Tesi: Cooperazione tra TICCIH Cile e Università di
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Tesi: Cooperazione tra TICCIH Cile e Università di
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI FACOLTÀ DI INGEGNERIA CORSO DI LAUREA IN INGEGNERIA EDILE-ARCHITETTURA Cooperazione tra TICCIH Cile e Università di Cagliari finalizzata alla riqualificazione dei siti minerari dismessi. Chuquicamata, un caso di applicazione. Relatori: Ing. Ginevra Balletto Ing. Giovanni Mei Correlatore: Dott. Arch. Jaime Migone Rettig Tesi di laurea di: Valentina Craboledda A.A. 2006-2007 …a Mamma e Papà che hanno reso possibile tutto questo. Prefazione La tesi propone il progetto di recupero e restauro architettonico di un edificio inserito all’interno dell’ex villaggio operaio di Chuquicamata, grande complesso minerario situato nel nord del Cile, prossimo alla città di Calama. Il progetto nasce dalla stretta collaborazione tra il TICCIH (The International Commitee for the Conservation of the Industrial Heritage ) Cile, organismo internazionale molto attivo nella tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico industriale, e la Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Cagliari, in particolare con il Dipartimento di Geoingegneria – Corso di Politiche Urbane e Territoriali. Il referente in Cile per il presente progetto è stato l’architetto Jaime Migone Rettig, supervisore e correlatore insieme all’ingegnere Balletto della tesi, nonché presidente dell’associazione TICCIH Cile, già presente nel territorio cileno con numerosi progetti e studi. La tesi è stata svolta in Cile in diverse fasi: una fase preliminare di studio della realtà cilena, effettuata nella città di Santiago, necessaria per acquisire le informazioni elementari riferite al contesto socioeconomico, storico e geografico in cui si avrebbe lavorato, nonché per conoscere e comprendere la grande importanza economica che il sito minerario, e più in generale tutta l’attività mineraria, ricopre nel Paese; una seconda fase svolta direttamente sul luogo, tra Chuquicamata e la città di Calama, in cui si sono acquisite le informazioni mancanti relative al contesto ed in cui si è potuto visitare e studiare direttamente il sito attraverso sopralluoghi rivelatisi indispensabili per la percezione del rapporto – soprattutto del legame emotivo ed emozionale – che si è sviluppato negli anni tra il complesso minerario e le famiglie chuquicamatine; nella terza fase, svolta a Santiago del Cile, si è innanzitutto organizzato il materiale e le informazioni raccolte e, successivamente, è stato sviluppato il progetto. Dopo aver recepito le informazioni necessarie attinenti al sito, quindi una volta “conosciuto” il contesto, si sono avanzate le proposte di intervento: il recupero e restauro architettonico dell’edificio ed una nuova destinazione d’uso, coerente con i programmi già esistenti proposti per l’intera area industriale oggetto di preservazione e valorizzazione. Il progetto nasce dalla collaborazione internazionale avvenuta attraverso lo scambio culturale dei due Paesi e dunque tramite un confronto diretto tra i diversi approcci alla progettazione; insieme al referente in Cile prof. Migone e all’ingegnere Sergio Diaz Elizondo, direttore del Departamento Chuquicamata Zona Industrial – Gerencia Proyecto Traslado a Calama, si sono individuate le strategie di intervento da attuare direttamente nel sito e, soprattutto, è stata condivisa un’esperienza culturalmente ricca e importante. Inoltre è interessante notare che il progetto della tesi non rimarrà un esercizio puramente didattico, ma contribuirà materialmente – attraverso la sua concreta realizzazione – a migliorare la realtà del luogo, auspicando così di poter ottenere i benefici ambientali, urbani, economici e sociali che la proposta di riqualificazione prevede direttamente per il sito e, indirettamente, per tutto il Cile. Adios a Chuquicamata Hoy, he apagado la luz, las ampolletas sacamos miré mi casa vacía y dije: ...ahora nos vamos. Cuantos recuerdos grabados, quedaron aquí en mi alma que solo se quedó todo, parece un pueblo fantasma. De siete casas que había, ya seis quedaron vacias en el mineral se queda, parte de la vida mia. Los chicos y sus chaquetas, las ventanas y sus visillos... ya no se ven bicicletas, ya no juegan los chiquillos. El Club Chuqui que a los jóvenes les dio tanta alegria también se ha quedado solo. Tu, no te vas todavía. La iglesia, que fue reunion y descanso para el alma ya no tiene feligreses, todo se ha quedado en calma. Como el canto de los pajaros que se ha llevado el viento así yo veo los árboles que uno a uno van muriendo; En el cementerio quedan, miles de almas olvidadas Así, en el campamento, ya no está quedando nada. Cuando llegué a esta, mi casa, mi niña era chiquitita ahora que ya nos vamos, es toda una señorita. Yo te agradezco Chuqui, me diste satisfacción yo pude ver las estrellas y escribir una canción En la plaza donde los jóvenes hacían sus reuniones Hoy solo se oye un silencio y el rugir de los camiones. Atrás quedo la oficina, el viejo y frio galpón de la que hermosos recuerdos yo llevo en mi corazon Con lagrimas en los ojos y una tristeza que me mata Yo te digo: Adios por siempre, adios mi Chuquicamata. Con mucho cariño dedico mi poema para todas las familias chuquicamatinas. Que el Señor los acompañe donde quiera que estén. LUCINDA CASTILLO TORO (ex abitante di Chuquicamata) Indice Introduzione pag. 1 Capitolo 1 - Il Contesto pag. 3 1. 1. L’ambiente geografico e le condizioni storiche pag. 3 1.2. Sin trenes no habria habido minería industrial pag. 6 Capitolo 2 - La miniera del rame in Cile pag. 10 2.1. L’importanza storica delle attività estrattive pag. 10 2.2. Lo Stato e la miniera del rame: dai privati alla pag. 13 nazionalizzazione dei prodotti Capitolo 3 - Chuquicamata pag. 15 3.1. La storia: dalla famiglia Guggenheim a Codelco, pag. 15 da Chuquicamata a Calama 3.2. La lavorazione del minerale. La concentrazione e la lisciviazione pag. 28 trattare solfuri e ossidi 3.3. I villaggi minerari cileni: le città del rame pag. 30 3.4. La città è la rappresentazione della società nello spazio pag. 33 3.5. La descrizione dell’accampamento 35 pag. 3.6. La forma della residenza pag. 39 3.7. L’evoluzione nel tempo e la descrizione dei villaggi più importanti pag. 43 Capitolo 4 - La proposta di intervento pag. 55 4.1. Descrizione architettonica dello stato attuale, analisi del degrado e recupero architettonico pag. 55 4.2. Chuquicamata, un patrimonio vivente da collettivizzare pag. 68 4.3. La scelta del museo: il meta museo pag. 69 Conclusioni pag. 71 Bibliografia pag. 72 Introduzione La tesi analizza la nascita, l’evoluzione e la chiusura del centro abitato di Chuquicamta, nel nord del Cile, fondato in relazione all’attività mineraria svolta in quei territori ricchi di giacimenti di rame. Obiettivo della tesi non è produrre un elaborato progettuale architettonico, ma proporre una nuova destinazione d’uso – peraltro “suggerita” dall’impresa Codelco, oggi amministratrice della miniera – compatibile con la funzione per cui l’edificio fu realizzato e, soprattutto, coerente con gli interventi proposti per gli edifici circostanti. Consapevoli dell’importanza della fase analitica preliminare, necessaria per conoscere a fondo l’ambiente e le condizioni storiche e geografiche che hanno portato alla costruzione dello stesso edificio, è stato approfondito principalmente tale aspetto, indispensabile per definire le successive linee guida per l’intervento. Ci si è così resi conto dell’importanza che Chuquicamata ha avuto per il Cile, non solo per l’apporto allo sviluppo economico e industriale del paese, ma anche e soprattutto perché testimonianza di un periodo storico di grande rilevanza culturale, meritevole dunque di essere preservato e di non essere dimenticato. Si è cercato di comprendere quali siano stati gli aspetti che hanno reso e rendono Chuquicamata un caso unico a livello nazionale e mondiale, aspetti che non solo devono essere preservati ma anche diffusi nel mondo. Per trovare una risposta che andasse oltre la banale giustificazione relativa alle sue dimensioni (la miniera di rame a cielo aperto più grande al mondo, nonché uno dei principali – se non il maggiore – complesso minerario–metallurgico a livello mondiale) si è arrivati alla conclusione che la prodezza di Chuquicamata riguarda diversi elementi: dalla grandiosità dell’intervento dell’uomo che l’ha creata in mezzo al niente, considerando la scala di operazioni con cui è nata (senza cioè alcuna pretesa o ambizione di diventare il gigante minerario che è oggi), al processo civilizzatore di adattamento all’ambiente arido, alla nascita di una diversità culturale e linguistica che ha prodotto nel tempo una radicamento della popolazione ad un luogo che in realtà non era proprio ma che è stato ugualmente sentito come tale. Altre questioni per cui ci si è resi conto dell’importanza di preservare e di far conoscere tale complesso minerario riguardano l’autenticità dei processi industriali nati in quei territori, l’evoluzione tecnologica che ha portato Chuquicamata in prima fila per importanza e profitti generati, con il conseguente consenso sociale (fortemente legato al consenso produttivo), fino ad arrivare all’autenticità della vita sociale dell’accampamento e della gerarchia lavorativa riproposta in scala urbana e architettonica. Partendo da queste basi, approfondendo queste conoscenze e raggiunta la consapevolezza del pregio del complesso minerario, ci si è concentrati sull’edificio oggetto della tesi. In realtà l’edificio non è mai stato considerato separatamente dal suo contesto e si è preferito spostare l’attenzione dall’oggetto architettonico isolato all’intero centro abitato, che a sua volta rappresenta solo una parte del grande complesso minerario di Chuquicamata. La tesi è stata indirizzata quasi esclusivamente all’analisi del contesto in cui l’edificio è sorto, alla conoscenza delle motivazioni storiche che hanno portato alla fondazione del villaggio operaio, alla comprensione dei sistemi produttivi che hanno consentito al Cile di diventare uno dei più importanti produttori di rame, allo studio della vita nell’accampamento. L’edificio, in questa prospettiva, è stato considerato un dettaglio in un contesto più ampio ed articolato ed avrebbe perso ogni rilevanza storica e culturale se fosse stato esaminato separatamente dall’area patrimoniale. Da un punto di vista didattico dunque, la tesi non propone un vero progetto architettonico ma è stata limitata al rilievo dello stato attuale dell’edificio, ovvero all’analisi dello stato di conservazione che l’edificio attualmente presenta, ed alla proposta di linee guida da utilizzare durante il recupero dell’intero complesso patrimoniale. Tali suggerimenti non vogliono essere delle norme rigide da seguire, ma soltanto degli indirizzamenti per valorizzare il più possibile il centro abitato, senza dubbio meritevole (non soltanto per l’importanza delle sue dimensioni o per gli utili che apporta al Paese) di essere conosciuto dal mondo intero. 1. Il contesto 1.1. L’ambiente geografico e le condizioni storiche La miniera di Chuquicamata si trova nel nord del Cile, nel settore conosciuto come Norte Grande, una delle sei zone in cui è diviso il Paese. Il Norte Grande comprende la I Regione di Tarapacá e la II Regione di Antofagasta e si caratterizza per la presenza del deserto di Atacama. Osservando l’intera area si possono incontrare diversi tipi di geografia: a ovest l’Oceano Pacifico, le cui acque fredde per la corrente di Humboldt riducono parzialmente il calore della zona e a est le montagne della Cordigliera delle Ande, spesso coronate di neve. I colli del deserto si raggruppano in chiusure e cordigliere e queste ultime rappresentano sicuramente il sistema orografico principale di tutto il Cile: dalle più conosciute cordigliere delle Ande e della Costa, alla meno famosa cordigliera di Domeyco, che si estende per circa 70 km e parte da San Pedro de Atacama per arrivare, correndo da nord a sud, a circa 100 km di distanza dalla cordigliera delle Ande. Il Norte Grande si può dunque descrivere come una continua agglomerazione di colli sterili separati da pianure anch’esse sterili, situate tra l’oceano Pacifico e le alte montagne della Cordigliera delle Ande. Il clima della zona è, ovviamente, desertico: di notte ci si dimentica dell’eccessivo caldo diurno e si raggiungono temperature basse con condizioni termiche invernali; date le apprezzabili differenze termiche, in un solo giorno si possono verificare – meteorologicamente parlando – tutte e quattro le stagioni. Come in ogni regione desertica, non sono frequenti le precipitazioni; solo nei mesi di gennaio e febbraio si verifica il fenomeno conosciuto come invierno boliviano, un fenomeno meteorologico per cui ai bordi del deserto, nella Cordigliera, appaiono nubi scure piene d’acqua. Però questo non accade ogni anno e, anzi, nella regione possono trascorrere anche diversi anni senza che piova. Il Norte Grande non è sempre stato caratterizzato dalla presenza di tali differenti tipi di geografia; anzi, diversi indizi inducono a pensare che circa mille anni fa l’attuale deserto fosse una parte del mare, o comunque ad esso molto vicino. Alcuni scavi minerari hanno riportato alla luce dei fossili marini, soprattutto di crostacei; vicino a Calama, durante l’attività mineraria, un geologo identificò parti di uno scheletro di un ictiosauro e di altre specie marine oggi estinte; inoltre in diverse parti del deserto si possono osservare larghe pianure circondate da colli di delicata pendenza, configurazione tipica dei luoghi di mare; infine la presenza di numerosi sali, come cloruri, borati e carbonati, inducono a pensare che tale supposizioni siano verosimili. In alcuni casi i depositi di cloruro di sodio raggiungono grandi estensioni e assumono l’appellativo di salar; in tutto il Cile il principale di questi è il Salar de Atacama. Le caratteristiche climatiche e geografiche hanno influenzato molto anche l’agricoltura. Non tutte le colture, infatti, a causa della scarsità dell’acqua e della salsedine presente in essa sono praticabili: le più comuni sono il mais, fagioli, aglio, patate, frutta e vino, ed in ogni caso tutte sono possibili grazie all’incontro tra il fiume El Loa coi suoi affluenti, che generano delle vere e proprie oasi. Per le ridotte dimensioni dei terreni coltivabili e per i metodi obsoleti usati fino a poco tempo fa nel lavoro agricolo (metodi non troppo differenti da quelli adoperati dagli antenati indios), l’attività agricola non ha mai avuto grande importanza. Anche la flora e la fauna sono largamente influenzate dalle caratteristiche geografiche e climatiche; vicino ai colli desertici crescono alcune piante la cui conservazione è garantita grazie all’umidità delle nuvole, mentre gli animali che vivono nel deserto sono davvero pochi a causa delle condizioni di sopravvivenza eccessivamente dure: cosa bevono? di cosa si alimentano? Tuttavia, sebbene le terre di questa regione non siano adatte all’agricoltura e non offrano tanto in fatto di specie animali e vegetali, possiedono un’enorme ricchezza di minerali. Non a caso Antofagasta in fatto di miniere è la provincia più importante del Cile, che a sua volta è uno dei paesi più importanti al mondo per giacimenti minerari. La attuale forma e dimensione del Cile non è altro che il risultato di diversi avvenimenti storici, i più importanti dei quali avvennero quando il Paese aveva già raggiunto la sua maturità repubblicana, cioè circa nella seconda metà del XIX secolo. Al fine di comprendere meglio l’importanza del Norte Grande per l’intero Paese, è necessario menzionare alcuni fatti importanti, o comunque degni di nota, che videro l’area protagonista. Il conquistatore e fondatore del Cile, Pedro de Valdivia, fondò anche il piccolo paese di San Pedro de Atacama (a circa 100 km dalla città di Calama) dove rimase alcuni giorni con i suoi uomini per riposarsi e far riposare gli animali. Gli spagnoli, appena arrivati in Cile, a San Pedro fondarono la prima chiesa, tuttora ben conservata e meta di numerosi visitatori che la ammirano con venerazione e rispetto. Dopo vari secoli di dominazione spagnola e di relativa tranquillità, il deserto assistette nuovamente al dispiego di forze militari: nel 1879, infatti, l’esercito cileno occupò la città di Antofagasta, allora territorio boliviano, dando inizio a quella che oggi si conosce come Guerra del Pacifico. La Guerra del Pacifico (1879-1884) scoppiò per motivi puramente economici; in quel periodo infatti l’intera provincia di Antofagasta aveva acquisito un rilevante valore economico dovuto alla presenza di numerosi giacimenti di salnitro1, materiale allora facilmente estraibile e vendibile a buon prezzo sul mercato internazionale. Ricca di giacimenti, l’area rappresentava una sicura fonte di guadagno e dunque entrambi i paesi avevano interesse a riscattare quei territori. Nonostante la disputa per la regione di Antofagasta fosse tra Cile e Bolivia, al conflitto prese parte anche il Perù, che nel 1873 aveva sottoscritto un trattato segreto di alleanza difensiva con la Bolivia. Gli storici peruviani sostengono che tale trattato non imponesse al Perù di partecipare al confronto bellico, data la presenza di una clausola che lasciava la possibilità di valutare se l’attacco della Bolivia fosse legittimo o se il fatto necessitasse di un arbitrato (opzione peraltro definita “preferibile” dalla stessa clausola); secondo la medesima interpretazione del trattato secondo gli storici peruviani il governo del loro Paese avrebbe deciso di schierarsi affianco alle truppe boliviane solo dopo l’occupazione della Provincia effettuata dalle truppe cilene, sentendosi legato alla Bolivia dal trattato di reciproca alleanza e soprattutto per la scarsa propensione del Cile ad una via diplomatica. La storiografia cilena spiega lo stesso trattato diversamente: sostiene infatti che l’alleanza Perù–Bolivia, ufficialmente difensiva, fosse in realtà offensiva ed interpreta i tentativi di mediazione del Perù dopo la presa di Antofagasta come un modo per guadagnare tempo in preparazione al conflitto. Senza soffermarsi troppo sui dibattiti storiografici e sulle diverse possibili letture del medesimo trattato, risulta interessante analizzare i fatti: il 1 marzo 1879 la Bolivia dichiarò guerra al Cile, sebbene poi il conflitto si sia evoluto in un confronto tra Cile e Perù a causa di una antica inimicizia risalente al periodo coloniale accentuatasi nel periodo dell’indipendenza. La guerra Cile–Perù si concluse in favore del Cile il 20 ottobre 1883 con la firma del Trattato di Ancón, mentre la pace tra Cile e Bolivia fu stipulata nel 1904 con un trattato in cui la Bolivia riconosceva definitivamente la sovranità cilena nella regione di Antofagasta. Nonostante la Guerra del Pacifico si sia conclusa da oltre un secolo, rimangono forti le tensioni tra i paesi: sia perché vincendo la guerra il Cile si impossessò di un vasto territorio economicamente importante per la ricchezza di depositi di salnitro e rame, sia perché la Bolivia, insieme alla guerra e a tali territori, perse anche definitivamente Il salnitro è il nitrato di potassio, ovvero il sale di potassio dell’acido nitrico. A temperatura ambiente si presenta come un solido cristallino incolore, dal sapore leggermente amarognolo, solubile in acqua. 1 l’unico sbocco sull’oceano Pacifico che possedeva. E se in quel periodo perdere la guerra significava solo perdere i giacimenti di salnitro, col passare del tempo i boliviani, ma soprattutto i cileni, poterono apprezzare le ricchezze naturali che l’area offre e che hanno contribuito, in maniera più che significativa, allo sviluppo economico e non solo di tutto il Cile. Gli anni immediatamente successivi alla Guerra del Pacifico, però, non furono redditizi come si aveva auspicato: chiusi alcuni luoghi di estrazione dei materiali, gli abitanti degli annessi villaggi operai furono costretti a trasferirsi e molti luoghi rimasero abbandonati, destinati a morire silenziosamente in solitudine. Solo alcuni continuarono a sopravvivere, perlopiù come ombre del passato. Le città più importanti della zona, Antofagasta e Tocopilla, soffrirono più di una crisi economica data dalla mancanza, o meglio dalla non costante presenza di materiale da estrarre ed in particolare del salnitro. Calama invece ha sempre mantenuto un ritmo regolare di sviluppo e progresso grazie a cui, nel 1912, si iniziò la costruzione dello stabilimento di Chuquicamata, in origine nato per ospitare circa tremila lavoratori della omonima miniera e che successivamente si è trasformato in una vera e propria città. Superati questi periodi di crisi ed avviate le attività estrattive in diverse parti del Norte Grande, il Cile, possessore di tali stabilimenti, poté finalmente godere di tali ricchezze e intraprendere così un lungo periodo di sviluppo economico e non solo. Per il ruolo che ha ricoperto e tuttora ricopre l’attività mineraria in Cile – dapprima con le estrazioni del salnitro e successivamente coi grandi complessi estrattivi di rame – è stata considerata l’industria motrice e fondamentale per l’economia e tutto lo sviluppo del Paese. I primi centri minerari di oro, argento, salnitro e rame nacquero complementari al sistema strutturale già presente nel territorio e generarono da subito la formazione e lo sviluppo nelle aree limitrofe dei sistemi urbani. Questa situazione durò per alcuni anni dopo la fine del conflitto, fino a quando arrivarono i primi echi del mondo industrializzato e il Paese stava riacquisendo una sorta di stabilità postbellica. Le industrie minerarie e lo Stato si impegnarono nella realizzazione di importanti lavori in tema di infrastrutture, necessarie per il trasporto delle grandi quantità di produzione che, in accordo con la sempre maggiore domanda di produzione, avrebbero reso possibile (ed effettivamente renderanno possibile) lo sviluppo economico del Cile. I principali investimenti furono fatti nella costruzione di strade e ferrovie, migliorando notevolmente l’accesso alle zone interne; la ferrovia ricoprì un ruolo importante, non solo perché per la sua realizzazione si dovettero realizzare o potenziare anche le centrali idroelettriche e termoelettriche, le reti di servizi, il sistema dell’apporto di acqua per il consumo dell’uomo ecc., ma soprattutto costituì il principale supporto di tutto li sistema infrastrutturale. Fin dai primi anni dalla fondazione dei centri estrattivi, la relazione tra attività estrattive e le ferrovie ha sempre costituito una componente fondamentale nello sviluppo del Paese. Con il potenziamento della rete infrastrutturale il Cile migliorò e articolò tutto il suo territorio, sia in direzione longitudinale che trasversale; tale processo può senza dubbio considerarsi la prima importante trasformazione territoriale concreta nella quale l’industria mineraria partecipò attivamente. 