metano: una bomba climatica sotto il circolo polare artico
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metano: una bomba climatica sotto il circolo polare artico
METANO: UNA BOMBA CLIMATICA SOTTO IL CIRCOLO POLARE ARTICO LE EMISSIONI DI METANO NEL MONDO Sebbene il metano (CH4) rimanga in atmosfera per tempi relativamente brevi, circa dieci anni, è un gas serra molto potente con un “potenziale di riscaldamento globale” oltre venti volte quello della CO2. Attualmente la concentrazione di metano in atmosfera si attesta attorno a 1.800 parti per miliardo, contro le 380-390 parti per milione della CO2. La concentrazione di metano è quasi triplicata rispetto al periodo pre-industriale. Le emissioni globali di metano, sia da fonti naturali che antropiche, sono stimate tra 500 e 600 milioni di tonnellate ogni anno. Circa 200 milioni di tonnellate sono rilasciate da diverse tipologie di terreni in tutto il Pianeta. Una delle maggiori fonti per le emissioni di metano, con circa 50-60 milioni di tonnellate rilasciate ogni anno, sono i territori attorno al circolo polare Artico. La principale area geografica che contribuisce al fenomeno è la Russia (64% delle emissioni di CH4), seguita da Canada e Alaska (18%). LO SCONGELAMENTO DEL PERMAFROST CONTRIBUISCE AD AUMENTARE LE EMISSIONI DI METANO Recenti ricerche evidenziano che la presenza di aree umide, specchi d’acqua e laghi superficiali formatisi a causa dello scongelamento del permafrost fornisce un contributo rilevante al rilascio di metano in atmosfera. Per permafrost si intende il terreno rimasto ghiacciato per almeno due anni consecutivi, con spessori che possono variare da pochi a centinaia di metri. Specchi d’acqua e laghi superficiali arrivano a coprire anche il 30% del territorio in alcune regioni dell’Artico. Lo scongelamento del permafrost contribuisce al collasso di alcuni terreni e alla formazione di crateri e pozze d’acqua superficiali che vanno a incrementare la superficie delle aree con presenza d’acqua. L’aumento delle emissioni di metano è direttamente correlato all’aumentare di queste aree. La materia organica contenuta nel permafrost in fase di fusione (piante morte, resti animali) sedimenta, infatti, sul fondo degli specchi d’acqua esistenti e diventa nutriente per microbi capaci di produrre metano in condizioni anaerobiche. Il gas metano generato in profondità tende a risalire in superficie sotto forma di “bolle” che possono rimanere intrappolate sotto strati argillosi, o raggiungere direttamente la superficie. La figura a lato mostra la dinamica del rilascio di emissioni di metano da specchi d’acqua a contatto con uno strato di permafrost in via di scongelamento. Gli specchi d’acqua sono dunque vie “privilegiate” per il rilascio di metano in atmosfera. Nell’Artico sono presenti anche notevoli quantità di metano stoccate sotto forma di “idrati ghiacciati” sia in strati profondi del permafrost, che sotto la superficie oceanica. Il rapido innalzamento delle temperature può condurre a processi di destabilizzazione di tali idrati e può rappresentare un’ulteriore fonte di emissioni nel lungo periodo. Il rilascio di gas metano può avvenire dunque da una serie di diversi ambienti con presenza di acqua. Anche le aree di contatto tra permafrost e acque marine, come indica la figura seguente, possono presentare fenomeni di rilascio, come è stato accertato da recenti spedizioni di osservazione lungo la piattaforma continentale al largo delle isole Svalbard. Qui alcuni ricercatori hanno scoperto più di 250 punti con fenomeni di risalita di bolle di metano. DALL’ARTICO UNA GRAVE MINACCIA PER IL CLIMA GLOBALE Ad oggi l’Artico è l’area che si sta riscaldando più velocemente di qualsiasi altra area del Pianeta, con aumenti delle temperature da due e tre volte più alti rispetto alla media globale di +0,8°C. A causa dei fenomeni di scongelamento in corso, si stima che le emissioni da metano nell’Artico potranno raddoppiare nel corso del secolo, superando i 100 milioni di tonnellate all’anno. Nella sola Siberia si stima che siano “stoccati” 50 miliardi di tonnellate di metano, una quantità pari a dieci volte il metano presente oggi in atmosfera. Se questa quantità venisse liberata, porterebbe a una rapida amplificazione del riscaldamento del Pianeta. Secondo l’UNEP, drammatici incrementi nelle emissioni di metano potranno avvenire con un progressivo riscaldamento dell’Artico e se il permafrost continuerà a fondere a ritmi elevati. Studi recenti mostrano che questo sta già avvenendo in Alaska, Canada e Scandinavia, dove il limite del permafrost si sta già spostando verso nord. Chiara evidenza è stata accertata anche per quanto riguarda l’aumento di aree umide nel nord della Siberia. Agli attuali ritmi di crescita delle emissioni di gas serra si stima che entro il 2050 si perderà il 23% del permafrost attorno al circolo polare artico, come mostra la figura a lato. I cambiamenti climatici sono già oggi in forte accelerazione. Gli scienziati dell’IPCC avvertono che la crescita delle emissioni globali di gas