuseppe Biundi (1857), il
primo dizionario siciliano che registra la forma
arancinu, la definizione descrive "una vivanda
dolce di riso fatta alla forma della melarancia":
dolce, non salata; ma i passaggi dolce/salato non
sono infrequenti nelle varie fasi della gastronomia,
se persino lapizza alla napoletana è ancora per la
Scienza in cucina di Pellegrino Artusi (ediz. 1911)
un dolce fatto di pastafrolla e crema (ricetta 609).
Nel Nuovo vocabolario siciliano-italiano del Traina
(1868), infatti, dalla voce arancinu si rinvia a
crucchè: "specie di polpettine gentili fatte o di riso
o di patate o altro", da confrontare con la ricetta 199
(Crocchette di riso composte) della Scienza in
cucina, che indica una preparazione certamente
Dopo la Venere, il Museo di Aidone (Enna) ospiterà
la splendida testa policroma "riconosciuta" grazie al
lavoro degli archeologi siciliani.
Alessandra ZINITI
Dopo quasi tre anni di tira e molla da quando il Paul
Getty Museum di Malibù aveva ammesso di avere
comprato sul mercato nero una delle opere d'arte
trafugate nel sito archeologico di Morgantina, in
provincia di Enna, sta per rientrare in Italia un altro
importantissimo reperto dopo la Venere. E' la testa
di Ade, un meraviglioso marmo con i ricci della
barba colorati che è stato trafugato alla fine degli
anni Settanta e venduto al Getty dal collezionista
newyorchese Maurice Tempelsman per 500 mila
dollari. La Testa di Ade ha fatto rientro in Sicilia il
29 gennaio e sarà ospitata nel museo ennese di
Aidone, che già ospita la Venere.
Il reperto, detto anche Barbablu, è stato consegnato
dal museo californiano alla presenza del console
generale d'Italia a Los Angeles Antonio Verde e dei
rappresentanti della Procura della Repubblica di
Enna e dei carabinieri del nucleo tutela Patrimonio
artistico di Palermo diretto dal maggiore Luigi
Mancuso. Raro e pregiato, un unicum nel suo
genere, sia per il tipo di materiale utilizzato, assai
fragile, sia per le consistenti tracce di policromia,
rosso mattone nei capelli e blu nella barba - che
valsero alla testa il soprannome Barbablù - il
reperto è una testa in terracotta policroma, di epoca
ellenistica, raffigurante molto probabilmente il dio
greco Ade. Pare che la collocazione originaria della
Testa di Ade fosse il santuario di Demetra, sito
all'interno del parco archeologico di Morgantina.
8
salata. Nei repertori prima citati non sono tuttavia
mai menzionati né la carne né il pomodoro, e in
effetti è difficile dire quando questi due ingredienti
siano entrati nella ricetta: del pomodoro, tra l’altro,
si sa che cominciò a essere coltivato nel Sud della
penisola solo all’inizio dell’Ottocento.
Alla luce di questi fatti il legame tra il supplì
siciliano e la tradizione araba non sembra più così
certo, mentre si potrebbe pensare che si tratti di un
piatto nato nella seconda metà del XIX secolo come
dolce di riso, ma che sia stato trasformato quasi
subito in una specialità salata.
Inoltre il nome del manicaretto – secondo l’ipotesi
suggerita da Salvatore C.
Trovato in A proposito di arancino/arancina
("Archivio
Storico
della
Sicilia
Centro
Meridionale", II, 2016) – potrebbe derivare non
solo dalla forma dell’arancia, ma anche dal suo
colore: in siciliano infatti le parole parole che
indicano nomi di colori si formano da una base
nominale più il suffisso -inu, quindi arancinu ‘di
colore arancio’, come curaḍḍinu‘del colore del
corallo’ o frumintinu ‘che ha il colore del
frumento’).
Con la -o
Nel dialetto siciliano, come registrano tutti i
dizionari dialettali, il frutto dell’arancio è aranciu e
nell’italiano regionale diventa arancio.
Del resto, alla distinzione di genere nell’italiano
standard, femminile per i nomi dei frutti e maschile
per quelli degli alberi, si giunge solo nella seconda
metà del Novecento, e molti parlanti di varie regioni
italiane – Toscana inclusa – continuano tuttora a
usare arancio per dire arancia.
Al dialettale aranciu per ‘arancia’ corrispondono il
diminutivo arancinu per ‘piccola arancia’, arancino
nell’italiano regionale: da qui il nome maschile
usato per indicare il supplì di riso.
La prima attestazione nella lessicografia italiana di
arancino si trova nel Dizionario moderno del
Panzini (edizione 1942), che registra la forma
maschile, contrassegnandola come dialettale
siciliana.
Questa denominazione, dunque, è quella che
riportano i dizionari dialettali, i dizionari italiani e
che è stata adottata dal Ministero delle Politiche
Agricole, Alimentari e Forestali nella lista dei
Prodotti Agroalimentari Tradizionali italiani
(arancini di riso: Regione Siciliana, Prodotti della
gastronomia, 188); è la forma che il commissario
Montalbano ha portato nei libri e in televisione
(Andrea Camilleri, Gli arancini di Montalbano,
1999) e di conseguenza nella competenza di tutti gli
italiani.
Con la -a
I dizionari quindi concordano sul genere di
arancino, ma le indicazioni del genere del nome che
indica il frutto dell’arancio sono, come abbiamo
detto, oscillanti: le due varianti arancio e arancia
coesistono, con una prevalenza del femminile
nell’uso scritto e una maggior diffusione del
maschile nelle varietà regionali parlate di gran parte
della penisola.
