48° Congresso Nazionale SCIVAC 2004

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48° Congresso Nazionale SCIVAC 2004
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48o Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
2004
Rimini, Italia
Comunicazioni libere - Free Communications
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Gli estratti sono elencati in ordine alfabetico secondo il cognome del relatore.
Le relazioni di uno stesso autore sono elencate secondo l’ordine cronologico di presentazione.
Lectures are list in alphabetical order according to the last name of the speaker.
Lectures of a same speakers are listed according to the chronological order of the presentation.
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48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
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POLIMIOSITE DI PROBABILE ORIGINE PARANEOPLASTICA IN UN LABRADOR
Gianluca Abbiati Med Vet
Libero professionista, Samarate (VA)
Introduzione: Le polimiositi rappresentano l’esito dell’infiltrazione infiammatoria dei muscoli striati e la debolezza che ne deriva è direttamente proporzionale al grado di infiammazione. Le miopatie infiammatorie si dividono in due gruppi: le miopatie
infiammatorie idiopatiche e quelle secondarie, associate ad altre patologie. Appartengono a questo secondo gruppo le miositi paraneoplastiche. Queste sono state descritte in associazione al timoma, alla leucemia mieloide e a carcinomi. Ai fini di una diagnosi precisa e quindi di una terapia efficace è indispensabile un completo iter diagnostico.
Segnalamento e anamnesi: Un cane Labrador maschio di 6 anni è pervenuto alla visita presentando ipostenia e ipotrofia muscolare generalizzate. I sintomi erano insorti in modo subacuto 5 mesi prima. Gli esami eseguiti inizialmente segnalavano una
positività alla toxoplasmosi ed un marcato aumento della CK. Il paziente era stato da allora trattato con diverse terapie antibiotiche e cortisoniche con risposte incostanti. I sintomi erano ulteriormente peggiorati da 15-20 giorni.
Esame clinico e neurologico: La visita clinica evidenziava uno scadente stato generale, piccole aree alopeciche sul tronco e lesioni nodulari della lingua e un’evidente ipotrofia muscolare. L’esame neurologico evidenziava marcata ipostenia e difficoltà
nella prensione dell’alimento, algia alla palpazione dei muscoli. I riflessi miotattici erano lievemente diminuiti mentre il riflesso flessore era evidentemente ipoattivo.
Localizzazione della lesione e diagnosi differenziale: I risultati dell’esame neurologico permettevano di localizzare la lesione
a livello di sistema nervoso periferico generalizzato. Considerato il quadro biochimico iniziale veniva formulato il sospetto di
polimiosite (infettiva, idiopatica, paraneoplastica) ed il paziente veniva ricoverato per ulteriori accertamenti.
Iter diagnostico: L’esame biochimico confermava un aumento della CK seppur meno grave rispetto all’esordio della malattia.
Si decideva di sottoporre il paziente ad esame elettromiografico ed eventuale biopsia neuromuscolare. L’EMG evidenziava rari
potenziali di denervazione diffusi soprattutto ai muscoli appendicolari prossimali e studi di conduzione con potenziali di ampiezza diminuita e velocità di conduzione nei limiti della norma, suggestivi di una miopatia in fase ormai cronica. È stato effettuato uno studio RX del torace che evidenziava un parenchima polmonare con un diffuso pattern misto peribronchiale ed alveolare irregolare a chiazze. Si è infine eseguita la biopsia neuromuscolare sia dei muscoli scheletrici che della lingua che ha
confermato in entrambi i campioni il sospetto di polimiosite di natura non infettiva. L’ANA test, e gli esami sierologici per ehrlichia, rickettsia, neospora e toxoplasmosi sono risultati negativi.
Terapia e decorso clinico: Raggiunta la diagnosi di polimiosite (idiopatica, paraneoplastica) si è iniziato il trattamento con corticosteroidi che ha provocato però un grave episodio di ematemesi. Il dosaggio degli steroidi è stato quindi diminuito aggiungendo azatioprina. Dopo un apparente miglioramento le condizioni cliniche del cane sono peggiorate (grave ipostenia, disfagia,
dilatazioni gastriche ricorrenti) impedendo un approfondimento diagnostico del quadro polmonare e facendo optare i proprietari per l’eutanasia.
L’esame istologico eseguito sul polmone ha permesso di attribuire il quadro radiografico ad un carcinoma anaplastico. Risulta
alquanto verosimile l’ipotesi dell’origine paraneoplastica della polimiosite descritta.
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AMARTOMA FIBROANNESSIALE (DISPLASIA FOCALE DEGLI ANNESSI) NEL CANE:
STUDIO EPIDEMIOLOGICO
Francesca Abramo1 DVM, Guido Pisani2 DVM, Davide Lorenzi1, Alessandro Poli1 DVM,
Luisa Cornegliani3 DVM, Antonella Vercelli3 DVM
1
Dipartimento di Patologia Animale, Università di Pisa
2
Libero professionista, Molicciara (SP)
3
Libero professionista, Torino
Introduzione: L’amartoma fibroannessiale (AFA) o displasia focale degli annessi appartiene, assieme all’amartoma epidermico, follicolare, sebaceo ed apocrino, al gruppo degli amartomi cutanei. Clinicamente si manifesta come una lesione nodulare
unica o multifocale, con tendenza all’ulcerazione. Istologicamente appare come un nodulo dermico ben delimitato e non capsulato, contenente diverse unità follicolari displasiche come ghiandole sebacee orfane, follicoli distorti e cheratosici, ghiandole apocrine isolate e spessi fasci di collagene alla periferia. La diagnosi viene emessa sulla base dei rilievi è solitamente istologica.
Materiali e metodi: Tra gennaio 2000 e marzo 2003 sono state esaminate 21.016 biopsie cutanee pervenute al Registro Tumori della Facoltà di Medicina Veterinaria di Pisa e ad un Laboratorio di analisi privato di Torino. In 365 cani, di cui erano noti età,
sesso, razza, sede anatomica e dimensioni della lesione, è stato diagnosticato l’amartoma fibroannessiale. La predisposizione di
razza allo sviluppo dell’AFA è stata calcolata, mediante il Test del Chi quadrato, comparando il numero di casi di cani con AFA
con il numero di soggetti di quella razza che contribuivano alla popolazione del registro. Su 50 casi di AFA selezionati a random sono stati valutati i seguenti parametri istologici: tipo di flogosi, presenza di dilatazioni cistiche, rottura delle unità follicolo-sebacee, ulcerazione cutanea e tipo prevalente di struttura annessiale coinvolta.
Risultati: I casi di AFA rappresentano l’1,7% di tutte le biopsie cutanee esaminate. L’età media di presentazione della lesione
è di circa 8 anni (con casi segnalati in soggetti di 2 e 16 anni) e il rapporto femmine/maschi è di 1:1,6. Il 68% delle lesioni nodulari era localizzato a livello degli arti, il 6,3% alla testa e la restante percentuale sul tronco. Negli arti il 43% delle lesioni era
presente sulle dita e il 17% nella regione carpo/tars. Le razze con predisposizione allo sviluppo di AFA sono risultate il Danese, il Basset Hound, il bracco tedesco e il pastore maremmano. La rottura delle unità follicolo-sebacee era sempre associata ad
una reazione dermica flogistica di tipo piogranulomatoso e, nel 50% dei casi, ad ulcerazione della cute sovrastante. Un infiltrato cronico linfoplasmacellulare era invece frequentemente rilevato in prossimità di unità follicolo-sebacee integre. Dilatazioni
cistiche a partire da strutture follicolari, sebacee o apocrine sono state osservate nel 60% delle biopsie e solo nella metà dei casi queste erano associate a rottura. Le alterazioni più frequentemente riscontrate nei noduli cutanei sono state la fibrosi dermica
e la proliferazione dei lobuli sebacei (99%), la displasia/distorsione della componente follicolare (68%), la proliferazione/dilatazione cistica delle ghiandole apocrine (16%).
Discussione: I dati riportati costituiscono la prima indagine epidemiologica sull’amartoma fibroannessiale condotta su una ampia popolazione canina. Le estremità distali degli arti risultano una sede frequente di localizzazione dell’AFA. Poiché nella diagnosi differenziale dell’AFA devono essere prese in considerazione le neoplasie cutanee maligne, l’individuazione di razze predisposte può essere di ausilio nell’emissione della prognosi e nell’approccio chirurgico da seguire.
Indirizzo per la corrispondenza:
Francesca Abramo
Dipartimento di Patologia Animale, Facoltà di Medicina Veterinaria
Viale delle Piagge, 2 - 56100 Pisa
Tel. 050-575970 - Fax 050-540644
E-mail: [email protected]
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VALUTAZIONE MORFOMETRICA DEL PROCESSO DI CICATRIZZAZIONE
IN FERITE APERTE NEL CANE
Francesca Abramo1 DVM, Roberto Leotta2 DVM, Julien Ropars1 DVM, Chiara Noli3 DVM Dipl ECVD,
Silvia Auxilia4 DVM Dipl ECVD, Peter Mantis5 DVM, David Lloyd5 FRCVS
1
Dipartimento di Patologia Animale, Università di Pisa
2
Dipartimento di Produzioni Animali, Università di Pisa
3
Libero professionista, Borgo San Dalmazzo (CN)
4
Libero professionista, London (UK)
5
Department of Clinical Sciences, The Royal Veterinary College, University of London (UK)
Introduzione: Il processo di rigenerazione epiteliale è un evento fondamentale nella guarigione delle ferite. Una valutazione
morfometrica della percentuale di riepitelizzazione può essere considerata un valido metodo di studio della cicatrizzazione. Recentemente l’introduzione di nuovi prodotti che tendono a favorire la cicatrizzazione ha migliorato notevolmente la gestione delle ferite nell’uomo e negli animali. Nonostante questo, sono ancora limitati gli studi sperimentali che documentano l’efficacia o
meno in campo medico veterinario di prodotti innovativi.
Scopo del lavoro: Monitoraggio della cicatrizzazione di ferite aperte nel cane mediante misurazione morfometrica della riepitelizzazione e valutazione dell’efficacia di una molecola ALIAmidica per uso topico (Adelmidrol, DCI) nel trattamento delle ferite.
Materiali e metodi: La sperimentazione, regolarmente approvata dalla Commissione Etica del Royal Veterinary College di Londra e dal UK Home Office, è stata effettuata su 10 cani beagle. Bilateralmente, sulla regione toraco-lombare accuratamente tosata, sono state praticate, in anestesia generale, 6 ferite aperte per ogni lato mediante punch da 5 mm. Sulle ferite di una delle
due linee paramediane è stato applicato con frequenza bi-giornaliera un gel contenente Adelmidrol, su quelle della fila controlaterale solo il veicolo. Le ferite di entrambe le linee sono state lasciate guarire per seconda intenzione. Dopo 1, 2, 4, 8 e 14 giorni dall’inizio dell’esperimento, sono state effettuate biopsie con punch da 8 mm, che comprendevano le piaghe in cicatrizzazione. I campioni di cute così prelevati sono stati fissati in formalina e routinariamente processati per esame istologico e valutazione morfometrica. Poiché la formazione di essudato e croste al di sopra delle piaghe non consentiva l’esatta collocazione del
punch da 8 mm al di sopra della ferita originale, è stato messo a punto un protocollo di valutazione morfometrica che tenesse
conto di eventuali errori di campionamento. La reale estensione della piaga ed il grado di riepitelizzazione, tenuto conto del posizionamento asimmetrico del punch, sono stati calcolati mediante estrapolazione trigonometrica. Il grado di riepitelizzazione è
stato misurato come percentuale della lunghezza totale della superficie della piaga ricoperta da nuovo epitelio. I dati ottenuti sono stati sottoposti a trasformazione logaritmica, analizzati statisticamente con disegno split plot e le differenze valutate mediante
test di Tukey HSD.
Risultati: Segni di riepitelizzazione dai margini della ferita sono stati rilevati solo a partire dal giorno 4. La percentuale di riepitelizzazione a 4 e 14 giorni è stata del 12,1% e 36,7% nei trattati e 7,7% e 31,2% nei controlli. Nonostante le differenze non
siano risultate statisticamente significative, l’indagine ha consentito di evidenziare una tendenza ad una miglior riepitelizzazione nei trattati rispetto ai controlli.
Discussione: Il nuovo protocollo per lo studio morfometrico della riepitelizzazione su ferite aperte nel cane ha consentito di ovviare a difetti di campionamento delle biopsie dovuti a presenza di essudato e croste. Tale validazione conferisce al metodo impiegato interessanti potenzialità per futuri studi nel campo della cicatrizzazione. Nelle ferite trattate con l’ALIAmide Adelmidrol, la percentuale di riepitelizzazione tende ad essere superiore rispetto ai controlli. Il ruolo dei mastociti nelle fasi cicatriziali - riepitelizzazione compresa - e la capacità mastocita-modulante delle ALIAmidi rappresentano il razionale del trend di efficacia osservato. Tali risultati preliminari incoraggiano nuove indagini sull’efficacia dell’Adelmidrol nel trattamento delle ferite
aperte. Si ringrazia Innovet Italia s.r.l per aver sostenuto lo studio.
Indirizzo per la corrispondenza:
Francesca Abramo
Dipartimento di Patologia Animale, Facoltà di Medicina Veterinaria
Viale delle Piagge, 2 - 56100 Pisa
Tel. 050-575970 - Fax 050-540644
E-mail: [email protected]
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INDAGINE SIEROLOGICA SULLA LEISHMANIOSI FELINA IN PROVINCIA DI IMPERIA
M. Antonelli1 Med Vet, R. Maltini1 Med Vet, M. Mangiola1 Med Vet, M. Bellando1 Med Vet, W. Mignone2 Med Vet,
M. Dellepiane2 Med Vet, M. Fresu2 Med Vet, A. Trisciuoglio3, E. Ferroglio3 Med Vet
1
Libero professionista, Imperia
2
Istituto Zooprofilattico del Piemonte Liguria e Valle d’Aosta, Sez. IM
3
Dipartimento di Produzioni Animali, Epidemiologia ed Ecologia, Torino
Introduzione: La Leishmaniosi è una malattia protozoaria che colpisce diverse specie di mammiferi, anche se, nel bacino del
Mediterraneo, il cane rappresenta il suo principale serbatoio. Sebbene casi di Leishmaniosi siano stati segnalati nel gatto sin dal
1911 (Laruelle-Magallon C. 1996), solo recentemente questa specie è stata oggetto di estese indagini epidemiologiche (Michael
S.A., 1982). La Leishmaniosi nel gatto si manifesta prevalentemente con sintomi cutanei, peraltro comuni anche ad altre patologie, mentre solo raramente viene riportata una sintomatologia viscerale (Poli A., 2002). La scarsa patognomicità delle lesioni
può aver, soprattutto in passato, portato ad una sottostima della diffusione della leishmaniosi nel gatto. Per l’effettuazione della
diagnosi ci si avvale soprattutto dell’evidenziazione diretta del parassita grazie alla citologia ed all’istologia; mentre metodiche
come l’elettroforesi proteica e l’IFAT sono meno utilizzate rispetto a quanto avviene nel cane. L’impiego dell’IFAT è limitato
soprattutto dall’assenza, contrariamente a quanto avviene nel cane, di una standardizzazione del metodo, per cui anche il cut-off
è estremamente variabile tra i vari autori (Bez M., 1992). Negli studi epidemiologici finora effettuati si sono utilizzati diversi test sierologici ottenendo risultati di prevalenza che variano dallo 0,6% al 68% (Pennini M.G., 2000). L’obiettivo di questo lavoro è stato quello di confrontare i risultati ottenuti con l’IFAT alle diluizioni impiegate dall’IZS di Imperia e quelli ottenuti con
il Western Blotting (WB), inoltre si è voluta valutare, impiegando quest’ultima metodica, la prevalenza dell’infezione nella popolazione felina in zona endemica (provincia d’Imperia) e indagare la possibilità di una relazione tra l’infezione da FIV e/o
FeLV e la Leishmaniosi.
Materiali e metodi: I test utilizzati sono stati: l’IFAT alle diluizioni di 1/10, 1/20 e 1/40, e il Western Blotting, una metodica
più sensibile e specifica della prima. Per valutare la positività a FIV e FeLV sono stati utilizzati dei test di immunomigrazione.
Risultati: Di 194 sieri testati con il WB 5 sono risultati positivi, con una prevalenza del 2,58%, mentre su 151 sieri testati con
l’IFAT si sono ottenuti 115 positivi di cui 40 con titolo 1/10, 49 con titolo 1/20 e 26 con titolo 1/40; confrontando i risultati ottenuti con i due test si è visto che non vi è, alle diluizioni impiegate, concordanza tra IFAT e WB. Probabilmente questo è imputabile alle basse diluizioni impiegate che danno risposte aspecifiche. Per quanto riguarda la correlazione tra infezione da FIV
e da FeLV e la positività alla Leishmaniosi valutata con il WB, si è visto come non vi sia correlazione per la FIV, mentre vi è
stata una buona correlazione tra positività per Leishmania e per FeLV (p=0,07).
Conclusioni: Confrontando i risultati ottenuti con IFAT e WB si è vista la mancanza di una correlazione tra i due test imputabile probabilmente alle basse diluizioni impiegate. La sieroprevalenza osservata con il WB (2,58%) si situa tra i valori medi osservati dagli altri autori che hanno condotto analisi simili in altre aree del bacino del Mediterraneo ed è decisamente inferiore a
quanto riscontrato nella stessa area nel cane (Poggi M., 2002). Mentre non sembra esservi alcuna correlazione tra sieropositività per Leishmaniosi e per FIV, è stata riscontrata una correlazione tra FeLV e Leishmaniosi.
Indirizzo per la corrispondenza:
Centro Veterinario Imperiese, Clinica Veterinaria
Via Armelio, 10 - 18100 Imperia
Fax 0183-275647
E-mail: [email protected]
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STUDIO PRELIMINARE SULL’UTILIZZO DEGLI ACIDI GRASSI ω3
IN PAZIENTI TERMINALI AFFETTI DA CANCRO
Michele Barletta Med Vet, Giuliano Pappini Dott in Chimica,
Paolo Buracco Prof straordinario Clinica Chirurgica Veterinaria Dipl ECVS
Dip. Patologia Animale sez. Clinica Chirurgica, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Torino
Introduzione: Negli ultimi anni, in medicina veterinaria, è emerso un grande interesse nei confronti della gestione nutrizionale del paziente oncologico. Diversi studi hanno infatti confermato l’importanza non solo della quantità del cibo somministrato
a tali animali, ma anche della sua qualità. La cachessia tumorale è una sindrome paraneoplastica conseguente ad alterazioni metaboliche complesse a carico di carboidrati, proteine e lipidi, con scadimento delle condizioni organiche del paziente nonostante un normale apporto di cibo. Gli acidi grassi ω3 (ac. eicosapentenoico o EPA e docosaesenoico o DHA) sono composti in grado di regolare la motilità e la capacità d’invasione e di adesione delle cellule tumorali, diminuendone l’indice metastatico. Alterano inoltre la composizione dei fosfolipidi di membrana ed entrano in competizione con l’acido arachidonico per la sintesi
dei mediatori dell’infiammazione, con produzione di composti a minore attività biologica. Oltre a ridurre il processo infiammatorio spesso associato al tumore, diminuiscono anche l’acidosi lattea conseguente sia alla produzione di citochine infiammatorie sia al metabolismo anaerobio delle cellule neoplastiche.
Scopo: Lo scopo di questo studio preliminare è dimostrare l’efficacia di EPA e DHA in pazienti oncologici terminali gravi attraverso l’esame clinico e il monitoraggio ematologico/ematochimico. Il fine ultimo consiste nel formulare un nuovo prodotto
composto, principalmente, da EPA e DHA e arricchito con altre sostanze quali ac. linoleico coniugato, zinco e glutamina con
comprovata attività antineoplastica.
Materiali e metodi: Nel periodo 1/11/02-31/12/03, a 9 pazienti affetti da diversi tipi di tumore, si sono somministrati 0,5-1 g
di prodotto/kg/die p.v. contenente 5 mg di ac. α-linolenico, 180 mg di EPA, 40 mg di ac. docosapentenoico, 120 mg di DHA,
15 mg di ac. linoleico e 2 mg di vit. E per grammo. Ogni paziente è stato sottoposto a EOG, EOP (localizzazione e dimensioni
della lesione) e biopsia ad ago sottile e/o incisionale per confermare il sospetto diagnostico. Sono stati esclusi dallo studio gli
animali trattati con chemioterapici e quelli destinati alla chirurgia. Tutti i pazienti sono stati sottoposti a esami di laboratorio
completi (emocromocitometrico, ematochimico e prove di coagulazione) prima e durante lo studio (ogni mese) per monitorare
le loro condizioni cliniche e valutare gli effetti collaterali degli acidi grassi ω3 sopra menzionati nei trattamenti protratti (come
ad es. l’aumento dei tempi di coagulazione).
Risultati: I tumori rilevati nei pazienti esaminati (range 6-15 anni, media 11,2 e mediana 12) sono stati: 2 adenocarcinomi
mammari con metastasi polmonari, 2 melanomi orali, 1 carcinoma mammario infiammatorio, 1 osteosarcoma e 1 carcinoma
squamoso del seno frontale, 1 carcinoma indifferenziato sottocutaneo della regione xifoidea e 1 carcinoma squamoso tonsillare
con metastasi linfatiche al collo. I risultati ottenuti dal rilevamento di temperatura corporea, peso, stato di nutrizione ed esami
di laboratorio non hanno messo in evidenza alcun segno compatibile con cachessia tumorale. L’EOG ha evidenziato un miglioramento delle condizioni cliniche dei pazienti (tranne in un caso) e solo negli ultimi giorni prima dell’eutanasia (un caso è deceduto in modo naturale) la sintomatologia si è aggravata (un caso è stato soppresso per cause non correlate al tumore). La sopravvivenza totale è variata da 13 a 139 giorni (media 66,87 e mediana 57).
Conclusioni: Il miglioramento delle condizioni cliniche, la mancanza di segni riferibili a cachessia e di effetti collaterali legati
alla somministrazione di ac. grassi ω3 indicano che questi composti possono giocare un ruolo adiuvante nel trattamento dei pazienti oncologici, come già descritto in medicina umana.
Indirizzo per la corrispondenza:
Dip. Patologia Animale sez. Clinica Chirurgica, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Torino
Via Leonardo da Vinci 44, 10095 Grugliasco (TO)
Tel. 011/6709157(8); 011/6709058; 340/3913845
Fax 011/6709165; 011/6709057
E-mail: [email protected]
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UN CASO DI XANTOMA IN CAVITÀ ADDOMINALE IN UN CANE
Luca Battaglia1 DVM, Valentina Zappulli2 DVM
1
Libero professionista, Cavriago (RE)
2
Dipartimento di Sanità Pubblica, Patologia Comparata ed Igiene Veterinaria
Università di Padova, Facoltà di Medicina Veterinaria
Introduzione: Gli xantomi, nel cane e nel gatto, sono macroscopicamente definiti come piccole placche di colore bianco o giallo, situate, generalmente a livello cutaneo e, in particolare palpebrale, costituite da accumuli di pigmento lipidico nel citoplasma
di macrofagi estremamente vacuolizzati. Qui descriviamo un inusuale caso di xantoma di grandi dimensioni, in cavità addominale in un cane.
Caso clinico: Un cane Dobermann femmina sterilizzata di anni 9, viene portato alla visita clinica per un problema di incontinenza e dolore addominale. La sintomatologia clinica si era presentata contemporaneamente con decorso acuto. L’appetito era
conservato. L’esame obiettivo generale non evidenziava alterazioni particolari, l’addome si presentava palpabile, dolente ed era
possibile apprezzare una neoformazione di grandi dimensioni. La diagnostica per immagini (studio radiologico ed ecografico)
confermava la presenza di una voluminosa massa addominale di forma sferica che si estendeva posteriormente al fegato e comprimeva la vescica non consentendo il suo corretto riempimento. Le radiografie toraciche non evidenziavano aspetti patologici.
Le indagini ematologiche non erano d’aiuto per una migliore definizione diagnostica. Sono stati effettuati numerosi prelievi ecoguidati utilizzando la tecnica di ago infissione ed ago aspirazione per esame citologico. L’esame al microscopio dei diversi preparati ha evidenziato la presenza di “un tappeto” di macrofagi, estremamente vacuolizzati, contenenti materiale otticamente giallo ocra. Si è successivamente proceduto ad una laparotomia esplorativa che ha permesso l’escissione in toto della massa addominale e la completa remissione della sintomatologia. Il successivo esame istologico ha definito la neoformazione come xantoma. Il follow up ad otto mesi è buono, non sono evidenziabili, clinicamente ed ecograficamente, recidive.
Discussione: Nel cane e nel gatto sono rarissime le descrizioni di xantomi in sede extracutanea e quasi sempre vengono associate a diabete mellito o a disordini del metabolismo lipidico (ipotiroidismo, dislipoproteinemie). Altre cause eziologiche citate
riguardano patologie epatiche, renali, pancreatiche e post-traumatiche. Nel caso sopradescritto mancano i riferimenti anamnestici e sierologici descritti in letteratura. Nello specifico la funzionalità tiroidea, la determinazione del glucosio, colesterolo e dei
trigliceridi effettuata pre e post chirurgia non hanno evidenziato particolari anomalie. Non è stata, inoltre, riferita una particolare storia clinica con l’eccezione dell’intervento di ovarioisterectomia effettuato diversi anni addietro. Nel caso specifico la xantomatosi è da definirsi idiopatica.
L’aspetto microscopico della lesione è conforme alla descrizione istologica di xantoma (xantomatosi e xantelasma vengono
spesso definiti con una certa non chiarezza come sinonimi): si repertano cellule non atipiche ad aspetto istiocitario, con citoplasma estremamente vacuolizzato. I vacuoli, di piccole e medie dimensioni, appaiono otticamente vuoti. Numerosissimi sono
i macrofagi nel cui citoplasma sono presenti vacuoli di colore arancione.
La terapia degli xantomi localizzati sia in sede cutanea che extracutanea è essenzialmente chirurgica. Nel caso sopradescritto
l’escissione completa della neoformazione ha permesso una completa remissione dei sintomi. Il follow-up a 8 mesi non evidenzia recidive.
Indirizzo per la corrispondenza:
Luca Battaglia
Ambulatorio Veterinario Miller
Via della Costituzione 10, 42025 Cavriago (RE)
Tel. 0522371044 - Fax 0522576183
E-mail: [email protected], [email protected]
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DERMATITE NECROTIZZANTE CON PANNICOLITE E VASCULITE
INDOTTA DA PSEUDOMONAS AERUGINOSA IN UN GATTO
Massimo Beccati Med Vet
Libero professionista, Capriate S.G. (BG)
Introduzione: Contaminazioni microbiche post-operatorie possono essere condotte da batteri nosocomiali capaci di indurre gravi dermo-fasciti necrotizzanti. Il ruolo patogenetico non è sempre del tutto chiaro anche se il sospetto maggiore si fonda su di
una possibile vasculite in risposta ad una contaminazione batterica oppure su di un sinergismo patologico tra farmaci somministrati, contaminazioni microbiche, tossine batteriche.
Materiali e metodi: Una gatta di otto mesi veniva portata nella nostra struttura per un normale intervento di ovariectomia e dimessa il giorno stesso con la prescrizione di amoxicillina/ac.clavulanico al dosaggio di 20/mg/kg/bid. A distanza di due giorni
si ricontrollava il paziente poiché a detta del proprietario la ferita chirurgica aveva assunto una colorazione violacea. Al controllo
la ferita si presentava di colore violaceo-nerastro con aspetti necrotici macroscopicamente visibili; inoltre il paziente si presentava ipertermico motivo per il quale si ricoverava la gatta. Nei giorni successivi era possibile assistere all’evoluzione della lesione la quale peggiorava sia per estensione (piatto coscia di entrambi gli arti fino ai garretti) che per profondità (piani profondi di sutura addominale). I sospetti diagnostici erano: reazione al farmaco topico, contaminazione della ferita con conseguente
infezione secondaria, reazione ai punti di sutura, eritema multiforme, necrolisi epidermica tossica, vasculite. Venivano eseguiti
esami del sangue completi, campionatura citologica con ago fine, coltura batterica, biopsie cutanee e sottocutanee. Gli esami
ematici risultavano nella norma compresi test sierologici per FIV e FeLV; dall’esame citologico si era potuto osservare un’imponente quantità di cellule neutrofiliche degenerate (tossiche), alcune in preda a fagocitosi di materiale dalla forma bastoncellare. Le successive colture batteriche davano risultato positivo per Pseudomonas aeruginosa. L’esame dermoistopatologico dava un esito di dermatite-pannicolite necrotizzante per quanto riguarda le biopsie eseguite in prossimità della sutura chirurgica
addominale mentre dalle biopsie eseguite nel piatto coscia si evinceva un quadro di vasculite. Il follow up terapeutico continuava
con la somministrazione sempre di amoxicillina con aggiunta di metronidazolo a dosaggi di 15 mg/kg/bid E.V., e la pulizia della parte lesa con soluzione fisiologica. Dopo 14 giorni la lesione assumeva un aspetto macroscopico rigenerativo riepitelizzante. A distanza di 30 giorni la cute era tornata nella norma.
Discussione e conclusioni: La contaminazione nosocomiale da batteri difficili è un’evenienza possibile in tutti gli ambienti medici, tuttavia la sola presenza in ambito cutaneo di batteri del genere Pseudomonas non mette in luce completamente un quadro
patogenetico acuto come descritto sia nel nostro caso che in un lavoro di Rosenkrantz. Il sospetto di una concentrazione batterica nosocomiale ci ha indotto ad eseguire delle colture microbiche prelevando campioni dall’ambiente chirurgico, ottenendo
una positività per Pseudomonas a. nelle gabbie di degenza. La sola contaminazione tuttavia, non spiega l’estensione della lesione ed il reperto istologico riferibile a vasculite, come peraltro una possibile drug eruption focale sulla ferita operatoria lascia
ampi dubbi. Una possibile ipotesi potrebbe essere cercata in una vasculite indotta da batteri o tossine batteriche venute a contatto della ferita.
Bibliografia essenziale
Rosenkrantz WS. Pseudomonas aeruginosa necrotizing dermatitis, vasculitis and panniculitis in the cat. In 14th proceedings of AAVD/ACVD meeting, 1998.
Indirizzo per la corrispondenza:
Tel. 02-90962787 - 388-3563468
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TC SPIRALE MULTISTRATO: CONSIDERAZIONI TECNICHE D’ACQUISIZIONE E RICOSTRUZIONE
DELL’IMMAGINE, PROTOCOLLI E PRIME APPLICAZIONI CLINICO-CHIRURGICHE IN VETERINARIA
Giovanna Bertolini Med Vet, Gianluca Ledda Med Vet, Clara Tullio Med Vet
Clinica Veterinaria Privata San Marco
L’elevato dettaglio dell’immagine e la rapidità della scansione, sono caratteristiche peculiari della tc multistrato, che rendono
questa nuova metodica di diagnostica per immagini, particolarmente adatta alle diverse applicazioni clinico-chirurgiche in medicina dei piccoli animali.
La tomografia è stata introdotta negli anni settanta in medicina umana e da allora ha subito continue modificazioni tecnologiche, tutte volte ad avere immagini di sempre più alta qualità nel minor tempo possibile e con il minor danno biologico per il paziente. Solo nel primo decennio si è assistito alla nascita di quattro diverse generazioni di macchine, ma è con l’avvento della
TC spirale, alla fine degli anni ’80, che si è avuta una vera e propria rivoluzione nella modalità di acquisizione delle immagini;
da allora sono state prodotte macchine sempre più rapide, in grado di ottenere immagini di elevata qualità, di grandi volumi corporei, in tempi sempre più brevi. Questo, in aggiunta alla straordinaria flessibilità degli algoritmi di ricostruzione bi e tridimensionale, fanno della TC spirale multistrato, una tecnologia insostituibile in molte procedure diagnostiche.
In medicina veterinaria, l’introduzione della TC nella clinica è evento relativamente recente; le esperienze con TC multislice sono piuttosto limitate e non sono mai state descritte esperienze cliniche con una TC 16 strati. Tutte le applicazioni che vengono
presentate sono state ottenute con GE Lighspeed 16 e rielaborate con la Workstation GE ADW 4.1.
Presentiamo qui i primi mesi d’esperienza clinica con protocolli d’acquisizione mirati a particolari distretti, come le acquisizioni dinamiche per lo studio separato tra fase arteriosa e venosa dell’addome (fegato, pancreas etc.) o dell’encefalo (perfusione
cerebrale), l’MPR (2D Multi-planar reformat) e l’MPVR (Multi-planar Volume Reconstruction) nello studio delle patologie dei
seni paranasali e delle ossa della base del cranio e nella pianificazione delle riduzioni chirurgiche di fratture. Di particolare interesse si sono rivelati il MIP (Maximum Intesity Projection) con applicazione allo studio angiografico post-contrasto e le tecniche VR (Volume Rendering) tridimensionali, per la ricostruzione fedele dei volumi, indispensabili nella patologia ortopedica
e traumatologica. Infine, vengono presentati casi di navigazione virtuale endoluminale, in diversi distretti corporei: colon, esofago, albero tracheo-bronchiale (con correlazioni all’endoscopia tradizionale), ma anche comparto vascolare (endoaortica, endocavale) o canale spinale, quest’ultima con altissima sensibilità nei confronti delle patologie discali, anche senza somministrazione di mezzo di contrasto.
Le potenzialità di tale tecnologia sono davvero numerose, ma sono state qui prese in considerazione solo quelle che, grazie ad
algoritmi di acquisizione e ricostruzione peculiari di questa macchina, permettono un concreto ausilio diagnostico in patologie
di difficile identificazione nonché l’esplorazione di campi medici ancora poco conosciuti in medicina veterinaria.
Indirizzo per la corrispondenza:
Clinica Veterinaria Privata “San Marco”
Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova
Tel. 049/8561098 - Fax 02700518888
E-mail: [email protected]
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I TUMORI GASTROINTESTINALI STROMALI (GIST) NEL CANE E NEL GATTO
Giuliano Bettini Med Vet Prof Ass, Maria Morini Med Vet
Servizio di Anatomia Patologica, Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria e Patologia Animale,
Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Bologna
Introduzione: I tumori gastrointestinali stromali (GIST) sono attualmente considerati dalla patologia umana le più comuni neoplasie mesenchimali del tratto gastrointestinale (GI). Si tratta di neoplasie derivate dalla trasformazione neoplastica delle cellule interstiziali di Cajal (ICC), cellule “pacemaker” che generano lente e ritmiche contrazioni ondulatorie nella muscolatura gastrointestinale4, e che possono manifestarsi come piccole neoformazioni nodulari intramurali o sottosierose a decorso benigno,
oppure come voluminose masse coinvolgenti tutto lo spessore della parete ed a comportamento maligno7. La diagnosi di GIST
può essere difficile alla sola osservazione istologica, data l’ampia sovrapposizione morfologica con altre neoplasie mesenchimali (leiomioma, leiomiosarcoma, fibrosarcoma), e la conferma diagnostica definitiva può essere fornita solamente da una reazione immunoistochimica positiva alla presenza della proteina KIT (CD117)7,8. In patologia animale, recenti studi hanno dimostrato che anche nel cane una parte dei tumori mesenchimali GI, generalmente classificati come tumori derivati dal muscolo liscio, esprimono il CD117 ed hanno morfologia tale da suggerire una loro riclassificazione in GIST1,2,5. Scopo di questo lavoro
è segnalare alcuni GIST nel cane e nel gatto, e di descriverne le caratteristiche istologiche ed immunoistochimiche.
Materiali e metodi: Preparati istologici di routine di neoplasie GI asportate chirurgicamente sono stati suddivisi in neoplasie
epiteliali, mesenchimali ed a cellule rotonde. Dalle neoplasie mesenchimali così selezionate sono state allestite ulteriori sezioni, su cui sono state effettuate colorazioni immunoistochimiche (CD117, vimentina, desmina, actina, S-100).
Risultati: Sono state raccolte 105 neoplasie GI di cane (48% epiteliali, 35% a cellule rotonde, 17% mesenchimali) e 95 nel gatto (55% a cellule rotonde, 40% epiteliali, 5% mesenchimali). Nel cane 5 casi (intestino) sono risultati coerenti con la diagnosi
di GIST ed uno nel gatto (stomaco). Il quadro istologico era caratterizzato dalla prevalenza di cellule fusiformi, fittamente stipate e disposte in fasci ad andamento irregolare alternati ad aree in cui le cellule erano invece di forma poligonale con discreto
pleomorfismo nucleare. Le prove immunoistochimiche hanno evidenziato in tutti i casi positività citoplasmatica al CD117 ed alla vimentina ed una positività debole ed incostante all’actina.
Discussione e conclusioni: In patologia umana i GIST sono definiti come neoplasie mesenchimali GI composte da cellule fusiformi, epitelioidi o pleomorfe, positive al marcatore immunoistochimico CD1177. Il CD117 è una proteina recettoriale di membrana codificata dal proto-oncogene c-kit facente parte della famiglia delle tirosina chinasi, in grado di attivare la proliferazione cellulare ed implicata nell’indirizzare cellule mesenchimali totipotenti verso una differenziazione in ICC mature, che secondo l’ipotesi considerata più attendibile sono le cellule dalla cui trasformazione neoplastica derivano i GIST7,8.
In patologia veterinaria l’acronimo GIST, già usato impropriamente nel cane per indicare i tumori mesenchimali in genere6, solo recentemente è stato utilizzato nella sua accezione corretta1,2,5. Sulla base dei nostri studi i GIST si propongono pertanto, fra
le neoplasie GI del cane e del gatto, come categoria diagnostica indipendente, per la cui diagnosi risulta indispensabile la positività immunoistochimica al CD117. Anche nel cane, come nell’uomo, è stata inoltre osservata un’analoga mutazione genomica3, che apre interessanti prospettive sul possibile utilizzo in medicina veterinaria di un farmaco inibitore delle tirosina-chinasi
(imatinib mesylato), che in oncologia umana ha dimostrato ottimi risultati nel bloccare la crescita tumorale.
Bibliografia
1. Bettini G, Morini M and Marcato PS (2003). Gastrointestinal spindle cell tumours of the dog: histologic and immunohistochemical study. Journal of Comparative Pathology, 129: 283-293.
2. Frost D, Lasota J and Miettinen M (2003). Gastrointestinal stromal tumors and leiomyomas in the dog: a histopathologic, immunohistochemical, and molecular genetic study of 50 cases. Veterinary Pathology, 40: 42-54.
3. Hirota S, Isozaki K, Moriyama Y, Hashimoto K, Nishida T et al. (1998). Gain-of-function mutation of c-kit in human gastrointestinal stromal tumors. Science, 279: 577-580.
4. Komuro T (1999). Comparative morphology of interstitial cells of Cajal: ultrastructural characterisation. Microscopy Research and Technique, 47: 267-285.
5. Kumagai K, Uchida K, Miyamoto T, Ushigusa T, Shinohara S et al. (2003). Three cases of canine gastrointestinal stromal tumors with multiple differentiations and c-kit-Expression. Journal of Veterinary Medical Science, 65: 1119-1122.
6. LaRock RG and Ginn PE (1997). Immunohistochemical staining characteristics of canine gastrointestinal stromal tumors. Veterinary Pathology, 34: 303311.
7. Miettinen M and Lasota J (2001). Gastrointestinal stromal tumors - clinical, histological, immunohistochemical and molecular genetic features and differential diagnosis. Virchows Archives, 438: 1-12.
8. Sandberg AA and Bridge JA (2002). Updates on the cytogenetics and molecular genetics of bone and soft tissue tumors: gastrointestinal stromal tumors.
Cancer Genetics and Cytogenetics, 135: 1-22.
Indirizzo per la corrispondenza:
Giuliano Bettini
Servizio di Anatomia Patologica, Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria e Patologia Animale
Via Tolara di Sopra 50, 40064, Ozzano Emilia, Bologna
Tel. +39 051 2097969; Fax +39 051 2097967
E-mail: [email protected]
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454
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DUE CASI DI LINFOMA IN DUE FURETTI
Pierfrancesco Bo Med Vet
Libero professionista, Bologna
Scopo del lavoro: Descrivere due casi di linfoma in due furetti. Il primo caso si riferisce ad un linfoma multicentrico, il secondo ad un linfoma intestinale.
Descrizione dei casi e metodi impiegati:
1° caso: si tratta di un furetto albino di 2 anni maschio sterilizzato e deghiandolato, di nome “Artù”. L’anamnesi segnala dolorabilità addominale e vomito ricorrente concomitante ad episodi di letargia. La palpazione addominale evidenzia una masserella di circa 2 cm localizzata a metà dell’addome. L’animale si presenta disidratato e letargico. Vengono quindi eseguite ecoaddome, laparatomia esplorativa, esame anatomopatologico ed istologico.
2° caso: riguarda un furetto “Marshall” di nome “Birba”. Il soggetto, di 4 mesi, si presenta fortemente abbattuto, ipotermico (t°
36,9) con aumento della frequenza respiratoria, PO2 95, disidratato. L’anamnesi segnala letargia progressiva da alcuni giorni ed
anoressia con assenza di defecazione dal giorno prima. La palpazione addominale evidenzia una lunga massa addominale di consistenza pastosa. Vengono eseguite radiografie, esame istologico ed anatomopatologico.
