Federazione leggera. Stato dell`art
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Federazione leggera. Stato dell`art
La Federazione leggera 5 anni dopo: lo stato dell’arte Ottobre 2016 La Federazione leggera 5 anni dopo: lo stato dell’arte Autore: Marco De Andreis Versione 1 del 25 ottobre 2016 Introduzione Cinque anni fa, nel 2011, Emma Bonino e io presentammo una proposta di federazione europea leggera che chiamammo Federation Lite1. L’unione monetaria era allora in serio pericolo sotto i colpi della crisi di finanza pubblica – poi di occupazione e crescita – che aveva investito la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna e l’Italia. Nel corso dello stesso anno si era andato formando un larghissimo consenso sul fatto che a minacciare la sopravvivenza dell’euro fosse la mancanza di unità politica. Dove s’è mai vista una banca centrale non affiancata da un Ministero del Tesoro, come è il caso della BCE? – si chiedevano quasi tutti. Altrettanto generalizzata era la consapevolezza che l’uscita di uno o più paesi dall’euro avrebbe travolto l’unione monetaria e innestato la retromarcia al processo di integrazione, mettendo a rischio l’esistenza stessa dell’Unione europea. Di fronte all’alternativa tra unione politica e potenziale dissoluzione dell’Europa, un numero crescente di persone influenti, politici ed economisti, europei e non, scelse – a parole s’intende l’unione politica. La prima parte della nostra proposta era essenzialmente un elenco diligente di dichiarazioni pro unione politica europea – spesso da parte di donne e uomini allora al governo, come Franco Frattini, Alain Juppé, François Baron, Ursula von der Leyen, Wolfgang Schäuble, Angela Merkel . In molti casi, gli autori di queste dichiarazioni arrivavano persino a usare la parola “federazione”, rompendo così un tabù, un ostracismo verso l’espressione che nei consessi rispettabili di politica internazionale durava da almeno tre decenni. Nei quali consessi rispettabili di politica internazionale la stampa anglosassone, anche per la sua indiscussa superiorità di investigazione e analisi, ha sempre tenuto banco. Ed era stato il ramo britannico della stampa anglosassone a creare il tabù, l’ostracismo. A partire dagli anni di premiership di Margaret Thatcher, cominciati nel 1979, e delle sue battaglie sul bilancio comunitario e poi a seguire, senza tregua, fino a oggi. Prima della Thatcher – che in altri campi ha avuto, a mio parere, diversi meriti - anche in Gran Bretagna, entrata nella Comunità europea nel 1973, si parlava apertamente di federazione come sbocco naturale del processo di integrazione europea. Nel 1977, il rapporto alla Commissione europea del gruppo di studio sul ruolo della finanza pubblica nell'integrazione europea era giunto a queste conclusioni: "E' possibile concepire, presumibilmente nel lungo periodo, una Federazione europea in cui la spesa pubblica federale ammonti a circa il 20-25% del prodotto lordo, come negli Stati Uniti e nella Repubblica Federale di Germania. Una fase precedente potrebbe essere una federazione con una spesa federale molto inferiore, 1 Ne esistono varie versioni, tra le quali cfr.: Making the case for a ‘federation lite’, in www.ecfr.eu (European Council on Foreign Relations), 3 Maggio 2012; “Divenire una grande potenza ‘leggera’”, in Italianieuropei, n. 2, 2012. 1 dell'ordine del 5-7% del prodotto lordo, o del 7,5-10% circa, comprendendoci la difesa".2 A presiedere questo gruppo di studio, che si esprimeva con tanta nonchalance sul futuro federalista dell’Europa, c’era Donald MacDougall, una figura chiave della politica economica britannica del dopoguerra, all’epoca del rapporto Chief Economic Adviser della Confederation of British Industry, la Confindustria britannica. Boris Johnson, oggi ministro degli esteri nel governo di Theresa May e, insieme a Nigel Farage, uno dei principali artefici della Brexit, era invece corrispondente da Bruxelles del quotidiano The Daily Telegraph tra il 1989 e il 1993. Fu uno dei pionieri dell’invenzione di storie sulla presunta ossessione regolamentare della Commissione europea, come quelle riguardanti la curvatura delle banane e la dimensione dei preservativi. Ora, è facile liquidare il Daily Telegraph, così come molti tabloid, con l’etichetta di euroscettici e consolarsi con l’idea che con, diciamo, il Financial Times e l’Economist è tutta un’altra storia. Ma purtroppo non è così. Va dato atto a Boris Johnson e a quelli come lui di essere stati capaci di tirarsi appresso il resto dei media e dell’opinione pubblica britanniche, spostando tutta la discussione sull’Europa e le sue istituzioni su un terreno di fortissimo, estremo scetticismo nei confronti del processo di integrazione. E il resto del mondo – grazie ai consessi rispettabili di politica internazionale – gli è andato dietro. Ecco un esempio. Da decenni l’Economist, questo - per molti versi - faro giornalistico di civiltà, usa il termine “federazione” a proposito dell’Europa solo e soltanto in senso dispregiativo. Per il settimanale l’unità europea può solo portare alla creazione di “a huge federal superstate”, un enorme superstato federale3. Ma è una forzatura, un’invenzione. Nessuno, tra i federalisti europei, ha mai invocato la creazione di un enorme superstato federale. Che sarebbe, tra l’altro, in patente contraddizione con l’idea stessa di federazione in quanto ripartizione equilibrata di funzioni di governo tra centro e unità costituenti. Gli Stati Uniti d'Europa immaginati da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel Manifesto di Ventotene del 1941, consistevano in un esercito federale, una politica estera federale, un'unione monetaria, le quattro libertà su cui si basa il mercato interno e la rappresentanza diretta dei cittadini europei. Ora quella parte