Spogliarsi dell`abito galileiano. Un`ontologia

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Spogliarsi dell`abito galileiano. Un`ontologia
RICCARDO MANZOTTI
SPOGLIARSI DELL’ABITO GALILEIANO
Un’ontologia basata sull’identità tra rappresentazione
e rappresentato
1. L’abito galileiano
L’eccessiva ammirazione per l’opera dei grandi pensatori è una delle più inutili e dannose preoccupazioni
Ramón y Cajal1
Il problema della coscienza – è ben noto – sfida la nostra concezione del mondo. Da un lato esistono i corpi animati e inanimati con
le loro proprietà fisiche e dall’altro le nostre esperienze fenomeniche.
I due insiemi sembrano avere proprietà radicalmente diverse se non
addirittura incommensurabili. Secondo Ramon y Cajal, la coscienza è
al di là della nostra possibilità di comprensione e per Thomas Huxley è
incomprensibile quanto il genio della lampada di Aladino (Cajal 1916;
Huxley 1866). E tuttavia noi facciamo esperienza del mondo e il mondo si offre alla nostra esperienza. Come si spiega questa apparente contraddizione tra i due domini e il fatto che, nella vita quotidiana, sembrino integrarsi con tanta facilità? Come diceva Albert Einstein, a volte
alcuni problemi sembrano insolubili perché si continuano ad affrontare
sulla base di alcune ipotesi sbagliate. In questo caso, queste ipotesi (che
hanno dato luogo a una sterminata letteratura) potrebbero sintetizzarsi
con l’immagine dell’abito galileiano, ovvero quell’insieme di ipotesi
che ha acquistato enorme popolarità perché hanno permesso di semplificare la nostra visione del mondo e di sviluppare il metodo scientifico.
Lo chiamo abito galileiano non perché Galileo lo abbia enunciato in
modo esplicito o dettagliato (per lo meno nei termini che ha assunto
nella discussione moderna), ma perché è stato Galileo con Il Saggiatore (1623) a formulare esplicitamente per la prima volta i termini chiave
di tale approccio; contrapponendo qualità mentali e quantità fisiche
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(Cajal 1916, 9).
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(Galilei 1623). Tuttavia si tratta di una cornice concettuale che non è
mai stata confermata empiricamente proprio perché è la cornice in base
alla quale la ricerca empirica viene condotta. È una cornice concettuale
che è stata impiegata, ma non dimostrata come hanno più volte sottolineato tre personaggi chiave a cavallo del XIX e del XX secolo: Edmund
Husserl, Ernst Mach e Alfred North Whitehead (Husserl 1959; Mach
1886; Whitehead 1925). A questo proposito, Alfred North Whitehead
ha scritto che (Whitehead 1925, 48):
«Quando si analizza la filosofia di un’epoca non si deve dirigere l’attenzione
esclusivamente su quelle posizioni che gli autori sentono il bisogno di difendere esplicitamente. Ci sono alcune ipotesi o metafore che vengono accettate
implicitamente. Queste ipotesi appaiono così ovvie che la gente non si rende
conto che le usa e che ci potrebbero essere delle alternative alle stesse».
Tra l’altro, la separazione tra coscienza e mondo fisico ha trovato
conforto e dato supporto a quella infausta separazione disciplinare e
culturale che ha diviso le scienze umane dalle scienze naturali e ha
lasciato la psicologia in una scomoda e precaria posizione intermedia.
Ma esattamente in che cosa consiste l’abito galileiano? Riassumo
alcuni dei punti chiave di una camicia di forza del pensiero che, almeno
nelle sue strutture di base, è rimasta sostanzialmente invariata negli
ultimi quattro secoli:
1. Il mondo fisico e quello mentale sono
a) separati
b) ontologicamente diversi
c) relativamente autonomi (dualismo)
2. Il mondo fisico è costituito da una serie di individui
a) tra loro separati
b) esistenti autonomamente
c) descrivibili quantitativamente
d) atemporali
e) intrinsecamente spaziali
f) privi di unità
3. Il mondo mentale è costituito da una serie di momenti esperienziali
a) tra loro separati
b) esistenti autonomamente
c) dotati di qualità
d) intrinsecamente temporali
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e) aspaziali
f) dotati di unità
Dovrebbe essere chiaro che l’abito galileiano, qui sommariamente
riassunto, è contradditorio internamente e incongruente con la nostra
esperienza di tutti i giorni. In altri termini è concettualmente contraddittorio ed empiricamente insoddisfacente. Tuttavia costituisce la cornice di riferimento della scienza contemporanea e delle neuroscienze
quando cercano di definire una spiegazione della mente. È altrettanto
chiaro che buona parte di questo abito ha trovato una formulazione
estesa, anche se ormai datata, nel classico dualismo cartesiano.
La cosa curiosa è che il fisicalismo moderno – e tutte le discipline
che, di necessità, devono appoggiarsi a esso (come le neuroscienze,
il comportamentismo, le scienze cognitive, l’intelligenza artificiale) –
non ha messo in discussione tale abito, ma si è limitato a negare il terzo
punto (le entità mentali). L’abito Galileiano non è stato dismesso, ma
indossato solo parzialmente – per usare sempre la stessa metafora.
Sfortunatamente, tale approccio rende impossibile affrontare il
nodo della natura della mente. Non si capisce che cosa sia la coscienza
e come possa essere in relazione con il mondo.
Ora la cosa più interessante dei tre punti sopra espressi non sono
tanto le caratteristiche che si attribuiscono alle entità fisiche e mentali,
ma quelle che si sottraggono a esse. Infatti i due insiemi sono l’uno
il negativo dell’altro. Il fatto è evidente per il rapporto con lo spazio
e con il tempo. Se le entità fisiche devono necessariamente occupare
uno spazio non nullo, le entità mentali sembrano libere da tale vincolo.
Al contrario i momenti di esperienza richiedono necessariamente una
durata temporale (per quanto difficilmente quantificabile e localizzabile) – come sottolineato dalle nozioni di durata e di presente specioso
(Bergson 1922/2002; Pockett 2003) – mentre gli enti fisici sono descrivibili a prescindere dallo scorrimento del tempo: una roccia o un
pianeta sembrano completamente descrivibili in un istante temporale
ideale privo di spessore (mentre sappiamo che sono flussi di processi
distribuiti nel tempo e nello spazio).