Risultati ottenuti:
1° caso: l’ecoaddome segnala sovradistensione gastrica con pattern alimentare ed il linfonodo digiunale aumentato di volume
con parenchima ipoecogeno. Viene quindi eseguita una laparatomia esplorativa, che evidenzia il linfonodo mesenterico di circa
2 cm di diametro ed una milza congesta con aderenze alla grande curvatura dello stomaco. Si procede ad asportazione del linfonodo, ma dopo alcuni giorni il soggetto muore. L’esame anatomopatologico non segnala altri linfonodi reattivi ed il risultato dell’istologico è di un linfonodo a struttura completamente sovvertita da una distesa di cellule linfocitarie maligne di grossa taglia
con voluminoso nucleolo.
2° caso: l’esame radiografico evidenzia una zona radiopaca occupante la quasi totalità del torace. L’esame anatomopatologico,
effettuato presso l’istituto zooprofilattico di Bologna, mostra una lesione di tipo neoplastico diffusa a tutto il polmone destro che
si presentava aumentato di volume e consistenza con struttura profondamente alterata, milza di consistenza aumentata con piccoli emangiomi sulla superficie, fegato steatosico, reni pallidi, ovaie con follicoli emorragici. L’esito dell’istologico eseguito
presso l’istituto zooprofilattico di Milano, colorato con ematossina eosina, è di un tumore a cellule rotonde che coinvolge milza, fegato, stomaco e polmone compatibile con linfoma linfocitico-linfoblastico.
Conclusioni: I linfomi costituiscono la forma neoplastica più frequente del sistema emopoietico dei furetti con un’alta incidenza in quelli di genia americana. Gli animali di 5 anni, seguiti da quelli di 3 e da quelli di età inferiore ad 1 anno, sono statisticamente più colpiti da questa patologia che, secondo alcuni autori, riconosce una causa virale. Nei giovani è più frequente il linfoma mediastinico, di solito senza linfoadenopatia periferica, mentre, nei più anziani, i quadri sono variabili e spesso
vi è linfoadenopatia generalizzata. Alcuni autori parlano anche di una forma iperacuta con stato febbrile e morte in 24-48 h.
Esistono vari protocolli chemioterapici associati o meno a radioterapia ed all’uso della chirurgia, ma i successi sono altamente
variabili.
Indirizzo per la corrispondenza:
Pierfrancesco Bo
Via Marino Dalmonte 7 - 40134 Bologna
Tel. 051 6153393
E-mail: fraecol@ libero.it
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PERITONITE INFETTIVA FELINA:
VALUTAZIONI CLINICO-PATOLOGICHE E DIAGNOSTICHE SU ALCUNI CASI CLINICI ATIPICI
Stefano Bo1 Med Vet, Saverio Paltrinieri2
1
Libero professionista, Torino
2
Dipartimento di Patologia Animale, Igiene e Sanità Pubblica, Università di Milano
Premessa: La Peritonite Infettiva Felina (FIP o PIF) è una malattia immuno-mediata del gatto, ad esito fatale nella maggior parte dei casi clinicamente manifesti, espressione di una serie di infezioni sostenute da virus denominati coronavirus felini (FCoV)
Clinicamente un gatto che sviluppa la FIP può presentare iniziale depressione del sensorio, letargia, anoressia. In seguito spesso sviluppa una febbre modicamente elevata e che non risponde alla terapia antibiotica e gradualmente dimagrisce. Se si sviluppa la forma essudativa della FIP, il paziente presenta un addome ingrossato e, spesso, problemi respiratori dovuti all’accumulo di liquidi in addome che spingono sul diaframma o anche per la presenza di liquidi direttamente in torace. La forma secca ha manifestazioni più vaghe, e può presentarsi con segni diversi (convulsioni, vomito, depressione, uveite) in funzione dell’organo prevalentemente colpito o anche solo con letargia e perdita di peso. In entrambe le forme, alle manifestazioni cliniche
correlate alle lesioni d’organo si associano alcune alterazioni clinico-patologiche che possono risultare discriminanti per la conferma diagnostica della FIP: anemia non rigenerativa, leucocitosi con linfopenia e neutrofilia, iperproteinemia (con iper-γ-globulinemia e/o aumento anche delle α2-globuline). Altri aspetti diagnostici importanti sono l’aumento della α1-glicoproteina acida, il riscontro di flogosi piogranulomatosa in citologici prelevati da eventuali masse addominali e, nelle forme effusive, l’analisi dei versamenti che presentano un quadro citologico di flogosi cronica mista, proteine elevate e ricche di gamma-globuline e
che possono essere utilizzati per ricercare immmunocitologicamente il FCoV. La sierologia e le tecniche molecolari (PCR e sue
modificazioni), importantissime nel controllo della diffusione della malatia negli allevamenti, non hanno invece alcun valore diagnostico. Il gold standard per la diagnosi rimane l’esame istopatologico di biopsie tissutali. In caso di FIP vi sono all’esame
microscopico delle alterazioni caratteristiche osservabili da un patologo. L’orientamento perivascolare dei piogranulomi è il quadro principalmente utilizzato.
Scopo del lavoro: Scopo del lavoro è stato di ottenere dati su casi di FIP in cui ad un esame retrospettivo le manifestazioni cliniche, la localizzazione delle lesioni e/o gli esami eseguiti erano atipici.
Materiali e metodi: Sono stati raccolti 20 casi di cui è stato possibile valutare le manifestazioni cliniche, la localizzazione delle lesioni, gli esami di laboratorio e l’esame istologico. La diagnosi di peritonite infettiva felina è stata basata sui risultati degli
esami istologici.
La conferma della presenza dei FCoV nei campioni bioptici od autoptici esaminati è stata effettuata tramite immunoistochimica su sezioni di tessuto fissate con formalina al 10% e dello spessore di 5 µ deparaffinate. Dopo blocco delle perossidasi endogene su tali sezioni venivano applicati l’anticorpo primario anti-FCoV (gentilmente fornito dal Prof. N.C. Pedersen, Università
di Davis), l’anticorpo biotinilato ed il complesso avidina-biotina perossidasi. Dopo aggiunta del cromogeno (diaminobenzidina
o carbazolo) le sezioni venivano controcolorate con ematossilina.
Risultati: Dei 20 casi esaminati, 6 presentavano lesioni intestinali di tipo proliferativo con quadri misti di ispessimento della parete, necrosi e similocclusioni. 3 presentavano segni neurologici compatibili con encefalomielite, ma ad andamento cronico, con
durata che in un caso ha raggiunto anche l’anno; 3 con patologie pleuriche atipiche e 2 con alterazioni a carico dei reni, 1 con
sola pericardite, 1 con epatopatia ed uno con splenomegalia. Nei due casi in cui era presente versamento pleurico, questo era
monolaterale e con caratteristiche chimico-fisiche non suggestive di FIP. Due dei casi con versamento si sono risolti per tempi
lunghi prima di esitare in forme letali di FIP.
Tutti i 6 casi con enterite presentavano una massa intramurale solitaria con interessamento di tratti di intestino variabile tra i 3
ed 12 cm. Tra questi soggetti non c’era prevalenza di sesso e l’età era compresa tra 1 e 3 anni.
Tranne che in un caso le alterazioni clinicopatologiche (esami ematochimici, elettroforesi delle sieroproteine e dell’eventuale
versamento, esami citologici) non sono risultate del tutto suggestive della patologia in atto che è stata confermata solo in corso
di esame istologico e mediante immunoistochimica.
Conclusioni: Nonostante nella gran parte dei casi di FIP i sintomi e le alterazioni clinico-patologiche siano nell’insieme diagnostiche come in tutte le forme patologiche è possibile incontrare casi atipici come quelli qui descritti. In questi casi si conferma
l’importanza di identificare il virus mediante tecniche immunoistochimiche. Tra le forme atipiche è importante segnalare l’aumento delle forme primariamente intestinali spesso confuse con tumori o con quadri di enterite intramurale necrotizzante.
Indirizzo per la corrispondenza:
Dr. Stefano Bo
Via Provana 3 - 10123 Torino
Professore a contratto in Clinica delle malattie infettive
Facoltà di Medicina Veterinaria Torino
E-mail: [email protected]
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CAPSULORRAFIA TERMICA COME OPZIONE TERAPEUTICA
NELL’INSTABILITÀ DI SPALLA
Filippo Maria Martini1 Med Vet, Silvia Boiocchi2 Med Vet
Dipartimento di Salute Animale, Sezione di Clinica Chirurgica e Medicina d’urgenza, Università degli Studi di Parma;
2
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Sezione di Clinica Chirurgica e Radiologia Veterinaria,
Università degli Studi di Milano
1
Introduzione: Nell’ultimo decennio in Medicina Umana sono state proposte nuove tecniche per il trattamento dell’instabilità di
spalla e tra queste vi è la capsulorrafia termica a radiofrequenza. Il meccanismo che consente di ottenere l’irrobustimento della
capsula articolare è da ricercarsi nella denaturazione delle fibre collagene della capsula stessa, che si verifica a temperature comprese tra i 65 ed i 75° C. Gli iniziali effetti negativi dell’energia termica, come la perdita delle proprietà meccaniche e la necrosi cellulare, sono seguiti da una rapida rigenerazione che perdura per 12-14 settimane, fino a che la zona trattata è completamente sostituita da nuove cellule. Si ottiene così un graduale miglioramento delle proprietà meccaniche dei tessuti trattati, che
entro le 12 settimane raggiungono la normalità. L’utilizzo della capsulorrafia termica in Medicina Umana è riservato alle instabilità di spalla mono o multidirezionali e come adiuvante alle tecniche protesiche tradizionali.
Materiali e metodi: Da novembre 2001 a dicembre 2002 abbiamo osservato 10 cani con zoppie anteriori monolaterali. Dopo
accurato esame ortopedico, abbiamo effettuato indagini radiografiche, dirette e con contrasto ed un esame artroscopico. Tutti
i soggetti sono stati trattati mediante capsulorrafia termica utilizzando apparecchiature bipolari (VAPR Mitek) in 7 cani e monopolari (VULCAN Smith & Nephew) nei rimanenti 3. La capsulorrafia termica è stata associata alla tenotomia del bicipite
in 3 casi. La terapia post-operatoria ha previsto un bendaggio di Velpeau modificato per 3 settimane, la riduzione dell’attività
fisica ed il trattamento con FANS.
Risultati: I 10 cani appartenevano tutti a razze diverse (Pointer, Segugio italiano, Boxer, Bulldog, Labrador, Pastore tedesco,
Drahthar, Kurzhaar, Setter inglese, Breton) età media 2.7 anni e peso medio di 22,4 kg. Maschi e femmine erano equamente
rappresentati. 7 cani presentavano zoppia cronica, 3 zoppia acuta di grado variabile dal I al III. Alla visita clinica in 8 soggetti
abbiamo evidenziato algia all’iperestensione della spalla e test del bicipite positivo. In anestesia generale abbiamo diagnosticato 5 instabilità mediali, 4 bidirezionali di II e III grado e 1 multidirezionale di IV grado. Dall’esame radiografico abbiamo
osservato artrosi in 5 cani e frattura da avulsione del tubercolo sovraglenoideo in un caso. L’esame artroscopico ha evidenziato la rottura parziale del legamento gleno-omerale mediale in 6 casi e lassità dello stesso legamento con ballooning capsulare
in 2, un’avulsione parziale del legamento gleno-omerale laterale, una rottura parziale del tendine di inserzione del muscolo sottoscapolare e 2 casi di rottura parziale del tendine del bicipite. In 9 dei 10 cani da noi trattati abbiamo ottenuto la risoluzione
dei segni clinici e la scomparsa dell’algia alla manipolazione dell’articolazione, in media 50 giorni dopo il trattamento, con follow-up medio di 5,5 mesi.
Discussione: La mini-invasività, la sicurezza e la possibilità di ricorrere comunque a tecniche chirurgiche tradizionali in caso di
fallimento rendono la capsulorrafia termica un’ottima opzione terapeutica in casi di instabilità di spalla di II e III grado. La reale efficacia nelle instabilità di IV grado è da valutarsi con ulteriori indagini; il nostro singolo caso apre interessanti prospettive.
Un più lungo follow up, una più ampia casistica ed un controllo della effettiva stabilità dell’articolazione in anestesia generale
(valutata in un solo soggetto nel nostro studio) sono imprescindibili per una completa valutazione della tecnica proposta.
Indirizzo per la corrispondenza:
Silvia Boiocchi
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie
Sezione di Clinica Chirurgica e Radiologia Veterinaria
Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Milano
Via Ponzio 7, 20133 Milano
E-mail: [email protected]
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RILIEVI ISTOPATOLOGICI IN 66 CASI DI GENGIVOSTOMATITE CRONICA DEL GATTO (FCGS)
D. Bonello°, C. Capelletto*, M. Castagnaro*, B. Peirone°
° Dipartimento di Patologia Animale, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Torino, Italia
* Dipartimento di Sanità Pubblica, Patologia Comparata ed Igiene Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria,
Università di Padova, Italia
Introduzione: La gengivostomatite cronica (FCGS) è una delle patologie del cavo orale del gatto di più frequente riscontro, il
cui meccanismo patogenetico è tuttora poco conosciuto.
Lo scopo di questo studio è di descrivere i rilievi istopatologici tipici della FCGS del gatto, sia della mucosa del cavo orale, sia,
quando presenti, dell’osso alveolare mascellare e/o mandibolare.
Materiali e metodi: Il materiale utilizzato per questo studio, è rappresentato da 195 prelievi bioptici eseguiti a livello delle lesioni più significative localizzate nella cavità orale di un ugual numero di gatti ammalati, di età, razza, e sesso diversi.
Risultati e discussione: Dei 195 gatti affetti da patologia orale presi in esame, la diagnosi di FCGS è stata fatta in 66 gatti, che
sono stati inclusi nello studio. Nessuno dei gatti era FIV o FeLV positivo. L’età dei soggetti varia da 6 mesi a 15 anni. L’età media, pari a 7,5 anni, conferma il dato ottenuto dalla ricerca bibliografica.
Non c’è invece alcuna predisposizione verso la malattia legata al sesso o alla razza dell’animale.
In tutti i campioni osservati era presente il classico, diffuso, intenso infiltrato (LPI). Le plasmacellule frequentemente esibivano
corpi di Russell nel loro citoplasma. In alcuni casi LPI era l’unica risposta infiammatoria presente. Tuttavia, in presenza di lesioni ulcerative, in associazione a LPI si reperivano anche un infiltrato neutrofilico da focale a diffuso, esocitosi ed una marcata spongiosi epiteliale. In molti campioni sono stati anche osservati numerosi eosinofili sparsi e mastociti in grande numero.
La presenza o assenza dei granulociti eosinofili e dei mastociti a livello delle sezioni istologiche rappresentative di FCGS è stata presa in considerazione per valutare il significato diagnostico di queste cellule infiammatorie. Si è inoltre cercata un’eventuale correlazione tra la loro presenza e la FCGS, rispetto alle altre infiammazioni orali.
Dai risultati ottenuti è scaturito che non esiste alcun rapporto statisticamente significativo tra il rilevamento di granulociti eosinofili e dei mastociti e la FCGS del gatto. In letteratura non sono stati trovati lavori di alcun tipo riguardanti la presenza di questi elementi cellulari a livello istologico; tuttavia viene spesso ribadita l’importanza patogenetica della risposta infiammatoria ed
immunitaria nella progressione della malattia.
I rilievi istopatologici descritti indicano comunque che la FCGS è sempre associata ad una intensa, persistente stimolazione immunitaria. In associazione, è frequente osservare ulcerazione dei tessuti con conseguente infiltrazione diffusa di neutrofili (lesione cronica attiva). La frequente presenza di eosinofili suggerisce invece la concomitanza di un fenomeno di ipersensibilità o
di una reazione iperergica.
L’interessamento dell’osso alveolare, caratterizzato da un infiltrato infiammatorio misto e da alterazioni litiche della struttura
ossea, era presente nel 22% dei casi.
Con il presente studio si è voluta ricercare una correlazione tra l’interessamento osseo e la FCGS, sia come elemento diagnostico, sia per poter formulare una prognosi di malattia, avvalendosi dell’esame istopatologico delle biopsie eseguite nel sito d’infiammazione e comprensive di porzioni di osso alveolare. In seguito all’elaborazione statistica dei risultati ottenuti con questo
studio, è stata trovata una connessione significativa tra la presenza di interessamento osseo e la FCGS, rispetto alle altre forme
infiammatorie della cavità orale, in cui tale reperto è stato osservato con un’incidenza assai inferiore. Infatti l’interessamento osseo appare distribuito in misura statisticamente significativa (χ2 = 5,8; P = 0.02) nella FCGS, a differenza delle altre patologie
prese in considerazione.
Per tutti i dati rilevati nel corso di questo studio, sarà necessario approfondire il valore prognostico, al fine di poterli utilizzare
nel corso dell’impostazione del piano di trattamento delle diverse forme patologiche.
Indirizzo per la corrispondenza:
Dea Bonello
Centro Veterinario Torinese
Lungo Dora Colletta 147 - Torino
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48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
TECNICA COMPLEMENTARE PER LA RIDUZIONE A CIELO CHIUSO
DELLA LUSSAZIONE COXOFEMORALE MEDIANTE L’APPLICAZIONE DI FISSATORI ESTERNI
Leandro Borino Med Vet
Libero professionista, Bari
Scopo del lavoro: Portare a conoscenza i colleghi di una possibile strada alternativa alla Chirurgia a cielo aperto in caso di lussazione su base non patologica laddove la sola tecnica della riduzione incruenta si riveli inefficace verificandosi la recidiva della lussazione stessa. Questo primo tentativo personale è stato dettato dal desiderio di salvaguardare al massimo le possibilità di
future performance di un soggetto di dodici mesi investito da un’auto nel suo primo giorno di caccia e per due volte inutilmente sottoposto alla immobilizzazione attraverso bendaggio.
Materiali e metodi: Viene utilizzata la Scopia intensificata per il posizionamento di quattro chiodi di Kirschner, due nell’osso
coxale, due nel femore, i quali, una volta ridotta la lussazione femorale, vengono opportunamente ripiegati e uniti tra loro attraverso resina autopolimerizzante. Completata la fissazione esterna tra coxale e femore viene effettuato il bendaggio semirigido con l’arto in flessione.
Risultati: Il soggetto al suo risveglio non mostra particolari problemi e dopo circa 120 minuti inizia a deambulare su tre zampe. Nei giorni successivi oltre alla consueta terapia post chirurgica viene sottoposto a osservazione clinica e radioscopica. In tale periodo non viene mostrata alcuna anomalia nella curva termica e buone permangono le grandi funzioni organiche. La rimozione dei chiodi e della fasciatura di bendaggio semirigido viene effettuata al ventunesimo giorno come da prassi. Il soggetto
viene quindi affidato al proprietario per la riabilitazione. Al ventiquattresimo giorno il soggetto accenna l’appoggio dell’arto che
via via migliora costantemente per giungere a deambulazione normale in quarantaduesima giornata.
Conclusioni: Questa prima osservazione può essere un suggerimento al problema lussazione coxo-femorale su base non patologica, soprattutto nei soggetti giovani ove la completa restituito ad integrum della fisiologia del movimento sia auspicabile per
il tipo di attività (cani da lavoro etc). Una simile tecnica risulta più semplice e meno invasiva di quella a cielo aperto per il minor insulto sia per i tessuti muscolari sia soprattutto per quelli articolari tutti, molli e duri. Indispensabile la tempestività ma anche la “complementarietà” di una simile tecnica al bendaggio semirigido per ovvi motivi di sicurezza e di gestione per l’animale
dei carichi di peso.
Indirizzo per la corrispondenza:
Viale La bianca n 35 - 70010 Adelfia (BA)
Tel. 080 4595441 - Fax 080 4595441
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ROTAZIONE METATARSALE ASSOCIATA A MALFORMAZIONE DELL’OSSO CENTRALE DEL TARSO:
STUDIO RADIOGRAFICO RETROSPETTIVO SU 29 CANI
Massimo Petazzoni1 Med Vet, Carlo Maria Mortellaro2 Med Vet, Francesca Briotti1 Med Vet
Alessandro Piras3 Med Vet, Bruno Peirone4 Med Vet
1
Libero professionista, Milano
2
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, sezione di Clinica Chirurgica e Radiologia Veterinaria,
Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Milano
3
Libero Professionista, Newry-GB
4
Dipartimento di Patologia Animale Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Torino
Introduzione: La rotazione metatarsale (RM), segnalata solo sporadicamente in letteratura, rappresenta una condizione ortopedica di non infrequente riscontro in cani di taglia grossa e gigante sia in accrescimento sia adulti appartenenti a numerose razze. Consiste in una malformazione scheletrica caratterizzata da alterazioni morfologico-strutturali che interessano la seconda linea delle ossa tarsiche con conseguente rotazione esterna dei metatarsi (fino a 90°). La maggior parte dei soggetti affetti presenta una malformazione dell’osso centrale del tarso associata o meno alla presenza del primo dito.
Scopo del lavoro: Studio retrospettivo di 29 casi clinici di RM allo scopo di classificare radiograficamente la malformazione.
Materiali e metodi: È stata eseguita una valutazione retrospettiva delle cartelle cliniche di 29 pazienti affetti da RM da settembre 2000 ad settembre 2003. Tutti i pazienti venivano riferiti alla visita clinica per diagnosi preventiva o definitiva di displasia
(anca, gomito), zoppia anteriore e/o posteriore o per anomalie di deambulazione. In tutti i soggetti veniva emessa una diagnosi
presuntiva di RM sulla scorta dei segni clinici quali anomalie posturali o della deambulazione e soprattutto a seguito della palpazione profonda del tarso. Il sospetto diagnostico veniva costantemente confermato da uno studio radiografico di entrambi i
garretti comprendente almeno la proiezione sagittale.
Risultati: Ventuno Bovari del Bernese, uno Spinone italiano, un Dogue de Bordeaux, un Rottweiler, un San Bernardo, un Alano, un Barbone nano, un Beauceron e un incrocio sono stati inclusi nel presente studio. Ventiquattro soggetti su 29 (82%) venivano sottoposti ad accertamenti diagnostici interessanti segmenti ossei o articolari diversi dal tarso: lesioni traumatiche, rx ufficiali di diagnosi precoce o definitiva di displasia. Cinque cani, su 29 (18%) venivano sottoposti a visita per malallineamento del
treno posteriore secondario a RM. I maschi rappresentavano il 58% del totale (17/29); l’età media era di 33 mesi (2 - 132). Ventotto soggetti su 29 sono stati radiografati bilateralmente e di questi, 27 risultavano affetti bilateralmente (96%). 13 su 28 (46%)
erano colpiti in modo simmetrico (stesse alterazioni ad entrambi i garretti). Le alterazioni riscontrate risultavano essere numerose: differenti gradi di torsione esterna del tarso con conseguente rotazione esterna dei metatarsi, presenza di malformazioni di
varia entità a carico dell’osso centrale del tarso (OCT) che poteva risultare o meno accompagnato medialmente dalla presenza
di uno o due nuclei di ossificazione accessori, uno medio-prossimale (NAP) ed uno medio-distale (NAD). I due nuclei potevano risultare associati all’osso centrale del tarso nei seguenti modi: OCT + NAP + NAD; OCT + NAP; OCT + NAD; solo OCT.
A loro volta queste tre strutture potevano risultare, nel cane adulto, fuse fra di loro (OCT+NAD+NAP) a disegnare una T ruotata di 90° con il lato breve della T rivolto medialmente o potevano essere fuse OCT+NAP o OCT+NAD a formare una L con
angolo retto aperto distalmente o prossimalmente. Inoltre in 26 casi su 29 (89%) veniva riscontrata la presenza del primo dito.
Conclusioni: Numerose razze possono essere affette dalla rotazione metatarsale. La razza maggiormente colpita pare essere il
Bovaro del Bernese anche se questo dato può essere fortemente influenzato dalla casistica della clinica in cui è stato eseguito lo
studio. La visita ortopedica consente di emettere un sospetto diagnostico che può essere confermato radiograficamente con la
sola proiezione sagittale del garretto. Numerosissime risultano le anomalie a carico di forma, dimensioni, posizione e numero
delle strutture anatomiche che accompagnano la rotazione metatarsale.
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460
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UN CASO DI OSTEOPATIA CRANIOMANDIBOLARE
IN UN CUCCIOLO DI WEST HIGHLAND WHITE TERRIER
Franco Brusa1 Med Vet, Paolo Squarzoni2 Med Vet
1
Libero professionista, Massa Lombarda (RA)
2
Libero professionista, Molinella (BO)
Materiali: Un cucciolo di cane razza West Highland White Terrier, maschio, dell’età di circa 100 giorni, veniva portato alla visita odontoiatrica per un fortissimo dolore all’apertura della bocca e alla prensione del cibo, associato a notevole difficoltà alla
masticazione e conseguente anoressia. L’animale veniva visitato e sotto il profilo clinico mostrava un moderato stato di dimagrimento e prostrazione, associato ad un marcato ispessimento della porzione rostrale delle mandibole, apprezzabile sia visivamente che alla delicata palpazione della parte. Non si notavano altre apparenti anomalie od asimmetrie scheletriche, parimenti
per i parametri clinici fondamentali.
Metodi: Il paziente veniva sedato con medetomidina i.m. e sottoposto prima ad un’ispezione clinica craniofacciale che non rivelava ulteriori problemi, con particolare attenzione alla cinetica dell’articolazione temporo-mandibolare, che risultava nella
norma; i tessuti molli buccali non mostravano segni di infiammazione od ulcerazioni, né tantomeno venivano rinvenute neoformazioni o corpi estranei; venivano quindi eseguite radiografie in proiezioni ortogonali ed oblique, che mettevano in evidenza un
notevole ispessimento osseo dei rami mandibolari, sia in senso latero-laterale che in senso dorso-ventrale. Si notava anche una
marcata proliferazione periostale, ben evidente soprattutto a livello del margine inferiore di entrambi i corpi mandibolari. Non
si evidenziavano comunque anomalie dentali, con particolare riferimento alle gemme dei denti permanenti, in via di formazione. Sulla base dei dati anamnestici, clinici, radiologici, veniva formulata diagnosi di “osteopatia craniomandibolare”, e veniva
prescritta una terapia con carprofen 2 mg/kg sid e amoxicillina-acido clavulanico 15 mg/kg bid per le prime due settimane; inoltre la dieta scelta presentava caratteristiche semisolide (crocchette bagnate con acqua o brodo alcuni minuti prima della somministrazione).
Risultati: Dopo questo primo periodo di terapia l’animale mostrava un netto miglioramento per lo meno sotto il profilo sintomatologico, con notevole diminuzione del dolore ed una quasi normale possibilità di alimentarsi e masticare. Nelle settimane
successive il proprietario descriveva alcuni episodi di riacutizzazione del fattore algico, senza però mai raggiungere i livelli iniziali, che venivano normalizzati con ulteriore somministrazione di carprofen per cicli di circa 8 giorni, senza peraltro ripetere
l’uso dell’antibiotico.
Conclusioni: Dopo 11 settimane venivano eseguite radiografie di controllo che mettevano in evidenza una progressiva normalizzazione della patologia, già di per sé autolimitante. Il paziente risultava inoltre in migliori condizioni relativamente allo stato
di nutrizione ed alla vivacità.
Indirizzo per la corrispondenza:
Franco Brusa
Via F. Sangiorgi, 7/b - 40026 IMOLA (BO) domicilio
P.zza Andrea Costa, 18 - MASSA LOMBARDA (RA) ambulatorio
Tel. e Fax 0545-970232
E-mail: [email protected]
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L’ECCENTROCITOSI NEL CANE: 56 CASI
Marco Caldin1,2 Med Vet, Erika Carli2 Med Vet, Tommaso Furlanello1,2 Med Vet,
Carlo Patron2 Med Vet, Silvia Tasca2 Med Vet, George Lubas3 Med Vet
1
Clinica Veterinaria Privata “San Marco”
2
Laboratorio d’Analisi Veterinarie Private “San Marco”
3
Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa
Gli agenti ossidanti possono agire a livello eritrocitario a carico dell’emoglobina [Hb] (sia sul gruppo eme che sulla globina) e
della membrana cellulare comportando la comparsa in circolo di metaemoglobinemia, corpi di Heinz ed eccentrociti. In particolare, l’azione a livello di membrana modifica l’aspetto del globulo rosso in modo che presenti il tipico pallore, non in sede
centrale ma in sede periferica, eccentrica e che così conformato, sia più rigido, meno deformabile e possa essere prematuramente
rimosso dal sistema dei fagociti mononucleati, con conseguente anemia. In Letteratura l’eccentrocitosi è stata raramente segnalata nel cane; le cause riportate sono l’alimentazione con cipolle e/o aglio, trattamenti con acetaminofene, vitamina K e acetilfenilidrazina.
Nel periodo compreso tra il 1-5-2001 e il 27-11-2003, su un totale di 5.086 esami emocromocitometrici, è stata osservata eccentrocitosi in 78 esami che appartenevano a 56 cani. Per ciascun campione è stata eseguita una lettura strumentale con contaglobuli laser ADVIA 120® Bayer e una valutazione citomorfologica dello striscio ematico. Fin dal primo controllo, 38 soggetti
presentavano emogrammi caratterizzati da anemia, da lieve a moderata, che in 3 casi sono evoluti in forme gravi. 15 presentavano eccentrocitosi ma non anemia. In altri 3 l’anemia si è manifestata conseguentemente. Solo 2 cani presentavano contemporaneamente eccentrociti e corpi di Heinz.
I risultati ottenuti offrono una panoramica di possibili patologie associabili ad un danno ossidativo. In alcuni casi l’eccentrocitosi riconosceva cause già note in Letteratura [alimentazione con cipolle (9), trattamento con vit. K (2), trattamento con farmaci soprattutto FANS (4)]. In altri casi sono state osservate nuove associazioni quali dilatazione/torsione gastrica (3) e relativo trattamento, sarcoma polmonare (1) e splenico (1), melanoma maligno (1), linfoma T (5), diabete mellito in chetoacidosi
(7) e non (1), piometra (3), infusione di propofol (1), trombocitopenia immunomediata (1), insuff. renale (1) e infezioni urinarie (1), trasfusioni associate a precedenti chirurgie (2) e non (1), c.d. rinite del Levriero (1), enterite infettiva (1). In 3 casi il
rilievo è stato incidentale. È del tutto nuova e di grande interesse l’associazione tra eccentrocitosi e avvelenamento da rodenticidi (7), in soggetti non trattati con vit. K, dove lo stato emorragico tipico della coagulopatia potrebbe essere aggravato da
fenomeni emolitici.
Molti dei quadri patologici associati all’eccentrocitosi rilevati nei nostri pazienti, nella specie felina sono segnalati come causa
di corpi di Heinz. Questo potrebbe indicare che, a differenza del gatto in cui la suscettibilità agli agenti ossidanti è prevalentemente a carico dell’Hb, nel cane tale sensibilità si potrebbe realizzare a livello di membrana cellulare. I cani presi in considerazione erano per la maggior parte anemici o lo sono diventati nei giorni successivi. Per i soggetti non anemici spesso era disponibile un singolo emogramma e quindi non è possibile sapere quale sia stato il loro decorso clinico. La razza Whippet (3 casi),
poco diffusa, gode di una certa rappresentatività nella nostra casistica a testimonianza, forse, di una sua maggior sensibilità agli
agenti ossidanti.
In conclusione l’eccentrocitosi, è da considerarsi un fenomeno poco frequente ma non raro e, se presente, si può associare ad
anemia emolitica. Spesso è riconoscibile un evento causale che può essere rimosso o trattato (es. diete inadatte) portando alla
risoluzione del quadro patologico. Infine, risulta particolarmente interessante l’associazione tra avvelenamento da rodenticidi
ed eccentrocitosi che, implicando una componente emolitica, potrebbe ridisegnare la patogenesi dell’anemia in corso di tale
patologia.
Indirizzo per la corrispondenza:
Erika Carli
Laboratorio d’Analisi Veterinarie Private “San Marco”
Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova
Tel. 049-8561039 - Fax 02-700518888
E-mail: [email protected]
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462
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VISUALIZZAZIONE ARTROSCOPICA DEL COMPARTO CAUDALE DEL GINOCCHIO
E MENISCAL RELEASE ASSISTITO ARTROSCOPICAMENTE IN CORSO DI OSTEOTOMIA
DI LIVELLAMENTO DEL PIATTO TIBIALE
Barbara Carobbi1 Med Vet, Gian Luca Rovesti2 Med Vet Dipl ECVS
1
Borsista, Ambulatorio “M.E. Miller”, Cavriago (RE)
2
Ambulatorio “M.E. Miller”, Cavriago (RE)
Introduzione: In pazienti affetti da rottura del legamento crociato anteriore (LCA), l’artroscopia del ginocchio si è rivelata
un’ottima tecnica per l’esplorazione delle strutture articolari.
L’artroscopia del ginocchio effettuata mediante l’uso dei portali craniolaterale (CrL) e craniomediale (CrM) consente la visualizzazione di tutto il comparto craniale, del LCA e di quello posteriore. Spesso, però, l’esplorazione del menisco mediale, e in
particolare del suo corno caudale, è indaginosa a causa del ridotto spazio articolare.
Obiettivo: Lo scopo di questo lavoro è quello di verificare l’utilità di un portale alternativo a quelli CrL e CrM, per ottenere una
migliore visualizzazione del comparto caudale in generale e del corno caudale del menisco mediale in particolare, in corso di
osteotomia di livellamento del piatto tibiale (TPLO). È inoltre quello di verificare se, con lo stesso accesso, sia possibile eseguire un meniscal release assistito artroscopicamente.
Materiali e metodi: Sono stati presi in considerazione i pazienti che presentavano rottura del LCA e nei quali, dopo studio radiologico, si è deciso di effettuare un intervento di TPLO. Di questi sono stati selezionati quelli che non presentavano lesioni
meniscali tali da richiedere la parziale asportazione del menisco. I casi che hanno soddisfatto i criteri di inclusione sono stati
cinque.
In tutti i pazienti è stato effettuato un esame artroscopico prima della TPLO, nella stessa seduta anestesiologica, allo scopo di
verificare le condizioni del LCA, dei menischi laterale e mediale, e per effettuare un’eventuale toelettatura dell’articolazione.
Con l’uso dei portali CrL e CrM sono stati esplorati il comparto CrL e quello CrM, ed è stato visualizzato il menisco laterale
e almeno la porzione anteriore del mediale. Con lo stesso portale sono stati visualizzati il legamento crociato anteriore ed il
posteriore.
Successivamente, è stata effettuata la via di accesso chirurgica standard per l’intervento di TPLO e, mediante l’uso di un portale caudomediale (CdM), è stato valutato lo stato del menisco mediale, e specificamente del suo corno posteriore.
Utilizzando lo stesso portale, è stato possibile individuare con precisione la sede in cui effettuare il meniscal release, e verificare il corretto posizionamento della lama da bisturi n. 11 utilizzata per effettuare il release stesso. Dopo l’incisione, è stato inoltre possibile verificare che il menisco fosse stato inciso correttamente, fino al bordo mediano.
Risultati: In tutti i pazienti sottoposti ad artroscopia con l’uso di un portale CdM il corno caudale del menisco mediale è stato
visualizzato nella sua interezza, ed è quindi stato possibile verificare la presenza di eventuali lesioni, anche minime. Il meniscal
release artroscopicamente assistito ha permesso di visualizzare tutte le fasi della procedura e di verificarne il risultato. Nel caso
in cui l’incisione meniscale effettuata con la lama n. 11 non fosse completa, è stata completata mediante l’uso di bisturi artroscopici sotto visualizzazione artroscopica.
Conclusioni: L’uso di un portale CdM ha permesso una migliore visualizzazione di tutto il comparto caudale dell’articolazione del ginocchio rispetto ai portali CrL e CrM, ed ha consentito inoltre di effettuare il meniscal release sotto visione artroscopica diretta.
Indirizzo per la corrispondenza:
Barbara Carobbi
Via della Costituzione 10, 42025 Cavriago, Reggio Emilia
E-mail: [email protected].
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DIAGNOSI E TRATTAMENTO ARTROSCOPICO DI UN CASO DI INSTABILITÀ MEDIALE
DI SPALLA ASSOCIATA A ROTTURA TOTALE DEL LEGAMENTO COLLATERALE MEDIALE
E PARZIALE DEL TENDINE BICIPITE IN UN MAREMMANO
Emanuela Ciliberto1 Med Vet PhD, Massimo Olivieri1,2 Med Vet, Fulvio Cappellari1 Med Vet,
Bruno Peirone1 Med Vet PhD
1
Dipartimento di Patologia Animale, Università di Torino
2
Libero professionista, Samarate (VA)
Introduzione: Benché in campo umano l’instabilità di spalla sia conosciuta da molti anni, nel cane questa patologia è stata documentata solo di recente. Di conseguenza, mentre nell’uomo esistono diverse tecniche per il trattamento dell’instabilità di spalla, nel cane la letteratura a disposizione è scarsa. In questo lavoro gli autori presentano un caso di rottura completa del legamento
collaterale mediale (LCM) della spalla, con conseguente grave instabilità mediale, e rottura subtotale del tendine bicipite in un
Maremmano. L’utilizzo in questo caso della tecnica di shrinkage capsulare ha permesso di ottenere un recupero totale dell’attività funzionale del soggetto.
Materiali e metodi: Tra le artroscopie effettuate tra il 2000 e il 2003, è stato selezionato un caso relativo ad un cane Maremmano maschio di 2 anni di età, di 45 kg di peso, affetto da 2 mesi da grave zoppia di spalla di origine traumatica, associata ad
instabilità mediale. Il soggetto è stato sottoposto all’iter diagnostico standard per le patologie articolari, inclusa un’artroscopia
diagnostica, divenuta poi operativa. Dopo l’artroscopia veniva effettuato un bendaggio di Valpeau per 3 settimane e controlli clinici successivi. Nel periodo postoperatorio veniva istituita una terapia antibiotica e antinfiammatoria di routine e il proprietario
veniva istruito sugli esercizi da far effettuare al proprio cane. Il cane veniva sottoposto ad un controllo finale dopo 8 mesi dall’intervento.
Risultati: Alla visita ortopedica si evidenziava zoppia di IV grado anteriore, associata a grave ipotrofia dei muscoli sopraspinato e infraspinato, marcato dolore alla flesso-estensione della spalla e test del bicipite positivo. La valutazione della stabilità articolare in anestesia evidenziava una grave instabilità mediale, il liquido sinoviale risultava infiammatorio mentre l’esame radiografico nelle proiezioni standard non forniva informazioni. Infine l’esame artroscopico evidenziava una rottura totale del
LCM associata a rottura di circa il 70% del tendine del muscolo bicipite brachiale. Era presente una marcata sinovite ipertrofica attiva. Dopo aver rimosso le porzioni di LCM rotte, veniva effettuato uno shrinkage (capsulorrafia termica) della porzione di
capsula sottostante alla parte di LCM danneggiata mediante vaporizzatore. È un sistema che utilizza una corrente elettrica monopolare che consente da un lato la rimozione delle porzioni di legamenti o tendini danneggiati, dall’altro la coartazione delle
fibre della capsula articolare. La lesione del bicipite è stata invece trattata mediante tenotomia inserzionale. Alla rimozione del
bendaggio di Valpeau era presente una marcata ipotrofia dei muscoli della spalla. Nei controlli successivi si assisteva ad un lento ma progressivo recupero della funzionalità dell’arto. A 3 mesi dall’intervento il recupero era totale, in assenza di dolore alla
manipolazione della spalla. A 5 mesi, dopo un progressivo aumento dell’entità del lavoro, il cane veniva lasciato costantemente all’aperto in un ampio giardino senza alcun problema segnalato nei mesi successivi.
Discussione: Benché i dati riportati nella letteratura dei piccoli animali relativamente alla tecnica dello shrinkage capsulare siano scarsi, le informazioni preliminari sembrano limitare questa tecnica alle rotture non totali, intravedendo inoltre nei soggetti
di grossa mole una potenziale controindicazione. Nel nostro caso, pur in presenza di una rottura totale dell’LCM e subtotale del
tendine del bicipite in un soggetto di grossa mole, questi non sono stati dei fattori limitanti il recupero totale dell’attività da parte del cane. Gli autori stanno eseguendo uno studio di tutti i soggetti trattati con questa tecnica per cercare di raccogliere dei dati riguardanti una popolazione più ampia.
