Identificazione forense e dattiloscopia - Cooperativa-Tre

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Identificazione forense e dattiloscopia - Cooperativa-Tre
Identificazione forense e Dattiloscopia da www.onap-profiling.org
di Sergio Alberti
Per ragioni storiche e sociali, che faticano ad essere superate, l’indagine processuale si è sempre
interessata poco alle vittime, concentrandosi più che altro sull’autore e sul fatto criminale. Le
motivazioni di questo ritardo sono molteplici; discorsi e riflessioni come “Giustizia riparativa” e
“mediazione in ambito penale”, stentano, non poco, ad affermarsi.
Anche nell’ambito della Diritto penale e processuale il reato è tradizionalmente inteso come un
evento ai danni dello Stato, mentre alla vittima è attribuito un ruolo passivo: “l’offeso”, “la
persona offesa”, “la parte lesa”, “la persona offesa dal reato”.
Solo di recente il ruolo centrale della vittima di reato ha cominciato ad essere compreso dalle
Istituzioni quale parte integrante del più vasto discorso criminologico; questo anche nell’ambito
delle indagini tecnico-scientifiche che in questo senso possono “dar voce” a chi non può o non
vuole parlare.
Identificare un pericolo risponde a un bisogno primario di protezione e sicurezza. È un
meccanismo in parte istintivo, legato alla legge primordiale di auto-conservazione, che impone il
riconoscimento del pericolo e la reazione ad esso, e in larga misura appreso.
Distinguere l’autore di un crimine ha un significato per molti versi analogo.
Serve, da un lato, a preservare l’individuo (e quindi la comunità) da un rischio, dall’altro, è un
processo culturale e valoriale mediato da rappresentazioni simboliche mutate nel tempo. Non va
dimenticato che lo studio sistemico e “multi-causale” del crimine, inteso come comportamento
tipico della specie umana e fatto sociale, costituisce uno sviluppo relativamente recente. Così
come è recente l’idea di ricercare entro sfere di normalità l’agire deviante e i complessi
rapporti fra persona, comportamento, organizzazione giuridico-sociale dell’ambiente.
L’ambito di applicazione delle indagini scientifiche e la loro maturazione è un tema piuttosto
recente per la cultura investigativa italiana. Fino a non molti anni addietro esistevano delle
ragioni profondamente radicate nel tessuto del Paese, che hanno di fatto ostacolato una piena
consapevolezza rispetto all’idea di verità giudiziale. Oggi sono ancora molto forti taluni
pregiudizi e falsi miti che rendono difficile l’accettazione della scienza come strumento, quanto
più possibile imparziale, al servizio della verità.
Un aspetto non secondario per comprendere la genesi dei sistemi d’identificazione giudiziaria
“ante scientia” è quello della sovrapposizione, che ci fu per molti secoli, tra mezzi d’indagine,
strumenti di riconoscimento del reo, misure punitive, miti, superstizioni, riti.
In passato, la giustizia non aveva strumenti per agire scientificamente e quindi qualunque
mezzo, anche con valenza etica nulla, fu adoperato, in assenza di scelte razionali praticabili.
Alcuni tentativi empirici per identificare il reo quale contenitoredelle cause del crimine, dotato
di «irregolarità fisiche o stimmate che si fondano sulla diffusa credenza popolare secondo cui
delinquenti si nasce» (Balloni, 1986, 29), risalgono assai indietro nel pensiero umano e hanno
avuto più influenza di altri.
Per quasi tutta la loro storia più antica, l’identificazione e l’indagine per fini di giustizia, furono
caratterizzate esclusivamente dalla commistione tra reato e peccato e da metodi empirici,
rudimentali, approssimativi, barbari: testimonianze oculari spesso inattendibili; ordalie, processi
sommari, supplizi corporali o psicologici nei confronti dei rei e dei testimoni; delazioni e
denuncie segrete, di frequente corrotte da idee religiose, politiche, da miti e superstizioni. Se in
passato torture e mutilazioni erano le pene previste per talune tipologie di delitto,
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contemporaneamente esse finirono anche col corrispondere, nella brutalità dei loro esiti, ai
primi sistemi di riconoscimento del recidivo.
Per semplificare: laddove il furto era punito con la pratica diffusa dell’amputazione della mano
(oppure delle dita per il reato di entità più lieve) e l’allontanamento dalla comunità, il criminale
diventava facilmente individuabile nella nuova comunità di approdo. Era addirittura possibile
stabilire se aveva sottratto (o cercato di sottrarre) oggetti di valore o di poco conto. Inoltre, il
supplizio era spesso pubblico proprio peretichettare il condannato, renderlo riconoscibile, e per
farne un esempio da cui sottrarsi.