1.2. Sin trenes no habria habido mineria industrial2 Prima dell’epoca del trasporto viario meccanizzato, particolarmente nelle aree dove non era fattibile il trasporto fluviale o di navigazione costiera, la maggior efficienza permessa dal trasporto ferroviario fece dello stesso un prerequisito per lo sviluppo economico. Le prime ferrovie nell’America Latina si costruirono nei paesi ancora colonie di potenze europee, col proposito di trasportare ai porti i prodotti elementari destinati alla madre patria. La maggior parte di queste ebbero come obiettivo principale collegare le zone di produzione interne con i porti, marittimi o fluviali (come accadde ad esempio nel caso della prima ferrovia cilena). Nell’ambito sudamericano in almeno tre paesi – Cile, Paraguay e Perù – alcuni autori hanno reclamato per le loro patrie l’onore di aver inaugurato la prima ferrovia del Sudamerica, come se questo primato fosse oggetto di orgoglio nazionale. In realtà nessuno dei tre paesi ha ragione: la prima ferrovia dell’America Latina fu inaugurata il 19 novembre 1837 tra La Habana e Bejucal, il primo breve tratto (solo 27 km) della ferrovia da La Habana a Güines. La linea fu costruita inizialmente dalla Real Junta de Fomento per servire le necessità dei produttori di zucchero, caffè e altri raccolti, anche se nei primi anni di attività, fino al 1840, riscosse più successo grazie al trasporto dei passeggeri che a quello delle merci. Questa prima ferrovia costituisce un caso eccezionale tra le ferrovie costruite dal settore pubblico e dedicate principalmente al trasporto dei passeggeri. Con questo intervento Cuba diventò il settimo paese del mondo ad avere una ferrovia di uso generale, dopo il Regno Unito (1825), Stati Uniti (1830), Francia (1832), Germania (1835), Belgio (1835) e 2 Ian Thomson, Dietrich Angerstein, Historia del Ferrocarril en Chile, p. 47 Canada (1836). La potenza coloniale che allora governava Cuba, la Spagna, rimase senza ferrovia fino al 1848. In Cile la relazione tra le attività minerarie e la ferrovia nasce coi cicli minerari della metà del XIX secolo; a partire da questo periodo e fino al XX secolo le vie ferrate si moltiplicarono grazie alla necessità di trasportare i materiali. Le ferrovie cilene nascono dunque nelle secche e inospitali zone desertiche del Nord Grande, che con le sue ricchezze (gli inesauribili giacimenti di salnitro, rame, oro e argento) e insieme alla necessità di trasportare voluminosi e pesanti carichi per lunghe distanze ha creato le condizioni necessarie per giustificare il quasi incontenibile numero di ferrovie industriali costruite a partire dal 1851. L’industria che favorì lo sviluppo del trasporto su binari fu quella del salnitro, che visse il suo periodo di maggior splendore dall’ultimo ventennio dell’Ottocento agli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale. Gli investimenti che si fecero in questo periodo nel campo delle infrastrutture si rivelarono importantissimi, se non addirittura indispensabili, per lo sviluppo del Paese. Invece l’industria del rame, che per importanza si sostituì a quella del salnitro, durante il XIX secolo non fece investimenti eccessivi, limitandosi alla manutenzione delle linee statali (che trovarono nel trasporto dei minerali il solo modo per sopravvivere) e promuovendo solo in alcuni casi lo sviluppo di nuove reti. È importante notare che l’industria del salnitro, così come successivamente accadrà per quella del rame, non promosse solo lo sviluppo della maglia infrastrutturale ferroviaria ma anche quello di alcuni centri abitati, che nacquero contemporaneamente ed forse conseguentemente a questi interventi. Le attività minerarie e industriali dunque non contribuirono solo allo sviluppo viario del Paese ma anche a quello del mondo urbano: le città di Iquique, Tocopilla, Calama e Antofagasta, solo per nominarne alcune, sono i maggior centri urbani strettamente relazionati alla produzione di materie prime e molte di queste città costituiscono, ancora oggi, un importante capezzale gerarchico di livello regionale per gli importanti centri minerari. Nel 1851 fu inaugurato il Ferro-Carril de Copiapò, la prima di tante ferrovie che nasceranno come supporto all’industria del salnitro, ovvero alla sua estrazione, lavorazione e commercio. In quegli anni il salnitro generava più della metà del profitto della nazione e tre quarti delle esportazioni cilene; rappresentava cioè una importante risorsa economica da esportare. Probabilmente se non fossero esistite le ferrovie per trasportarlo ai porti più vicini il salnitro non avrebbe svolto un ruolo tanto rilevante nell’economia cilena. Negli anni di splendore del mercato del salnitro, il prodotto era destinato prevalentemente alla fabbricazione di esplosivi; già a partire dal 1860, però, fu utilizzato anche come fertilizzante, facendo crescere esponenzialmente la sua domanda e rendendolo indipendente dai cambiamenti di ordinazioni causati dallo scoppio imprevisto della guerra, che fece salire in modo sorprendente le vendite all’industria di esplosivo. Nei primi anni del commercio, una restrizione molto importante riguardante la vendita del salnitro fu l’alto costo del suo trasporto, dovuto in gran parte alla separazione fisica – tanto sul piano orizzontate quanto su quello verticale – tra la pampa salnitrosa e i porti di esportazione. Prima della nascita della ferrovia, il mezzo più utilizzato per il trasporto del materiale era rappresentato dalle carovane di muli, incaricate anche di trasportare alimenti e combustibili agli impianti; l’espansione di massa dell’industria salnitrosa non sarebbe mai stata possibile senza mezzi più efficienti di trasporto come ad esempio la ferrovia. A causa della mancanza di corsi d’acqua nel settore desertico del Norte Grande, la costruzione di ferrovie costituì l’unico modo di avviare l’industria salnitrosa, considerando che il periodo a cui ci si riferisce risale a molte decadi prima del boom del trasporto stradale. Con la realizzazione di numerose “officine” (cioè gli impianti di lavorazione del salnitro), ognuna delle quali aveva bisogno del suo sistema di trasporto interno – il quale normalmente, a partire dal 1890, fu sempre ferroviario – si sviluppò un’importante rete infrastrutturale ad uso pubblico. Ognuna di queste ferrovie partiva da un porto verso l’interno e, oltre alle linee principali, col tempo si realizzarono numerose ramificazioni verso ogni impianto. In particolare, le principali ferrovie nate in funzione dell’industria salnitrosa si possono raggruppare in tre aree geografiche, corrispondenti alle tre zone salnitrose, indicate come la zona del nord, la zona centrale e la zona del sud. Zona del nord: − Junin (77.939 tonnellate di salnitro trasportate – 1918) − Agua Santa (294.083 tonnellate di salnitro trasportate – 1918) − Nitrate Railways (850.000 tonnellate di salnitro trasportate – 1918); Zona centrale: − Tocopilla al Toco (193.176 tonnellate di salnitro trasportate – 1918) − Antofagasta a Bolivia (1.079.473 tonnellate di salnitro trasportate – 1918) − Aguas Blancas (209.290 tonnellate di salnitro trasportate – 1918) Zona del sud: − Taltal (252.616 tonnellate di salnitro trasportate – 1918)3 A partire dalla fine della Prima Guerra Mondiale, l’industria del salnitro entrò in una fase di crisi per diverse cause politiche, economiche e tecnologiche. Tale crisi, che raggiunse l’apice alla fine degli anni Venti, significò la paralisi – in alcuni casi quasi istantanea – delle ferrovie e degli impianti in funzione delle quali erano sorte. Solo due non furono abbandonate: una trovò la salvezza per conto di altri prodotti da trasporto e l’altra, anteriormente chiamata F.C. de Tocopilla al Toco, sopravvisse perché gli impianti salnitrosi che serviva usavano una tecnologia più moderna ed efficiente che le permise di resistere alla crisi. In realtà quella dell’industria del salnitro è solo la prima tappa di uno sviluppo sempre crescente. Al termine del ciclo del sale di potassio, il ferro, il carbone ma soprattutto il rame hanno dato l’opportunità ai tecnici ferroviari cileni di dimostrare le loro abilità nella costruzione di nuove strade. Infatti solo in pochissimi casi, per ragioni geografiche, è stato possibile abilitare le ferrovie salnitrose per il trasporto di altri minerali e dunque fu quasi ovunque necessario ricorrere nuovamente all’ingegno e alla destrezza umana per vincere gli ostacoli della natura. L’obiettivo che si preposero gli ingegneri fu raggiunto in modo assolutamente soddisfacente, tanto che il trasporto di massa dei minerali di ferro, oltre ad incentivare la costruzione di nuove ferrovie, divenne l’attività più importante della rete nord delle Ferrovie dello Stato. Alla fine del decennio 1850, più di due terzi di tonnellate totali trasportate in discesa dalla Compañia Ferro-Carril de Copiapó consisteva in minerali di rame (la cui importanza sestuplicava quella dei minerali di argento). Venti anni più tardi, l’importanza relativa dei prodotti del rame era scesa alla metà, apparentemente perché una maggior parte della produzione si concentrava in altri punti della zona mineraria e, soprattutto, per una diversificazione della domanda a causa di un maggiore interesse per il traffico del borato di calce. Il mercato del rame non ha rappresentato una importante occasione di sviluppo per la partecipazione e promozione allo sviluppo delle ferrovie e di tutto il sistema infrastrutturale, ma ha ricoperto – e continua a ricoprire, oggi più che mai – la principale fonte di guadagno per l’economia cilena, assumendo quindi un ruolo di guida in tutto il processo di sviluppo del Paese. 3 Fonte: statistiche del Ministerio de Ferrocarriles, 1918-1919, Santiago, 1924. 2. La miniera del rame in Cile 2.1. L’importanza storica delle attività estrattive In Cile il rame si estrae da sempre (da circa duemilacinquecento anni) e ha sempre avuto un ruolo significativo nell’economia nazionale. Nell’epoca coloniale il valore totale della produzione fu superato dall’oro, ma già nel suo primo secolo di storia come paese indipendente l’estrazione del metallo rosso superava per importanza economica quella dell’oro e dell’argento. Alla fine dell’Ottocento il Cile era il produttore di rame più importante del mondo. Nonostante ciò, il settore del rame cileno attraversò un periodo di crisi a causa dei primi segnali di prosciugamento dei giacimenti più ricchi delle prime miniere, oltre che per l’instabilità dei prezzi dovuta all’espansione della produzione statunitense. Se nel 1879 il Cile produsse più del 30% della produzione mondiale, alla fine del secolo quella percentuale già era scesa intorno al 5%. Nella lega dei produttori più importanti, il Cile era stato superato non soltanto dagli Stati Uniti, la cui produzione crebbe più del 1000% in ventuno anni, ma anche dalla penisola Iberica e dal Giappone. La produzione cilena di rame toccò il fondo poco prima del cambio del secolo, salendo successivamente in modo costante, anche se con alti e bassi nell’epoca delle guerre e del regresso mondiale. Il commercio del salnitro come prima fonte di reddito per il Paese (1880 circa) fu solo un passaggio transitorio; nel primo ventennio del Novecento il rame godeva nuovamente del suo primato di importanza nell’economia e nello sviluppo cileno. Oggi il Cile mantiene il suo primato di uno dei paesi più importanti nella produzione di rame e difatti è dall’estrazione di questo minerale che riceve il maggior apporto economico. Non è nemmeno un caso che il Cile sia conosciuto a livello mondiale come paese minerario: questo appellativo si deve sia all’importanza che le miniere hanno avuto – e continuano ad avere – nel processo di sviluppo economico, sia al fatto che le miniere costituiscono un’attività ancestrale che col tempo è riuscita a creare una sorta di propria cultura su cui si fondano adesso numerosi centri abitati dislocati lungo tutto il territorio nazionale, anche se le concentrazioni principali sono nella parte nord e più precisamente nel settore conosciuto come Norte Grande. L’importanza raggiunta dalle attività minerarie, soprattutto dall’industria del rame, e il successo che le stesse hanno avuto nell’economia fondamentalmente a diversi fattori qualitativi e quantitativi: cilena è dovuto − La qualità delle risorse naturali, le dimensioni dei giacimenti e la loro ubicazione strategica; − Le basi legali, ovvero le norme e le burocrazie attinenti alle attività minerarie che garantiscono certezza, stabilità e sicurezza delle entrate economiche che la stessa industria mineraria del rame apporta al Paese; − Le capacità di gestione mineraria, in particolare la competenza nella preparazione (e gestione) delle risorse umane capaci nelle attività; − Gli impianti energetici che rendono possibili le lavorazioni del materiale naturale e le vie di comunicazione – marittime e terrestri – che garantiscono l’esportazione del prodotto. Ovviamente, così come accade per ogni prodotto commerciale – sia naturale sia artificiale – la produzione di rame è sempre dipesa, e tuttora continua a dipendere, dalle richieste di mercato. Circa duecento anni fa, la maggiore domanda di rame proveniva da diverse applicazioni essenzialmente di natura decorativa: veniva utilizzato principalmente per la fabbricazione di monete e per la costruzione delle tubature. A partire dal XIX secolo si ampliò il suo campo di applicazione che incluse anche il settore industriale: dapprima usi relazionati alle macchine a vapore e, successivamente, utilizzazioni nel campo elettrico e nelle telecomunicazioni. In quel periodo la richiesta di rame aumentò notevolmente. Il Cile rendendosi conto di un aumento tanto significativo della domanda (negli anni Settanta si arriva ad un aumento annuale delle domande del 5%) e avendo le risorse naturali adeguate, capì l’importanza di aumentare la propria capacità produttiva, sicuro che gli investimenti sarebbero stati altamente beneficiati. L’unico aspetto inquietante che avrebbe potuto preoccupare l’economia cilena era la comparsa nei mercati internazionali di alcuni materiali che avrebbero potuto sostituire il metallo, materiali ad esempio come l’alluminio o l’acciaio inossidabile. Fortunatamente per i cileni il rame ha sempre mantenuto la sua posizione tra i minerali importanti ed anzi col tempo il suo campo di applicazione è addirittura aumentato, soprattutto grazie alla tecnologia. La tecnologia è un elemento importante nell’industria mineraria, cosi come in tutte le industrie moderne, giacché è in questo campo che le attività devono svilupparsi: per garantirsi una buona posizione nel mercato internazionale è necessario abbassare i costi di produzione, trovare metodi di produzione più rapidi ed efficienti attraverso l’utilizzo di nuovi macchinari. Il tutto, ovviamente, senza abbassare il livello di qualità dei prodotti ma anzi incrementandolo per arrivare alla produzione di prodotti sempre più perfezionati. La situazione socioeconomica del Cile è dunque caratterizzata da un processo di crescita in continuo sviluppo che si è attenuato negli anni solo a causa di alcune crisi internazionali. Il segreto di tanto successo, ovvero il principale motore di sviluppo nazionale, è stata la combinazione di commercio esterno, significativi investimenti stranieri in diverse attività industriali e un basso tasso di inflazione. La presenza di tutti e tre i fattori si è rivelata indispensabile perché il Paese raggiungesse i livelli di sviluppo cui è arrivato: l’evoluzione economica, sociale e politica avvenuta durante il Novecento in Cile ha trasformato il panorama in cui lavoravano le varie compagnie produttrici di rame. Le basi dello sviluppo delle miniere di rame in Cile furono poste nelle prime due decadi del XX secolo – quando tramontò il commercio del salnitro – con l’introduzione degli investimenti e delle tecnologie nordamericane. Al loro arrivo gli impresari statunitensi portarono con sé una nuova strategia produttiva orientata a ottenere profitti in periodi di tempo lunghi: si fondava sul riconoscimento geologico dettagliato delle reali potenzialità dei giacimenti e adoperava mezzi tecnologici che trasformassero anche i minerali meno puri (dell’ordine di 2-3%) in metallo; economicamente utilizzava capitali che potessero investirsi in affari maggiori, senza ottenere utili immediati e reinvestendo una parte importante degli stessi utili in un processo che si espandeva metodicamente. Con tali azioni gli impresari stranieri determinarono che durante la prima metà del Novecento il Cile si trasformasse in un paese minerario di importanza internazionale, mantenendo e rafforzando la sua fama di importante produttore di rame a livello mondiale. Questa strategia, mai utilizzata fino ad allora, si materializzò in successive operazioni di costruzione ed estrazioni minerarie in dimensioni senza precedenti, con la conseguente utilizzazione di manodopera in quantità sempre più rilevante. Ciò significò quindi stabilire i meccanismi per attrarre, organizzare, capacitare e attivare il lavoro di centinaia di operai in territori situati al margine dello sviluppo tradizionale del Paese: impiantare villaggi operai funzionali e gerarchizzati in ambiti dove prima non si trovavano, articolare produttivamente il territorio in base agli elementi infrastrutturali destinati a trasportare e distribuire la produzione ai mercati internazionali. Questi criteri orientarono le forme di occupazione del territorio che imposero le compagnie minerarie nate durante la prima metà del secolo e che, con il passare degli anni, impiantarono gli insediamenti più emblematici associati alla produzione di rame in virtù della loro dimensione, popolazione, impatto territoriale e identità sociale. In questa prospettiva tanto la figura del Paese, quanto quella della sua organizzazione interna, risultano essere gesti artificiali determinati da una geografia singolare nelle quali l’estrazione di risorse naturali ha avuto un ruolo da protagonista: “le forme del territorio interessano come riflesso delle relazioni sociali (economiche e politiche), cioè come prodotto ma anche in sé stesse come patrimonio produttivo, come risorsa. Perché non si può intendere l’uso sociale dello spazio solo come risultato diretto di relazioni socio-economiche generali, ma soprattutto come risultato di una legge di produzione dello spazio e di costruzione della natura storica”4. Quasi sempre però le operazioni territoriali sono da considerarsi in funzione dei criteri produttivi specifici, complementari in qualche modo ai sistemi tradizionali di occupazione. Ogni risorsa del territorio ha determinato e determina un sistema di estrazione che sia in accordo con le caratteristiche della risorsa stessa, che a sua volta implica un modo particolare di occupare il territorio: così è sempre avvenuto con tutti i tipi di industria: da quelle del carbone e del salnitro a quelle del rame e della lana e più tardi a quella del petrolio. In Cile, come negli altri paesi, le differenti forme di estrazione dei materiali hanno avuto una condizione che si può definire “transitoria” e che ha avuto come conseguenza la costituzione di territori multipli e complessi che si dilatano e comprimono a causa del carattere finito e transitorio delle operazioni che li hanno fatti nascere. In particolare l’industria del rame si è sviluppata prevalentemente trasversalmente al Paese, cioè in direzione est-ovest, e per la sua logica produttiva ha portato a realizzare i centri abitati uniti ai giacimenti minerari; essendo la zona del Norte Grande quella più ricca di tali giacimenti, i centri abitati sono nati prevalentemente tra la depressione intermedia desertica e la Cordigliera delle Ande, tenendo come punto di riferimento per l’esportazione del minerale il porto sul Pacifico. Le imprese più importanti, per prestigio e impatto territoriale, sono Codelco (Sewell, Chuquicamata, Potrerillos, El Salvador), Minera Escondida (San Lorenzo), Minera Anaconda Chile (Los Pelambres) e Doña Inés de Collahausi (Pabellon del Inca), tutte sorte nel XX secolo. 2.2. Lo Stato e la miniera del rame: dai privati alla nazionalizzazione dei prodotti. 4 Manuel Solà-Morales, La identidad del territorio catalán. Rivista Quaderns, 1981. Il crescente interesse dello Stato cileno per assumere un ruolo sempre maggiore nel campo delle attività minerarie diede i primi segnali nel 1931, quando il primo governo del presidente Ibañez (1927-1931) elevò le imposte con l’obiettivo di ricevere una percentuale maggiore dei profitti della produzione e, cosi facendo, rimediare in parte alla crisi causata dalla caduta della Borsa dei Valori di New York. Un altro segnale arrivò nel primo periodo dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando i mercati internazionali raggiunsero una certa stabilità che permise, intorno al 1950, che le imprese minerarie portassero avanti importanti cambiamenti: tra tutti il tentativo di aumentare la produzione e ridurre i costi mediante l’introduzione di nuove tecnologie, il controllo degli operai e sindacati, la flessibilità lavorativa con l’introduzione del regime dei contrattisti. Nel 1955, durante il secondo governo del presidente Ibañez (1952-1958), lo Stato materializzò la legge Nuevo Trato, che cercava di stimolare gli investimenti e l’aumento della produzione per mezzo di un regime tributario speciale, che stabilì una imposta sui guadagni del 50% e una del 25% in accordo con gli investimenti e la produzione (il patto che avevano fatto in quell’epoca le imprese e il Governo era che il fisco avrebbe abbandonato le sue azioni arbitrarie e protettrici in materia di imposte e cambi, sempre e quando le compagnie avessero aumentato la loro produzione e le entrate. Questo supponeva un’espansione degli impianti installati e nuovi investimenti. Cosi il fisco, con l’aspettativa di maggiori entrate in dollari, abbassò la tassa degli imposti da cui risultavano vantaggi per entrambe le parti). Durante il governo del presidente Montalba (1964-1970) con l’applicazione della “cilenizzazione”, si avanzò in una serie di convegni e associazioni attraverso le quali lo Stato acquistò parte delle compagnie produttrici di rame del Paese, dando luogo a società miste composte da compagnie straniere e dallo Stato cileno. Nel 1971, durante il governo di Allende (1970-1973), il Congreso Pleno approvò la “nazionalizzazione” totale delle imprese miste che operavano in Cile. Ciò permise al governo militare (1973-1990) di formare la Corporazione Nazionale del Rame in Cile – Codelco (gennaio 1976), che incorporò le quattro compagnie produttrici di rame più importanti del Paese, costituendo le varie divisioni: El Tenente, Chuquicamata, El Slavador e Andina. La incorporazione della produzione di rame e dei suoi profitti al patrimonio della nazione si rivelò una decisione fondamentale per il Paese, poiché implicò il potenziamento del ruolo dello Stato nella produzione mineraria e, allo stesso tempo, un’assunzione sempre maggiore da parte dello Stato di doveri e responsabilità tra le quali anche l’amministrazione degli insediamenti. Se l’introduzione degli investimenti nordamericani incluse certi ambiti marginali nello sviluppo produttivo, urbano e territoriale del Paese, la nazionalizzazione delle compagnie rese possibile un inserimento più attivo di quei territori al patrimonio del Cile. La loro integrazione in Codelco permise che quelle che abbiamo chiamato divisioni (cioè El Tenente, Chuquicamata, El Salvador e Andina) conservassero la loro autonomia amministrativa e territoriale, in un progetto che vincolava le miniere alle regioni del Paese. 