Indirizzo per la corrispondenza:
Emanuela Ciliberto, Dipartimento di Patologia Animale
Via Leonardo da Vinci, 44 - 10095 Grugliasco (TO)
Tel. +39.011.6709061 - Fax +39.011.6709057
E-mail: [email protected]
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464
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DUE CASI DI ALOPECIA ASSOCIATA A NEOPLASIA DELLE CELLULE DEL SERTOLI SECERNENTE
ESTROGENI E AD UN QUADRO ORMONALE COMPLESSO
Anna Corato Med Vet PhD, Gianluca Bragantini Med Vet
Liberi professionisti, Verona
Questo articolo descrive due casi di alopecia associata alla presenza di un sertolioma secernente estrogeni1 in un barboncino nano di sei anni e in un bolognese di otto. In entrambi i casi l’alopecia risultava l’unico elemento patologico rilevabile alla visita
e i testicoli si trovavano nella borsa scrotale e non presentavano alcun tipo di alterazione all’indagine visiva, manuale ed ecografica. Tramite approfondite analisi del profilo biochimico e ormonale nel primo caso si è rilevato un livello eccessivo2 di estrogeni (estradiolo 34,0 pg/ml) associato alla presenza di un’euthyroid sick syndrome (TSH 0,05 ng/ml, fT4 0,2 pmol/l) e ad un
aumento dei livelli di cortisolo pre e post ACTH (cortisolo basale 10 mcg/dl, post ACTH 21,5 mcg/dl). La presenza di un eritema prepuziale lineare, un’alterazione cutanea tipicamente associata alle neoplasie estrogeno secernenti3 e l’assenza di alterazioni
dei parametri biochimici di base tipicamente determinati dal morbo di Cushing ha indotto a sospettare la presenza di una neoplasia testicolare clinicamente inapparente e procedere alla castrazione del soggetto. Alla castrazione è seguita l’analisi istopatologica dei testicoli che ha rilevato la presenza di un tumore delle cellule del Sertoli. L’alopecia si è risolta completamente dopo circa cinque mesi dalla castrazione i livelli ormonali sono rientrati nella norma. Nel secondo caso, alla prima visita, il cane
presentava da circa cinque mesi alopecia e una stomatite necrotizzante che non aveva risposto a diverse terapie antibiotiche ed
immunosoppressive (prednisone seguito da azatioprina) raccomandate dal veterinario precedente. Le analisi rivelavano una grave anemia non rigenerativa, un’alterazione degli enzimi epatici e un iperestrogenismo (estradiolo 24,5 pg/ml) associato ad un
ipotiroidismo vero che non era risultato visibile nei primi mesi della comparsa dell’alopecia. Tre diverse misurazioni eseguite
nello stesso laboratorio, la prima al momento della comparsa dell’alopecia, la seconda eseguita dopo cinque mesi dalla comparsa dell’alopecia e la terza eseguita dopo un mese dalla sospensione della terapia farmacologica a base di azatioprina hanno
dato risultati completamente diversi (prima misurazione TSH 0,03 ng/ml, fT4 17 pmol/l, seconda misurazione TSH 0,4 ng/ml
fT4 3,8 pmol/l, terza misurazione TSH 1,3 ng/ml, fT4 3,5 pmol/l). Data la presenza di un elevato livello di estrogeni si è proceduto alla castrazione del soggetto seguita dall’analisi istopatologica dei testicoli che ha rilevato la presenza di un sertolioma.
L’alopecia e la stomatite si sono risolte completamente dopo circa quattro mesi dalla castrazione con l’aggiunta di una terapia a
base di ormoni tiroidei e il quadro biochimico, ematologico e ormonale è rientrato nella norma. In conclusione le dermatosi di
origine ormonale possono essere causate da molteplici patologie che talvolta inducono alterazioni biochimiche ed ormonali sovrapponibili o che possono talvolta coesistere dando luogo a casi complessi di difficile risoluzione4,5.
Bibliografia
1.
2.
3.
4.
5.
Scott, D.W., Miller, W.H., Griffin, C.E., Small Animal Dermatology, 5th ed. W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1995.
Feldman, E.C., Nelson, R.W., Canine and Feline Endocrinology and Reproduction. W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1996.
Griffin, C.: Linear preputial erythema. Proc. Am. Acad. Vet. Dermatol. Am. Coll. Vet. Dermatol. 2:35, 1986.
Ettinger, S.J., Feldman, E.C., Textbook of Veterinary Internal Medicine, W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1995.
Gulikers, K.P., Panciera, D.L., Influence of Various Medications on Canine Thyroid Function. Compendium, Vol.24, No.7 July 2002.
Indirizzo per la corrispondenza:
Anna Corato, Ambulatorio San Giuseppe
Viale Spolverini 25 /A, 37131, Verona
Tel. 045533754
[email protected]
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465
UTILIZZO DELLA PCR PER LA RICERCA DI LEISHMANIA SPP E MYCOBACTERIUM SPP
NELLA SINDROME DEL PIOGRANULOMA/GRANULOMA STERILE CUTANEO DEL CANE (SPGS)
Luisa Cornegliani1 Med Vet, Dolors Fondevila2 Med Vet Dipl ECVP
Antonella Vercelli1 Med Vet Dipl Ces, Alessandra Fondati2 Med Vet Dipl ECVD
1
Libero professionista, Torino
2
Facoltà di Medicina Veterinaria, Università Autonoma di Barcellona (S)
Introduzione: La sindrome piogranuloma/granuloma sterile cutaneo del cane è una malattia dermatologica poco comune e di
eziopatogenesi sconosciuta. È stato ipotizzato che la SPGS possa essere collegata ad una risposta immunologica nei confronti
di antigeni endogeni e/o esogeni persistenti. La conferma della diagnosi si ha con l’esame istopatologico e per l’impossibilità di
evidenziare un agente eziologico. La leishmaniosi canina (LC) può avere caratteristiche istologiche simili alla SPGS. Nell’uomo, invece, alcune malattie granulomatose sterili nodulari, come la sarcoidosi, sono state associate ad infezioni da Mycobacterium spp. Per questi motivi, si è voluto ricercare Leishmania spp. e/o Mycobacterium spp. con la metodica PCR nei campioni
istologici diagnosticati come piogranulomi/granulomi sterili.
Materiali e metodi: Si è condotto uno studio retrospettivo su 46 campioni istologici cutanei paraffinati con precedente diagnosi di SPGS, dove non era stato possibile evidenziare corpi estranei od organismi con l’osservazione alla luce polarizzata ed alla
colorazione standard con ematossilina-eosina. Su questi istologici sono state eseguite colorazioni speciali quali PAS, Ziehl-Neelsen e Gram per escludere patogeni quali funghi, batteri acido-resistenti e gram positivi. La PCR è stata applicata a tutti i 46 campioni per la ricerca di Leishmania spp e Mycobaterium spp.
Risultati: La PCR è risultata positiva per la ricerca di Leishmania in 21 dei 46 campioni. Al contrario la PCR per la ricerca di
Mycobacterium spp è stata negativa in tutti i campioni esaminati.
Conclusioni: Nelle aree endemiche per la LC la presenza di infezione da Leishmania spp dovrebbe essere esclusa in tutti i referti istologicamente compatibili con SPGS. A questo scopo l’utilizzo della PCR è risultato molto utile e facilmente applicabile anche sui campioni istologici paraffinati. L’identificazione di Mycobacterium spp è risultata negativa nel gruppo selezionato,
ma questo può essere dovuto al numero limitato dei medesimi ed alla raccolta effettuata in area non endemica per Micobatteriosi nel cane.
Ringraziamenti: Il presente lavoro è stato realizzato grazie al contributo economico fornito dalla borsa di studio SIDEV.
Bibliografia
Ferrer L et al: Atypical nodular leishamiasis in two dogs. Vet Rec 126 (27): 90, 1990.
Torres SM: Sterile nodular dermatitis in dogs. Vet Clin North Am Small Anim Prac 29 (6): 1311-23, 1999.
Indirizzo per la corrispondenza:
Luisa Cornegliani, Med Vet
Via Mario Borsa 63/163 - 20151 Milano
Tel./Fax +39-02-3536233 - Cell. +39-338-8536035
E-mail: [email protected]
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LA SPETTROSCOPIA DI RISONANZA MAGNETICA PROTONICA (1H-NMR)
PER L’ANALISI DEL LIQUIDO SINOVIALE DEL CANE: INDAGINE PRELIMINARE
Antonio Crovace1 Prof Med Vet, Luca Lacitignola1 Med Vet, Alda Miolo2
1
Dipartimento delle Emergenze e dei Trapianti d’Organi (D.E.T.O.),
Sezione di Chirurgia Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Bari
2
Ce.D.I.S. (Centro di Documentazione e Informazione Scientifica) Innovet Srl
Introduzione: La spettroscopia di risonanza magnetica nucleare (1H-NMR) rappresenta uno dei più sofisticati mezzi d’indagine; da tempo è impiegata nell’uomo per individuare e quantificare simultaneamente nei liquidi biologici (es. urine, plasma, liquor) un grande numero di metaboliti, considerati indicatori attendibili di diversi stati patologici e del loro pattern evolutivo.
Specificatamente in Ortopedia Veterinaria, l’1H-NMR è stata finora utilizzata nel cavallo, dove si è rivelata utile sia per stabilire il profilo metabolico normale del liquido sinoviale, sia per analizzarne le variazioni in corso di specifiche artropatie (es. artrosi, artrite settica).
Scopo: Dati questi presupposti, scopo della presente indagine preliminare è quello di verificare l’applicabilità della spettroscopia 1H-NMR ad alta risoluzione all’analisi del liquido sinoviale del cane.
Materiali e metodi: I campioni di liquido sinoviale sono stati: 1) prelevati per artrocentesi dal ginocchio (recesso anteriore inferiore dell’articolazione femoro-tibio-rotulea) di 10 cani di taglia grande/gigante, di età compresa tra i 12 mesi e i 6 anni e con
diagnosi di gonartrosi; 2) centrifugati a 14.000 rpm per 15’; 3) conservati a -80° C. Successivamente, i campioni da sottoporre
ad indagine spettroscopica sono stati ottenuti miscelando 420 µl di liquido sinoviale con 280 µl di una soluzione di una sostanza standard di riferimento (TSP, 3-trimetilsilyl 3,3,2,2-tetradeuteropropionato di sodio) in acqua deuterata (0,1 mg TSP/1 ml
D20) e quindi inseriti negli appositi tubi NMR di 5 mm di diametro. Gli spettri sono stati eseguiti sullo spettrometro Bruker
Avance DRX 500, provvisto di un criomagnete operante a 11 Tesla, in dotazione presso il consorzio CARSO (Cancer Research
Consortium) di Valenzano (BA). Nella modalità lock gli spettri sono stati registrati agganciando la scala di frequenza alla frequenza di risonanza del deuterio. Per i campioni in questione sono stati accumulati 256 transienti, utilizzando per ciascuno un
impulso di 4,0 sec corrispondente ad un flip angle di 45°, un tempo di acquisizione di 2,3 sec ed un successivo tempo di rilassamento di 2 sec. La zona spettrale indagata in tutti gli spettri è stata quella compresa fra 0 e 8 ppm.
Risultati: La tecnica spettroscopica 1H-NMR ha permesso di rilevare contemporaneamente diversi metaboliti nel liquido sinoviale del cane, che, in assenza di tale metodica, avrebbero richiesto indagini separate su campioni differenziati. In particolare,
accanto ai normali prodotti del metabolismo cellulare (es. piruvato, citrato), sono state individuate sostanze legate sia alla degradazione della matrice cartilaginea (es. acetato) che alla presenza di uno stato infiammatorio ed ossidativo endoarticolare (es.
lattato, creatinina).
Conclusioni: Sulla scorta dei risultati ottenuti, si può asserire che, anche nel cane, come già nell’uomo e nel cavallo, l’analisi
spettroscopica 1H-NMR fornisce un metodo di identificazione diretta e simultanea di svariati metaboliti presenti nel campione
in esame, senza che per ognuno di essi debba essere effettuata una specifica ricerca. In tal senso, tale metodica potrebbe configurarsi come valido aiuto non solo per una puntuale e tempestiva diagnosi differenziale delle varie artropatie nel cane, ma anche per la valutazione dell’eventuale efficacia di specifici trattamenti farmacologici.
Bibliografia
Crovace A, Fanizzi FP, Di Bello A, Francioso E, Straziota V, 2001, Analisi del liquido sinoviale di cavallo mediante spettroscopia di risonanza magnetica protonica, Atti VIII Congresso Nazionale SICV, 20-23 giugno, Olbia, pp. 98-103.
Lacitignola L, Fanizzi PF, Di Bello A, Francioso E, Crovace A, 2002, La spettroscopia di risonanza magnetica protonica (HNMR) nella valutazione comparativa del liquido sinoviale del nodello in cavalli sani e con osteoartrosi, Atti IX Congresso Nazionale SICV, 20-22 giugno, Legnaro (PD), pp. 119-124.
Indirizzo per la corrispondenza:
Antonio Crovace, D.E.T.O. - Sezione di Chirurgia Veterinaria
Strada provinciale per Casamassima Km 3, 70010 Valenzano (Bari)
Tel. 080 4679817 - Fax 080 4679890
E-mail: [email protected]
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OSTEOSARCOMA DI BASSO GRADO NEI SENI PARANASALI IN UN GATTO
Gianfranco Danzi1 Med Vet, Fabio Del Piero2 DVM Dipl ACVP Prof
Libero professionista, Roma; 2Departments of Pathobiology, Department of Clinical Studies NBC,
PADLS School of Veterinary Medicine, University of Pennsylvania Philadelphia- Kennett Square, USA
1
Introduzione: Vengono descritti la presentazione clinica, la morfologia e gli aspetti terapeutici e prognostici di un caso di osteosarcoma di basso grado etmoidale di una gatta.
Segnalamento, segni clinici, patologia, terapia: Un gatto europeo femmina di 13 anni venne sottoposto alla nostra attenzione
per un disturbo respiratorio cronico caratterizzato da dispnea, rinorrea sierosa monolaterale destra, respirazione dicrota ed anoressia. In anestesia generale furono eseguite delle proiezioni radiografiche craniali “a bocca aperta” laterolaterali e ventrodorsali, ed un’esplorazione manuale delle strutture retrofaringee e nasali e della bocca. La proiezione “a bocca aperta”, permise l’identificazione di un’area patologica radiodensa ed omogenea situata nelle strutture emipalatali profonde a destra. L’area appariva ben demarcata, senza deformazioni della teca ossea facciale e palatale, ma con alterazioni rarefacenti dell’architettura ossea dei seni ethmo-sfenoidali di destra. L’ispezione visiva delle strutture retrofarigee e delle coane nasali, del lume nasale non
rivelò alcuna alterazione, ma la progressione dello strumento ottico era limitata a destra da un rigonfiamento delle strutture tale da impedire il passaggio dell’aria attraverso la narice di destra. Venne effettuato un prelievo incisionale del tessuto patologico che permise una diagnosi presuntiva di osteosarcoma. Il soggetto quindi fu sottoposto ad etmoidectomia esterna per via rinotomica praticando una incisione dorsale della cute sulla linea mediana a ridosso delle ossa nasali e frontali a tutto spessore
comprendente il periostio, l’osteotomia sulla sutura frontonasale per l’esposizione delle strutture etmoidali venne limitata al solo lato destro trattandosi di lesione monolaterale. All’esplorazione diretta fu identificata una lesione solida, ben delimitata, ovalare, a ridosso delle ossa tecali inglobante i turbinati che, estendendosi in senso cranio-caudale, ostruiva il lume respiratorio. La
massa venne rimossa dalla sua sede intraossea. La cavità venne accuratamente curettata e dilavata, il periostio suturato con punti singoli di materiale riassorbibile ed infine fu apposta una sutura intradermica senza punti esterni. La biopsia escissionale rivelò un osteosarcoma di basso grado ben demarcato composto da cellule fusate e rotonde e poligonali simil osteoblastiche con
produzione di abbondante collageno e sostanza osteoide. Sospesa la terapia medica post-operatoria, si presentò una sinusite recidivante di entità variabile e venne ripresa la terapia scalare con prednisolone per via orale. Il controllo radiografico a 3 mesi
evidenziò una notevole perdita dell’architettura ossea dei seni, a 10 mesi notammo un notevole rimodellamento degli stessi con
aumento di densità ossea senza aree neoplastiche. A più di un anno dall’intervento il paziente non presenta segni clinici e di ricrescita neoplastica.
Discussione e conclusioni: Gli osteosarcomi sono neoplasie rare nei gatti e la maggior parte sono di origine scheletrica. L’osteosarcoma di basso grado rappresenta l’1% di tutti gli osteosarcomi nell’uomo ed ha prognosi favorevole. Nei gatti e nei cani, a nostra conoscenza, non è stato mai descritto precedentemente. La diagnosi differenziale viene fatta con la displasia fibrosa, che è molto circoscritta e con osteosarcomi di grado maggiore. Nel nostro caso la lesione appare originare dagli endoturbinati. L’etmoidectomia esterna (rinotomia), rappresenta un pratico accesso chirurgico nel gatto con ottimo risultato estetico.
La bibliografia è disponibile presso gli autori.
Indirizzo per la corrispondenza:
Dr. Gianfranco Danzi
Via Machiavelli 7 - 00185 Roma
E-mail: [email protected]
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SARCOMA INDIFFERENZIATO ORONASALE IN UN CANE AIREDALE TERRIER
Gianfranco Danzi1 Med Vet, Fabio Del Piero2 DVM Dipl ACVP Prof
Libero professionista, Roma; 2Departments of Pathobiology, Department of Clinical Studies NBC,
PADLS School of Veterinary Medicine, University of Pennsylvania Philadelphia- Kennett Square, USA
1
Introduzione: Qui descriviamo la presentazione clinica, la morfologia e gli aspetti terapeutici e prognostici di un sarcoma indifferenziato invadente la cavità nasale e il palato di una cagna Airedale terrier.
Segnalamento, segni clinici, patologia, terapia: Un Airedale terrier femmina di 7 anni venne presentata alla nostra attenzione
perché affetta da una massa palatale irregolare ulcerata, 3 cm, sinistra a ridosso del 4 pm e 1°-2° molare. Per rimuovere la massa effettuammo una maxillectomia distale con courettage profondo delle strutture adiacenti alla lesione che appariva originare
dalle cavità nasali dove aveva una forma polipoide. La massa venne rimossa attraverso un accesso endorale, mentre parte dell’osso mascellare e dell’osso palatale ed i denti dell’arco mascellare sinistro furono rimossi in quanto coinvolti dal processo neoplastico. Elevato un lembo vestibolare molto ampio venne quindi suturato al lembo palatale. L’esame istologico rivelò la presenza di un sarcoma a cellule fusate indifferenziato. A 5 mesi dall’intervento chirurgico non venne identificata alcuna anomalia
tramite esame radiografico, ma al settimo mese la paziente venne riportata alla nostra attenzione per la presenza di una massa
palatale con tendenza all’ulcerazione. Su richiesta dei proprietari la paziente venne sottoposta ad eutanasia e l’intera massa viene rimossa effettuando un esame necroscopico della parte. La massa era composta da cellule fusiformi mesenchimali, oocasionalmente stellate, talvolta binucleate e multinucleate, con alcuni megalociti, formanti dei fasci lineari talvolta di aspetto neuroide con infrequenti vortici e palizzate. Le figure mitotiche non erano fequenti. Lo stroma era frequentemente lasso, con sparsi
vasi neoformati. Alcune aree erano moderatamente o gravemente infiammate oppure caratterizzate da ampie aree di necrosi.
Chiare caratteristiche di malignità non erano presenti in tutte le numerose sezioni effettuate. Le cellule neoplastiche presentavano reattività intracitoplasmica per la vimentina V9 e non esprimevano i seguenti epitopi: S100, melan A, cromogranina A, citocheratina LU5, enolasi specifica neuronale, desmina, actina muscolare liscia. Sulla base di questi dati morfologici ed immunoistochimici fu emessa la diagnosi di sarcoma indifferenziato.
Discussione e conclusione: I sarcomi indiffrerenziati sono neoplasie mesenchimali maligne localmente invasive con comportamento paragonabile a quello di altre neoplasie maligne mesenchimali quali il fibrosarcoma, le neoplasie maligne del rivestimento dei nervi periferici, l’emangiopericitoma, il leiomiosarcoma. Pensiamo che in questo caso la neoplasia abbia iniziato la
sua crescita partendo a livello degli endoturbinati per poi invadere e manifestarsi clinicamente a livello orale. Tecnicamente la
rimozione chirurgica risulta fattibile, ma la rimozione completa della neoplasia può risultare difficile data la complessità e delicatetzza dell’area anatomica coinvolta. Non ci risulta che una neoplasia di questo tipo sia stata descritta nelle aree coinvolte in
questo paziente.
La bibliografia è disponibile presso gli autori.
Indirizzo per la corrispondenza:
382, W. Street Road, Kennett Square, Pennsylvania, 19348-1692, USA
E-mail: [email protected]
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STUDIO ECOGRAFICO BIDIMENSIONALE E DOPPLER SPETTRALE DEL FLUSSO ARTERIOSO
INTRANODALE IN CORSO DI LINFOADENOMEGALIA PERIFERICA: ESPERIENZA IN SEDICI CANI
Daniele Della Santa1 Med Vet, Simonetta Citi1 Med Vet, Marco Ringressi1 Med Vet, Alessandra Gavazza1 Med Vet,
Veronica Marchetti1 Med Vet, Aida Di Genova2 Med Vet
1
Dipartimento di Clinica Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Pisa
2
Libero professionista, Pisa
Introduzione: In medicina umana la valutazione ecografica della morfologia linfonodale e lo studio doppler della vascolarizzazione intranodale costituiscono un’utile integrazione alla valutazione clinica e laboratoristica della linfoadenomegalia.
Obiettivo: Lo scopo del presente studio è valutare l’utilità dell’esame ecografico B-mode e doppler nello studio dei linfonodi
superficiali in corso di linfoadenomegalia nel cane.
Materiali e metodi: Sono stati inclusi nello studio cani con megalia di uno o più linfonodi superficiali. Questi sono stati sottoposti ad esame ecografico bidimensionale e duplex-doppler. I parametri ecografici valutati sono: il profilo, il rapporto tra asse
maggiore e minore, la presenza di aree di disomogeneità, il rapporto quantitativo tra corticale e midollare. È stato quindi registrato il tracciato spettrale del flusso arterioso intranodale a livello ilare e calcolato l’indice di resistività. I linfonodi studiati sono stati suddivisi in due gruppi sulla base della natura (infiammatoria o neoplastica) della linfoadenomegalia (determinata sulla
base dei risultati dell’esame citologico o istologico). I valori dell’indice di resistività nei due gruppi sono stati quindi confrontati tra loro allo scopo di determinare la significatività statistica dell’eventuale differenza riscontrata.
Risultati: Sedici linfonodi superficiali appartenenti ad altrettanti cani sono stati inclusi nello studio. L’esame cito/istologico
identificava: iperplasia reattiva da leishmania (4/16), linfoadenite (6/16), linfoma (3/16) e neoplasia metastatica (3/16). Il profilo è risultato regolare in 11/16 linfonodi. In 5/11 l’adenopatia era infiammatoria, in 6/11 neoplastica; i 5 linfonodi con profilo
irregolare presentavano un quadro infiammatorio. 8/16 linfonodi avevano un rapporto asse maggiore/asse minore superiore a 1,9.
In 6/8 la linfoadenomegalia era di natura infiammatoria, in 2/8 neoplastica. Dei rimanenti 8 linfonodi con rapporto asse maggiore/asse minore inferiore a 1,9, 4/8 presentavano un quadro neoplastico e 4/8 infiammatorio. Aree disomogenee sono state riscontrate in 7/16 linfonodi; di questi 4/7 con linfoadenomegalia di origine neoplastica e 3/7 infiammatoria. 7/9 linfonodi con immagine ecografica omogenea presentavano un’adenopatia infiammatoria e 2/9 neoplastica. In 2/16 linfonodi non è stato possibile determinare adeguatamente il rapporto cortico/midollare. In 3/14 linfonodi (tutti neoplastici) è stato rilevato un aumento della sola corticale con conseguente aumento del rapporto cortico-midollare. In 9/14 linfonodi è stato rilevato un aumento della midollare accompagnato da una corticale molto sottile. Di questi, 8/9 presentavano un quadro infiammatorio e 1/9 neoplastico. In
1/14 linfonodi (affetto da patologia infiammatoria) è stato evidenziato un aumento della componente midollare con una corticale di spessore normale. In un linfonodo affetto da linfoma la midollare non è stata evidenziata. I linfonodi neoplastici hanno
presentato un indice di resistività medio di 0,802 (range: 637-0,905); viceversa il valore medio riscontrato nei linfonodi affetti
da una patologia infiammatoria è risultato di 0,607 (range: 0,478-0,696). Tale differenza è risultata statisticamente significativa
(p < 0,01).
Discussione: I rilievi ecografici con maggior valore predittivo indirizzano tutti verso un’eziologia infiammatoria: irregolarità del
profilo (valore predittivo positivo pari al 100%), rapporto asse maggiore/asse minore maggiore di 1,9 (75%), ecostruttura omogenea (78%), aumento della componente midollare con corticale molto sottile (89%). L’indice di resistività è un parametro che
sembra avere un valore diagnostico significativo.
Indirizzo per la corrispondenza:
Daniele Della Santa
Dipartimento di Clinica Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Pisa
Via Livornese, 56010 San Piero a Grado (PI)
Tel. 340-3126931; 050-31351 - Fax 050-3135182; 0566-58058
E-mail: [email protected]
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470
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INDUZIONE DELL’OVULAZIONE IN ELAPHE GUTTATA MEDIANTE CONDIZIONAMENTO
AMBIENTALE. OSSERVAZIONI PRELIMINARI
Francesco Di Ianni1 DVM, Enrico Bigliardi1 DVM, Alberto di Donato2 DVM
Giorgio Morini1 DVM, Enrico Parmigiani1 DVM MS
1
Sezione di Clinica Ostetrica e Riproduzione Animale, Facoltà di Medicina Veterinaria
2
Istituto Zooprofilattico di Parma
Scopo del lavoro: L’allevamento dei rettili in cattività ha raggiunto negli ultimi anni un livello considerevole. L’Elaphe guttata,
originaria degli USA, è uno degli ophidi maggiormente allevati in Europa. Scopo del presente lavoro è stato quello di valutare
la possibilità di indurre un ciclo estrale fertile in relazione alle variazioni del fotoperiodo, della temperatura, dell’apporto alimentare e della presenza del maschio. Il ciclo riproduttivo è di tipo monoestrale stagionale. È utile poter modulare le nascite degli animali che si riproducono stagionalmente per essere più competitivi sul mercato. È quindi indispensabile conoscere quali
varianti ambientali influenzino in modo indicativo l’ovulazione senza compromettere l’efficienza riproduttiva.
Metodi impiegati: Il campione era rappresentato da dodici coppie di Elaphe guttata nate in cattività e in età riproduttiva. La selezione dei soggetti si è basata in funzione della fertilità, dello sviluppo corporeo e dello stato di salute generale. Gli animali sono stati deparassitati con frequenza annuale e l’alimentazione era costituita da topi vivi, topi e pulcini congelati provenienti da
un allevamento S.P.F. Sono stati adottati cinque diversi condizionamenti ambientali che prevedevano: 1) Condizionamento standard tipo 1: 5 ore di luce e una temperatura di 18° C dal 1° ottobre al 1° febbraio, 7 ore di luce e 18° C fino al primo di marzo, 9 ore di luce e 22° C fino al primo di aprile, 14 ore di luce e 25° C fino al primo luglio, 14 ore di luce e 30° C fino al primo settembre, 14 ore di luce e 22° C fino al 30 settembre. I pasti in numero di 13 sono iniziati il giorno 10 marzo e sono finiti
il giorno 10 maggio. Introduzione del maschio durante la muta preovulatoria. 2) Condizionamento tipo 2: un anticipo di 45 giorni rispetto al Condizionamento standard tipo 1 del fotoperiodo positivo (incremento del fotoperiodo dal 15 dicembre). 3) Condizionamento tipo 3: un condizionamento anticipato di 45 giorni rispetto al Condizionamento standard tipo 1 dell’incremento
della temperatura (iniziato il 15 febbraio). 4) Condizionamento tipo 4: condizioni uguali al Condizionamento standard tipo 1
ma con presenza continua del maschio. 5) Condizionamento tipo 5: Condizioni uguali al Condizionamento standard tipo 1 con
somministrazione del primo pasto con temperature inferiori a 22°. Quattro coppie, denominate come gruppo A, sono state stabulate in una stanza con condizionamento standard tipo 1, 4 coppie, gruppo B, sono state sottoposte ad un “condizionamento di
tipo 2” per un anno; 4 coppie, gruppo C, sono state sottoposte ad un “condizionamento tipo 3”. L’anno successivo tutti i gruppi sono rimasti a riposo con “condizionamento standard tipo 1”. Il terzo anno sono stati applicati i condizionamenti tipo 4 al
gruppo B e tipo 5 al gruppo C. Il maschio è stato introdotto durante la muta preovulatoria. Gli animali sono stati ricoverati in
contenitori di plastica con dimensioni 60x40x30 cm, dotati di tappetini riscaldanti elettrici termostatati per il controllo della temperatura e lampade al neon poste in corrispondenza dei lati trasparenti. In ogni box era presente una ciotola per l’acqua, un nascondiglio ed una lettiera di segatura depolverizzata.
Risultati ottenuti: Gli accoppiamenti nel gruppo A sono avvenuti dopo 15 giorni dall’introduzione del maschio e le deposizioni dopo 60 giorni (valori medi). La schiusa è avvenuta dopo due mesi. Nel gruppo B le deposizioni sono avvenute con un anticipo medio di 30 giorni rispetto al gruppo di controllo. Nel gruppo C le deposizioni sono state anticipate in media di 34 giorni
rispetto al controllo. La presenza continua del maschio non ha prodotto modificazioni significative. La somministrazione del cibo con temperature inferiori ai 22° C ha causato rigurgito ed è stata pertanto sospesa e il gruppo eliminato dallo studio.
Conclusioni: I risultati mostrano che la deposizione delle uova negli Ophidi Elaphe guttata è condizionata prevalentemente dalla temperatura e in secondo luogo dall’esposizione alla luce. La presenza continua del maschio sembra non esercitare nessun influsso sull’anticipo della deposizione.
Indirizzo per la corrispondenza:
Università degli studi di Parma, Sezione di Clinica Ostetrica e Riproduzione Animale
Via del Taglio, 8 - 43100 Parma
Tel. 0521- 902739 - Fax 0521-902662
E-mail: [email protected]
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471
ALLESTIMENTO E APPLICAZIONE DI UNA PCR-RFLP NELLA DIAGNOSI
DELL’INFEZIONE DA EHRLICHIA CANIS NEL CANE
Barbara Di Martino1 Med Vet, Cristina E. Di Francesco1 Med Vet, Ottavio Palucci1 Med Vet,
Claudio D’Antonio2 Med Vet, Rina Di Girolamo2 Med Vet, Fulvio Marsilio1 Med Vet
1
Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate Università degli Studi di Teramo
2
Libero professionista, Alba Adriatica - Teramo
L’ehrlichiosi è una malattia trasmessa da zecche che colpisce i mammiferi domestici e l’uomo causata da patogeni intracellulari obbligati appartenenti alla fam. Anaplasmataceae. Ehrlichia canis agente eziologico dell’Ehrlichiosi monocitica canina
(CME) ed Ehrlichia platys responsabile della Trombocitopenia ciclica infettiva (TCI), sono considerate le specie più patogene
e prevalenti per il cane. Tuttavia l’utilizzo sempre più frequente delle tecniche molecolari ha permesso di ottenere informazioni più precise sulla recettività naturale del cane anche ad infezioni sostenute da altre specie quali E. chaffeensis, Anaplasma
phagocitophila comb. nov. (E. equi, E. phagocitophila e HGE), E. ewingii ed E. risticii, giustificando pertanto, la preoccupazione circa il ruolo del cane quale potenziale reservoir di zoonosi. Le metodiche diagnostiche impiegate per il riconoscimento
delle infezioni ehrlichiali sono l’immunofluorescenza indiretta (IFI) utilizzata per la ricerca degli anticorpi e la Polymerase
Chain Reaction (PCR) basata sull’amplificazione di frammenti genomici inclusi nel gene 16S rRNA ed in grado di evidenziare sequenze di DNA. Tuttavia, a causa della stretta correlazione fenotipica e genotipica esistente tra le diverse specie di ehrlichia, entrambe le tecniche presentano dei limiti relativi alla corretta esecuzione della diagnosi eziologica e differenziale. Lo
scopo del presente lavoro è stato l’allestimento di una tecnica di PCR-RFLP specifica per il gene della citrato sintetasi (gltA)
di E. canis ed in grado di differenziare l’infezione di questa ehrlichia da quelle sostenute da E. platys, E. chaffeensis, E. risticii e Anaplasma phagocitophila comb. nov. Per la messa a punto della PCR è stato utilizzato il ceppo Oklahoma di E. canis
coltivato su linea cellulare DH82, entrambi forniti dal dr. W. Nicholson (Center for Disease Control and Prevention, Atlanta,
USA). L’estrazione del DNA è stata eseguita con un kit del commercio (Dneasy Tissue kit, Qiagen). La sequenza bersaglio per
la reazione di amplificazione di E. canis ha una lunghezza di 510 bp ed è inclusa nel gene gltA. La miscela di reazione è stata
allestita in 50 µl di volume totale contenente DNA nella quantità di 3 µl, Buffer 10X, 200 µM di dNTPs, 1,25 U di enzima HotMaster Taq DNA Polymerase (Eppendorf) e 100 pmol di ciascun primer Ecf ed Ecr. Il prodotto di amplificazione è stato ottenuto con 35 cicli di denaturazione a 94° C per 45”, annealing a 58° C per 45” ed estensione a 72° C per 45”. Per l’identificazione definitiva di E. canis eseguita mediante RFLP, è stato utilizzato l’enzima HINDIII (Biolabs, New England), il quale riconoscendo la sequenza A↓AGCTT, è in grado di tagliare il prodotto di amplificazione specifico per E. canis in due frammenti rispettivamente di 310 e 200 bp. La metodica allestita è stata quindi applicata su n° 85 campioni di buffy coats provenienti
da cani la cui sintomatologia era riferibile ad infezione da E. canis. Inoltre, i campioni di siero di tutti i cani sono stati sottoposti ad indagine sierologica nei confronti di E. canis mediante IFI. Relativamente alla PCR è stata ottenuta l’amplificazione
in due soggetti (2,35%) di un frammento di 510 bp, la cui successiva analisi di restrizione ha permesso di identificarlo come
appartenente alla specie E. canis. L’indagine sierologica ha evidenziato la presenza di anticorpi a titolo variabile in n° 11 cani
(12,94%) ed in particolare, nei due soggetti risultati positivi alla PCR-RFLP il titolo è stato di 1:10.000. In conclusione, considerando la bassa prevalenza dell’infezione riscontrata nel campione esaminato e clinicamente sospetto, è auspicabile che nei
cani con segni clinici riferibili ad ehrlichiosi vengano eseguite indagini finalizzate ad identificare non solo E. canis ma anche
eventuali altre specie ehrlichiali e/o rickettsiali.
Indirizzo per la corrispondenza:
Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate, Facoltà di Medicina Veterinaria,
Università degli Studi di Teramo
Piazza Moro, 45, 64100 Teramo
Tel./Fax +39.0861412868
E-mail: [email protected]
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472
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ESEMPI DI TERAPIA OMEOPATICA NELLA CURA DI CANI
AFFETTI DA DISPLASIA DELL’ANCA
Mauro Dodesini Med Vet
Libero professionista, Bergamo
Scopo del lavoro: Dimostrare che non esise un aproccio esclusivamente chirurgico alla patologia, ma anche una terpia medica.
Metodo impiegato: Dopo avere diagnosticato la displasia dell’anca con un esame radiografico viene impostata una terapia
esclusivamente omeopatica individuale: la scelta del Rimedio è in funzione dei sintomi del paziente. In particolare viene rivalutato l’esame semiologico:
a) anamnesi con raccolta di patologie pregresse, b) un attento esame ispettivo aiuta a distinguere gli atteggiamenti fisiologici da
quelli patologici e/o antalgici, c) la presenza o meno di una limitazione motoria, d) la verifica dell’esistenza di patologie della
colonna vertebrale, e) il trofismo delle masse muscolari.
Determinante nella scelta del rimedio è l’esame funzionale dell’animale in stazione, movimento e decubito raccogliendo le modalità di insorgenza e di manifestazione considerando anche le modalità di miglioramento e di peggioramento.
Nel cane in crescita la presenza o meno di lassità legamentosa (diagnosticata sia manualmente che con l’osservazione dell’andatura), di eventuali malformazioni ossee o problemi di sviluppo cartilagineo.
Risultati ottenuti: Distinguo due età:
a) Cane in crescita: possiamo verificare la presenza di malformazioni ossee, ma prevale
numericamente l’incidenza della lassità legamentosa. In entrambi i casi la terapia omeopatica individuale, quando corretta, permette un recupero funzionale del soggetto. Durante la relazione verranno proiettate radiografie e video di cani che, a sviluppo
ultimato, hanno risolto il problema della lassità legamentosa, mentre la malformazione ossea ovviamente permane ma senza pregiudicare la funzionalità dell’articolazione dell’anca.
b) Cane adulto: verranno proiettate radiografie e video di cani di grossa taglia di età matura
affetti da displasia dell’anca di diverso grado che manifestavano evidenti limitazioni della mobilità articolare e che hanno recuperato in un tempo relativamente breve sia la funzionalità d’uso dell’articolazione, che il trofismo muscolare.
Conclusioni: Scelto il Rimedio Omeopatico corretto posso assicurare un’altissima percentuale di recupero funzionale dei pazienti siano essi cuccioli di grossa taglia in crescita che soggetti adulti o anziani anche di grossa taglia. Il limite di queste terapie è noto: il Rimedio è per il paziente che manifesta esattamente quel tipo di sintomi, non può essere somministrato indistintamente a tutti i soggetti affetti da questa patologia. Al tempo stesso il metodo è strettamente scientifico: il Rimedio Omeopatico
è ripetibile a tutti quei soggetti che manifesteranno proprio “quel particolare” corredo sintomatologico.
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ALTERAZIONI MACROSCOPICHE DELLA MILZA E RILIEVI ISTOPATOLOGICI: 53 CASI
Pierluigi Fant1 Med Vet, Marco Caldin1,2 Med Vet, Tommaso Furlanello1,2 Med Vet, Clara Tullio2 Med Vet
1
Laboratorio d’Analisi Veterinarie Private “San Marco”
2
Clinica Veterinaria Privata “San Marco”
La patologia splenica ha un ruolo importante nella pratica veterinaria in quanto causa primaria o manifestazione secondaria dell’alterazione dello stato di salute del paziente. La milza può essere valutata mediante procedure fisiche (palpazione trans-cutanea o visualizzazione in sede celiotomica) o strumentali (esame radiografico, ecografico e tomografico). Devono essere valutate la topografia, le dimensioni, la forma ed entro certi limiti la struttura tissutale della milza. Alla constatazione di un’anomalia
macroscopica talvolta segue la splenectomia. Tra i riscontri patologici macroscopici più frequenti viene annoverata la splenomegalia, ossia l’aumento di volume in modo uniforme o focale dell’organo. Il contributo dell’esame istologico è fondamentale
nel riconoscere la natura dello stato patologico: la splenomegalia uniforme può essere secondaria ad una congestione passiva
(somministrazione di barbiturici, torsione, trombosi) o attiva (infezione sistemica acuta), ad un’aumentata eritrofagocitosi associata ad ematopoiesi extra-midollare oppure ad infiltrazione neoplastica diffusa. La splenomegalia nodulare viene riscontrata in
caso d’iperplasia linfoide nodulare, ematomi ed in alcune condizioni neoplastiche.
Nel periodo compreso tra Giugno 2001 e Novembre 2003 sono stati esaminati i dati epidemiologici, clinici ed isto-patologici di
53 cani di cui 20 sottoposti a splenectomia, 6 a campionamento bioptico splenico e 27 ad esame necroscopico. L’analisi epidemiologica rivela una netta maggioranza di soggetti adulti, con distribuzione pressoché equa in funzione del sesso ed un’ampia
diversificazione di razza, con frequenza superiore di soggetti di razza pastore tedesco e meticcio. Il campionamento istopatologico è stato eseguito a causa di alterazioni macroscopiche in 47 casi: splenomegalia uniforme in 17 casi, nodulare in 30. In 6 casi non si rilevavano alterazioni macroscopiche e l’esame istopatologico della milza veniva richiesto in sede autoptica nell’ambito di una valutazione complessiva. L’esame istologico rivelava l’esistenza di una patologia non tumorale in 35 casi (congestione-emorragia, ematopoiesi extra-midollare, iperplasia linfoide, necrosi e flogosi) ed in 18 casi la presenza di una patologia
tumorale, più della metà dei quali con interessamento simultaneo di altri organi tra i quali spicca per frequenza il fegato.
Il confronto tra i dati macroscopici ed istopatologici rivela che la splenomegalia nodulare è associata ad una patologia tumorale nel 50% dei casi (15 su 30, di cui 4 emangiosarcomi, 3 emangiomi, 3 sarcomi, 2 carcinomi metastatici, una neoplasia megacariocitaria, un’istiocitosi maligna ed un tumore poco differenziato a cellule rotonde). La splenomegalia uniforme è associata ad
una patologia tumorale nel 17% dei casi (3 su 17 di cui un linfoma, una leucemia linfoide ed un mastocitoma). In nessuno dei
casi in cui macroscopicamente la milza appariva normale sono state osservate lesioni tumorali (in uno si notava un’ematopoiesi extra-midollare).
Dal punto visto epidemiologico si può constatare che i casi di emangiosarcoma sono stati riscontrati unicamente in soggetti di
razza Boxer e Pastore tedesco. Inoltre il solo caso accertato di istiocitosi maligna splenica è stato osservato in un Rottweiler (razza predisposta per questa forma tumorale), mentre un secondo Rottweiler, affetto dalla medesima patologia, presentava localizzazioni polmonare, linfonodale-mediastinica ed epatica ma non splenica, con il semplice reperimento una ematopoiesi extramidollare. Citiamo infine un caso insolito di linfoma a localizzazione splenica e vescicale (quest’ultima considerata come probabile sito tumorale primario).
Le lesioni nodulari della milza, in base ai dati da noi raccolti, riconoscono più frequentemente un’eziologia neoplastica rispetto alle forme di splenomegalia uniforme.
Indirizzo per la corrispondenza:
Laboratorio San Marco
Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova
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VANTAGGI, CONTROINDICAZIONI E IMPATTO SUL PROPRIETARIO DELLA VIDEOREGISTRAZIONE
NELLA VISITA COMPORTAMENTALE
Franco Fassola
Medico Veterinario, Asti
In questa ricerca si è presa in considerazione una situazione ben definita, rappresentata dalla visita comportamentale condotta
in ambito ambulatoriale.