della stampa e dell’opinione pubblica britannica, Economist compreso, che avrebbe voluto restare nell’UE si straccia le vesti alla prospettiva che Brexit significhi anche l’addio al mercato interno. Ma dovrebbero prendersela solo con se stessi. Per essere andati per decenni a rimorchio degli euroscettici e per aver sostenuto il solo mercato interno: l’unica cosa da salvare, il punto di partenza e di arrivo, secondo loro, del processo di integrazione europea. Adesso rischiano di perdere anche quello. Nel 2011, dunque, la discussione sul salvataggio dell’euro e il futuro dell’Europa era entrata in una impasse. Per salvare l’euro e l’Unione tutta ci voleva un ministero del tesoro europeo. Per avere 2 Commission of the European Communities, “Report of the Study Group on the Role of Public Finance in European Integration”, Brussels, April 1977 – disponibile su www.cvce.eu 3 Cfr. ad esempio “How to Save the Euro”, The Economist, 17 settembre 2011. 2 un ministero del tesoro europeo ci voleva un governo federale. Ma un governo federale era una iattura nemmeno pensabile, visto che si sarebbe trattato di un enorme superstato federale. Così, Emma e io provammo a rompere questo disgraziato sillogismo e a dimostrare che gli Stati Uniti d’Europa possono essere una federazione sì, ma leggera. Poche, essenziali funzioni di governo, tolte agli Stati membri e spostate a livello centrale, oppure già assegnate a Bruxelles, mobiliterebbero comunque una massa critica di risorse (cinque percento del PIL europeo) in grado di essere usate dal Tesoro europeo anche a fini di stabilizzazione macroeconomica e redistribuzione, contribuendo così alla tenuta dell’unione monetaria. Restando tuttavia assai contenute, nel loro insieme assai leggere, rispetto alle risorse intermediate dal governo di un qualunque Stato membro – che sono, nella maggior parte dei casi, 10 volte tanto, ovvero circa il cinquanta percento del PIL corrispondente. Smentire l’inevitabilità dell’enorme superstato federale fu la nostra esclusiva preoccupazione, il che spiega perché eludemmo una domanda perfettamente legittima, nonché cruciale. Ovvero, come si arriva alla federazione (leggera)? Con un lustro di ritardo, proverò qui di seguito a rispondere. Strade La domanda è antica e conosce essenzialmente due risposte: big bang o baby steps. Proprio Spinelli può essere considerato il principale fautore della prima soluzione. Ci provò tutta la vita. L’ultima volta, nel 1984, due anni prima di morire, col progetto di Trattato che il Parlamento europeo approvò il 14 febbraio di quell’anno. Ma che poi, nelle parole di Spinelli, “partorì un topolino”, l’atto unico. L’altra strada, quella dei piccoli passi, ha anche un nome, funzionalismo, e viene praticata da sempre, visto che l’altra non ha mai funzionato. L’economia, dal mercato interno alla moneta unica, è stato il terreno privilegiato di questo approccio a partire dalla Comunità Economica Europea del 1957. Per fare ogni piccolo passo, però, tocca riunire i governi dei paesi membri in una cosiddetta conferenza intergovernativa e lasciarli discutere per il tempo che ci vuole a produrre un nuovo Trattato. Così andiamo avanti dal 1957, appunto, con le successive versioni del Trattato istitutivo che hanno, quasi sempre, preso il nome dal luogo dove la conferenza si è chiusa e i rappresentanti dei governi l’hanno firmato. Poi il Trattato va ratificato, dai parlamenti di tutti gli Stati membri senza eccezione – se no, non entra in vigore. Molti paesi sottopongono ora la ratifica a referendum. E poi i paesi sono tanti, ventotto (ventisette senza la Gran Bretagna). In ogni caso, dal 2005, quando Francia e Olanda hanno 3 bocciato la versione del Trattato troppo ambiziosamente denominata “Costituzione” e poi dal 2008-2009, quando l’Irlanda è passata per ben due referendum prima di ratificare la Costituzione ridimensionata, cioè il Trattato di Lisbona, l’idea di seguire questo iter, di intraprendere questa strada lunga e difficile non suscita grande entusiasmo. Ma che susciti entusiasmo o meno non c’è altro modo di procedere, se si vogliono modificare o aumentare le competenze dell’Unione in una forma condivisa da tutti gli Stati membri. Se invece si sa in partenza che la riforma che si vuole perseguire non è condivisa da tutti, è possibile battere altre strade, alcune previste dal Trattato stesso. C’è la cooperazione rafforzata, un meccanismo che permette a un gruppo di Stati membri che lo voglia di integrarsi di più in aree che non siano già di competenza esclusiva dell’Unione stessa. C’è, nel campo della Difesa, la cooperazione strutturata permanente. Ci sono state un paio di cooperazioni rafforzate per faccende, diciamo così, meno che vitali. Mentre la cooperazione strutturata permanente non è mai stata attivata. E poi c’è il modello Schengen, ovvero la stipula di un trattato a sé stante, che nel caso di Schengen riguardava la libera circolazione delle persone. Successivamente l’accordo può essere integrato nel Trattato istitutivo dell’Unione – e Schengen lo è stato. Anche in questo caso, come con le due cooperazioni, non c’è bisogno che aderiscano tutti gli Stati membri, basta un sottoinsieme qualsiasi – di almeno nove paesi, però, nel caso della cooperazione rafforzata. Dunque le possibilità sono davvero molte e la scelta dell’una o dell’altra dipende in gran parte dall’area, o dalle aree, oggetto della maggiore integrazione. E soprattutto dal fatto se della riforma sono disposti a discutere tutti – almeno a discutere - oppure no. E questo si fa abbastanza presto a capirlo, perché le idiosincrasie di ciascuno stato membro si conoscono in partenza. Ora, fare la federazione (leggera) col big bang, cioè attraverso un trattato radicalmente nuovo e ambizioso (una costituzione?) sarebbe magnifico ma è