3.Chuquicamata 3.1. La storia: dalla famiglia Guggenheim a Codelco, da Chuquicamata a Calama. Nella già descritta provincia di Antofagasta, nel suo distretto El Loa, a circa tremila metri di altezza sopra il livello del mare si trova il giacimento minerario di Chuquicamata, il maggiore degli insediamenti minerari in Cile, che combina il prestigio e la portata delle sue installazioni con le dimensioni della miniera – il “buco” più grande del mondo. Per la sua importanza e per i profitti economici che ha prodotto continuamente, negli anni la miniera ha sempre attirato l’attenzione di numerosi piccoli e grandi imprenditori. Diego de Almagro e Pedro de Valdivia, rispettivamente lo scopritore e il conquistatore del Cile, non arrivarono mai a Chuquicamata, anche se erano a conoscenza della sua esistenza. Diego de Almagro conobbe anche oggetti realizzati con il rame di quella zona, soprattutto nelle sue spedizioni a Chiu-Chiu, allora conosciuta come Atacama Chica, un paese prossimo a Calama e a Chuquicamata. Nel 1536 rientrando dal suo viaggio iniziato il 3 luglio dell’anno precedente, decise di percorrere un cammino alternativo a quello che dal versante delle Ande arriva fino al passo di San Francisco all’altezza di Copiapó; provato dagli sforzi della lotta contro gli indios, dalla mancanza di alimenti e dai pesanti caratteri della natura e deluso per non aver trovato in Cile l’oro che stava cercando, decise di incamminarsi per la strada già usata dal capitano Ruy Diaz col suo equipaggio nel naufragio ad Arica. Non si può certo dire che gli indios e gli aborigeni di Chiu-Chiu furono ospitali con gli spagnoli, considerando la resistenza che opposero al loro arrivo; né gli invasori spagnoli furono gentili con gli abitanti autoctoni dato che, secondo tradizione, appena arrivati distrussero l’acquedotto che forniva l’acqua a tutta la popolazione (non si tratta solo di una leggenda; ancora oggi si possono osservare le rovine di un canale intagliato nella roccia viva che segue il bordo del fiume per circa tre chilometri). In quel tempo però gli spagnoli non dettero importanza alla presenza nelle vicinanze di un giacimento ricco di rame; andavano alla ricerca solo di un metallo prezioso e il rame ancora non era considerato tale. In realtà già da allora la miniera possedeva una ricchezza esagerata, ma né la posizione del giacimento, né la qualità del suo minerale, né i processi metallurgici conosciuti potevano permettere la nascita di Chuquicamata. Alla visita dello scopritore del Cile segue quella del conquistatore Pedro de Valdivia, le cui gesta passarono vicino all’attuale collocazione di Chuquicamata. Passò nelle vicinanze di Chiu-Chiu, dove fu quasi assassinato da un gruppo di cospiratori guidati da Pedro Sancho de Hoz, ed era già stato ad Atacama Grande (l’attuale San Pedro de Atacama), dove era rimasto circa due mesi. Gli abitanti di Chiu-Chiu mostrarono agli spagnoli i loro oggetti realizzati con alcuni minerali, a giudicare dagli esemplari di quell’epoca che si possono incontrare ancora oggi si trattava di oggetti realizzati col rame di Chuquicamata. Dopo la “visita” di Pedro de Valdivia, la storia di Chuquicamata è caratterizzata da una lunga parentesi buia: non si sa niente degli anni, o meglio dei secoli successivi e bisogna aspettare fino allo scoppio della Guerra del Pacifico per avere altre notizie. Con lo scoppio del conflitto i piccoli imprenditori minerari boliviani fecero decadere i titoli abbandonando i loro giacimenti che diventarono nuovamente oggetto di interesse. Nel 1898 si produsse una vera affluenza di imprenditori minerari nei colli di Chuquicamata e nei quattro anni successivi si costruirono non meno di trecento pertinenze minerarie. Si apre così un’epoca di intensa attività estrattiva, favorita dall’informazione della gente sulla ricchezza del giacimento di Chuquicamata. Arrivarono ricercatori d’oro e imprenditori, uomini di imprese disposti a partecipare all’estrazione del tesoro presente nei lontani e alti colli che preannunciano la barriera andina. Il laboratorio giudiziale e notarile si realizzò nella città di Antofagasta, come capitale del dipartimento omonimo, anche se nei primi anni dopo la Guerra del Pacifico e per un breve tempo le iscrizioni alla miniera si effettuarono a Caracoles, una località ricca di giacimenti di argento che fu tra le località che fecero scaturire lo stesso conflitto. Il tribunale di Antofagasta fu inondato per decenni da casi di denunce o di liti causate dalle pertinenze nel giacimento di rame. Essendo divisa in tante differenti pertinenze, alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento il volume di materiale estratto non era il risultato degli sforzi isolati di un proprietario, ma rappresentava piuttosto la somma degli investimenti e dei lavori di diversi proprietari che, formate le società, estraevano abitualmente il materiale dalle pertinenze. Furono diversi i tentativi (non riusciti) di effettuare prelievi ancora più intensi del minerale, soprattutto per beneficiare anche del minerale (più abbondante nella zona dei colli) con una minore percentuale di rame – inferiore al 2%; tali pietre erano infatti generalmente disprezzate dagli imprenditori, le cui attività estrattive erano concentrate solo sul materiale di migliore qualità (ovvero quello con una maggiore percentuale di rame). La scelta degli imprenditori in realtà era determinata anche dal fatto che allora erano ancora sconosciuti i procedimenti di raffineria del materiale che presentava naturalmente un più basso contenuto di rame, a cui dunque non si prestava molta attenzione. Il tema della raffineria del materiale con un basso contenuto di rame induce a fare una premessa sulla storia dei processi industriali che trasformano il minerale presente in basse percentuali in rame quasi puro. Per spiegare la storia di questi procedimenti bisogna far riferimento allo scozzese Norman Walker, allora proprietario di varie pertinenze a Chuquicamata, alcune delle quali erano conosciute come llamperas, cioè quelle che presentavano il materiale di miglior qualità. Allo scozzese va riconosciuto un merito: per primo immaginò quanta ricchezza si sarebbe potuta ricavare inventando un metodo di raffineria per il minerale presente nel materiale di minor contenuto di rame, abbondantissimo a Chuquicamata e non solo, anche perché snobbato e abbandonato dagli imprenditori minerari. Dopo alcuni mesi di ricerca del procedimento appropriato, Walker inventò un processo che permetteva di produrre rame puro o metallico al ragionevole prezzo di 33 £ la tonnellata, credendo così di essere diventato una potenza mondiale, considerate le enormi quantità di minerale con una bassa percentuale di rame presenti e abbandonate in tutto il mondo: aveva trovato il codice segreto per arrivare alla ricchezza, era riuscito a bloccare indirizzata verso di sé la ruota della fortuna. Come sempre accade in questi casi, però, arriva un momento in cui i sognatori – non solo quelli metallurgici – soffrono il duro contatto con la realtà e si rendono conto che, volenti o nolenti, i loro sogni non sono altro che questo: solo sogni. In questo caso il contatto con la realtà fu duro non solo per il presunto inventore del metodo; insieme a lui rimase delusa anche la rispettabile casa di commercio di nazionalità inglese Duncan Fox e Cia., presente in Cile già dalla metà del XIX secolo. Questa impresa, nonostante molti capitalisti inglesi avessero sdegnato i progetti dello scozzese, fece molta attenzione a questo nuovo metodo, fino al punto di costituire con l’inventore Walker una società chiamata Comapañía de Cobres de Antofagasta (Compagnia di rame di Antofagasta), destinata ad applicare il suo processo e ad estrarre in forma ancora più intensa il minerale di Chuquicamata, nonché a convertirsi in una delle grandi potenze industriali del pianeta. Nel 1899, dunque, iniziarono i lavori per la costruzione degli impianti industriali necessari per l’applicazione del procedimento e si realizzarono tutti i tipi di esperimenti fino a quando, due anni più tardi, ci si rese conto che l’investimento fu un vero fallimento: il processo inventato dallo scozzese non produceva il risultato sperato, e anzi, ancora peggio, non produceva alcun risultato. Fallito l’ambizioso progetto dunque l’impresa inglese continuò a lavorare nelle pertinenze che possedeva a Chuquicamata, che erano quelle che presentavano una buona percentuale di minerale. Desiderosa di recuperare il denaro investito, negli ultimi anni della sua attività l’impresa Duncan Fox dedicò quasi tutti i suoi sforzi alla ricerca di qualche parte di terreno ricca di minerale di alta qualità, arrivando a scavare nelle proprie pertinenze fino a 145 metri, da cui però non si ottenne il risultato auspicato. Nel 1906 l’impresa cessò la sua attività. Non ci sono notizie più precise e dettagliate sul personaggio Norman Walker; dai documenti antichi si è scoperto solamente che era proprietario di alcune pertinenze a Chuquicamata che successivamente vendette per la somma di 35.000 £. La sua sfortunata avventura è importante per il ruolo che ricopre nella storia della miniera, essendo il “precursore” di Chuquicamata, ovvero colui che, nonostante i risultati fallimentari, ebbe l’intuizione e capì per primo l’importanza di sfruttare anche il materiale con scarso contenuto di rame, fondamento dell’attuale ricchezza dell’attività mineraria. Ci furono altre imprese che dopo l’intuizione di Wlaker tentarono estrazioni minerarie su larga scala, arrivando però sempre al fallimento (ad esempio la Sociedad Exploradora de Chuquicamata); altre invece, probabilmente per le ambizioni meno alte e più realistiche, ottennero buoni risultati lavorando solo nelle pertinenze più ricche di minerale (come ad esempio la Compañía Poderosa che in questo modo riuscì ad ottenere guadagni soddisfacenti). Intorno al 1910 un inventore statunitense, tale Bradley, probabilmente ingegnere metallurgico, riuscì a perfezionare un procedimento di raffineria dei materiali con minori percentuali di minerale, che continuavano ad essere disprezzati e abbandonati dagli imprenditori; è così che nasce ciò che, abbastanza rapidamente, porterà all’esistenza dell’attuale sistema di estrazione del minerale. Purtroppo, per la mancanza di informazioni storiche, non si hanno molte notizie su quanto e come avvenuto; non si conosce né il nome completo dell’inventore del procedimento, né l’anno del suo successo. Si sa solo che tale Bradley si mise in contatto con un altro statunitense, un avvocato banchiere e uomo di impresa di Boston (Massachussets) Mr. Albert Burrage, che rimase vivamente impressionato dalla informazione; anche lui infatti ricercava lo stesso procedimento per ottenere dei diritti su alcuni giacimenti di rame di bassa qualità che non potevano essere sottoposti ai processi fino ad allora conosciuti. Si dice che il signor Burrage, nonostante la favolosa informazione, perse ogni interesse verso i suoi giacimenti. Nel settembre 1910 il nordamericano visitò Londra ed in questa occasione, sebbene geograficamente lontano dal Cile, si riavvicinò al Paese prendendo contatti con l’impresa Duncan Fox, socia principale della Compañía de Cobres de Antofagasta, proprietaria di numerose pertinenze minerarie a Chuquicamata. A Londra dunque, dopo aver acquisito alcune informazioni, il signor Burrage riacquistò interesse verso l’industria e il mercato minerario, entrando nella storia di Chuquicamata. Infatti questo nordamericano, della cui vita si sa quasi niente, fu uno dei motori che spinsero il minerale verso un processo di estrazione e lavorazione più intenso e produttivo e quindi anche moderno. Convinto di avere un processo per lavorare i minerali di rame meno pregiati, prendendo i contatti con la impresa Duncan Fox trovò un luogo dove poter applicare il metodo stesso. Considerate le circostanze favorevoli, per Burrage era importante acquisire i diritti sulle proprietà della Compañía de Cobres de Antofagasta: era consapevole che l’impresa inglese non sfruttava più le sue pertinenze a Chuquicamata e che aveva come unica ambizione nell’affare recuperare il capitale mal investito nella società con Wlaker. Iniziarono subito le trattative che si protrassero per circa tre mesi. Il contratto finale non è arrivato ai nostri tempi, quindi non conosce l’accordo a cui arrivarono le parti; non si sa nemmeno se la Compagnia del Rame di Antofagasta abbia preso parte al contratto; le circostanze fanno pensare di si, dato che il signor Burrage avrebbe proceduto solo nel caso in cui quelle pertinenze fossero state registrate a suo nome, quindi solo nel caso fossero diventate di sua proprietà. L’imprenditore nordamericano non perse tempo a portare avanti i suoi progetti e nel 1911 inviò in Cile i suoi rappresentanti, che sotto la direzione dell’ingegnere Fritz Mella avevano come obiettivo conoscere il giacimento e, se necessario, acquistare altre pertinenze nonché richiedere l’allaccio dell’acqua, dell’energia elettrica e le concessioni fiscali necessarie per i lavori. Esiste solo uno scritto che segna l’inizio dell’attività di Burrage e dei progetti che egli si proponeva di realizzare. Si tratta di un contratto di affitto delle pertinenze della Sociedad Exploradora de Chuquicamata dove Burrage fu autorizzato a fare ricerche e installare gli impianti metallurgici destinati ai lavori. Il contratto fu formulato in questi termini: Burrage avrebbe avuto nove mesi di tempo per studiare e sperimentare un processo per il trattamento del minerale e al termine di questo tempo avrebbe dovuto notificare alla società affittuaria la sua soluzione di installare l’impianto, rilasciando in quel momento mille sterline, somma che invece avrebbe perso nel caso in cui non avesse compiuto quanto promesso. Inoltre Burrage si sarebbe impegnato al perfezionamento del processo metallurgico che già era conosciuto in Cile per lavorare altri tipi di minerale. All’arrivo in Cile l’ingegner Mella e i suoi accompagnatori trovarono una sorpresa: prima di loro altri americani erano stati a Chuquicamata per ispezionare il minerale e il giacimento, incluse le pertinenze della Duncan Fox; l’impresa però affermò – per rassicurare il signor Burrage – che le ispezioni degli americani erano state fatte senza autorizzazione e che era già stata fatta richiesta che queste terminassero e che gli americani fossero mandati via. Gli inopportuni visitatori statunitensi erano il signor E. Berry e altri ingegneri, che accompagnavano ed aiutavano il signor Pope Yeatman, ingegnere di fiducia della famosa impresa Fratelli Guggenheim. Con l’entrata in scena dell’impresa dei fratelli Guggenheim iniziò una intensa competizione per acquisire i diritti sul minerale; entrambe le società si impegnarono per comprare tutte le pertinenze o per lo meno per raggiungere il maggior numero di possedimenti. Analizzando tutta la situazione si nota che Burrage aveva dalla sua parte il notevole vantaggio di possedere diritti acquisiti stipulando il contratto con Duncan Fox; i suoi rivali però, arrivando prima sul terreno, avevano l’opportunità di agire anticipatamente e con efficacia nonché – aspetto tutt’altro che irrilevante – avevano la disponibilità finanziaria, mezzi economici di cui invece non godeva Burrage (che, anzi, aveva bisogno di un grande investimento finanziario). Considerata tutta la realtà, Burrage smise di competere contro i suoi rivali e iniziò a trattare con loro per la cessione dei suoi diritti5; è possibile, anzi è molto probabile, che questa decisione fu determinata dalla risposta negativa che l’ingegnere ricevette quando richiese alcuni finanziamenti. In questo modo naufragarono i progetti, le illusioni e le speranze del signor Burrage. Fu la natura a porre fine alla competizione applicando la propria legge secondo cui il pezzo (o gli animali) più piccolo viene divorato dal pezzo (o dagli altri animali) più grandi. La decisione di Burrage di cedere i propri diritti significò ricevere, allora e negli anni successivi, importanti somme di denaro sufficienti a garantirgli una vita tranquilla e priva di 5 Dai documenti e dagli altri antecedenti considerati, si deduce che il contratto tra Burrage e i fratelli Guggenheim del 1912 consistette nella cessione delle opzioni di Burrage sulle pertinenze della Duncan Fox di cui aveva ottenuto i diritti, la vendita delle stesse pertinenze acquistate dal signor Mella e il superamento del processo industriale che, come già visto, era stato acquistato dallo stesso Burrage. preoccupazioni economiche e, ancora meglio, tanto generose da poter competere economicamente con i milionari del suo Paese. Nonostante i compensi finanziari, rinunciare alle sue ambizioni non deve essere stato facile: non sarebbe mai potuto diventare il gigante dell’industria che aveva sognato e la sua figura e il suo nome spariscono completamente dalla storia di Chuquicamata. Acquisiti i diritti del signor Burrage, l’impresa dei fratelli Guggenheim poté avanzare coi lavori e con le prove in laboratorio sul progetto di raffinazione. Il successo di Chuquicamata quindi ancora non era assicurato, l’intero investimento si sarebbe ancora potuto rivelare un fallimento. Gli esperimenti nella miniera iniziarono con delle sonde il 21 aprile 1912, sotto la direzione delle figure di due ingegneri: E. Berry e W.A. Perkins, a loro volta affiancati dai fratelli Juan e Alberto Almonte, entrambi originari di Chiu-Chiu. Le condizioni di lavoro, soprattutto all’inizio, furono durissime: le prime difficoltà riguardarono soprattutto l’utilizzo delle trivelle e il lavoro necessario per mantenerle attive; un’altra dura condizione da affrontare fu rappresentata dalla scarsità dell’acqua e dalle difficoltà del suo trasporto. Il trasporto avveniva in vagoni-cisterna fino ad una stazione della ferrovia Ferrocarril de Antofagasta a Bolivia e, da li, proseguiva fino alla strada della miniera in barili disposti su carri a due ruote, che poi venivano abbandonati in favore di contenitori di latta trasportati dai muli che li conducevano fino alle trivelle. Il solfato di rame che esisteva vicino alla superficie del giacimento era un grave problema per le trapanature delle trivelle, perché l’acqua che si svuotava dissolveva il solfato, trasformando il rame in forma di cemento e ferro sopra le ferramenta di ferro e acciaio. In alcuni casi, si cercò di sondare il terreno in siti ricchi di minerale, ma dopo uno o due giorni che era stata utilizzata una trivella l’acciaio risultava completamente corroso. I signori Berry e Perkins, considerate le numerose difficoltà che si presentavano, cercarono altre possibili soluizoni. Le prime perforazioni furono, senza dubbio, scoraggianti; si dice siano state effettuate casualmente in zone di scarsa mineralizzazione. Tuttavia i lavori proseguirono per otto mesi senza troppa sfiducia e i risultati finali dimostrarono che il giacimento raggiungeva un’estensione e una profondità inaspettata e, cosa ancor più importante, si scoprì che il materiale aveva mediamente una percentuale di minerale superiore a quella precedentemente calcolata. I moderni metodi di investigazione, se applicati allora, avrebbero permesso di scoprire la ricchezza nascosta di Chuquicamata. Tutto ciò accadde alla fine del 1912, quando alla miniera arrivò l’ingegnere di fiducia della impresa dei fratelli Guggenheim, il signor Pope Yeatman, che al suo ritorno negli Stati Uniti informò ampiamente i suoi principali sui felici risultati ottenuti: l’investigazione effettuata con più di cento trivelle dimostrò che nella zona chiamata “colli di Chuquicamata”, dentro la roccia di granito, ad una altitudine che varia dai 2.774 ai 3.017 m., esisteva un vivaio di minerale di rame il cui affioramento arrivava all’incirca a 2.750 m. di lunghezza per 200 m. di larghezza, con una profondità non minore a 250 m., che fu il punto massimo a cui arrivò l’investigazione. Il minerale nel vivaio era diviso in tre grandi zone, disposte una sopra l’altra. In fondo si trovavano i solfuri primari, in superficie si trovavano i minerali ossidati (brocantita e altri solfati di rame) e tra i due strati si trovava un terzo strato di minerale misto, dove c’erano tracce di ossidi e di solfuri; ed è qui, in questo strato intermedio, che si nascondeva la maggiore ricchezza di tutta la riserva. Il fatto di trovare il rame sotto forma di solfati solubili in acqua fu oggetto di meraviglia per gli investigatori, che si spiegarono tale fenomeno solo con l’estrema secchezza del clima. In un sito provvisto di una certa umidità sarebbe stato impossibile che tali giacimenti riuscissero a formarsi e, se anche fosse potuto accadere, i minerali si sarebbero disciolti da molto tempo. Fu dunque il deserto di Atacama a proteggere con la sua estrema secchezza la ricchezza naturale di Chuquicamata. Durante questa investigazione si trovò, o meglio si scoprì una riserva tanto ampia di minerale – si parla di milioni di tonnellate di rame – che quelle quantità sarebbero state sufficienti per l’intera industria mondiale. La grande ricchezza esistente fu dunque finalmente scoperta, ma ancora restava irrisolto il problema di come raffinare le pietre, cioè: presa in considerazione una pietra, ovvero materia minerale dura e solida, quale processo industriale la avrebbe potuta trasformare in metallo puro? Dove si trovava la parte più abbondante di rame? Solo dopo alcuni mesi si riuscì a perfezionare il processo appropriato e così l’estrazione del minerale fu assicurata; la ricchezza di Chuquicamata era evidente, quello che ancora rimaneva nascosto e che bisognava trovare era come sfruttarla. Il processo di estrazione del minerale già esisteva – era stato proposto dal signor Burrage – ed era conosciuto, anche se ancora non era mai stato sperimentato a Chuquicamata e, dunque, non si sapeva se potesse essere applicato anche a quel tipo di minerale, né si conoscevano