Il femminile tuttavia è percepito come più corretto –
almeno
nell’impiego
formale
–
perché
l’opposizione di genere è tipica nella nostra lingua,
con rare eccezioni, per differenziare l’albero dal
frutto. Si può ipotizzare che il prestigio del codice
linguistico standard, verso cui sono sempre state più
ricettive le aree urbane, abbia portato la forma
femminile arancia a prevalere su quella maschile
arancio nell’uso dei parlanti palermitani: essi,
avendo adottato la forma femminile per il frutto,
l’hanno di conseguenza usata nella forma alterata
anche per indicare la crocchetta di riso: dunque,
arancina.
Per la zona ragusana e siracusana potrebbe invece
aver influito il fatto che la forma dialettale più
diffusa per indicare il frutto non è aranciu ma
partuallu/partwallu (cfr. AIS, carta 1272): la
radicale diversità dell’esito locale può aver fatto sì
che quando si è assunto il termine italiano per
indicare il frutto lo si sia fatto nella forma codificata
arancia, da cui arancina.
Si potrebbe allora concludere che chi dice arancino
italianizza il modello morfologico dialettale, mentre
chi dice arancina non fa altro che riproporre il
modello dell’italiano standard. Questa supposizione
troverebbe conferma nell’unica attestazione di
arancina che si trova nella letteratura di fine
Ottocento: le "arancine di riso grosse ciascuna
come un mellone" dei Viceré (1894) del catanese
Federico De Roberto, che si atteneva a un modello
di lingua di matrice toscana. Alla fine del secolo la
variante femminile è stata poi registrata da Corrado
Avolio nel suo Dizionario dialettale siciliano di
area siracusana (un manoscritto inedito della
Biblioteca Comunale di Noto, compilato tra il 1895
e il 1900 circa) e più tardi da Giacomo De Gregorio
nei suoi Contributi al lessico etimologico romanzo
con particolare considerazione al dialetto e ai
subdialetti siciliani ("Studi Glottologici Italiani",
VII, 1920, p. 398) che rappresentano l’area
palermitana. Arancina è stata registrata anche dalla
lessicografia italiana: dallo ZINGARELLI del 1917,
che la glossa come "pasticcio di riso e carne tritata,
in Sicilia", e dal Panzini nell'edizione del 1927;
dopo però non se ne ha più nessuna traccia.
9
UN PARERE CATANESE
Vorrei tornare, spero per l'ultima volta, sulla
questione del sesso degli arancini e della loro
forma. E' una questione che credevamo fosse ormai
risolta da anni, tanto che a Catania il dibattito si è
spostato in avanti, concentrandosi sull'annoso
problema, ad oggi irrisolto, se l'arancino vada
impugnato dalla base o dalla punta.
I cugini di Palermo sono rimasti invece indietro e,
anziché guardare in avanti, si guardano le dita dei
piedi. Si sostiene con forza che la parola arancina
deriverebbe dall'italiano «arancia» e, dunque, la
declinazione più corretta sarebbe al femminile.
Il ceppo etnico a cui appartengono i cugini di
Palermo, quello che chiama arancina l'arancino,
discende con molta probabilità dagli austriaci di
Salisburgo.
Li riconoscete facilmente per strada, perché sono
tutti biondi come gli Abba e guidano il «motore».
E' gente aristocratica, che mangia le arancine nei
salotti e li tiene in mano con i guanti, per non
insivarsi le mani, che poi le dita scivolano
nell'iphone.
E' gente che incontra altra gente per la strada e
l'insulta con un «sei una arancina con i piedi».
In realtà, la questione è semplice, la parola arancino
è l'italianizzazione del siciliano arancinu, che deriva
a sua volta da aranciu.
In siciliano, infatti, il frutto si declina al maschile.
Queste cose di solito si sanno.
Nel dizionario siciliano-italiano del palermitano
Giuseppe Biundi, del 1857, si legge infatti solo il
lemma arancinu.
Nel dizionario della lingua italiana della Treccani,
ancora, non esiste la voce arancina, ma solo
arancino.
Persino Camilleri ha scritto Gli arancini di
Montalbano.
Gli arancini hanno la forma di un cono per
tradizione.
A Palermo, li fanno a forma di arancia solo per
distinguersi.
E' un complesso di inferiorità culinaria.
Se noi li facessimo a forma di arancia, loro li
farebbero più grandi, a forma di cantalupo e li
prenderebbero in mano sentendosi tanti Dino Zoff.
Tralascio, infine, la questione sulle origini, perché
ci muoviamo fuori dal campo della realtà.
I cugini di Palermo sostengono, infatti, che
l'arancino lo hanno inventato loro.
Ma sono fatti così a Palermo.
Tutto passa da loro.
Gli metti una matita in mano e ti dicono che la
Gioconda era della Vucciria.
Arancine!
Al di là di alcune rivendicazioni permeate da inutili
campanilismi, spesso le motivazioni di chi sostiene,
contro la registrazione dei vocabolari, che
l’arancina sia fimmina con la -a traboccano di un
amore (con la a-!) per il cibo che altro non è se non
amore per la propria terra e per le proprie tradizioni;
per questo basterà citare Davide Enia, attore e
scrittore palermitano:
Battezzare con correttezza è gesto di umiltà di fronte
all’eccezionalità del piatto, ché noi che le mangiamo le
arancine, no, noi non vogliamo (soltanto) bene
all’arancina, palla di sfera che si basta da sé. No.
Noi CELEBRIAMO l’arancina noi la veneriamo, lei e la
sua tondità solare, sfera a carne o a burro, palla,
piccola arancia, fìmmina. Il resto…. non esiste il resto
di fronte all’arancina.