anche, purtroppo, irrealistico perché attualmente – ripeto – non c’è nessun governo in giro per l’Europa intenzionato a intraprendere questa strada. Il che non significa, però, che non si possano fare dei passi in avanti in ciascuna delle competenze che Federation Lite proponeva di attribuire a un ipotetico governo federale. Eccole: - Redistribuzione sociale e regionale; Ricerca scientifica; Reti trans-europee; Controllo delle frontiere; Diplomazia (inclusi aiuti allo sviluppo e aiuti umanitari); Difesa. Redistribuzione, Ricerca Scientifica e Reti trans-europee Alcune di queste cose non necessitano di alcun nuovo mandato da parte degli Stati Membri: vengono regolarmente svolte da molti anni. Né c’è bisogno che diventino una competenza esclusiva 4 dell’Unione, ma solo che l’importanza relativa della parte svolta da quest’ultima aumenti. In primo luogo attraverso un aumento della dotazione finanziaria che consenta obiettivi più ambiziosi di quelli attuali. Mi riferisco alla Redistribuzione e alla Ricerca scientifica. Per quanto riguarda la prima, Federation Lite aveva sostenuto la creazione di “un sistema federale di sussidi di disoccupazione, complementare rispetto ai sistemi nazionali [...]. Tale sistema richiederebbe probabilmente un impegno finanziario ridotto sulla scala dell'economia europea, risultando allo stesso tempo estremamente utile nel rendere più simmetrici gli effetti dei cicli di boombust, sostenendo gli Stati e le regioni in maggiore bisogno”. Il governo italiano ha proposto la creazione di un fondo europeo per l’indennità di disoccupazione che dovrebbe essere discusso nel corso di questo semestre di presidenza (slovacca) dell’Unione. Prevede appunto, nella sua versione meno ambiziosa, di destinare risorse ai disoccupati dei paesi colpiti da shock asimmetrici, rimborsabili al fondo dal paese stesso al ritorno di migliori condizioni macroeconomiche. La dotazione del Fondo è stimata dal Ministero dell’Economia nell’ordine dello 0,5 % del PIL europeo. Torna con Federation Lite, dove lo 0.7 % lì indicato comprendeva anche i sussidi sociali e regionali (fondi strutturali) già erogati dall’Unione - ora pari a circa lo 0.3 % del PIL europeo. L’idea italiana mi sembra dunque da sostenere senza riserve – e magari con più forza di quanto riesca a fare lo stesso governo, la cui diplomazia economica nei confronti delle istituzioni europee sembra esclusivamente assorbita dall’eterno tira e molla sulle dimensioni del nostro deficit di finanza pubblica. In materia di Ricerca e Sviluppo, l'Europa spende (dati riferiti al 2014) poco più del 2% del PIL, ovvero 284 miliardi di euro, quasi interamente proveniente da fonti, sia pubbliche che private, degli Stati membri. Un obiettivo fondamentale della strategia di Lisbona su crescita e occupazione concordato dagli Stati membri nel 2000 e confermato nel programma Europa 2020 è il raggiungimento del 3% del PIL. Per colmare il divario occorrerebbe spendere a livello federale una cifra corrispondente all’1% del PIL dell’Unione europea. Si tenga presente che adesso circa il 40% del bilancio dell’Unione – dunque lo 0,4% del PIL europeo - se ne va in sussidi all’agricoltura. I governi britannici hanno sempre sostenuto che è molto meglio sostenere la ricerca scientifica piuttosto che l’agricoltura, e da questo punto di vista la Brexit indebolisce chi vuole ripensare in modo intelligente le priorità di spesa a livello di governo federale. Sui sussidi all’agricoltura c’è una sterminata letteratura che li critica per gli effetti negativi che hanno sull’allocazione delle risorse, sui prezzi a livello nazionale e internazionale, sul commercio mondiale, sulla qualità degli alimenti e sull'ambiente. Che ancora esistano si deve alla capacità di pressione degli agricoltori europei e al sostegno che hanno sempre ricevuto da molti governi, ma in primo luogo da quello francese. 5 Ignorare la lobby agricola e concepire un bilancio UE senza risorse per la Politica Agricola Comune non ne decreterebbe necessariamente la fine. Se non creano distorsioni di mercato, i sussidi all’agricoltura possono essere erogati dai singoli Stati membri in base alle preferenze nazionali, lasciando alla Commissione europea un ruolo di coordinamento e di vigilanza sul rispetto delle regole comuni, come accade già per politiche di altri settori. Sempre nel 2014, il bilancio dell'UE comprendeva stanziamenti per “ricerca e innovazione” pari a 9,3 miliardi di euro. Oppure a 11,7 miliardi di euro se si aggiungono i “grandi progetti infrastrutturali”: i sistemi europei di navigazione satellitare (EGNOS e Galileo), il reattore internazionale termonucleare sperimentale (ITER) e il programma europeo di osservazione della terra (Copernico). Questo significa che, nell’ipotesi migliore, per ogni euro speso per R&S nell'Unione europea, solo 4 centesimi provengono da Bruxelles. Viceversa, per ogni dollaro speso per R&S negli Stati Uniti, 26 centesimi provengono dal governo federale. Se l’Unione europea spostasse sulla R&S le risorse che oggi destina all’agricoltura, finanzierebbe 16 centesimi per ciascun euro e l’incidenza complessiva (fonti pubbliche e private, nazionali e federali) sul PIL europeo passerebbe al 2,4%. Se attraverso il bilancio dell’Unione si arrivasse al 3.0 %, diventerebbero 33 centesimi per euro. Oltre al quanto, c’è un problema di come spendere. Se avesse un volume di risorse finalmente significativo, l’Unione potrebbe prendersi la responsabilità di progetti scientifici realmente paneuropei – invece di erogare sussidi a pioggia in ogni angolo del vecchio continente come in gran parte fa adesso. Proseguendo nel parallelo con gli Stati Uniti, là la difesa assorbe più della metà (54%) degli stanziamenti federali in R&D. Seguono la salute (23%), lo spazio (8%) e la ricerca di base (7%) 4. Se la difesa