Questa premessa è importante, in quanto la telecamera necessaria alla videoregistrazione dovrebbe diventare un elemento del
setting dove si muovono il medico veterinario comportamentalista, il proprietario dell’animale e l’animale stesso. L’ambiente
dovrebbe essere sotto il completo controllo del veterinario che lo ha costruito secondo le sue esigenze, per cui le variabili impreviste, che disturbano la relazione che si va creando con il proprietario del cane dovrebbero essere ridotte al minimo.
Quanto detto non è valido se la visita è a domicilio, in quanto l’ambiente non è più controllato.
Quando ho incominciato a filmare le visite conmportamentali mi sono posto il problema che, il sapere di essere filmati potesse
essere un elemento di disagio per il proprietario, in realtà a fronte di un numero di 70 casi clinici filmati ho avuto un solo rifiuto e due richieste di spiegazioni più approfondite riguardo al motivo per cui filmo. In un altro caso le perplessità del proprietario si riferivano alla presenza della giovane figlia, per cui ho deciso di non filmare.
Nelle prime registrazioni le persone erano prese di spalle in modo che non fossero riconosciute, questo mi sembrava una maggiore garanzia e un modo per avere più facilmente l’assenso dei proprietari, in realtà questi filmati mi sono stati di poco aiuto,
per i motivi che saranno facilmente comprensibili quando parlerò dell’utilità della videoregistrazione. Ho anche pensato a una
liberatoria che mi autorizzasse a filmare, ma, ho notato che questo non era una preoccupazione dei clienti, i quali mi hanno sempre dato l’autorizzazione verbalmente fidandosi della mia parola e ritenendo superfluo un atto formale. Del resto non ho mai
diffuso i filmati delle visite, se non previa autorizzazione dei diretti interessati.
A mio avviso l’uso del filmato nella visita comportamentale offre indubbi vantaggi:
1. Consente un ascolto più attento, in quanto libera dalla schiavitù di scrivere, per ricordare in futuro, quanto il proprietario racconta.
2. Permette di avere una registrazione, lunga e confrontabile (perché l’ambiente, rimane invariato nelle visite successive) del
comportamento dell’animale, non dico che si tratti di un’osservazione etologica, ma è pur sempre un’osservazione che porta delle informazioni.
3. Consente di rivedere la visita e di rilevare particolari o affermazioni che possono essere sfuggiti.
4. Mette a disposizione un documento che supervisionabile da un collega. La supervisione può anche essere richiesta a una figura diversa da un collega comportamentalista, per esempio uno psicologo o uno psichiatra.
I contro:
1. Il tempo che si deve preventivare per spiegare la presenza di una cinepresa e la sua utilità.
2. Il rischio di affidarsi troppo alla registrazione per la raccolta dei dati, con la conseguenza di perdere un po’ la concentrazione.
3. Fornire maggior attenzione al funzionamento del mezzo tecnico a scapito del buon esito del colloquio.
4. Il disagio del proprietario di fronte a una cinepresa.
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ESPERIENZE PERSONALI SULL’UTILIZZO DELLA PPN NEL CANE IN TERAPIA INTENSIVA
Pierfrancesca Ferrieri Med Vet, Gianmarco Gerboni Med Vet, Roberto A. Santilli Dipl ECVIM-CA
Liberi professionisti, Samarate (VA)
La nutrizione parenterale rappresenta la somministrazione endovenosa di tutte le sostanze nutrienti essenziali come carboidrati,
lipidi, proteine, elettroliti, vitamine e oligoelementi e viene, di norma, impiegata in sostituzione della nutrizione enterale ossia,
quando l’apparato gastroenterico non può essere temporaneamente utilizzato.
Nel presente studio sono stati esaminati, dal 2000 al 2003, 15 soggetti di razza, sesso, età e peso diversi, con differenti patologie sottostanti; in particolare: 1 caso di peritonite; 2 casi di corpo estraneo intestinale complicato da pancreatite e peritonite; 1
caso di setticemia; 5 casi di pancreatite necrotico-emorragica; 1 caso di pancreatite necrotico emorragica complicata da diabete
mellito; 1 caso nello stesso soggetto di recidiva di pancreatite necrotico emorragica; 1 caso di flemmone pancreatico; 1 caso di
miastenia gravis con megaesofago e broncoplomonite ab ingestis; 1 caso di insufficienza renale acuta (necrosi tubulare) con carcinoma metastatico a livello di linfonodi iliaci mediali; 1 caso di chilotorace. Tutti i soggetti sono stati sottoposti a visita clinica, esami di laboratorio, esame radiografico e la maggior parte ad esame ecotomografico e sono stati ricoverati da 7 a 15 giorni. Nella maggior parte dei soggetti la PPN è stata impiegata attraverso una via venosa periferica, mentre in 4 di questi attraverso una via venosa centrale. Il calcolo del fabbisogno calorico giornaliero si è basato sulla Richiesta Energetica Basale (RER)
ed è dato dalla seguente formula: 30 Kcal x peso in kg. I componenti della nutrizione sono stati: soluzione di amminoacidi
all’8,5%, soluzione di lipidi al 20%, soluzione di glucosio al 10%, cristalloidi come Ringer lattato, potassio cloruro, calcio gluconato, vitamine del complesso B, eparina sodica; una volta alla settimana è stata somministrata vitamina K per via sottocutanea. A seconda della patologia è stata modificata la percentuale di calorie lipidiche e proteiche e come fonte energetica principale sono stati utilizzati i lipidi, i quali hanno come vantaggio una ridotta osmolarità. Tutte le PPN utilizzate hanno presentato
un’osmolarità minore di 600 mOsm/L. La PPN è stata preparata per tutti i casi in sala operatoria, sterilmente. La durata della
nutrizione parenterale variava da un minimo di 3 giorni ad un massimo di 14 giorni. Il monitoraggio dei pazienti prevedeva la
valutazione dei seguenti parametri: peso, disidratazione, temperatura corporea, frequenza cardiaca e respiratoria, glicemia, glicosuria, creatinina, fosforo, ematocrito, proteine totali, albumina ed esame emocromocitometrico. Risultati: tutti i soggetti hanno avuto inizialmente un incremento ponderale; nei soggetti con gravi perdite concomitanti è stato aggiunto un supporto di cristalloidi; in nessun caso si è verificata iperglicemia né glicosuria; la funzionalità renale si è dimostrata normale in tutti i soggetti, escluso il cane con insufficienza renale acuta; in un caso si è manifestata ipofosfatemia. Complicanze: tre soggetti hanno
manifestato flebite, due vasculite, in un caso si è manifestata un’infezione da catetere, un caso ha sviluppato un quadro di polmonite e in un caso è stata riscontrata la presenza di un trombo nel catetere giugulare; in un solo soggetto è stata effettuata l’eutanasia.
Secondo queste esperienze la PPN è un ottimo supporto nutrizionale. È preferibile un accesso venoso centrale, in quanto fornisce meno complicazioni meccaniche ed è meglio tollerato dai pazienti. Tuttavia occorre una struttura adeguata, personale addestrato sia alla preparazione della nutrizione parenterale sia alla valutazione dei pazienti per prevenire e risolvere eventuali complicazioni e dei proprietari disponibili sia dal punto di vista economico che affettivo.
Indirizzo per la corrispondenza:
Pierfrancesca Ferrieri
Loc. Musica N° 4, Comignago (NO)
Tel. 0322-50359 - 0331-228155 - Fax 0331-220255
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IPOFIBRINOGENEMIA NEL CANE:
NUOVI RILIEVI IN RELAZIONE ALLA EZIOPATOGENESI (144 CASI)
Marco Caldin1,2 Med Vet, Tommaso Furlanello1,2 Med Vet, Francesca Fiorio1 Med Vet
1
Clinica Veterinaria Privata “San Marco”
2
Laboratorio Privato d’Analisi Veterinarie “San Marco”
Il fibrinogeno è una proteina di sintesi epatica indispensabile alla funzione emostatica ed allo svolgimento dei processi infiammatori (proteina della fase acuta).
Il fibrinogeno può essere misurato con metodiche quantitative (cinetiche ed immunologiche) e semiquantitative (precipitazione
termica), quest’ultime meno adatte ad una corretta valutazione delle ipofibrinogenemie per la scarsa accuratezza che le contraddistingue.
In letteratura veterinaria vi sono poche informazioni per quanto riguarda l’ipofibrinogenemia ed i suoi meccanismi eziopatogenetici. L’obiettivo del presente lavoro è quello di stabilire, valutando un numero rappresentativo di ipofibrinogenemie, se esistono meccanismi e cause non ancora descritti. A tal fine sono stati utilizzati come criteri di inclusione un’adeguata raccolta
anamnestica, l’esame fisico ed estese indagini ematologiche e biochimiche indispensabili alla comprensione fisiopatologica del
fenomeno.
Nel periodo compreso tra Luglio 2001 e Ottobre 2003 sono stati analizzati 3426 profili coagulativi, comprendenti tempo di protrombina, tromboplastina parziale attivata, fattori di degradazione della fibrina/fibrinogeno (FDPs), d-dimeri, antitrombina III e
fibrinogeno. L’ipofibrinogenemia è stata riscontrata in 144 casi, con una prevalenza del 4,2%. Quarantasette (47) casi sono stati esclusi dallo studio per la mancanza di uno o più dei criteri di inclusione descritti in precedenza.
L’analisi dei dati raccolti ha consentito di evidenziare tre meccanismi patogenetici di ipofibrinogenemia. La mancata produzione è stata riscontrata nel 46% dei casi ed era causata nel 33% da insufficienza epatica e nel 13% da malassorbimento ed insufficienza del pancreas esocrino. Il consumo è stato riscontrato nel 46% dei casi e, cosa interessante, solo il 26% era causato da
una coagulazione intravascolare disseminata (DIC), mentre l’altro 20% era causato da un disturbo coagulativo classificabile come “iperfibrinogenolisi primaria”, mai descritto in medicina veterinaria. Per iperfibrinogenolisi primaria s’intende un’inappropriata e spropositata attivazione della via fibrinolitica, che può scaturire da una DIC o da una eccessiva liberazione degli attivatori tissutali del plasminogeno. Tale diagnosi è stata fondata, analogamente a quanto descritto in medicina umana, sul rilievo di
aumento dei livelli di FDPs e di mancati incrementi paralleli di d-dimeri in soggetti con ipofibrinogenemia. Ancora analogamente a quanto descritto in medicina umana, l’ipofibrinogenemia si è verificata in associazione a versamenti cavitari (sequestro)
nell’8% dei casi esaminati.
Lo studio retrospettivo dei dati raccolti ha consentito di evidenziare cause (iperfibrinogenolisi primaria) e meccanismi (sequestro) mai prima descritti in medicina veterinaria, che consentono la stesura di un nuovo e più completo algoritmo diagnostico
dell’ipofibrinogenemia.
Indirizzo per la corrispondenza:
Clinica Veterinaria Privata “San Marco”
Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova
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IMPIEGO DELL’ECOGRAFIA TENO-MUSCOLARE COME MEZZO DIAGNOSTICO
NELL’ORTOPEDIA DEI PICCOLI ANIMALI: PRINCIPI GENERALI E CASI CLINICI
Massimo Olivieri1 Med Vet, Valentina Galardi2 Med Vet, Paola Pasini2 Med Vet
Libero professionista Samarate (VA), Dipartimento di Patologia Animale, Università di Torino
2
Libero professionista Samarate (VA)
1
Introduzione: L’ecografia tenomuscolare rappresenta un mezzo diagnostico di grande attualità nei piccoli animali. Grazie all’impiego degli ultrasuoni è possibile infatti indagare strutture peri-articolari quali tendini e legamenti e, se necessario, valutare
anche le caratteristiche ecografiche di muscoli eventualmente coinvolti da eventi traumatici. In questo lavoro gli autori presentano, con l’ausilio di qualche caso clinico significativo, la loro esperienza sull’impiego dell’ecografia su lesioni muscolo-tendinee.
Materiali e metodi: Nell’ambito delle ecografie tenomuscolari effettuate dagli autori, sono stati selezionati 4 casi clinici che
mettono in risalto l’utilità di questo mezzo diagnostico nell’ortopedia dei piccoli animali. Per questo studio è stato utilizzato un
apparecchio ecografico con sonda lineare da 7,5 MHZ. I pazienti riferiti presentavano zoppia acuta o cronica, con sospetto di
lesione a carico di strutture teno-muscolari. In preparazione all’ecografia, veniva tosata bilateralmente la regione da indagare,
per permettere di ottenere delle immagini ecografiche comparative.
Caso n°1: bracco tedesco, maschio, 4,5 anni, con problema di plantigradia del posteriore destro insorta acutamente dopo aver
subito un trauma a caccia. Caso n°2: meticcio, femmina, 12 anni, con plantigradia del posteriore destro e sinistro insorta circa
3 mesi prima, con assenza di anamnesi. Caso n°3: setter inglese da caccia, maschio, 20 mesi, con zoppia acuta coinvolgente la
spalla destra, lieve dolore ai movimenti di flesso-estensione e test del bicipite dubbio. Caso n°4: Dog De Bordeaux, femmina, 2
anni con zoppia acuta coinvolgente la spalla sinistra, con tumefazione del diametro di circa 2 cm prossimalmente e lateralmente rispetto al trochitere, in presenza di modica dolorabilità articolare.
Risultati - discussione: Nei casi 1 e 2 l’esame ecografico ha permesso di evidenziare un coinvolgimento del muscolo Gastrocnemio con lacerazione parziale inserzionale a carico di entrambi i ventri muscolari. La parte più distale del muscolo e il tendine di Achille risultavano invece completamente integre. Pur avendo un quadro clinico simile, le lesioni delle fibre muscolari riscontrate ecograficamente avevano caratteristiche differenti, proporzionali alla cronicità della lesione. A seconda delle condizioni più o meno gravi riscontrate, del tipo di vita svolta dall’animale e dalle aspettative del proprietario, è stata consigliata una
terapia conservativa (caso n. 2) o chirurgica (caso n. 1), consentendo un recupero soddisfacente per i rispettivi proprietari. Nel
caso n° 3 lo studio ecografico della spalla ha potuto evidenziare una lesione del tendine del muscolo Bicipite, con coinvolgimento dello stesso nel punto di passaggio col ventre muscolare. Infine il caso n° 4 riguarda un esempio di patologia a carico del
tendine del muscolo Sopraspinato riconosciuto, nell’esperienza degli autori, come causa di zoppia di spalla relativamente frequente. In questo caso le alterazioni strutturali più importanti sono state riscontrate nel suo punto d’inserzione sul trochitere: a
questo livello si evidenziava una lacerazione inserzionale di circa 1/4 del tendine del muscolo sopraspinato, coinvolgente in modo incompleto le corrispettive fibre. Sia il caso n° 3 che 4 sono stati trattati con successo mediante fisioterapia.
L’impiego dell’indagine ecografica nei piccoli animali risulta di grande aiuto in tutti i problemi ortopedici in cui si sospetti che
vi sia un coinvolgimento di strutture tendinee, legamentose e muscolari, al fine di poter emettere una diagnosi precisa sulla sede della lesione e sull’entità del danno. La sensibilità di questo esame risulta inoltre essere di grande aiuto nella scelta terapeutica migliore, sia essa conservativa o chirurgica, da attuare in questi casi.
Indirizzo per la corrispondenza:
Massimo Olivieri, Clinica Veterinaria Malpensa
Via Marconi 55 Samarate - Va
Tel. 0331 228155 - Fax 0331 220255
E-mail: [email protected]
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48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
UTILITÀ DELL’ESAME ECOGRAFICO IN CORSO DI IPERADRENOCORTICISMO
Roberto A. Santilli Med Vet D.E.C.V.I.M.-C.A. (Cardiology),
GianMarco Gerboni Med Vet
Clinica Veterinaria Malpensa, Samarate (VA)
Scopo del lavoro è descrivere in modo retrospettivo i rilievi ecografici in 260 cani che presentavano segni clinici ed esami ematologici riferibili a sindrome da ipercorticosurrenalismo. Sono proposti i dati raccolti dagli autori nell’utilizzo dell’esame ecografico come approccio diagnostico al morbo di Cushing e come mezzo utile a discriminare tra le sue possibili forme. L’utrasonografia ha permesso di visualizzare l’anatomia, di misurare il diametro ventro-dorsale delle ghiandole surrenali nei pazienti
esaminati e di rilevare le alterazioni ecografiche correlate allo stato di iperadrenocorticismo. La misurazione di entrambe le
ghiandole nei 260 pazienti ha differenziato 66 casi di iperadrenocorticismo corticosurrenalico (ATH) e 194 casi di iperadrenocorticismo ipofisario (PDH), confermati con test sierologici e risposta positiva alle terapie chirurgiche o farmacologiche. Si sono indagate le principali alterazioni ecografiche che la sindrome provoca a carico del parenchima epatico e la presenza di potenziali complicanze nelle strutture vascolari e negli organi addominali. Quando presenti, si sono approfondite le patologie associate e ricercati i loro eventuali riscontri ecografici.
In base ai rilievi ultrasonografici si sono suddivisi i soggetti in due gruppi; il primo di 194 cani affetti da iperplasia surrenalica
bilaterale (diametro ventro-dorsale > 8,5 mm) indicativo di iperadrenocorticismo ipofiso-dipendente (PDH) ed il secondo costituito da 66 soggetti con iperplasia monolaterale o da massa con ipoplasia controlaterale suggestiva di iperadrenocorticismo surrenalico (ATH). I soggetti con PDH sono rappresentati da 94 maschi, 38 femmine e 62 sterilizzati, con età media di 10,28 ± 2,61
anni e peso corporeo medio di 15,68 ± 11,9 kg. La misura media del diametro ventro-dorsale della surrenale destra è risultata
di 9,13 ± 2,63 mm e la media della surrenale sinistra 9,0 ± 2,74 mm. La distribuzione delle misure della surrenale destra è risultata per lo 0% dei soggetti < 3mm; 5,74% tra 3 - 6,5 mm; 47,12% tra 6,5 - 8,5mm; 47,12% > 8,5mm. La distribuzione delle
misure della surrenale sinistra è risultata per lo 0% dei soggetti < 3 mm; 6,89% tra 3 - 6,5 mm; 41,37% tra 6,5 - 8,5 mm; 51,72%
> 8,5 mm. L’85,8% dei soggetti è risultato affetto da iperplasia semplice bilaterale, il 5,1% da iperplasia nodulare bilaterale, il
5% da iperplasia nodulare destra, il 2,8% da iperplasia nodulare sinistra e l’1,8% aveva surrenali normali. I soggetti con ATH
sono rappresentati da 12 maschi, 23 femmine e 31 sterilizzati, con età media di 11,56 ± 2,38 anni e peso corporeo medio di 16,09
± 10,87 kg. La misura media del diametro ventro-dorsale della surrenale destra è risultata di 12,89 ± 11,74 mm e la media della surrenale sinistra 14,0 ± 11,63 mm. La distribuzione delle misure della surrenale destra è risultata per il 5,26% dei soggetti <
3 mm; 43,86% tra 3 - 6,5 mm; 1,75% tra 6,5 - 8,5 mm; 49,12% > 8,5 mm. Il 43,35% dei soggetti è risultato affetto da massa
surrenalica destra per il 69% associata a ipoplasia della ghiandola controlaterale ed il 52,63% da massa surrenalica sinistra per
il 73% associata a ipoplasia controlaterale. Le masse a carico della ghiandola destra sono risultate calcifiche nel 30,4%, disomogenee nel 17,4% e nodulari nell’8,7%. Quelle a carico della ghiandola sinistra calcifiche nel 50%, disomogenee nel 6,7% e
nodulari nel 6,7%. L’approccio diagnostico proposto dagli autori sfrutta la sensibilità delle informazioni raccolte con l’ultrasonografia per discriminare PDH e ATH e semplificare la scelta dei test sierologici.
Indirizzo per la corrispondenza:
Clinica Veterinaria Malpensa
Viale Marconi, 27 - 21017 - Samarate (VA)
Tel. (39) 0331 228155 - Fax (39) 0331 220255
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IL GATTO ANIMALE SOCIALE O ANIMALE RELAZIONALE?
Sabrina Giussani Med Vet
Comportamentalista ENVF - Busto Arsizio (VA)
Introduzione: Lo studioso J.H. Fabre, grazie ai Ricordi entomologici scritti nella seconda metà del 1800, dà origine alla tradizione culturale, presente ancora oggi, che considera il gatto domestico come un animale che si affeziona alla casa e vi ritorna
in seguito ad un trasloco abbandonando gli esseri umani con i quali conviveva. La quasi totalità degli Autori che si interessa allo studio del comportamento del gatto selvatico (Felis sylvestris) o domestico (Felis catus), è concorde sulla definizione di animale non sociale per quanto riguarda gli individui di questa specie. J.M. Giffroy, invece, estende il concetto di associazione preferenziale al gatto domestico: alcuni animali possono creare relazioni con conspecifici o con individui appartenenti ad altre specie, come per esempio l’essere umano o il cane. Grazie alla nascita della Sociobiologia, E.O. Wilson interpreta il comportamento
sociale in chiave adattativa e ne analizza il rapporto costi/benefici. J. Alcock afferma che le società complesse, come ad esempio la nostra, non necessariamente sono meglio adattate rispetto a quelle in cui “gli individui conducono vita per lo più solitaria. … L’approccio basato sull’analisi dei costi e benefici suggerisce che molte circostanze favoriscono lo sviluppo di comportamenti solitari quali modi di vivere più adattativi”.
Quali sono i costi e i benefici del comportamento sociale? La vita in gruppo porta numerosi benefici ai singoli individui come per esempio “la riduzione della pressione esercitata dai predatori” grazie ad un aumento della vigilanza e della maggiore
capacità di allontanare il nemico (per esempio i buoi muschiati). L’effetto diluizione abbassa il rischio dell’individuo di essere
oggetto di predazione (per esempio i babbuini). I gruppi sociali sono maggiormente efficienti nel procacciare il cibo, soprattutto se le prede sono di grandi dimensioni (per esempio le leonesse), nella difesa del territorio e nella cura e nella difesa dei piccoli. Un ulteriore vantaggio può essere rappresentato dalla trasmissione di “cultura” come ad esempio i rituali nel cane. Allo
stesso tempo esistono degli svantaggi come per esempio la competizione per il cibo e per il compagno o la compagna. Inoltre
aumenta notevolmente il rischio di diffusione di malattie o parassiti. È possibile supporre che nel gatto selvatico o nel gatto domestico il comportamento solitario in alcune situazioni ambientali costituisca una risposta più adattativa. Esistono differenti gradi di socialità: le interazioni tra il gatto maschio e femmina durante l’accoppiamento e successivamente la relazione tra la madre e i piccoli sono interazioni sociali fondamentali. Inoltre, gli individui della maggior parte delle specie sono in grado di modificare i repertori comportamentali a seconda delle variazioni dell’ambiente.
Il comportamento del gatto: Le osservazioni effettuate negli ultimi dieci anni in relazione al comportamento del gatto domestico hanno messo in evidenza che, a seconda delle condizioni di vita, il gatto è in grado di creare differenti strutture sociali: i
gruppi, le bande e il matriarcato. I gruppi sono formati da due individui che creano un’associazione preferenziale, inizialmente
per fini opportunistici legati alla riproduzione, e in seguito formano una famiglia che rimane unita fino al momento del distacco. Le bande, invece, sono costituite da gruppi di giovani maschi interi solitamente in ambito urbano. Nei matriarcati, presenti
soprattutto nelle città in presenza di abbondanti risorse alimentari, la creazione di relazioni sociali è ancora più importante: i piccoli vengono, infatti, allevati in nursery e le femmine del gruppo difendono la tana dai predatori. La convivenza con gli esseri
umani spinge la gatta a creare una o più relazioni sociali con i membri della famiglia, anche se la relazione preferenziale spesso è diretta nei confronti di un solo individuo. La maggior parte delle relazioni sociali instaurate non si modifica anche se il gatto ha la possibilità di accedere all’ambiente esterno: alcuni comportamenti come la ricerca del contatto fisico, la condivisione
del luogo di riposo e lo svolgimento di attività collaborative permangono inalterati.
Bibliografia
Alcock J. (2001), “Etologia un approccio evolutivo”, Seconda edizione italiana condotta sulla sesta edizione americana, Zanichelli, Bologna.
Giffroy J. M. (2000), “L’éthogramme du cheval et l’éthogramme du chat”, Scuola di Specializzazione in Patologia del Comportamento del cane e del gatto,
Tolosa.
Bradshaw J.W.S. (1996), “Il comportamento del gatto”, Edagricole, Bologna.
Natoli E. (1989), “L’organizzazione sociale dei gatti randagi urbani”, le Scienze, agosto 1989, pp 66-72.
Camperio Ciani (2004), Lezioni di sociobiologia, Master in etologia applicata e benessere animale, Bologna.
Mannucci A. (2004), Comunicazione personale.
Indirizzo per la corrispondenza:
Sabrina Giussani
Via Don Albertario 5, 21052 Busto Arsizio (VA)
333, 1861226
[email protected]
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INCONTINENZA URINARIA NEL CANE: TERAPIA CON AGOPUNTURA PER IL TRATTAMENTO
DELL’INCOMPETENZA DELLO SFINTERE URETRALE
Debora Groppetti Med Vet, Chiara Foresti Med Vet
Alessandro Pecile Med Vet PhD, Fausto Cremonesi Med Vet Prof Pat Riprod
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie - Sezione di Clinica Ostetrica Veterinaria - Università degli Studi di Milano
Introduzione: L’incontinenza urinaria (IU) viene definita come la perdita involontaria di urina, che si manifesta in maniera costante o intermittente tra normali episodi di minzione. Si riconoscono numerose cause di IU, congenite ed acquisite, tra cui l’incompetenza dello sfintere uretrale (USMI). L’USMI, descritto come una ‘debolezza dello sfintere uretrale’, è la più frequente
causa di IU nei cani adulti, soprattutto in soggetti sterilizzati. L’eziologia rimane ancora poco conosciuta. È una patologia legata a numerosi fattori predisponenti quali razza, sesso, sterilizzazione, posizione del collo della vescica, tono uretrale, lunghezza
dell’uretra, obesità. Non esiste al momento una terapia, farmacologica o chirurgica, in grado di risolvere l’IU dovuta ad USMI,
valida per tutti i cani.
Scopo del lavoro: Valutare l’efficacia della terapia con Agopuntura (AP) nel trattamento dell’IU dovuta ad USMI.
Materiali e metodi: 7 cani (6 femmine ed 1 maschio), incontinenti da un periodo variabile da pochi giorni a circa 1 anno dalla sterilizzazione, sono stati trattati con AP. Per ciascun soggetto è stata effettuata una diagnosi occidentale di USMI in seguito
all’esclusione delle altre possibili cause di IU tramite segnalamento, anamnesi, EOG, EOP dell’apparato uro-genitale, esame
neurologico, esame delle urine, indagine radiografica. Analogamente, per giungere ad una diagnosi cinese e per la scelta degli
agopunti, i dati raccolti mediante ispezione, auscultazione/olfattazione, anamnesi, palpazione sono stati analizzati mediante l’applicazione delle regole diagnostiche agopunturali: le otto regole diagnostiche, gli organi, i fattori patogeni, i 6 livelli energetici,
le sindromi. Per tutti i soggetti è stato stabilito un protocollo terapeutico standard, impiegando una rosa di punti specifici per
l’IU; ulteriori agopunti sono stati scelti in base alla risposta riscontrata, seguendo le leggi energetiche della medicina tradizionale cinese, impostando così un protocollo terapeutico personalizzato. La durata della terapia con AP è stata variabile in funzione della risposta individuale e la valutazione della risposta al trattamento si è svolta monitorando quotidianamente l’evoluzione della sintomatologia, durante il periodo di trattamento e nei mesi successivi.
Risultati e discussione: Il trattamento con AP si è dimostrato capace di migliorare la sintomatologia in tutti i soggetti del nostro
studio, seppure con modalità e tempi diversi. In 2 soggetti abbiamo ottenuto la remissione clinica completa e permanente, negli
altri casi siamo giunti ad un miglioramento tramite terapia agopunturale protratta per lungo tempo, ripetuta ad intervalli variabili. L’unico soggetto obeso, pur rispondendo alla terapia in tempi brevi, ha presentato continue ricadute ed è stato necessario ripetere, mediamente ogni 10 giorni, il trattamento con AP. Da sottolineare che la remissione completa e permanente della sintomatologia (attualmente 18 mesi), ottenuta con il più limitato numero di sedute (n°5) e nel minor tempo (1 mese dall’inizio della terapia con AP), è stata riscontrata in una cagna non sottoposta in precedenza a trattamenti farmacologici o chirurgici.
Conclusioni: La terapia agopunturale si è dimostrata un’interessante alternativa alle terapie farmacologiche o chirurgiche per
l’IU. L’AP è una tecnica dolce, non invasiva che può essere utilizzata ripetutamente, anche tutta la vita e in qualunque soggetto, evitando eventuali effetti collaterali di terapie tradizionali.
Indirizzo per la corrispondenza:
Debora Groppetti
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie
Sezione di Clinica Ostetrica Veterinaria, Università degli Studi di Milano
Via Celoria 10, 20133 Milano
Tel. 02 50318151 - Fax 02 50318148
E-mail: [email protected]
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481
FATTORI PROGNOSTICI NEL MASTOCITOMA CUTANEO FELINO
Elvio Lepri Med Vet PhD, Monica Sforna Med Vet PhD, Giovanni Ricci Med Vet PhD, Luca Mechelli Med Vet
Dipartimento di Scienze Biopatologiche Veterinarie
Sezione di Patologia e Igiene Veterinaria - Università di Perugia
Introduzione: Il mastocitoma cutaneo (MC) nel gatto è un tumore relativamente frequente, generalmente considerato benigno;
esso può tuttavia recidivare nel 36% dei casi e dare metastasi a distanza nel 22%. Il 30-60% dei tumori si presenta in forma multinodulare. I lavori consultati in letteratura scientifica non sono univoci nell’identificare fattori prognostici validi. Scopo del lavoro è valutare il valore prognostico di alcuni caratteri macro- e microscopici dei MC felini.
Materiali e metodi: Sono stati considerati 49 MC felini. Di ciascun tumore è stato considerato il tipo cellulare, il modello di
crescita, l’indice mitotico (IM), il grado di differenziazione secondo Patnaik (1984), la presenza di infiltrati eosinofilici e linfocitari e la necrosi. La prognosi è stata considerata sfavorevole in presenza di recidive locali, generalizzazione multicentrica cutanea o metastatizzazione profonda.
Risultati: I MC felini sono risultati così distribuiti: 33 MC mastocitici compatti, 5 MC mastocitici diffusi, 4 MC misti e 7 MC
istiocitici. Essi si sono presentati in 29 casi come lesioni singole, in 12 localmente multinodulari, ed in 8 casi con forme disseminate caratterizzate da numerosissime lesioni. La sede più frequente è risultata la testa, in particolare padiglione auricolare base delle orecchie; numerosi sono risultati anche i tumori delle estremità degli arti (dita-cuscinetti digitali).
La prognosi è risultata sfavorevole in 22/49 casi. In 9 casi si sono osservate recidive locali ed in 4 casi generalizzazione sistemica con coinvolgimento viscerale; in 9 casi i gatti sono stati sacrificati per le gravi condizioni generali associate al tumore. Le
lesioni singole sono risultate biologicamente benigne in 20/29 casi, le forme multinodulari hanno dato recidive in 4/12 casi e generalizzazione sistemica in 1/12 casi; le forme disseminate sono risultate associate a coinvolgimento viscerale con prognosi infausta in 8/8 casi.
I MC istiocitici e misti sono risultati associati a prognosi favorevole in 10/11 casi. Per i MC mastocitici la prognosi variava in
dipendenza del modello di crescita: più frequentemente prognosi sfavorevole si è avuta per i MC diffusi (4/5) piuttosto che per
i MC compatti (17/33). I tumori con IM alto (> 5 mitosi/10 hpf) hanno dato recidive o metastasi più frequentemente (9/11 casi) di quelli con basso IM (12/27). L’infiltrato linfocitario, quando associato ad estesa necrosi tissutale, ha rappresentato un fattore prognostico sfavorevole. L’incostante infiltrazione eosinofilica è risultata priva di significato prognostico. Lo schema di Patnaik non si è rivelato predittivo nel comportamento biologico dei MC felini.
Dalla revisione dei preparati istologici sono emersi alcuni aspetti del MC del gatto che possono avere importanza diagnostica,
quali la frequente presenza di cellule bi- o multinucleate in tumori ben differenziati, e l’eritrofagocitosi, ritenuta peculiare dei
mastocitomi viscerali del gatto.
Conclusioni: Il numero delle lesioni rappresenterebbe un fattore prognostico: forme disseminate sono frequentemente associate a contemporaneo coinvolgimento viscerale e comportano una prognosi infausta; tumori localmente multipli possono anche
regredire spontaneamente, ma la prognosi va considerata riservata. Per i tumori singoli la prognosi dipende dai caratteri istologici del tumore stesso: il tipo cellulare è un valido indicatore prognostico, dato che i MC istiocitici hanno prognosi generalmente
favorevole; l’indice mitotico risulta il parametro istologico più affidabile per predire il comportamento biologico del MC mastocitico felino ed il modello di crescita diffuso può essere correlato a recidive locali.
Indirizzo per la corrispondenza:
Elvio Lepri
Dipartimento di Scienze Biopatologiche Veterinarie
Sezione di Patologia e Igiene Veterinaria - Università di Perugia
Via S. Costanzo, 4. 06126 Perugia
Tel. 075 5857769 - Fax 075 5857738
E-mail: [email protected]
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482
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DINAMICA DELL’OSSIGENO IN ACQUARIO IN RELAZIONE ALL’ALIMENTAZIONE
Maurizio Manera Med Vet Dott Ric
Dipartimento di Scienze degli Alimenti, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Teramo
Introduzione: L’ossigeno svolge all’interno del sistema acquario il ruolo di agente ossidante per antonomasia. Tuttavia l’acqua
possiede una bassa capacitanza per l’ossigeno e bassa è la mobilità di quest’ultimo nella prima. L’ossigeno risulta quindi essere il principale elemento limitante l’ecosistema acquario. Al fine di indagare la dinamica dell’ossigeno in acquario, con particolare riguardo alle relazioni intercorrenti con la somministrazione di cibo, con utili risvolti pratici nell’allestimento e nella gestione del sistema acquario, si è proceduto a pianificare un idoneo protocollo sperimentale.
Materiali e metodi: La sperimentazione è stata condotta in un acquario di cristallo da 50 l (l x p x h, 60 x 25 x 40 cm), con filtro interno (spugna sintetica e cannolicchi ceramici) e pompa di circolazione centrifuga (150 l/h) ospitante 11 pesci rossi (Carassius auratus, L) (valori medi ± errore standard: lunghezza standard, 8.31 ± 0.40 cm; peso, 16.52 ± 1.21 g) ad una densità di
3.63 g pesce/l di acqua (acqua a 19° C). Ai pesci, mantenuti a digiuno per 48 h, al fine di stabilizzarne il metabolismo (consumo di ossigeno), è stato somministrato, per un totale di 5 repliche, del mangime estruso granulare (proteina greggia, 47.61%;
grassi greggi, 6.94%; fibra greggia, 0.55%; ceneri 10.79%; umidità, 5.2%). A t0 (prima della somministrazione del cibo) ed a
t60, t120, t180, t240, t270, t300 (minuti dalla somministrazione), si è proceduto al prelievo dell’acqua di acquario ed alla misurazione dell’ossigeno disciolto mediante metodica spettrofotometrica. I dati numerici ottenuti sono stati elaborati statisticamente per valutare la correlazione tra la concentrazione di ossigeno ed il trascorrere del tempo.
Risultati: La concentrazione di ossigeno misurata a t0 è stata mediamente di 4.72 mg/l, contro una concentrazione teorica alla
saturazione a 19° C, di 9.33 mg/l. Tale gap corrisponde al consumo di ossigeno degli organismi aerobi d’acquario e propende
per un acquario decisamente sovraffollato. I successivi valori medi (t60, 3.94; t120, 3.40; t180, 3.34; t240, 2.63; t270, 1.74; t300,
1.74) sono risultati negativamente e linearmente correlati con il trascorrere del tempo (coefficiente di correlazione di Pearson, 0.97; O2= -0.01t + 4.69; r2= 0.94; p< 0.01). Tale dinamica rende conto dell’incremento del metabolismo legato all’inizio dei processi digestivi ittici, influenzato dalla quantità/qualità del cibo somministrato. Nonostante l’ottima correlazione lineare negativa, all’interpolazione curvilinea dei dati sono emerse due “discontinuità”, tra t120 e t180 e tra t270 e t300, a tendenza asintotica per un valore, rispettivamente, di circa 3.30 mg/l e 1.7 mg/l. Quest’ultima è imputabile al raggiungimento del plateau nel rapporto differenziale intercorrente tra ossigeno consumato, nell’unità di tempo, dagli organismi aerobi e ossigeno atmosferico che
si discioglie, nell’unità di tempo, in acqua d’acquario. La prima dipende, invece, dall’incipiente escrezione branchiale di azoto
ammoniacale, con conseguente incremento della nitrificazione batterica (ossigeno dipendente) nel filtro biologico. I pesci in digestione hanno ridotto del 30% la concentrazione di ossigeno rispetto al digiuno (da 4.72 mg/l a 3.34 mg/l); i batteri, per contro, sono stati in grado di ridurlo del 50% rispetto alle condizioni di partenza (da 3.34 mg/l a 1.74 mg/l).
Conclusioni: I dati ottenuti confermano l’importanza del monitoraggio dell’ossigeno disciolto in acquario nonché la necessità,
per il medico veterinario, di conoscere il metabolismo degli organismi aerobi ospitati in acquario come imprescindibile requisito per una proficua conoscenza della dinamica di questo fondamentale fattore limitante.
Indirizzo per la corrispondenza:
Dott. Maurizio Manera
Dipartimento di Scienze degli Alimenti. Facoltà di Medicina Veterinaria
Piazza Aldo Moro, 45 - 64100 Teramo
E-mail: [email protected]
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ASPETTI CLINICI, CITOLOGICI, ISTOLOGICI ED IMMUNOPATOLOGICI
DI UN MELANOMA CONGIUNTIVALE IN UN CANE
Veronica Marchetti1 DVM PhD SPCAA, Giovanni Barsotti1 DVM PhD SPCAA, Francesca Millanta2 DVM
1
Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa
2
Dipartimento di Patologia Animale, Università di Pisa
Scopo del lavoro: Descrizione di un caso di melanoma congiuntivale primario in un cane nei suoi aspetti clinici, citologici, istologici ed immunopatologici.
Descrizione del caso: Un cane di razza Drathaar, maschio intero, di anni 12, è stato presentato alla nostra attenzione per la comparsa da circa 1 mese di una neoformazione in accrescimento rapido progressivo all’occhio sinistro. Il paziente si presentava in
buone condizioni cliniche generali. Alla visita oftalmologica si evidenziavano due masse distinte: l’una, pigmentata, che coinvolgeva la congiuntiva palpebrale della membrana nittitante, l’altra, non pigmentata, interessante la congiuntiva bulbare inferiore in prossimità del canto temporale. Il globo appariva enoftalmico e la cornea presentava edema localizzato nei quadranti inferiori con perdita della sua convessità in corrispondenza della massa mediale. Non si evidenziavano lesioni alle altre strutture
dell’occhio, né all’occhio controlaterale. L’esame citologico eseguito per agoinfissione rivelava in entrambe le neoformazioni,
la presenza di una popolazione di cellule tissutali, alcune di aspetto fusato, altre di aspetto più rotondeggiante, con marcati caratteri di malignità citologica; in un limitato numero di cellule era possibile evidenziare alcune fini granulazioni citoplasmatiche blu-nerastre. Il quadro citologico era suggestivo di neoplasia maligna e sospetto di melanoma. Le radiografie del torace nelle proiezioni standard e l’ecografia addominale non rilevavano alterazioni; il linfonodo sottomandibolare corrispondente, appena apprezzabile alla palpazione, appariva normale all’esame citologico eseguito per agoinfissione; l’esame emocromocitometrico, il profilo biochimico e l’analisi delle urine risultavano nella norma. Si procedeva ad un’enucleazione con tecnica transpalpebrale con escissione completa dei margini palpebrali, della congiuntiva e del globo. Il referto dell’esame istopatologico rilevava che le due neoformazioni erano in realtà connesse a livello di fornice congiuntivale inferiore; era evidente un ispessimento marcato della congiuntiva per la presenza di una lesione scarsamente delimitata, con epitelio sovrastante focalmente ulcerato, caratterizzata da proliferazione di nidi e piccoli fasci di cellule di aspetto epitelioide e fusato, delimitata da esile trama connettivale. Le cellule neoplastiche mostravano spiccati segni di atipia cellulare, 6-8 mitosi/10 hpf e, focalmente, contenevano pigmento melanico intracitoplasmatico. Era presente un denso infiltrato linfoplasmacellulare. Il quadro istologico era riferibile a
melanoma congiuntivale misto. La neoplasia non infiltrava cornea, iride e sclera. L’immunoistochimica rilevava una positività
delle cellule neoplastiche alla vimentina, all’S100 e al MART-1. Il follow up a 6 mesi era negativo per metastasi e non erano apprezzabili né clinicamente né ecograficamente masse neoformate orbitali.