Analogo discorso vale per la tortura come mezzo per estorcere la confessione. La marchiatura a
fuoco, che nacque come strumento punitivo per i reati meno importanti e come mezzo
d’interrogatorio, finì col diventare anche un contrassegno di riconoscimento che rendeva palese
l’abitudine al delitto. Per un lungo periodo questa pena fu molto comune specie in Inghilterra
(Riley Scott, 2008, 184).
Solitamente il ferro rovente era applicato sul dorso della mano sinistra, su una spalla o sul volto:
«I vagabondi venivano marchiati con la lettera R (rogues), i ladri con la lettera T (thief), per gli
spergiuri, una parte della pena consisteva nella marchiatura della tempia con la lettera P
(perjuerer) […] In Francia, tutti i reati minori venivano puniti attraverso la marchiatura con il
fleur de lis […]» (ibidem, 2008, 184).
L’identificazione forense nell’accezione moderna
Tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX, si innescò un processo culturale, economico e
sociale che trasformò il modo di vivere, lavorare, abitare, delinquere. Il bisogno di sicurezza
mutò di prospettiva quando la popolazione demografica mondiale aumentò in modo esponenziale
e il comportamento umano cambiò soprattutto a causa dell’ambiente sociale.
Il riconoscimento dell’altro per fini di giustizia divenne un fatto via via più problematico e
incerto quando numerose persone, anonime e mobili, di differenti culture, cominciarono a
coabitare. Questo fenomeno, relativamente recente, iniziò con la Prima Rivoluzione Industriale.
Va detto, che prima della modernità, il ricorso da parte dei cittadini alla giustizia istituzionale
era una prassi tutt’altro che consolidata. Il controllo sociale era prevalentemente di tipo
indiretto e informale, erano gli stessi abitanti della comunità ad auto-regolarsi e a esercitare un
controllo reciproco e costante. Nei registri della giustizia francesi del XVI secolo, viene spesso
riportata la dicitura «preso dal vicino oppure colto in flagrante dai vicini» (Loubet Del Bayle,
2008, 32).
Ancora oggi nelle comunità tribali, fondate sulla solidarietà meccanica, il controllo sociale è
quasi esclusivamente di tipo spontaneo e informale. Il riconoscimento è un processo automatico,
grazie anche alla comunicazione orale faccia a faccia, che pone le persone continuamente a
confronto le une con le altre. Al loro interno ogni membro ha una cognizione profonda
dell’alterità ed è in grado di identificarla: «Il controllo è diretto e immediato perché l’universo
sociale è ristretto e tutti i membri si conoscono» (ibidem, 27). Il deviante è facilmente
riconoscibile laddove i vincoli sociali tra le persone sono molto coesi. Nella comunità «che vive
ripiegata su se stessa» (ibidem, 27), diventa quasi impossibile dissimulare comportamenti e gesti
e sfuggire al mutuo controllo e la devianza è contenuta entro confini prevedibili. Non a caso le
prime categorie soggette al controllo di polizia furono le «popolazioni non fisse, socialmente mal
integrate, fuori dei controlli comunitari informali: soldati disertori, nomadi, vagabondi,
mendicanti, stranieri, ambulanti, lavoratori stagionali […]» (ibidem, 33).
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Fu solo con lo sviluppo societario e scientifico in seno alla modernità e col passaggio da
comunità d’individui, a società complesse, differenziate e organiche, che si avvertì l’urgenza di
re-interpretare il bisogno di sicurezza e i meccanismi che lo regolavano. Le prime prospettive
scientifiche di identificazione forense, intuitive e pratiche, emersero solo dalla seconda metà
dell’Ottocento in un periodo di risveglio della criminologia, e«decisivo fu il ricorso alla scienza
per comprendere il mondo» (Giddens, 2006, 17). Nacquero e si svilupparono di pari passo con le
più recenti teorie criminologiche dell’epoca. Teorie di cui l’opera L’uomo delinquente di Cesare
Lombroso è forse la più significativa sintesi di pensiero. Certo la più nota. Dalla seconda metà
dell’Ottocento aveva preso forma l’idea, non nuova, che la tendenza a delinquere avesse
un’origine biologica, che poteva essere individuata attraverso la misurazione di alcune variabili,
derivabili da caratteristiche fisiologiche o comportamentali. L’approccio biologico al crimine,
insieme alle teorie darwiniane sull’ereditarietà, furono gli iniziali tentativi scientifici di dare ad
esso una spiegazione plausibile e soprattutto quantificabile. Col determinismo di Lombroso
nacque la moderna criminologia. In particolare, la statistica, la medicina, e la biologia
positivista, furono impiegate per elaborare alternative all’impianto illuministico: anziché
insistere sulla libera intenzionalità della scelta delinquenziale, si identificarono le tendenze
criminali in difetti individuali.