Anche chi ha saputo riconoscere la criticità della camicia di forza
Galileiana, come la tradizione fenomenologica (Albertazzi, 1998, 2007,
2010; Kanizsa, 1979; Koffka, 1935; Michotte, 1963) ha tuttavia accettato la incompatibilità tra gli oggetti fisici e la loro presentazione fenomenica. Rispetto al fisicalismo ingenuo di molti neuroscienziati, si tratta
di un passo importante. Il merito di questo approccio consiste nell’inve-
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stigare la struttura del momento esperienziale e nel sottolineare la sua
irriducibilità alla descrizione fisica galileiana. Solo per fare un esempio,
la trasparenza di certe figure non è compresa nelle caratteristiche dello
stimolo (Metelli 1941). In un certo senso, molto dell’argomento fenomenologico è una forma sofisticata di argument from illusion nel senso
che ancora una volta si sottolinea la differenza tra la presentazione fenomenica e il mondo fisico. La presentazione fenomenica sarebbe ricca
di strutture (un vero e proprio surplus, Albertazzi 2010, p. 181) non
riconducibili all’oggetto distale descritto secondo la ontologica Galileiana. Tuttavia tale differenza acquista un significato diverso se si prende
in considerazione una possibilità alternativa: la presunta autonomia –
sia ontologica che contingente – dell’oggetto distale potrebbe essere
accantonata. In contrapposizione, la presentazione fenomenica sarebbe
espressione della struttura ontologica primaria e non richiederebbe più
un proprio livello. La molteplicità di livelli, infatti, non è esente da possibili difficoltà quali una certa prodigalità ontologica e soprattutto problemi quali interazione, continuità, rapporto, costituzione, ridondanza
causale, sovradeterminazione (ibi, p. 187). Non entro in tali problemi,
ma mi limito qui a osservare che un unico livello ontologico – qualora
in grado di supportare senza sconti le caratteristiche sia dell’oggetto
Galileiano sia della presentazione fenomenica – avrebbe innegabili vantaggi logico-ontologici a partire dal rasoio di Occam.
Consideriamo il commento di Albertazzi (ibi, p. 182, tr. autore) circa
la contrapposizione tra fenomenico e fisico: «i colori fenomenici non
appartengono alla natura fisica dell’oggetto». Questo è indubbiamente
vero, se per «natura fisica dell’oggetto» intendiamo quella derivabile
dall’ontologia Galileiana; una premessa non necessariamente corretta.
L’oggetto della fisica deve essere affiancato dalle qualità fenomeniche solo se effettivamente privo delle caratteristiche associate alla sua
presentazione: questa è una premessa non una conclusione (ibi, p. 190191). Se la natura fisica dell’oggetto fosse strutturata in modo da poter
rendere conto anche del surplus evidenziato dall’analisi fenomenica (in
termini di qualità, struttura, relazioni interne), si potrebbe considerare
una cornice di riferimento che sarebbe totalmente alternativa al quadro
Galileiano. L’oggetto fisico potrebbe essere più articolato di quanto
comunemente inteso e potrebbe essere il frutto di una dinamica processuale ancora da analizzare compiutamente.
Per quanto strano, come si è detto, gran parte della discussione attuale sulla natura della mente, avviene all’interno di tale quadro. Il
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celebre Hard Problem di David Chalmers (Chalmers 1996), infatti,
non fa altro che riformulare l’abito galileiano sotto forma di contrapposizione tra mente cognitiva (descrivibile in termini fisici) e mente
fenomenica (descrivibile in termini mentali). Anche il celebrato esperimento mentale degli zombie non fa che drammatizzare il disaccoppiamento tra mente e mondo fisico (infatti sembra che non vi sia alcun
motivo per cui il secondo debba essere seguito dal primo). In modo
analogo, gran parte della discussione nell’ambito della filosofia della
mente contemporanea, non pone in discussione l’abito galileiano: dalla
coscienza fenomenica di Ned Block alla sopravvenienza di Jaegwon
Kim (Block 2002; Block 1997; Kim 1993; Kim 1998).
Le neuroscienze non sono diverse. Da un lato suppongono che il
cervello sia il luogo della mente, dall’altro ogni loro scoperta empirica non ha alcuno spazio per la mente. Ovvero, tutto quello che si sa
circa il funzionamento dei neuroni non richiede alcun coinvolgimento da parte di una ipotetica mente. I neuroni (e quindi il cervello e
il comportamento umano) sono descrivibili, nel loro funzionamento,
esclusivamente in termini fisici. Le reti neuronali non hanno bisogno
della coscienza. Per quanto se ne sa, tutto quello che avviene a livello
neurale potrebbe avvenire senza che vi sia la minima esperienza cosciente. Eppure il fatto che i soggetti facciano esperienza del mondo è
innegabile e, soprattutto dopo l’introduzione di tecniche di brain imaging non invasive, sembra essere in relazione con la nostra esperienza
cosciente. La natura di tale relazione sembra essere empiricamente elusiva e concettualmente misteriosa. Ancora una volta l’abito galileiano,
doverosamente ed educatamente indossato prima di iniziare la ricerca
scientifica, impedisce ogni reale progresso. È significativo che la ricerca neuroscientifica della coscienza si sia concentrata sui correlati neurali della coscienza, ovvero su qualcosa che è, per definizione, separato
dalla coscienza stessa. È altresì significativo che una delle proposte più
interessanti in merito, la teoria dell’informazione integrata di Giulio
Tononi, sia intrinsecamente dualista e galileiana: da un lato il mondo
fisico (assolutamente autonomo e meccanicamente autosufficiente) e
dall’altro una supposta proprietà aggiuntiva quale Φ, l’informazione
integrata generata da un sistema fisico (Tononi 2004; Nir and Tononi
2009; Tononi 2008).
In sintesi, l’abito galileiano – nonostante limiti e incongruenze – si
è posto come camicia di forza della discussione sulla natura della mente. La filosofia della mente di stampo anglosassone, le neuroscienze
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e la psicologia cognitiva hanno accettato i confini così definiti. Nel
seguito di questo contributo prenderemo in considerazione una diversa
prospettiva circa la mente e la struttura della realtà in generale.
2. Galileo e le neuroscienze
L’abito galileiano è stato adottato fiduciosamente dalle neuroscienze (Tononi 2003) anche se ha portato a una conseguenza inevitabile: il
problema della rappresentazione. Se la mente e il mondo sono distinti,
affinché si possa fare esperienza di qualcosa è necessario poter accedere a qualche entità intermedia che faccia da tramite tra i due. Si tratta,
ancora una volta, del problema posto dall’empirismo seicentesco declinato in innumerevoli forme fino alla teoria dell’informazione e alle
varie proposte di codifica o rappresentazione neurali.
Faccio una necessaria premessa a quanto seguirà: o l’esperienza ha
per oggetto il mondo esterno, o l’esperienza è solipsistica (Manzotti
and Tagliasco 2008a; Manzotti and Tagliasco 2008b). L’esperienza
mentale – che è qualcosa di reale e innegabile – ha un contenuto. Ovvero quando faccio esperienza di qualcosa, quella esperienza è diversa
da altre esperienze in virtù delle sue proprietà che chiamo «contenuto
dell’esperienza». Quando faccio esperienza del sapore di cioccolata,
la mia esperienza è diversa da quella che faccio quando bevo un bicchiere di Coca Cola. La differenza tra le due esperienze caratterizza la
differenza tra i due contenuti. Contenuto di una esperienza ed esperienza potrebbero essere semplicemente sinonimi, non entro nel merito.
La differenza tra i due casi è dovuta alla differenza nel mondo fra la
cioccolata e la Coca Cola o è dovuta alla differenza tra le esperienze a prescindere dalle caratteristiche di cioccolata e Coca Cola? Nel
primo caso, auspicabile, la nostra esperienza è aperta verso il mondo,
nel secondo caso siamo chiusi in un solipsismo radicale. Il dilemma è
interessante, ma lo tralascerò assumendo che ci siano buoni motivi per
avere fiducia nella prima alternativa.