Conclusioni: Le neoplasie congiuntivali nel cane sono piuttosto rare e scarsamente documentate; la particolarità del caso descritto consiste nella completezza dello studio clinico, citologico, istologico ed immunopatologico. L’identificazione della neoplasia maligna attraverso l’esame citologico, tipizzata poi dall’esame istopatologico ed immunoistochimico, ha permesso di
escludere dal diagnostico differenziale forme flogistiche e neoplasie benigne ed ha indirizzato verso l’esecuzione di un completo
bilancio estensivo ed un approccio chirurgico aggressivo. È fondamentale una diagnosi precoce poiché questa neoplasia, come
nell’uomo e similmente al melanoma che interessa le mucose, mostra un comportamento biologico molto aggressivo, con metastasi a distanza e recidive locali (circa il 55% dei casi).
Indirizzo per la corrispondenza:
Veronica Marchetti
Dipartimento di Clinica Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Pisa
Via Livornese, 56010 San Piero a Grado (PI)
Tel. 335/6457302; 050-31351 - Fax 050-3135182
E-mail: [email protected]
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484
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INDAGINE SULLA PREVALENZA DEI PATOGENI PIÙ COMUNEMENTE
ASSOCIATI ALLE INFEZIONI RESPIRATORIE DEL GATTO
Fulvio Marsilio1 Med Vet, Barbara Di Martino1 Med Vet, Cristina E. Di Francesco1 Med Vet, Ilaria Meridiani1 Med Vet,
Alessia Gloria1 Med Vet, Luigi Grosso2 Med Vet, Andrea Virgulti2 Med Vet
1
Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Teramo
2
Libero professionista, Ascoli Piceno
Feline calicivirus (FCV), Feline herpesvirus type 1 (FHV-1) e Chlamydophila felis (Ch. felis) sono riconosciuti come le cause
più comuni di Upper Respiratory Tract Disease (URTD) nel gatto anche se in Italia non sono state condotte indagini atte ad accertare la loro reale prevalenza. Inoltre, risulterebbero sempre più frequenti le segnalazioni relative all’isolamento di Bordetella
bronchiseptica in gatti con sintomatologia respiratoria. La diagnosi di certezza di queste infezioni prevede l’invio del materiale
da esaminare al laboratorio al fine di procedere all’isolamento ed all’identificazione dell’agente eziologico. Recentemente, tuttavia, sono state allestite metodiche basate sull’uso della PCR che, rispetto alle tecniche tradizionali, offrono vantaggi quali rapidità di esecuzione, elevata sensibilità e specificità e possibilità di identificare patogeni di difficile coltivazione. Nella presente nota vengono riportati i risultati di uno studio eseguito su una popolazione di gatti con sintomi riferibili a URTD al fine di valutare la prevalenza degli agenti patogeni più comunemente associati alle infezioni respiratorie del gatto, utilizzando come test
diagnostici una duplex-PCR-RFLP per FHV-1 e Ch. felis, una one step nested RT-PCR per la diagnosi dell’infezione da FCV
ed una PCR specifica per B. bronchiseptica. Nel periodo compreso tra ottobre 2002 e aprile 2003 sono stati prelevati n° 54 campioni mucosali costituiti ciascuno da un tampone faringeo (TF) ed un tampone congiuntivale (TC). In alcuni gatti non è stato
possibile eseguire entrambi i tamponi ed in particolare in tre animali non è stato eseguito TC e in otto TF. Tutti i campioni mucosali sono stati sottoposti ad estrazione degli acidi nucleici mediante un kit del commercio (QIAamp UltraSens Virus, Qiagen).
L’identificazione di FHV-1 e Ch. felis è stata eseguita secondo una metodica già in uso presso il nostro laboratorio. Per quanto
riguarda FCV, la one step nested RT-PCR ha previsto dapprima un’amplificazione di una sequenza di 967 bp inclusa nel gene
ORF2 e successivamente, al fine di aumentare la sensibilità della tecnica, un’ulteriore amplificazione dell’amplicone mediante
una coppia di primers interni. La sequenza bersaglio per B. bronchiseptica è rappresentata da una regione di 284 bp del gene
fim3. I risultati delle prove eseguite nelle diverse PCR hanno mostrato una circolazione dei quattro patogeni nella popolazione
da noi indagata. Infatti, sono risultati positivi n° 45 gatti (83,33%) e più in particolare n° 34 (62,96%) a FCV, n° 31 a FHV-1
(57,40%), n° 17 (31,48%) a B. bronchispetica e n° 7 (12,96%) a Ch. felis. Considerando la positività relativa al tipo di tampone, si osserva come, ad eccezione di Ch. felis la cui identificazione è avvenuta solo a partire da TC, per FCV, B. bronchiseptica
e FHV-1 è risultato necessario ricorrere al prelievo sia di TC che di TF per addivenire al loro riconoscimento. Le infezioni miste sono state riscontrate nel 51,85% degli animali esaminati. In particolare: otto animali (14,81%) sono risultati positivi a FCV
e FHV-1; un gatto (1,85%) ha mostrato positività nei confronti di FHV-1 e B. bronchispetica e un altro verso FHV-1 e Ch. felis;
quattro soggetti sono risultati infetti da FCV e B. bronchispetica ed altri quattro hanno mostrato positività verso FHV-1, FCV e
Ch. felis; otto gatti (14,81%) sono risultati positivi nei confronti di FHV-1, Ch. felis e B. bronchispetica; infine, solo due soggetti (3,7%) sono risultati infetti da tutti e quattro i patogeni. I dati che scaturiscono da questo studio permettono di evidenziare come FCV e FHV-1 rappresentino gli agenti patogeni più comunemente associati a URTD. Inoltre, rispetto a studi precedenti, è stato osservato un incremento di positività verso B. bronchiseptica.
Indirizzo per la corrispondenza:
Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate, Facoltà di Medicina Veterinaria,
Università degli Studi di Teramo
Piazza Aldo Moro, 45, 64100 Teramo
Tel/Fax +39.0861412868
E-mail: [email protected]
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485
IMMAGINI TOMOGRAFICHE NEL FOLLOW UP DI INTERVENTI
DI DARTROPLASTICA DI SLOCUM
Mario Modenato DVM, Simonetta Citi DVM
Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa
Introduzione: La DARtroplastica di Slocum è una tecnica per il trattamento della displasia dell’anca che trova indicazione in
quei pazienti che non sono più trattabili con la Triplice Osteotomia Pelvica (TPO), o nei quali non sia possibile un’artroprotesi
totale (THR). In questi soggetti, la DARtroplastica consente di ottenere una nuova copertura dorsale all’acetabolo che limita lo
stiramento capsulare e restituisce al paziente la possibilità di un pieno carico funzionale. Il controllo dell’evoluzione dell’innesto verso l’osteointegrazione viene effettuato attraverso esami radiografici che comprendono la proiezione ventro-dorsale ad arti estesi e la DAR, per valutare l’aspetto del cavo acetabolare nella porzione sottoposta al maggior carico funzionale ed alla maggiore possibilità di danneggiamento durante il movimento. Questa proiezione però, per la sovrapposizione di parte dell’ala iliaca e della tuberosità ischiatica, fornisce immagini non precise, almeno per quanto riguarda la valutazione dell’osteointegrazione dell’innesto.
Scopo del lavoro: Le finalità del lavoro sono state quelle di confrontare i rilievi clinici e radiografici convenzionali con quelli
tomografici per meglio valutare i risultati a breve-medio termine degli interventi eseguiti. Si è voluto verificare il grado di
osteointegrazione così come appare sulla proiezione DAR e sulla TC, per valutare l’accuratezza e l’affidabilità dell’indagine radiografica convenzionale nella stima dell’evoluzione della neoformazione ossea costituente il ciglio acetabolare sussidiario.
Metodo: Dopo gli interventi di DARtroplastica acetabolare, con soggetti ancora in anestesia generale, sono stati eseguiti controlli radiografici con proiezione ventro-dorsale ad arti estesi e DAR, seguiti da un controllo con TC. Per l’acquisizione delle
immagini TC i pazienti sono stati posti in decubito dorsale, con arti posteriori semiflessi e moderatamente abdotti. I controlli radiografici e tomografici sono stati ripetuti a 60 giorni dall’intervento con analoghe modalità
Risultati: In tutti i casi esaminati, nell’immediato postoperatorio la TC ha permesso di confermare il corretto posizionamento
dell’autoinnesto, fornendo immagini suggestive ma con informazioni non dissimili da quelle fornite dalla proiezione DAR. Al
controllo a 60 giorni, in tutti i casi i soggetti si sono presentati con una deambulazione normale, senza segni di dolorabilità spontanea, con netto miglioramento del movimento, della resistenza allo sforzo e dell’agilità. La proiezione DAR ha mostrato il progredire della formazione del ponte osseo dorsale all’acetabolo, con presenza di aree di radiodensità disomogenea a carico di tutto il segmento innestato. Al controllo TC l’innesto appariva con una buona conformazione, simile a quella descritta da Slocum
ed attesa come risultato, con presenza di un gap di ampiezza variabile da 1 a 3 mm fra il ciglio acetabolare dorsale e l’innesto.
Conclusioni: Tutti i casi trattati hanno mostrato quindi una buona ripresa funzionale post-operatoria, con scarse o nulle complicanze. La valutazione radiografica mediante proiezione standard ventro-dorsale e DAR non ha però consentito di stimare adeguatamente la quantità di tessuto osseo neoformato e/o il grado di osteointegrazione dell’innesto. Questo può costituire un limite nella valutazione prognostica del risultato dell’intervento. La valutazione attraverso TC ha però confermato la buona formazione del neotetto acetabolare, secondo le indicazioni e le aspettative descritte da Slocum, confermando quindi, al di là della valutazione clinica e radiografica, la validità della tecnica e la sua capacità di restituire i pazienti ad una buona funzione articolare in tempi relativamente rapidi.
Indirizzo per la corrispondenza:
Mario Modenato
Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa
Via Livornese lato monte - 56010, San Piero a Grado, Pisa
Tel. 050.31351, 335.8302197 - Fax 050.3135182
E-mail: [email protected]
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486
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MISURAZIONE DELLO STRESS OSSIDATIVO NEL CANE ATLETA
P. P. Mussa*, C. Abba**, L. Prola***
*Professore Ordinario - Dipartimento di Produzioni animali, epidemiologia ed ecologia
Facoltà di Medicina Veterinaria - Università di Torino - Via Leonardo da Vinci 44 10195 Grugliasco (TO)
**Medico Veterinario - PhD - Via Leonardo da Vinci 44 - 10195 Grugliasco (TO)
***Medico Veterinario - Dottorando di ricerca - Via Leonardo da Vinci 44 - 10195 Grugliasco (TO)
Premessa: La lotta allo stress ossidativo è oggetto di crescente interesse anche in medicina veterinaria. Gli studi più recenti hanno dimostrato che un incremento di questo tipo di stress è possibile nelle condizioni di accentuati ed intensi processi metabolici, tipici di svariate condizioni fisiologiche (come ad esempio il lavoro muscolare) 1,2,3.
C’è spesso confusione riguardo al significato dei termini “ossidante”, “stress ossidativo”, “danno ossidativo” ed “antiossidante”. Un ossidante è una qualsiasi sostanza presente nell’organismo capace di ossidare molecole come lipidi, proteine, nucleotidi e vitamine. Lo stress ossidativo è una situazione di squilibrio tra la produzione di radicali liberi ed i meccanismi antiossidanti con conseguente danno ossidativo. Di conseguenza si può avere questa condizione sia per un aumento della produzione di sostanze ossidanti sia per una diminuzione dell’attività antiossidante dell’organismo1. Un antiossidante è una molecola, esogena o
endogena, in grado di neutralizzare i radicali liberi una volta formatisi e prevenire la loro formazione.
I meccanismi di difesa messi in atto dagli organismi aerobi per difendersi dai radicali liberi sono molteplici e sono interconnessi gli uni con gli altri in modo da formare un sistema antiossidante integrato. Questi agiscono a vari livelli, ad esempio nelle
membrane cellulari, nel citoplasma o nel sangue e possono essere prodotti dall’organismo stesso oppure introdotti con la dieta.
I primi sono in genere enzimi che intervengono nelle reazioni di detossificazione, mentre quelli esogeni sono delle molecole di
basso peso molecolare che hanno la capacità di cedere o acquistare elettroni interrompendo le reazioni a catena che portano alla formazione di radicali liberi e quindi al danno cellulare. Dal punto di vista alimentare, per incrementare le difese dell’organismo, si può solamente intervenire su questi ultimi 4. Si è comunque visto che in realtà le cosiddette terapie antiossidanti non
sono altro, nella maggior parte dei casi, che trattamenti mono-antiossidanti, in sintonia con l’ipotesi ampiamente accettata dalla comunità scientifica che queste sostanze, qualsiasi sia la loro natura, formino un pool dinamico ed integrato, in cui il deficit
di uno o più componenti può essere compensato dall’incremento di una o più molecole dello stesso pool, in modo da mantenere l’omeostasi ossido-riduttiva contro il danno ossidativo5.
I marker dello stress ossidativo sono soprattutto prodotti finali di degradazione delle reazioni dei ROS con lipidi, proteine, carboidrati, DNA ed altre molecole. Questi prodotti hanno un’emivita più lunga dei radicali liberi e quindi sono più facili da misurare; per questo motivo questi marker sono utilizzati nella valutazione dello stato ossidativo5,6.
Col presente lavoro si è cercato di valutare l’evoluzione dello stato ossidativo in cani da lavoro sottoposti a sforzo.
Materiali e metodi: Cinque cani adulti da caccia, seguiti da un veterinario esperto di medicina sportiva ed oggetto di monitoraggio
sanitario nell’ottica di ottimizzarne le prestazioni e salvaguardarne la salute, sono stati sottoposti a due serie di indagini: prima prova
su treadmill (tempi e velocità: 5’ a 2,8 km/h; 4,7’ a 5 km/h; 7’ a 8 km/h; 3’ a 10,5 km/h; pendenza: 0; temperatura: 22 °C; umidità:
55%), seconda prova, lavoro di campo (terreno pianeggiante con pochi ostacoli; tempi: 60’; temperatura: 24 °C; umidità relativa 60%).
Il grado di stress ossidativo è stato misurato utilizzando la metodica del TBARS; sono stati eseguiti prelievi di sangue dalla vena cefalica di ogni soggetto prima dello sforzo, immediatamente dopo, dopo 1 ora e dopo 6 ore. Sono stati inoltre presi in considerazione altri parametri per misurare l’entità del lavoro svolto e precisamente:
- il rilievo della temperatura corporea prima e dopo lo sforzo con un termometro digitale;
- la misurazione della lattacidemia e della glicemia prima dello sforzo, subito dopo ed a distanza di 1 ora;
- il rilievo della frequenza cardiaca tramite cardiofrequenzimetro.
Sui dati ottenuti è stato eseguito un confronto delle medie campionarie tramite T-test di Student per dati appaiati utilizzando il
programma SPSS 10.0 per Windows.
Risultati: Il rilievo della temperatura ha messo in evidenza un aumento medio di 1,2 °C . Le misurazioni della lattacidemia sono risultate statisticamente significativo solo nel confronto fra valori rilevati subito dopo sforzo e dopo 1 ora.
La misurazione della glicemia non ha evidenziato differenze significative tra i prelievi effettuati prima e dopo lo sforzo.
La registrazione della frequenza cardiaca ha evidenziato un diverso andamento a seconda del tipo di lavoro: su treadmill, all’aumento della velocità e dei relativi tempi di esposizione, si è registrato un aumento della frequenza cardiaca (da 120 a 240
pulsazioni/minuto), molto variabile da soggetto a soggetto, ma tendenzialmente stabile ad una determinata velocità. Durante il
lavoro di campo si sono registrati picchi di aumento omogenei e frequenti (fino a 240 pulsazioni/minuto), seguiti da corrispettivi abbassamenti a valori di molto inferiori (120-140 pulsazioni/minuto).
Il test del TBARS non ha permesso di evidenziare differenze statisticamente significative tra le varie coppie di valori presi in
considerazione, pur in presenza di un aumento dei valori registrati dopo il lavoro.
Conclusioni: Contrariamente ad alcuni dati di letteratura, nelle condizioni lavorative da noi indagate e con i soggetti utilizzati,
non si è evidenziato uno stress ossidativo misurabile con le metodiche adottate.
La mancanza di differenze significative tra i valori della glicemia prima e dopo le prove potrebbe essere imputabile a due fattori: da una parte la modica intensità dell’esercizio, che non ha causato un forte aumento della richiesta di glucosio da parte dell’organismo, dall’altra la relativa condizione di allenamento dei soggetti che ha consentito il mantenimento dell’euglicemia. Anche i valori di temperatura corporea rilevati confermano quanto precedentemente affermato.
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Il test del TBARS ha fornito risposte differenti rispetto a quelle che ci si poteva aspettare valutando la bibliografia2,3,7: infatti i
soggetti da noi testati, pur avendo compiuto uno sforzo fisico, non sono andati incontro a fenomeni di eccessiva perossidazione
lipidica sebbene in entrambe la prove (Treadmill e Campo) si noti un lieve aumento (non statisticamente significativo) di questi
parametri. Le spiegazioni possono essere molteplici: in primo luogo la tipologia di lavoro, di media intensità e durata, che probabilmente non è stato in grado di modificare significativamente l’equilibrio ossidativo; in secondo luogo la condizione di allenamento dei soggetti, che può aver aumentato la capacità di adattamento dell’organismo alle condizioni di stress ossidativo; in
terzo luogo il substrato genetico, selezionato da generazioni per compiere un lavoro lungo ed impegnativo. Probabilmente le
condizioni lavorative cui sono stati sottoposti non sono state sufficienti a produrre in tali animali stress ossidativi di un certo rilievo. Si può infine ancora ipotizzare che l’alimentazione equilibrata di cui potevano usufruire tali soggetti abbia giocato un ruolo non secondario nel proteggerli dallo stress ossidativo, mediante la messa a disposizione di sostanze antiossidanti di origine
alimentare.
Questo depone a favore del fatto che, nel corso dell’esercizio fisico, non vi sia stata produzione di radicali liberi in eccesso.
Nonostante l’indagine sperimentale condotta sia da ritenere preliminare e necessiti di ulteriori ricerche, si può affermare che, nel
cane da caccia mediamente allenato e ben alimentato, dopo un esercizio di media entità e durata non si assiste ad un aumento
significativo dello stress ossidativo.
Bibliografia
1. Ji L., Leichtweis S., (1997), Exercise and oxidative stress: sources of free radicals and their impact on anti-oxidants systems, Age, (n° 20), 91-106.
2. Hinchcliff K.W., Piercy R.J., Baskin C.R., DiSilvestro R.A., Reinhart G.A., Hayek M.G., Chew B.P., (2000), Oxidant Stress, Oxidant Damage, and Antioxidants: Review and Studies in Alaskan Sled Dogs, Recent advances in canine and feline nutrition, Orange Frazer Press, Wilmington, Ohio, USA, 517529.
3. Hinchcliff K., Reinhart G., DiSilvestro R., (2000), Oxidant stress in sled dogs subjected to repetitive endurance exercise, Am J Vet Res, (n°61), 512.
4. Piercy R.J., Hinchcliff K., DiSilvestro R., (2000), Effect of dietary supplements containing antioxidants on attenuation of muscle damage in exercising sled
dogs, Am J Vet Res, (n°61), 1438-1445.
5. Passi S., Stancato A., Cocchi M., (2001), Monitoraggio dello stress ossidativo nell’invecchiamento e nelle patologie ad esso correlate, Progress in Nutrition, (anno 3, n°1), 35-58.
6. De Zwart L.L., Meerman J.H.N., Commandeur J.N.M., Vermeulen N.P.E., (1999), Biomarkers of free radical damage applications in experimental animals
and in humans, Free Radical Biology & Medicine, (vol. 26, n°1-2), 202-226.
7. Hill R.C., Armstrong D., Browne R.W., Lewis D.D., Scott K.C., Sundstrom D., Harper E.J. (1999), Some evidence for possible oxidative stress in trained
greyhounds after a short sprint race, The FASEB Journal, (vol. 14, n°4), 671.
Indirizzo per la corrispondenza:
P. P. Mussa
Via Leonardo da Vinci 44 - 10195 Grugliasco (TO)
Tel. 011/6709210 - Fax 011/6709240
E-mail: [email protected]
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ANESTESIA VENOSA RETROGRADA: TRE CASI CLINICI CON LIDOCAINA E MEDETOMIDINA
Lorenzo Novello1 Med Vet, Barbara Carobbi2 Med Vet
Marco Scandone Med Chir Spec in Anestesia, Rianimazione, Terapia Antalgica e Terapia Iperbarica
1
Libero professionista, Padova
2
Libero professionista, Lucca
3
Servizio di Anestesia, Ospedale civile di Voghera (Pavia)
3
Anestesia delle estremità: l’anestesia venosa retrograda (AVR) o “tecnica di Bier” fu scoperta nel 1908 da August Bier e modificata da Holmes nel 1963. Essa rappresenta una valida alternativa per l’anestesia delle estremità distali non solo in sala operatoria ma anche in emergenza, risultando per esempio, in caso di fratture, una tecnica efficace e sicura per la riduzione, il bendaggio e l’esecuzione di procedure diagnostiche (radiogrammi, ecc.). Se in medicina viene utilizzata con successo sia nell’adulto che nel bambino, sia in elezione che in emergenza, al contrario in medicina veterinaria non gode di ampia popolarità e pochissimi sono gli articoli o i report clinici su tale tecnica nel cane e nel gatto.
Anestesia Venosa Retrograda (AVR): consiste nell’applicare prossimalmente un impedimento alla circolazione e nell’iniettare
distalmente un anestetico locale in una vena. L’anestesia si instaura rapidamente e permane fino alla rimozione dell’impedimento al circolo, dopo di che scompare rapidamente senza lasciare alcuna sequela: risulta quindi indicata quando si desideri
una verifica funzionale precoce oppure una remissione completa del blocco alle dimissioni. La tecnica prevede l’esanguinazione dell’estremità coinvolta e l’applicazione di un tourniquet pneumatico per tutta la durata della procedura. L’AVR è semplice, ripetibile, facile da effettuare e sicura a patto che chi la esegue ne conosca perfettamente i principi: in tal caso è veloce
da eseguire, garantisce analgesia e un campo esangue, durata ed estensione vengono stabiliti dall’operatore indipendentemente dall’anestetico locale utilizzato. Al termine il recupero è altrettanto rapido ed altrettanto indipendente dall’anestetico scelto.
Esistono controindicazioni assolute all’AVR, ad esempio i blocchi cardiaci non in terapia, allergie od ipersensibilità agli anestetici locali, ecc. Il posizionamento del tourniquet richiede accorgimenti specifici per evitare possibili complicanze. L’uso di
farmaci adiuvanti, in aggiunta all’anestetico locale, per incrementare l’efficacia del blocco è riportato in bibliografia: oppioidi e tramadolo non migliorano il blocco e presentano effetti collaterali indesiderati, alcuni bloccanti neuromuscolari migliorano il blocco senza presentare effetti collaterali, tra i FANS il solo ketorolac sembra migliorare notevolmente il blocco, la clonidina (un alfa2 agonista) migliora la tolleranza al tourniquet e sembra migliorare il blocco senza presentare i tipici effetti collaterali quali bradicardia e/o ipotensione. In medicina veterinaria è riportato l’uso della sola lidocaina e non ci sono riferimenti
all’utilizzo di farmaci adiuvanti.
Casi clinici: a tre cani, 2 maschi e 1 femmina, di età compresa tra 6 e 10 anni, da sottoporre a chirurgia escissionale a carico di
una estremità distale, è stata somministrata un’AVR. Dopo aver indotto l’anestesia generale, esanguinato l’estremità da sottoporre ad intervento e posizionato un manicotto a pressione, si è iniettata attraverso un catetere endovenoso 24G posizionato distalmente una soluzione di lidocaina (Lidocaina 20 mg/ml, Pierrel) 1% in fisiologica 0,9% alla dose di 4 mg/kg e medetomidina (Domitor, Pfizer) alla dose di 0,002 mg/kg. Al termine della chirurgia, dopo un intervallo compreso tra 35 e 55 minuti, il manicotto è stato sgonfiato. Né dopo l’iniezione della soluzione né dopo il rilascio del tourniquet si sono rilevate alterazioni del
tracciato ECG o variazioni significative della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa sistemica.
Conclusioni: nei nostri tre casi l’aggiunta di medetomidina alla dose di 0,002 mg/kg alla lidocaina per l’AVR non ha prodotto
nessuna alterazione di ritmo, frequenza cardiaca e pressione arteriosa riferibile ad un effetto sistemico del farmaco.
Indirizzo per la corrispondenza:
Lorenzo Novello
Via Tornara 1/2 - Cavriago (Reggio Emilia)
Tel. +39 348 6128085 - Fax 02 700426213
E-mail: [email protected]
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TERAPIA OMEOPATICA E PROBLEMI COMPORTAMENTALI NEL CANE E NEL GATTO:
UNA VIA POSSIBILE
Maria Serafina Nuovo, Med Vet
Libero Professionista, Torino
Scopo del lavoro: Scopo del presente lavoro è di mostrare quanto lo studio del comportamento animale sia una traccia fondamentale nel processo di comprensione delle problematiche di relazione di cani e gatti.
Tali problematiche possono essere affrontate e risolte con l’utilizzo della terapia omeopatica, eventualmente associata a norme
comportamentali che andranno valutate caso per caso.
Materiali e metodi: Vengono presentati alcuni casi caratterizzati da disturbi del comportamento nel cane (ansia da separazione/fobie) e nel gatto (disturbi eliminatori/stereotipie) e viene illustrato l’iter diagnostico seguito dal veterinario omeopata unicista (che utilizza cioè il rimedio unico nella sua pratica clinica).
Risultati ottenuti: La positività dei dati ottenuti è chiaramente legata ad una corretta applicazione della metodologia omeopatica, la quale prevede anche un attento studio del comportamento delle specie prese in considerazione.
In tutti i casi presentati è evidente il netto miglioramento del disturbo principale o la sua scomparsa, accompagnato da un maggior benessere del soggetto, manifestato con una ripresa delle relazioni sociali e un rinnovato interesse verso l’attività ludica e
di esplorazione dell’ambiente.
Conclusioni: L’analisi di questi casi dimostra come possa essere utile ed interessante una integrazione tra metodi terapeutici differenti e come le radici per una buona prescrizione affondino nel fertile terreno dello studio della medicina, che è una sola.
Indirizzo per la corrispondenza:
Dott.ssa M. Nuovo
Via Casalborgone, 32 - 10132 Torino
Tel. 011 8195513
E-mail: [email protected]
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ESPERIENZE PERSONALI SUL TRATTAMENTO ARTROSCOPICO DELL’OCD DI SPALLA
IN 150 CASI: RECENTI ACQUISIZIONI
Massimo Olivieri1 Med Vet, Emanuela Ciliberto2 Med Vet PhD, Bruno Peirone2 Med Vet PhD
Aldo Vezzoni3 Med Vet Dipl ECVS
1
Libero professionista, Samarate (VA) e Dipartimento di Patologia Animale, Università di Torino
2
Dipartimento di Patologia animale, Università di Torino
3
Libero professionista, Cremona
Introduzione: L’osteocondrite dissecante della testa omerale (OCD) è una causa frequente di zoppia di spalla nei cani in accrescimento di media-grossa mole. La chirurgia artroscopica di questa patologia prevede di rimuovere il flap e di curettare i margini della lesione. Il tipo di trattamento del letto subcondrale dipende invece dalla sua valutazione ingrandita intraoperatoria. La
gestione del periodo post-operatorio varia infine in base all’estensione e alla localizzazione della lesione articolare. Con questo
approccio gli autori hanno ottenuto una percentuale di recupero funzionale totale elevata (94%). Attualmente sono in corso studi retrospettivi per valutare la causa della persistenza della zoppia in alcuni soggetti del presente studio.
Materiali e metodi: Nel presente lavoro sono stati inclusi 150 cani con zoppia di spalla e lesione osteocondrale operati in artroscopia tra il Gennaio 1996 e il Gennaio 2002. I criteri di esclusione sono stati la presenza di altre lesioni nella stessa articolazione o in altre sedi dello stesso arto. Durante la procedura operativa il flap veniva rimosso sotto visione. Il letto subcondrale
non veniva curettato se la sua valutazione ingrandita e la corrispettiva palpazione metteva in evidenza una buona fibrocartilagine in rigenerazione. Viceversa, in presenza di scarsa rigenerazione venivano effettuati piccoli fori nel subcondrale fino ad ottenimento di sanguinamento, mentre in presenza di sclerosi si conseguiva lo stesso risultato previo curettage superficiale di tutto
il letto della lesione. Infine, nei casi in cui il flap non veniva rinvenuto nella sede originaria, si effettuava una accurata ispezione dell’intera articolazione per cercare il lembo migrato e, se rinvenuto, veniva al tempo stesso rimosso. Nei soggetti con flap a
localizzazione caudo-centrale nell’ultimo anno è stata applicata una fasciatura a carpo flesso per le prime 3-4 settimane dopo
l’intervento associata a fisioterapia.
Risultati: L’esame artroscopico ha permesso di evidenziare una lesione osteocondrale in 150 casi: 97 avevano una posizione
caudo-centrale mentre 53 caudo-mediale o mediale. In 19 di questi casi il flap era migrato mentre in altri 11 esso non veniva
trovato anche dopo accurata ispezione articolare. In tutti i casi in cui il flap era ancora in sede o dislocato, era evidente una buona rigenerazione di fibrocartilagine nel letto subcondrale. Riguardo gli 11 casi con flap apparentemente riassorbito, in 5 soggetti
è stata necessaria una riattivazione o un curettage del letto subcondrale. Infine, in 2 casi non è stato possibile rimuovere il flap
in artroscopia, ma è stata necessaria un’artrotomia. In 141 cani la zoppia è regredita in un periodo variabile dai 14 ai 50 giorni.
I soggetti con lesioni caudo-mediali o mediali hanno avuto un periodo di recupero più veloce rispetto a quelli con lesioni caudo-centrali. 9 soggetti hanno avuto persistenza della zoppia: tutti avevano una lesione con localizzazione caudo-centrale, e nessuno di questi aveva avuto una fasciatura a carpo flesso.
Discussione: L’esame artroscopico della spalla in corso di OCD permette la rimozione del flap, il curettage dei margini della
lesione oltre ad una valutazione completa dell’articolazione. Nel caso in cui il flap sia migrato e/o riassorbito è possibile verificare se è presente ed eventualmente la sua esatta posizione. La valutazione ingrandita del letto subcondrale può inoltre dare importanti informazioni sull’utilità di un suo eventuale trattamento, evitando curettage potenzialmente non indicati. Infine, nell’esperienza degli autori, l’impiego di una fasciatura di non carico nelle grosse lesioni caudo-centrali nelle prime 3-4 settimane può
ridurre l’incidenza di zoppie permanenti talvolta associate a questo tipo di lesioni.
Indirizzo per corrispondenza:
Massimo Olivieri
Clinica Veterinaria Malpensa
Via Marconi 55 Samarate - Va
Tel. 0331 228155 - Fax 0331 220255
E-mail: [email protected]
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TRE CASI DI DEMODICOSI GENERALIZZATA IN FOX TERRIER ADULTI
SOSTENUTA DA DEMODEX INJAI
Laura Ordeix Med Vet Dipl ECVD, Fabia Scarampella Med Vet Dipl ECVD
Liberi professionisti, Milano
La demodicosi generalizzata è una malattia cutanea del cane potenzialmente molto grave1. Anche se l’agente eziologico principale è Demodex canis, tuttavia sono state riportate infestazioni sostenute da acari del genere Demodex con caratteristiche morfologiche differenti (forma corta)2.
Recentemente è stata descritta una specie di Demodex di forma allungata in 5 soggetti negli Stati Uniti e in Australia3,4. Questo
acaro è caratterizzato da un corpo e da un opistosoma più lunghi. Nel maschio di questa nuova specie, battezzata Demodex injai,
è presente l’organo opistosomale che è invece assente nel maschio di Demodex canis5.
I segni clinici associati all’infestazione di Demodex injai sono simili a quelli osservati nelle forme sostenute da D. canis, in particolare la seborrea oleosa è stata riportata in tre dei soggetti colpiti, mentre questo rappresentava l’unico segno clinico in uno
di essi3,4. Queste forme di demodicosi hanno risposto alla terapia orale con milbemicina ossima e con spugnature di amitraz3,4.
In questa comunicazione vengono riportati tre casi di demodicosi generalizzata sostenuta da Demodex injai in cani adulti di razza Fox terrier.
Un maschio castrato di 10 anni di età (cane 1), un maschio intero di 12 anni (cane 2) e una femmina castrata di 6 anni (cane 3)
tutti di razza Fox Terrier vennero sottoposti a visita clinica perché presentavano eritema e prurito lieve dorsale con vari gradi di
untuosità della cute e del mantello. I segni erano presenti nei pazienti da periodi variabili tra cinque mesi (cane 3) ed un anno
(cane 1 e 2). Alla visita clinica dermatologica venne osservata la presenza di dermatite eritematosa e seborrea oleosa dorsale
marcata in tutti e tre i soggetti esaminati. All’esame microscopico del pelo in tutti e tre i cani vennero osservati alcuni acari del
genere Demodex di forma allungata. L’esame istologico delle lesioni venne eseguito in due dei soggetti esaminati (cane 1 e 3).
Venne osservata una perifollicolite piogranulomatosa (cane 1 e 3), adenite sebacea (cane 3), iperplasia delle ghiandole sebacee
(cane 1 e 3), mucinosi modesta (cane 1) e presenza di acari nei follicoli piliferi (cane 1).
Questa è la prima segnalazione in Europa di infestazione da Demodex injai di cui siano a conoscenza le autrici. Di particolare
interesse in questi casi è la presenza di seborrea oleosa, l’assenza di alopecia nei cani colpiti e la presenza di iperplasia delle
ghiandole sebacee quale riscontro istopatologico costante.
Bibliografia
Scott DW, Miller WM, Griffin CE. Small Animal Dermatology, 6th edition. Philadelphia, WB Saunders Co; 2001: 423-516.
Chesney CJ. Short form of Demodex species mite in the dog: occurrence and measurements. J. Small Anim Pract 1999; 40, 58-61.
Hillier A, Desch CE. Large-bodied Demodex mite infestation in 4 dogs. J. Am Vet Med Assoc 2002; 5, 623-627.
Mueller RS, Bettenay SV. An unusual presentation of canine demodicosis caused by a long-bodied Demodex mite in a Lakeland Terrier. Aust Vet Practit
1999; 29, 128-130.
5. Desch C, Hillier A. Demodex injai: A new species of hair follicle mite (Acari: Demodecidae) from the domestic dog (Canidae). J. Med. Entomol 2003;
40(2): 146-149.
1.
2.
3.
4.
Indirizzo per la corrispondenza:
Laura Ordeix
Studio dermatologico veterinario
Via Sismondi 62, 20133 Milano
E-mail: [email protected]
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EPIDEMIA DI HERPESVIRUS IN UN GRUPPO DI TESTUGGINI DEL GENERE TESTUDO IN ITALIA:
UN CASE REPORT
Francesco C. Origgi1 Med Vet PhD, Debora Rigoni2 AS
Unità di virologia umana, dipartimento di immunologia e malattie infettive, DIBIT-HSR, Milano
2
Agente Scelto, Corpo Forestale dello Stato, S. Sepolcro (AR)
1
Introduzione: In questo articolo descriviamo l’approccio diagnostico e clinico e la terapia adottata durante un’epidemia di herpesvirus verificatasi in un gruppo di testuggini in Italia.
Nell’estate del 2001 in un allevamento amatoriale di 60 testuggini che comprendeva le tre specie Testudo hermanni, T. marginata e T. graeca, fu introdotta una T. hermanni sub-adulta, che venne posta a contatto con 10 T. hermanni e 2 T. graeca residenti. Durante l’autunno dello stesso anno, immediatamente prima del letargo si verificò un’epidemia di stomatite-rinite tra le testuggini entrate a contatto con la nuova T. hermanni. Dieci T. hermanni (di cui 9 residenti insieme alla T. hermanni introdotta
più recentemente nell’allevamento) morirono con i segni clinici classici delle infezioni da herpesvirus. 1-6, 9
Nell’estate del 2002, dalle 30 uova deposte dalle femmine residenti, nacquero 20 T. hermanni e 3 T. graeca. Tutti i neonati furono posti in una nuova recinzione insieme all’unica T. hermanni sopravvissuta all’epidemia del 2001. Due mesi più tardi, 14
delle 20 T. hermanni neonate cominciarono a morire subito dopo la comparsa di un copioso scolo nasale. Nello stesso periodo
le 2 T. graeca che erano sopravvissute all’epidemia del 2001 furono alloggiate in un’area recintata con 6 T. marginata e 10 T.
hermanni. Tutte le testuggini della collezione andarono successivamente in letargo. Durante un controllo di routine, il proprietario si accorse di un anomalo calo di peso in diverse testuggini che dopo essere state svegliate, presentarono il corollario di segni clinici tipici dell’infezione da herpesvirosi.
Approccio diagnostico: Le testuggini dell’allevamento furono successivamente presentate al veterinario curante. Le testuggini
mostravano i segni clinici tipici da infezione da herpesvirus.1-6, 9 Il veterinario sottopose gli animali ad analisi di laboratorio volte a confermare il sospetto diagnostico di infezione da herpesvirus. Campioni di sangue vennero prelevati da 40 soggetti e testati tramite ELISA7 e sieroneutralizzazione. Inoltre, venne prelevato del tessuto dal sistema nervoso centrale di uno dei neonati superstiti del 2002, che era morto durante il trasporto dal veterinario, per essere sottoposto ad un test di diagnostica molecolare tramite polymerase chain reaction (PCR).8 Un totale di 25 T. hermanni, 5 T. graeca e 10 T. marginata vennero sottoposte ad
indagine sierologica per evidenziare l’esposizione ad herpesvirus. Di queste 9 T. hermanni, 2 T. graeca e 5 T. marginata risultarono positive. La PCR evidenziò la presenza di DNA genomico herpetico.
Terapia: Dopo che le analisi di laboratorio confermarono la natura erpetica dell’infezione delle testuggini, il seguente protocollo terapeutico venne adottato per tutti i soggetti a rischio dell’allevamento (25 testuggini).
La terapia venne mantenuta per tre settimane come sotto specificato:
Reidratazione: 2% in peso al giorno [50% NaCl (0.9%), 25% Ringer lattato, e 25% glucosio (5%)]
Terapia antibiotica: ceftazadime (Glazidim®, Glaxo-Smith-Kline, Verona) 20 mg/kg IM una volta ogni tre giorni.
Terapia anti-virale: acyclovir (Zovirax®, Wellcome, UK) 80 mg/kg PO, una volta al giorno.
Follow Up: Tutte le testuggini che vennero sottoposte alla terapia sopravvissero, con la sola eccezione di uno dei neonati del
2002 (T. hermanni) che morì 3 giorni dopo l’inizio della terapia. Lo scolo nasale regredì progressivamente e dopo 10 giorni dall’inizio della terapia le narici delle testuggini avevano assunto l’aspetto normale. Le placche diftero-necrotiche scomparvero dopo 5-6 giorni di trattamento. Le testuggini più giovani migliorarono più lentamente. Dopo 10 giorni le testuggini adulte apparivano clinicamente normali, mentre quelle più giovani richiesero un totale di 15 giorni per un completo recupero clinico.
Bibliografia
1. Harper, P.A.W., D.C. Hammond, and W.P.Heuschele. 1982. A herpesvirus-like agent associated with a pharyngeal abscess in a desert tortoise. J. Wildl. Dis.
18:491-94.
2. Helstab, A. and G. Bestetti. 1989. Herpesviridae causing glossitis and meningoencephalitis in land tortoises (Testudo hermanni). Herpetopathologia 1:5-9.
3. Jacobson, E.R., S. Clubb, and J.G. Gaskin, and C.H. Gardiner. 1985. Hespesvirus-like infection in Argentine tortoises. J. Am. Vet. Med. Assoc. 187:12271229.
4. Kabish, D., and J.W. Frost. 1994. Isolation of herpesvirus from Testudo hermanni and Agrionomys horsfieldii. Verh. Ber. Erkrg. Zootiere 36: 241-45.
5. Marschang, R.E., M. Gravendyck, and E.F. Kaleta. 1997. Investigation into virus isolation and the treatment of viral stomatitis in T. hermanni and T. graeca. J. Vet. Med. Ser. B, 44: 385-94.
6. Muro, J., A. Ramis, J. Pastor, L. Velarde, J. Tarres, and S. Lavin. 1998. Chronic rhinitis associated with herpesviral infection in captive spur-thighed tortoise from Spain. J. Wildl. Dis. 34(3): 487-95.
7. Origgi, F. and E. R. Jacobson. 1999. Development of an ELISA and an Immunoperoxidase based test for herpesvirus exposure detection in tortoises. Proc.
6th Assoc. Rept. Amphib. Vet. Conf.: 65-7.
8. Origgi, F., E. R. Jacobson, C. H. Romero, P. A. Klein. 2000. Diagnostic tools for herpesvirus detection in Chelonians. Proc. 7th Assoc. Rept. Amphib. Vet.
Conf.: 127-9.
9. Une, Y., K.Uemura, Y. Nakano, J. Kamiie, T. Ishiabashi, and Y. Nomura, 1999. Hespesvirus infection in tortoises (Malacochersus tornieri and Testudo horsfieldi). Vet. Pathol. 36: 624-27.