i costi che questo richiedesse. Iniziate le prove necessarie e ottenuti risultati sfavorevoli, i fratelli Guggenheim continuavano a dover affrontare una pericolosa incognita: insomma erano ancora al punto di partenza. Dopo molti mesi di angosciante incertezza in cui si effettuarono le prove in laboratorio, finalmente arrivò il risultato sperato. Quasi nello stesso tempo in cui si veniva a conoscenza dell’esistenza dell’enorme riserva, nel dicembre 1912, si riuscì a perfezionare il processo di estrazione del minerale grazie all’intervento dell’esperto metallurgico Mr. Cappelen Smith – anch’egli ingegnere che lavorava per l’impresa dei fratelli Guggenheim. Trovato il metodo di lavorazione del minerale, l’impresa aveva raggiunto la meta e davanti alla strada dei Fratelli Guggenheim non si presentava nessun ostacolo che potesse impedire l’inizio dei lavori. Nel frattempo solo alcuni pochi uomini del governo del Cile e del mondo degli affari in generale erano a conoscenza di ciò che stava accadendo nella lontana provincia di Antofagasta: a Chuquicamata si stavano producendo i successi che avrebbero successivamente costituito la ricchezza del Paese. I risultati dell’industria del rame furono così positivi che da queste attività il fisco cileno otterrà guadagni maggiori rispetto a quelli ottenuti con l’industria del salnitro, pilastro fondamentale dell’economia del Paese nell’Ottocento. Nessuno in quel periodo avrebbe mai sospettato che “l’oro rosso” avrebbe raggiunto e superato per importanza economica e per lo sviluppo quello che è sempre stato conosciuto come “oro bianco”. In Cile in quegli anni regnava la tranquillità: i fratelli Guggenheim erano tranquilli per il loro doppio trionfo, possedevano un ricco giacimento e un processo industriale per sfruttarlo; inoltre il prestigio degli uomini di governo e l’assoluta garanzia che offrivano i tribunali del Paese costituivano altri due fattori importanti, rappresentando un buon motivo perché si decidesse, con piena fiducia, di effettuare in Cile l’importante investimento economico che il progetto minerario richiedeva. Quando i lavori preliminari relativi al nuovo processo furono terminati, i fratelli Guggenheim decisero che l’ impresa che avevano costituito per Chuquicamata dovesse acquistare le proprietà della Duncan Fox e Cia. che, sicuramente, erano quelle più importanti. Ciò avvenne nel gennaio del 1913 e già nel febbraio dello stesso anno arrivò a Chuquicamata il Gerente Generale della Chile Exploration Co.6, Mr. Fred Hellman, con l’incarico di dare inizio alla costruzione. L’impresa dei fratelli nordamericani effettuò numerose compravendite relative alle pertinenze minerarie 6 La Chile Exploration Co. fu costituita l’11 gennaio 1912 a Jersey City, negli Stati Uniti, con domicilio in questa città. Il Governo cileno autorizzò tale impresa ad installare i vari impianti e macchinari industriali col decreto 878 del 3 aprile 1913 firmato dall’allora Presidente della Repubblica don Ramón Barros Luco e dal suo ministro don Jorge Matte. L’articolo 3 di tale decreto disponeva che la società dovesse intendersi domiciliata in Cile e sottomessa alla legislazione nazionale. di Chuquicamata (le più importanti delle quali furono senza dubbio quelle delle Duncan Fox e Cia., Banco Alemán Transatlantico e Banco di Edwards e Cia), al solo scopo di impossessarsi di tutto il giacimento, o per lo meno di una grande parte che potesse garantire un’attività importante, sia per l’estrazione di minerale di alta qualità, sia per l’estrazione e la raffinazione del materiale con un basso contenuto di rame. L’ambizioso progetto richiedeva la rimozione di enormi estensioni di terreno, operazione necessaria per estrarre le enormi quantità di minerale contenuta in colli interi. La maggior parte delle pertinenze acquisite si costituirono tra il 1890 e il 1900 e dunque erano già stati distrutti i loro confini. Ci fu da effettuare un intenso lavoro per riporli dove si trovavano in accordo con i dati delle misure e delle ratificazione. In questo senso si effettuarono molte centinaia di operazioni, talvolta con interventi anche del Tribunale di Antofagasta. Le miniere esistenti non coprivano tutto lo spazio attualmente occupato dall’enorme “anfiteatro” della miniera essendo, come si è visto, l’interesse degli imprenditori minerari prima rivolto prevalentemente verso le parti più ricche di minerale prezioso. Per realizzare i prelievi anche del materiale con una più bassa percentuale di minerale si dovettero costruire anche altre pertinenze, che fecero nascere centinaia di proprietà nuove le quali, oltre ad offrire il loro minerale, permisero all’impresa di stabilire nel terreno diversi impianti e costruzioni. Nel caso di lavori di cosi ampia dimensione e importanza diventò indispensabile ottenere le concessioni ed i permessi fiscali per gli allacci dell’acqua – potabile e ad uso industriale – dell’energia elettrica, della linea telefonica e di tutti quei servizi urbani necessari per lo svolgimento delle attività industriali e residenziali ad essa associata. In questo caso fu l’impresa inglese Duncan Fox a richiedere le concessioni ed i permessi fiscali, e lo fece quando ufficialmente era ancora la proprietaria delle pertinenze. Dunque, una volta ottenuti i permessi, la Duncan Fox dovette solo trasferirli alla Chile Explotaration Co., trasferimento che avvenne il 12 marzo 1914. Le concessioni fiscali dotarono la nuova impresa di 773 ettari di terreno per l’installazione degli impianti industriali e dell’accampamento per il personale. L’impresa inoltre ebbe l’idea ed il proposito di costruire una ferrovia tra Chuquicamata e Mejillones, sia per trasportare i macchinari, i materiali e i rifornimenti dalla costa, sia per inviare al porto il rame prodotto. Nonostante il nulla osta rilasciato dal Governo nel dicembre 1914, il progetto non si portò avanti perché lo stesso Governo, probabilmente affinché la ferrovia potesse rivelarsi utile anche all’industria del salnitro, aveva segnalato un percorso diverso da quello immaginato dall’impresa e svantaggioso da un punto di vista tecnico e soprattutto economico. I fratelli Guggenheim avevano come unico scopo quello di creare una comunicazione diretta con la costa, in modo da non dipendere dalle tariffe e dall’efficienza di altri personaggi; abbandonato questo progetto, però, Chuquicamata si dovette appoggiare alla ferrovia Ferrocarril de Antofagasta a Bolivia, creando una connessione nella stazione di San Salvador. Costituita la Chile Exploration Co., scoperta la ricchezza del giacimento, perfezionato il metodo di raffineria del minerale, rilasciate le concessioni e le autorizzazioni dal Governo e acquisite quasi tutte le pertinenze, nel febbraio del 1913 l’impresa dei fratelli Guggenheim poté iniziare senza nessun ostacolo i lavori. Si aprirono le strade per il trasporto dei macchinari e dei materiali dentro la costruzione e si procedette con la rimozione di tonnellate di terra da eliminare per pareggiare, per quanto possibile, la superficie del terreno. Intanto gli ingegneri – alcuni a Chuquicamata, altri negli Stati Uniti – lavoravano sui piani di sistemi e processi che, spesso, si stavano applicando per la prima volta ad una attività mineraria. Collaborarono numerosi tecnici al progetto dell’enorme opera che si stava compiendo, che includeva anche tutti i vari servizi connessi all’attività industriale e a quella residenziale. I lavori ovviamente interessarono tutta la provincia di Antofagasta ed in particolare la stessa città di Antofagasta per il suo carattere portuale, da cui arrivavano tutti i macchinari e i lavoratori stranieri; più di mille operai si stabilirono nei dintorni della miniera in un accampamento provvisorio installato solo per la durata dei lavori della costruzione. A poco a poco, in circa due anni, si costruì tutto il complesso e nel marzo del 1915 si conclusero i lavori. Chuquicamata non era più un luogo anonimo e solitario, ma un spazio lavorativo e vitale; grazie alle ambizioni dei fratelli Guggenheim e all’impegno degli ingegneri, era stata ravvivata la vita del deserto in cui ora si potevano scorgere i profili degli impianti meccanici e industriali e quello dei quartieri residenziali. L’impianto appena costruito poteva lavorare giornalmente circa dieci tonnellate di minerale estratte dal giacimento, che poi si trasformavano in una produzione annuale di circa 45.000 tonnellate di rame fino. Negli anni successivi la produzione aumentò sempre in modo crescente, fino al 1948 quando l’impresa dovette iniziare i lavori per la costruzione di un nuovo impianto per il trattamento del rame. Nel giacimento il rame si trovava in due modi: sotto forma di ossido e sotto forma di solfato. Quello che si presentava come ossido era già stato quasi tutto estratto e dunque era arrivato il momento di investire sul rame che si presentava come solfuro, per cui però era necessario un nuovo processo di raffineria e, di conseguenza, anche un nuovo impianto dove si potesse lavorare. I lavori per la costruzione del nuovo impianto iniziarono nel 1948 e terminarono nel 1952; fu senza dubbio quest’investimento dell’impresa che assicurò a Chuquicamata il suo prospero e ricco futuro. Nel 1966 uscì la legge n. 16425 che diede inizio ad una tappa fondamentale della storia della miniera di rame in Cile: con l’approvazione di tale legge, infatti, cominciò la sostituzione delle imprese straniere (di quelle impegnate nelle attività minerarie) con lo Stato e terminò quella che può essere considerata la prima tappa della storia mineraria cilena, fase caratterizzata nel caso di Chuquicamata dalla presenza dell’impresa nordamericana dei fratelli Guggenheim. Bisogna riconoscere che è proprio in questo periodo, grazie agli investimenti che i Guggenheim fecero nel territorio cileno, che il Paese entrò a far parte dei grandi produttori di rame al mondo. Inoltre, in questo primo ciclo di vita della miniera, il governo ebbe importanti entrate nelle casse statali, proventi che non solo permisero di recuperare le spese ma che resero possibile anche di porre le basi per lo sviluppo economico e industriale del Paese. Nel caso di Chuquicamata, solo grazie ai fratelli Guggenheim fu possibile iniziare l’estrazione della ricchezza che il Cile possedeva ma che fino ad allora era stata sfruttata solo parzialmente per la mancanza di mezzi e fondi necessari: l’impresa privata nordamericana aveva le capacità tecniche e finanziarie che un lavoro di tale livello richiedeva. Furono dunque le circostanze dell’epoca a determinare che le prime grandi attività minerarie in tutto il territorio cileno fossero realizzate da industrie straniere. Nel periodo immediatamente successivo all’uscita della legge n. 16425, il proprietario esclusivo di Chuquicamata7 rimase inizialmente l’impresa straniera dei fratelli Guggenheim che, col passare del tempo, fu sostituita dallo Stato cileno attraverso la Corporación del Cobre. La prima fase della cosiddetta cilenizzazione consistette nell’acquisizione, da parte dello Stato, del 51% delle azioni dell’impresa straniera, formando così con essa una società mista proprietaria dell’intero complesso minerario che dirigesse le attività industriali. In questo periodo lo Stato aumentò la fiscalizzazione e la partecipazione ai negozi del rame cileno, ricevendo maggiori entrate e garantendo così gli interessi del Paese. La legge n. 16425 (e dunque la politica di cilenizzazione) uscirono nel 1966 ma inizialmente fu applicata 7 In questo caso si considera il caso specifico, ma in realtà lo stesso processo venne applicato anche ad altre miniere del Chile. solo ai complessi minerari di El Teniente e La Exótica; solo nel 1969 fu estesa anche a Chuquicamata. Non è da sottovalutare l’importanza di questa legge che impose alle imprese non solo di pagare le imposte allora esistenti per le attività minerarie, ma anche gli utili corrispondenti alla quota dello Stato nei rispettivi affari (cioè il 51%). Inoltre rese possibile un’introduzione dello Stato anche nella commercializzazione (ovvero nelle vendite) del metallo, sia dentro che fuori dal Paese, aspetto che fino ad allora era stato gestito esclusivamente dai nordamericani. Con la cilenizzazione, dunque, ci fu una maggiore presenza dello Stato nelle attività minerarie che diventò il socio maggioritario dell’impresa, ponendo così le basi per la successiva tappa di nazionalizzazione. La fase immediatamente successiva è quella chiamata nazionalizzazione pacata, dove il termine pacata sta ad indicare che non fu imposta dallo Stato ma fu una decisione che le autorità cilene presero di comune accordo con gli antichi proprietari. La nazionalizzazione pacata stabilì un avanzamento graduale dello Stato nell’acquisizione della proprietà dei minerali, con l’obiettivo di evitare, secondo il governo patrocinante, i rischi inerenti ad una espropriazione o nazionalizzazione immediata, ossia, i rischi che ci sarebbero stati nel caso in cui si fosse verificata una cessione della proprietà senza conflitti; l’obiettivo era quello di non avere problemi né con le imprese straniere, le cui tecniche, il personale e i contatti finanziari si stimavano convenienti da conservare, né con gli Stati Uniti, potenziale sede di eventuali problemi suscitati da una espropriazione. È possibile inoltre che il governo del signor Frei considerasse che l’acquisizione graduale dei complessi minerari fosse più in accordo con le capacità economiche del Cile in quel determinato periodo storico. Quindi nel 1969 avvenne non solo la cilenizzazione ma, contemporaneamente, si aprirono le porte alla nazionalizzazione delle industrie minerarie. Il Cile, in base alle proprie convenienze, avrebbe potuto tenere i minerali sotto il primo sistema, cioè sotto il regime delle società miste Stato–imprese straniere; oppure avrebbe potuto nazionalizzare i minerali attraverso la acquisizione della totalità delle azioni (cioè di quel 49% che, nel caso di Chuquicamata, rimaneva ancora di proprietà dell’impresa dei Fratelli Guggenheim). Lo Stato aveva dunque la possibilità di scegliere la soluzione più conventiente grazie alla presenza di una postilla che consentiva appunto, a partire dal 1970 e in un periodo di tempo di dieci anni, di poter decidere l’opzione più conveniente: continuare in un regime di società mista o terminare tale regime comprando tutte le azioni restanti e convertirsi così in padrone esclusivo dell’affare. La politica di cilenizzazione e nazionalizzazione pacata non piacque a tutti gli schieramenti politici; in particolare non ebbe l’appoggio dei partiti della sinistra politica – che successivamente si uniranno col nome di Unità Popolare – che considerarono l’iniziativa di troppo lento sviluppo, gravosa per il Paese perché non eliminava completamente la presenza delle imprese nordamericane. Per la sinistra era essenziale che i minerali della Grande Miniera del Rame fossero oggetto di una nazionalizzazione senza cognomi, cioè di una nazionalizzazione radicale che ponesse fine a tutti gli investimenti degli antichi proprietari statunitensi, azione necessaria sia per convenienza economica sia per dignità nazionale, aspetti entrambi gravemente intaccati dall’imperialismo degli Stati Uniti. Per i membri dell’Unità Popolare era necessario che il Congresso legiferasse immediatamente imponendo la rivendicazione della ricchezza del rame, ovvero una immediata nazionalizzazione delle imprese. Anche alcuni membri del governo di Frei rimasero scontenti, o comunque non pienamente soddisfatti, dalla nazionalizzazione pacata e riconobbero l’importanza di una nazionalizzazione completa e immediata, ammettendo di aver commesso un errore scegliendo la lenta e progressiva strada delle società miste. Si andò dunque ai voti e con la maggioranza assoluta vinse la “nazionalizzazione” di sinistra. Fu cosi che, partendo da questa forte base, quando salì al governo Salvador Allende propose al Congresso la nazionalizzazione immediata della Grande Miniera. Nel 1971 inviò al Congresso Nazionale un progetto di riforma della Costituzione Politica, che aveva esattamente quello scopo (la nazionalizzazione) il quale, sottomesso ai tramiti rispettivi, fu approvato l’11 luglio 1971. Si festeggiò tale data come “il giorno della dignità nazionale”. Il progetto di riforma fu approvato all’unanimità da tutti i membri del Consiglio, senza distinzione di partito, sebbene fu poi sottoposto ad alcune modificazioni che avevano come unico obiettivo migliorare (e non stravolgere) il progetto presentato dal governatore Allende. Tale riforma costituzionale è contenuta nel testo di legge n. 17450 pubblicato il 16 luglio 1971. È l’articolo 2 di tale legge che tratta la nazionalizzazione della Grande Miniera di Rame e che riguardava non solo Chuquicamata ma anche le altre importanti miniere presenti in Cile che divennero tutte di fatto di proprietà dello Stato. I proprietari dei beni nazionalizzati ricevettero una indennità, determinata in accordo alle norme speciali incorporate nella stessa legge (norma che ovviamente annullò tutte le prescrizioni della precedente legge di cilenizzazione del 1969). Con la proposta del Presidente Allende e con l’approvazione della legge n. 17450 iniziò la terza importante tappa del Cile che ebbe grandi e importanti effetti nell’economia del Paese e non solo. Il Cile divenne unico proprietario di tutti i grandi complessi minerari presenti nel proprio territorio nazionale e, in questo modo, divenne anche responsabile degli affari attinenti a questa industria, considerata di fondamentale influenza per la vita e lo sviluppo nazionale. Dunque a partire dal 1971 fu solo il Cile, rappresentato dal suo Governo, che prese tutte le decisioni con assoluta indipendenza e favorendo solo gli interessi del Paese, in merito alla politica di estrazione, lavorazione, commercio e tecnologia del rame. Inoltre la legge che approvò la nazionalizzazione istituì l’ organismo statale Corporación del Cobre (Codelco), imponendo che fosse tale impresa la responsabile di ogni scelta relativa all’industria del rame e che, per legge, ogni disposizione potesse ormai essere assunta solo in territorio nazionale. Negli anni immediatamente successivi alla nazionalizzazione proposta dal Presidente Allende e approvata all’unanimità dal Consiglio, l’industria mineraria cilena attraversò un periodo in cui ci fu un calo della produzione che sfiorò la crisi. Tra la legge n. 17450 ed il colpo di stato del regime militare guidato da Pinochet (11 settembre 1973) non furono pochi i cileni che perdettero qualche speranza e soprattutto fiducia nello Stato. I primi anni, infatti, la direzione dell’industria mineraria fu a dir poco pessima: in essa non si applicarono né l’organizzazione né i mezzi efficaci per ottenere un aumento o almeno la conservazione del livello produttivo. Ciò avvenne non solo a Chuquicamata ma anche negli altri importanti complessi minerari esistenti e fu determinato principalmente dalla gestione delle miniere, affidata a personale politico che non aveva né le conoscenze né i mezzi adatti per ricoprire quella carica in maniera decente. Altri fattori che contribuirono significativamente al calo della produzione furono: la carenza di macchinari e pezzi nuovi di ricambio (per mancanza di previsione e per effetto delle tendenze internazionali del governo – niente a che vedere con l’imperialismo americano – e per sfiducia dei rifornitori o dei fabbricanti stranieri le imprese entrarono a poco a poco in crisi, dotate di scarsi macchinari se non addirittura, in alcuni casi, carenti); i danni alle installazioni e ai macchinari dovuti alla negligenza e all’anarchia lavorativa causata dall’abbandono della gerarchia e della disciplina, che causarono danni e quindi perdite nella produzione; l’anarchia lavorativa che, unita ai frequenti scioperi di qualche operaio scontento, causò importanti perdite. In particolare l’ordine dei supervisori e dei sorveglianti erano accettati o rifiutati a seconda della volontà dei lavoratori, senza che potessero ricevere appoggio dalla Gerenza. Il risultato fu un grosso calo della produzione che migliorò solo con il colpo di stato, cioè con la presa di potere del regime militare che ristabilì le gerarchie lavorative, eliminò dalle classi dirigenti i politici inadeguati e riuscì a reindirizzare la produzione di Chuquicamata e delle altri importanti miniere di rame del paese verso i mercati internazionali. Nel 1996 si perfezionò il Proyecto Traslado con cui iniziò lo smantellamento definitivo dell’accampamento, che sta lentamente scomparendo sotto gli accumuli del materiale di scarto prodotto dall’attività mineraria. Uno dei motivi per cui tale progetto è stato approvato fu proprio il fatto che, gli enormi volumi di terra derivati dalle operazioni minerarie, necessitavano di essere trasportati ad una distanza sempre maggiore per mancanza di spazio nelle aree prossime alla miniera; insieme alle distanze che i camion dovevano percorrere giornalmente, però, aumentavano anche i costi che queste operazioni implicavano. Depositare il materiale di scarto sempre più lontano rendeva l’operazione meno vantaggiosa da un punto di vista economico e dunque, con lo stratagemma dell’inquinamento ambientale dell’area (problema peraltro realmente esistente) si decise di accorciare le distanze che i camion percorrono giornalmente carichi del materiale di scarto e di utilizzare questo per “tappare” letteralmente gli spazi urbani anticamente esistenti. Il trasferimento in realtà non è stato immediato ma si è protratto nel tempo ed il proyecto traslado del 1996 rappresenta solo il culmine di un processo che si è sviluppato gradualmente, in tappe successive a partire dal 2001. La disposizione di trasferimento delle famiglie chuquicamatine ha considerato come strumento associato il piano strategico per lo sviluppo di Calama, dove il 31 agosto 2007 la funzione residenziale di Chuquicamata è stata definitivamente trasferita; la città di Calama offre una nuova forma di vita agli operai, in case proprie, e costituisce un’operazione all’avanguardia che ha consolidato e rafforzato un centro urbano di una certa gerarchia con più di tredicimila abitanti. Alla città, o meglio all’ampliamento della città, è stato imposto un disegno urbano molto discusso, che non ha raggiunto uno sviluppo articolato, peggiorando in qualche caso l’unità dello spazio pubblico ed in particolare dell’oasi in cui è stato inserito, con soluzioni architettoniche e ambientali poco adeguate alle condizioni desertiche dell’altitudine e all’identità locale. Il proyecto traslado ha insomma disfatto la natura dell’accampamento di Chuquicamata, disgregando le company town. Gli elementi propriamente industriali – company – sono stati concentrati nelle installazioni produttive e nelle opere necessarie per l’estrazione, il procedimento, il trasporto e l’esportazione dei prodotti; gli elementi più urbani – le town – hanno preso forma di “villa” o “hotel” minerario per l’alloggio dei lavoratori, situati ad una distanza conveniente dall’industria. Si è incorporato il sistema infrastrutturale di base del Paese come parte del sistema di produzione, includendo le strade esistenti e quelle di nuova realizzazione. Inoltre si sono costruite abitazioni per tutti i lavoratori impiegati in miniera e per le loro famiglie (operai, impiegati, tecnici e dirigenti) nella vicina città di Calama, centro urbano di dimensioni maggiori già consolidato. Il finanziamento dei complessi residenziali, secondo la differente categoria dei lavoratori, con facilitazioni economiche per il loro acquisto definitivo, ha permesso che la funzione residenziale familiare fosse esclusa dalla responsabilità e dalle spese dell’impresa. Il progetto, tra le altre cose, contemplava un nuovo sistema di lavoro basato sulle turnazioni. Al lavoratore si offrì un nuovo contratto sociale, nel quale si inclusero i benefici della vita nella città, facilitati per l’acquisto dell’abitazione e da uno stipendio competitivo nel mercato del lavoro. Reciprocamente il lavoratore si impegnava a rinunciare parzialmente alla sua famiglia per periodi di tempo più prolungati, secondo il regime di turno contrattato, durante il quale sarà dedito esclusivamente al lavoro. Concordemente con questa strategia, si optò per un tipo di accampamento nel quale rimasero solo i lavoratori in turno. Lo schema incluse la delegazione di funzioni complementari (alimentazione, manutenzione delle macchine, ecc) a imprese contrattiste di sostegno. Per questo si impiantò un secondo accampamento, con propri standard, il cui costo non superò il 2% dell’investimento totale. Ogni impresa ordinò i suoi elementi e componenti nello spazio regionale, dando forma a una nuova dimensione del territorio come spazio di una urbanità che si sostiene nella rete e nei punti specifici delle operazioni industriali. Tutte queste operazioni sono chiare manifestazioni del processo di ridistribuzione delle funzioni e dei costi, che precedentemente ricadevano completamente nell’impresa e si concentravano negli insediamenti industriali. 