Torniamo al problema della rappresentazione mentale (ovvero della
esperienza aperta verso il mondo) e proviamo a declinarlo in termini
neurali che potrebbero essere condivisi da un neuroscienziato. Un essere umano possiede un corpo (è un corpo?) che interagisce con l’ambiente circostante. Queste interazioni sono mediate dagli organi di senso che subiscono delle modifiche che si traducono in serie di segnali
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inviati a un organo centrale (il cervello). In tale organo l’informazione
in entrata viene elaborata opportunamente dando luogo all’esperienza
cosciente. Si potrebbe anche esprimere quanto sopra in termini scientificamente ancora più rispettabili. Per esempio, lo stimato neurologo
John Dylan Hynes si esprime così (Haynes 2009, 200):
«Uno sguardo approfondito ai dettagli della codifica neurale mostra come la
rappresentazione cerebrale a livello locale non sia sufficiente per spiegare
come l’informazione percettiva entri nella coscienza. Ciò indica che solo alcuni contenuti hanno la possibilità di entrare nella coscienza». [corsivo mio]
Questa terminologia, per quanto efficace sul piano comunicativo e
per quanto accompagnata da brillanti risultati tecnologici nel campo
della misurazione e classificazione dell’attività neurale, per quanto riguarda la mente, è priva di significato.
In sintesi i punti chiave (in questo e altri autori) che dovrebbero
sollevare più di una perplessità sono: contenuto, codice, informazione,
interno/esterno, qualità, fenomenico. Il fatto è che la teoria dell’informazione descrive una serie di processi causali (Reichenbach 1971;
Landauer 1991; Shannon and Weaver 1949) e non è, con buona pace
di recenti tentativi (Tononi 2004; Tononi 2008) – qualcosa di aggiunto
alla dimensione fisica, ma piuttosto una descrizione quantitativa del
concatenarsi degli eventi. In altri termini, un processo fisico non ha
qualcosa in più perché viene descritto in termini di teoria dell’informazione. Un processo fisico rimane solo un processo fisico. Anche
l’appello alla generazione di proprietà fenomeniche o all’emergere
di qualità non ha alcun potere esplicativo. Non sappiamo perché le
proprietà fenomeniche dovrebbero essere generate, come potrebbero
essere fatte e neppure, una volta generate, che cosa siano e in che rapporto stiano con le proprietà fisiche. Alla fine si può dire, con un certa
sicurezza, che le neuroscienze nascondono, dietro una apparenza di
quantificazione scientifica, un punto di vista sostanzialmente dualista
come, d’altronde, l’abito galileiano impone (Manzotti and Moderato
2008; Bennett 2003; Uttal 2001; Linden 1998; de Haan et al. 2006).
L’idea che il cervello, che è fisico, produca delle proprietà in qualche modo straordinarie è talmente integrata nel lavoro della maggior
parte dei neuroscienziati che si continua a citarla come se fosse un dato
di fatto. A proposito del colore, il neurologo Semir Zeki sostiene che
(Zeki 1983, 734)
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«I risultati delle neuroscienze suggeriscono che il sistema nervoso, lungi
dall’analizzare il colore, prende l’informazione disponibile [...] e la trasforma
nel colore. In altre parole [il cervello] costruisce il colore che è una proprietà
del cervello e non del mondo».
Le neuroscienze si pongono in una posizione insostenibile: da un
lato attribuiscono a un oggetto l’onere di produrre la mente, dall’altro
accettano solo il secondo punto dell’abito galileiano. In altri termini, le
neuroscienze assumono una ontologia fisicalista in senso stretto (ovvero priva di qualità mentali e poi cercano di giustificare un qualche
meccanismo che consenta alle reti neurali (che sono il loro soggetto di studio) di produrre proprio quella parte di realtà (la mente) che
hanno appena escluso. È una situazione concettualmente schizofrenica
(Searle 1992): sarebbe come giocare a poker dopo aver eliminato i cuori e aspettarsi che, per qualche strana alchimia, sia possibile ottenerli
mescolando soltanto i fiori. Avrebbe senso? Molti autori contestano
l’efficacia esplicativa di nozioni quali quella di emergenza secondo
cui, in opportune condizioni magari legate alla complessità, nuovi
fenomeni emergerebbero da precedenti fenomeni con caratteristiche
più o meno incommensurabili. Tale emergenza, che pure è oggetto di
grande interesse, rischia di cadere in due alternative insoddisfacenti: 1)
emergentismo bruto ovvero miracoloso; 2) emergentismo debole (solo
epistemico) (Kim 1999; Bedau 2008; Bersini et al. 2010; McLelland
2010; Strawson 2003). La prima possibilità non è una vera spiegazione
perché non può giustificare la comparsa di qualcosa di nuovo, ma si
limita a postularla. Alla fine non è dissimile dall’atteggiamento magico
che attribuisce un esito miracoloso a certe configurazioni. La seconda
possibilità è parimenti insoddisfacente perché, se ammette non siamo
in grado di fornire una giustificazione della comparsa di nuovi fenomeni, riconosce che esiste un legame necessaria. Si tratta di una emergenza solo epistemica che indica i limiti della nostra comprensione, ma
non una vera discontinuità tra i livelli.
La pretesa delle neuroscienze di trovare una naturalizzazione delle esperienze fenomeniche all’interno dell’attività neurale contraddice
l’assunto di molti neuroscienziati che reputano il mondo fisico privo
delle qualità essenziali per tali esperienze. Per esempio, consideriamo
l’idea molto diffusa secondo la quale (Palmer 1999b, 95)
«Il colore non è altro che una proprietà psicologica delle nostre esperienze
visive quando guardiamo agli oggetti, non una proprietà di quegli oggetti»
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o che (Palmer 1999a, 97)
«possono esistere diverse lunghezze d’onda della luce, ma non diversi colori
al di fuori di un soggetto in quanto il colore è un fenomeno psicologico che ha
origine solo all’interno di un soggetto».
Ma il cervello è un’oggetto fisico e quindi secondo l’abito galileiano non ha proprietà psicologiche. D’altronde, se i colori non possono
essere fuori, non possono neppure essere dentro, in quanto il cervello è
un oggetto fisico e quindi appartiene allo stesso dominio dell’oggetto
esterno. La distinzione tra dentro e fuori non marca un confine ontologico, ma una semplice separazione spaziale.
3. A è diverso da B o no?
Il rapporto tra mondo e mente ruota intorno alla nozione di rappresentazione (che, spesso, è stata influenzata dai casi di percezione non
veridica e illusione). Il soggetto è A, il mondo è B. A è diverso da B.