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L’IMPIEGO DELL’OMEOPATIA UNICISTA COME RISORSA TERAPEUTICA
NELLA GESTIONE CLINICA DI ALCUNI CASI “DIFFICILI” IN PATOLOGIE DEI PICCOLI ANIMALI
Roberto Orsi Med Vet
Specialista in Malattie dei Piccoli Animali, Pescia (Pistoia)
Scopo del lavoro: Portare come contributo anedottico all’efficacia dell’impiego dell’Omeopatia in Veterinaria alcuni esempi di
casi clinici di piccoli animali diagnosticati come affetti da patologie gravi, in terapia con farmaci tradizionali con esito insoddisfacente, e trattati con l’Omeopatia Unicista con risultati positivi.
Metodo impiegato: I casi clinici riportati sono stati riferiti dai colleghi curanti e/o su richiesta dei proprietari. Inizialmente sono state controllate e verificate come corrette la loro diagnosi, prognosi e terapia tradizionale. Per ciascuno di essi si è provveduto ad eseguire una visita omeopatica secondo la metodica dell’Omeopatia Unicista con tecnica repertoriale (avvalendosi dell’ausilio del repertorio informatico Synthesys-RADAR). A seguito di ciò si è somministrato un rimedio unitario, scelto in scala
e potenza, ripetuto nel tempo e cambiato secondo i parametri ricavati dall’insegnamento hahnemanniano-kentiano. Nei followup si è cercato di controllare, laddove necessario, con mezzi diagnostici e test di laboratorio l’evoluzione della patologia organica in atto.
Risultati: Caso n°1: cane Labrador con Leishmaniosi e crisi convulsive da Toxoplasmosi. Caso n°2: cane Maremmano-Abruzzese con Cardiomiopatia Dilatativa e sindrome di Cushing. Caso n°3: cane Carlino con epilessia. Caso n°4: gatto con megacolon da stenosi canale pelvico post-traumatica. In questi casi le prognosi erano da gravi a riservate. Tutti i proprietari si dichiaravano insoddisfatti dei risultati raggiunti e/o degli effetti collaterali delle terapie effettuate. Nel caso n°1 si è avuta una remissione totale della sintomatologia con normalizzazione dei test sierologici della Leishmaniosi. Nel caso n°2 i sintomi della patologia cardiaca sono scomparsi e quelli della sindrome di Cushing, insorta in seguito, ridotti ad un minimo compatibile con una
eccellente qualità di vita. Nel caso n°3 le crisi convulsive sono scomparse tanto da poter ridurre gradualmente ad un minimo
(novembre 2003) il dosaggio pluriennale di barbiturico e KBr, eliminando i pesanti e sgradevoli effetti collaterali di tali farmaci, con l’intenzione di toglierli del tutto. Nel caso n°4 la stipsi ostinata è migliorata considerevolmente, richiedendo soltanto
l’impiego saltuario di lattulosio.
Conclusioni: Secondo l’autore i risultati ottenuti nei suddetti casi clinici suggeriscono l’efficacia terapeutica del metodo omeopatico unicista ed indicano la necessità di ulteriori studi e conferme cliniche per una valutazione complessiva della sua validità.
Indirizzo per la corrispondenza:
Roberto Orsi
Piazza Mercato, 2
51017 Pescia (PT)
Tel. 0572 476975
E-mail: [email protected]
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APPROCCIO COMPORTAMENTALE AL PAZIENTE ONCOLOGICO IN MEDICINA VETERINARIA
Maria Cristina Osella1 Med Vet PhD, Paolo Buracco2 Med Vet PO, Paola Badino Biol PhD2,
Rosangela Odore Med Vet PhD2, Luciana Bergamasco3 Med Vet PhD
1
Libero Professionista, Chivasso (TO), 2Dipartimento di Patologia Animale, Settore Farmacologia e Tossicologia e
3
Dipartimento di Morfofisiologia Veterinaria, Settore di Fisiologia ed Etologia, Università degli Studi di Torino
Introduzione: In medicina umana la tendenza attuale è un intervento globale sul paziente colpito da cancro, spaziando da interventi psicoterapeutici, psicosociali, comportamentali a quelli formativo/educativi. Tale orientamento si è concretizzato in una
branca dell’oncologia nota come psico-oncologia. Considerando la crescita culturale della medicina veterinaria gli autori hanno
considerato le possibilità applicative di alcuni concetti della psico-oncologia negli animali d’affezione. Scopo del presente lavoro è quello di suggerire alcune linee guida al medico veterinario al fine di migliorare il benessere degli animali colpiti da patologie oncologiche e di agire correttamente nel rispetto della loro qualità di vita.
Materiali e metodi: In base all’ampia letteratura relativa all’approccio comportamentale del paziente oncologico in medicina
umana, sono stati individuati i principali fattori da prendere in considerazione nell’animale da affezione. In modo particolare sono state valutate le modificazioni comportamentali dell’animale nelle varie fasi evolutive della patologia e le interazioni uomoanimale al fine di assicurare una migliore qualità di vita dell’animale. Quindi un veterinario con una specifica formazione in clinica comportamentale ha affiancato l’equipe clinica e chirurgica oncologica. Si presentano a titolo esemplificativo l’esperienza
di approccio globale condotta su due casi oncologici, e nel dettaglio un cane ed un gatto.
Risultati: I risultati preliminari indicano che le necessità fisiologiche e psicologiche degli animali d’affezione sono realmente
importanti sia nelle conseguenze determinate dall’evoluzione della patologia oncologica sia per le modificazioni che intervengono a seguito del trattamento stesso, così come sull’impatto di specifici sintomi quali vomito e/o diarrea nella gestione del soggetto nell’ambito famigliare. La terapia può essere di per sé traumatica per l’animale, ma anche l’ospedalizzazione, a breve (day
hospital) o a lungo termine, può essere vissuta negativamente da cani e gatti. Così si è riscontrata la presenza di sintomi relativi a stress emozionale, ma anche forme ansiose e depressive; le principali alterazioni comportamentali sono riferibili ad iperattaccamento secondario, risposte aggressive relative a dolore e paura, disturbi eliminatori, sindromi ossessivo/compulsive. L’intervento è stato svolto in ambito strettamente veterinario, con suggerimenti in ambito gestionale e direttamente sull’animale
(modificazioni ambientali, comportamentali) nonché con il supporto di terapia farmacologia (farmaci psicotropi, feromoni).
Conclusioni: Il crescente ruolo dell’animale da compagnia nell’ambito del “sistema famiglia” impone al veterinario un’accurata gestione non solo della diagnosi e terapia della patologia neoplastica ma anche del benessere dell’animale durante la fase
terminale, il ricorso a terapie palliative o all’eutanasia ed un aiuto concreto nell’eventuale elaborazione del lutto da parte dei proprietari. Un aspetto critico è rappresentato dal fatto che talvolta l’oncologo non è preparato ad affrontare nel modo più corretto
i diversi stati emotivi dei proprietari e, in tal senso, la psico-oncologia e l’apporto di personale specializzato può certamente fornire un aiuto determinante. L’approccio multidisciplinare appare ancora utopico nella nostra realtà operativa, tranne che nelle
strutture in cui si opera come centri di referenza per i colleghi. In tal caso, la presenza di un veterinario con una specifica preparazione sui temi della medicina comportamentale può essere un valido supporto allo staff clinico e chirurgico.
Indirizzo per la corrispondenza:
Maria Cristina Osella
Via Basso 2, 10034 Chivasso, Italia
Tel. 335-6559731
E-mail: [email protected]
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VALUTAZIONE COMPORTAMENTALE DEL CANE IN UN PROGETTO DI PET FACILITATED THERAPY
Maria Cristina Osella1 Med Vet, PhD; Marzio Panichi2, Med Vet, PA; Luciana Bergamasco3 Med Vet, PhD
1
Libero professionista, Chivasso (TO)
2
Dipartimento di Patologia Animale, Medicina legale veterinaria,legislazione veterinaria, protezione animale e deontologia e
3
Dipartimento di Morfofisiologia Veterinaria, Settore di Fisiologia ed Etologia, Università degli Studi di Torino,
Facoltà di Medicina Veterinaria
Introduzione: In qualsiasi programma terapeutico di Pet Facilitated Therapy (Terapia assistita mediante l’utilizzo di animali
d’affezione) il primo passo è la scelta oculata degli animali, procedendo ad una valutazione comportamentale oltre che sanitaria dei singoli soggetti, in rapporto alle particolari esigenze delle persone coinvolte (tipo e grado variabile di disabilità psico e/o
fisica). L’animale che diviene co-terapeuta, lavorando in stretta sintonia con il suo partner umano, dovrebbe inoltre essere costantemente monitorato, onde evitare lo sviluppo di eto-anomalie ed al fine di garantire il pieno rispetto delle sue esigenze fisiologiche ed etologiche, nonché per ottimizzare il rapporto uomo-animale. Scopo del presente lavoro è stato l’applicazione in
campo dei principi sopraesposti in un gruppo di 6 cani utilizzati in un progetto di Pet Facilitated Therapy.
Materiali e metodi: Dopo gli incontri preliminari per la definizione del progetto e della sua realizzazione si è passati alla definizione di un protocollo operativo, prevedendo riunioni periodiche con discussione e valutazione critica dell’attività svolta ed
impostazione del lavoro successivo. Prima della data di inizio della parte pratica i cani sono stati sottoposti ad esame fisico e alle analisi di laboratorio ritenute utili per certificare il loro stato di sanità (esame del sangue, esame delle feci, esame del pelo);
la visita clinica e l’esecuzione delle analisi sono state ripetute mensilmente. Inoltre, i cani sono stati sottoposti ad una valutazione comportamentale preliminare al fine di stabilirne l’idoneità di ciascun soggetto rispetto al tipo di “lavoro” richiesto nelle
singole sessioni di AAA (Animal Assisted Activities) e AAT (Animal Assisted Therapy). Le sessioni di lavoro dell’animale sono
state concordate precedentemente con gli altri membri dello staff, in considerazione dei singoli obiettivi. Ciascuna sessione è
stata strutturata con delle fasi di interazione attiva con il paziente e fasi di riposo per l’animale, a seconda del tipo di lavoro cui
il cane viene sottoposto e al grado di impegno fisico e/o mentale richiestogli. Il monitoraggio comportamentale è stato effettuato nello svolgimento dei 24 incontri settimanali previsti dal progetto, che ha incluso 8 utenti con disabilità psico-fisica molto
grave (4 utenti per le AAT e 4 utenti per le ATT). I controlli comportamentali sono avvenuti mediante valutazione etologica globale e l’esecuzione di specifici test.
Risultati: I cani inclusi nel presente progetto, già sottoposti a specifico addestramento relativo all’utilizzo, sono risultati equilibrati e socievoli, oltre che privi di alterazioni emozionali e cognitive alla valutazione comportamentale e ai test attitudinali. Durante le sessioni con gli utenti i cani non hanno presentato alcun sintomo di stress, né fisiologico né comportamentale; hanno
anzi mostrato di gradire le sessioni di lavoro con i pazienti, manifestando piena disponibilità e collaborazione nei confronti dei
loro conduttori hanno risposto positivamente alle varie sollecitazioni ambientali, sia intese come spazio fisico che come ambiente sociale in senso lato.
Conclusioni: Poiché gli animali rappresentano il cardine della Pet Facilitated Therapy risulta comprensibile il coinvolgimento
di varie figure professionali nonché delle associazioni di volontariato e degli enti protezionistici, ma il veterinario riveste un ruolo fondamentale come supervisore dei progetti, a livello sanitario e di tutela dell’animale stesso. Nel particolare contesto, alla
preparazione di base deve accompagnarsi una specifica competenza sui temi del benessere animale e dell’etologia applicata, i
cui principi sono validamente utilizzati nelle relazioni che si instaurano durante le diverse fasi operative.
Indirizzo per la corrispondenza:
Maria Cristina Osella
Via Basso 2, 10034 Chivasso (TO)
Tel. 335-6559731
E-mail: [email protected]
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PIASTRINOPENIA NEL CANE E NEL GATTO.
ESPERIENZE PERSONALI SU 92 CASI RACCOLTI NELL’ANNO 2002
Marco Caldin1,2 Med Vet, Carlo Patron2 Med Vet, Erika Carli2 Med Vet, Silvia Tasca2 Med Vet,
Tommaso Furlanello1,2 Med Vet
1
Clinica Veterinaria Privata “San Marco”
2
Laboratorio Privato d’Analisi Veterinarie “San Marco”
La piastrinopenia (TP) è una riduzione del numero piastrinico rispetto all’intervallo di riferimento per la specie animale in oggetto. La conta piastrinica può diminuire o per una effettiva riduzione delle piastrine circolanti o per la presenza di aggregati
piastrinici che non vengono riconosciuti come tali durante la fase analitica strumentale. Tale evenienza può essere facilmente superata mediante l’esame microscopico dello striscio di sangue periferico che identifica eventuali aggregati e stima se la presenza di questi sia compatibile con una adeguata quantità di piastrine. In questo modo le TP possono essere distinte in “false” (o
strumentali) e “vere”.
Scopo del presente lavoro è di valutare la prevalenza della TP strumentale e della TP “vera”, classificando quest’ultima in base
al meccanisco patogenetico che l’ha determinata. Lo studio ha preso in considerazione 2315 esami emocromocitometrici [CBC]
(1866 di cane e 449 di gatto) eseguiti nell’anno 2002 con contaglobuli laser ADVIA 120 Bayer e valutazione citomorfologica
dello striscio ematico. Il 12.7% dei CBC canini è risultato piastrinopenico (236/1866), mentre nei gatti la percentuale è del
24.5% (110 piastrinopenici su 449). Una volta eseguita la stima piastrinica sullo striscio periferico, sono stati riconosciuti 192
CBC con TP “vera” (165 canini e 27 felini). Le TP “vere” sono risultate essere l’8.8% dei CBC di cane e il 6% dei CBC di gatto, confermando l’elevata frequenza di TP “false” nella specie felina, legata alla spiccata e peculiare reattività piastrinica in quest’ultima. I 192 CBC appartenevano ad 86 cani e a 17 gatti (data la ripetizione dell’esame). I criteri d’inclusione di questi pazienti sono costituiti da: CBC, profilo biochimico, elettroforesi sierica, profilo coagulativo, e nei gatti anche la ricerca dell’antigene FeLV e degli anticorpi per FIV. Non è stato possibile realizzare l’esame delle urine in alcuni pazienti, in quanto la raccolta per cistocentesi, unica metodica per noi accettabile, poteva risultare potenzialmente pericolosa a causa di possibili sanguinamenti. 3 cani e 8 gatti piastrinopenici sono stati esclusi dallo studio per la mancanza dei criteri d’inclusione.
Per classificare i casi di TP sono stati considerati i seguenti meccanismi patogenetici: (1) diminuita produzione, (2) alterata distribuzione (sequestro), (3) aumentata distruzione e (4) aumentato consumo. In 24/83 cani (28.9%) la patogenesi riconosciuta è
stata la diminuita produzione, in 21/83 (25.3%) è risultata da sequestro, in 7/83 (8.4%) è risultata da distruzione e in 22/83
(26.5%) da consumo. In 14 cani (16.9%) non è stato possibile raggiungere una diagnosi definitiva. In alcuni pazienti la causa
della TP poteva essere multipla e la somma delle percentuali di conseguenza supera il 100%. In 7/9 gatti (77.8%) il meccanismo patogenetico della TP risiedeva nella alterata produzione; in 2/9 (22.2%) non si è giunti a una diagnosi definitiva.
In conclusione, il reperimento nel gatto di una TP strumentale è associato solo in un ridotto numero di casi ad una reale diminuzione di piastrine, mentre nel cane la prevalenza sembra essere meno importante. Considerate le sole TP “vere”, la prevalenza di tale segno sembra essere similare nelle 2 specie in oggetto. Nel cane la diminuita produzione, il sequestro e il consumo sono le tre cause patogenetiche dominanti e presentano prevalenza simile, mentre la distruzione è percentualmente un meccanismo meno rilevante. Nel gatto la totalità delle TP dello studio, nelle quali è stato chiarito il meccanismo patogenetico, è legato
a una minore produzione (insufficienza midollare). Tale differenza giustifica il differente approccio alla TP nella specie felina,
che necessita, nella quasi totalità dei casi, di una valutazione midollare mediante agoaspirazione.
Indirizzo per la corrispondenza:
Laboratorio d’Analisi Veterinarie “San Marco”
Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova
Tel. 049-8561039 - Fax 02-700518888
E-mail: [email protected]
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LESIONI ISOLATE (“PRIMARIE”) A CARICO DEL MENISCO LATERALE NEL BOXER:
DIAGNOSI E TRATTAMENTO ARTROSCOPICO
Massimo Olivieri1 Med Vet, Massimo Pavanelli2 Med Vet, Pasquale D’Urso2 Med Vet
Libero professionista Samarate, Varese e Dipartimento di Patologia Animale - Università di Torino
2
Libero professionista, Samarate (VA)
1
Introduzione: Le lesioni isolate o “primarie” a carico del menisco, cioè non associate a patologia del legamento crociato anteriore (LCA), sono sempre state considerate rare nei piccoli animali. Di recente, invece, grazie alla maggiore diffusione di tecniche diagnostiche non invasive o mini-invasive, questi casi risultano evidenziati con maggiore frequenza. Nell’esperienza degli
autori, grazie soprattutto all’artroscopia, è possibile, soprattutto nei casi di zoppia acuta in soggetti adulti, evidenziare precocemente dei casi in cui la lesione meniscale rappresenta la causa primaria di zoppia. Nel presente lavoro viene riportata una lesione isolata del menisco laterale in 4 boxer adulti sottoposti ad artroscopia diagnostica per zoppia acuta a carico del ginocchio.
Materiali e metodi: I soggetti inclusi nel presente lavoro sono 4 cani di razza boxer, 3 maschi ed 1 femmina, di età compresa
tra i 3 e i 5 anni, riferiti alla visita ortopedica per dolore a carico dell’articolazione del ginocchio. In tutti i soggetti c’era una
storia di insorgenza acuta della zoppia associata ad attività intensa. Alla visita si riscontravano in tutti i casi algia ai movimenti
di flesso estensione del ginocchio e modica tumefazione articolare. Il test del cassetto e quello di compressione tibiale avevano
dato esito negativo; infine le valutazioni dei legamenti collaterali e del tendine dell’EDPL erano nella norma. Lo studio radiografico dell’articolazione nelle due proiezioni, evidenziava in tutti i cani segni di sofferenza articolare quali aumentata radiodensità dello spazio infrapatellare e spostamento caudale della radiotrasparenza corrispondente alla fascia dei mm. poplitei. L’esame artroscopico del ginocchio ha permesso di escludere in tutti i soggetti lesioni a carico dell’LCA e del menisco mediale,
come pure delle altre strutture osservabili. Più in particolare l’LCA, ingrandito, mostrava una struttura compatta, in assenza di
fibrillazione e con vascolarizzazione capillare ben evidente lungo il decorso delle sue fibre: questa normalmente scompare in fasi molto precoci di sofferenza dell’LCA. I cani esaminati presentavano tutti lesioni a carico del menisco laterale: in tre casi disinserzione caudale del legamento menisco femorale ed in un caso una lesione trasversale completa a livello del corno posteriore. Tutti i casi sono stati trattati mediante meniscectomia parziale del corno posteriore.
Risultati: Il recupero funzionale dei soggetti è stato molto veloce, con carico parziale dopo 7-10 giorni dall’artroscopia e carico completo con assenza di zoppia in un periodo variabile dai 20 ai 30 giorni. I controlli eseguiti a 3, 6 e 9 mesi hanno evidenziato assenza di zoppia e totale stabilità del ginocchio. All’esame radiografico eseguito dopo 6 mesi in tutti i soggetti si osservavano segni iniziali di artrosi.
Conclusioni: le lesioni isolate a carico dei menischi sono state per anni considerate tipiche dell’uomo e di scarsa rilevanza clinica nei piccoli animali, non solo per quanto riguarda il menisco mediale, più frequentemente coinvolto, ma anche e soprattutto per il laterale. Nel presente lavoro sono invece segnalate 4 lesioni isolate del menisco laterale riscontrate nella stessa razza.
Ciò fa considerare la possibilità che ci possa essere un fattore predisponente nel boxer. Va d’altronde rilevato che, nell’esperienza
degli autori, sono state rinvenute lesioni meniscali isolate, sia del laterale che del mediale, anche in altre razze. La possibilità di
una meniscopatia isolata deve quindi essere a tutt’oggi inserita nel diagnostico differenziale delle cause di zoppia di ginocchio
di origine traumatica, soprattutto in soggetti adulti e in assenza di segni clinici che depongano per una rottura parziale o totale
dell’LCA.
Indirizzo per la corrispondenza:
Massimo Olivieri, Clinica Veterinaria Malpensa
Via Marconi 55, Samarate (VA)
Tel. 0331 228155 - Fax 0331 220255
E-mail: [email protected]
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RINVENIMENTO DI CELLULE ENDOMETRIALI IN STRISCI COLPOCITOLOGICI NELLA CAGNA:
INTERPRETAZIONE CLINICA
Alessandro Pecile Med Vet PhD, Debora Groppetti Med Vet
Cristina Barbero Med Vet, Fausto Cremonesi Med Vet Prof Pat Ripr
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie - Sezione di Clinica Ostetrica Veterinaria - Università degli Studi di Milano
Introduzione: L’esame colpocitologico nella cagna costituisce da tempo uno strumento diagnostico importante per la valutazione dello stato estrale in relazione all’individuazione del momento opportuno per l’accoppiamento, così come è utile per la
valutazione di numerosi stati patologici vaginali, uterini, ovarici (es. metrorragie, neoplasie, flogosi, cisti ovariche). Le modificazioni che si verificano nell’epitelio esfoliativo vaginale sono il risultato delle variazioni cicliche degli ormoni ovarici. I principali tipi cellulari descritti dal punto di vista morfologico, sono rappresentati da cellule parabasali, cellule intermedie e superficiali. Possono essere inoltre osservate altre tipologie cellulari, comunque ascrivibili ad animali sani: cellule metaestrali, cellule vacuolizzate, cellule superficiali con corpi citoplasmatici, cellule epiteliali contenenti melanina, cellule epiteliali della fossetta clitoridea, eritrociti, leucociti, spermatozoi.
Scopo del lavoro: Nel presente lavoro viene riportata la presenza in strisci colpocitologici di aggregati cellulari di origine endometriale in casi di colporrea ricorrente presentati alla nostra attenzione in cagne ovario- isterectomizzate.
Materiali e metodi: 10 soggetti sono stati sottoposti ad esame colpocitologico per manifestazioni estrali dopo sterilizzazione,
comparsa in tempi variabili da un mese a diversi anni dall’intervento. Per ciascun soggetto è stato eseguito un esame colpocitologico ed i campioni, in triplice colorazione (Schorr modificato, Hemacolor Merck e Papanicolaou), sono stati esaminati al microscopio da 100 a 1000 ingrandimenti per l’identificazione dei differenti tipi cellulari.
Risultati e discussione: In tutti i soggetti sono state evidenziate cellule endometriali nello striscio colpocitologico. 9 cagne presentavano alla visita clinica manifestazioni comportamentali estrali, attrazione da parte dei maschi e colporrea. La rimanente cagna evidenziava alla visita ecografica una sospetta raccolta nel moncone uterino. 2 soggetti mostravano anche incontinenza urinaria. In 6 cagne si osservavano quadri colpocitologici caratterizzati da eosinofilia estrogeno-indotta di intensità variabile, mentre nelle restanti quattro non era evidente alcuna attività ormonale ovarica.
Le cellule endometriali riscontrate a livello vaginale si presentavano comunemente in gruppi (da 1 a 3 “nidi cellulari” per vetrino), spesso orientate con l’asse maggiore perpendicolare al vetrino, nucleo di forma rotonda od ovale con fini granulazioni e
grossolani aggregati di cromatina. Non erano visibili ciglia. Spesso è stato possibile apprezzare il lume delle strutture ghiandolari endometriali. La morfologia delle cellule endometriali varia durante le fasi del ciclo ovarico, tuttavia un unico tipo cellulare endometriale è stato osservato nei nostri campioni esaminati. Nelle due cagne in cui è stato eseguito nuovamente l’intervento chirurgico a livello di moncone vaginale, si è avuta remissione completa della sintomatologia. Gli altri soggetti sottoposti a
trattamenti farmacologici ormonali hanno mostrato solo temporanea remissione della colporrea.
Conclusioni: In letteratura viene segnalata, seppur in casi sporadici, la presenza di cellule endometriali in cagne in fase estrale. Nel presente lavoro viene invece riportato il loro riscontro in soggetti ovario-isterectomizzati caratterizzati tutti, tranne uno,
da colporrea e sintomatologia estrale, confermata in base all’esame colpocitologico solo in sei soggetti. In conclusione il riscontro di cellule endometriali nell’esame colpocitologico della cagna dopo ovario-isterectomia, associato a colporrea, costituisce reperto indicativo di processi disfunzionali di residui di mucosa uterina non sempre associati a presenza di ovarian remnant syndrome.
Indirizzo per la corrispondenza:
Alessandro Pecile
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie
Sezione di Clinica Ostetrica e Ginecologica Veterinaria
Università degli Studi di Milano
Via Celoria 10, 20133 Milano
Tel. 02 50318150 - Fax 02 50318148
E-mail: [email protected]
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MONITORAGGIO HOLTER IN CORSO DI FIBRILLAZIONE ATRIALE PRIMARIA NEL CANE
Roberto A. Santilli Med Vet D.E.C.V.I.M.-C.A. (Cardiology), Manuela Perego Med Vet
Clinica Veterinaria Malpensa, Samarate (VA)
La fibrillazione atriale (FA) rappresenta la tachiaritmia sopraventricolare di più frequente riscontro nel cane con un’incidenza pari al 0,040,18%. Alcune razze giganti quali i Levrieri Irlandesi ed i Terranova, il sesso maschile ed i soggetti con peso medio di 40,5 kg risultano
particolarmente predisposti. La FA risulta solitamente secondaria a cardiopatie organiche di natura acquisita (cardiomiopatia dilatativa ed
insufficienza mitralica nelle razze di grossa taglia) o congenita. Come nell’uomo anche nel cane esiste una forma detta isolata o primaria
che si presenta classicamente in assenza di dilatazioni camerali cardiache. La presenza di questa aritmia con penetranze ventricolari sostenute può indurre tachicardiopatia ventricolare con progressiva perdita della funzione contrattile e riduzione della portata cardiaca. Questi eventi inducono uno sbilanciamento simpatico-vagale con insorgenza d’insufficienza cardiaca congestizia o peggioramento di quella
già esistente. Nelle forme secondarie solo il 25% dei cani sopravvive 3-6 mesi e solo il 7% un anno. La prognosi della FA primaria viene
considerata relativamente benigna con aspettative di vita media intorno ai 2 anni dall’esordio.
Lo scopo del lavoro è stato quello di valutare le caratteristiche del monitoraggio elettrocardiografico prolungato secondo il metodo Holter nei soggetti con FA primaria e confrontarlo a quello di soggetti con cardiopatie acquisite complicate da FA.
12 cani con FA all’elettrocardiogramma basale sono stati inclusi nello studio e divisi in 3 gruppi: 1) 5 cani con cardiopatie acquisite in stato congestizio complicate da FA; 2) 5 cani con FA primaria allo stadio iniziale in assenza d’insufficienza cardiaca
congestizia; 3) 2 cani con FA primaria in avanzato stato congestizio e tachicardiopatia ventricolare reversibile con trattamento farmacologico. La distribuzione delle razze, sesso, peso ed i range di frequenza cardiaca sono indicati nella tabella 1. Tutti i cani del
primo e del terzo gruppo al momento del monitoraggio Holter erano in terapia con furosemide, ACE-inibitore e digossina.
Dall’analisi dei monitoraggi è emerso che le FA secondarie presentano una frequenza cardiaca media e minima più alte, un numero
cospicuo di battiti ectopici ventricolari prematuri, spesso organizzati in periodi di bigeminismo, coppie e lembi di tachicardia ventricolare non sostenuta. I cani del terzo gruppo nonostante la presenza d’insufficienza cardiaca e le FA primarie in stadio iniziale presentano monitoraggi simili con bassa penetranza ventricolare a riposo e assenza di aritmie ventricolari. In questi ultimi due gruppi
minimi sforzi inducono marcati aumenti della frequenza ventricolare che perdurano a lungo dopo la fine dell’esercizio.
L’analisi della variabilità della frequenza cardiaca ha permesso di studiare lo stato del sistema nervoso autonomo nei vari gruppi con
segni d’ipertono simpatico nel primo (Indice triangolare 23,2 + 8,34; media R-R 465 + 53,98; deviazione standard R-R 135 + 35,78;
alto indice LF/HF) e segni di ipertono vagale nel secondo (Indice triangolare 44,6 + 7,4; media R-R 533 + 27,16; deviazione standard
R-R 321 + 174,34; basso indice LF/HF) e terzo gruppo (Indice triangolare 47,5 + 12,02; media R-R 583 + 96,16; deviazione standard
R-R 369,50 + 72,83; basso indice LF/HF). Dai risultati preliminari ottenuti in questo studio la metodica Holter si è dimostrata un valido sussidio diagnostico nell’esame dei diversi tipi di fibrillazione atriale, permettendo di differenziare le forme primarie dalle secondarie, anche se le ultime si presentano in stato congestizio con tachicardiopatia ventricolare secondaria.
Tabella 1 - Segnalamento, patologia cardiaca e range di frequenza cardiaca (FC) in 12 cani con fibrillazione atriale.
Razza
Gruppo 1
Dogue de Bordeaux
Bracco Tedesco
Dobermann
P. Tedesco
P. Tedesco
Gruppo 2
Terranova
Terranova
Terranova
Terranova
Terranova
Gruppo 3
Dogue de Bordeaux
Alano Tedesco
Sesso
Età
Peso
Patologia
FC media
FC min
FC max
m
m
m
m
m
Media
Dev.St
Mediana
4,6
12
9
8
9
8,52
2,66
9
63
20
47
35
37
40,4
15,90
37
Cardiomiopatia Dilatativa
Malattia mitralica cronica
Cardiomiopatia Dilatativa
Malattia mitralica cronica
Malattia mitralica cronica
Media
Dev.St
Mediana
132
138
154
121
112
131,4
16,12
132
70
99
103
84
74
86
14,68
84
200
182
214
181
213
198
16,05
200
m
fs
fs
m
fs
Media
Dev.St
Mediana
9
10
3
6
7
7
2,74
7
55
60
42,6
53
58
53,72
6,77
55
FA I°
FA I°
FA I°
FA I°
FA I°
Media
Dev.St
Mediana
122
121
111
113
101
113,6
8,53
113
32
77
65
68
22
52,8
24,22
65
195
205
325
193
191
221,8
57,94
195
f
m
Media
Dev.St
Mediana
5
4
4,5
0,71
4,5
55
82
68,5
19,09
68,5
Tachicardiopatia
Tachicardiopatia
Media
Dev.St
Mediana
117
83
100
24,04
100
21
21
21
0,00
21
194
177
185,5
12,02
185,5
Indirizzo per la corrispondenza: Clinica Veterinaria Malpensa - Viale Marconi, 27 - 21017 Samarate (VA)
Tel. (39) 0331 228155 - Fax (39) 0331 220255 - E-mail: [email protected]
500
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
ASSOCIAZIONE DI CARPROFENE E TRAMADOLO
PER IL CONTROLLO DELL’ALGIA POST OPERATORIA NEL CANE
Alberto Perini1 Med Vet PhD, Massimo Olivieri2 Med Vet, Pasquale Italo D’Urso1 Med Vet
1
Libero professionista, Samarate (VA)
2
Libero professionista, Samarate (VA), Dipartimento di Patologia Animale - Università di Torino
Introduzione: Oltre che verso nuove sostanze, la ricerca per la soppressione del dolore si è spinta a studiare più approfonditamente i meccanismi che determinano la percezione e la trasmissione dello stimolo algico, evidenziando così alcuni punti chiave sui quali poter agire per ottenere un effetto più efficace. Uno dei risultati più stimolanti riguarda la possibilità di associazione di farmaci di categorie diverse al fine di bloccare in punti diversi lo stimolo dolorifico. A tal proposito si è ipotizzato di impiegare il carprofene, farmaco antinfiammatorio non steroideo ed il tramadolo (nome commerciale “Contramal”), che presenta
un meccanismo di azione multiplo che associa un agonismo, forse solo parziale, sui recettori mu degli oppioidi, ad una attività
sui sistemi di neuromediazione monoaminergica, più specificatamente inibitrice la ricaptazione di noradrenalina ed elevatrice la
concentrazione di serotonina a livello centrale. Come termine di paragone della associazione sopra esposta, verrà impiegata la
buprenorfina, oppioide mu agonista parziale.
Materiali e metodi: Per questo studio sono stati considerati 18 pazienti di specie canina di diverse razze, sottoposti ad artroscopia con lesioni articolari sovrapponibili; tali pazienti sono stati suddivisi casualmente in gruppi in relazione al tipo di farmaco analgesico impiegato; la somministrazione del farmaco analgesico avveniva immediatamente dopo l’induzione dell’anestesia. Al termine dell’intervento gli effetti sedativi ed analgesici venivano valutati ogni 30 min per 150 min dalla somministrazione del farmaco, secondo sistemi a punteggio: per l’analgesia si sono basati su quantificazione su scala grafica (visual analogic
scale; punteggio da 0 a 100) del dolore osservato in base a variazioni di parametri fisiologici ed al forzato movimento dell’arto
operato, da parte di tre medici veterinari, ignari del trattamento farmacologico effettuato. Il punteggio per ogni intervallo di tempo era costituito dalla media dei tre punteggi ottenuti. L’effetto sedativo è stato calcolato sul punteggio totale, variabile da un
massimo di 34 punti per lo stato di anestesia generale ad un minimo di 0 punti per lo stato vigile. I risultati sono stati confrontati mediante analisi della varianza ad una ed a due code ed mediante test di students (p<0,05).
Risultati: Tutti i pazienti considerati in questo lavoro hanno dimostrato un buon livello di analgesia postoperatoria (dolore medio per gruppo tramadolo 23,13; gruppo buprenorfina 11,76; gruppo carprofene/tramadolo 7,8) ad eccezione di un alano ed un
boxer nel gruppo del tramadolo che hanno evidenziato un dolore medio-grave durante gli ultimi rilievi. Il gruppo della buprenorfina e del carprofene/tramadolo hanno evidenziato una analgesia media statisticamente significativa migliore rispetto al gruppo tramadolo. L’artroscopia più dolorosa è risultata essere quella di spalla (dolore medio spalla 20,24; dolore medio gomito 5,6;
dolore medio ginocchio 7,16). Nel nostro studio non si è evidenziata differenza di effetto sedativo in relazione al tipo di analgesico impiegato.
Conclusioni: L’associazione di carprofene e tramadolo, agendo su meccanismi diversi, assicura una analgesia migliore che un
agente singolo come il tramadolo, ed è sovrapponibile all’effetto antalgico di un oppioide ben conosciuto per efficacia come la
buprenorfina. Anche nelle artroscopie più dolorose (spalla) il gruppo carprofene/tramadolo ha dimostrato la migliore capacità di
contrastare l’effetto algico dell’intervento.
Indirizzo per la corrispondenza:
Alberto Perini
Clinica Veterinaria Malpensa
Via Marconi 27, 21017 Samarate (VA)
Tel. 0331-228155 - Fax 0331-220255
E-mail: [email protected]
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48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
501
CONTRATTURA DEL MUSCOLO FLESSORE ULNARE DEL CARPO NEL CANE.
STUDIO RETROSPETTIVO SU 15 CASI
Massimo Petazzoni1 Med Vet, Carlo Maria Mortellaro2 Med Vet
1
Libero professionista, Milano
2
Istituto di chirurgia e radiologia veterinaria, Facoltà di medicina veterinaria, Università degli studi di Milano
Scopo del lavoro: Studio retrospettivo di 15 casi clinici di contrattura del muscolo flessore ulnare del carpo nel cucciolo allo
scopo di identificare eventuali correlazioni fra l’età di insorgenza della malattia, il suo decorso clinico ed il grado di gravità della stessa. Gli autori propongono inoltre una gradazione della gravità della malattia in base alla sintomatologia.
Materiali e metodi: È stata eseguita una valutazione retrospettiva delle cartelle cliniche di 15 pazienti affetti da SIC. Tutti i cuccioli venivano riferiti alla visita clinica per una zoppia anteriore mono (1/15) o bilaterale (14/15). In tutti i pazienti veniva emessa la diagnosi di contrattura del muscolo flessore ulnare del carpo. La diagnosi si basava sui segni clinici della malattia (carico
del peso corporeo sulla superficie palmarolaterale delle dita, differenti gradi di deviazione in varo dell’articolazione del carpo
e/o deviazione in procurvato della stessa giuntura). In base alla gravità dei segni clinici veniva effettuata una gradazione della
contrattura come segue: grado 1 - il paziente carica il peso corporeo dell’arto valutato sulla superficie palmarolaterale delle dita della mano senza alcuna deviazione del carpo in varo o in procurato, grado 2 - deviazione in varo del carpo associata ad eventuale leggera deviazione in procurvato dell’articolazione, grado 3 - evidente iperflessione del carpo associata a gradi differenti
di deviazione in varo del carpo.
Risultati: Dodici razze sono state oggetto del presente studio: Shar-pei, Dalmata, Dobermann, Dogo Argentino, Dogue de Bordeaux, American staffordshire terrier, Golden retriever, Pitbull, Rottweiler, Boxer, Bulldog e un incrocio. I maschi rappresentavano la maggioranza (10/15, 66.6%); l’età media al momento della visita clinica era di 9,5 settimane (6 - 12). Tredici cuccioli
risultavano affetti bilateralmente (86,6%) mentre solo due erano colpiti dalla malattia ad un solo arto (13.4%). Sei (40%) manifestavano una leggera contrattura, 2 su 15 (13,3%) una contrattura di 2° e 7 soggetti (46.6%) manifestavano una contrattura di
3°. Tredici cuccioli su 15 (86,6%) ottenevano la remissione della sintomatologia spontaneamente successivamente ad un periodo di riposo di 2-8 settimane e in due casi la guarigione avveniva dopo l’applicazione di un bendaggio morbido. La gravità della malattia ed il suo decorso risultavano essere correlati negativamente all’età dei cuccioli, mentre il decorso clinico risultava essere positivamente correlato alla gravità della sintomatologia. La terapia conservativa risultava efficace in tutti i soggetti. Al follow-up minimo di 6 mesi nessun soggetto presentava segni di recidiva o di conseguenze della malattia.
Conclusioni: Numerose razze possono essere colpite dalla SIC. La sola visita clinica consente di emettere una diagnosi definitiva nella maggior parte dei casi. L’attività motoria peggiora progressivamente la sintomatologia clinica, pertanto la terapia deve prevedere un periodo di riposo forzato. La patologia, che è sempre autolimitante, ha normalmente una prognosi favorevole
ed un decorso breve. La drammaticità della presentazione clinica non deve in alcun modo indurre ad intervenire chirurgicamente
perché il recupero funzionale e la guarigione, anche nei casi più gravi, non tarderà ad arrivare spontaneamente.
RAZZA
SESSO
ETÀ *
LATO
DECORSO *
GRADO
TERAPIA
SHAR-PEI
SHAR-PEI
DALMATA
DOBERMANN
DOGO ARGENTINO
DOGUE DE BORD.
DOGUE DE BORD.
AM STAFF TERRIER
AM STAFF TERRIER
GOLDEN RETRIEVER
PITBULL
ROTTWEILER
BOXER
INC BOXER AMSTAFF
BULLDOG
M
F
F
M
M
F
M
M
F
M
M
M
F
M
M
8
9
9
12
9
12
12
7
7
12
6
12
8
8
12
Bil
Bil
Bil
Destro
Bil
Bil
Bil
Bil
Bil
Sinistr.
Bil
Bil
Bil
Bil
Bil
2
6
2
2
2
2
3
8
8
2
8
2
8
6
6
1
3
3
1
1
1
2
3
3
1
3
1
2
3
3
RIPOSO
RIPOSO
RJ
RIPOSO
RIPOSO
RIPOSO
RIPOSO
RIPOSO
RIPOSO
RIPOSO
RIPOSO
RIPOSO
RJ
RIPOSO
RIPOSO
RJ= Robert Jones, Bil = Bilaterale. *: in settimane.
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502
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
LA GLICOPROTEINA-P COME MARKER DI MULTIDRUG RESISTANCE
NEL MASTOCITOMA CUTANEO CANINO
Claudio Petterino Med Vet, PhD, Spec in Tossicologia, Enrica Rossetti Med Vet, Michele Drigo Med Vet,
Massimo Castagnaro Med Vet, PhD, Dipl ECVP
Dipartimento di Sanità Pubblica, Patologia Comparata e Igiene Veterinaria, Facolà di Medicina Veterinaria,
Università degli Studi di Padova, AGRIPOLIS, Legnaro, Padova
Scopo del lavoro: Il mastocitoma cutaneo canino rappresenta una delle neoplasie che frequentemente richiedono un trattamento chemioterapico oltre che chirurgico. Uno dei fenomeni più importanti nel corso di terapia antineoplastica è l’insorgere della
resistenza conseguente all’espressione del gene MDR 1, codificante la glicoproteina P (Pgp). Lo scopo di questo lavoro è lo studio del pattern di espressione della Pgp nel mastocitoma cutaneo canino e la correlazione dei valori ottenuti con il grado istologico. Le indicazioni acquisite potrebbero rappresentare un possibile impiego della Pgp come marker prognostico e terapeutico.
