I giorni delle scarpe

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I giorni delle scarpe
Unità
7
I TEMI: mode e modi
Paola Mastrocola
I giorni delle scarpe
E allora inizia il mio primo giorno di liceo. Che è una di quelle cose
che poi ti dovresti ricordare tutta la vita. Io invece è meglio che me lo
dimentichi, perché questo benedetto primo giorno lo passo guardando scarpe.
Dico le scarpe dei miei compagni. Perché loro le guardano a me. Guardano e ridono. E io allora mi metto a fare uguale, solo che io non rido.
Anche perché m’ero messo in mente tutta un’altra cosa, e cioè che il
primo giorno di liceo si fanno già cose toste. E questo perché me lo
aveva detto mio padre: vedrai che fin dal primo giorno te ne accorgi
com’è dura. Però mio padre di liceo cosa vuoi che ne sappia, e infatti
aveva torto.
Gli insegnanti ci spiegano che i primi giorni non si fa scuola, è vietato; si fa l’accoglienza. Ci porteranno in giro a conoscere la scuola, tipo
le scale, la palestra, i bagni. Cioè non ci insegneranno niente, i primi
giorni. E questo cinque ore al giorno per una settimana, che infatti si
chiama «la settimana dell’accoglienza». Dicono che così ci passa la
paura perché vediamo che andare al liceo è come bere un bicchiere
d’acqua.
Peccato. Perché, siccome me lo aveva detto mio padre, io mi ero immaginato che era bello tosto il liceo, non un bicchiere d’acqua che, se
era solo per quello, me lo potevo bere tranquillamente a casa mia
senza farmi questo migliaio di chilometri che mi sono fatto per venire fin qui.
Comunque non è che io il primo giorno abbia voglia di passarmelo
così, a guardar scarpe. Però, siccome lo fanno tutti, mi dico: sta’ a
vedere che qui usa così, magari è un sistema per conoscersi. Invece
dopo un po’, neanche poi tanto, capisco: nessuno ha addosso delle
scarpe come le mie. E il perché di questo io non lo so, ma è così e
basta, e la vita è quella che è, dice sempre mio padre, e quindi bisogna
prenderla com’è.
Andiamo avanti così per una settimana, che io guardo le scarpe degli
altri. Diciamo che sono «i giorni delle scarpe».
E questa volevo proprio raccontarla subito a madame Pilou, così ieri
sera le ho scritto una bella lettera perché lei è stata la mia insegnante
di francese delle medie e, adesso che mi risponde, magari mi sa dare
due o tre consigli di come fare qui, che è tutto nuovo.
A parte guardarci le scarpe, questa settimana la passiamo a fare i test
d’ingresso e poi qualche volta ci portano in giro per i corridoi, sempre
a conoscere la scuola.
Io però adesso mi sto annoiando a morte a guardare scarpe e contare
I giorni delle scarpe
tacche. Anzi, sono proprio stufo marcio di questa storia delle scarpe.
Anche perché va bene il primo giorno, uno non si conosce e quindi
ci si scruta un po’, d’accordo. Però adesso basta. Tutti che continuano
a guardarmi queste benedette scarpe, io in classe non so più dove
mettere i piedi perché, anche se li allungo sotto la sedia davanti, non
è che non me li vedano più. Me li vedono eccome.
Allora oggi, non lo so, forse ero più stufo marcio del solito, entro in
casa, mi slaccio le scarpe e le sbatto sul tavolo.
«Tieni!» dico a mia madre. «Nessuno ha delle scarpe così!»
Sul tavolo ci sono i soliti spaghetti col sugo buono di cipolla, ma pazienza, le sbatto lì perché io non le voglio due scarpe così. Io non
voglio più niente. Io non voglio essere uno che ha delle scarpe così.
Così stupide, così stupidamente marroni, con la loro stupidissima
para di gomma e perfino con i lacci. Marroni e stupidi.
Mia madre me le aveva prese al mercato prima di partire, per farmi
fare bella figura qui a scuola, e a me andavano benissimo quelle scarpe, ma anche quelle vecchie che avevo prima, cioè, non so: io non me
ne sono mai accorto di quali scarpe avevo nei piedi, ma forse questo
è perché su un’isola te ne importa meno delle scarpe, credo.
Comunque, non so se a qualcuno è mai successo di vederle, ma due
scarpe su una tavola apparecchiata non sono un bel vedere, anzi, sono
proprio un brutto vedere. Forse anche su una tavola non apparecchiata, a pensarci bene.
Poi le spiego che probabilmente mi ci vogliono delle scarpe Nike. Ma
questo quando si è un po’ calmata.
«E come sarebbero queste… Naik?» mi chiede.
«Bianche.»
«Ma bianche da tennis o bianche di pelle?»
Ho pensato: cosa c’entra il tennis con la pelle, ma non ho detto niente. E poi non lo so se erano di pelle, mica ci sono andato a un centimetro con la lente o a toccare di che cos’erano quelle scarpe dei miei
compagni; comunque sì, ho risposto che erano di pelle, bianche di
pelle tipo tennis. E qui ho sbagliato, perché mia madre mi ribatte
precisa che o sono di pelle o sono da tennis, e se sono da tennis vuol
dire che sono di tela, capito? Poi guarda sua sorella: «Bianche di pelle
per andarci a scuola… Elsa, hai sentito?»
P. Mastrocola, Una barca nel bosco, Superpocket