3.2. La lavorazione del minerale: la concentrazione e la lisciviazione per trattare solfuri e ossidi Chuquicamata, cosi come alcune delle altre importanti miniere di rame del Cile, è nata grazie alle tecniche moderne, agli investimenti di grandi capitali e all’elevata produzione di una impresa nordamericana – quella dei fratelli Guggenheim – che inizialmente era proprietaria pressoché esclusiva. Soprattutto gli investimenti economici per gli impianti industriali di lavorazione del minerale si sono rivelati col tempo indispensabili per lo sviluppo di Chuquicamata e per la ricchezza economica di tutto il Cile. Infatti, gli ampliamenti dell’impianto di ossidi e la messa in funzione dell’impianto dei solfuri hanno permesso di incrementare notevolmente le quantità di minerale trattate e, dunque, prodotte quotidianamente. In particolare esistono due metodi di lavorazione del minerale, due processi metallurgici da applicare in base allo stato in cui il minerale si trova in natura: il rame si può trovare come ossido o come solfuro, stati a cui corrispondono rispettivamente il processo idrometallurgico e quello della concentrazione. Entrambi i processi sono di tipo meccanico–industriale e verranno descritti solo in maniera superficiale, rimandando ad altri testi ogni eventuale approfondimento sulla materia. Questa scelta è dovuta sia alla materia (architettonica) oggetto della tesi – non troppo attinente ai procedimenti metallurgici industriali – sia alle scarse conoscenze relative all’ingegneria mineraria. L’impianto che lavora il materiale in cui si trova il rame in forma di ossido produce rame elettrolitico, mentre l’impianto che lavora il materiale che contiene rame in forma di solfati produce rame blister, con una percentuale leggermente inferiore a quella prodotta dal primo impianto; successivamente il rame viene inviato alla casa elettrolitica per la sua raffinazione. Nell’impianto degli ossidi si applica il processo della idrometallurgia – lisciviazione8 – dove il materiale estratto dalla miniera, una volta ridotto di dimensione (quasi macinato) viene trasportato a delle piccole piscine dove viene trattato con una soluzione di acido solforico che dissolve i sali che il rame contiene. In questi piccoli recipienti si trova acqua e acido solforico, che quando entrano in contatto con i catodi (o ioni positivi) del rame producono la seguente reazione: H2O + H2SO4 8 Cu+ Il processo di lisciviazione, anche conosciuto come processo di estrazione solido–liquido, consiste in generale nella separazione di uno o più componenti solubili da una massa solida mediante un solvente. Cu2SO4 + H2O + H dove l’H finale rappresenta l’idrogeno che si sprigiona nell’area. La soluzione che si ottiene viene inviata attraverso tubature alla casa colorada, dove per mezzo di ferro vecchio si estrae il cloro e, da qui, si invia alla casa elettrolitica o casa verde dove, per applicazione di un procedimento che sprigiona corrente elettrica, il rame si deposita nei catodi delle celdas elettrolitica, ottenendo cosi un rame di altissima purezza che viene inviato alla fonderia dove viene modellato in barre o lingotti in modo da risultare così pronto per il mercato internazionale e per l’esportazione. Nell’altro processo che si applica nell’impianto dei solfuri (i più diffusi in natura) conosciuto anche come processo di concentrazione – per il nome del locale dove avviene la prima fase del processo, la Concentradora appunto. Qui il minerale macinato viene mischiato con acqua, sapone ed emulsionanti in modo da provocare, con la mescolanza rapida, un’adesione alla superficie delle bolle; mediante la flottazione, le polveri emulsionate con liquidi tensioattivi vengono immesse in grandi vasche dalle quali si asporta lo stato schiumoso superficiale, ricco di rame ancora legato allo zolfo. Si ottengono quindi dei fanghi, i quali vengono asciugati e concentrati nei passaggi successivi: dapprima meccanicamente (concentrazione) e poi termicamente (arrostimento). Una volta filtrato e seccato il rame viene inviato alla fonderia, prima ai forni di riverbero dove viene fuso e, successivamente, ai forni cilindrici o convertitori che eliminando lo zolfo e il ferro producono il rame blister allo stato liquido, il quale viene condotto ai forni di stampo dove gli viene data la forma di barre che poi si lasciano solidificare. All’apparenza il risultato è un prodotto brutto e irregolare, per la presenza delle ampolle che si producono in superficie. Nel forno, attraverso insufflaggio di aria o ossigeno, si ottiene la formazione di SO2 gassosa che si separa dal metallo liquido; contemporaneamente l'aggiunta di silicio permette l'eliminazione del ferro presente: la scoria, composta da silicati, galleggia e viene asportata. La raffinazione termica prosegue attraverso un ulteriore insufflaggio di ossigeno o aria; poiché si ossida parzialmente anche il bagno, si procede con il pinaggio, che consiste nell'inserire un tronco verde di pino che bruciando sprigiona gas riducenti e vapore. Per ottenere la massima purezza del rame è necessario effettuare una raffinazione elettrolitica: il rame ottenuto viene dissolto in una vasca contenente una soluzione conduttrice e viene depositato selettivamente su un catodo: i metalli meno nobili presenti restano in soluzione, quelli più nobili precipitano. I catodi ottenuti sono costituiti da rame puro al 99,97% in lastre pronte ad essere immesse e vendute sul mercato. 3.3. I villaggi minerari cileni: le città del rame. Il villaggio di Chuquicamata – o meglio il centro abitato che nacque in prossimità della miniera di Chuquicamata come accampamento e che poi diventò una vera città, raggiungendo dimensioni notevoli e ospitando nel momento di massima densità fino a 24.000 abitanti – nacque in funzione della annessa attività mineraria per accogliere tutto il personale impegnato nell’attività mineraria accompagnato dalle loro famiglie. Il centro abitato di Chuquicamata può dunque essere considerato una vera e propria città che, per i motivi della sua fondazione, si può definire “città del rame”. Non si tratta di un caso eccezionale in Cile: in tutto il territorio nazionale, in varie regioni minerarie, furono fondate svariate città in funzione delle attività estrattive. Il primo insediamento del Paese sorto in seguito all’estrazione del rame fu Sewell, fondato nel 1905 dall’impresa Branden Copper Company e nel 2006 dichiarato dall’Unesco Bene del Patrimonio Industriale. Sewell, che costituì una delle più importanti città nate in funzione della attività estrattiva, rappresentò solo il primo gradino di un ampio processo che in Cile si protrasse durante tutto il Novecento e che per tanti anni fu ignorato; solo ultimamente è stato rivalutato dall’opinione pubblica che gli ha finalmente attribuito la meritata importanza. Quelle che sono sorte come “città del rame” sono complessi urbani e architettonici costituiti da diversi tipi di edifici residenziali e non, complementari alle attività produttive della miniera di rame, nati come insediamenti speciali che costituiscono forme eccezionali dei fatti urbani. La condizione di forma urbana eccezionale risiede nella loro condizione particolare di insediamenti umani di proprietà privata, senza autonomia funzionale, che supera i propri orizzonti produttivi associati all’attività mineraria: la loro eterogeneità sociale come base della piramide sociale ristretta ai rapporti lavorativi che le imprese minerarie hanno guidato per lo sviluppo e il conseguimento dei loro obiettivi; la (relativamente) limitata varietà di funzioni e attività presenti nell’insediamento; il loro relativo isolamento nei territori in cui sono situati, così come le stesse caratteristiche del suolo, la topografia e il clima che non favoriscono la loro conversione in altre funzioni produttive, tra le quali, ad esempio, l’agricoltura come alternativa complementare. Il fatto urbano, però, si è sempre caratterizzato come elemento rappresentativo della società che lo vive, incorporando un’ampia varietà e diversità di individui impegnati in una complessità di funzioni e attività, in uno spazio civico di una certa dimensione che tende a permanere nel tempo in un luogo specifico. In Cile le imprese minerarie hanno dimostrato una certa flessibilità per adattare questi insediamenti – le loro forme urbane, le tipologie delle abitazioni e dei servizi, gli standard, i materiali e le tecniche costruttive – dai loro modelli di origine, cioè le company town9, alle circostanze specifiche della gestione industriale, cosi come ai territori in cui sono situati. In questo senso, ogni caso di città del rame risponde ad un’organizzazione urbana e produttiva che ha oscillato tra il riferimento ai modelli urbani internazionali e il loro adeguamento alle specifiche situazioni topografiche, ambientali e funzionali locali, fatto che si è verificato spontaneamente, quasi come una sorta di evoluzione passata attraverso gli stessi insediamenti, con le tappe successive di crescita e trasformazione. Questa forma di insediamento nel territorio fu sottomessa ad una importante revisione per le nuove imprese minerarie installatesi in Cile, considerando la prolungata esperienza privata e pubblica in materia di abitazioni e infrastruttura. La strategia che le imprese minerarie private proposero significò la disgregazione fisica e sociale del modello, appoggiata agli attuali sistemi di trasporto e comunicazione, i nuovi standard ambientali e il superamento di uno schema che obbligava la prestazione di servizi di residenza e equipaggiamento per i suoi abitanti (lavoratori e le famiglie). Gli insediamenti destinati all’estrazione di rame in Cile hanno dispiegato una intensiva occupazione e trasformazione, con il popolamento – sebbene transitorio e temporaneo – del rispettivo ambito territoriale in cui sono sorti. Il territorio, in questo caso, ha assunto un ruolo che trascende la condizione neutrale di mero supporto: le condizioni geografiche ed in particolare le specifiche caratteristiche topografiche che configurano il Cile, soprattutto trasversalmente, hanno assunto un carattere di protagonista nelle differenti strategie che ogni impresa ha adottato di volta in volta. La figura del territorio, dunque, nel caso cileno è stato uno dei primi fattori da considerare al momento di formulazione del progetto per l’estrazione di una 9 Si definisce company town quell’insediamento fondato da un unico impresario che racchiude all’interno di un recinto la propria fabbrica, le abitazioni e i servizi per la vita quotidiana dei lavoratori. In un sistema di questo genere, il lavoro, l’educazione e ogni aspetto della vita si sviluppa in uno spazio urbano opportunamente disegnato dall’impresa che, in questo modo, riesce anche a controllare il tempo che il lavoratore trascorre al di fuori dei turni lavorativi. determinata risorsa nel suo giacimento naturale, considerati i costi economici che implica la colonizzazione di un territorio che in generale si può ancora considerare vergine. In questa dimensione l’insieme delle operazioni territoriali include diversi elementi all’interno dell’insediamento: dal complesso industriale alla rete dei trasporti, dal tessuto urbano all’insieme delle residenze e dei servizi. Tutto ciò, cercando sempre di stabilire una connessione tra questi elementi e le infrastrutture che il Paese già possedeva, ovvero non solo le vie di comunicazione e di trasporto ma anche le città limitrofe, i porti, gli impianti elettrici, gli acquedotti ecc. Insomma sono una grande varietà di elementi a determinare ed influire un’azione di una tale intensità, dispersa nel territorio e fondata espressamente con l’unico obiettivo di estrarre, lavorare e raffinare ed infine distribuire il rame. Questa doppia dimensione determina un paradosso individuabile nell’apparente contraddizione tra le considerazioni che puntano a concepire questi insediamenti come centri concepiti e gestiti ex novo, al margine delle città–rurali tradizionali del Paese, e, d’altra parte, la ricerca e la volontà di accentuare gli aspetti che articolano gli insediamenti in questo stesso sistema. In sostanza l’apparente contraddizione tra le relazioni di autonomia e quelle di dipendenza o integrazione territoriale. L’autonomia degli insediamenti rappresenta la logica propria delle operazioni della prima metà del XX secolo, in parte coincidente con la presenza delle imprese nordamericane nell’industria mineraria in Cile. In questa prima tappa, due sono le cause fondamentali di questa indipendenza relativa: la localizzazione dei giacimenti in luoghi appartati e abitualmente non favorevoli in termini di accessibilità e permanenza; la partecipazione delle imprese straniere, condizione che include una organizzazione locale imposta mediante uno stretto sistema di gerarchie lavorative, condizione che poi si materializza nella morfologia e distribuzione degli accampamenti stessi. Il primo aspetto si applica per la mancanza di alternative al sistema di trasporto del periodo, con l’eccezione delle ferrovie che nacquero nel nord del paese proprio in funzione dell’industria del salnitro. Il secondo aspetto rimane fedelmente esposto dalla nozione di enclave, più di una volta associata agli insediamenti minerari; questa nozione implica la configurazione di un tipo di società chiusa e isolata da tutte le ingerenze sociali, politiche e religiose provenienti dall’esterno. Tutte le funzioni, amministrative e governative, si concentrano nella figura dell’impresa. Con il processo di nazionalizzazione delle imprese, il carattere straniero degli accampamenti sarà in gran parte sradicato, sebbene saranno necessari ancora un po’di anni perché sia possibile una integrazione, almeno parziale, tra la comunità produttiva e gli abitanti del resto del paese. Nella maggior parte dei casi i lavoratori della miniera del rame in Cile hanno goduto per vari anni di numerosi benefici, a partire dall’accesso alle abitazioni e ai servizi, tanto è vero che spesso si è parlato di “aristocrazia operaia”. Questa sorta di ghettizzazione volontaria ha portato come conseguenza una grande complessità nei processi di trasferimento degli abitanti dai loro originari accampamenti-città ai centri urbani tradizionali già consolidati. D’altra parte, la dipendenza o integrazione territoriale degli insediamenti minerari si originò con la necessità di connettere tutti gli impianti presenti in questi complessi: la connessione riguardava il giacimento con le zone industriali di raffinamento del materiale e queste con le zone di distribuzione per il trasporto del minerale e di tutti questi con i vari impianti energetici (soprattutto elettricità e acqua), necessari per lo svolgimento dei lavori. Inizialmente, tutte le attività di collegamento furono affidate alla ferrovia, ai tracciati esistenti e ad alcuni nuovi. Alla metà del XX secolo l’evoluzione dei mezzi tecnici permise, a seconda dei casi, la sostituzione della ferrovia col trasporto su strada, fatto che consentì una riduzione dei costi di manutenzione e una maggiore flessibilità nell’uso quotidiano. Negli ultimi anni, inoltre, le vie di trasporto si sono modernizzate ulteriormente e sono apparsi i mineroductos o concentradoductos, che consistono in percorsi che sfruttano la pendenza naturale del terreno per trasportare il minerale in forma concentrata, generalmente con un carro. In questo modo, i concetti di autonomia e dipendenza, sebbene opposti, consentono insieme di spiegare le relazioni tra l’industria mineraria e il territorio. In termini generali si può affermare che il sistema produttivo del rame si è organizzato nel territorio principalmente in funzione di due aspetti: la localizzazione del giacimento e il porto di esportazione del minerale. Entrambi gli aspetti hanno generato un insieme di opere di infrastrutture e edificazioni disposti come centri, o sub centri, polarizzatori lungo la larghezza del paese. Gli insediamenti minerari, le città del rame, sono dunque il risultato di uno sviluppo tecnologico operato a scala mondiale, conseguenza di una rivoluzione che cambiò i modi di raffrontarsi e appropriarsi del territorio. Così come si parla di un mondo urbano e un mondo rurale, sarebbe corretto parlare anche di un mondo industriale, cioè di una terza forma di antropizzazione, di appropriazione e artificialità umana del contesto geografico. 3.4. La città è la rappresentazione della società nello spazio10. La descrizione di una città del rame non può non essere articolata dal momento che è relazionata alla complessità dei processi industriali in cui la forte ripetizione tipologica e la insistente gerarchia tra le varie parti che compongono la città sono caratteristiche che si spiegano con ragioni di economia ed espressione simbolica. È importante capire e riconoscere quando una città che nasce per ragioni industriali nasce come accampamento che solo successivamente si trasforma in una città definitiva e permanente, o quando invece sorge come accampamento temporaneo che poi verrà smontato e rimosso una volta terminata l’attività estrattiva. Senza dubbio questo è un tema fondamentale, la cui risposta può derivare dall’evoluzione del proprio settore industriale ma anche, e soprattutto, dalle condizioni del proprio disegno e della organizzazione spaziale o dalla posizione dell’insediamento del più ampio contesto regionale e sistema di comunicazioni. Questo aspetto è importante sia perché anche le città nate con una grande semplicità progettuale possono convertirsi in città del futuro (si pensi ad esempio alle numerose città romane fondate come accampamenti militari che si sono poi evolute fino a diventare città perfettamente funzionali), sia perché spesso le città industriali si possono trasformare in “città fantasma” in un territorio aperto, sfruttato e abbandonato, che dopo qualche anno può apparire come un paesaggio incantato. In questo ultimo caso si potrebbero analizzare numerose altre possibilità di riutilizzazione, come ad esempio sta avvenendo in alcuni insediamenti abbandonati in cui le grandi operazioni di ristrutturazione sembrano segnalare un nuovo futuro. Nel caso specifico di Chuquicamata, città fondata con criteri funzionali di estrazione mineraria – e dunque città del rame – durante i primi anni di attività della miniera (fino al secondo decennio del Novecento) furono utilizzati degli accampamenti provvisori come abitazioni del personale, ma fu solo una tappa temporanea; infatti l’impresa dei fratelli Guggenheim investì numerose risorse per la realizzazione di un villaggio che potesse diventare sede definitiva per la popolazione impegnata nelle attività estrattive e le famiglie. Il centro abitato dunque non nacque solo come villaggio operaio ma assunse da subito un disegno urbano, dovendo ospitare non solo gli operai ma anche la classe dirigente, gli impiegati (che solitamente erano americani e, dunque,per ovvi motivi geografici non potevano risiedere nelle proprie case) e le loro famiglie. 