Materiali e metodi: Lo studio è stato condotto su 42 mastocitomi cutanei conservati in formalina, inclusi in paraffina tagliati
in sezioni di 4 µm, colorati con la metodica standard Ematossilina/Eosina e con blu di Toluidina. Le lesioni sono state classificate secondo i criteri diagnostici proposti dalla WHO e differenziate nei gradi istologici secondo i seguenti criteri: cellularità,
anisocitosi e/o anisocariosi, cellule giganti, pleomorfismo, granulazioni citoplasmatiche, caratteristiche nucleari, indice mitotico. I 42 casi risultano così suddivisi: 24 casi di mastocitoma di I grado, 9 di II grado, 9 di III grado. Sezioni di 3 µm sono state
sottoposte allo studio immunoistochimico per valutare l’espressione della Pgp attraverso l’impiego di un anticorpo monoclonale (C494), di un sistema di amplificazione (EnVision+TM) e del cromogeno 3,3-diaminobenzide tetraidrocloride (DAB). La positività alla reazione immunoistochimica è stata valutata contando il numero di cellule positive a 400X ottenendo poi le seguenti
categorie: 0 = negativo; 1 = <10% di cellule positive; 2 = 10-50% di cellule positive; 3 = >50% di cellule positive. La correlazione tra grado istologico e percentuale di positività alla Pgp è stata valutata impiegando il test non parametrico di Spearman.
Per verificare l’esistenza di differenze statisticamente significative tra gruppi di grado istologico diverso e percentuale di espressione della Pgp è stato utilizzato il test non parametrico di Mann-Whitney.
Risultati: Con la metodica immunoistochimica impiegata si sono ottenuti i seguenti risultati: 15/24 casi di mastocitoma di I grado, 8/9 di II grado, 9/9 di III grado sono risultati positivi. Nei campioni esaminati la Pgp appare prevalentemente localizzata all’interno del citoplasma dei mastociti neoplastici secondo un pattern omogeneo, occasionalmente membranario con un range di
positività variabile da moderata ad intensa. La correlazione tra grado istologico di espressione della Pgp è risultata essere statisticamente significativa (Rho=0.58; P<0.001). Esistono inoltre, relativamente alla percentuale di espressione della Pgp, differenze statisticamente significative esclusivamente tra gruppi di grado istologico I e III (U=17.50; P<0.01) e II e III (U=7.0;
P=0.002).
Conclusioni: I risultati ottenuti indicano che il mastocitoma cutaneo canino presenta una variabilità nell’espressione della Pgp
che è correlata al grado istologico della neoplasia stessa. Tuttavia, anche mastocitomi ben differenziati possono esprimere la Pgp
in percentuale significativa. Studi ulteriori sulla correlazione tra l’espressione della Pgp e la risposta al protocollo chimioterapico potranno determinare l’efficacia di tale proteina come marker di multidrug resistance (MDR).
Indirizzo per la corrispondenza:
Claudio Petterino
Dipartimento di Sanità Pubblica, Patologia Comparata e Igiene Veterinaria
Facolà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Padova, AGRIPOLIS
Viale dell’Università 16, 35020 Legnaro, Padova
Fax 049 8272602
E-mail: [email protected]
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48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
503
NUOVO PROTOCOLLO ANESTESIOLOGICO PER CANI DA SOTTOPORRE AD ESAME TC
DI BREVISSIMA DURATA: DATI PRELIMINARI
Tomaso Piaia Med Vet, Giovanna Bertolini Med Vet, Matteo Boso Med Vet, Marco Caldin Med Vet,
Tommaso Furlanello Med Vet Emmanuelle Coquin (Infermiere professionale, dip ASV)
Clinica Veterinaria Privata “San Marco”
Introduzione: La tomografia computerizzata (TC) spirale multislice di ultima generazione (General Electric Light Speed 16)
ha tempi di scansione estremamente ridotti (range 15-35 secondi), anche per volumi corporei importanti. Tuttavia, per le scansioni del torace o dell’addome, è necessaria l’induzione di un’apnea controllata, al fine di ottimizzare le immagini.
In letteratura non sono disponibili esperienze anestesiologiche da utilizzare per questa tecnica diagnostica avanzata e si è pertanto cercato di stabilire un iter anestesiologico idoneo. Abbiamo utilizzato come agente anestetico ad azione ultra rapida il remifentanil (emivita di 6 min.), µ-agonista della classe del fentanil con potente attività analgesica, che viene metabolizzato da
esterasi plasmatiche e tissutali (spt. muscolari ed intestinali) producendo un metabolita (GR90291) con potenza di 1/4000 inferiore al prodotto di partenza, dotato di irrilevante effetto additivo. I vantaggi del remifentanil possono essere così riassunti: assenza di premedicazione, diminuzione della MAC, modestissimo accumulo ed estrema maneggevolezza. Queste caratteristiche
permettono il suo utilizzo in pazienti critici.
Materiali e metodi: Tra i pazienti finora analizzati con la TC prima descritta, 11 hanno rispettato tutti i criteri di inclusione stabiliti: segnalamento, anamnesi, esame fisico, emogramma, profilo biochimico, elettroforesi, profilo coagulativo ed esame urine
e monitoraggio continuo documentabile intraprocedurale (HR, SBP/MAP, ETCO2). Sono stati presi in considerazione 11 cani
(5 pazienti ASA 2, 3 ASA 3, 3 ASA 4) di sesso, età (8+/-5 anni) e peso (27+/-12 kg) variabile. Il protocollo anestesiologico comprende l’utilizzo combinato di remifentanil, midazolam e propofol. La sedazione inizia con remifentanil a 0,033 mcg/kg/minuto per 2 minuti, seguito da 0,066 mcg/kg/minuto per 2 minuti e da 0,099 mcg/kg/minuto per ulteriori 2 minuti. Si somministra
del midazolam a 0,1 mg/kg seguito da propofol a 1-3 mg/kg. L’anestesia viene mantenuta da remifentanil a 0,033-0,066
mcg/kg/minuto e da propofol a 0,1-0,2 mg/kg/minuto. L’apnea si ottiene attraverso una iperventilazione manuale sino ad ottenere una CO2 compresa tra 2,9 e 3,5% seguita da un bolo di remifentanil di 2-4 mcg/kg che induce un’apnea media di 3-8 minuti. Sono state valutate le variazioni emodinamiche, la durata dell’anestesia e i tempi di estubazione.
Risultati: Nessun paziente ha dimostrato uno stress emodinamico all’intubazione. Dopo l’induzione dell’anestesia sia la frequenza che la pressione diminuiscono in modo progressivo, tale diminuzione si accentua anche a seguito dell’apnea indotta dal
bolo di remifentanil. La durata media dell’anestesia è stata di 38+/-29 minuti, il tempo di estubazione medio è stato di 5+/-4 minuti. La tabella allegata presenta i parametri emodinamici considerati, in funzione delle varie fasi dell’anestesia
Conclusioni: Grazie alle caratteristiche farmacodinamiche dei farmaci utilizzati, questo protocollo si è dimostrato idoneo a indurre anestesie di breve durata e rapido risveglio anche in animali critici.
HR (battiti minuto)
Pressione sistolica (mm/Hg)
Pressione diastolica (mm/Hg)
MAP (mm/Hg)
Prima induzione
Induzione
Post bolo
Estubazione
103+/-34
136+/-34
76+/-24
96+/-12
89+/-33
118+/-18
58+/-14
81+/-15
77+/-22
108+/-14
53+/-12
74+/-13
92+/-21
123+/-13
74+/-13
83+/-15
Indirizzo per la corrispondenza:
Clinica Veterinaria Privata “San Marco”
Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova
Tel. 049-8561098 - Fax 02-700518888
E-mail: [email protected]
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504
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
FISIOTERAPIA E AGOPUNTURA NEL CANE E NEL GATTO
Roberta Pozzi Med Vet
Libero professionista, Senago (MI)
Lo scopo del presente lavoro è dimostrare come la Medicina Tradizionale Cinese, ed in particolare l’agopuntura, possa essere
di valido ausilio nelle terapie riabilitative.
Materiali, metodi e risultati: Nella mia pratica quotidiana nelle terapie riabilitative ricorro spesso all’utilizzo della Medicina
Tradizionale Cinese come ausilio terapeutico. In particolar modo utilizzo l’agopuntura, elettroagopuntura, moxibustione e shiatzu. La MTC si può proporre come terapia di prima scelta o abbinata alle terapie fisioterapiche convenzionali (massoterapia, fisioterapia in palestra, idromassoterapia…).
In questa sede verranno esposti dei casi clinici dove l’utilizzo della medicina tradizionale cinese ha permesso da sola o in associazione alle classiche terapie fisioterapiche la ripresa funzionale dell’apparato muscolo scheletrico.
Conclusioni: In base alla mia esperienza l’utilizzo dell’agopuntura in campo riabilitativo ha permesso di ottenere dei risultati
ottimi sia associata alle normali tecniche riabilitative, sia da sola soprattutto dove non ci fossero delle altre valide alternative.
I principali meccanismi d’azione dell’agopuntura nelle patologie muscolo scheletriche sono le seguenti:
- effetto vasomodulatore e trofico
- effetto antalgico
- effetto decontratturante
- effetto sedativo
Inoltre gli effetti dell’agopuntura possono in alcuni casi aiutare ad indurre il processo di riparazione dei nervi lesionati e il
ripristino delle loro funzioni permettendo così di recuperare anche alcune forme di paralisi.
Indirizzo per la corrispondenza:
Dott.ssa Roberta Pozzi
Via N. Sauro 15- Senago - Milano
Tel. 02-99489706, 335-7439150
E-mail: [email protected]
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48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
505
ORBITOTOMIA LATERALE IN UN CASO D’ADENOMA DELLA GHIANDOLA ZIGOMATICA
Mirko Radice Med Vet, Luca Mertel Med Vet
Liberi professionisti, Milano
I tumori delle ghiandole salivari rappresentano una patologia poco frequente nei piccoli animali, i casi riportati in bibliografia
interessano, infatti, soggetti d’età superiore ai 10 anni con forme d’origine epiteliale e maligna.
Non sono state identificate predisposizioni particolari di razza o sesso.
La principale forma neoplastica interessante le ghiandole salivari è indubbiamente rappresentata dall’adenocarcinoma, diverse
varianti istologiche di tale neoplasia sono state descritte, le manifestazioni benigne sono da considerarsi sicuramente rare.
Il soggetto in esame, uno schnautzer femmina di 14 anni è stato portato alla visita per una tumefazione della zona zigomatica,
con evidente esoftalmo.
L’esame radiografico metteva in evidenza una massa occupante spazio, nella regione zigomatica, si procedeva ad effettuare un
ago aspirato che dava com’esito un adenoma della zigomatica.
Si è dunque deciso di effettuare un’orbitotomia laterale per l’escissione della ghiandola.
Tale tecnica prevede la resezione dell’arco zigomatico e la successiva sintesi dello stesso, dopo asportazione della massa sottostante.
L’esame istologico successivamente eseguito ha confermato la precedente diagnosi citologica.
I follow up a sei e dodici mesi non hanno evidenziato ulteriori problematiche riguardanti l’intervento eseguito.
Bibliografia
Stephen J. Withrow. Cancer of the salivary glands.
Primary neoplasms of the salivary glands in animals as compared to similar tumors in man. Vet Pathol 1965; 2:201.
Salivary tumors in the dog and cat: A literature and case rewiew. JAAHA 1988;24;561.
Kern T. Orbital neoplasia in 23 dog. JAVMA 186 (5):489-491.
Indirizzo per la corrispondenza:
Mirko Radice
Via A. Volta n° 7 - Paderno Dugnano 20030 (Mi)
Cell. 338/3074414
E-mail: [email protected]
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506
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
UN CASO DI RICHETTZIOSI - ERLICHIOSI
Barbara Rigamonti Med Vet
Libero professionista, Genova
La prima visita omeopatica 30 luglio 03.
Ricorrenti disturbi gastrici sino all’età di 10 anni. Episodi di diarrea, varie intolleranze alimentari. È sempre stato molto pauroso, paura delle galline, della tv, di tutto ciò che non conosce, delle persone estranee, dei temporali, dei botti, di tutti i rumori,
paura per strada. Ad aprile 2002 inizia ad avere anoressia, disturbi neurologici e motori. Viene posta diagnosi di Erlichia granulocitica e Richettzia richettzii. A settembre recrudescenza che persiste per mesi nonostante la terapia antibiotica. A questo punto, poiché i periodi di remissione sono troppo brevi e la qualità di vita del cane è inadeguata, i proprietari ed il curante decidono di tentare un approccio omeopatico.
L’obiettivo: mantenere il paziente in vita alleviandone i sintomi con una metodica diversa dal protocollo tradizionale; migliorare la sua qualità di vita rispetto al precedente periodo di trattamento; gestire la patologia senza effetti collaterali.
Il metodo: la gestione del caso si svolge secondo il metodo omeopatico classico, selezionando un rimedio di prima scelta in base a tutti i dati forniti dall’anamnesi; in alcuni momenti dell’iter clinico prescrivo altre sostanze scelte su base sintomatica. Il rimedio di prima scelta viene individuato con la tecnica detta di repertorizzazione (informatica).
La repertorizzazione: Escludo tutti i sintomi patognomonici di malattia. Considero le principali caratteristiche mentali ed i sintomi generali e locali intensi e persistenti nel tempo.
Mind, mildness
Mind, fear, noise from
Vertigo, fall, tendency to
Rectum, diarrhea, indiscrection in eating, after the slightest
Stomach vomiting, forenoon
Generals, hemorrhage
Abdomen, liver and legion of liver, complaints of
Il rimedio di prima scelta: China regia.
Follow up dopo 5 mesi dalla prima prescrizione: miglioramento dei sintomi locali, generali e mentali. Il paziente non ha più assunto farmaci chemioterapici.
Indirizzo per la corrispondenza:
Barbara Rigamonti
Via Gobetti 1/1, 16145 Genova
Fax 0103777867 (manuale)
E-mail: [email protected]
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48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
507
APPLICAZIONE DI UN NUOVO MEZZO DI CONTRASTO ECOGRAFICO A MICROBOLLE
PER LO STUDIO DI SOSPETTE LESIONI NEOPLASTICHE
Federica Rossi1 Med Vet SRV Dipl ECVDI, M. Vignoli2 Met Ved SRV,
R. Terragni3 Med Vet SPCAA-Gastroenterologia, G. Sarli4 Med Vet
1,2,3
Libero professionista, Sasso Marconi (BO)
4
Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria e Patologia Animale, Università degli Studi di Bologna
Scopo del lavoro: Valutazione del possibile utilizzo di un nuovo mezzo di contrasto, l’esafluoruro di zolfo in forma di microbolle in associazione alla tecnologia ecografica CnTI per lo studio della perfusione delle lesioni focali sospette neoplastiche della cavità addominale e del torace. Questa tecnica viene valutata per la possibilità di: 1. visualizzare un numero maggiore di lesioni rispetto all’esame ecografico standard, 2. caratterizzare la perfusione della lesione per poter differenziare i diversi tipi istologici, 3. riconoscere la porzione di lesioni più adatta ad essere prelevata mediante biopsia.
Metodi impiegati: Quaranta animali (trenta cani e dieci gatti) di diverse razze ed età con lesioni sospette neoplastiche riconosciute all’esame ecografico standard sono stati esaminati mediante apparecchiatura ecografica che consente di utilizzare la tecnologia della seconda armonica con basso indice meccanico (Esaote Megas Esatune, metodica CnTI). Il mezzo di contrasto ecografico (Sonovue®, Bracco) è stato iniettato in bolo attraverso un catetere posizionato a livello della vena cefalica dell’avambraccio al dosaggio di 0,5-1 ml. La distribuzione del mezzo di contrasto è stata visualizzata in tempo reale e le immagini acquisite mediante sistema digitale ed analogico. La lesione è stata studiata per: 1. distribuzione del mezzo di contrasto rispetto al
parenchima circostante (ipo-, iso- od iperperfusione), 2. pattern (omogeneo o disomogeneo), 3. presenza di vasi afferenti alla lesione. In tutti i casi un campione di tessuto prelevato mediante biopsia è stato inviato per esame citologico e istopatologico.
Risultati ottenuti: Le lesioni studiate erano localizzate nel: fegato (n=15), milza (n=4), intestino tenue (n=4), ghiandola surrenale (n=3), linfonodi (n=3), vescica (n=3), reni (n=2), polmone (n=2), stomaco (n=1), pancreas (n=1), peritoneo (n=1), atrio destro (n=1). Le lesioni di tipo carcinomatoso hanno assunto il mezzo di contrasto in modo eterogeneo con zone a maggiore e più
precoce perfusione rispetto al tessuto circostante e vasi periferici afferenti. L’emangiosarcoma era caratterizzato in tutti gli organi da noduli omogenei ben delimitati estremamente ipoperfusi. Le lesioni focali di tipo benigno del fegato, milza, vescica e
linfonodi hanno mostrato ad eccezione di un caso una perfusione omogenea simile al tessuto circostante senza visualizzazione
di vasi periferici afferenti. In un cane con un nodulo iperplastico epatico di grandi dimensioni contenente aree di emorragia e
necrosi il mdc si è distribuito in modo disomogeneo con numerose aree ipoperfuse. I linfosarcomi dell’apparato gastroenterico
sia nel cane che nel gatto erano molto omogenei e scarsamente perfusi, mentre in un cane con adenocarcinoma del digiuno si
evidenziava un pattern di tipo disomogeneo con aree ad elevata perfusione.
Conclusioni: Il mezzo di contrasto utilizzato associato alla tecnologia CnTI permette di studiare la perfusione delle lesioni. La
caratterizzazione della lesione è più facile con lesioni focali di un parenchima perché è possibile un confronto con il tessuto circostante. I risultati ottenuti in questo primo gruppo di animali indicano che lo studio della perfusione della lesione dà informazioni utili alla differenziazione tra le lesioni benigne e maligne e che alcuni tipi istologici di tumore hanno caratteristici pattern.
In questo studio difficoltà di interpretazione si sono incontrate in caso di lesioni benigne di grandi dimensioni comprendenti vaste aree di necrosi ed emorragia. L’uso del mezzo di contrasto prima della biopsia ha consentito di evitare il prelievo da zone
necrotiche di tessuto.
Indirizzo per la corrispondenza:
Ambulatorio Veterinario dell’Orologio
Via dell’Orologio, 38 - 40037 Sasso Marconi (BO)
Tel. e Fax 051 6751232
E-mail: [email protected]
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ABLAZIONE TRANSCATETERE DI VIE ACCESSORIE MULTIPLE IN CANE CON TACHICARDIOPATIA
SECONDARIA A TACHICARDIA ATRIOVENTENTRICOLARE ORTODROMICA RECIPROCANTE
Roberto A. Santilli1 Med Vet D.E.C.V.I.M.-C.A. (Cardiology), GianMario Spadacini2 Med Vet,
Franca Santoro3 Med Vet, Alberto Perini4 Med Vet
1,4
Clinica Veterinaria Malpensa, Samarate, Varese
2
Ospedale Mater Domini, Castellanza, Varese,
3
Clinica Veterinaria Strada ovest, Treviso
Un cane Labrador, maschio di 2 anni veniva riferito con anamnesi di un episodio di tachicardia sopraventricolare incessante e
cardiomiopatia a tipo ipocinetico-dilatativo con insufficienza cardiaca biventricolare. All’esame ecocardiografico, eseguito durante l’episodio, il soggetto presentava grave dilatazione tetracamerale con marcata ipocinesia settoparietale ed importante deficit contrattile. (DVSD 68 mm, DVSS 54 mm, FA 21%, EPSS 12,8 mm, EDVI 212 ml/m2, ESVI 106 ml/m2, AS/AO 2,53). L’esame elettrocardiografico evidenziava una tachicardia a QRS stretti con intervalli RR regolari, frequenza di scarica di 300 bpm,
rapporto atrioventricolare 1:1 e onda P retrocondotta nella branca prossimale dell’onda T con intervallo RP minore del 50% dell’intervallo RR e rapporto RP/PR minore di 1. Formulando l’ipotesi di tachicardia ortodromica atrioventricolare reciprocante, si
decideva di trattare il cane con chinidina 6 mg/kg tid per os, furosemide 2 mg/kg bid per os ed enalapril 0,5 mg/kg bid per os.
Il giorno seguente le condizioni cliniche miglioravano significativamente ed il soggetto presentava un elettrocardiogramma con
ritmo sinusale (140 bpm) e pre-eccitazione ventricolare (PR 60 ms con onda delta). A tre settimane dall’ultimo episodio di tachicardia incessante, all’esame ecocardiografico non si evidenziava più il quadro ipocinetico-dilatativo ed i parametri ecocardiografici rientravano nei limiti della normalità (DVSD 55 mm, DVSS 33 mm, FA 40%, EPSS 8 mm, EDVI 118 ml/m2, ESVI
25,5 ml/m2, AS/AO 1,78). Vista la completa risoluzione della cardiomiopatia, si sospendevano i diuretici e gli ace-inibitori, mantenendo la chinidina a 6 mg/kg tid per os. Nei mesi successivi l’esame Holter documentava ripetuti accessi di tachicardia non
sostenuta sintomatici, senza recidiva di tachicardiopatia. A questo punto il cane veniva indirizzato al nostro centro, con richiesta di ablazione transcatetere della via atrioventricolare anomala responsabile della tachicardia. All’arrivo il cane si presentava
in buone condizioni cliniche, in ritmo sinusale, con pre-eccitazione ventricolare ed ecocardiografia nella norma.
Lo studio elettrofisiologico è stato effettuato con un Poligrafo 12 canali PC-EMS versione 4,32 dA (Mennen). Per questa procedura il cane è stato sedato con midazolan 0,2 mg/kg, l’anestesia è stata indotta con 4 mg/kg di propofol e mantenuta con isofluorano. Il soggetto è stato posto in decubito dorsale per l’isolamento degli accessi venosi utilizzando la metodica di Seldinger.
Con la guida dell’intensificatore di brillanza, sono stati introdotti 2 cateteri quadripolari, uno attraverso la vena giugulare, nel
seno coronarico, un altro attraverso la vena femorale destra a livello dell’annulus tricuspidale per registrare l’elettrocardiogramma del fascio di His. Un terzo catetere per ablazione (Boston Scientific) è stato introdotto, attraverso la vena femorale sinistra, alternativamente a livello di atrio destro, ventricolo destro e annulus tricuspidale. Lo studio elettrofisiologico ha documentato numerosi episodi di tachicardia atrioventricolare reciprocante e la presenza di 3 diversi fasci di Kent destri (postero-laterale, posteriore e medio-settale), successivamente ablati con una potenza di 65 W, temperatura di 65° per una durata media di
60 secondi. Alla fine dello studio è stata evidenziata la presenza di un’ulteriore via accessoria sinistra con periodo refrattario,
sia anterogrado sia retrogrado, maggiore di 300 ms ed incapace di mantenere la tachicardia atrioventricolare ortodromica. Al termine della procedura all’elettrocardiogramma è stato registrato un normale intervallo PR di 90 ms con assenza dell’onda delta
in tutte le derivate. Il cane è stato monitorato per le 24 ore successive e poi dimesso con 1 mg/kg tid di verapamil per os. A distanza di 3 mesi il paziente non ha più presentato episodi di tachicardia incessante e di tachicardiopatia, è stato quindi sospeso
il verapamil e a 8 mesi dalla procedura di ablazione non si sono verificate recidive.
L’ablazione transcatetere con radiofrequenza è una tecnica innovativa nella cura di molti disturbi del ritmo cardiaco. La scoperta di aritmie ipercinetiche sostenute, in soggetti con cardiopatie ipocinetico-dilatative, dovrebbe sempre spingere ad effettuare
studi elettrofisiologici che permetterebbero di risolvere, attraverso le tecniche di ablazione, molte forme di cardiomiopatia tachicardia-indotta.
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VALUTAZIONE DELLA RISPOSTA CLINICA E DELL’ANDAMENTO DELLE GAMMAGLOBULINE
IN GATTI CON PODODERMATITE PLASMACELLULARE TRATTATI CON DOXICICLINA:
DATI PRELIMINARI
Fabia Scarampella Med Vet Dipl ECVD, L. Ordeix Med Vet Dipl ECVD
Liberi professionisti, Milano
Introduzione: L’eziopatogenesi della pododermatite plasmacellulare felina è al momento sconosciuta anche se molti elementi
quali la presenza costante di infiltrato linfoplasmacellulare nei cuscinetti plantari e l’ipergammaglobulinemia sierica suggeriscono un meccanismo immuno-mediato. I trattamenti suggeriti sino ad oggi comprendono l’asportazione chirurgica dei cuscinetti interessati, varie terapie immunosoppressive e più recentemente la doxiciclina. Lo scopo di questo studio è di valutare l’andamento clinico e le variazioni delle γ globuline in gatti affetti da pododermatite plasmacellulare nel corso del trattamento con
doxiciclina.
Materiali e metodi: Otto casi di pododermatite plasmacellulare felina diagnosticati clinicamente e istologicamente sono stati
inclusi in uno studio multicentrico svolto in Italia. Per essere inclusi i soggetti non dovevano essere stati trattati con antibiotici,
antinfiammatori non steroidei o antistaminici nei 15 giorni precedenti l’inclusione. Trattamenti con cortisonici a breve azione
dovevano essere stati sospesi da un mese mentre i soggetti che avevano ricevuto cortisonici deposito o sali d’oro per via iniettiva potevano essere inclusi soltanto dopo 2 mesi dall’ultima somministrazione. Sette gatti erano di sesso maschile (4 castrati) e
uno di sesso femminile (castrata), con un’età variabile tra 3 e 5 anni. I soggetti che presentavano ulcerazione dei cuscinetti interessati venivano esclusi dallo studio.
Il farmaco doxiciclina compresse da 20 mg (Ronaxan) è stato somministrato in ragione di 10 mg/kg al giorno per 40 giorni. I
soggetti sono stati valutati clinicamente e sottoposti a prelievo di sangue il giorno di inclusione (giorno 0) e i giorni 30 e 60 dello studio.
L’esame emocromocitometrico, sierologico per FIV, FeLV, e la valutazione quantitativa delle proteine totali e l’elettroforesi delle proteine sieriche sono stati effettuati il giorno di inclusione mentre soltanto le proteine totali e il protidogramma venivano rivalutati il giorno 30 e 60.
Risultati: In tutti i soggetti le lesioni interessavano più cuscinetti, in particolare in 7 gatti esclusivamente i cuscinetti metarcarpali e/o metatarsali mentre in un soggetto erano coinvolti anche 2 cuscinetti digitali. I segni clinici osservati comprendevano tumefazione e perdita di consistenza (8/8), eritema (4/8) ed esfoliazione (5/8). Le alterazioni ematologiche rilevate il giorno 0 includevano trombocitopenia (5/8), leucocitosi (3/8) e linfopenia (2/8). Tutti i gatti presentavano una ipergammaglobulinemia policlonale, 2 soggetti su 7 erano FIV positivi mentre 7 soggetti su 7 erano FeLV negativi.
Una remissione completa delle lesioni è stata osservata il giorno 30 in un soggetto. Il giorno 60 le lesioni erano scomparse in
altri 2 gatti, tre presentavano un miglioramento clinico superiore al 50%, uno non era migliorato e uno non si è presentato al
controllo. Al giorno 60 l’ipergammaglobulinemia era ancora presente in 5 degli 8 gatti testati.
Conclusioni: I risultati preliminari di questo studio confermano l’efficacia della doxiciclina nel trattamento della pododermatite plasmacellulare felina. La trombocitopenia osservata in un’alta percentuale dei soggetti è un dato riportato per la prima volta in questa condizione e potrebbe avere un significato eziopatogenetico. Il numero limitato di animali sino ad ora inclusi non
permette al momento una valutazione statistica dei dati clinici, sierologici ed ematochimici sino ad ora ottenuti.
Indirizzo per la corrispondenza:
Fabia Scarampella
Via Sismondi 62, Milano
Fax 02 7490750
E-mail: [email protected]
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510
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L’ARRICCHIMENTO AMBIENTALE PER IL GATTO IN APPARTAMENTO: UN ESEMPIO
Elena Severi Med Vet Specialista “Clinica e Patologia Animali d’Affezione”
Libero professionista, Forlimpopoli (FC)
Negli ultimi anni i gatti hanno assunto un posto di grande rilievo quali animali d’affezione, anche se l’incremento numerico in
qualità di “pet” non è stato seguito da un altrettanto approfondimento delle loro esigenze etologiche da parte dei proprietari. Il
gatto viene generalmente considerato un animale d’affezione di facile gestione e spesso viene scelto perché si ritiene che possa
adattarsi facilmente alla vita d’appartamento, che possa essere lasciato solo anche per lunghi periodi nell’arco della giornata o
di interi fine settimana, in quanto specie “solitaria” e che non necessiti dell’accesso all’esterno. Quest’ultima convinzione è spesso rafforzata dagli appartenenti alle associazioni animaliste che, nel dare in affido gattini (o gatti adulti) da rifugi o da colonie
feline, a volte li cedono solo a condizione che il nuovo proprietario li faccia vivere esclusivamente in casa, nel timore degli eventuali rischi per la salute e per l’incolumità fisica derivanti dall’accesso all’esterno. La tipologia media dei moderni appartamenti, spesso a ridottissima metratura (bilocali, miniappartamenti), riduce la possibilità del gatto di avere un ambiente sufficientemente spazioso, in relazione alle sue esigenze di movimento e di strutturazione del territorio in diversi campi di attività; la situazione viene ulteriormente peggiorata quando lo stesso territorio deve essere condiviso da più soggetti. Occorre anche ricordare che il gatto è un predatore, pertanto in ambiente esterno trascorre buona parte del suo tempo in attività di caccia, talvolta
tramite appostamenti di lunga durata. Anche nei momenti di apparente riposo è comunque attento agli stimoli ambientali (rumori, passaggio di altri animali, ecc.), anche perché da predatore può trasformarsi repentinamente in preda. Il gatto ha la caratteristica di mantenere da adulto una buona predisposizione al gioco individuale e sociale, pertanto è frequente notare individui
trastullarsi con oggetti di varia natura o con altri soggetti con i quali sono stati allevati ed hanno vissuto in modo pacifico. Partendo da questi presupposti etologici, l’autrice elenca in modo sintetico le condizioni che possono costituire un valido arricchimento ambientale per il gatto di appartamento, esaminando brevemente il modo in cui struttura il suo territorio, come ne sfrutta la tridimensionalità e come necessiti di un ambiente stabile e “prevedibile”. L’autrice mostra quali siano gli elementi utili all’arricchimento ambientale, prendendo come esempio un appartamento in cui due proprietari hanno messo in atto molte soluzioni di arricchimento ambientale per i loro due gatti. Vengono illustrati gli oggetti utilizzati come giocattoli, i giochi d’acqua,
lo sfruttamento razionale dello spazio nelle terrazze, l’aumento della possibilità dei gatti di vedere l’esterno. Si accenna anche
brevemente a come questa tipologia di appartamento ha permesso di gestire e di curare la patologia comportamentale di uno dei
due gatti, affetto da uno stato fobico. Si mettono a confronto anche alcuni casi in cui la situazione ambientale non può garantire al gatto un ambiente “appagante” e richiede pertanto la messa in atto di soluzioni alternative. Il lavoro ha l’obiettivo di presentare al medico veterinario alcuni spunti di intervento da proporre ai nuovi proprietari di gatti; può inoltre essere un punto di
partenza per valutare, nei casi in cui un cliente chieda consigli prima dell’adozione di un gatto, se l’ambiente in cui andrà a vivere avrà le risorse sufficienti per soddisfare le sue esigenze etologiche.
Bibliografia
1.
2.
3.
4.
Dehasse J.: “L’educazione del gatto”, Perdisa 2001.
Landsberg G., Hunthausen W., Ackerman L.: “Handbook of behaviour problems of the dog and cat”.
Leyhausen P.: “Il comportamento dei gatti”, Adelphi, 1994.
Overall K.: “La clinica comportamentale del cane e del gatto”, Edizioni Medico Scientifiche, 2001.
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PROTEZIONE DELLA CORREZIONE CHIRURGICA DI UNA PALATOSCHISI
CON L’AUSILIO DI UNA PLACCA IN RESINA
Paolo Squarzoni Med Vet
Libero professionista, Molinella (BO)
Introduzione: Nei carnivori domestici la correzione chirurgica dei difetti palatali deve essere eseguita il più precocemente possibile, in quanto le schisi della porzione ossea del palato secondario causano difficoltà nella suzione del latte (a volte in maniera non particolarmente manifesta) e, spesso, i cuccioli muoiono per malnutrizione o per polmonite ab ingestis prima che il proprietario rilevi il problema; le schisi del palato molle solo sporadicamente causano segni clinici evidenti e di rado vengono diagnosticate precocemente, tranne nei casi, per altro frequenti, che si accompagnano ai difetti del palato duro. Quando viene affrontata la correzione chirurgica di una palatoschisi, la possibile deiscenza della sutura, a cui consegue l’insuccesso dell’intervento, può dipendere da diversi fattori: eccessiva tensione dei lembi utilizzati, tecnica chirurgica inadatta e precoce distruzione
del materiale di sutura per l’effetto della continua azione della lingua; mentre i primi due, essendo pianificati dall’operatore, hanno un esito prevedibile, il terzo risulta inevitabile. Per limitare i danni alla sutura provocati dal movimento della lingua, si è pensato di proteggerla con una barriera meccanica costituita da una placca in resina acrilica ancorata ai denti.
Materiali e metodi: Veniva portato alla visita un cane Labrador retriever, di sei mesi, di sesso maschile, nel quale era stato riscontrato un grave difetto che interessava il palato molle e quello duro. L’anamnesi riferiva che tale anomalia era stata accertata alla nascita, ma che era stato consigliato al proprietario di attendere qualche mese prima di correggere il difetto. Il soggetto
era stato alimentato artificialmente durante i primi mesi di vita e, nei mesi successivi era stato controllato dai proprietari durante l’assunzione dei liquidi. Dopo gli accertamenti necessari, il paziente veniva posto in anestesia generale per calcolare la planimetria dei tessuti che si prevedeva di coinvolgere nella ricostruzione e chirurgica e, contestualmente, si provvedeva a rilevare
un’impronta dell’arcata dentaria, dalla quale l’odontotecnico incaricato provvedeva a ricavare un calco, utilizzato per sviluppare la placca di protezione. Va ricordato che il tempo che trascorre tra la rilevazione dell’impronta e l’applicazione della placca
di protezione deve essere necessariamente breve, perché il rapido sviluppo cranio facciale, nei soggetti in accrescimento, può
rendere inadeguato il manufatto. Dopo la correzione chirurgica (eseguita con tecnica mucoperiostale a cardine di Howard) veniva applicata la placca, cementandola mesialmente ai canini per mezzo di bande preformate saldate alla placca stessa e fissandola distalmente con filo metallico, fatto passare attraverso un piccolo foro praticato sulla placca e lo spazio interprossimale di
IV premolare e I molare inferiore.
Risultati: Al momento della rimozione della placca di protezione il materiale di sutura era ancora in sede ed intatto, la modesta infiammazione dei tessuti presente al di sotto della placca si è risolta spontaneamente in capo a 2-3 giorni, senza che fosse
necessario alcun trattamento.
Conclusioni: Con questo metodo, si ottiene un’efficace protezione della sutura, grazie ad una tecnica di facile esecuzione. Per
contro, oltre a quella utilizzata nel corso dell’intervento chirurgico, sono necessarie due anestesie supplementari (una per rilevare l’impronta ed una per rimuovere la placca di protezione); inoltre, è necessario mettere in bilancio il costo della placca realizzata a cura del laboratorio odontotecnico; questi ultimi aspetti negativi passano comunque in secondo piano a fronte della
maggiore garanzia di successo.
Indirizzo per la corrispondenza:
Paolo Squarzoni
Via Unità n° 12 - 40062 Molinella (BO)
Tel. 051/882751 - 333/5959544; Fax 051/6900385
E-mail: [email protected]
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LA COMUNICAZIONE DELLA DIAGNOSI IN MEDICINA VETERINARIA:
RUOLO DEL MEDICO VETERINARIO
Damiano Stefanello Med Vet PhD*, Stefano Romussi Med Vet PhD Prof*, Valentina Fiorbianco Med Vet*
*Sezione di Clinica Chirurgica Veterinaria, Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie,
Facoltà di Medicina Veterinaria, Milano
In medicina veterinaria la sola abilità clinica e la preparazione teorico-scientifica del veterinario potrebbero non essere sufficienti per proporre nel modo corretto le procedure diagnostiche e terapeutiche necessarie, poiché inevitabilmente alla parola cancro pronunciata dal clinico, si proiettano nel proprietario concetti quale: dolore, sofferenza, morte imminente che di fatto lo spaventano e lo angosciano. Le tecniche di comunicazione assumono dunque un ruolo fondamentale. Nell’ambito del processo di
comunicazione ci occuperemo inizialmente del ricevente per le sue peculiarità caratterizzate dalle modificazioni del rapporto tra
uomo-cane/gatto che hanno creato un interlocutore, che si avvicina alla figura del proprietario-genitore, come ben dimostrato
dal termine anglosassone “Perpetual Children” accanto ad “Animali da compagnia”. Il clinico, quindi, non deve essere solo un
tecnico che informa (trasferimento delle informazioni in modo unidirezionale) ma un tecnico che comunica (scambio di informazioni in modo bidirezionale) stabilendo un’interazione con l’interlocutore attraverso i noti canali della comunicazione verbale e non verbale.
La comunicazione della diagnosi di un tumore da parte del veterinario in un paziente canino e felino, deve tenere conto del legame esistente tra paziente e proprietario-genitore il quale potrà interagire con noi solo se avrà superato le cosiddette fasi del
dolore: shock o rifiuto, reazione, elaborazione e orientamento, accettazione.
Il rapporto di comunicazione dovrebbe avvenire in ambiente tranquillo, accogliente, senza distrazioni in modo che l’interazione clinico-proprietario non sia di dominio pubblico. Inoltre l’interposizione di barriere fisiche quali scrivanie, tavoli, sono vissuti dal proprietario come segni di distacco che non promuovono la comunicazione bidirezionale.
I tempi della comunicazione sono altrettanto importanti dato che brevi colloqui riducono la possibilità dell’interlocutore di porre domande e di esprimere i propri sentimenti, inibendo in modo anticipato la comunicazione bidirezionale.
Di estremo interesse clinico risulta la valutazione oggettiva di colloqui veterinario-proprietario effettuati rigorosamente con le
modalità descritte presso il Consultorio oncologico del Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie. Il metodo introdotto per la
valutazione della comunicazione è stata l’analisi del processo di accettazione o rifiuto di protocolli antiblastici ed in particolare
chemioterapici da parte dei proprietari di 65 pazienti oncologici.
I proprietari hanno accettato la terapia nel 57% dei casi ed è più probabile che accettino quando sono al primo consulto, quindi
quando non ancora informati sulla malattia, accompagnati, suggerendo un miglior chiarimento delle informazioni, e inviati dal
veterinario curante. Il sesso, l’età, il titolo di studio e la composizione del nucleo familiare non sono fattori condizionanti. I principali motivi addotti come condizionanti la scelta sono stati: qualità di vita (probabilità di accettazione del 61%), prognosi, per
la quale i proprietari accettano con una probabilità del 81% benchè i pazienti appartengano prevalentemente alle classi prognostiche tra 1 e 12 mesi, ed effetti collaterali, che invece sono importanti per i proprietari che rifiutano (71%) benchè non siano ricordati dagli stessi al termine del consulto.
I proprietari accettano con uguale probabilità per pazienti sia con prognosi tra 1-6 mesi sia > 12 mesi, indicando come determinanti le condizioni del paziente al momento del consulto e la possibilità di scegliere tra varie opzioni terapeutiche; inoltre è più
probabile che accettino protocolli combinati rispetto alla sola chemioterapia, confermando la scarsa importanza dei costi e dell’impegno richiesto.
Il tempo non è determinante, anche se i consulti fatti a persone che hanno rifiutato hanno avuto una durata superiore, malgrado
il coinvolgimento sempre positivo e la mancata correlazione con categorie psicologiche particolari.
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ESEMPI DI CASI CLINICI DI LEISHMANIOSI TRATTATI CON L’OMEOPATIA
Maria Cristina Stocchino Med Vet
Scuola Superiore Internazionale di Medicina Veterinaria Omeopatica “Dott. Rita Zanchi”, Cortona (Ar)
Scopo del presente lavoro è dimostrare l’utilità della terapia omeopatica nel trattamento di alcuni cani risultati positivi ad una
diagnosi sierologica (immunofluorescenza indiretta) di leishmaniosi.
Vengono presentati otto casi clinici, per ognuno dei quali viene descritta la visita clinica e l’interrogatorio omeopatico indispensabile per arrivare alla diagnosi di rimedio unico. Ogni caso clinico è corredato di diagnosi i.fi. iniziale, t.e.f. iniziale e i.f.i
e t.e.f. recenti, e della “griglia di rimedi” che presentano in comune i sintomi presi in considerazione per la scelta del farmaco
omeopatico, ottenuti con l’ausilio di un programma informatico.
Cinque dei cani trattati sono risultati negativi ai controlli sierologici per leishmaniosi (i.f.i), in seguito alla somministrazione del
rimedio omeopatico; una di questi è risultata nuovamente positiva al 3 controllo dopo due negativi (distanza di circa 6 mesi l’uno dall’altro). Due di questi sono attualmente positivi ma hanno migliorato la qualità della vita in maniera decisiva e vengono
sottoposti a periodici controlli e trattamenti omeopatici. Uno è deceduto alla seconda somministrazione del rimedio.
In conclusione si può affermare che tutti i cani sottoposti a terapia omeopatica hanno tratto giovamento dalla stessa, anche se in
alcuni si evidenzia un recupero “tardivo” della normalità del tracciato elettroforetico.