Ai discorsi della Scuola Positiva s’ispirarono tre indicativi autori che possono essere considerati
gli antesignani dei primi “investigatori forensi”: Alphonse Bertillon, iniziale curatore del
segnalamento giudiziario antropometrico; Salvatore Ottolenghi, l’inventore del sopralluogo di
polizia giudiziaria; Francis Galton, l’ideatore della dattiloscopia, o studio forense delle impronte
papillari. Ancora oggi quelle scoperte conservano un evidente valore scientifico, anche se le
premesse epistemologiche da cui scaturirono, ovverosia la natura atavica e la tara biologica del
delinquente nato, pietre angolari su cui poggiava l’edificio positivista, si sono rivelate inesatte.
Gli epigoni dell’identificazione forense dei criminali furono dunque scienziati positivisti. Per lo
più medici, biologi, genetisti o studiosi di statistica e antropometria, che si sforzarono di
osservare, ordinare, fissare e classificare il comportamento criminale attraverso l’uso dei più
moderni ritrovati scientifici: dagherrotipo, dattiloscopia, segnalamento antropometrico.
Elemento distintivo comune tra essi, fu il ricorso a tecniche di ricerca proprie del procedimento
scientifico galileiano e confluite nelle scienze sociali grazie al Corso di filosofia positiva di
Auguste Comte che «Ambiva a creare una scienza della società in grado di spiegare le leggi del
modo sociale così come le scienze della natura spiegavano il mondo fisico» (Giddens, 2006, 18).
Il primo metodo scientifico d’identificazione biometrico, detto bertillonage, fu sviluppato nel
gabinetto di segnalamento del carcere di Parigi. Il procedimento di Bertillon, noto anche come
“ritratto parlato”, pensato e applicato per fini identificativi dall’anno 1880, fu ufficialmente
pubblicato per la prima volta nel saggio Une application pratique de l’anthropometrie, Extrait
des Annales de Dêmographie Interne (1881). Si basava sulla misurazione, classifica e
comparazione di undici segmenti del corpo, corredati dalla descrizione di caratteristiche fisiche
e di contrassegni, particolarità fisiche rare, riproduzioni fotografiche e anche rilievi
dattiloscopici che tuttavia non furono, in quella circostanza, utilizzati per scopi identificativi.
Secondo i calcoli statistici di Bertillon, la probabilità che una particolare misurazione fosse
esattamente la stessa per due individui differenti era di 1/4. Le possibilità che due persone
differenti possedessero, ad esempio, stessa altezza e la stessa circonferenza cranica, sarebbe
stata quindi di (1/4)2, e così via. La probabilità che due persone diverse avessero in comune
tutte e undici le misure era di (1/4)11, ovverosia una su 4.191.304.
La tecnica del bertillonage, pur rivelandosi molto macchinosa, anche a causa dell’inadeguato
numero di poliziotti rispetto a quello degli arrestati presenti nel territorio di Parigi, fu
impiegata in larga scala dal 1883 in tre differenti gabinetti di segnalamento: la citata Surete di
Parigi e presso le prefetture di Lyon e Marsiglia e rimase ufficialmente in vigore sino al 1914.
Oltre all’evidente complessità di esecuzione pratica, quel procedimento di identificazione
forense aveva altri due limiti. Il primo era rappresentato dal fatto che lo scheletro umano muta
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nell’arco della vita. Il secondo era che la “classifica” di persone con caratteristiche fisiche simili
finiva spesso col coincidere e col sovrapporsi, dunque, in assenza di altri contrassegni salienti,
era molto difficile, per non dire impossibile, attribuire un’identità certa alla persona. D’altra
parte quello di “uomo medio” era un principio già acclarato all’epoca in cui scrisse Bertillon,
soprattutto grazie alla “La physique sociale” (1835) di Adolphe Quetelet, e agli studi statistici
della Scuola Cartografica. E fu proprio quest’ultimo limite, insieme alla scoperta dei metodi di
classifica dattiloscopici, a decretare la fine del bertillonage come sistema di identificazione.