diventasse una funzione di governo europea è molto probabile che avrebbe un forte impatto sul volume e la composizione della spesa per ricerca finanziata dall’Unione. Come si capisce anche dalle due proposte – una italiana, l’altra franco-britannica – che proprio la difesa riguardano e che sono state avanzate nel corrente semestre di presidenza (slovacca) dell’Unione e sulle quali tornerò più avanti. Le Reti trans-europee, invece, dovrebbero diventare – de facto prima ancora che de jure – una competenza esclusiva dell’Unione: spostare al centro federale risorse e decisioni sembrerebbe solo logico vista la natura transnazionale (per definizione) di questi investimenti. Per le Reti transeuropee dovrebbe comparire a bilancio una cifra molto superiore, di almeno un ordine di grandezza, a quella odierna, che è meno di due miliardi di euro. Si tratterebbe, tuttavia, di risorse sostitutive, non aggiuntive, a quanto gli Stati membri spendono attualmente a livello nazionale per incrementare la connettività e l'interoperabilità delle reti europee di trasporti, energia e telecomunicazioni, ricevendo scarsi fondi e molto coordinamento da Bruxelles. 4 I dati sugli Stati Uniti provengono da the American Association for the Advancement of Science, Historical Trends in Federal R&D, disponibile su www.aaas.org 6 Il Controllo delle Frontiere5 Il controllo delle frontiere è già, per le merci, una competenza esclusiva dell’Unione. Per controllo delle frontiere intendo, infatti, i movimenti di persone e merci attraverso le frontiere esterne dell’Unione – quelle interne sono state abolite da Schengen per le persone, e dall’Unione Doganale per le merci. La mappa dei paesi che aderiscono a entrambe le cose non è perfettamente coincidente - sui movimenti delle persone, ad esempio, c’è l’opt out di Gran Bretagna e Irlanda, vari stati membri hanno re-introdotto a termine controlli alle proprie frontiere, anche se interne ai confini dell’Unione, più recentemente a seguito della grande ondata di profughi, in primo luogo siriani, che ha investito l’Europa nel 2015. Pur con tutti questi distinguo, è ragionevole sostenere che oggi il mercato interno europeo è aperto al suo interno ai movimenti di persone e merci – oltre che di capitali e servizi. Anzi, questa è proprio la caratteristica che, più di ogni altra, lo definisce. Per mantenerlo tale – se si vogliono evitare fughe all’indietro che da temporanee potrebbero diventare permanenti - occorre che tutti i paesi membri abbiano fiducia nei controlli effettuati alle frontiere esterne. Questa fiducia oggi non c’è perché i controlli non vengono fatti da un’unica organizzazione, ma dalle forze doganali e di polizia degli Stati membri - che non hanno tutte la stessa efficienza, né condividono in ogni circostanza gli stessi obiettivi. La dogana – anzi, l’unione doganale - è una competenza esclusiva dell'UE. Come la concorrenza, la politica commerciale e la politica monetaria. Ma non c’è l’equivalente di una banca centrale europea, bensì ventotto organizzazioni nazionali distinte che attuano il medesimo codice doganale, un regolamento dell’Unione. Conosciamo gli scompensi risultati dalla creazione di una moneta comune senza non solo l’unione politica, ma nemmeno una governance economica comune. L’attuale realtà doganale europea ne cela di altrettanto gravi: gli stati membri hanno approcci in gran parte diversi per controllare il flusso di merci provenienti da paesi terzi. Non sempre tra loro prevale la cooperazione, anzi: i principali porti europei competono per attirare traffico, tanto più che una quota dei dazi all'importazione (20%) va alle casse degli Stati membri in cui sono pagati; ciascuna dogana nazionale tende inevitabilmente ad essere più rigorosa con le importazioni di beni in concorrenza con le industrie locali. Non c’è un accesso diretto ai dati sugli scambi commerciali dei partner, non ci sono banche dati comuni e le informazioni vengono scambiate attraverso complicati meccanismi di "cooperazione amministrativa". Allo stesso tempo, però, ogni dogana nazionale agisce come esattore per l'Unione, girando l’80% dei dazi a Bruxelles, e come garante della sicurezza di tutti gli europei – la lotta contro cose tanto 5 Questa parte riprende largamente le considerazioni svolte in Marco De Andreis, Mauro Maré “L’Europa ha bisogno di una dogana unica alle sue frontiere”, Corriere della Sera, 22 marzo 2016. 7 diverse quanto pericolose, come la contraffazione e le armi di distruzione di massa, inizia alle nostre frontiere esterne. Di nuovo come l’unione monetaria, l'unione doganale è stata concepita per il bel tempo, non per quando piove e tira vento. Gli Stati membri si rinfacciano talvolta distorsioni commerciali: tensioni tenute sotto controllo, ma chi è certo che crisi future non possano alterare il quadro? Oppure: cosa accadrebbe se un giorno emergesse che un atto di terrorismo in un paese è stato compiuto utilizzando armi introdotte in Europa attraverso un altro? - la scoperta che uno dei terroristi ISIS di Parigi, il 13 novembre 2015, aveva attraversato il confine con la Grecia come rifugiato siriano non ha certo aiutato la causa di Schengen. C’è una sola strada per migliorare questo stato di cose e prevenire future crisi: creare una vera Dogana Europea, un unico corpo di funzionari che faccia del termine "unione doganale" una realtà operativa. Si può fare senza cambiare il trattato, con la procedura legislativa ordinaria. Basta, dunque, che gli Stati membri lo vogliano. Con la Dogana Europea, l'esattore coinciderebbe finalmente col beneficiario e sarebbe anche possibile rivoluzionare il finanziamento del bilancio dell’Unione. Come? Lasciando riscuotere alla Dogana Europea non solo i dazi, ma anche parte dell’IVA sulle importazioni extra-UE. Un’aliquota IVA comune del 