Come è possibile che A faccia esperienza di B se è numericamente,
qualitativamente, ontologicamente diverso? La soluzione spesso proposta – che soluzione non è – consiste nel reputare che A sia una rappresentazione di B, ovvero che A abbia, in qualche senso intelligibile,
la capacità di avere come contenuto le caratteristiche di B. Infatti, si
sostiene come se fosse una grande sottigliezza, che non si devono confondere le caratteristiche di una rappresentazione con le caratteristiche
di quello che rappresenta (Tye 1995; Tye 2009). Quindi io posso avere
un simbolo di pochi millimetri che mi rappresenta un campo di calcio
lungo decine di metri. Io posso avere una parola scritta in nero che mi
rappresenta il colore rosso. E così via. Ma tutto questo vale a livello
simbolico perché dispongo di soggetti dotati di intenzionalità che prendono un certo fatto del mondo (un segno sulla carta) e lo fanno arbitrariamente corrispondere a quello che vogliono (un campo di calcio).
A livello di mente, con buona pace di molti rappresentazionalisti, la
rappresentazione del mondo rimane misteriosa e inspiegabile.
Il punto che non si può aggirare è che, a livello di mente, devo
avere qualcosa che, ontologicamente e non arbitrariamente o semanticamente, sta per qualcosa d’altro. Siamo al confine, è evidente, del
terreno irto di spine dell’intenzionalità, sulla quale però non mi ad-
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dentrerò (anche se vi è chi ritiene che oggi vi sia grande abbondanza
di approcci in grado di naturalizzarla, Metzinger 2003). Al contrario
l’intenzionalità è completamente aliena alla descrizione fisica della realtà (Ales Bello and Manganaro 2012; Albertazzi 2006). L’intenzionalità non è traducibile in termini fisici e rimane misteriosa.
In questa sede però, voglio concentrarmi, a costo di essere banale,
sul fatto quotidiano ma totalmente misterioso, della rappresentazione mentale (Manzotti and Tagliasco 2004; Manzotti and Tagliasco
2001). Lo voglio fare perché spesso complicare terminologicamente
un problema, se può conferire una certificazione di autorità a chi ne
parla, non è detto contribuisca alla sua comprensione. In questo senso
l’intenzionalità come concetto è potrebbe essere un’astrazione derivata dal momento empirico primario, ovvero la nostra esperienza del
mondo concettualmente ancora vergine.
Tornando al punto di partenza come si spiega che A fa esperienza di
B se A è diverso da B? In letteratura le varie ipotesi fatte sono riassumibili come segue (si tratta, dovrebbe essere evidente, di una semplificazione a scopo dialettico):
– A non fa alcuna esperienza. L’esperienza non esiste. (Eliminativismo)
– A fa esperienza di B perché, in qualche modo, A replica dentro di sé
B (Dualismo)
– A fa esperienza di B senza replicarlo attraverso una misteriosa facoltà (di solito l’intenzionalità) che consiste proprio nella capacità di
arrivare a B.
– A fa esperienza, ma non è necessariamente di B. Sostanzialmente A
fa esperienza di A e pensa che sia B; ma perché dovrebbe? Mah ...
– L’esperienza di A è B, ma A che cosa è allora? Non si capisce. (Realismo ingenuo [Holt 1914; Holt et al. 1910])
Ci si può divertire a riconoscere la quasi totalità delle posizioni filosofiche circa la mente in queste alternative. Il problema è che queste
posizioni risolvono il problema della rappresentazione negandola. Fa
eccezione la posizione che si appella all’intenzionalità che, tuttavia,
rimane inspiegata e quindi non riesce a dare una risposta. Esistono
possibilità alternativa? Nei prossimi paragrafi, cercherò di delineare
una proposta originale che si affianca ad altri tentativi (Poli in questo
volume) che seguono prospettive diverse. È significativo che in questo
momento storico, si assista alla messa in discussione del paradigma
dominante.
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4. Rappresentazione per identità
Da un punto di vista concettuale, il mondo fenomenico è reso necessario da due motivi principali: la percezione non veridica in tutte le
sue declinazioni e la credenza (infondata) in un mondo fisico privo di
qualità (sostanzialmente il secondo punto dell’abito galileiano).
Circa l’assenza di qualità ho già detto e qui mi limito a ripetere
ancora che, dato che la nostra esperienza è sempre caratterizzata da
qualità fenomeniche, si tratta di un’ipotesi che andrebbe dimostrata
e non assunta. Infatti, dalla mia esperienza cosciente io so, in modo
indubitabile, che quel momento di realtà che corrisponde a me stesso
è caratterizzato qualitativamente. Al contrario, come posso sapere se i
processi fisici, che sono esterni alla mia esperienza diretta, sono privi
di qualità? Per induzione dovrei arrivare alla conclusione contraria di
quella proposta da Galileo.
È giunto il momento di approfondire l’influsso della percezione non
veridica sulla concezione della mente e di rappresentazione. Come accennato sopra, per percezione non veridica intendo tutti quei casi in cui
sembra che l’oggetto percepito sia diverso dall’oggetto esterno o in cui
si percepisce un oggetto che sembra non esistere: sogno, memoria non
veridica, illusioni, allucinazioni, fosfeni, aure emicraniche, e così via.
Si tratta di situazioni che sembrano dimostrare incontrovertibilmente il
disaccoppiamento tra ciò che si rappresenta nella mente e ciò che esiste
nel mondo fisico. Tale disaccoppiamento conduce inevitabilmente o al
dualismo o all’abito galileiano.
Consideriamo per un attimo un’ipotesi alternativa. Supponiamo di
non avere letto Galileo. Dobbiamo spiegare il fatto che, in un certo
momento, A fa esperienza di B. L’ipotesi è che questo sia possibile
solo perché, in quell’istante, A=B. In altri termini, la relazione di rappresentazione mentale sarebbe un caso di identità tra quello che percepiamo e noi stessi: io vedo una pietra e in quel preciso momento sono
la pietra e la pietra è me. Apparentemente è una nozione assurda in
quanto come minimo occupiamo luoghi diversi e abbiamo volumi e
pesi diversi. Ma questa assurdità è la conseguenza necessaria del fatto
che abbiamo concepito a priori la pietra e me come due pezzi separati.
La pietra è fatta da quei granelli di quarzo e calcite che si trovano sulla
riva del fiume mentre io sono questi neuroni che si trovano dentro il
mio sacco-pelle. E tuttavia tra questi neuroni e quei granelli ha luogo
un processo fisico e causale che non è né là, né qua; né dentro né fuori.
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La mia intuizione è che
1) quello che chiamiamo “pietra” non sia là sulla riva del fiume, ma sia
questo processo fisico;
2) quello che chiamo “esperienza della pietra” non sia qua dentro il
mio sacco-pelle, ma sia lo stesso processo fisico.
Nel momento in cui si prende in considerazione una tale riconfigurazione sia della pietra che della mia esperienza della pietra, è possibile
capire come la rappresentazione sia una questione di identità. Se la
pietra è il processo, non vedo ostacoli a pensare che possa essere me.
È chiaro che tale soluzione implica la negazione della possibilità
della percezione non veridica. In qualche modo ogni esperienza fenomenica deve corrispondere a qualcosa di reale (allucinazioni e sogni
compresi).