“Finger Print” e “Finger Print Directory”
I testi di Francis Galton, Finger Prints, pubblicato nel 1892, e Finger Prints Directory, di tre anni
successivo, furono gli “atti fondanti” della dattiloscopia e rimangono tutt’oggi i saggi di
riferimento per chi si occupa di questa disciplina. Anche i più complessi studi successivi, ad
esempio: Finger Prints, Palms and Soles An Introduction To Dermatoglyphics di Cummins e Midlo,
del 1943, considerato una sorta di “Bibbia” dei dermatoglifi, soprattutto per quanto attiene lo
studio dell’embriologia e della genetica, convalidarono molte delle intuizioni attribuite a
Galton.
La dattiloscopia entrò molto velocemente nella realtà della criminologia, trovando un terreno
particolarmente fertile all’interno della società imperialistica vittoriana del XIX secolo. Fu
applicata, da subito e in maniera imponente, nelle colonie britanniche dell’East India Company e
nelle vaste comunità carcerarie del Regno Unito.
La questione su “come”, “quando” e “da chi”, essa sia stata impiegata per la prima volta, per
scopi forensi, è una faccenda non scevra da certe ambiguità. Varie fonti accreditano la scoperta
a un medico scozzese: Henry Foulds, che nell’ottobre del 1880, dodici anni prima di Galton, la
illustrò sulla rivista scientifica Nature, con un articolo dal titolo “On the Skin-furrow of the
Hand”:
«Quando si trova un’impronta digitale insanguinata o impressionata nella creta o sul vetro, & c.,
essa può condurre all’identificazione scientifica di criminali. Già io ho avuto l’esperienza in due
casi, trovando la corrispondenza effettiva di questi segni. In una circostanza l’impronta digitale
rivelò chi aveva bevuto da un bicchiere» (Foulds, 1880, 605).
Vi è anche un secondo termine di raffronto che avvalorerebbe questa ipotesi. Foulds intrattenne
con Charles Darwin, cugino di Galton, un rapporto epistolare grazie al quale, quest’ultimo,
venne a conoscenza di alcune informazioni, forse appropriandosene. Tuttavia, Foulds, che
probabilmente riuscì anche ad individuare l’autore di un furto grazie a un’impronta digitale,
probabilmente, cadde nell’equivoco di sottovalutare il potenziale della dattiloscopia come
disciplina forense, volendo insistere soprattutto sull’opportunità di stabilire, attraverso essa,
alcune regole generali sull’ereditarietà e sulle possibili differenze razziali tra le popolazioni.
Concentrò gran parte dei suoi studi in quella direzione, seguendo un orientamento
particolarmente caro agli studiosi positivisti e basato sui principi della genetica mendeliana e del
darwinismo sociale.
Al di là dalle mere speculazioni, giova rilevare che Galton, grazie anche al contributo di William
Hershel, ufficiale del Servizio Civile Indiano britannico nel distretto Hooghly in Jungipoor in
India, produsse un’opera che potremmo, senza rischio, definire completa, poiché riuscì a
indagare discorsi e riflessioni che non si ritrovano in alcuno degli autori che l’hanno preceduto:
approfonditi studi su sistemi di classifica e codifica delle impronte, calcoli statistici sulla loro
variabilità, metodi di assunzione e di rilevamento delle impronte attraverso l’uso dell’inchiostro
tipografico, utilizzo di strumenti di catalogazione e archiviazione; ma fu soprattutto grazie a
Galton e alla sua collaborazione con Edward Henry, “Commissioner” della Metropolitan Police di
Londra tra il 1903 e il 1918, che le Corti britanniche prima, e quelle di tutto il mondo
successivamente, conferirono alla dattiloscopia la valenza probatoria che ancora le spetta.
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Edward Henry, col saggio Classification and uses of fingerprints (1900), fu anche il realizzatore
del primo metodo di classifica decadattilare “istituzionalizzato”, ufficialmente accolto
dall’“Home Office”, il Ministero per gli Affari Interni del Regno Unito.
Conviene anticipare le due premesse di base su cui si basa la dattiloscopia: la persistenza della
morfologia dell’impronta nell’arco della vita e l’individualità. Mentre la prima premessa
richiama un dato in gran parte intuitivo, stabilito poi con assoluta certezza dagli studi
sull’anatomia e sulla morfogenesi delle creste papillari, l’individualità oidentità assoluta è
soggetta ad una verità empirica sostenuta da un fondamento statistico. L’individualità
dattiloscopica, al pari dell’unicità della persona umana, esiste solo in senso retorico; è un
assioma. Ognuno ne comprende l’esattezza ma rimane un dato impossibile da dimostrare. Con
un’unica eccezione. Quella del fatto concreto che porta all’individuazione in casi giudiziari
specifici. La dattiloscopia si fonda su criteri di certezza assoluta perché equipara la nozione di
“rarità” con quella di “unicità”. La complessità e la delicatezza dell’argomento erano state
rilevate già dalla fine dell’Ottocento da Galton stesso: «Il nostro problema è questo: date due
impronte digitali simili, quale è la probabilità che appartengano a persone diverse?» (Galton,
1892, 100).