serra deve essere fermata al più presto, possibilmente entro il 2015. Agli attuali trend il Pianeta corre verso i peggiori scenari tracciati dall’IPCC, con un aumento della temperatura media terrestre pari a +6°C al 2100, ben oltre il valore di +2°C indicato come limite per evitare fenomeni climatici irreversibili. L’IPCC ha anche recentemente rivisto la stima dell’aumento del livello dei mari al 2100, che è stata ora innalzata a circa un metro, il doppio rispetto ai 59 centimetri indicati nel 2007. Questo comporterebbe gravi implicazioni per il 10% della popolazione mondiale, circa 600 mila persone che vivono in basse aree costiere. Tale aumento non comprende il contributo dei ghiacci della Groenlandia (che porterebbero ad un innalzamento di circa 6-7 metri) ma solo l’effetto di espansione termica degli oceani dovuta all’aumento della temperatura media terrestre. Altri fenomeni che possono contribuire ad amplificare il “global warming” sono la perdita di capacità di assorbire gas serra da parte di alcuni ecosistemi, come egli oceani e le ultime foreste primarie del Pianeta. La perdita di capacità di assorbimento aumenta con l’aumentare delle temperature. Tale fenomeno, sommato alla perdita di vaste aree ghiacciate ai poli, e al rilascio di elevate quantità di metano, fa aumentare le preoccupazioni che l’equilibrio climatico del Pianeta stia rapidamente progredendo verso il superamento del punto di non ritorno, con cambiamenti climatici irreversibili che avranno impatti su ecosistemi, risorse naturali, popolazione mondiale e il sistema economico. Si prevedo danni pari al 20% del PIL mondiale, accresciute difficoltà di sopravvivenza per l’uomo in Paesi in via di sviluppo, e ridotto benessere nei Paesi industrializzati. NON È ANCORA TROPPO TARDI È tecnicamente possibile stabilizzare l’aumento della temperatura mondiale al di sotto della soglia limite di +2°C al 2100. Tale livello non precluderà impatti gravi, come l’eventuale perdita di interi arcipelaghi nell’Oceano Pacifico, ma eviterà il verificarsi di impatti climatici irreversibili. Non è ancora troppo tardi per agire, ma il tempo a disposizione sta rapidamente esaurendosi. Per centrare questo obiettivo occorre partire già oggi con un’azione coordinata, determinata e urgente per la stabilizzazione delle emissioni di gas serra al 2015, in modo da invertire il trend di crescita e procedere verso un dimezzamento delle stesse al 2050 e un loro azzeramento il più presto possibile nella seconda metà del XXI secolo. Il 2009 è un anno fondamentale per le negoziazioni internazionali sul clima che culmineranno a dicembre nella Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici di Copenhagen. Questo evento rappresenta la più importante possibilità che i governi di tutto il mondo hanno per salvare il Pianeta da un futuro climatico catastrofico. Cogliere questa opportunità richiede una leadership politica sul tema dei cambiamenti climatici e un grado di accordo tra le diverse parti firmatarie del Protocollo di Kyoto che Greenpeace non ha ancora osservato in nessun Paese al mondo, ma molto può essere ottenuto in questi ultimi mesi nel corso dei numerosi appuntamenti e meeting internazionali. Secondo Greenpeace i cardini imprescindibili su cui fondare un nuovo accordo sul clima sono: 1) la riduzione vincolante delle emissioni di gas serra di almeno il 40% al 2020 rispetto ai livelli del 1990, per i Paesi industrializzati. Il 75% dello sforzo di riduzione deve essere raggiunto a livello domestico, senza ricorso a meccanismi flessibili. I Paesi industrializzati devono inoltre impegnarsi a pagare parte dei loro “permessi ad emettere” in modo da generare risorse economiche stabili per 110 miliardi di euro all’anno, da utilizzare per lo sviluppo delle fonti rinnovabili nei Paesi in via di sviluppo, per la protezione delle foreste primarie e per misure di adattamento (www.greenpeace.org/raw/content/italy/ufficiostampa/file/clima-europa); 2) nello spirito di un graduale allargamento e rafforzamento degli impegni, anche i Paesi in via di sviluppo devono impegnarsi a ridurre le proprie emissioni del 15-30% entro il 2020 rispetto allo scenario di crescita “business as usual”; 3) la creazione di un meccanismo finanziario controllato dalle Nazioni Unite per fermare la deforestazione al 2020 globalmente, e al 2015 in alcune aree di primaria importanza, come la foresta Amazzonica, il bacino del Congo, e la foresta del Paradiso in Indonesia. Oggi la deforestazione è, infatti, causa di circa il 20% delle emissioni mondiali di gas serra. FONTI: • UNEP, “Year Book – An Overview of Our Changing Environment”, 2008 • UNEP, “Year Book – New Science and Development in Our Changing Environment”, 2009 (www.unep.org/Documents.Multilingual/Default.asp?DocumentID=562&ArticleID=6099&l=en&t=long) • WORDWATCH Institute, “State Of the World - Into a Warming World”, 2009 • Los Angeles Times, “Bubbles of warming, beneath the ice”, February 20, 2009 (www.latimes.com/news/science/environment/la-na-global-warming22-2009feb22,0,1748869,full.story)