Faccio qualche esempio tratto dalla percezione veridica quotidiana
prima di considerare i casi più problematici offerti dalla percezione
non veridica. Guardo una rosa. La rosa è nelle mie mani. Sembra essere
fuori di me. Eppure la rosa – quella particolare rosa definita dal mio
punto di vista – è dentro la mia esperienza. Prendo in esame questa
ultima considerazione e – poiché so che quanto avviene dentro la mia
pelle non ha nessuna delle caratteristiche della rosa – ribalto il problema dei confini e mi chiedo seriamente se non possa essere la mia mente
(la mia coscienza) a essere estesa fisicamente fino a comprendere la
rosa. A parte l’incompatibilità con vecchie posizioni non confermate
empiricamente non vedo alcun problema.
Effettivamente risolvere il problema della rappresentazione in termini di identità ha numerosi vantaggi. La rosa che osservo è la stessa
rosa che è parte della mia esperienza. Il problema della rappresentazione, nei termini delineati nel precedente paragrafo, è scomparso. Percepire vuol dire essere tutt’uno con ciò che si vuole percepire anche
se – per spirito di sopravvivenza, egocentrismo percettivo, per riconoscimento sociale e per abitudine – può essere opportuno concepirsi
separati da tutto quello che ha origine fuori dal nostro corpo.
Sorgono spontanee due domande: che cosa fa sì che qualcosa sia,
anche momentaneamente, parte di me? Che cosa è la rosa fisica di
cui stiamo parlando? Provo a delineare una risposta comune. Il mondo
fisico è intrinsecamente temporale: tutto accade nel tempo e tutto è
un processo. Anche quando siamo seduti immobili in una stanza dove
sembra non accadere nulla, in realtà vi è un flusso ininterrotto di fotoni dalle pareti ai nostri occhi e vi è un ininterrotto flusso di segna-
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li nervosi lungo i nostri assoni e dendriti. Una situazione che sembra
totalmente statica è, in realtà, un flusso ininterrotto di processi. Ogni
volta che guardo un’oggetto si ha un processo fisico che, da certe superfici dell’oggetto, procede fino alle mie aree corticali. Se lo toccassi
si avrebbe un processo diverso. Se lo assaggiassi, il processo sarebbe
ancora diverso, e così via.
Faccio notare che, in tutti questi casi, il referente fisico esterno non
è la rosa dal punto di vista di Dio, per così dire, ma la rosa così come
viene ritagliata dal mio sistema fisico; dall’interazione tra il mio corpo
e il continuum spazio-temporale fuori di me (che in questo caso contiene una rosa). Il referente non è nemmeno la rosa dal punto di vista
della rosa. Anzi, le varie rose, esperite secondo diverse modalità sensoriali, potrebbero anche essere fisicamente disgiunte. È solo in virtù di
una certa sovrapposizione tra le modalità sensoriali che varie modalità
sono ricondotte a un unico oggetto esterno.
Se la rosa dentro è la stessa della rosa fuori, che senso ha parlare di diverse modalità sensoriali e di loro sovrapposizione? Perché la
rosa fuori era un concetto di comodo per avere un referente comune
delle varie modalità sensoriali. Empiricamente, la rosa disgiunta dalle sue presentazioni, è irraggiungibile ma solo postulabile. E quando
un postulato non aiuta più, e anzi complica le cose, forse è il caso di
metterlo in discussione. Ogni modalità sensoriale è una rosa diversa
corrispondente a un processo fisico distinto. Tali processi però non
sono indipendenti del tutto. Nella misura in cui si intrecciano è utile
(quotidianamente ma anche scientificamente) introdurre un baricentro
intermodale – la nozione di rosa esterna che prescinde dalle modalità
sensoriali. Tuttavia, come il baricentro di un corpo, non si tratta di una
entità fisica, ma di una comoda scorciatoia epistemica.
La rosa che percepiamo è una rosa-processo che ritaglia e fa essere
una parte della realtà. A questo punto, si intravvede la possibilità di
una risposta comune alle due domande appena poste. La realtà è costituita da processi ed è la concatenazione causale tra questi processi
che determina la loro appartenenza e struttura. Io sono un processo. La
rosa è un processo. In particolari condizioni causali il processo-me è
costituito dal processo-rosa così come il processo-me è normalmente
costituito da altri processi e così come il processo-rosa è costituito da
altri sottoprocessi.
L’idea di base consiste nel riconsiderare l’ontologia del mondo fisico e nel ridefinirla in termini di processi che si concatenano tra loro
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secondo una modalità di composizione che deve essere trovata nelle
natura fisica dei processi causali.
L’ipotesi è che il mondo della nostra esperienza coscienza sia esattamente il mondo fisico che ci circonda (una parte di esso dato che
molto è fuori dalla nostra esperienza). La rosa che io guardo è proprio
la rosa che io tengo in mano – cioè la rosa che entra a far parte dei processi visivi. La mente cosciente si trova così a essere fisicamente estesa
fuori dei confini della mia pelle.
La presenza del nostro corpo non è ininfluente rispetto all’ontologia
del mondo; così come la presenza di qualsiasi altro corpo. Anzi, esistenza e ruolo causale non possono essere disgiunti come si è spesso
argomentato (Elder 2003; Cargile 2003; Hudson 2003; Kim 1998; Davidson 2001). Esistere implica avere un ruolo causale e, viceversa, avere un ruolo causale implica la propria esistenza. Non è concepibile una
causa che non esiste così come non è concepibile una entità priva di
qualsiasi relazione causale con il resto dell’universo. Tale posizione è
coerente con i criteri minimi di esistenza da un punto di vista empirico.
Il caso della percezione è particolarmente illuminante. Tutto quello
che percepiamo è, da un certo punto di vista, arbitrario. Siamo noi che
ritagliamo costellazioni dal cielo notturno e in modo simile ritagliamo
volti, parole, lettere, brani musicali, combinazioni odorate di molecole,
sapori, strofinamenti, punture e quant’altro. Non percepiamo un mondo “oggettivo”, non percepiamo mai qualcosa di indipendente dalla
nostra struttura. Ogni essere nella sua unicità fisica e cognitiva ha il suo
Umwelt privato, ma fisico.
Si è spesso identificata la contrapposizione tra privato e pubblico
come coincidente con quella tra mentale e fisico. Tale identificazione
non ha ragione d’essere. Ci sono moltissimi esempi di processi fisici
privati (nel senso di non essere condivisibili) a partire da casi particolarmente evidenti quali un arcobaleno fino a giungere alla totalità
dei processi percettivi. Ogni percezione infatti richiede un processo
fisico unico e irripetibile che è possibile solo grazie alla presenza di un
corpo percepente con determinate caratteristiche in un certo luogo e in
un certo momento. L’idea che la percezione possa avere qualcosa di
condivisibile e oggettivo è basata sull’assunto Galileiano di un mondo
quantitativo indipendente dai processi fisici che lo creano ogni momento. La privatezza non è prerogativa dei processi mentali. Il mondo
fisico è pieno di processi privati, anzi, in molti sensi, ogni processo
fisico è privato. L’unico modo per fare esperienza di un processo fisico
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è essere quel processo fisico. È chiaro che in questo caso per processo
fisico si intende una sorta di unità causale che qui non si può analizzare
ulteriormente ma che fa appello a una nozione di causalità non normativa ma costitutiva degli eventi. Altri autori, in contesti diversi, hanno
suggerito – contro la tradizione empirista – questa nozione di causalita (Whitehead, Reichenbach, Dowe). è interessante aggiungere quello
che Poli scrive a proposito della nozione di causalità in Hartmann (Poli
2012, trad. aut.): «la causalità è il nesso che lega le fasi di un processo,
la serie dinamica che dispiega la concatenazione di stadi successivi e
ne contraddistingue l’unità e l’irreversibilità», quindi non si tratta di
semplice normatività in successioni di eventi altrimenti isolati.