Ma non è tutto. Andrea Graziano, chef e
imprenditore catanese, per unire le due metà
dell’isola nel giorno di Santa Lucia (giorno in cui si
festeggia mangiando panelle, cuccìa e arancine) ha
proposto nella sua "bottega sicula" palermitana,
gemella di quella catanese, le arancinie: «una
porzione che comprende due arancini a punta
preparati con sarde e finocchietto e due arancine
tonde preparate "alla norma" con melanzane fritte,
ricotta, pomodoro e basilico».
Una terra di mezzo in cui convivono gli arancini
catanesi e le arancine palermitane, e si fondono in
un’unica specialità dal sapore inconfondibile,
simbolo della sicilianità.
Ai nostri amici possiamo quindi rispondere che il
nome delle crocchette siciliane ha sia la forma
femminile sia la forma maschile, determinata
dall’uso diatopicamente differenziato.
Che poi maschio o femmina, a punta o rotonda, è
sempre la fine del mondo!
A cura di Stefania Iannizzotto Redazione Consulenza
Linguistica Accademia della Crusca
10
Da allora e per diversi anni, ancora in occasione
delle feste di Carnevale, catanesi grandi e piccoli,
giovani ed adulti, uomini e donne anche in
maschera, avevano il piacere di recarsi con i vari
mezzi dell’epoca a Paternò, invadendo le strade e le
piazze e danzando con le musiche diffuse dagli
altoparlanti.
La pista da ballo erano le piazze principali, piazza
Indipendenza, i Quattrocanti, piazza S.Giovanni,
piazza S. Antonio Abate o Vittorio Veneto, il Corso
principale ('a strata ritta), e lo scopo era di fare
"quattro salti" in compagnia, per dimenticare i
propri guai, coinvolti dalla spensieratezza che il
Carnevale destinava a tutti nella via principale o in
piazza Indipendenza, nei pressi del caffè Grasso o
di fronte al bar Platania.
Vi si andava con le Topolino, le prime 500 e 600
Fiat, con Vespe e Lambrette, ma principalmente con
la littorina della Circumetnea, ‘a Ciccum per i
catanesi (che partiva dal Corso delle Province
all’incrocio del Corso Italia ancora incompleto) e
con i postali della SITA.
Le vie pullulavano di mascarati e per le donne era
d'obbligo il dòmino, travestimento mutuato da una
antica maschera veneziana del settecento (bauta),
composta da un ampio mantello nero con
cappuccio, completato da una mascherina sul viso
per
non
farsi
riconoscere:
Le mascherine
invitavano a
ballare così celate
chi più loro era di
gradimento e
finito il ballo, lo
scherzo, la breve
chiacchierata, era
di rito che
portassero il
cavaliere ai bar
pasticceria
dirimpettai della
Piazza Indipendenza, dove era d’obbligo farsi
“offrire” i già allora famosi Baci Perugina o altra
varietà di dolciumi!
Era un giuoco, tra scherzo e tradizione, che si
ripeteva e che il cavaliere in fondo accettava
facendo buon viso, nella speranza di una
conoscenza più approfondita.
Talvolta questa tradizione spingeva qualche
mascherina a eccedere, invitando alla consumazione
i propri amici e facendo quindi pagare un conto
salato allo sfortunato cavaliere. Quanti amori
nascevano in quei giorni di autentico, genuino
divertimento, ma anche di grandi emozioni!
Il Carnevale di Paternò
Nato pare nel 1867 e sospeso negli anni dei grandi
conflitti mondiali, ad inizio del 1950 aveva ripreso
l’antica tradizione di una volta. La festa andava
dall'Epifania al mercoledì delle Sacre ceneri e la
febbre del Carnevale cresceva il Giovedì grasso per
culminare il martedì nel processo al Re Carnevale
che, per espiare i peccati e i mali dell'anno vecchio,
veniva condannato al rogo.
L'usanza delle Mascherine di «impegnare» i
cavalieri si scatenò dopo la Seconda guerra
mondiale, quando migliaia di
mascarati
scorazzavano per la via Vittorio Emanuele, quasi a
dimenticare le sofferenze e le ferite della guerra.
11
Ma quante batoste prendevano quegli imprudenti
mariti che si lasciavano ammaliare dalle attenzioni
di una affascinante mascherina, che altri non
era…che la propria consorte!
chiama la membrana
che chiude il guscio
delle lumache.
L’elemento
principale che
caratterizzava le
‘ntuppateddi era il
travestimento, che
avveniva
con delle varianti mediante l’uso degli “occhiali”,
cioè un velo che ricopriva totalmente il volto
lasciando solo due fori per poter vedere.
Dopo il 1693, gli “occhiali” furono severamente
proibiti e, quindi, sostituiti da mantelli con lunghi
cappucci che mantenevano il volto “velato”.
"Il costume componesi – fa dire Giovanni Verga
nella novella "La coda del diavolo" - di un vestito
elegante e severo, possibilmente nero, chiuso quasi
per intero nel manto, il quale poi copre tutta la
persona e lascia scoperto soltanto un occhio per
vederci e per far perdere la tramontana, o per far
dare al diavolo. (...) Dalle quattro alle otto o alle
nove di sera la ’ntuppatedda è padrona di sé (cosa
che da noi ha un certo valore), delle strade, dei
ritrovi, di voi, se avete la fortuna di esser conosciuto
da lei..".