10 Cit., Carlo Aymononino. Per il numero di persone che hanno vissuto nel centro abitato di Chuquicamata, questo “piccolo” insediamento rappresenta un microcosmo che riproduce in scala la vita cittadina dell’intero Cile. Le case, le scuole, gli ospedali e, ovviamente, il commercio e i luoghi di svago rappresentano gli spazi in cui generazioni di lavoratori e le loro famiglie hanno trascorso la vita quotidiana, dando luogo a storie personali, a ricordi privati e collettivi fortemente legati a queste aree. Il villaggio operaio è stato molto più di un semplice complesso residenziale in cui le persone potessero riposarsi dopo le ore lavorative; essendo abitato anche dalle famiglie degli operai è diventato una vera e propria città, sicuramente carente di alcuni servizi urbani, ma senza dubbio un luogo in cui la vita collettiva ricopriva un ruolo fondamentale. I minatori, gli impiegati, i dirigenti e le loro famiglie, infatti, durante il tempo libero erano soliti dedicarsi allo sport, al riposo e a qualsiasi attività ricreativa. Gli sport più praticati erano il calcio, il basket e la box, sia per il genere maschile sia per quello femminile. L’intero complesso di Chuquicamata contava inoltre numerosi campi da tennis, sale per giocare a bowling, piste da bocce, campi da golf ecc. Insomma l’accampamento offriva numerose alternative a livello sportivo perché gli operai, i dirigenti o qualche componente della loro famiglia si potesse svagare. E la varietà delle alternative sportive che l’accampamento offriva non è altro che una dimostrazione della eterogeneità sociale presente nel villaggio: il campo da bocce era pensato prevalentemente per i più anziani, i circoli dopolavoro per gli operai, i campi da golf per i dirigenti, i cinema per le famiglie, i parchi giochi per i più piccoli. Oltre agli investimenti nella realizzazione di impianti sportivi, cui l’impresa attribuì sempre una grande importanza perché di aiuto fisico e psicologico ai minatori, i fratelli Guggenheim investirono molto anche sui club e i luoghi di incontro dove gli stessi lavoratori potevano trascorrere in compagnia le ore non impegnate dalle attività lavorative. Ma la vita a Chuquicamata non si limitava solo agli eventi sportivi; per l’importanza che hanno coperto nella vita sociale vanno ricordate anche le feste pubbliche e quelle private. Tra i più importanti eventi pubblici c’è senza dubbio la festa di primavera, organizzata ogni anno dal Rotary Club, con l’obiettivo di riunire fondi per finanziare borse di studio o altre attività riferite alle scuole e all’istruzione in generale. In questa occasione si raggiungevano cifre impressionanti, soprattutto dalle vendite dei voti per l’elezione della regina, per cui ogni sezione del villaggio (l’ospedale, la scuola, l’area commerciale ecc.) presentava la propria candidata. Altre feste importanti, celebrate soprattutto nell’accampamento nuovo, furono quelle del 21 maggio – festa nazionale cilena dedicata all’eroe della guerra del Pacifico Arturo Pratt – o la data religiosa dell’otto settembre, giornata della Vergine di Ayquina. Oltre alle feste “comandate”, tra cui non va dimenticato il Capodanno, ci sono da considerare le feste private, ovvero i vari eventi celebrativi che abitualmente creavano un’occasione di riunione dopo un battesimo, un matrimonio, un compleanno o anche, più semplicemente, una riunione familiare o un incontro per un buon rapporto di amicizia. Altre attività ricreative offerte dalla vita in miniera per le ore di svago erano il cinema e il teatro, e ovviamente – come ancora accade – il primo ebbe molto più successo del secondo. Questo accadde anche perché le rappresentazioni teatrali proposte non erano esattamente di alto livello artistico ed inoltre costavano molto più care di un ingresso al cinema che, al contrario, offriva la visione di film girati in altre parti del mondo e quindi, sebbene solo tramite schermo, offriva la possibilità di conoscere posti e scenografie diverse da quelle della miniera. 3.5. La descrizione dell’accampamento. Chuquicamata, in origine nato per ospitare circa tremila lavoratori si è successivamente trasformato in una vera città e nel corso di tutta la sua storia ha vissuto diversi cambiamenti e soprattutto ampliamenti. L’ampliamento più importante fu quello degli anni Cinquanta, quando si costruì il quartiere O’Higgins con case prefabbricate, le cui dimensioni e comfort rappresentano gli importanti progressi che furono fatti negli anni nell’urbanistica della miniera. Da un punto di vista teorico Chuquicamata ha evidenziato la relazione dialettica e l’integrazione tra la pianificazione urbanistica, il progetto urbano e l’architettura, al punto che tutte le attività si possono considerare “un dettaglio nel territorio”. C’è da segnalare che, anche in questo dettaglio nel territorio, gli apporti delle altre discipline sono sempre stati presenti e anzi, in questo caso più che in altri, è evidente la interrelazione tra le diverse discipline che parteciparono al disegno della città. A partire dalla storia che ha permesso di individuare il contesto politico, sociale e tecnico in cui nacque Chuquicamata, alla cartografia, che ha permesso di costruire dei supporti planimetrici in scala del territorio, fino alla letteratura, nelle cui opere si possono trovare importanti aspetti della quotidianità o i valori della popolazione o i sogni di benessere e progresso degli abitanti. L’intero complesso, così come avviene per una città, è costituito da diversi quartieri residenziali, dalle attività commerciali, dai luoghi ricreativi per la popolazione, dalla zona industriale ecc. Percorrendo l’intero villaggio stupisce la riproduzione, in termini edilizi ed urbanistici, delle classi sociali: a partire dal primo quartiere che si incontra entrando nell’accampamento, ovvero nella parte più bassa, destinato ad ospitare gli operai e le loro famiglie, passando per il quartiere nella parte intermedia destinato agli impiegati americani, fino ad arrivare alla parte alta del villaggio, abitata dai dirigenti amministrativi dell’impresa. A seguito si cercherà di descrivere l’intero villaggio attraverso una sorta di percorso virtuale, con l’obiettivo (o per lo meno l’auspicio) di superare il carattere puramente descrittivo in favore degli aspetti emotivi ed emozionali che si sono provati in quegli spazi. L’ingresso a Chuquicamata avviene attraverso il Campamento Nuevo, situato nel settore sudest del complesso residenziale, recentemente dichiarato patrimonio industriale e dunque attualmente oggetto di recupero e di interventi di preservazione. In questa parte della città vivevano la maggior parte degli operai e un gran numero di impiegati. Verso nordest, a continuazione di questo insediamento, inizia il vasto recinto dell’impianto per la lavorazione del rame in forma di ossido, un’estensione di circa tre chilometri che costeggia verso est la strada che arriva dal Campamento Nuevo e che continua verso la miniera. In questa parte si trovano principalmente edifici ed installazioni destinate ai processi di raffineria per trasformare il minerale estratto in rame puro. Davanti all’impianto industriale, nel lato che sale verso i colli situati verso Chuquicamata, si trova il Campamento Americano – oggi già scomparso sotto le macerie derivate dall’attività estrattiva – dove si trovavano le case degli amministratori–capi, dei dirigenti e di alcuni impiegati. La struttura sociale della società è palesemente ripetuta anche nell’insediamento delle varie classi sociali: gli operai nella parte bassa e i dirigenti nella parte più alta. I due villaggi (in spagnolo campamento) distavano tra loro circa due chilometri, tratto in cui si trovava anche il famoso edificio dell’ospedale Roy F. Glover, destinato alle cure della salute del personale. Prossimo al Campamento Americano si trovava il quartier generale dei Carabinieri, unito al settore del villaggio destinato ad ospitare i membri dell’istituzione con le rispettive famiglie. Il Campamento Americano non ha mai rappresentatoi il centro della vita comunitaria e sociale, che invece si concentrava nel Campamento Nuevo; qui infatti erano concentrati gli uffici pubblici, i luoghi di culto, i teatri, la maggior parte dei negozi ed in generale tutte quelle attività che potessero costituire svago e piacere per la popolazione. Da ciò si deduce che gli abitanti del Campamento Americano probabilmente fossero costretti a recarsi, più di una volta al giorno, nella parte più viva di tutto il villaggio, ovvero nel settore del Campamento Nuevo, satellite principale di tutto l’insediamento residenziale. Il nome Campamento Nuevo, o meglio l’aggettivo nuevo si deve al fatto che nel 1917, quando fu costruito, il quartiere aveva come obiettivo quello di sostituire l’accampamento provvisorio sorto in prossimità della miniera, che era stato utilizzato soprattutto durante gli anni della costruzione e durante il primo periodo di funzionamento di Chuquicamata; i suoi connotati evidentemente provvisori erano inappropriati al già pensato sviluppo dell’attività estrattiva poiché impedivano l’estensione del sito. Gli operai quindi abbandonarono l’antica area residenziale per insediarsi in quella “nuova”, da cui il nome Campamento Nuevo. Il Campamento Americano, invece, si chiama cosi per il semplice fatto che, all’inizio dei lavori nella miniera, la maggior parte dei dirigenti, dei supervisori ecc. erano nordamericani ed essendo il quartiere abitato prevalentemente da persone di questa nazionalità prese tale nome. L’appellativo si conservò nel tempo, nonostante già dagli anni Settanta l’area fosse abitata prevalentemente da persone di nazionalità cilena. Detto ciò si può concludere che nessuno dei due accampamenti abbia una denominazione corretta: né uno è nuovo, né l’altro è americano. La parte residenziale di Chuquicamata era composta quindi da due grandi insediamenti, il Campamento Nuevo e il Campamento Americano, separati da circa due chilometri di distanza: uno destinato agli operai, l’altro ai dirigenti e agli impiegati di più alto rango sociale. L’accampamento americano In quello che era l’accampamento americano, e che oggi non è altro che un accumulo di pietre di dimensioni enormi, le case erano distribuite ai bordi del colle, distanti una dall’altra, non seguivano nessuna distribuzione ordinata ma erano disposte in forma apparentemente capricciosa, seguendo al massimo l’andamento del terreno. Solo in alcuni punti le case si univano per formare gruppi di abitazioni, anche se nel settore di case prefabbricate che fu costruito intorno agli anni Cinquanta per ampliare questo accampamento già si seguiva un maggior ordine. Questo quartiere non presenta nessuna somiglianza con un recinto urbano; non esistevano edifici raggruppati davanti ai quali poi sorgessero le strade e i viali. Le case, sempre distanti una dall’altra, si potevano trovare un po’più su o più giù, in cima ad una piccola collina o nella depressione di una piccola valle. Quasi tutte erano progettate secondo lo stile americano, circondate da un giardino che si differenziava felicemente dai scuri versanti rocciosi. Nella parte più bassa di questo quartiere le case si avvicinavano molto ed in alcuni casi si raggruppavano in file di sei abitazioni conosciute come “tipo C”. Fino agli anni Settanta i due settori dell’accampamento erano separati da una ferrovia proveniente dalla miniera. Sopra la ferrovia, verso la parte più alta, si trovavano le case dei dirigenti, mentre sotto c’erano quelle degli impiegati. Vivere “sopra la linea” fu, per molto tempo, segno di distinzione per classe sociale; coloro che vivevano “sotto la linea” provavano quasi una sorta di invidia nei confronti degli abitanti della parte alta e sognavano di potersi trasferire al settore privilegiato. Di fatto la casa del gerente si trovava nella parte più alta, “sopra la linea”, vicino alla quale poi sorgevano quelle dei soprintendenti, dei supervisori, dei dirigenti e cosi via fino ad arrivare al rango sociale più basso. Una volta rimossa la linea ferroviaria le cose sono leggermente cambiate: nel settore secondario si sono costruite nuove e confortevoli abitazioni destinate al persone di classe sociale alta, che potevano tranquillamente competere con gli abitanti delle case posizionate nella parte più alta. L’accampamento nuovo Le numerose case dell’accampamento nuovo occupano una vasta superficie prevalentemente piana, sebbene non totalmente priva di pendenze. Le case sono quasi tutte opera di un solo costruttore, l’impresa o compañía propietaria, che costruì in tutto il quartiere numerose case prefabbricate senza preoccuparsi troppo dell’aspetto estetico. Applicò lo stesso disegno architettonico ad una moltitudine di residenze, abitazioni tutte uguali che si ripetono per vari metri trasmettendo quasi una sensazione di monotonia; nemmeno il colore, grigio come il terreno circostante, aiutava a superare questa idea. Negli ultimi anni di vita di Chuquicamata, però, iniziò ad opera di privati la costruzione di case diverse che, sebbene stilisticamente riprendessero quasi sempre il disegno delle altre abitazioni, con colori più allegri e vivaci riuscivano ad aggiungere un tocco di allegria al complesso residenziale. In realtà questi progetti nuovi e più recenti sono solo la dimostrazione di come, col tempo, i problemi di estetica siano diventati più importanti all’interno della progettazione; lo scopo non era più realizzare una costruzione funzionale ed economica, ma un’abitazione confortevole nella sua semplicità. A questo bisogna aggiungere la volontà di migliorare il quartiere, che era già stata manifestata con le decisioni di demolire e sostituire alcune case “inadeguate” per antichità e per carenza di servizi con abitazioni più comode e confortevoli. Gli abitanti di Chuquicamata, sia quelli dell’accampamento americano sia quelli dell’accampamento nuovo, non possedevano le loro abitazioni ma si limitavano semplicemente ad abitarle, senza essere né proprietari né affittuari. Le case erano “prestate” dall’impresa durante gli anni di servizio dei lavoratori; una volta terminato il contratto, il lavoratore e la sua famiglia dovevano abbandonare la casa già destinata ad un altro lavoratore ed alla sua famiglia. Per molti anni le strade dell’accampamento nuovo erano prive di un nome e per identificare i domicili degli abitanti si indicava il nome del quartiere, la lettera della strada corrispondente e la numerazione corrispondente ad ogni casa (ad esempio il signor Juan Peréz viveva a Los Adobes, H-150). L’anonimato delle strade cessò quando il generale don Guillermo Aldana assunse il comando di Capo di Benestare dell’accampamento nuovo e diede alle vie principali i nomi ispirati ai personaggi storici militari e alle battaglie più importanti del Paese. Le strade erano quasi tutte asfaltate e con pavimentazione; la più importante e più trafficata era la via del Commercio, con una pendenza abbastanza pronunciata e con una estensione di circa cinque o sei isolati. Intorno ad essa c’erano – e tuttora sono presenti perché appartenenti al perimetro di ciò che è stato dichiarato patrimonio industriale – numerosi edifici commerciali, alcuni dei quali raggiungono un’altezza di tre o quattro piani, che ospitano banche, negozi ed attività commerciali di ogni tipo. La pendenza delle strade è la chiara dimostrazione che l’impresa, a differenza degli spagnoli che fondarono le altre città, non ebbe la possibilità di cercare un sito ideale dove insediarsi; la grande miniera di rame era li, vicino alla Cordigliera delle Ande, e lì si doveva costruire il paese, sia che ci fosse pendenza, spaccature o altre caratteristiche naturali del terreno che potessero essere considerate un ostacolo. I commercianti stabilitisi nella Via del Commercio erano proprietari degli edifici, ma non del terreno su cui il loro edificio sorgeva, sempre rimasto del fisco, anche se l’impresa, in virtù del servizio minerario svolto a Chuquicamata, godeva del diritto esclusivo di occuparlo. I commercianti ottennero le autorizzazioni per costruire i loro edifici, necessari o comunque utili alla popolazione e alle loro necessità; le loro attività si possono considerare complementari all’attività estrattiva mineraria, nel senso che hanno permesso la permanenza che i lavoratori con le loro famiglie si potessero insediare ai piedi della miniera. 3.6. La forma della residenza Il tema delle abitazioni nelle città del rame è complementare alla problematica urbana delle stesse. Sono due fatti che, in qualche modo, sembrano essere dipendenti l’uno dall’altro: a differenza degli altri insediamenti urbani in questi casi la pianificazione urbanistica si sviluppò insieme ad alcune tipologie edificatorie pensate appositamente per essere localizzate nella stessa trama urbana. Il fatto urbano è dunque determinato dalla localizzazione della infrastruttura abitativa nel territorio, apparendo così più un risultato che un fatto pianificato. Ecco perché all’interno di uno stesso accampamento si possono incontrare tipologie edilizie tanto differenti; ma, sebbene ogni accampamento abbia le sue caratteristiche ed il discorso non può essere generalizzato, è possibile riscontrare alcune invarianti, o meglio costanti che si sono ripetute nel tempo e che sono rispettivamente la omogeneità e la uniformità morfologica. Dagli inizi delle company town fino ad oggi, il tema delle abitazioni nei centri abitati minerari è dominato dalla uniformità. È l’uniformità che rende questi enormi centri apparentemente ordinati ed organizzati; la company town stessa per definizione parte dall’idea che data un’unità sia possibile realizzare, attraverso la sua ripetizione sequenziale, un quartiere completo con caratteristiche morfologiche definite. Questa uniformità obbedisce a propositi principalmente funzionali, che però consentono una nuova chiave di lettura: è molto più facile imporre un monopolio se la mappa precede il territorio, ovvero se la città dalla sua creazione e durante tutta la sua storia è solo “una mera proiezione della mappa sullo spazio”11. Una conoscenza cartografica esatta permette un chiaro dominio degli elementi e del territorio cartografato. Quando furono fondate le prime company town, negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione industriale, il principio che si cercò di seguire fu proprio questo: trasmettere le qualità della planimetria alla realtà. Ma di quali qualità si parla? Ordine, regolarità, uniformità e omogeneità sono gli elementi che si precisano in una città industriale: il piano non è solo un layout urbano, nella company town (o città industriale) il piano 11 Zygmunt Bauman, La Globalización, Consecuencias Humanas. è la legge. Ciò che appare nel piano si costruisce e si tenta di mantenerlo della stessa forma, a meno che non venga modificato il piano stesso. A differenza delle abitazioni comuni, che una volta progettate dall’architetto sono comunque passibili di modifiche ideate dal proprietario o da chi per lui, nell’edilizia dei centri minerari questa libertà non esiste. Lo schematismo di cui potrebbero essere accusate le soluzioni abitative di molti accampamenti non è altro che il prodotto di questa spazializzazione industriale; in questi, come in nessun altro caso, l’edificio dipende dalla planimetria e dal progetto dell’edificio stesso il quale, a sua volta, dipende principalmente da due fattori: il primo è il proprietario che continua ad essere colui che ha fatto costruire la residenza, cioè non sono ammessi cambi, vendite o affitti; la pertinenza è sempre la stessa, chi la costruisce la può distruggere; il secondo è individuabile nella stretta relazione che esiste tra cartografia e territorio in scala, da una parte, e planimetria ed edificio dall’altra. Si tratta quasi di una sorta di controllo urbano; in questo niente sfugge dalla pianificazione e dagli obiettivi che richiede e impone l’estrazione del minerale. Secondo la definizione di company town, il termine company si riferisce alla parte industriale mentre quello town alla parte urbana. Considerando la denominazione da una prospettiva industriale, si direbbe che la parte più importante nella realizzazione delle città operaie sia quella industriale e che, l’aspetto town sia solo un complemento necessario al complesso industriale, fatto questo che le ha concesso una più ampia libertà progettuale impensabile per gli edifici industriali e che ha generato una ricca varietà di tipologie di abitazioni, dalla abitazione isolata all’hotel minerario. Si è già avuto modo di vedere che nella storia della miniera del rame, i relativi insediamenti umani furono fondati in relazione a quest’attività non furono altro che il riflesso delle diverse condizioni geografiche, storiche, sociali e culturali dell’epoca in cui si costruirono. È per questo che risultano tanto interessanti da studiare: nelle loro condizioni di abitazioni costruite in accampamenti ex novo si convertirono in creativi laboratori architettonici, nei quali le imprese minerarie plasmarono, dai loro sogni urbani più ambiziosi, nuove forme e tecniche costruttive che ottimizzarono le condizioni di abitabilità in climi estremi. Nonostante l’ampia varietà di esempi, si possono individuare due soluzioni architettoniche maggiormente significative rispetto alle altre: il camarote o nave di abitazioni e l’abitazione unifamiliare. Il camarote, la cui traduzione letterale è cabina, costituisce una delle tipologie più antiche nella storia delle città del rame in Cile. Il nome indica l’edificio destinato alle abitazioni collettive dei lavoratori; può essere di uno o di più piani e la sua morfologia è caratterizzata da un sistema costruttivo particolare che è quello del balloon frame. La semplicità delle sue piante obbedisce al sistema costruttivo, nel quale i divisori interni in legno hanno anche un ruolo strutturale perché sono collaboranti con gli elementi di sostegno, e quindi il numero delle partizioni interne diventa importante per garantire all’edificio e alla struttura le necessarie caratteristiche antisismiche. La superficie dell’edificio lavora con lo stesso sistema, per cui le aperture risultano controllate e si affacciano direttamente nello strato di legno che forma i piani più esterni. Ne risulta una volumetria semplice e ordinata con cui, al massimo, si può giocare con la distribuzione dei vari edifici. La tipologia del camarote si trova, come eco del passato, nella più recente tipologia edificatoria dell’hotel minerario, risultando sostanzialmente migliorato in numerosi aspetti. In questo caso l’unità delle abitazioni è stata denominata wing e i suoi miglioramenti riguardano principalmente l’abitabilità: questi recinti risultano perfettamente adatti alla funzione residenziale transitoria ed infatti nacquero per essere utilizzati dai lavoratori solo nei giorni di turno. I nuovi edifici hanno un bagno per abitazione, mentre i più antichi camarotes presentavano dei nuclei di bagno per piano. Anche il sistema costruttivo degli hotel è diverso: non più il balloon frame ma unità edificatorie con moduli strutturali di dimensioni adeguate al trasporto. Diverso è anche l’aspetto esteriore dei nuovi edifici, soprattutto perché differenti sono i materiali impiegati (il metallo ha sostituito il legno). È migliorata l’illuminazione, grazie all’uso di lucernari e abbaini che si sono aggiunti nelle coperture e che migliorano la qualità della vita. All’interno un’importante innovazione è costituita dai luoghi di incontro, anticamente inesistenti, che oggi costituiscono un importante punto di ritrovo dentro e fuori le ore del lavoro. La abitazione unifamiliare è una categoria residenziale all’interno della quale si possono riscontrare numerose varietà; nasce infatti destinata a dirigenti, tecnici, impiegati e persino operai, ciascun rango sociale con le sue diversità. I vari tipi sviluppati sono diversi uno dall’altro e vanno dalla casa inglese stile cottage (ad esempio la Casa 2000 di Chuquicamata dove risiedeva la famiglia Guggenheim), alle case più semplici composte solo da due ambienti per gli operai di classe sociale più bassa. Anche la disposizione non è fissa, ma varia in base alle circostanze: si va dalle unità isolate generalmente destinate ai dirigenti, alle case abbinate o in fila destinate rispettivamente agli impiegati ed agli operai. Queste unità si adattano alla topografia ed alla struttura urbana per le quali furono pensate, raggruppate in complessi con una certa autonomia e formando anche dei piccoli quartierini o borghi. A Chuquicamata, sia nell’accampamento americano, sia in quello nuovo, esistevano case per famiglie o locali abitativi per persone non sposate; questi ultimi tipi di residenza, generalmente conosciuti come staffs, ospitavano gli impiegati, mentre i buques erano i locali residenziali per gli operai non sposati. Il quartiere dei buques si trova nell’accampamento nuovo ed ogni locale è stato battezzato con un nome di una nave della marina mercantile cilena (Maipo, Aconcagua, Bio-Bio ecc), proprio perché il termine in spagnolo indica quelle navigazioni in cui generalmente viaggiavano solo uomini non sposati. 