D’altronde questo è proprio quello che succede nella vita di ciascuno di noi: ogni contenuto fenomenico è riconducibile a una continuità
fisica effettiva con quel tipo di fenomeno. I ciechi dalla nascita non
hanno contenuti fenomenici cromatici (la letteratura in merito è controversa ma sembra convergere su un assenza di fenomenologia per quelle
modalità sensoriali congenitamente mancanti; Kennedy 198, 2003; Sadato 2005; Zimler 1983; Kerr et al. 2003; Aleman et al. 2001). Analogamente i sordi dalla nascita pare siano privi di una fenomenologia
sonora. Per poter fare esperienza di un colore, di una melodia o di un
sapore è necessario essere fisicamente continui con il tipo appropriato
di fenomeno fisico. La fenomenologia non emergerebbe dalla complessità dell’attività neurale ma dall’identità con l’ambiente.
Rispetto ad altri modelli, che enfatizzano giustamente l’importanza dell’interazione e della continuità fisica (Rockwell 2005; Clark
and Chalmers 1998; Robbins and Aydede 2009; Di Francesco 2003;
O’Regan and Noë 2001; Noë 2009), qui si sottolinea la relazione causale costitutiva tra il percepire e il percepito. Questa relazione è proposta come la colla che lega il mondo alla coscienza.
Il ripetuto fallimento del tentativo di naturalizzare le rappresentazioni nel mondo fisico e l’evidenza della possibilità di fare esperienza del
mondo nella coscienza, dovrebbe autorizzare a prendere in considerazione un’ipotesi radicale come la precedente: ogni presunta rappresentazione nella coscienza è coincidenza (o identità) con ciò che si rappresenta. In questo modo non si ha la necessità di cercare di spiegare perché
una attività fisica che svolge il ruolo di rappresentazione possa farsi carico di contenuti o significati diverso da quello che è fisicamente – che
poi sarebbe il problema della naturalizzazione della rappresentazione
come è comunemente inteso da filosofi, psicologi e neuroscienziati.
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Tuttavia questa ipotesi si accompagna a un’altra circa gli elementi
costituenti del mondo fisico altrimenti si potrebbe sospettare una forma
di idealismo (Honderich 1998; Velmans 2007). L’ipotesi è che il mondo fisico sia costituito da processi fisici estesi nello spazio e nel tempo
e che tali processi compongano naturalmente altri processi secondo
unità che si danno dinamicamente nel tempo.
Il modello di rappresentazione e di coscienza che viene qui proposto – per il quale è stato proposto il nome di spread mind (Manzotti and
Tagliasco 2008b; Manzotti 2006; Manzotti 2011a; Manzotti 2011b;
Manzotti and Pepperell 2012) – è quindi anche un modello di realtà fisica e non potrebbe né dovrebbe essere altrimenti nel momento in cui si
cerca di dare una spiegazione della coscienza nel mondo naturale. Faccio notare che, per quanto riguarda il mondo naturale, l’ipotesi fin qui
delineata è estremamente conservativa e del tutto compatibile con ogni
dato empirico e con ogni teoria: non sono richieste né proprietà fisiche
emergenti, né proprietà addizionali. Il tentativo della spread mind è
quello di arrivare a un’ontologia della mente rivedendo in parallelo anche l’ontologia del mondo fisico. In questo senso è un’ontologia psicofisica e non perché sia una sorta di dualismo, ma perché ritoccando sia
gli assunti ereditati dal modello galileiano sia circa il mondo mentale
che circa il mondo fisico propone una visione neutrale che possa rendere conto di entrambi. Mente e mondo non sono qui visti come domini
ontologici separati. La separazione sarebbe frutto dell’abito galileiano;
dismesso quello potremmo scoprire una base comune. Mente e mondo
diventerebbero due ombre della stessa realtà.
5. Tutto è sogno?
La letteratura sulla percezione non veridica è sterminata e chiaramente non può essere affrontata in questo spazio. Ma credo sarà sufficiente fare qualche esempio per iniziare a fare breccia contro una
convinzione molto diffusa e, praticamente, universalmente accettata,
ovvero che la mente è in grado di avere contenuti che non hanno un
riscontro diretto nel mondo fisico. In altri termini, la presunta autonomia della mente è basata su alcuni argomenti classici e su una corrispondente interpretazione dei dati empirici. I principali argomenti sono
l’errore percettivo e le illusioni (argument from illusion). In sintesi, se
a volte la percezione ci mostra quello che non c’è vuol dire che quello
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che ci mostra non è necessariamente quello che c’è. È l’argomento
classico usato a sostegno dei dati di senso prima e dei qualia in anni
più recenti. I dati di senso sono stati quasi universalmente rigettati dalla critica filosofica e i qualia godono di dubbia credibilità. Tuttavia
entrambi i concetti sono ontologicamente più onesti della posizione
spesso assunta nell’ambito delle neuroscienze e della psicologia. Infatti, si reputa spesso che le rappresentazioni siano supportate da semplici configurazioni fisiche e che, inspiegabilmente, tali configurazioni
possano farsi carico del relativo contenuto rappresentazionale (che è
ovviamente diverso dal supporto fisico in quanto tale). Anzi si sostiene
spesso come sia evidente che il contenuto di una rappresentazione non
debba essere limitato dalle caratteristiche del supporto rappresentativo
(affermazione sicuramente vera nel caso di rappresentazioni convenzionali come segni, quadri, bit, ma molto incerta nel caso delle rappresentazioni mentali). Mi sembra una posizione ontologicamente poco
onesta perché tenta di delineare un modello dell’esperienza mentale
senza volerne pagare i debiti ontologici (come invece i dati di senso o i
qualia cercavano di fare: almeno loro proponevano una base ontologica per il contenuto della percezione).
L’argomento dell’errore percettivo, per essere considerato, deve basarsi su fatti empirici. Ci sono effettivamente casi in cui si percepisce
qualcosa che non c’è? Di solito si assume che sia vero e si procede. Ma
io credo sia lecito mettere in discussione un assunto così importante.