L’usanza connessa alla processione della Vara di
S.Agata venne abbandonata dopo il 1868,
rimanendo viva solo nell’ambito delle feste di
Carnevale per altri cento anni, ma subendo poi le
ineluttabili conseguenze maturate a seguito del
degrado della società. Oggi sentendo la parola
‘ntuppateddi, viene ancora l’acquolina in bocca, ma
solo perché si pensa alle lumache (o crastuni), che
secondo una delle tante ricette siciliane, bisogna
lavare parecchie volte per togliere tutto il terriccio
che le ricopre, eliminare la pellicina bianca che
chiude il guscio (‘a tuppa), tenerle in acqua fresca
per 2 ore e sciacquarle frequentemente, farle
cuocere poi in una larga padella con il sale per circa
10 minuti, mescolando continuamente e con
delicatezza per non rompere i gusci; aggiungendo
poi mezzo bicchiere di olio extravergine d’oliva,
farle insaporire con il soffritto di aglio e cipolla
tritata per alcuni minuti ed aggiungendo ancora la
salsa di pomodoro ed il peperoncino, farle cuocere
ancora per 20 minuti circa e poi servirle calde con il
fondo di cottura …
La tradizione del ballo mascherato nelle piazze è
andata via via scadendo, con il dilagare della
delinquenza, che approfittava spesso del
mascheramento per compiere atti illeciti, finché il
costume mascherato per motivi di pubblica
sicurezza dopo il 1980 fu definitivamente bandito.
Ma da dove era nata quella tradizione? E cosa
c’entra con la Festa di S.Agata, qui durante il
tradizionale giro cittadino della Vara, in una foto in
Piazza Spirito Santo nel 1955?
Qui si mescola il sacro ed il profano, la devozione e
la burla: già nei secoli XV e XVI infatti a Catania
donne di ogni classe sociale nel pomeriggio del 4 e
5 Febbraio (ma anche in occasione del Carnevale)
erano libere di uscire non accompagnate e,
mescolandosi alla folla che seguiva la processione
Agatina, dopo aver invitato il cavaliere di turno con
gesti eloquenti, chiedevano in regalo dolci o altro.
Per quel giorno si sarebbero offerte alle galanterie
degli uomini e non facendosi riconoscere, così
nascoste, vivevano il loro unico momento di libertà
femminile nel quale era loro concesso di tutto: fare
scherzi, lasciarsi corteggiare, ricevere doni, uscire
di casa da sole: era un gioco delle parti “onesto”,
che non comprometteva nessuno!
Avevano il capo coperto ma in modo da avere
libero solo un occhio, cosi' da poter vedere, ma non
essere viste! Erano chiamate le 'ntuppateddi, dalla
voce dialettale tuppa, con la quale il siciliano
segnalatoci da
Manlio Guzzardi
12
Lettera sulla genesi di un romanzo
In Sicilia piangi tre volte
Cara amica,
mi è capitato spesso che qualcuno mi abbia chiesto
come nascono le storie che racconto e come i miei
personaggi.
Credo che per ciascuno la genesi avvenga in modo
diverso ma in qualche modo simile.
Lo scorso anno a chiedermelo è stata una dinamica
rivista letteraria.
Così ho provato a rispondere dunque nelle pagine di
“Notabilis” (anno VI, n. 6, novembre-dicembre 20)
Quando arrivi
Quando te ne vai
Quando ti pesi.
Se hai una storia dentro devi farla uscire.
E quando l’avrà fatto dovrai lasciarla andare e
permetterle fare la sua strada a prescindere da te.
Così mi disse Mario Baudino quando, fissando il
primo contratto speditomi da Rizzoli, ero ancora
incerta se firmare o meno e cercavo conforto nelle
parole di un amico che in fatto di libri e di vita la sa
lunga.
Ero confusa perché quella firma avrebbe significato
per me espormi, ovvero consegnare al mondo una
storia che avevo maturato al mio interno (e
consegnare anche me attraverso essa).
Avrei dovuto farle affrontare il pericolo delle
critiche mentre io, amandola, preferivo tenerla
sempre con me, coccolarla e proteggerla da tutto.
Non ho avuto figli ma ho sempre pensato che, con
le dovute distanze, un genitore provi qualcosa di
molto simile ai sentimenti che agitavano me allora e
che non hanno smesso di preoccuparmi.
Perché di vita si tratta e di nascita.
I personaggi dei miei romanzi nascono dopo una
gestazione nella mia mente.
Vengono fuori con i loro visi, il loro modo di
muoversi e di agire; con il carico delle loro storie
ancora da dipanarsi.
A volte, per dare loro un nome devo aspettare di
scrutarne le espressioni e lasciare che riempiano la
mia casa e la mia esistenza.
Anzi quando iniziai a scrivere fu proprio per
colmare lo spazio vuoto della mia stanza e vederlo
saturo di loro, irreali eppure familiari e quasi
tangibili.
Qualcuno cioè con cui entrare in contatto, dialogare,
confrontarmi e permettergli di crescere.
Come una madre un po’ troppo severa non concedo
mai troppa libertà ai miei personaggi e pretendo
sempre di sapere dove siano, dove e con chi
andranno e cosa faranno.
Per questo mi sorprendo spesso quando sento
scrittori dire che un tal personaggio “ha preso loro
la mano” e ha cominciato a fare di testa sua.
S.Agata sul fondo di un carretto siciliano .
di Gaetano di Guardo
Il 25 febbraio scorso alla Feltrinelli la nostra
Emanuela Ersilia ABBADESSA ha presentato,
dopo il successo di Capo Scirocco il suo secondo
libro: FIAMMETTA.
Una maestra che legge i componimenti del poeta
Velastro, nella sua umile stanza a Firenze.