3.7. Chuquicamata: l’evoluzione nel tempo e la descrizione dei villaggi più importanti. Risulta interessante a questo punto, al fine di approfondire la conoscenza dell’intero complesso residenziale, indirizzare l’analisi alle residenze ed alle varie poblaciones che costituivano il centro abitato. Un percorso attraverso la storia delle residenze e del tracciato urbano, testimonianza di un’evoluzione territoriale e di un’appropriazione degli spazi che oggi va scomparendo, ritornando alla sua origine: la terra. L’ufficio “Welfare Departament” era quello incaricato di dare domicilio a tutti gli impiegati e operai dipendenti dell’impresa. Il personale del dipartimento constava di Yankee e Cileni, tutti organizzati da un nordamericano. Gli accampamenti si trovavano al di fuori dell’area degli impianti (completamente isolata da una chiusura di 12 piedi di altezza, che conta due grandi porte: una per l’ingresso e l’uscita dei treni e l’altra per l’entrata e l’uscita dei camion e delle auto; ci sono inoltre altre sei porte per l’entrata e l’uscita dei lavoratori). È importante conoscere la realtà che costruì Chuquicamata: le differenze imposte dai nordamericani, ovvero il problema di classe, si manifestarono non solo con gli agi e i lussi di cui i dirigenti statunitensi godevano quotidianamente, ma anche con il Classismo che già dai disegni architettonici e urbanistici (in quel tempo richiesti dai capi della Chilex, smisuratamente preoccupati a separare le loro origini da quelle degli indios) rendevano evidente il diverso rango sociale di appartenenza. Le case abitate dei dirigenti erano di tipo coloniale, con materiali importati e una costruzione imponente copia dei possidenti degli Stati Uniti, mentre quelle in cui vivevano gli operai erano più modeste, di legno e cemento con piccole stanze e i bagni erano in comune. Vivevano cioè due mondi diversi nello stesso posto. 1915: l’accampamento americano. Conosciuto anche come accampamento vecchio, qui la struttura piramidale si manifestava nel disegno urbano che ricordava il modello della città giardino. Si trova nella parte superiore (lato nord) della linea ferroviaria; si caratterizza per la presenza dell’ospedale vecchio nell’estremo sud-orientale, e della casa del primario nella parte sudoccidentale, insieme al campo da tennis e al Chilex club. Al sud del club, quattro blocchi destinati al personale esecutivo non sposato ed un altro complesso per i single dei comandanti medi. Al sud, la casa degli ospiti. Nell’estremo sudovest l’isolato destinato agli uffici generali (che ancora permane) e al nord di questo isolato dodici blocchi di bungalow organizzati in due file da sei. Il sistema di edificazione è discendente e le case si dispongono in forma libera per proteggersi dalle inclemenze del colle. Non esistono spazi pubblici, la vita collettiva si sviluppava all’interno degli edifici. Nel 1915 questo quartiere è stato conformato dalla Casa 2000 o “General Manager’s House”, la casa del suo assistente e la “Reduction Manager”. Verso il basso, un complesso di sei ampi blocchi destinati ai blancos casados (“bianchi sposati, ovvero alle famiglie americane). Tra questi blocchi residenziali vi era la Casa 2000, le abitazioni del capo contabile. Casa 2000 Al sud della linea ferroviaria si trova la fichera o traffic office. Verso il lato sudovest del quartiere dei carabinieri esiste una pianura utilizzata inizialmente come campo di equitazione dai carabinieri, poi come campo di calcio e negli anni Ottanta sostituita da un complesso di edifici abitativi per il personale dei carabinieri. Comunicante con questo spiazzo pianeggiante esiste una linea del treno ed una strada; all’incrocio di entrambe le vie si produce un colle che divide il villaggio in due sezioni, quella sud e quella nord, con un gruppo di case all’interno degli impianti installati. La linea della ferrovia continua in direzione ovest (cioè verso il campamento nuevo) verso la stazione di quello che sarebbe diventata la Pulperia 2. “Salire” all’americano risultò complicato fino agli anni Cinquanta per la presenza delle pietre e l’assenza delle strade. Solo col dirigente Charles Brinkerhoff si asfaltò il quartiere che perdette cosi la sua caratteristica terrosa. Di fronte alla Fondazione del rame, nel tragitto verso il Campamento Nuevo, si trovano 25 “cabine” per operai single (costruite nel 1916). Inizialmente il pavimento di queste abitazioni era costituito dallo stesso suolo e solo in seguito si collocarono ghiaia e catrame; le pareti erano di calaminas inchiodate ad una struttura di legno attraverso cui penetrava l’aria. Ogni cabina (4x 10 m.) era abitata da sedici operai che soffrivano, oltre al vivere in condizioni minime, gli effetti dei fumi della fusione del rame. Gli accampamenti operai di questo settore sono: • Accampamento “I 400” per uomini sposati. Costruito nel 1914 a circa 50m dalla casa degli acidi e a 300m dall’impianto di fondazione del rame, fu conosciuto come la “popolazione dei carabinieri”, appellativo solo parzialmente corretto dato che una parte della popolazione era operaia, mentre l’altra erano carabinieri. L’accampamento conta otto blocchi, ciascuno formato da otto case ed ogni casa formata da due stanze(4.5x4.5 m.; 4.5x3 m.) e una cucina (3x3 m.). La costruzione era di calamina e copertura in legno con corralillos d’alluminio (nel giardino). Dal 1920 l’accampamento fu dotato di un impianto di evacuazione per le acque reflue e un servizio igienico internamente separato: una parte per le donne e una parte per gli uomini. Nel 1920 le case erano abitate dagli impiegati che lavoravano negli uffici vicino ma nel 1921 questi operai furono trasferiti nelle case del “Campamento Nuevo” e nel 1923 fu approvato un ordine affinché le case venissero riabitate, però questa volta dagli operai arrivati da Santiago. • Accampamento “I 300”. Costruito nel 1914, separato dall’accampamento dei 400 dalla linea del treno, è situato a 300m. dall’impianto di fusione e a 150m dalla casa dell’acido, per cui l’accampamento soffre degli effetti dei fumi. Le case sono di latta con copertura in legno, due stanze, una cucina e un piccolo giardino. I servizi igienici e il bagno erano in comune. Le costruzioni furono migliorate nel 1922 con la disposizione di pavimenti in legno ed un aspetto più gradevole dovuto ai nuovi colori utilizzati. Era organizzato in otto blocchi, ogni blocco composto da otto case. Affianco all’accampamento si trovava l’edificio Istituto Chileno Norteamericano de Cultura, un teatro e gli uffici degli impiegati. • Accampamento “I 700”. Il lato ovest dell’accampamento dei 300 era limitato da una zolla di terra confinante con due file di case a posto di fronte ad altre due file di case. Il colle era stato tagliato per permettere il passaggio della linea ferroviaria. • Accampamento “I 500”. In direzione dell’accampamento nuovo, in un colle con una forte pendenza, si trova di fronte alla Maestranza Nueva e a 120 m. dalla fondazione del rame e a 300 m. dagli accampamenti “I 300” e “I 400”. Le costruzioni erano di calamina con una struttura interna di legno. In questo settore anticamente esisteva la “città persa” conosciuta per la sua pericolosità: “lotto di piccole case realizzate in calamina al cui interno, nei bui e stretti spazi, potevano vivere fino a quindici operai..”. Gli accampamenti 300, 400 e 500 furono chiamati dalla Chile Exploration Company “accampamenti popolari”. Nel 1915 il limite di Chuquicamata era costituito dall’ufficio della guardia speciale, una casa situata al sud della linea ferroviaria successivamente sostituita dalla bassa rotonda dell’ospedale Roy H. Glover. Chuquicamata nel 1920: l’accampamento continuava ad essere diviso dalla linea ferroviaria; nel settore “sopra la linea”si trovavano le case dei dirigenti, dei loro assistenti, dei soprintendenti, supervisori ecc.; proseguendo progressivamente verso il basso si abbassava anche la classe sociale che vi abitava. Vivere nel settore “sopra la linea del treno” era segno di appartenere ad una buona categoria sociale. Nell’altro settore, quello “sotto la linea” invece si trovavano i gruppi residenziali come le Case ford, i tipi C e altri. LA CASA 2000 in stile “ranch” neoclassico Casa 2000 nell’accampemnto americano. Nella parte più alta, la prima residenza del dirigente, con grandi finestre di tipo coloniale americano, costruita con pilastri di legno, l’interno era stato realizzato con lo stesso materiale. All’interno si trovava una grande stanza con un camino, una grande cucina e diverse stanze: le camere da letto erano cinque, di cui due per il personale, ed era circondata da grandi REPLICA DE LA CASA 2000, trasferita al nord della Villa Auka-Huasi. Il quartiere americano esecutivo. La parte alta dell’accampamento americano si caratterizzava anche per la presenza, oltre alla Casa 2000 o casa del Gerente, verso sud della Casa 1800 (dell’assistente manager), la Casa 1701 (del direttore) e la Casa 1600 per gli ospiti vip. L’idea di costruire nella parte alta della montagna, dimostra la forte volontà di marcare e stabilire una gerarchia di superiorità rispetto agli altri livelli ovviamente inferiori (vice dirigenti, capi di reparto e, ovviamente, operai). Le costruzioni erano solide, con un giardino interno ed uno esterno e degli ornamenti metallici che ne definivano i caratteri. Vicino alle case si trova un campo da tennis, lo sport delle classi sociali più alte. La struttura urbana ricorda quella delle città giardino con alcune proposte paesaggistiche, come ad esempio l’uso di alcune specie vegetali quali il pepe e le palme cilene – per citarne alcune; non esisteva un’organizzazione basata su rigidi blocchi, le costruzioni si differenziavano per il loro orientamento libero, il loro adattamento alla topografia, proteggendosi in questo modo dalle condizioni climatiche estreme del sito e dai venti. Questo livello gerarchico, il più Le case per i sub- alto, nasce con quaranta case al lato nord della linea del treno. dirigenti presentavano uno stile simile a quelle dei dirigenti, solo con dimensioni Continuando ordine la decrescente, costruzione case in per delle le i soprintendenti è del Costruirono altri tipi di case, destinate ai vari capi dirigenti nordamericani, ciascuna in accordo al proprio rango: • Large B • Detached A-B • Ford A Infine alcune case di piccole dimensioni per gli ingegneri che si recavano a Chuquicamata temporaneamente per prestare servizio all’impresa. Quartiere americano Nel lato sud del percorso della linea ferroviaria si trova il settore americano, organizzato per isolati. Si tratta di centocinquanta abitazioni individuali o duplex; in sei punti sono state disposti gli edifici ad uso collettivo più significativi: Chilex club; Rancho americano; Scuola americana; Ospedale antico Uffici generali (nucleo amministrativo dell’impreso) Social club Al lato ovest dell’ospedale si trova la casa del primario e degli infermieri; al lato ovest de los ranchos (dieci pezzi destinati principalmente ai caposquadra americani) si trovano gli staff. A nordovest del social club si trova la casa per gli ospiti famosi. • Lo staff. Destinato alle famiglie degli impiegati ed agli impiegati single, comprende sette blocchi di venti isolati ciascuno, con superfici fino a dieci metri quadri. Non vi vivevano più di due persone (meccanici, carpentieri, elettricisti, maggiordomi ecc.) ed ogni stanza era arredata e comprendeva: due letti dotati di biancheria, un comò, un armadio, un lavandino, un tavolo, due sedie, un tappeto, una stufa, luce elettrica, bagni dotati di sanitari e forniti di acqua calda e fredda. Negli ultimi tempi l’impresa mise a disposizione camerieri che si occupavano delle faccende domestiche e cambiavano settimanalmente la biancheria del letto. Queste costruzioni si trovavano nei dintorni del Chilex club e le stanze si affacciavano a dei corridoi utilizzati per passeggiare nelle ore di riposo. • Gli uffici generali. Qui si trovano le finanze, la contabilità meccanizzata, i contratti dell’impresa ecc. Nell’area si trovano anche le poste americane con un ufficio telegrafico, il Saftey First (che tradotto significa “la sicurezza innanzi tutto”), gli uffici legali, gli uffici di ingegneria, gli uffici delle relazioni industriali, i laboratori, i costruttori funzionali dell’impresa, gli uffici delle case ecc. Gli uffici generali, conosciuti come gerencia general, avevano l’ingresso principale nella porta n. 1che individuava ilconfine con l’area mineraria e gli impianti industriali. Negli anni Settanta si costruirono nuovi uffici e una casa di piccole dimensioni che gli americani chiamavano ramada essendo prossima agli uffici per le pubbliche relazioni. • Blocchi di case di tipo C. Destinati alle famiglie degli impiegati, furono costruite nel 1915 davanti al mercato generale chilex n.1. sono costituite da quattro blocchi di dieci case ciascuno; la realizzazione di ogni blocco, in uno spazio in mezzo ai terreni incolti, generò la formazione di tre passaggi e di una sorta di corridoio con pareti di adobe. Ogni casa era composta da una sala da pranzo (4 mq), una camera da letto (4 mq) e una cucina (4 mq), una dispensa ed un bagno (2x4 m.), un cortile interno (2.5x4 m.) e servizi igienici (1.5x4 m.). Lo stesso tipo di abitazioni furono costruite nell’accampamento nuovo, essendo le uniche dotate di luce elettrica. Altri appartamenti di tipo C si costruirono nel settore sud in sostituzione delle case isolate realizzate per single; tra queste si trovava il Galpón Lusitania. • Il blocco Lusitania. Si tratta di una serie di costruzioni allineate, internamente realizzate in legno, destinate a impiegati e operi single. Il blocco consiste in venti case (dieci per lato) che ospitavano ottanta persone, cioè in ogni casa vivevano quattro lavoratori. Ogni abitazione era dotata degli arredi minimi: quattro letti, quattro materassi, la biancheria per il letto, un tavolo, un lavandino ed un guardaroba. Al centro del blocco c’era un bagno e due lavandini per l’igiene quotidiana degli abitanti. Intorno al Lusitania esistevano quattro blocchi di isolati che erano stati trasferiti dalla miniera nel 1922, con una capacità per 60 o 48 persone. Di fronte a questi c’erano otto isolati (successivamente trasformati) con un pavimento in ghiaia in grado di accogliere fino a 16 persone (per blocco). I minatori soffrirono gli imminenti effetti del fumo della casa degli acidi, effetti che causarono soffocamenti e attacchi di cuore. Dopo gli anni Sessanta il settore fu ricostruito con file di case a due piani conosciute come i duplex dell’americano. • Accampamento Ford. Situato nell’accampamento vecchio è forse l’accampamento migliore nel suo genere. La maggior parte delle costruzioni sono in adobe e cemento, ogni stanza riceve luce naturale e ventilazione diretta perché dotata di una finestra. Inoltre ogni casa (8x15 m.) possiede un soggiorno, una sala da pranzo, una camera da letto matrimoniale, un bagno con acqua calda e fredda, una stanza da letto per i bambini, una camera per la servitù, la cucina e un patio. L’accampamento era dotato di luce elettrica (gli impianti e le installazioni furono realizzati nel perimetro dell’accampamento stesso) ed era destinato esclusivamente a nordamericani sposati. Campamento nuevo La struttura urbana dell’accampamento nuovo segue una rigida trama ortogonale imposta nel terreno. La popolazione viveva intorno allo spazio centrale che diventò centro della vita collettiva, tanto da essere considerato il vero centro di Chuquicamata. Era costituito da diversi blocchi residenziali, tra i quali: • Campamento de latas. Si tratta del quartiere più antico, di dimensioni notevoli (400x200 m.), con la maggiore densità. Poiché presentava le peggiori condizioni igieniche e qualitative delle residenze, era conosciuto come “pueblo (o campamento) boliviano”. La bassa qualità delle abitazioni del tipo latas riguardava soprattutto la loro costruzione tecnica e i materiali utilizzati: erano case erette su pilastri in legno ricoperti da uno strato di cemento granulato; furono sostituite da vecchie abitazioni di calamina che internamente caratterizzava gli ambienti con un aspetto macrabo. L’estensione dell’area dell’accampamento era limitata a ovest dall’ufficio di pagamento, verso est dall’accampamento “i 300” e verso sud dal teatro sindacale. Si caratterizzò per non essere incomodo e totalmente privo di agi: le case duplex erano separate da sottili divisori che consentivano l’intrusione dei vicini negli ambienti domestici altrui. Dal punto di vista urbanistico si caratterizzava per essere attraversato da vie strette che dividevano l’accampamento in ogni direzione. Era organizzato in blocchi e duplex, ciascuno dei quali contava quattro camere (3.30 m.). I muri perimetrali erano di adobe esternamente ritoccato da un miscuglio di sabbia e cemento. All’interno le stanze erano divise da calamine e tutti gli ambienti presentavano un pavimento in cemento. Le case erano destinate a coppie sposate e con figli. Altra caratteristica di questa pueblación erano i sanitari e i servizi igienici assolutamente inadeguati (solo quattro water per 4000 abitanti). Ciò rendeva l’accampamento ancora più invivibile; le condizioni igieniche erano rovinate anche dalla mancanza di fognature, per cui ci si liberava delle acque reflue attraverso le vie. A causa delle scarse condizioni igieniche, in quest’accampamento erano frequenti malattie polmonari generate dall’aria insalubre, umida e viziata che gli abitanti erano costretti a respirare. • Accampamento i 600. Situato a 50 m. al nord della linea ferroviaria, era destinato agli uomini di colore, cioè alla popolazione locale che gli americani chiamavano Blackmen o natives. Era costituito da dodici blocchi di otto case; alcune case avevano due stanze (4.5 mq) e una vecchia cucina, tutte costruite interamente in legno al quale si applicava uno strato di stucco. Non esisteva pavimentazione. Le case non furono costruite alla stessa quota del terreno, dunque il vento che soffiava in quello spazio creava una sorta di effetto frigorifero, che causava alla popolazione numerose malattie. Verso nord, con lo stesso disegno urbanistico e lo stesso tipo di abitazioni, si trovava la popolazione Pratt destinata alle famiglie. • Los Buques. Si tratta di veri capannoni di cemento dotati di due letti a castello; possedevano doccia, acqua calda e fredda ed elettricità, tutti servizi che gli abitanti, per di più single, dovevano condividere. Erano individuati da nomi di navi cilene nelle quali viaggiavano prevalentemente uomini non sposati (ad esempio Aconcagua, Bío-Bío, Chiloé). Si tratta di abitazioni allineate al cui centro era stato disposto un bagno ed una doccia; in ogni estremo si trovava una porta sempre aperta per la circolazione dell’aria. Divennero famosi per le condizioni di vita degli operai che vi abitavano: spesso venivano invitate “donne dall’amore tariffato”, per cui si diffusero molte malattie veneree tra cui la sifilide. • Lo staff A. A differenza de los boques queste abitazioni presentavano una costruzione solida destinata alle famiglie; si trovavano al lato sud della linea ferroviaria e paralleli all’entrata dell’accampamento nuovo. Esattamente come quella de los boques la loro architettura era funzionale. • Accampamento los adobes. Si tratta di un accampamento del 1918 che parte dal lato sud del mercato generale (porta n. 2) e arriva fino alla via del club operaio, mentre verso ovest si estende dallo stadio Anaconda al mercato nuovo. Era organizzato in blocchi residenziali di adobe, ogni blocco composto da dieci case, ciascuna formata da due camere. Negli anni Sessanta furono ampliati con la costruzione di una cucina, un bagno ed un giardino esterno. Con la scossa di terremoto del 1918 il campamento diventò inagibile e nel 1922 si iniziò la ricostruzione; il metodo di lavoro consisteva nel non demolire totalmente le pareti ma nel conservare i muri di 1.5 m. di altezza sopra i quali si collocò cemento armato rinforzato con un altro strato di cemento interno ed uno esterno. Successivamente si costruirono altri nuovi venti blocchi realizzati però con sabbia, ghiaia e cemento. Strade della población Los Adobe, 2000 Población los adobes. • CAMPAMENTO O PUEBLO HUNDIDO. Costruito nel 1920, è il villaggio più ritirato rispetto agli impianti industriali e alla linea ferroviaria. Il materiale usato nella costruzione fu l’adobe con cemento; le case presentavano pilastri di legno e una copertura composta da uno strato di cemento granulato, mattoni e legno. Il campamento si estendeva dalla via del club operaio verso nord, fino all’estremo sud del Chuqui antico, quando ancora non si era costituito il campo da baseball, né quello da calcio o la pista di atletica nel settore sudes, attualmente prossimo ai colli di materiale di scarto. L’accampamento possiede tre sanitari e due bagni pubblici con acqua calda e fredda. Non aveva la fogna, per cui le acque reflue si evacuavano per strada, compromettendo l’ambiente e la salute di chi vi abitava. Abitato principalmente abitato dalle famiglie di operai, era strutturato in sedici blocchi, ciascuno composto da nove case; la distribuzione planimetrica riprendeva il modello nordamericano delle case Ford. Possedevano due camere, una cucina, un bagno, una dispensa, un patio e un portico d’entrata. Col tempo l’organizzazione si semplificò notevolmente, fino ad arrivare a tre dormitori e una cucina o, in alternativa, due dormitori e un patio chiuso. Inoltre col passare degli anni, le abitazioni furono soggette a modificazioni o aggiunte realizzate dagli stessi abitanti in base alle loro esigenze. Pratica diffusa fu disporre nel giardino elementi, naturali o artificiali, che chiudessero l’ambiente garantendo in questo modo la privacy. Negli anni Sessanta si crearono campi da calcio perché fu in quel periodo che lo sport iniziò a diffondersi e lo stadio Anaconda risultò non più sufficiente. Tutti gli accampamenti costruiti prima degli anni Sessanta avevano un certo numero di corridoi con servizi igienici pubblici. I servizi igienici pubblici consistevano in due