10% sarebbe più che sufficiente per finanziare l'attuale bilancio. A questa base, gli Stati membri in cui le importazioni vengono consumate aggiungerebbero, incassandola, qualunque cifra occorre per raggiungere la loro aliquota IVA standard – non ci sarebbe, cioè, armonizzazione fiscale. Il principio alla base di tale forma di tassazione è lo stesso stabilito da tempo con i dazi: contribuisce di più al bilancio chi più consuma (importazioni). Questa riforma richiede l'unanimità ed entrerebbe in vigore solo "previa approvazione degli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali" – ma sempre nel quadro del trattato in vigore. Tornando invece ai movimenti delle persone, il 6 ottobre del 2016 è stata ufficialmente inaugurata la Guardia costiera e di frontiera europea. Ci si è arrivati a tempo di record, considerando che la proposta della Commissione risaliva al 15 dicembre 2015. Potrà contare, a regime, su 1500 guardie, veicoli ed equipaggiamenti propri, da usare come sostegno alle forze di uno Stato membro la cui frontiera esterna dovesse trovarsi sotto forte pressione. Nella proposta originaria era previsto che fosse la Commissione europea a decidere dove e quando usare la Guardia, potendo persino imporla al paese ospitante. I governi hanno poi deciso che un eventuale intervento va approvato dal Consiglio a maggioranza qualificata e il piano operativo approvato dal paese ospitante. Pur con questi limiti, la rapida creazione della Guardia indica che la sicurezza delle frontiere esterne è una delle questioni sulle quali l’Unione si gioca la propria credibilità agli occhi dei cittadini e perciò il proprio futuro – come hanno ricordato, tra gli altri, il presidente della Commissione JeanClaude Juncker e quello della Banca Centrale Europea, Mario Draghi. Sarebbe una mossa logica e 8 funzionale da parte dell’Europa di dotarsi di una forza propria, di un corpo di polizia di frontiera responsabile sia degli aspetti doganali, sia dei controlli all’immigrazione6 - cosicché agli ingressi nel territorio dell’Unione si possa leggere semplicemente “EU Customs and Immigration”. Uso qui il termine “immigrazione” come sinonimo di “ingresso di persone nel territorio dell’Unione” e non nel senso, dunque, di flussi migratori di lavoratori e loro famiglie verso gli Stati membri. Sono appunto gli Stati membri a regolare tali flussi, visto che “le dinamiche demografiche nei 28 paesi dell’Unione sono molto diverse, così come differenti sono i fabbisogni di immigrati per compensare la riduzione della popolazione autoctona”7. Per contro, il Trattato prevede (art. 79 TFUE) una politica comune dell’immigrazione che consente all’Unione di adottare misure su visti, permessi di soggiorno, diritti di cittadini di paesi terzi, immigrazione clandestina e soggiorno irregolare. A giugno del 2016, la Commissione europea ha presentato un piano d’azione - volto a offrire un quadro politico e misure di sostegno comuni agli Stati membri per sviluppare e rafforzare le politiche nazionali d’integrazione degli immigrati, anche attraverso l’uso dei fondi strutturali – e una proposta di direttiva che migliora il sistema della “carta blu”, per attrarre migranti altamente qualificati. Semmai, nel settore dei movimenti delle persone, una guardia di frontiera europea avrebbe oggi molto più a che vedere con rifugiati e asilo – dove è in discussione un pacchetto di riforme del Sistema Europeo Comune d’Asilo, che include la riforma del cosiddetto Sistema di Dublino, presentato dalla Commissione europea nel luglio del 2016. Una cosa che non va mai dimenticata quando si ipotizza di togliere funzioni di governo agli Stati membri per accentrarle a livello federale è che dovrebbero potersi ottenere forti risparmi dovuti, quanto meno, alle economie di scala – cioè il costo di una cosa fatta a livello centrale dovrebbe essere minore della somma dei costi delle stesse cose fatte a livello periferico. Uso tanta cautela perché, ad esempio, l’unione monetaria non ha significato la chiusura delle banche centrali nazionali degli aderenti all’euro e non è detto, quindi, che il costo complessivo della politica monetaria nella zona euro sia oggi inferiore alla situazione ante moneta unica. Confesso che non sono riuscito a trovare dati al riguardo. Per immaginare cosa succederebbe con l’eliminazione delle dogane nazionali e la creazione di EU Customs and Immigration, la migliore approssimazione è guardare agli Stati Uniti. Alle dogane dei 28 paesi dell’Unione lavorano oggi circa 120.000 persone – il doppio, dunque, dei circa 60.000 dipendenti di U.S. Customs and Border Protection. Quanto ai costi, non esistono, a mia conoscenza, dati sulla realtà europea odierna – probabilmente perché non c’è alcuna omogeneità nelle corrispondenti strutture organizzative. Il bilancio an6 Per quanto riguarda i controlli alle persone l’Unione può adottare, con procedura legislativa ordinaria, “qualsiasi misura necessaria per l’istituzione progressiva di un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne” (art. 77 TFUE). 7 Radicali Italiani, Governance delle politiche migratorie tra lavoro e inclusione sociale (Rapporto a cura di Roberto Cicciomessere), Settembre 2016, p. 143. 