Come accennato ci sarebbero innumerevoli casi da prendere in esame: allucinazioni di vario tipo, fosfeni, after images, presunti contenuti
fenomenici di tipo visivo nei ciechi congeniti, illusioni, aure emicraniche nei ciechi congeniti, arti fantasma in soggetti privi di arti in modo
congenito, stimolazione diretta delle aree corticali, sinestesia cromatica in soggetti daltonici e così via. Qui, ovviamente, lo spazio non
è sufficiente. Ma vorrei prendere in esame un solo caso che, da tanti
punti di vista, riassume tutti i precedenti e ha il vantaggio di essere una
esperienza comunissima e quotidiana: il sogno.
Nel sogno facciamo apparentemente esperienza di contenuti mentali che non hanno un corrispondente fisico. Percepiamo un mondo
che non esiste e, apparentemente, entriamo in una sfera mentale e
fenomenica che nulla ha a che fare con il mondo reale. Il sogno sembrerebbe essere l’immediato e ovvio controesempio che confuta la
teoria della mente e della rappresentazione mentale delineata prima.
Ma è proprio così?
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In realtà, nel sogno non facciamo quasi mai esperienza di fatti veramente inusuali. La maggior parte dei contenuti onirici sono sostanzialmente situazioni che, ancorché non si siano verificate, si sarebbero potute verificare. Si sognano amici, luoghi dell’infanzia, colleghi, esami,
incontri sentimentali, chiacchierate con gli amici. I sogni con un contenuto veramente inusuale sono rari in proporzione alla loro stranezza.
La letteratura sui sogni utilizza vari indici di stranezza (bizarreness
index) che dimostrano come la gran parte dei sogni non è affatto lontana dal possibile (G.W. Domhoff 2001; W.G. Domhoff 2003a; Hobson,
Pace-Schott, and Stickgold 2000; Kahnl and Hobson 1993). Se poi andiamo ad analizzare il contenuto fenomenico atomico (ciò di cui sono
fatti i sogni), si scopre che non hanno contenuti che non siano frutto di
precedenti incontri con fenomeni fisici reali. Quindi, si sognano colori
che si sono visti, volti fatti da particolari che sono stati visti; oppure case, automobili, situazioni che hanno avuto, nei loro componenti
atomici fenomenici, un precedente percettivo reale. A quanto se ne sa,
nessuno ha sognato un colore extra! O un sapore mai assaggiato, o uno
spazio pentadimensionale. Quello che nel sogno è originale è la combinazione di tali elementi, non i singoli componenti. Quanto ad alcuni
esempi spesso citato a riprova della capacità del sogno di creare un
mondo mentale originale è facile smontarlo. Consideriamo l’esempio
classico: sognare di volare. È un sogno molto comune ma proviamo a
chiedere a chi lo ha fatto che cosa ha sognato effettivamente: qualcuno
dice che era come volare, in molti casi il volo onirico è lento quasi
come un salire accompagnato da movimenti delle braccia, altre volte è
uno scivolare nell’aria. È facile vedere come tutti questi casi siano costruiti con esperienze quotidiane (nuotare, salire, scivolare) combinate
con l’esperienza visiva e oggi anche virtuale del sogno. Per chi, poi, ha
volato veramente con vari mezzi, si ha ancora più materiale percettivo
e veridico per costruire il sogno. Il fatto che i sogni siano costruiti con
materiale preso dalla vita di tutti i giorni è particolarmente evidente
se si considerano casi famosi quali l’aumento di sogni privi di colore
negli anni in cui televisione e cinema erano in bianco e nero (Murzyn
2008). In sintesi, il contenuto onirico è vincolato dal contenuto percettivo ma ammette combinazioni fisicamente impossibile: ciò che è
oniricamente possibile è distinto da ciò che è realmente possibile senza
per questo essere illimitato.
Insomma il sogno non è un mondo indipendente dal mondo naturale
e fisico che percepiamo quotidianamente, semmai sembra il risultato
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della ricomposizione di frammenti presi dal mondo reale. Ma se questo
è vero, allora potremmo fare un’ipotesi coraggiosa circa la natura del
sogno: il sogno potrebbe essere un caso di percezione diretta e veridica di momenti passati. Cioè il sogno potrebbe essere visto come una
specie di caleidoscopio che ci permette di vedere in una successione,
più o meno ordinata, particolari percepiti in precedenza che sono così
chiamati a costituire un insieme. Non sto parlando di una ricostruzione
mnestica, ovvero di ricreare un ambiente onirico a partire da una serie
di ricordi. Intendo proprio una percezione posposta nel tempo di particolari reali.
La proposta può sembrare estrema. Ma prendiamo in considerazione la percezione veridica quotidiana. Esiste sempre un ritardo tra l’oggetto percepito e il momento della percezione. Poiché tutto è mediato
da processi fisici e poiché, nel nostro universo, ogni processo richiede
un lasso di tempo finito, anche la percezione diretta non è istantanea:
un intervallo di tempo che comprende il transito della luce dall’oggetto
alla nostra retina (a volte lungo come nel caso degli oggetti astronomici) e il tempo richiesto al segnale nervoso per completare i processi di
riconoscimento (Bartels and Zeki 2005). Tra l’altro anche nella percezione diretta, a volte, l’ordine di arrivo (e di composizione) di eventi
esterni è modificato rispetto all’ordine di partenza (Deutsch 1970). È
pertanto possibile pensare che in opportune condizioni – quali quelle
che si verificano con maggiore frequenza durante certe fasi del sonno e
nel momento in cui la corrispondenza causale tra il mondo esterno immediato e il nostro cervello si riduce – che l’attività nel nostro cervello
possa essere l’esito causale di eventi accaduti in momenti precedenti.
Per usare un’immagine poetica, nel sogno potremmo sentire gli echi
della nostra vita passata – echi e non riproduzioni. L’eco, infatti, per
quanto debole e lontano è sempre equivalente a un ascolto diretto solo
che, percorrendo vie tortuose e più lunghe tra pareti montane e irregolarità atmosferiche impiega più tempo per giungere al nostro orecchio. È come se il passato continui, attraverso la continuità fisica con
l’attività neurale del nostro cervello, a esercitare un influsso e quindi
a essere costitutivo del nostro essere. Il presente (che poi è un passato
prossimo distante da noi, nella maggiore parte dei casi, per un breve
intervallo compreso tra 200 msec e 1 sec) è come un insieme di suoni
forti e potenti che si impongono alla nostra coscienza soffocando ogni
altro fonte di rumore. Nel momento in cui tale insieme di suoni è posto
in silenzio, come avviene durante il sonno, ecco che si manifesta la
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continuità mai del tutto sopita con momenti del passato che continuano
a essere percepiti. In fondo, è l’attenzione al presente che ci impedisce
di continuare a vivere nel passato.
Quanto alle spiegazioni neurali del sogno, mi limito a far presente che, pur trattandosi di un fatto tra i più quotidiani, a tutt’oggi non
esistono teorie neuroscientifiche che ne giustifichino la fenomenicità.
In altri termini, il fatto che il sogno corrisponda a una attività cosciente non è richiesto da nessun modello neurale del sogno: eliminazione
connessioni in eccesso, riorganizzazione sinaptica, consolidamento
mnestico, apprendimento simulato (Hobson, Pace-Schott, and Stickgold 2000; Kahnl and Hobson 1993; Foulkes 1985; Windt 2010; W.G.