Ha uno spasimante ma non le interessa, pensa
soltanto ai suoi bambini e alla letteratura.
Finché proprio lui, Mario Velastro, tiene un
incontro in città e tra loro nasce un’affinità,
un’attrazione….
Nell’attesa di una prossima intervista, abbiamo
“rubato“ dal suo simpatico Blog “Lettere dal
Convento” il seguente articolo:
https://letteredalconvento.wordpress.com/
13
Loro, le mie creature, nascono da un mio disegno e
non sfuggono al mio controllo: hanno il guinzaglio
corto che permette loro qualche giro in tondo ma li
costringe poi a tornare sul tracciato che solo io ho
stabilito.
La nascita per me è soprattutto evocazione da
immagini, è suggestione visiva: può nascondersi nel
modo in cui una sconosciuta si mette una ciocca di
capelli dietro un orecchio, dalla maniera che un
uomo ha di stare assorto o di spiare il passo di una
donna o anche da un paesaggio scovato per caso in
rete che mi figuro come teatro di una storia.
Così la storia stessa prende forma subito: la
possiedo dall’inizio alla fine ed è dal possesso
scaturisce l’impellenza di raccontarla.
Questa lezione la imparai dalla mia amata maestra
delle elementari che stimolava la fantasia di noi
bambini chiedendoci di osservare il mondo, i
passanti, le situazioni intorno a noi e, sulla base di
ciò che vedevamo, costruire una storia.
Queste esercitazioni le chiamava Osservo e scrivo.
Non so e non credo le avesse inventate lei ma so
che quando uscì il mio romanzo, mia madre mi
disse: «se sai scrivere lo devi alla maestra De
Francisci, devi ringraziarla per quello che sei oggi».
Infatti, tra tutte le gioie che il mio romanzo mi ha
dato, poterne dedicare una copia alla prima
insegnante, resta una delle più forti.
E nel prossimo, una maestra sarà la protagonista e,
per quanto molto diversa dalla mia, assegnerà
esattamente lo stesso tipo di compito ai suoi allievi.
Con davanti a me i personaggi e lo sfondo della
vicenda, giungo a quella fase della nascita che è
un’epifania: la lingua.
Ogni narrazione ha una sua lingua precipua, un
esatto modo personale per essere espressa e non un
altro.
È allora che il concepimento per me diviene
gestazione, labor limae sul suono delle sillabe,
articolarsi dei periodi e di questi in paragrafi.
E all’immagine così si aggiunge il suono: stampo
una pagina e la rileggo a voce alta camminando per
la stanza mentre loro, i protagonisti della storia, mi
figuro se ne stiano a guardare e, forse, di sottecchi
ridano un po’ di me.
Credo che ciascuno abbia un modo differente di
dare vita ai protagonisti di un romanzo e spesso mi
piace chiedere agli altri come facciano, quante
prove e quanti fogli gettino via prima di sentire di
aver centrato il bersaglio.
Ma è certo che le storie, come mi disse Baudino,
una volta scritte ti abbandonano.
Camminano sole per il mondo e smettono
definitivamente di appartenerti.
Più o meno con questa consapevolezza vissi
l’ubriacatura di gioia delle prime presentazioni e
delle prime recensioni dopo l’uscita di Capo
Scirocco ma a volte, alla sera o al mattino appena
alzata, Luigi e Rita, Mimì e Annuzza mi
mancavano.
Sentivo la loro assenza come se fossero figli partiti
per chissà dove e che non avrei più rivisto.
A poco valeva il fatto che mi tornassero davanti
quando, presentando il romanzo, leggevo qualche
passo: di fatto, loro non erano più a casa mia e non
dipendevano più da me.
Fu allora che in modo inatteso li riconquistai tutti.
Non mi accorsi subito che stavano tornando eppure
stava succedendo.
Accadde e continua ad accadere nelle parole di
quanti mi leggono e hanno la bontà di scrivermi:
ciascuno di loro mi racconta qualcosa in più di uno
di loro e me lo restituisce con addosso un pensiero,
un’idea personale che lo rende inevitabilmente
differente da come io stessa me l’avevo generato.
È allora che comprendo pienamente cosa voglia dire
“lasciare andare una storia”.
Non significa soltanto consegnare una narrazione ad
altri e attenderne supinamente il giudizio; vuol dire
piuttosto veder ritornare la propria scrittura
arricchita di parole, sensazioni, evocazioni altrui.
E di ciascuna di quelle, come farei per un figlio che
rincasa carico di esperienza, faccio tesoro.
Peso ogni parola e la serbo per farci germogliare
sopra una narrazione futura che conterrà anche un
po’ della maturità della sorella maggiore ormai
cresciuta e autonoma.
E forse non è un caso che il mio primo romanzo
abbia visto la luce in nove mesi.
Devotamente
EE
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Spesso però accogliamo gli ospiti stranieri più
attenti direttamente in cucina: qui infatti possono
osservare, mentre vengono cucinate, le pietanze
amate dal Duca Enrico di Salaparuta, il nostro
antenato vegetariano, amico dello studioso Rudolf
Steiner, e primo in Europa a scrivere un manuale di
cucina vegetariana e naturismo crudo, quello che
oggi si chiama raw vegan. Quasi sempre usiamo,
reinterpretandole, le sue ricette ispirate alla
tradizione siciliana
Bagheria: a tavola con l'alchimia siciliana
Ricette made in Sicilia e accoglienza "sartoriale",
dentro la cornice di una villa storica attorniata da un
parco dagli echi alchemici: ecco i segreti del
ricevere di Antea e Marco a Villa Valguarnera
(per saperne di più c'è il libro: Enrico di Salaparuta "Cucina
Vegetariana
e
Naturismo
Crudo",
Sellerio).