9 nuale (2015) di U.S. Customs and Border Protection è di circa 15 miliardi di dollari, corrispondenti allo 0,08 % del PIL statunitense. L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli costa circa 1 miliardo l’anno al contribuente, ovvero lo 0,06 del PIL italiano. Verrebbe da concludere che una qualunque cifra attorno allo 0,1 % del PIL europeo – 14 miliardi di euro - dovrebbe essere sufficiente al funzionamento su base annua di EU Customs and Immigration8. Politica estera Senza entrare nel ginepraio di procedure e istituzioni che caratterizza questo campo d’attività, vorrei solo ricordare che da tempo ormai l’Unione ha un alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che è allo stesso tempo vice-presidente della Commissione europea, e un Servizio europeo per l’azione esterna – un’approssimazione a, rispettivamente, un ministro degli esteri e una diplomazia. Sotto certi aspetti si tratta di un’ottima approssimazione. Ad esempio, il Servizio europeo per l’azione esterna – che è composto da un mix di funzionari della Commissione e diplomatici distaccati dai paesi membri - ha ora delegazioni in ben 139 Stati del mondo. Se ci aggiungiamo i 28 uffici di rappresentanza che la Commissione mantiene nei paesi membri, arriviamo a una cifra, 167, da grande diplomazia. Quali possano essere le interazioni tra questo apparato diplomatico para-federale e le diplomazie nazionali costituenti è difficile dire. Fatto sta che ci sono diversi paesi del mondo dove la delegazione dell’Unione c’è, ma le ambasciate di molti Stati membri mancano. Mi domando se le prime si fanno carico della rappresentanza degli interessi dei secondi. Oppure se i secondi si affidano alle prime. Se la risposta è no, forse sarebbe opportuno cominciare a sperimentarlo, in modo da mettere in moto una sorta di devoluzione di attività diplomatica dalla periferia verso il centro federale. Quella italiana è, ad esempio, una diplomazia le cui tradizionali ambizioni sono superiori ai mezzi finanziari e che ha bisogno di essere ridimensionata. Viene anche da chiedersi a cosa servano ormai le ambasciate tra Stati membri dell’Unione – che dovrebbero essere ben 756 (28 x 27) – visto che tutte le questioni realmente importanti, bilaterali o multilaterali, vengono da tempo regolate a Bruxelles. Più in generale, trovo strano che la professione diplomatica continui a organizzarsi come fa da secoli, come se nulla fosse successo nel frattempo e, ad esempio, la istantaneità di informazioni e comunicazioni da e verso ogni angolo del mondo non ridimensionasse il bisogno di intermediazione in loco. In questo senso, la mera esistenza del Servizio europeo per l’azione esterna può essere uno stimolo a un generale ripensa8 Molto meno, dunque, dello 0,5 % indicato in Federation Lite: una sovrastima dovuta al fatto che lì avevamo erroneamente preso come termine di riferimento il budget di tutto il Dipartimento statunitense della Homeland Security, un’organizzazione corrispondente grosso modo a un nostro ministero dell’interno, di cui U.S. Customs and Border Protection è solo un sottoinsieme. 10 mento dell’attività diplomatica degli Stati membri, in sé e in rapporto al Servizio stesso. Come c’è scritto sulla recente (Giugno 2016) “Strategia globale” della politica estera e di sicurezza dell’Unione: “We must become more joined up across our external policies, between Member States and EU institutions”. Sebbene il documento appena citato metta più enfasi sulla sicurezza militare di quanto non abbiano fatto precedenti edizioni, il piatto forte dell’Unione europea nel mondo rimane la cosiddetta soft security, di cui gli aiuti umanitari e l’aiuto allo sviluppo sono elementi essenziali – di sviluppo, oltre che di pace, c’è grande bisogno nelle zone limitrofe all’Europa da dove partono i grandi flussi migratori verso il nostro continente. Qui l’Europa nel suo complesso dovrebbe certamente fare di più: molti dei suoi stati membri, tra cui l’Italia, sono ben lontani dall’obiettivo dello 0.7 % del PIL dei paesi ricchi da destinare allo sviluppo fissato in una risoluzione dell’ONU del 24 ottobre 1970 e confermato nel 2000 dagli allora 15 Stati membri dell’Unione europea - il cui bilancio dovrebbe appunto servire a colmare queste lacune. Difesa Sembra essere proprio questa l’area dove la Brexit ha più stimolato i fautori di “un’unione sempre più stretta”. Dello spostamento di enfasi dalla sicurezza soft a quella hard nella Global Strategy dell’Unione - che infatti si intitola “A Stronger Europe” – ho appena detto. Nella stessa direzione è andato il discorso sullo stato dell’Unione del presidente della Commissione Jean-Claude Juncker – che nel corso del 2015 si era detto in più di un’occasione favorevole all’idea di un esercito europeo – di fronte al Parlamento europeo il 14 settembre scorso. Qui Juncker ha attinto a piene mani dal contemporaneo documento franco-tedesco sulla difesa “Vers une défense au sein del l’UE globale, réaliste et crédible”, proponendo un quartier generale permanente per le missioni e operazioni militari e civili dell’Unione, annunciando la proposta della Commissione per la creazione di un Fondo di Difesa Europea per finanziare la ricerca e sviluppo in materia e, dal punto di vista procedurale, invitando gli Stati membri che vogliono mettere ancor più in comune le loro capacità di difesa a fare ricorso alla cooperazione strutturata permanente. Il giorno prima del discorso di Juncker, il 13 settembre, anche il Presidente della BCE, Mario Draghi – che raramente si avventura fuori dal seminato della politica monetaria - aveva sostenuto che “iniziative europee…nei settori dell’immigrazione, della sicurezza e della difesa…sono non sono legittime ma anche essenziali”. Infine il ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, ha dichiarato lo scorso 17 ottobre che l’Unione europea “avrà presto bisogno di un bilancio della difesa comune”, cosa che stimolerà “una bella discussione” su come standardizzare gli apparati militari. Semplicemente mettendo in comune le risorse, ha notato Schäuble, l’Unione europea “avrebbe un bilancio della difesa molte volte più grande di quello russo”. Anche il governo italiano ha presentato una serie di idee sulla difesa al vertice informale dei ministri della Difesa dell’Unione europea, il 26-27 settembre scorso. Alcune sono identiche alla propo11 sta franco-tedesca, come la creazione di un quartier