Finger Prints è un volume di tredici capitoli. Se si escludono i numeri undici e dodici, centrati in
gran parte sull’improbabile tentativo di stabilire connessioni tra forma delle impronte papillari,
ereditarietà e razza, molti passaggi dell’opera rilevano, a più riprese, quelli che possono essere
considerati i tre precetti in capo alla dattiloscopia:
 immutabilità delle impronte nell’arco della vita, per cui «non subiscono variazioni
morfologiche naturali» (Donato, 2006, 52);
 varietà e differenza delle forme papillari nel singolo individuo e nella popolazione: «non è
possibile ritrovare una stessa impronta, sia pure parzialmente riprodotta, in più persone […] o
nello stesso individuo» (ibidem, 52);
 opportunità di codificare le impronte digitali «che pur nella loro infinita variabilità possono
essere catalogate sulla base delle loro caratteristiche generali» (ibidem, 52), da cui la
possibilità di classificare e archiviare il dato.
Dall’ultima tesi nacque la tripartizione di Galton per cui le impronte digitali sono sempre
riconducibili a tre forme: arch (arco o adelta), loop (ansa o monodelta), whorl (spirale o
bidelta), grazie alla differente curvatura delle linee papillari:
«Per chi studia l’impronta digitale, i primi oggetti da guardare sono i delta [1], accertare se il
modello ne possieda due, uno o nessuno […] La caratteristica principale degli archi è l’assenza di
delta; un cappio ne ha uno; una spira ne ha due […] Ci sono alcuni modelli ambigui, ed altri che
sono indefiniti, ma i primi sono non comuni ed i secondi rari; a parte queste eccezioni, esistono
pochi inconvenienti, la classificazione funziona facilmente e bene» (Galton, 1895, 62, 78).
La prima caratteristica evidente è che qualsiasi impronta digitale risulta costituita da fasci di
linee ben determinati. Galton indicò in un numero di tre questi fasci:
 quello basale, costituito da linee situate alla base del polpastrello, più precisamente tra la II
falange e l’inizio della III falange, in corrispondenza dell’articolazione;
 quello marginale, presente all’apice della III falange e che decorre lateralmente rispetto ad
essa, circoscrivendo il polpastrello esternamente;
 quello centrale, in corrispondenza appunto della zona epicentrale della terza falange e che
include il c.d. centro di figura, che può assumere configurazioni diverse. «I sistemi di linee
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nelle loro evoluzioni formano anche delle zone definite delta o triradi, che costituiscono delle
aree di adiacenza dove i sistemi basale, marginale e centrale confluiscono.» (Intini-Picozzi,
2009, 316).
La possibilità d’individuare quei sistemi di linee fu anche la premessa indispensabile che permise
di “classificare” le impronte digitali a partire dal 1900. Inizialmente i sistemi di classifica delle
impronte digitali consistettero essenzialmente nell’individuare alcune forme e attribuire ad esse
un codice alfanumerico o numerico.
Questo semplice passo consentì di restringere notevolmente i margini di ricerca dei potenziali
recidivi, ovverosia già sottoposti ai rilievi dattiloscopici, riducendo lo sforzo necessario, in
quanto la ricerca si orientava esclusivamente su una precisa sequenza numerica (si tenga conto
che una classifica decadattilare può avere anche dieci miliardi di combinazioni differenti).
Galton comprese anche che i disegni delle creste papillari erano immutabili nel tempo. Lo fece
grazie ad un esperimento, strumento di indagine molto diffuso all’epoca. Rilevò e poi analizzò,
in due occasioni, diversi campioni di impronte assunti su alcuni bambini e poi li confrontò a
distanza di anni verificando l’assoluta corrispondenza delle impronte. Egli considerò, con giusta
causa, anche il fatto che il dermatoglifo si forma nell’ambiente intrauterino prima della nascita:
«Lo sviluppo embriologico delle creste papillari è stato studiato da molti, ma specialmente dal
Dott. A. Kollmann’, [...] Egli ha stabilito che le creste si formano attraverso pressioni laterali
delle strutture embrionali [...] Si dice che le creste siano discernibili nel quarto mese della vita
fetale prima, per formarsi pienamente entro il sesto [...]» (Galton, 1892, 58-60).