Come si allestisce la tavola?
Ci piace sempre decorare il tavolo nella maniera più
particolare possibile. A volte usiamo i centrotavola
settecenteschi di famiglia che una volta venivano
ulteriormente decorati con statuette di porcellana di
Meissen o Capodimonte a seconda del tema del
pranzo: statuette cinesi per un pranzo secondo la
moda cinese, statuette di caccia per accompagnare
un pasto a base di cacciagione, e così via.
A volte utilizziamo le cose più stravaganti, come il
prato finto con cui abbiamo ricoperto interamente il
tavolo, in altri casi i tessuti disegnati appositamente
da Marco, che è designer, e che richiamano un
dettaglio della stanza o la fantasia delle mattonelle
del pavimento.
Nel ricevere ci sono delle regole del bon ton da
rispettare?
A nostro avviso tutte e nessuna. Senza dubbio
bisogna conoscerle, e bene, per sapere quali
possono essere dimenticate e non rispettate.
Un esempio?
Quando organizziamo dei pranzi indiani, con ricette
a base di curry, butter chicken (ricetta originaria di
Delhi, con pollo, spezie, panna e burro) ma
anche sicilianissime mele cotogne, facciamo
mangiare tutti i commensali con le mani, offrendo
delle tovagliette umide e calde per pulirsi prima di
iniziare.
A un altro estremo: a volte mettiamo una sfilza
esorbitante di posate d'argento, così tante da
intimorire anche chi è esperto di regole a tavola. Ma
mai e poi mai usiamo dei calici da vino
particolarmente ostentati, quelli considerati da
esperti, o dei piatti extra size in stile nouvelle
cousine: è bene mangiare e bere bene, ma non
vogliamo che il vino o i piatti rubino la scena.
Ci lasciate qualche ricetta?
Prima di tutto ecco la bevanda del momento a Villa
Valguarnera.
A base di cetriolo frullato e filtrato, succo di
limone, succo di mela e menta del nostro giardino è
una vera prelibatezza, fresca e dissetante, molto
adatta anche per accompagnare piatti piccanti.
Durante uno dei nostri viaggi in Sicilia siamo
capitati in un posto incredibile, Bagheria.
Vicino Palermo troviamo questa "città delle ville",
dove nel Settecento sono sorte decine di residenze
nobiliari, progettate secondo canoni contemporanei
barocchi e con influenze esoterico-alchemiche,
soprattutto nel caso di Villa Palagonia e Villa
Valguarnera.
E proprio in quest'ultima, diventata in questi mesi
villa protagonista dell'ultimo spot Dolce & Gabbana
con Sofia Loren, abbiamo alloggiato e goduto
dell'ospitalità di Antea Brugnoni Alliata di
Villafranca e di suo marito, l'italo-scozzese Marco
Kinloch Herbertson.
A loro abbiamo chiesto di svelarci la ricetta di
questa accoglienza, cosmopolita e siciliana insieme.
Come accogliete gli ospiti di Villa Valguarnera?
Può sembrare strano ma continuiamo ad accogliere
tutti allo stesso modo da trecento anni a questa
parte, ovviamente con le innovazioni e i mutamenti
che le varie epoche hanno comportato.
Nel Settecento, ogni colazione o pranzo era una
pièce teatrale, tanto che una cosiddetta stanza da
pranzo non era neanche prevista nella villa.
Si mangiava dove si desiderava quel giorno,
spostandosi anche per i vari pasti giornalieri,
accogliendo sia gli amici del luogo che i viaggiatori,
provenienti da tutto il mondo, del cosiddetto Gran
Tour.
Tavoli e tavolini venivano trasportati ed imbanditi a
secondo del numero dei commensali, scegliendo la
stanza più esposta al sole e adatta al tipo di cibo
offerto.
Anche noi manteniamo questo spirito itinerante,
anche se adesso abbiamo una camera da pranzo.
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Poi il Gelo di Pomodoro, una variante del gelo di
melone in stile continentale , perfetto per l'aperitivo.
Condite la passata di pomodoro come se stesse
facendo un Virgin Mary, cioè con salsa Worcester,
tabasco, limone, pepe e sale.
Assaggiate per controllare il sapore.
Scaldate sul fuoco e aggiungete un cucchiaio di
agar agar per ogni litro di liquido.
Portate a ebollizione, poi versate in uno stampo e
lasciate raffreddare.
Capovolgete pochi minuti prima di servire e
accompagnate con ricotta o scaglie di tuma fresca
(formaggio fresco).
Visto che le quantità indicative, dopo l'ebollizione
fate una piccola prova della gelificazione su un
piattino. Se dopo pochi minuti l'agar agar non ha
fatto effetto riscaldate nuovamente il composto e
aumentate la dose di agar agar.
Infine il dolce a cucchiaio siciliano per eccellenza,
secondo la ricetta del Duca di Salaparuta: il Gelo di
Melone (Anguria)
Tanti se vanno via portando con sé i prodotti che
facciamo, come il miele delle nostre api e spesso
poi ritornano con parenti e amici per una vacanza
più lunga, alloggiando negli appartamenti che
affittiamo. Anche se ogni appartamento ha cucina,
salotto proprio e parte privata di giardino, gli ospiti
che
soggiornano
più
giorni
diventano
inevitabilmente parte della famiglia e ognuno trova
il suo modo di vivere la villa: l'architetto ci chiede
di potere ritirarsi sulla Montagnola, una collina
interna al parco e parte del progetto architettonico e
esoterico della dimora, lo sportivo fa jogging sul
lungo viale di accesso, i bambini finiscono
inevitabilmente a giocare con le nostre figlie e sul
grande prato del cortile centrale, i bibliofili
prendono in prestito libri dalla biblioteca di casa e
spesso ne lasciano in dono altri.