generale permanente, l’apertura ai progetti militari dei finanziamenti dell’Unione alla Ricerca e Sviluppo, oppure la formazione comune dei quadri militari. Altre, invece, si spingono oltre, come la creazione di una Forza Multinazionale Europea “da assegnare in permanenza al quartier generale dell’Unione che rappresenti il nucleo iniziale di una futura forza integrata europea”. Ma soprattutto il documento italiano va più in là sul piano procedurale perché, pur non escludendo l’uso degli articoli del Trattato sulla cooperazione strutturata permanente – come caldeggiato nel documento franco-tedesco - afferma che gli Stati membri con maggiori ambizioni dovrebbero essere pronti a procedere verso una “Unione per la Difesa Europea”, sul modello dell’accordo di Schengen. È un punto importante perché segnala la volontà e la disponibilità a muoversi con decisione e rapidità con tutti quelli che sono disposti ad avanzare su questo terreno, aggirando del tutto il Trattato vigente – come ricordato all’inizio. Le reazioni britanniche – un punto ormai di pura curiosità – a questo attivismo continentale sulla Difesa confermano che i termini della discussione sull’Europa sono oltremanica talmente aversi all’idea di integrazione da aver reso Brexit inevitabile. Si va dall’annuncio di resistenza a oltranza – come? – contro ogni progetto di Difesa europea (il ministro della Difesa, Michael Fallon) alla sicumera con la quale si profetizza il fallimento di questi progetti da parte dei think tank considerati più pro-europei: “l’esercito europeo è solo un mito” (Sophia Besch del Centre for European Reform), “non succederà” (Nick Witney dello European Council on foreign Relations). I termini del problema “Europa e difesa” sono sempre gli stessi da decenni. Per difendere l’Europa c’è la NATO. E un’altra tesi bizzarra che i britannici sono riusciti a far diventare moneta corrente è che, poiché c’è la NATO non ci può anche essere un esercito europeo dentro la NATO: o l’una o l’altro. Eppure, praticamente tutti i paesi dell’Unione europea appartengono alla NATO. Le eccezioni – Austria, Cipro, Finlandia, Irlanda, Malta, Svezia – non solo tali da minare alla radice un progetto di integrazione in questo campo: esistono gli opt out sulla moneta unica, potrebbero esserci anche sulla difesa. Se domani Belgio, Lussemburgo e Olanda decidessero di creare l’esercito del Benelux dentro la NATO nessuno si allarmerebbe. Se fossero questi tre paesi più altri 24 (o 18 o whatever) chiamandosi “esercito europeo”, apriti cielo. C’è poi la questione della spesa militare - e di questa in rapporto alle capacità operative. Gli americani hanno sempre stimolato gli alleati europei a spendere di più per la difesa in rapporto al PIL. L’obiettivo della NATO era il 3% durante la guerra fredda, oggi è il 2%. Ma tutti sanno, cominciando dagli americani stessi, che i soldi europei, pochi o tanti che siano, comprano poca capacità operativa perché sono dispersi in tante organizzazioni militari nazionali diverse, ciascuna con eccesso di manodopera e bassi investimenti, dall’arduo coordinamento tra loro – malgrado 67 anni di sforzi in questo senso. Ha ragione Schäuble, mettendo quello che spendono ora in un unico bilancio, i paesi dell’Unione surclasserebbero la Russia. Ma anche se ci mettessero meno di quanto spendono ora – diciamo non più dell'1,0% del PIL UE – darebbero all’esercito europeo risorse da 3 a 5 volte maggiori di 12 quelle disponibili alle forze armate di potenze come Russia, Cina o Giappone, inferiori solo a quelle statunitensi. Perciò la creazione di un esercito europeo dovrebbe essere nell’interesse della NATO nel suo insieme e, per conseguenza, anche degli Stati Uniti e della stessa Gran Bretagna. La NATO è fondamentale per la difesa dell’Europa, in particolare con una Russia autocratica e apertamente interventista come quella attuale. Ma le missioni militari vere degli eserciti europei, oggi, sono fuori dell’Europa, dove non sempre, non necessariamente può esserci la NATO o, più precisamente, l’alleato americano. Poter disporre di una buona capacità militare autonoma ha senso per l’Unione europea proprio in funzione di queste missioni. Paradossalmente, proprio il già citato Nick Witney – direttore lo scorso decennio dell'Agenzia Europea per la Difesa e uno che in un esercito europeo non crede affatto - ha spiegato meglio di tutti, qualche hanno fa, perché di un esercito europeo c’è bisogno. "Dopo quasi due decenni dalla fine della guerra fredda - ha scritto - la maggior parte degli eserciti europei sono ancora organizzati per una guerra totale al confine della Germania piuttosto che per il mantenimento della pace in Ciad o il sostegno alla sicurezza e allo sviluppo in Afghanistan [....]. Questo mancato ammodernamento significa che una buona parte dei 200 miliardi di euro che l'Europa spende ogni anno per la difesa va semplicemente sprecata [....]. I singoli Stati membri dell'UE, comprese Francia e Gran Bretagna, hanno perso, e non riguadagneranno più, la capacità di finanziare da soli tutte le nuove capacità necessarie"9. Comunque, per ora l’esercito europeo non è all’ordine del giorno. Così leggiamo sul documento franco-tedesco, che non manca di ricordare come “la responsabilité des politiques de défense repose en premier lieu sur les Etats membres”. Mentre il ministro della difesa italiano, Roberta Pinotti, in un’intervista a La Stampa, parlando della proposta italiana ha spiegato “che nessuno immagina di smontare gli eserciti nazionali per crearne uno sovranazionale…Occorre creare non un esercito europeo, ma una Difesa europea”10. Peccato, viene da dire. Anche perché lo smontaggio totale degli eserciti nazionali è un altro non sequitur rispetto alla creazione di uno europeo – gli Stati membri che lo volessero, potrebbero tenersi