Queste e altre osservazioni, diedero facoltà di formulare una teoria generale e di chiarire
soddisfacentemente il problema che nessuna ipotesi precedente aveva consentito di
interpretare: l’opportunità di identificare, con nessuna possibilità di errore (purché sussista un
minimum di caratteri), la persona.
Insieme a queste peculiarità, Galton ne indicò una ulteriore, la c.d. “morfologia particolare”
dell’impronta. Nelle creste papillari sono infatti presenti alcune accidentalità o imperfezioni,
che si è soliti nominare in relazione alla forma che assumono (biforcazioni. interruzioni, tratti di
linea, occhielli, uncini, isolotti, punti); le discontinuità delle creste papillari sono chiamate
minuzie, punti caratteristici, o “Galton’s dectail”, queste accidentalità sono molto significative
e rendono unica l’impronta (Ceccaroli, 2000, 140 e ss.).
Nell’epidermide, lo strato più esterno della cute, in corrispondenza dei polpastrelli delle dita,
del palmo della mano, della pianta del piede, sono incluse le c.d. “creste cutanee o papillari” o
dermatoglifi; queste hanno uno spessore variabile e formano disegni assolutamente originali.
Ciò è dovuto al fatto che le impronte possiedono segni generali (andamento delle linee delle
creste cutanee) e soprattutto particolari (le c.d. minuzie); sono questi ultimi che rendono unica
la morfologia complessiva dell’impronta: «Queste caratteristiche morfologiche delle impronte
papillari sono considerate elementi particolari e su di esse si fonda l’intero apparato
dell’identificazione dattiloscopica.» (Intini-Picozzi, 2009, 315).
La superficie cutanea digitale, palmare e plantare, non è quindi liscia, ma presenta molte
irregolarità sotto forma di solchi più o meno profondi, creste, pieghe, depressioni.
Il disegno delle creste e dei solchi, è definito geneticamente a partire dalla tredicesima
settimana dopo il concepimento, per formarsi definitivamente intorno alla ventunesima; di
conseguenza saranno invariabili anche i disegni che esso forma sulla superficie cutanea e rimane
tale fino al sopraggiungere dei fenomeni tanatologici. Tali creste hanno uno spessore dell’ordine
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della frazione di millimetro; la loro funzione è permettere lo sviluppo dell’attrito e quindi
l’attività prensile tipica dei primati.
L’impronta è quindi il segno lasciato dalle creste epidermiche delle papille, separate tra loro da
solchi, e sulla cui sommità si aprono i pori sudoripari.
Attualmente le polizie di tutti i Paesi adottano sistemi biometrici per l’identificazione
dattiloscopica. In Italia, il sistema A.P.F.I.S. (Automated Palmars and Fingerprints Identification
System) utilizza un algoritmo della Cogent System. APFIS è un software in grado di archiviare,
codificare e confrontare con procedure in parte automatizzate, in tempi molto rapidi, le milioni
di impronte digitali e palmari presenti nei database del Casellario Centrale di identità presso il
Viminale.
Dattiloscopia e orientamento giuridico
La prima definizione “potenzialmente scientifica” di unicità in ambito forense, nacque nel 1835
col belga Adolphe Quetelet, che insieme a Andrè Guerry fondò la statistica descrittiva sociale.
Quetelet cercò di spiegare il comportamento umano attraverso la probabilità statistica del
verificarsi di certi eventi umani, partendo dall’esistenza di un presunto “uomo medio”. Ipotizzò,
come altri prima di lui, che mai la natura si ripete e che moltiplicando tra loro le probabilità che
eventi umani tra loro indipendenti, ciascuno dei quali in grado di assumere valori differenti, la
possibilità ultima di ottenere due valori assolutamente identici è un limite che tende allo zero.
In altre parole la probabilità, espressa in termini matematici, che un evento possa verificarsi è
un numero compreso tra “0” e “1”; dove la cifra “1” rappresenta l’identità assoluta accertata e
“0” il suo opposto.
L’esempio classico è quello del dado da gioco. Se si lancia un solo dado la probabilità di ottenere
un numero prestabilito è rappresentata dalla frazione 1/6. Se si lanciano diciassette dadi, la
probabilità statistica di ottenere una sequenza di numeri prestabilita è “1/6“che moltiplica
“1/6“ per diciassette volte: (1/6)17.
Questo principio fondamentale della statistica è detto “regola del prodotto” ed è estendibile ad
eventi indipendenti tra loro, anche, ad esempio alla distribuzione delle minuzie in un’impronta.