Da qualche mese abbiamo inaugurato il
Cosmorama, un percorso museale del viale e dei
giardini proiezioni multimediali di immagini e
"fantasmi" che raccontano il territorio di Bagheria
dal '700 a oggi. La prossima apertura Cosmorama è
prevista per Pasqua. Aiutiamo anche gli ospiti ad
organizzare la loro permanenza in Sicilia,
suggerendo posti dove pernottare e siti turistici da
visitare.
La soddisfazione più grande?
Veder tornare le persone di anno in anno.
di Elisa Poli
Prendete un'anguria matura e profumata, svuotatela
e mettete tutta la polpa a macerare una notte in
frigorifero con abbondanti fiori freschi di
gelsomino, preferibilmente raccolti al tramonto
quando sono più profumati.
Il giorno dopo togliete i fiori di gelsomino, scaldate
tutta la polpa su fuoco medio insieme a 70 g di
amido di grano per ogni kg di polpa. Mescolate fino
a ebollizione e fino a che il composto risulti
cremoso e leggermente rosato.
Togliete dal fuoco e versate nel piatto da portata.
Una volta freddo decorate con scaglie di cioccolato,
pezzettini di pistacchio e con qualche fiore di
gelsomino.
Che servizi offrite a Villa Valguarnera?
Non abbiamo mai il tempo di sentirci soli: ogni
giorno accogliamo un turista, un appassionato di
cucina o un ricercatore, provenienti da qualche
parte del mondo. Riceviamo anche gruppi di
viaggiatori che trascorrono qualche ora con noi per
visitare la casa, il parco e per mangiare insieme.
Catania 5 febb 2016 – S.Agata in Via Etnea
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*http://www.britishmuseum.org/whats_on/exhib
itions/sicily.aspx
La prima mostra del Regno Unito interamente
dedicata all'arte siciliana.
Tra
queste
una
moneta
(dalla
forma
curiosamente simile a quella dei 20p britannici)
coniata da Ruggero II nel 1138, la prima moneta a
usare i numeri arabici.
“Ci siamo concentrati su periodi della storia che il
pubblico non conosce molto - ha detto il curatore
Dirk Booms - pochi sanno che i normanni
arrivarono in Sicilia nel 1061, prima che
conquistassero l' Inghilterra, e che nel 1091 l'
intera isola era nelle loro mani”.
Il British Museum di Londra dedica alla Sicilia e
alla sua storia pluri-millenaria una nuova esibizione
dal 21 Aprile al 14 Agosto 2016.
L’esibizione del British Museum sulla Sicilia sarà
anche l’occasione per portare a Londra la Sicilia
moderna.
Nell’arco dei 4 mesi di apertura della mostra sono
previsti numerosi eventi a tema, come ad esempio
corsi di cucina siciliana, mentre nel Great Court
del British Museum si ascolterà la musica dell’isola.
Gli ingressi possono essere acquistati in prevendita
sul sito del museo. Il costo è di £10
La maschera ghignante di Mozia
La mostra,dal titolo “Sicily:Culture and Conquest”
è stata realizzata in collaborazione con la Regione
Siciliana e con lo sponsor Julius Bear, ed è la prima
mostra di sempre in UK interamente dedicata alla
Sicilia.
Ad attrarre i curatori del British Museum è stata la
straordinaria qualità e varietà della produzione
artistica siciliana.
Nell’arco di oltre 4,000 anni Fenici, Greci, Romani,
Bizantini, Arabi e Normanni si sono alternati
nell’isola, creando, come scrive il British nel
presentare la mostra “un’identità culturale diversa
da qualsiasi altra“.
L’esibizione coprirà l’intero arco di storia della
Sicilia, con un focus particolare su due periodi:
quello Greco e quello Normanno (11-13mo secolo).
Lo farà presentando oltre 200 oggetti e opere d’arte.
Tra questi vi sono oggetti della collezione
permanente del British Museum insieme a opere in
prestito da musei di tutto il mondo, dal
Metropolitan di New York al Bodleain di Oxford,
insieme ad altre provenienti dalla Sicilia.
L’annuncio della mostra è stato dato dal British
Museum
su
Twitter
(con
l’hashtag
#SicilyExhibition) e su Periscope,* con una diretta
video nel quale i curatori della mostra hanno
presentato alcune delle opere incluse nella mostra.
Foto gentilmente concesse dal British Museum
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La fava larga di Leonforte
UN DRAMMA IN QUATTRO DI’
In passato la fava veniva usata come pianta
migliorativa attraverso un metodo efficace e
naturale: il sovescio.
In sostanza si coltiva un vegetale non per ottenerne
cibo o altri prodotti derivati ma per interrarlo e
concimare così la terra per la coltura successiva.
La fava, in particolare, arricchisce il terreno di
azoto.
Come cibo è un'importante fonte di sali minerali e
proteine.
Veniva definita "la carne dei poveri" ed ha
realmente sostituito la carne nelle tavole di
moltissime persone che non potevano permettersi di
acquistarla o quando non vi era possibilità di
reperirla.
Inoltre nelle fave fresche è presente un aminoacido
chiamato L-dopa che pare abbia la proprietà di
alzare la concentrazione di dopamina nel cervello.
Il che la renderebbe anche un antidepressivo
naturale.