forze armate nazionali, un po’ come, negli Stati Uniti, esiste la National Guard. Inoltre, alla luce di decenni e decenni di sforzi vani dentro la NATO per rendere le varie forze nazionali interoperabili, standardizzate e quant’altro, la creazione di un esercito europeo resta l’unica cosa logica da fare. Proprio perché – come sostiene Nick Witney - la missione delle forze militari europee è cambiata tanto profondamente è molto più facile, in linea di principio, creare nuove forze armate da zero (uomini, attrezzature, dottrine e tutto il resto) piuttosto che perseverare nel futile tentativo di convertire le forze esistenti per nuove missioni cercando al tempo stesso di migliorare la coopera- 9 N. Witney, "Re-energising Europe's Security and Defence Policy", European Council on Foreign Relations, luglio 2008, disponibile su www.ecfr.eu 10 F. Grignetti, “Pinotti: più fondi e una guida politica: ecco il piano per la difesa Ue”, La Stampa, 23 settembre, 2016. 13 zione tra loro. Se abbiamo creato da zero una nuova valuta e una nuova banca centrale, perché non potremmo farlo con un nuovo esercito? Nell’immediato, comunque, tutto quello che c’è sono – ripeto – la proposta franco-tedesca e quella italiana. Entrambe, sembra, appoggiate dalla Spagna. Che ricevano una grandissima accelerazione, vuoi in un quadro di cooperazione strutturata o meglio ancora in un contesto Schengen, mi pare difficile prima che si concluda il ciclo elettorale di Italia (referendum, dicembre 2016), Olanda (legislative, marzo 2017) Francia (presidenziali, aprile 2017), Germania (legislative, fine estate o inizio autunno 2017) dei prossimi 12 mesi. Conclusioni Questo è, grosso modo, lo stato dell’arte delle differenti funzioni di governo che Federation Lite proponeva di attribuire a un ipotetico governo federale. Cosa possono fare i radicali in questi campi – ciascuno per sé e nel loro insieme - che non sia né la semplice invocazione del big bang federalista, dell’unione politica dell’Europa hic et nunc, né il solo sostegno pragmatico alle due idee avanzate dal governo italiano che comunque vanno in una giusta direzione? – mi riferisco alla Schengen della Difesa e al fondo europeo per l’indennità di disoccupazione. Darsi tre priorità, credo. La prima è rispolverare un elemento essenziale della proposta di Unione Diplomatica e Militare che fu parte della piattaforma della lista Bonino alle elezioni europee del 1999 11. E cioè l’idea di dare agli obiettivi che secondo noi l’Europa dovrebbe perseguire un quadro istituzionale e delle tappe intermedie. Così fu fatto a suo tempo con l’euro. Tutto cominciò con un comitato di dodici banchieri centrali e tre esperti indipendenti, presieduto dall’allora presidente della Commissione europea Jacques Delors, che presentò un piano in tre fasi per l’Unione monetaria, approvato dal Consiglio europeo di Madrid nel giugno 1989. L’obiettivo finale e le fasi vennero incorporate nel Trattato di Maastricht due anni più tardi. Il quadro istituzionale venne fornito dall’Istituto Monetario Europeo (IME), il precursore della BCE. Ma questa procedura servì proprio ad affermare che un obiettivo finale c’era e che andava raggiunto per passi successivi, i cui passaggi dall’uno all’altro restavano comunque sotto il controllo dei governi. Qui si tratta di chiedere ai governi dell’Unione di affermare, al contrario di quanto fanno oggi, che gli obiettivi finali sono la creazione di un esercito europeo, di un servizio diplomatico europeo, di EU Customs and Immigration. Ma siccome nessuno sa, oggi, quale forma finale queste cose dovrebbero prendere, diano mandato alle varie istituzioni – che, diversamente dall’IME che dovette essere creato, già esistono – di mettersi al lavoro per definirla, fornendo allo stesso tempo una data ultima e delle tappe intermedie. 11 Cfr. Emma Bonino, “A single European Army”, Financial Times, 3 febbraio 1999. 14 La ricetta per fare qualcosa in Europa è sempre passata per queste tre cose: un impegno verso un chiaro obiettivo finale, per quanto distante nel futuro; il relativo senso di direzione capace di guidare generazioni successive di politici e burocrati; un quadro istituzionale adatto al perseguimento di quell’obiettivo. Una volta chiarito dove, come e in quanto tempo si vuole arrivare, seguiranno le procedure. Un nuovo trattato se ci stanno tutti, cooperazioni varie, Schengen o addirittura procedura legislativa ordinaria nel caso del controllo delle frontiere esterne dell’Unione. Ed è proprio questa la seconda priorità. Ovvero battersi per il passaggio integrale dagli Stati membri a un’istituzione dell’Unione – che ho chiamato qui indicativamente EU Customs and Immigration - del controllo dei movimenti di persone e merci alle frontiere esterne. Un obiettivo che ha, a mio parere, diversi punti di forza: risponde al bisogno di protezione e sicurezza che arriva dai cittadini europei di fronte al terrorismo e all’arrivo massiccio di rifugiati, bisogno di cui si sono fatti portavoce recentemente il Presidente della Commissione e quello della BCE; riguarda materie dove il Trattato consente di legiferare per procedura ordinaria; è chiaramente connesso a un’altra importante proposta politica di radicali italiani, cioè la governance delle politiche migratorie, a proposito della quale il Trattato offre opportunità che non sono state ancora pienamente sfruttate; rende infine possibile una riforma significativa del finanziamento del bilancio dell’Unione. Terza priorità, e a proposito di bilancio dell’Unione, fare i britannici senza la Gran Bretagna – ovvero sostenere la rinazionalizzazione dei sussidi all’agricoltura e il passaggio alla Ricerca Scientifica delle risorse oggi assegnate alla Politica Agricola Comune. Non sono davvero cose semplici da portare avanti. Ma questo lo sapevamo già. 15