Il metodo statistico di Victor Balthazard, ad esempio, lo stesso accettato e riconosciuto dalla
Corte di Cassazione italiana, muove dall’ipotesi che un’impronta “completa” possieda circa
cento punti caratteristici; la rarità (e non unicità) è così espressa dalla formula: (1/4)n, dove la
cifra “quattro”, rappresenta il tipo di minuzie che si ritrovano con più frequenza in un’impronta
(termine di linea e biforcazione verso destra e verso sinistra), mentre “n” rappresenta il numero
di minuzie uguali per forma e posizione. Ad esempio, se a “n” si attribuisce il numero 17, si
ottiene: (1/4)17 = 1/ 17.179.869.184. Che in altre parole significa: una possibilità su diciassette
miliardi che due impronte con diciassette punti in comune, uguali per forma e posizione,
appartengano a due persone differenti.
Come già anticipato, l’assioma aristotelico dell’identità assoluta, per cui ognuno è uguale solo a
se stesso in un limite di spazio e di tempo, è un principio intuitivo e ovvio ma indimostrabile. La
probabilità statistica di trovarsi di fronte a due impronte, o parti di esse, con un certo numero di
punti caratteristici in comune, uguali per forma e posizione, appartenenti a persone diverse, è
un limite che tende a zero. Tuttavia, la popolazione umana è formata hic et nunc da oltre sei
miliardi d’individui cui è possibile associare più di dodici miliardi di impronte di mani e sessanta
miliardi di impronte digitali. Questo dato è anche in continuo aumento se si considera che la
popolazione mondiale è destinata, almeno nelle previsioni più reali, ad aumentare in modo
esponenziale.
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Un altro ordine di problemi deriva dal fisiologico margine di errore che contraddistingue
qualsiasi procedura scientifica, anche la più rigorosa; cioè la possibilità di ottenere i c.d. “falsi
negativi” o “falsi positivi”. A quest’ultima si deve aggiungere, infine, l’ipotesi della
contraffazione volontaria e dolosa di prove. Se falsificare una testimonianza resa in giudizio è un
fatto tutt’altro che impossibile, non di meno, manipolare una prova scientifica è più complesso
ma non certo irrealizzabile.
In tutto il mondo, l’identità attraverso l’impiego delle impronte papillari ricopre un ruolo
preminente e indiscusso nell’indagine forense. Sono principalmente tre gli ambiti di applicazione
dell’identità dattiloscopica.
Il primo attiene, come anticipato, la c.d. “dattiloscopia giudiziaria”, ovverosia la possibilità che
le tracce papillari trovate sulla scena del crimine, portino alla ricostruzione di fatti delittuosi. In
altre parole si concretizza con la possibilità di individuare le persone che, a vario titolo, erano
presenti sul luogo in cui si è consumato un reato.
Una seconda serie di prescrizioni riguarda le leggi o gli articoli di legge mirati al controllo
dell’identità intesa essenzialmente come “potere-dovere” dell’Autorità (Giudiziaria o di
Pubblica Sicurezza) di individuazione-riconoscimento di una persona: vale a dire attribuire ad
ella le «esatte e complete generalità anagrafiche» (Intini, 2003, 29), indipendentemente dalla
commissione di un reato.
La c.d. “identificazione preventiva”, è intesa più che altro come l’insieme dei dati necessari e
sufficienti che permettono di individuare, specie dal punto di vista burocratico e anagrafico, la
persona.
Ad esempio L’art. 349, co 2, c.p.p., Identificazione della persona nei cui confronti vengono
svolte le indagini e di altre persone, è un’attività a iniziativa della polizia giudiziaria. L’articolo
prescrive che all’identificazione della persona si possa procedere anche eseguendo, ove occorra,
rilievi dattiloscopici: «La dattiloscopia preventiva cura, pertanto, l’elencazione e
l’aggiornamento dei cosiddetti elenchi dei precedenti dattiloscopici, funzionali a molteplici
attività di Polizia e, più in generale, di Giustizia.» (Intini-Picozzi, 2009, 319).
Il terzo ambito, che deriva dal secondo ma con alcune significative differenze, riguarda il
“controllo sociale”; ovverosia l’insieme di norme poste in essere estendendo l’utilizzo di un dato
biometrico a intere categorie di persone (si pensi ad esempio al Testo Unico sull’immigrazione;
oppure ai sistemi di protezione per l’accesso a luoghi sensibili come istituti di credito, uffici,
ecc.; o ancora alla possibilità di dotare i documenti di riconoscimento di un dato biometrico per
impedirne la falsificazione o la sostituzione).