La fava larga di Leonforte (località in provincia di
Enna) viene utilizzata sia fresca che essiccata ed ha
un seme dalle grandi dimensioni.
Il seme più grande tra le varietà italiane, a quanto
pare.
La sua coltivazione è ancora completamente
manuale.
Sono poco farinose, si cuociono facilmente (a
Leonforte dicono che sono cucivuli) e non
necessitano di un lungo ammollo pre-cottura.
La fava larga di Leonforte è un presidio Slow Food.
Ho avuto il piacere di assistere nella Sala dei Cattivi
Maestri al divertimento teatrale di Antonio Salieri
“ Prima la musica, poi le parole”, su libretto di G.
B. Casti.
L’opera
fu
commissionata
dall’Imperatore
Giuseppe II e rappresentata per la prima volta il 7
febbraio 1786 nel giardino d'inverno del castello di
Schönbrunn di Vienna, al fine di raffrontare l’Opera
buffa italiana con il Singspiel tedesco, rappresentato
dal “Der Schauspieldirektor” di Mozart.
Tipico esempio del filone settecentesco del “teatro
nel teatro”, “Prima la musica, poi le parole” mette
in scena i preparativi per l’allestimento di un’opera
in soli quattro giorni, fondando la propria comicità
sugli elementi tipici del genere: litigi tra librettista e
compositore, capricci delle primedonne e strapotere
della musica a discapito della coerenza
drammaturgica, resi ancora più vivaci dalle taglienti
allusioni alla società dell’epoca e dalla briosa
musica del compositore italiano.
Ricordiamo che il genere musicale nasce a Napoli
nella prima metà del XVIII secolo come opera
comica e da lì migrò a Roma e nel nord Italia.
Compositori famosi, compreso Mozart, Rossini ed
altri ancora, diedero un largo contributo allo
sviluppo di questo genere operistico.
La scelta dei recitativi in forma parlata rende lo
spettacolo particolarmente fruibile da chiunque
grazie a scambi dialettici intellegibili.
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( riportiamo il testo del gran finale cantato )
L'accompagnamento strumentale è realizzato dal
vivo sotto la direzione del M° Angelo Mulé, che è
anche regista coreografo e scenografo dello
spettacolo.
ELEONORA
E pur quell'orgoglio
diverte, mi piace;
quell'estro vivace
diletto mi dà
.
TONINA (facendo un gran respiro)
Ho vinto l'impegno;
or altro non voglio:
depongo lo sdegno,
son tutta bontà
.
POETA E MAESTRO
Se il riso, se il gioco
successe a quel foco,
si stringa costante
sincera amistà
.
ELEONORA E TONINA
Il vate, il maestro
risveglino l'estro.
Grande spettacolo ad opera di tutti gli
attori/cantanti, con particolare rilievo alle graziose
figure femminili e abili cantanti Eleonora e Tonina.
L'opera Buffa viene resa godibile, attraverso la
regia superba, che, alleggerisce la parte cantabile
favorendo il recitativo.
L’allestimento di una scenografia leggera ma di
ampio colore, ha dato spazio agli interpreti tutti che
hanno manifestato un impegno concreto,
spendendosi con entusiasmo.
Tale impegno è stato immediatamente percepito e
compreso dalla platea studentesca, che ha
partecipato con attenzione.
Abbiamo raccolto alcuni pareri fra gli studenti del
Liceo “G.Chiabrera” che hanno partecipato, in un
tutto esaurito, con rara attenzione e tutti hanno
espresso il loro apprezzamento, confermando non
solo di essersi divertiti, ma riconoscendo la bella
opportunità di approccio ad un genere
musicale/teatrale, per loro, abbastanza insolito.
POETA E MAESTRO
La seria, la buffa
non faccian baruffa.
TUTTI
Si stringa costante sincera amistà
.
POETA
Or se tutti son d'accordo,
se nessuno è muto o sordo,
se la musica è già pronta,
se il libretto non si conta,
se il vestiario,
se scenario,
se gli attori,
i sonatori,
se ogni cosa in somma è lesta,
se chi paga e dà la festa
vuole ed ordina così,
sarà cosa facilissima
di far l'opra in quattro dì.
Esperimento riuscito quindi caro Maestro.
Prosequitur.....
MAESTRO
Grazie al ciel, che la ragione
alla fin l'ostinazione
d'un poeta convertì
TUTTI
Lieto intanto applauda il canto
allo stuolo spettator.
Astro in ciel propizio splenda
di contenti annunziator,
ch'efficaci i voti renda
e il desio del nostro cor.
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APPUNTAMENTI DA NON PERDERE
Martedi 8 marzo 2016 ore 18,30
Giornata Internazione della Donna
presso il CASINO di Lettura Via Paleocapa 4-4
L’amica scrittrice Monica CASTELLO
leggerà il suo monologo teatrale
“DIARIO SENTIMENTALE DI UN STR..”
Sabato 12 marzo 2016,ore 16,30-Sala VASE’
Società Operaia Cattolica N.S.di Misericordia-Via
Famagosta,4-Savona
Anna e Giuse CERVETTO presentano il video
amatoriale-diario di viaggio INDIA e NEPAL
Le immagini televisive del terremoto nel NEPAL ci
hanno sconvolto in modo particolare in primis per il
tragico tributo di migliaia di vite umane e poi per
la distruzione degli straordinari centri storici di
KATMANDU e delle altre città del Paese che
abbiamo ammirato nel lontano viaggio del 2000.
Dell’immenso
subcontinente
indiano
in
quell’occasione abbiamo visitato DELHI, AGRA
con il TAJ MAHAL e alcuni siti della Regione del
RAJASTAN.
Santuzzo
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