Indirizzo per la corrispondenza:
Via Forlanini 6, I - 07100 Sassari
Tel. 079298692
E-mail: [email protected]
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514
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DIAGNOSI DI DISTURBI MIELO E LINFOPROLIFERATIVI NEL CANE
MEDIANTE L’USO DELLA CITOMETRIA A FLUSSO
Marco Caldin1,2 Med Vet, Silvia Tasca2 Med Vet, Tommaso Furlanello1,2 Med Vet, George Lubas3 Med Vet
1
Clinica Veterinaria Privata “San Marco”
2
Laboratorio d’Analisi Veterinarie Private “San Marco”
3
Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa
La citometria a flusso (FCa - Flow cytometry assay) è una metodica che permette di raccogliere parametri fisici e chimici di particelle contenute in una sospensione. Tramite l’uso di una luce laser e di rilevatori ottici, il sistema raccoglie la fluorescenza
emessa da un fluorocromo (sostanza organica in grado di emettere una fluorescenza se opportunamente eccitata) legato ad un
anticorpo monoclonale specifico per i recettori di superficie delle cellule (CD). Il segnale raccolto viene quindi convertito in un
segnale elettronico e trasmesso al computer che elabora i dati.
L’impiego della FCa per la fenotipizzazione dei disturbi mielo-linfoproliferativi risulta attualmente una metodica non ancora diffusamente impiegata in medicina veterinaria, anche se la disponibilità commerciale di anticorpi validati per uso veterinario ne
facilita l’applicazione nella diagnosi, nella classificazione e nella valutazione prognostica delle leucemie.
Nel passato la diagnosi si basava esclusivamente su una valutazione cito-morfologica e istologica delle alterazioni quali e quantitative del sangue e del midollo osseo: tale approccio spesso risultava insufficiente per una precisa classificazione fenotipica,
sia per i limiti legati alla soggettività individuale, in termini di esperienza e abilità dell’operatore, sia per la reale difficoltà di discriminare l’origine di taluni elementi cellulari neoplastici.
Oggi invece l’uso sinergico della microscopia e della FCa fornisce una diagnosi più completa e attendibile; infatti, l’impiego
della FCa permette l’analisi di un gran numero di cellule (103/sec) garantendo un’elevata accuratezza del risultato; d’altra parte
l’impiego simultaneo di più marcatori contribuisce ad incrementare la sensibilità e la specificità dell’esame.
Il seguente pannello anticorpale formato da CD3, CD4, CD5, CD8, CD14, CD21, CD34, CD41, CD45, CD61 e CD79 ha permesso di identificare l’origine fenotipica in 60 leucemie, in un periodo compreso tra Dicembre 2002 e Novembre 2003, in 60
cani, di cui 37 maschi e 23 femmine, appartenenti a razze diverse e di età compresa tra 10 mesi e 15 anni. La FCa è stata eseguita con il citofluorimetro Epics XL-MCL (Beckman Coulter®) su sangue periferico e/o su aspirato midollare addizionato di
K3 EDTA.
L’iter diagnostico ha previsto la valutazione citologica delle alterazioni quali-quantitative su striscio periferico e nel preparato
midollare (solo per 40 soggetti), seguito dall’immunofenotipo sui medesimi campioni. Impiegando la classificazione internazionale WHO-OMS del 2002 sono state diagnosticate: 8 leucemie indifferenziate acute (AUL/AML-M0), 3 leucemie mieloidi
con minima maturazione (AML-M1), 2 leucemie mieloidi con maturazione (AML-M2), 4 leucemie mielomonocitiche (AMLM4), 1 leucemia monocitica (AML-M5b), 1 leucemia megacariocitica (AML-M7), 5 leucemie linfoblastiche (ALL) di cui 2 di
origine T (T-ALL) e 3 di origine B (B-ALL), 15 leucemie linfocitiche croniche (CLL) di cui 14 T (T-CLL) e 1 B (B-CLL), 20
linfomi leucemici rispettivamente 13 con fenotipo B e 7 con fenotipo T e infine un mieloma multiplo. La FCa è stata senza dubbio un’indispensabile supporto alla citologia in corso di disturbi mielo-linfoproliferativi, integrando e completando la valutazione morfologica. Si ringraziano i Medici Veterinari che hanno inviato la casistica.
Indirizzo per la corrispondenza:
Laboratorio San Marco
Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova
Tel. 049-8561098 - Fax: 02-700518888
E-mail: [email protected]
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LEUCEMIA LINFOCITICA CRONICA A GRANDI GRANULI (CLL-LGL) NEL CANE: 12 CASI
Marco Caldin1,2 Med Vet, Silvia Tasca2 Med Vet, Tommaso Furlanello1,2 Med Vet, Erika Carli2 Med Vet,
Carlo Patron2 Med Vet, George Lubas3 Med Vet
1
Clinica Veterinaria Privata “San Marco”
2
Laboratorio d’Analisi Veterinarie Private “San Marco”
3
Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa
I grandi linfociti granulati (LGL) rappresentano circa il 10% dei linfociti circolanti e si distinguono morfologicamente per un
abbondante citoplasma, ricco di granuli azzurrofili. Esistono due sottopopolazioni di LGL, distinguibili fenotipicamente per una
diversa espressione antigenica recettoriale (CD): linfociti T citotossici (CD3+, CD8+, CD16+ e CD57+) oppure Natural Killer
(NK) [CD3-, CD8-, CD16+, CD56+ e CD57-]. Disturbi linfoproliferativi cronici a carico degli LGL, possono esitare in leucemie linfocitiche croniche nella variante a grandi granuli, CLL-LGL, o in leucemie NK-LGL.
Nel presente studio sono stati esaminati il segnalamento, l’anamnesi, l’esame fisico, l’esame emocromocitometrico e l’immunofenotipo ematologico di 12 cani affetti da LCC-LGL, diagnosticate nel periodo compreso tra Dicembre 2002 e Novembre 2003.
Il segnalamento rivela un’ampia variabilità in termini di razza, una predominanza del sesso femminile e una netta prevalenza di
soggetti adulti/anziani (età compresa tra 8 e 15 anni). All’anamnesi e all’esame fisico si riportavano segni aspecifici quali: abbattimento, anoressia/disoressia, dispnea, diarrea, vomito, splenomegalia e linfoadenomegalia. In due casi la malattia è stata diagnosticata fortuitamente, sulla base del rilievo di una linfocitosi periferica (> 26.0 × 109/L), in pazienti altrimenti asintomatici.
L’esame emocromocitometrico (lettura strumentale con contaglobuli laser ADVIA 120 Bayer©) e la valutazione citomorfologica dello striscio ematico eseguito a fresco, hanno evidenziato un’anemia normocitica normocromica lieve in 5 casi, moderata in
2 casi e l’assenza di anemia nei rimanenti. Il leucogramma presentava leucocitosi con ampia variabilità di espressione (min. 20.0,
max. 464.3 × 109/L), secondaria principalmente a linfocitosi (min. 14.4, max. 445.7 × 109/L) e neutrofilia. La stima piastrinica
risultava inadeguata in 2 soggetti, adeguata in 8 e aumentata in 2. Tutti linfociti allo striscio apparivano maturi, di medio-grandi dimensioni con abbondante citoplasma ricco di granuli azurofili, in assenza di alterazioni nucleari.
L’analisi citofluorimetrica è stata eseguita con il citofluorimetro Epics XL-MCL (Beckman Coulter©), su sangue periferico addizionato di K3 EDTA, con il seguente pannello anticorpale: CD3+ (linfociti T), CD4+ (T helper), CD8+ (T citotossici), CD21+
(linfociti B) e CD34+ (blasti). L’immunofenotipo, dimostrando una netta positività al CD3 e al CD8 e negatività per il CD4,
CD21 e CD34 ha permesso di formulare la diagnosi LCC-LGL nei 12 casi in esame.
Tali risultati dischiudono interessanti aspetti di patologia comparata con la medicina umana. Nell’uomo i disturbi linfoproliferativi a carico degli LGL si presentano in due varianti CLL-LGL e NK-LGL: la prima dal decorso più indolente rispetto alla seconda, dove spesso si segnalano quadri clinici conclamati; entrambe colpiscono con maggior frequenza i maschi, prediligono i
soggetti adulti/anziani e talvolta s’associano a quadri di pancitopenia periferica, indotta da un deficit maturativo midollare, secondaria all’infiltrazione linfocitaria, e da meccanismi autoimmuni. La nostra casistica ha evidenziato, fino ad ora, l’esistenza
della sola variante CLL-LGL, dal decorso clinico sovrapponibile a quello umano, ad eccezione di due aspetti: nel cane sono colpite più frequentemente le femmine e non si osservano quadri di pancitopenia periferica. In particolar modo la neutropenia registrata in corso di CLL nell’uomo risulta fortemente in contraddizione con la neutrofilia evidenziata nel cane: questo dato suggerisce che l’infiltrazione LGL nel midollo non induce una soppressione della mielopoiesi.
Si ringraziano i Medici Veterinari, che hanno inviato la casistica.
Indirizzo per la corrispondenza:
Laboratorio d’Analisi Private “San Marco”
Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova
Tel. 049-8561039 - Fax 02-700518888
E-mail: [email protected]
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516
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DILATAZIONE DI STENOSI ESOFAGEE MEDIANTE CATETERE A PALLONCINO
Rossella Terragni Med Vet SPCAA-Gastroenterologia, Massimo Vignoli Med Vet SRV,
Federica Rossi Med Vet SRV Dipl ECVDI, Massimiliano Tassoni Med Vet, Paola Laganga Med Vet
Liberi Professionisti, Sasso Marconi (BO)
Introduzione: Le cause più importanti di stenosi esofagee nell’uomo sono i tumori dell’esofago. Nel cane e nel gatto prevalgono le stenosi conseguenti ad esofagiti ed in particolare da reflusso di succhi gastrici durante l’anestesia. Altre cause sono l’ernia
iatale, il reflusso gastro-esofageo grave, i corpi estranei, l’ingestione di caustici.
Obiettivi: Valutare se con la metodica di dilatazione per mezzo di catetere esofageo a palloncino sia possibile ottenere dilatazioni a lungo termine o definitive e confrontarla alle altre metodiche conservative.
Materiali e metodi: Tre cani di razza Pastore Tedesco sono stati riferiti alla nostra struttura per stenosi esofagea benigna ed
anamnesi di rigurgito post-prandiale. I cani sono stati sottoposti a varie dilatazioni esofagee con diverse metodiche, quali papillotomo collegato ad elettrocauterio o Bougienage e tutti hanno presentato una recidiva della stenosi dopo circa 20 giorni dai vari interventi. È stata eseguita in tutti i casi l’esofagografia opaca con mezzo iodato in 2 casi e baritato in un caso. I cani sono stati sottoposti ad esofagoscopia per mezzo di un videoendoscopio di 9,8 mm di diametro ed un canale operativo di 2,8 mm. Visualizzata la zona di stenosi, si è proceduto ad inserire nel canale operativo il catetere a palloncino ed una volta impegnato il sito della stenosi è stato insufflato con aria mediante una siringa con manometro. La prima dilatazione è sempre stata effettuata
con un palloncino di diametro massimo di 10 mm, seguita nella stessa seduta con un palloncino con diametro massimo di 20
mm. Dopo la dilatazione tutti i cani sono stati sottoposti a terapia medica con amoxicillina 20 mg/kg/bid per 5 giorni, sucralfato 40 mg/kg/tid per 2 giorni ed esomeprazolo magnesio triidrato 40 mg/die a vita.
Risultati: L’esofagografia opaca ha messo in evidenza una stenosi esofagea nel tratto esofageo cervicale in un caso ed una stenosi precardiale negli altri due casi. L’endoscopia ha evidenziato stenosi esofagee da 2 a 5 mm. In tutti e 3 i cani si è ottenuta
una dilatazione di 20 mm circa. I soggetti sono stati seguiti endoscopicamente e dilatati di nuovo dopo 45 giorni dal primo intervento. A distanza di 4 mesi continuano ad alimentarsi con cibo grossolanamente triturato.
Discussione: La dilatazione esofagea è l’approccio più comune alle stenosi esofagee benigne, meno invasivo rispetto alla chirurgia tradizionale. Le due metodiche conservative sono la dilatazione mediante palloncino ed il Bougienage esofageo. L’uso
del catetere a palloncino, rispetto al Bougienage esofageo, consente di introdurre il catetere nel canale bioptico e di esercitare
una forza radiale sulla parete dell’esofago piuttosto che longitudinale. Molti pazienti richiedono procedure multiple prima di ottenere un risultato soddisfacente; questo spesso implica che non si ottenga una situazione “normale” ma un animale che è in grado di nutrirsi in maniera adeguata. Il numero e la frequenza delle procedure è estremamente variabile e viene deciso in base alla gravità del caso. Nella nostra esperienza, seppur di pochi casi, la dilatazione con catetere a palloncino ha presentato risultati
migliori e più duraturi nel tempo rispetto alle altre tecniche.
Indirizzo dell’aurore presentatore:
Ambulatorio Veterinario dell’Orologio,
Via dell’Orologio 38 - 40037 Sasso Marconi (BO)
Tel. e Fax 051-6751232
E-mail: [email protected]
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IL TRATTAMENTO DELLA ROTTURA DEL LEGAMENTO CROCIATO CRANIALE DEL CANE
MEDIANTE AGOPUNTURA
Maurizio Tomassini DVM
Libero professionista, Desio (Mi)
Scopo del lavoro: Dimostrare il beneficio ottenuto utilizzando l’Agopuntura in caso di rottura del legamento crociato craniale
del cane. La rottura del legamento crociato craniale nel cane è una patologia abbastanza frequente.
L’articolazione del ginocchio è una struttura complessa formata da: Ossa, Tendini, Strutture fibro-cartilaginee. Si elencano i vari test necessari ad una diagnosi clinica.
La terapia convenzionale è essenzialmente chirurgica.
I maggiori Autori ritengono che cani di peso inferiore a 20 kg possono avere un recupero funzionale con un confinamento rigoroso per 4-8 settimane anche in assenza di intervento.
Secondo la Medicina Tradizionale Cinese la rottura del legamento crociato craniale è una Sindrome Bi da freddo.
Si sono selezionati pazienti che non potevano essere sottoposti ad anestesia a meno di rischi notevoli o i cui proprietari non accettavano in maniera assoluta l’intervento chirurgico.
Metodi: I punti usati sono stati sempre i medesimi e non sono mai stati cambiati, non si sono trattate eventuali patologie concomitanti, tutto ciò per avere risultati costanti e ripetibili.
I punti impiegati sono: BL 60 - KI 3 - GB 34 - SP 9 - Occhi del ginocchio (punto fuori meridiano).
È stata impiegata anche la moxa non prima di 15 giorni dall’inizio dell’evento patologico.
Le sedute si sono effettuate a distanza di tre giorni per tre settimane. Si sono trattati 15 soggetti di peso compreso tra 2,5 e 35 kg.
Risultati: In quasi tutti i casi si è avuta una completa ripresa funzionale in tre settimane; in due casi (terapia non ottimale) la ripresa si è avuta rispettivamente in quattro e cinque settimane.
Il caso più interessante è quello di un boxer con la rottura bilaterale del legamento crociato craniale non diagnosticata, patologia che durava da tre mesi.
Il cane presentava un’andatura ancheggiante e non riusciva a restare in stazione per più di qualche secondo.
Il proprietario per problemi economici non effettuava l’intervento ed optava per la terapia agopunturale. Le sedute sono state effettuate a distanza di 7 giorni l’una dall’altra per la distanza notevole dell’abitazione dalla Clinica.
La ripresa completa avveniva dopo cinque settimane. A tutt’oggi il cane conduce una vita normale.
Conclusioni: Si è quindi visto che la terapia Agopunturale è di beneficio in questa patologia in pazienti che non possono o i cui
proprietari non vogliono che siano sottoposti ad intervento chirurgico in quanto si ottiene un recupero funzionale precoce, infatti già dopo la prima seduta si ha un inizio di appoggio, inoltre non vi è necessità di un rigoroso confinamento.
Bibliografia
Piermattei-Flo. Ortopedia e trattamento delle fratture dei piccoli animali, Masson, 1999.
Bojrab-Ellison-Slocum. Tecnica chirurgica UTET 2001.
Maciocia. I fondamenti della Medicina Tradizionale Cinese, Ed. Ambrosiana, 1996.
Maciocia. La clinica in Medicina tradizionale Cinese, Ed. Ambrosiana, 1995.
Schoen. Veterinary Acupuncutre, Mosby 2001.
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COMPARAZIONE TRA L’ESTRAZIONE DI DNA DA SANGUE E DA PIUMA PER IL SESSAGGIO
DELLE SPECIE AVIARIE MEDIANTE PCR
Alessandra Tosini Med Vet, Isabella Taboni Biotec
Biodiversity, Brescia
Introduzione: La mancanza di dimorfismo sessuale in oltre 50% delle specie aviarie, rende talvolta estremamente difficoltosa
la determinazione del sesso, soprattutto se tale valutazione deve essere fatta considerando il soggetto ancora allo stadio di pulcino. Tale determinazione, attuabile talvolta solo con l’ausilio di tecniche endoscopiche, riveste una notevole importanza anche
per studi comportamentali ed ecologici soprattutto nelle specie selvatiche ed esotiche.
Il continuo sviluppo di tecniche di biologia molecolare ed il crescente interesse delle applicazioni in campo veterinario hanno
portato, anche in questo settore, allo sviluppo di un test basato sull’analisi del DNA.
A tale scopo è stato utilizzato un approccio di analisi diretto del DNA in cui è possibile distinguere il sesso sulla base della variabilità del gene CHD (chromobox-helicase-DNA-binding) presente sia sul cromosoma Z (CHD-Z), sia sul cromosoma W
(CHD-W). Sullo stesso è stato individuato un introne la cui lunghezza differisce tra i geni CHD-W e CHD-Z; sfruttando questa
caratteristica sono stati utilizzati dei primer (P2: 5’-ACTTTTCCAATATGGATGAAGA-3’ ed NP: 5’-GAGAAACTGTGTCAAAACAG-3’) disegnati sulle regioni conservate fianchegganti la zona target. Poiché gli uccelli di sesso maschile presentano due cromosomi sessuali identici (ZZ) mentre le femmine sono eterogametiche (ZW), il prodotto della PCR, visualizzato su
gel, evidenzia due bande nei soggetti di sesso femminile ed una banda in quelli di sesso maschile.
Ciò premesso, lo scopo del presente lavoro è comparare l’estrazione di DNA da piuma con quella da sangue, al fine di validare
un metodo di prelievo la cui praticità e minima invasività, ne permetta l’applicazione anche su soggetti di piccole dimensioni
e/o difficili da maneggiare.
Materiali e metodi: A n. 50 animali, appartenenti a diverse specie aviarie, sono stati prelevati 1 ml di sangue e piume da diverse parti del corpo. Per lo studio preliminare sono state utilizzate specie di allevamento per la facilità nel reperimento dei campione e per la manifesta espressione dei caratteri sessuali secondari, necessaria per confermare il risultato ottenuto in PCR. L’estrazione di DNA da sangue è stata condotta mediante l’utilizzo di un kit commerciale (Wizard Promega) secondo il protocollo
previsto dal manuale, mentre per l’estrazione di DNA da piuma è stata introdotta una fase preliminare di lisi in buffer apposito
(TE - SDS 10% - proteinasi K 20 mg/ml) a 37° C per 1 ora. 5 µl di DNA estratto sono stati poi addizionati alla mix di reazione
contenente 1,5 mM di MgCl2, 20 picomoli di ciascun primer, 1,5 U di Taq polimerasi, 0,2 mM dNTPs e buffer di reazione. Alla fase di denaturazione a 94° C per 90 sec sono seguiti 30 cicli di 94° per 30 sec, 48° C per 45 sec, 72° C per 45 sec con un’estensione finale di 60 sec a 48° e 5 min a 72°. I prodotti di PCR sono stati visualizzati su gel di agarosio al 3%.
Risultati: In questa fase preliminare del lavoro abbiamo potuto verificare che, come riportato in letteratura, il gene CHD permette con una singola PCR la distinzione tra i due sessi. La presenza del CHD su entrambi i cromosomi consente inoltre di verificare la riuscita della reazione stessa. In merito all’impiego della piuma quale materiale di partenza per l’estrazione del DNA,
le prove da noi condotte hanno evidenziato come i risultati di PCR siano sovrapponibili a quanto ottenuto da sangue.
Conclusioni: Benché ulteriori approfondimenti siano necessari per l’applicazione di questo metodo anche a specie aviarie di
maggiore interesse, quanto emerso in corso del presente studio identifica nella piuma un campione ottimale, di facile reperibilità e di minima invasività da utilizzare per le prove di sessaggio mediante PCR.
Indirizzo per la corrispondenza:
Alessandra Tosini
Biodiversity srl
Via Corfù 71 - 25124 Brescia
Tel. 030/221095 - Fax 030/2450064
E-mail: [email protected]
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MASSE SOTTOCUTANEE E CUTANEE NEL GATTO:
NEOPLASTICHE O NON NEOPLASTICHE? (175 CASI)
Debora Trenti1 Med Vet, Pierluigi Fant2 Med Vet, Tommaso Furlanello1,2 Med Vet, Marco Caldin1,2 Med Vet
1
Clinica Veterinaria Privata “San Marco”
2
Laboratorio Privato d’Analisi Veterinarie “San Marco”
Introduzione: Nella pratica clinica è relativamente frequente il reperimento nei pazienti felini di neoformazioni cutanee-sottocutanee, di varia morfologia e dimensioni. L’esame citopatologico viene eseguito comunemente, ma è all’esame istopatologico
che ci si affida per ottenere una diagnosi il più possibile affidabile e “definitiva”. Anche per poter gestire in modo ottimale il
campionamento o l’asportazione di una neoformazione cutanea-sottocutanea, sarebbe utile conoscere almeno in maniera probabilistica quali sono le patologie più comuni in questi pazienti.
Materiali e metodi: Abbiamo valutato 175 campioni istopatologici di tessuti cutanei-sottocutanei, raccolti nell’anno 2002 e provenienti da gatti di ambo i sessi, di varie razze e di età compresa tra 8 mesi e 20 anni. Le neoformazioni campionate erano 157
noduli e 18 masse irregolari.
Risultati e discussione: La diagnosi istopatologica ha dato i seguenti risultati: 21 lesioni infiammatorie (12% sul totale delle
neoformazioni) di cui 13 (61,9% di questa categoria) flogosi croniche-granulomatose, 7 pannicoliti-steatiti-necrosi (33,3%), 1
pseudomicetoma (4,8%).
Le lesioni neoplastiche erano 151 (86,3% della totalità delle lesioni) di cui 41 epiteliali, 97 mesenchimali, 1 melanoma maligno
e 12 a cellule rotonde. Tra le forme epiteliali 30 erano benigne (23 basaliomi, 5 adenomi non mammari, 1 tricoblastoma, 1 tricoepitelioma) e 11 maligne (7 carcinomi squamo-cellulari, 3 adenocarcinomi non mammari e 1 carcinoma basocellulare). Tra
le forme mesenchimali 11 erano benigne (8 lipomi e 3 fibromi) e 86 maligne (55 identificabili come sarcomi “iniezione-indotti” e 31 fibrosarcomi). Tra i tumori a cellule rotonde si identificavano 10 mastocitomi e 2 tumori poco differenziati. In 3 casi le
masse campionate corrispondevano a delle cisti follicolari.
Dalla presente raccolta di dati emerge che la maggior parte delle neoformazioni cutanee-sottocutanee del gatto sono di natura
neoplastica con maggior incidenza delle forme maligne (100, pari al 66,2%) rispetto alle forme benigne (51 pari al 33,8%).
Non abbiamo riscontrato correlazioni con l’aspetto macroscopico e di conseguenza il clinico deve mantenere un atteggiamento
cauto nel formulare giudizi prognostici prima di aver correttamente campionato la massa in oggetto.
Appare preoccupante l’elevata incidenza dei sarcomi “iniezione-indotti”, che rappresentavano ben il 31,4% di tutte le neoformazioni campionate, corrispondente al 36,4% delle lesioni neoplastiche (pari al 55% delle forme maligne). La pericolosità di
questa neoplasia è tale che l’approccio deve essere rigoroso e pianificato anche in fase diagnostica. Anche se i fibrosarcomi dispongono di una struttura nodulare, è noto che la neoplasia ha invece tendenza a diffondersi nei tessuti circostanti. L’asportazione non deve quindi limitarsi all’exeresi della neoformazione, come invece risultava dai dati anamnestici disponibili nella maggior parte dei casi. L’incompleta asportazione è testimoniata dalla presenza di cellule neoplastiche ai margini di tutti i tessuti
campionati. Si può concludere quindi che l’elevata incidenza di neoplasie maligne sottocutanee nel gatto impone al medico veterinario particolari procedure diagnostiche e preoperatorie prima di provvedere anche alla semplice rimozione di una massa.
Indirizzo per la corrispondenza:
Clinica Veterinaria Privata “San Marco”
Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova
Tel. 049-8561039 - Fax 02-700518888
E-mail: [email protected]
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520
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CONTROLLO DELLA CURVA DI ACCRESCIMENTO:
STUDIO PROSPETTICO SU 183 CANI DI RAZZA BOVARO DEL BERNESE
Massimo Petazzoni1 Med Vet, Silvia Turetti1 Med Vet, Valentino Bontempo2 Med Vet,
Rita Rizzi2 Med Vet, Carlo Maria Mortellaro3 Med Vet
1
Libero professionista, Milano
2
Dipartimento di Scienze e Tecnologie Veterinarie per la Sicurezza Alimentare - Università degli Studi di Milano
3
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie - Università degli Studi di Milano
Scopo del lavoro: Valutare il ruolo svolto dall’alimentazione sullo sviluppo di patologie scheletriche dell’accrescimento e verificare la possibilità che un rallentamento della velocità di crescita ne riduca la prevalenza, senza compromettere il raggiungimento di peso ed altezza finali, previsti dagli standard.
Metodi: 183 cani di razza Bovaro del Bernese, suddivisi in due gruppi: il primo composto da 133 soggetti, sottoposti a regime
dietetico controllato, con un alimento specifico per la fase della crescita di cuccioli appartenenti a razze grandi e giganti; il secondo costituito da 50 cani, alimentati con diete diverse, commerciali o casalinghe, senza alcuna restrizione. La razione da somministrare ad ogni cane del primo gruppo all’inizio dello studio è stata determinata dal rapporto tra il fabbisogno energetico (secondo la formula: EM=[(30*kg)+70]*x) e la densità calorica dell’alimento. In seguito i cani sono stati pesati dal proprietario
ogni 7/10 giorni e le dosi adattate secondo la curva di crescita e l’incremento ponderale giornaliero, ponendo come riferimento
un aumento di 150 g/die. Nel corso dello studio i cani sono stati sottoposti ad esami radiografici per la diagnosi di patologie
scheletriche e da ultimo sono stati rilevati altezza al garrese e BCS (Body Codition Score) di tutti i soggetti.
Risultati: Nel gruppo dei 133 cani controllati, 66 sono stati radiografati, 25 con referto ufficiale, mentre dei 50 cani non controllati, 37 sono stati radiografati, 28 con referto ufficiale. Il controllo della curva di crescita è iniziato a circa 79 giorni, con un
peso medio di 10,40 ± 3,45 kg per i cani in seguito risultati sani e 10,24 ± 4,76 kg per i cani malati. Questi ultimi hanno raggiunto il peso medio di 34,87 ± 5,57 kg in 267 giorni, mentre i primi hanno raggiunto 34,16 ± 7,15 kg in 283 giorni. La percentuale di displasia di anca e gomito nel primo gruppo è risultata del 26%, contro un 38% del secondo gruppo. Il 15% del gruppo controllato ha presentato displasia dell’anca, il 6% displasia del gomito e il 5% entrambe le forme, mentre nel gruppo non
monitorato la displasia dell’anca ha raggiunto il 19%, quella del gomito il 16% ed il 3% dei cani ha manifestato entrambe le patologie. Nel gruppo controllato, i soggetti con displasia del gomito hanno presentato incrementi ponderali maggiori, fino a 176
g/die. Sono state elaborate le curve di crescita di tutti i cani di questo gruppo, divisi in base al sesso ed allo stato (sano/malato):
in entrambi i sessi i cani displasici sono cresciuti ad un ritmo superiore. Nel confronto con i cani non controllati, i valori di peso ed altezza da adulti sono risultati simili, nonostante il rallentamento della curva di crescita.
Conclusioni: La sovralimentazione svolge un ruolo importante nella manifestazione delle patologie scheletriche dell’accrescimento, accanto alla componente genetica. Le razze grandi e giganti sono più a rischio in quanto presentano potenziali accrescitivi molto elevati nei primi mesi, velocizzando la curva di crescita sotto la spinta di un eccessivo apporto energetico. I compartimenti articolari risultano così gravati da carichi ponderali difficilmente sostenibili. Anche l’eccesso assoluto di Calcio influenza
negativamente lo sviluppo osteoarticolare. Un limite nell’assunzione di Energia determina una minore prevalenza di displasia,
in quanto la razione viene adeguata sulla base dell’incremento ponderale del cucciolo, permettendo ad ossa ed articolazioni, ancora in via di sviluppo, di adattarsi gradualmente al crescente carico. La corretta gestione nutrizionale si basa, quindi, sui seguenti punti: 1) calcolare i fabbisogni; 2) analizzare il profilo nutritivo dell’alimento; 3) valutare il ritmo di sviluppo; 4) correggere il regime alimentare.
Indirizzo per la corrispondenza:
Turetti Silvia
Via Sant’Anna, 7 - 20045 Besana Brianza (MI)
Tel. 339/2125299 - Fax 0362/801725
E-mail: [email protected]
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521
STUDIO CITOLOGICO COMPARATIVO SU 135 CASI DI LINFOMA NEL CANE
Vanessa Turinelli1 Med Vet, Tommaso Furlanello2 Med Vet, Marco Caldin2 Med Vet,
George Lubas3 Med Vet PhD Dipl ECVIM, Corinne Fournel-Fleury1 Med Vet PhD Dipl ECVCP
1
Laboratoire de Cytologie-Hematologie-Immunopathologie, Ecole Nationale Vétérinaire de Lyon, Francia
2
Clinica Veterinaria Privata San Marco e Laboratorio d’Analisi Private “San Marco”, Padova
3
Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa
Il linfoma del cane è una neoplasia di frequente riscontro nella pratica clinica ed è della massima importanza stabilire una prognosi in relazione alle possibili opzioni terapeutiche. Se si considera il linfoma come un’unica entità, la prognosi associata all’uso dei protocolli chemioterapici disponibili varia da settimane ad oltre 1 anno. Invece è stato dimostrato che una corretta caratterizzazione, sia morfologica che fenotipica, permette di riconoscere differenti entità patologiche, con peculiari risposte terapeutiche e con prognosi assai diverse1. Il presente lavoro riporta lo studio di tipizzazione di un numero adeguato di linfomi canini, effettuato in un Laboratorio dislocato in Italia e uno in Francia, al fine di compararne la prevalenza dei sottotipi osservati
rispetto a quanto pubblicato in Letteratura.
In un analogo periodo di 9 mesi sono stati diagnosticati un totale di 135 casi di linfoma, 70 in Francia e 65 in Italia. I preparati per l’osservazione microscopica, sono stati ottenuti da agoaspirati di linfonodi, di neoformazioni superficiali o profonde e da
liquidi di versamento, centrifugati e strisciati su vetrino. I preparati sono stati colorati con colorazioni tipo Romanowsky e sottoposti ad una classificazione utilizzando i criteri morfologici proposti dalla classificazione citologica di Kiel attualizzata e adattati alla più recente classificazione WHO dei linfomi e delle leucemie canine. Per i linfomi osservati in Francia è stata eseguita
anche l’immunofenotipizzazione, utilizzando gli anticorpi anti CD3 (pan T) e anti CD79a (pan B) e gli anticorpi anti CD4 e CD8
(sottotipi T). Per alcuni linfomi è stato calcolato anche l’indice di proliferazione utilizzando il Ki 67.
In entrambi i paesi si è avuta una predominanza di linfomi di fenotipo B (56% in Italia e 82,5% in Francia) e di grado elevato
di malignità (rispetto al totale: 52,3% in Italia e 72,8% in Francia); il sottotipo prevalente è risultato essere il centroblastico polimorfo (30,8% in Italia e 50,0% in Francia), per il quale la risposta alla chemioterapia e la durata di sopravvivenza sono tra le
migliori (rispettivamente 12 mesi e 17 mesi)1. È stata rilevata inoltre una buona percentuale di linfomi plasmocitoidi (fenotipo
B oppure T = 27,7% in Italia e 8,6% in Francia) per i quali è stato dimostrato che la durata di remissione post chemioterapia è
di 2 mesi e il tempo di sopravvivenza è di soli 3 mesi1 e una bassa percentuale di linfomi B tipo Burkitt (6,1% in Italia e 4,3%
in Francia) per i quali non c’è alcuna risposta alla chemioterapia1. Solo per tre linfomi (1 plasmocitoide ed 2 prolinfocitici), per
i quali era disponibile esclusivamente la valutazione citomorfologica, non è stato possibile individuare il fenotipo.
Il presente studio dimostra la possibilità di riconoscere differenti sottotipi di linfoma e ciò appare indispensabile, perché nella
recente letteratura1 è riportato che il riconoscimento del solo fenotipo B o T non è sufficiente per emettere un giudizio prognostico corretto. Infine si deve notare che vi sono differenze significative tra l’incidenza dei sottotipi in Francia e in Italia e ancor
più con casistiche raccolte in altri Paesi europei, come ad es. in Gran Bretagna2. Ciò implica che probabilmente vi sono importanti variabilità epidemiologiche nelle diverse aree geografiche, che possono avere importanti risvolti anche dal punto di vista
clinico. In base ai dati ad oggi disponibili, non è più corretto considerare il linfoma canino come una singola entità clinica.
Bibliografia
1. Ponce F et al., (2004). Prognostic significance of morphological subtypes in canine malignant lymphomas during chemotherapy. Vet J, in corso di stampa.
2. Dobson JM et al., (2001). Prognostic variabiles in canine multicentric lymphosarcoma. J Small Anim Pract. 42, 377-384.
Indirizzo per la corrispondenza:
Vanessa Turinelli
Laboratoire de Cytologie-Hematologie-Immunopathologie
Ecole Nationale Vétérinaire de Lyon, 1 avenue Borgelat, B.P. 83, 69280 Marcy L’Etoile, France
Tel. 335 82 16 922/ 00 33 4 78 87 26 10 - Fax 00 33 4 78 87 27 76
E-mail: [email protected]
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522
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
LA CHEMIO-SICUREZZA IN ONCOLOGIA VETERINARIA
Fabio Valentini Med Vet MS
Libero professionista, Roma
La manipolazione dei farmaci antiblastici è un fenomeno sempre più diffuso nelle cliniche e negli ambulatori veterinari. Questa
pratica però, nonostante l’esistenza di linee guida di protezione, viene realizzata in condizioni di insicurezza sia rispetto alla corretta preparazione (ricostituzione) del farmaco, sia rispetto all’incolumità dell’operatore responsabile. Gli effetti tossici, a breve, medio e lungo termine, sia sul paziente che sul somministratore, devono essere ben noti al fine di poterli prevenire.
Sono previste norme sia di carattere comportamentale (divieto di accesso nella zona di preparazione a personale non autorizzato, esclusione dalla preparazione a donne in gravidanza e in allattamento, divieto di uso di cosmetici e generi alimentari nelle
zone di lavoro e obbligo di indossare abiti idonei nelle aree di lavoro), sia relative all’utilizzo di presidi per la preparazione e
per la somministrazione.
Durante la preparazione, le fasi a rischio durante le quali si può verificare sia la formazione di vapori e/o di aerosol, sono soprattutto: l’apertura della fiala, la rimozione dell’ago dal flacone, il riempimento della siringa e della fleboclisi e l’espulsione
dell’aria dalla siringa. I chemioterapici dovrebbero essere sempre preparati sotto cappa a flusso laminare verticale; qualora ciò
non sia possibile, bisogna predisporre di un campo di lavoro ampio, di facile pulizia, coprirlo con carta bibula (impermeabile
sotto, assorbente sopra) e, possibilmente, collocato vicino ad un lavandino.
Durante la somministrazione, la contaminazione con il farmaco può avvenire durante l’espulsione dell’aria dalla siringa prima
dell’inoculo e le perdite a livello di deflussori, valvole e raccordi. Occorre quindi usare siringhe con tappi di sicurezza (luer lock)
e aghi con filtri idrofobici che evitano la fuoriuscita di aerosol, usare correttamente i dispositivi di protezione individuale (DPI),
segnalare l’area come area a rischio, pulire l’area con panni assorbenti, detergenti ed acqua. I DPI sono costituiti da: camice monouso idrorepellente di tipo chirurgico; guanti monouso in lattice pesante da sostituire in caso di contaminazione, taglio, lacerazioni e sempre ogni 30 minuti; mascherina monouso, se si lavora sotto cappa, altrimenti mascherina con filtro ad alta efficienza; cuffia monouso; occhiali con protezioni laterali e sovrascarpe monouso. Tutto il materiale utilizzato in sede chemioterapica va smaltito in contenitori speciali.
Particolare attenzione deve essere anche posta nei confronti degli escreti dei pazienti trattati con antiblastici poiché possono contenere alte concentrazioni di tali farmaci e rappresentare, quindi, un’ulteriore fonte di esposizione.
In ultimo, non per importanza, vanno ricordate le procedure di pronto intervento in caso di stravaso dei suddetti farmaci e i loro effetti a breve, medio e lungo termine sugli organismi biologici.
La bibliografia è disponibile presso l’autore.
Indirizzo per la corrispondenza:
Fabio Valentini
Via Benaco 07, 00199 Roma
Tel. 339/1464685
E-mail: [email protected]
This manuscript is reproduced in the IVIS website (www.ivis.org) with the permission of SCIVAC
48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
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UTILIZZO DELLA SCINTIGRAFIA NELLA DIAGNOSI DI IPERTIROIDISMO IN UN GATTO
Andrea Volpe1 Med Vet, Luca Tosti Croce2 Med Vet, Marco Colaceci1 Med Vet, Antonello Boldreghini1 Med Vet
1
Liberi professionisti, Roma
2
Azienda USL Rm A, Roma
Introduzione: La scintigrafia tiroidea rappresenta un importante mezzo diagnostico per lo studio funzionale ed anatomico della ghiandola tiroide. Essa, infatti, è in grado di fornire informazioni precise sia riguardo lo stato funzionale che la localizzazione anatomica di entrambi i lobi tiroidei, di evidenziare tessuto tiroideo ectopico iperfunzionante o eventuali metastasi in corso
di adenocarcinomi tiroidei. Tali informazioni si rivelano estremamente utili sia per la diagnosi che per la gestione dei casi d’ipertiroidismo.
Caso clinico: Un gatto comune europeo, maschio castrato, di 12 anni è stato sottoposto alla nostra attenzione in seguito ad un
dimagramento progressivo verificatosi nel corso di alcune settimane. All’esame fisico il soggetto presentava, come unica alterazione, un nodulo palpabile a livello della regione cervicale ventrale. Il gatto è stato sottoposto, in sedazione, ai seguenti esami: emocromo, profilo biochimico, elettroforesi proteica, esame delle urine, TT4, fT4 radiografia total body ed esame ecotomografico addominale. Le principali alterazioni riscontrate erano: moderato aumento dell’ALT, fT4 moderatamente aumentato
(28,5 pmol/l - range: 8,4 - 23,2 pmol/l) e lieve iperplasia dei linfonodi digiunali.
In base a tali riscontri il gatto è stato sottoposto a terapia orale con metimazolo al dosaggio iniziale di 2,5 mg b.i.d. che, in seguito, è stato ridotto a 1,25 mg b.i.d. a causa di un’intolleranza al farmaco da parte dell’animale. Dopo due settimane il fT4 si è
attestato al di sotto del range di riferimento, cosa che ci ha indotto a non aumentare il dosaggio del metimazolo. Ad un mese di
distanza il gatto ha presentato un ulteriore dimagramento accompagnato da un moderato aumento dell’appetito e da episodi intermittenti di diarrea. Un nuovo dosaggio del fT4 ne testimoniava il ritorno a valori superiori alla normalità. Non essendo possibile aumentare il dosaggio del farmaco e per giungere ad una diagnosi più accurata si è deciso di eseguire una scintigrafia tiroidea.
L’esame ha evidenziato la presenza di un nodulo monolaterale avido di tecnezio nella regione cervicale ventrale, il cui rapporto nei confronti della ghiandola salivare ipsilaterale era maggiore di uno. Tale risultato oltre a confermare in modo inequivocabile la diagnosi d’ipertiroidismo ci ha permesso anche di ricorrere alla terapia chirurgica.
Conclusioni: La scintigrafia tiroidea si è rivelata nel nostro caso un mezzo estremamente utile per formulare una diagnosi precisa in un soggetto che mostrava TT4 nella norma e moderati aumenti del fT4 e nel quale non era possibile giungere ad una stabilizzazione farmacologica a causa di una sua intolleranza al medicinale. Tale metodica ci ha permesso inoltre di poter accertare l’iperfunzionalità di un solo lobo tiroideo, la cui asportazione chirurgica ha consentito una guarigione definitiva del soggetto.
Bibliografia disponibile su richiesta.
Indirizzo per la corrispondenza:
Andrea Volpe
Via L. Traversi n. 11, 00154 Roma
Tel. 06/5740693 - Fax: 06/2302197
E-mail: [email protected]
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