Alla luce di questa e delle precedenti considerazioni, è possibile affermare che l’accertamento
dattiloscopico, nel suo complesso, sia sottoposto ad una duplice regolamentazione.
Una prima serie di prescrizioni riguarda l’orientamento giurisprudenziale della Cassazione che a
sua volta si fonda su un calcolo statistico-probabilistico.
Una seconda serie di prescrizioni riguarda le leggi e gli articoli di legge mirati a stabilire
l’identità intesa essenzialmente come “potere” di individuazione-riconoscimento di una persona
e il “controllo sociale” di una intera categoria di persone. Vale a dire attribuire leesatte e
complete generalità anagrafiche (Intini, 2003, 32), indipendentemente dalla commissione di un
reato.
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Le impronte possono dunque essere codificate da un gran numero di funzioni: il flusso delle
creste papillari (ma solo per le digitali!); il tipo, il numero, la direzione e la posizione delle
minuzie; la morfologia dei pori sudoripari, la loro distanza o il loro numero.
Queste caratteristiche peculiari sono in realtà molte, ma la dottrina giurisprudenziale ne
individua generalmente una sola specie che è stata interpretata come “necessaria e sufficiente”
per stabilire un’identità dattiloscopica certa: la c.d. differenza derivante dai “punti
caratteristici” dei caratteri particolari dell’impronta. In buona sintesi dal numero di minuzie e
dalla corrispondenza per forma e posizione. Le ragioni di questa scelta dipendono probabilmente
dal fatto che le impronte palmari, al contrario di quelle digitali, non sono soggette a nessun tipo
di classifica generale e quindi, in questo caso, non sarebbe possibile stabilire un’identità
dattiloscopica certa a partire da quel dato.
In assenza di una norma specifica nell’ordinamento giuridico italiano che regoli la questione
dell’identità “giudiziaria” delle impronte repertate sulla scena del crimine, sono stati la dottrina
e la giurisprudenza a definirne l’orientamento. Tale ambito è, in via esclusiva, disciplinato da
una tendenza giurisprudenziale della Cassazione. La Corte Suprema ha sancito, in tempi
successivi, con diverse sentenze, il valore probatorio dell’identità dattiloscopica.
L’orientamento attuale, che richiama una sentenza del Cinquantanove (Corte Suprema di
Cassazione, Sez. II, n. 2559 del 14/11/1959), è di considerare l’effettiva corrispondenza tra due
impronte quando esse possiedono almeno sedici o diciassette punti caratteristici in comune,
uguali per forma e posizione.
In altre parole si procede mettendo a confronto due termini omologhi: l’impronta rilevata sul
luogo del reato con quella precedentemente assunta, per stabilire se esistono analogie e
corrispondenze. Se vi è una corrispondenza per forma e posizione tra i punti caratteristici delle
diverse impronte papillari, e solo in questo caso, è possibile attribuire un’identità dattiloscopica
certa.
Un’ulteriore sentenza della Cassazione Penale (Sez. II, n. 11410, del 23/10/1986) ha altresì
rafforzato questa verità giudiziaria: “Le risultanze delle indagini dattiloscopiche offrono piena
garanzia di attendibilità, senza bisogno di elementi sussidiari di conferma, purché evidenzino la
sussistenza di almeno sedici o diciassette punti caratteristici uguali per forma e posizione tra le
impronte digitali dell’imputato e quelle rilevate sul luogo del reato”.
Bibliografia
Balloni A. (1986), Criminologia in prospettiva, Clueb, Bologna.
Ceccaroli G. (2000), Sulle tracce del delitto, Imprimitur, Padova.
Donato F. (2006), Criminalistica e tecniche investigative, Olimpia, Sesto Fiorentino.
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Galton F. (1895), Finger Print directory, Mac Millian & Co., London.
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Torino.
Loubet Del Bayle J. (2008), Polizia e politica. Un approccio sociologico, L’Harmattan Italia,
Torino.
Riley Scott G. (1999), Storia della tortura, Mondadori, Milano.
[1] La traduzione letterale per arch, loop, whorl, è, rispettivamente, “arco”, “cappio”, “spira o
vortice”. La figura composite, fu invece menzionata per la prima volta da Edward Henry, nel
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1900, ne “Classification and uses of finger prints”. L’equivalente in lingua italiana di questi
quattro termini è stato tradotto con i sostantivi “adelta”, “monodelta”, “bidelta” e
“composta”, evidentemente per indicare le caratteristiche morfologiche di quelle figure.
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