Domhoff 2003b; Hobson 1988).
In sintesi, il sogno che viene citato come esempio classico di mondo
interiore, potrebbe non essere affatto un buon esempio, anzi potrebbe
trovare una spiegazione naturale in una continuità causale e quindi in
una identità di processi fisici. Il sogno potrebbe essere un caso di percezione diretta e veridica, però posposta e sincretica di momenti originariamente separati nel tempo e nello spazio.
6. Galileo, Spread Mind e neorealismo
La coscienza sarà lo scoglio con il quale l’ontologia galileiana si
infrangerà? Proviamo, un po’ per gioco e un po’ seriamente, a vedere
come si modifica l’ontologia di base dopo averla spogliata dell’abito galileiano e ridotta ai processi estesi nello spazio e nel tempo che
possono essere descritti sia secondo la prospettiva della coscienza che
secondo la prospettiva del mondo naturale. Recupero lo stesso schema
utilizzato nel primo capitolo:
1) Il mondo fisico e quello mentale sono
a) due modi diversi e parziali di descrivere lo stesso dominio
b) ontologicamente identici ma epistemicamente diversi
c) esistere e causare si identificano
2) Il mondo fisico/mentale è costituito da una serie di processi
a) concatenati causalmente
b) descrivibili quantitativamente
c) esperibili qualitativamente
d) estesi nel tempo
e) estesi nello spazio
f) ogni processo perfeziona una unità di esistenza e di causa
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l’ontologia galileiana ha avuto una conseguenza inevitabile, come si
è accennato all’inizio di questo testo, ha imposto una mediazione tra
il mondo fisico e la mente che si è tradotta nella prigionia solipsistica
della rappresentazione. Se facciamo esperienza del mondo attraverso
dati di senso, rappresentazioni, mappe neurali, non riusciamo mai a
giungere al mondo esterno. Tra l’altro si delinea una contraddizione
insanabile nelle proposta Galileiana ovvero la circolarità della sua proposta. Se si nega che il mondo fisico abbia in sé la possibilità delle
qualità della mia esperienza, ecco che non vi è alcuna speranza, come
credono le neuroscienze, di trovare tali esperienze qualitative all’interno dell’attività neurale che, non dimentichiamolo, non è altro che un
pezzo del mondo fisico. In sintesi, sperare di trovare la qualità della
nostra esperienza dentro i neuroni non è più promettente che cercarla
dentro i biscotti al cioccolato. A meno che non si cambi il paradigma
con il quale ci riferiamo al mondo fisico.
Vi è un ultimo riferimento che sarei contento di presentare: il rapporto tra questa posizione e il nuovo realismo presentato recentemente
da Ferraris (Ferraris 2012). Credo che l’abito Galileiano abbia avuto
un importante ruolo nel forgiare quell’atteggiamento postmoderno che
cerca di sostituire la realtà con la sua costruzione. È innegabile che,
alle spalle della radicalizzazione Kantiana che è il bersaglio preferito
del filosofo torinese, vi è l’abito galileiano secondo il quale «non vi è
accesso al mondo se non attraverso la mediazione (che nel postmoderno
si radicalizza a diventa costruzione) operata da schemi concettuali e
rappresentazioni» (Ferraris 2012, 264). Al contrario, la posizione delineata qui è una forma di realismo, come del resto riscontrabile nel
collegamento con le posizioni di Moore, Holt e Gibson (Moore 1925;
Holt 1914; Holt et al. 1910; Gibson 1979). Ferraris individua alla radici
del postmoderno la fallacia del sapere-essere che si origina proprio dalla
natura ingannevole dei sensi. Nel momento in cui si pone in discussione
tale separazione e si recupera l’idea secondo cui la nostra esperienza sia
letteralmente fatta dal mondo (e non da rappresentazioni di qualsivoglia
genere) ecco che si recupera la posizione di un genuino realismo. In
particolare, la spread mind permette di dare solidità alla nozione di inemendabilità del reale: «il fatto che ciò che ci sta di fronte non può essere
corretto o trasformato attraverso il mero ricorso a schemi concettuali,
diversamente da quanto avviene nell’ipotesi del costruzionismo» (Ferraris 2012, 598). Secondo la posizione vista qui, il contenuto della nostra esperienza non è più indipendente dalla realtà fisica – non è più solo
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il frutto dei modi dell’organismo di rielaborare un’informazione interna
altrimenti priva di significato – ma è sintesi causale tra parti del mondo
e parti del nostro corpo. Tale sintesi, è evidente, non può prescindere dal
materiale da cui è costituita che, quindi, ne rappresenta la parte inemendabile. Quando apriamo gli occhi non possiamo imporre, per forza di
volontà, un particolare contenuto percettivo. Quando mettiamo in bocca
qualcosa, il suo sapore non può essere evitato. Se vogliamo vedere qualcosa di bello, non possiamo limitarci a immaginarlo. Dobbiamo alzarci
e andare in un museo o, almeno, attivare in casa qualche dispositivo che
ne crei una copia visibile. È quanto Ferraris definisce nella antinomia
della estetica rispetto alla logica (Ferraris 2012, 665). La spread mind,
che condivide un ritorno alla coscienza nello spirito di una negazione
del sensismo, aggiunge qualcosa: suggerisce che la nostra esperienza
è costituita dal mondo esterno e questo è il fondamento più forte che
esista per una posizione realista. Inoltre si evidenzia il rapporto tra l’inemendabilità del reale e l’incorreggibilità delle percezione. Nella misura in cui le percezioni sono costituiti da momenti inemendabili sono,
anzi devono essere, incorreggibili. Questa incorreggibilità non è frutto
di una loro arbitrarietà, ma piuttosto del loro ancoraggio al fondo delle
cose. La spread mind cerca di raggiungere questo risultato ridefinendo
in termini di processo esteso nel tempo e nello spazio la nozione di
oggetto naturale. L’oggetto naturale non è più qualcosa di statico con il
quale entrare in rapporto, ma un momento dinamico di interazione tra
noi e il mondo.
In conclusione, sottolineo che quanto enunciato in questa sede è
un’ipotesi scientifica e non metafisica perché è capace di fare predizioni e di essere confutata sulla base di evidenze sperimentali. Quali? Per
esempio, il fatto che ogni momento di esperienza cosciente dovrebbe
essere identico a un processo fisico reale e non può essere un puro
fatto mentale. Quindi se si presentasse anche solo un caso di contenuto fenomenico indipendente dalla continuità fisica, tale teoria sarebbe
immediatamente confutata. Se così non fosse, si tratta di un’ipotesi che
risolverebbe il problema della rappresentazione tra A e B. A rappresenta B solo se A=B. La revisione ontologica proposta si pone l’obiettivo
di rendere possibile questa apparente contraddizione. La mente non
poteva essere parte della nature perché la natura era stata semplificata
in termini riduttivi. Mente e mondo sarebbero una cosa sola e l’abito
galileiano potrebbe impedirci di cogliere la fondamentale, sottostante
e produttiva identità tra di loro.
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