stanze, una per le donne e una per gli uomini; lungo ogni barrancón correva un basso muro di cemento, leggermente separato dalla parete divisoria. Il muro basso aveva divisioni metalliche verticali che definivano gli spazi in cubicoli con porte inclinate; chi usava il bagno doveva salire sul muro. Una corrente intermittente di acqua liberava il canale ogni tanto. L’acqua proveniva da un tamburo che esisteva nel tetto della stanza sopra un asse, ed aveva il compito di svuotare meccanicamente l’acqua in eccesso. Agli angoli dei corridoi si trovavano cassonetti per l’immondezza e container metallici dotati di elementi, simili a orecchie, necessari per essere svuotati dai camion. Chuquicamata nel 1970. Il campamento americano Rimossa la linea ferroviaria, scomparsa la categoria sociale più alta e le altre divisioni, si costruirono nuove case nel settore sud del passaggio a livello. Le case furono realizzate con la stessa tipologia di quelle che esistevano nel settore alto, cioè case isolate con giardini. Non erano organizzate in blocchi ma disposte distanti una dall’altra – scelta che rese possibile la privacy degli abitanti – e si adattavano alla topografia secondo i capricci del terreno. In realtà si formarono anche dei gruppi di abitazioni doppie, che crearono una maggiore regolarità nel settore delle case prefabbricate che furono poi ampliate nel 1950. L’accampamento non presenta un disegno urbano preciso, a causa della mancanza di costruzioni–tipo che conformassero le strade secondo un modello definito. Gli spazi erano individuati da recinti, come ad esempio avvenne per il Chilex club e il Social club. Nella parte bassa le case potevano essere realizzate in file di sei abitazioni, come nel tipo C. Nella parte alta, invece, le case erano circondate da giardini e non esistevano strade: i camion potevano circolare liberamente fino a raggiungere gli edifici. Il campamento nuevo La costruzione dei primi accampamenti, tutti simili uno all’altro, generò monotonia a causa soprattutto dell’uso costante dello stesso colore: il grigio. Già dagli anni Trenta, però, le cose cambiarono e gli accampamenti iniziarono a presentare costruzioni colorate. L’unità residenziale era il blocco, ovvero file di 5 o 6 case i cui prospetti, interni ed esterni, formavano linee parallele ed avevano accesso diretto alle strade su cui si affacciavano. Ogni fila di casa aveva lo stesso orientamento geografico e l’accesso avveniva attraverso una porta di servizi comuni nella facciata principale, e attraverso un patio sul retro. Questo settore chuquicamatino si caratterizza dunque per il suo particolare tracciato e raggruppamento di abitazioni. I distinti accampamenti obbediscono ad un ordine, quasi sempre orientato nella direzione est–ovest, a eccezione de las normac, che costituì il primo cambiamento nell’ordine tradizionale dell’accampamento. Las normac. Inaugurate nel 1953, queste case erano destinate al personale dell’impresa nordamericana Folley Brothers Construction, successivamente occupate dal personale cileno specializzato (elettricisti, metallurgici ecc.). Fu battezzato con il nome di popolazione O’Higgins. Le sue strade furono le prime ad avere un nome in tutta Chuquicamata e si caratterizzava per la forma, felicemente adattata alla topografia. Le case, in tutto 544, erano organizzate nel seguente modo: • 250 case composte da un dormitorio, un soggiorno – sala da pranzo, una cucina e un bagno. • 140 case con due dormitori. • 92 case con tre dormitori. • 62 con quattro dormitori. 4. La proposta di intervento Il progetto riguarda uno stabile di Chuquicamata, più precisamente un edificio anticamente adibito a collegio maschile ed attualmente interessato dagli interventi di recupero e preservazione perché dichiarato appartenente ai Beni del Patrimonio Industriale. Dalle antiche planimetrie dell’area e dell’edificio stesso, si è potuti risalire all’anno di costruzione dell’organismo architettonico, il 1917, mentre invece non ci sono fonti riguardo il suo autore; si può solo supporre che, essendo in quel periodo l’intera attività estrattiva gestita dall’impresa dei fratelli Guggenheim il progettista fosse di nazionalità nordamericana e non cilena. Originariamente l’edificio era completamente utilizzato per la funzione scolastica ed educativa, mentre lo spazio all’aperto era utilizzato per le attività ginniche e sportive nelle ore scolastiche; attualmente l’edificio, così come tutto il centro urbano di Chuquicamata, è inutilizzato e si presenta in totale stato di abbandono. La posizione privilegiata sulla piazza principale dell’area patrimoniale, le notevoli dimensioni dell’edificio e l’ampio giardino rendono interessante un recupero del fabbricato, che per tutte queste caratteristiche potrebbe ospitare diverse attività. Per la scelta della nuova destinazione d’uso e per gli interventi di recupero da effettuare non si è potuto far riferimento ad un regolamento edilizio o ad uno strumento urbanistico vigente, dato che a partire dal settembre 2007, con l’attuazione del Proyecto Traslado, non esiste più nessuna forma di vita dentro Chuquicamata al di fuori delle attività estrattive e minerarie. 4.1. Descrizione architettonica dello stato attuale, analisi del degrado e recupero architettonico. Nella fase iniziale del progetto, quella del rilievo dello stato attuale, si è analizzato il sistema edilizio, composto dai vari elementi costruttivi collegati tra loro. Successivamente, sempre nella fase di rilievo dello stato di fatto, si è tentato di comprendere le relazioni tra i differenti elementi di fabbrica, cioè l’apparecchiatura costruttiva o struttura. L’edificio si presenta come un organismo unico articolato in due volumi simmetrici e da un ampio giardino. All’interno del giardino sono presenti elementi prefabbricati, probabilmente disposti quando ancora la scuola era in attività con l’idea di ampliare e di organizzare le funzioni. Questi elementi però non si sono considerati durante l’intero progetto perché assolutamente privi di ogni rilevanza architettonica; inoltre il loro stato di conservazione risulta essere compromesso ed il loro recupero non sarebbe interessante ai fini del tema trattato. Nel giardino, oltre tali elementi, si trova anche un campo (poli) sportivo per le cui attività sono stati costruiti dei locali destinati ai servizi ed agli spogliatoi. Anche in questo caso lo stato di conservazione compromesso e la scarsa importanza architettonica degli elementi hanno contribuito notevolmente alla decisione di non considerare gli stessi elementi al fine del progetto. La particolare forma dell’edificio consente di individuare due corpi di fabbrica uguali e simmetrici: si tratta di due parallelepipedi regolari su base rettangolare in cui appaiono evidenti gli interventi di ampliamento che sono stati effettuati negli anni. I due corpi edilizi – inizialmente destinati uno all’insegnamento maschile e l’altro a quello femminile per poi, dopo la costruzione della scuola femminile, essere trasformato interamente in istituto maschile – si affacciano internamente sul giardino ed esternamente sulla via Lord Cocrhane, che a sua volta delimita il perimetro della piazza Arturo Pratt. Si tratta di una posizione privilegiata, prossima alla via del Commercio e centrale rispetto all’intera aera patrimoniale oggetto di conservazione e dunque deve essere sfruttata e valorizzata con l’inserimento di un’attività che sia significativa e rilevante almeno quanto la posizione planimetrica dell’edificio. I due prospetti, sia quello esterno sia quello interno, sono regolari e simmetrici: le aperture sono, per dimensioni, tutte uguali tra loro e disposte simmetricamente. L’uguaglianza e la simmetria sono assolutamente in accordo con l’intero sviluppo architettonico di Chuquicamata e rispecchiano l’architettura che in quegli anni Dieci del Novecento l’impresa nordamericana promuoveva nel villaggio operaio (si pensi che il collegio femminile, situato dalla parte opposta della piazza, come organizzazione spaziale e degli ambienti si presenta assolutamente identico). Non va dimenticato che Chuquicamata nasce in funzione alle attività estrattive e minerarie della zona, cioè con l’obiettivo di rendere possibile e almeno un po’gradevole la vita in quegli spazi, senza alcuna pretesa superiore; la funzionalità è stato dunque il requisito preso in considerazione durante la progettazione e non sicuramente la qualità architettonica o il risultato estetico ottenuto. Il giardino, di ampie dimensioni, è caratterizzato lungo il perimetro da una rete che serve appunto ad individuarne i confini; è articolato su una superficie non piana, su due livelli separati da alcune gradinate e da una serie di lavagne disposte sequenzialmente nella parte di fronte ad un volume dell’edificio, quasi a voler indicare già dall’ingresso la funzione educativa che si svolgeva in quegli spazi. In tutta l’area è presente una leggera vegetazione spontanea dovuta esclusivamente al totale stato di abbandono in cui si trova da alcuni anni l’edificio. Le importanti dimensioni del fabbricato coperto e del giardino, nonché la loro posizione centrale rispetto al perimetro del patrimonio industriale, hanno reso interessante un recupero architettonico di questi spazi e la proposta di una nuova destinazione d’uso, che potesse valorizzare maggiormente sia Chuquicamata, che oggi si ritrova ad essere completamente disabitata, sia l’attività estrattiva che si svolge nella miniera che oggi è interesse di numerosi visitatori. Per studiare l’organizzazione logica dell’intero sistema edilizio si sono dovuti analizzare, nel dettaglio, gli elementi costruttivi, e successivamente quelli di fabbrica, presenti nell’edificio. Tali elementi si possono brevemente riassumere in: – Elementi costruttivi di fondazione; – Chiusura orizzontale di base; – Chiusura orizzontale di copertura; – Chiusure verticali. Gli elementi costruttivi di fondazione Hanno il compito di trasmettere sul terreno le sollecitazioni derivanti dagli elementi sovrastanti. I carichi possono essere permanenti (comprendono il peso della copertura, il peso delle murature, il peso delle chiusure orizzontali presenti nei livelli superiori, il peso dei tramezzi, delle finiture, degli impianti ecc.) o accidentali, detti anche sovraccarichi costruttivi (comprendono i carichi gravanti sulle coperture – definiti da opportune tabelle in relazione alla posizione geografica del sito in cui si trova la costruzione – sui solai, sugli sbalzi ecc. per periodi non definiti temporalmente). Tutti questi carichi devono essere presi in considerazione per il dimensionamento ed il progetto degli elementi costruttivi di fondazione; tuttavia spesso si effettuano delle riduzioni sui carichi agenti, perché si suppone impossibile, o quanto meno improbabile, che tutti i piani di un edificio siano sollecitati contemporaneamente dai massimi sovraccarichi costruttivi previsti dalla normativa – coefficiente di contemporaneità (ψ). I progetti degli edifici più antichi solitamente non presentano tanta accuratezza, soprattutto per gli elementi di fondazione che li compongono; al tempo della costruzione dell’edificio probabilmente non erano ancora molto conosciuti i calcoli e le modalità di dimensionamento dei vari elementi. Inoltre la totale assenza di una legislazione che regolamentasse le costruzioni ha consentito di arrivare ad una situazione in cui non si conoscono né le tecniche costruttive impiegate per le costruzioni, né i materiali scelti, né le motivazioni delle scelte effettuate. Da un’analisi dell’intero sistema edilizio, dall’assenza di dissesti statici nelle chiusure verticali e da un rilievo fotografico si è riusciti ad identificare le fondazioni dell’edificio oggetto di studio come fondazioni continue normali (l’assenza di pilastri e lo spessore delle murature, nonché l’allargamento delle stesse a circa 90 cm. dal pavimento tendono a confermare queste supposizioni) cioè fondazioni superficiali realizzate su terreni resistenti continui e privi d fratture. Questo tipo di fondazione è stato generalmente utilizzato in edifici i cui elementi verticali erano costituiti da sostegni continui – murature – ed il terreno resistente si trovava ad una profondità non superiore a 5÷6 metri. Attualmente risulta un tipo di fondazione superato, sia per l’eccessivo costo della manodopera, sia perché con l’impiego dei nuovi materiali e dei nuovi tipi edilizi si preferisce oggi utilizzare altri tipi di fondazioni, come ad esempio le fondazioni discontinue su elementi isolati (plinti). Esiste comunque una formula empirica utilizzata per calcolare la larghezza della fondazione, anche se esistono dei dubbi sull’effettivo impiego di questa in tempi antichi: S ⋅ l ⋅ σat= p ⋅ l + S ⋅ l ⋅ h ⋅ γ m Dove S = spessore o larghezza o della fondazione; l = lunghezza del tratto di fondazione; σat= carico di sicurezza del terreno; σa= carico di sicurezza della muratura di fondazione; p = carico unitario distribuito; h = altezza della fondazione; γ m = peso specifico della muratura di fondazione. Seguendo ed analizzando questa formula, bisogna precisare che nel caso il carico di sicurezza del terreno fosse maggiore del carico di sicurezza della muratura della fondazione (σat >σa), si dovrebbe comunque considerare il carico di sicurezza maggiore, in modo da ottenere sempre una larghezza della muratura della fondazione maggiore dello spessore della muratura continua fuori terra dell’edificio. Nel caso invece in cui il carico di sicurezza del terreno fosse minore di quello della muratura di fondazione (σat < σa), si dovrebbe scegliere tra tre differenti spessori per la muratura di fondazione. Questo secondo caso corrisponde esattamente al tipo di fondazione utilizzato nell’edificio, in cui gli elementi costruttivi di fondazione sono “a paramenti verticali con successive riseghe”. Questo tipo di fondazione, oggi considerato obsoleto, è molto costoso perché necessita di una lavorazione manuale, e dunque un elevato costo della manodopera, e perché lo scavo per la fondazione deve essere maggiore della larghezza della fondazione stessa. È molto importante che le riseghe siano in rapporto costante r=h/5 affinché non si formino delle lesioni lungo la linea di continuazione della muratura, in prossimità dell’allargamento di essa. Dal rilievo dello stato attuale non è risultato necessario intervenire negli elementi di fondazione, sia perché questi si sono presentati in buono stato di conservazione, sia perché in genere sono dimensionati e costruiti “a favore di sicurezza”, cioè presentano dimensioni maggiori rispetto a quelle necessarie per garantire una maggiore resistenza. Tuttavia, in relazione al cambiamento di destinazione d’uso previsto, si è pensato ad un consolidamento delle fondazioni, più che per necessità per “rinforzo”, cioè per garantire una maggiore sicurezza e solidità di questo elemento costruttivo anche dopo l’attuazione degli interventi previsti per gli altri elementi costruttivi. Il consolidamento/rinforzo si sarebbe potuto effettuare tramite allargamento della base fondale con l’inserimento di una soletta in cemento armato, o tramite l’inserimento di pali o micropali al di sotto della fondazione, o tramite il consolidamento del terreno di fondazione. L’ipotesi di inserire pali o micropali, prefabbricati o gettati in opera in cantiere, sotto la fondazione esistente è stato scartato in considerazione della totale assenza di dissesti statici, della reale motivazione dell’intervento (che si è deciso di attuare come rinforzo della precedente fondazione e non per una reale necessità) ma soprattutto per mantenere una linea di intervento che ha cercato di essere il meno invasiva possibile, nel rispetto dell’edificio, delle tecniche costruttive adoperate per la sua realizzazione e dei materiali impiegati, attribuendo a tutti questi fattori un rilevante valore storico di pregio. Per lo stesso motivo si è scartata l’ipotesi di inserire una soletta in cemento armato per allargare la base fondale, intervento ormai superato per gli alti costi che comporta, considerato l’elevato impiego di manodopera. Si è dunque preferito intervenire consolidando le fondazioni tramite iniezioni di cemento (in polvere, in pasta o malta fluida di sabbia e cemento) nel terreno, in modo da poter limitare l’intervento solo laddove vi sia maggior necessità e di intervenire direttamente sul terreno, migliorandone la resistenza unitaria, senza operare negli elementi di fondazione che si presentano in buone condizioni. Chiusura orizzontale di base La chiusura orizzontale di base ha il compito di separare l’edificio dal terreno sottostante ed è formata sempre da diversi strati, necessari per avere un buon isolamento dell’edificio stesso. Anche per l’identificazione degli strati e degli elementi costituenti la chiusura orizzontale di base si è dovuto lavorare considerando l’intero sistema edilizio, il rilievo fotografico e la presenza di alcuni segni di degrado nella parte inferiore delle chiusure verticali, che hanno lasciato comprendere la presenza e l’assenza di alcuni strati in questo elemento di fabbrica. In particolare, dal rilievo fotografico, è risultato evidente la presenza di un vespaio, che però si suppone non realizzato correttamente (si suppone un vespaio non areato, cioè si ipotizza che all’interno di esso le pietre non siano disposte in modo da creare dei canali di aerazione). Si suppone inoltre non siano presenti strati impermeabili o coibenti, ma solo un battuto di fango realizzato per creare un piano orizzontale utile per una ripartizione uniforme dei carichi e necessario per la stesura di un massetto di calce, a sua volta inserito solo per disporre, al di sopra di esso, il pavimento di cemento pressato. Gli interventi proposti per la chiusura orizzontale di base si estendono anche alle chiusure verticali per la stretta relazione strutturale che i due elementi di fabbrica presentano. Esattamente come avvenuto per le fondazioni, anche nella chiusura orizzontale di base si è cercato di limitare, per quanto fosse possibile, gli interventi, inserendo semplicemente uno strato impermeabile, necessario per bloccare la risalita dell’acqua presente nel sottosuolo, uno strato coibente, necessario per isolare termicamente l’edificio dal terreno sottostante, ed il rifacimento del massetto, necessario dopo l’inserimento dei due nuovi strati orizzontali. Si è deciso di non intervenire nel vespaio, seppur allo stato attuale questo si presentasse senza alcun canale per l’areazione. Tale scelta è dovuta a delle considerazioni di ordine generale che si sono fatte nell’analisi dello stato di fatto e degli interventi; il rifacimento del vespaio avrebbe comportato un notevole aumento del costo dell’intervento, non essendo previsti smantellamenti totali o parziali per il consolidamento delle fondazioni; inoltre si è pensato di bloccare la risalita dell’umidità presente nel sottosuolo con uno sbarramento impermeabile nella muratura, ad un’altezza di 15cm rispetto alla quota del pavimento. La modalità di esecuzione è semplice: si eseguono dei tagli orizzontali, con una carotatrice o con una sega, che vengono riempiti con una resina sintetica (o in alternativa con malta di cemento idrofuga) che interrompendo la muratura, impedisce la risalita dell’acqua. La scelta di inserire nel taglio la resina epossidica si giustifica con la maggiore resistenza di questa alle sollecitazioni di compressione, migliorando in questo modo anche il funzionamento statico delle chiusure verticali. Questo intervento è altamente sconsigliato negli edifici con piani scantinati, per il rischio che le condizioni della muratura, anziché migliorare, possano peggiorare qualora l’acqua penetrata al suo interno, trovando lo sbarramento orizzontale, non riuscisse più ad uscire. La presenza del vespaio nell’edificio, però, consente uno smaltimento dell’umidità e rende l’intervento efficace. Gli studi sull’umidità nelle murature presentano una vasto numero di esempi di interventi attuabili per bloccare la risalita dell’acqua dal sottosuolo (ad esempio i tagli orizzontali con l’inserimento di lastre di vetroresina, gli sbarramenti orizzontali abbinati a quelli verticali, l’impermeabilizzazione o l’impregnazione delle pareti con trattamenti protettivi con resine sintetiche ecc); tuttavia, dopo un’accurata analisi della situazione e della reale situazione non troppo degradata delle chiusure verticali dell’edificio, si è scelto di effettuare uno sbarramento orizzontale impermeabile costituito dall’inserimento di uno strato di resina epossidica all’interno della muratura stessa, che abbinato all’intervento nella chiusura orizzontale di base risulta sicuramente efficace. Chiusura orizzontale di copertura Le chiusure orizzontali di copertura proteggono l’edificio dal sole e dalle intemperie ed hanno il compito di smaltire le acque meteoriche e la neve. Per questi motivi devono necessariamente essere impermeabili, durevoli, ben collegate agli altri elementi costruttivi, termicamente isolanti, incombustibili e leggere. Tutte le coperture, per la loro funzione di smaltimento delle acque meteoriche e della neve, sono sempre costituite da uno o più piani inclinati e a seconda dell’inclinazione si distinguono in coperture a falde e coperture piane (o coperture a terrazza). L’edificio oggetto di studio presenta due diversi tipi di copertura, entrambi a doppie falde inclinate, diversi tra loro perché diversa è l’inclinazione; si tratta dunque di coperture inclinate (i piani inclinati si dicono falde, appunto) e non praticabili. Il tetto a doppia falda è costituito da due piani inclinati, detti appunto falde, la cui intersezione corrisponde alla linea di colmo ed in cui sono presenti due linee di gronda. Tutte le coperture a falde sono costituite da almeno tre parti, anche se in genere sono presenti più strati: 1. la grande armatura, costituita dalla capriate; 2. le travi di colmo; 3. le travi di impluvio o di displuvio; 4. i puntoni e o gli arcarecci; 5. piccola orditura, costituita da listelli, correnti, tavolato ecc. 6. manto impermeabile, che può essere costituito da materiali diversi con differenti forme e dimensioni. Tra le coperture a doppia falda inclinata bisogna distinguere tra: copertura alla romana (o alla lombarda) e copertura con capriata. Lo schema alla romana o alla lombarda (utilizzato nell’edificio) è composto da una serie di arcareccii – cioè di travi orizzontali – che si poggiano su muri trasversali tra loro distanti circa 7 m. Nel corpo evidentemente aggiunto, nella parte che si affaccia sul giardino, è stata utilizzato lo stesso tipo di copertura solo che, cambiando la distanza tra i muri trasversali di sostegno (in questo caso è 9 m.) cambia anche l’inclinazione delle due falde che non sono simmetriche. Chiusure verticali Le chiusure verticali delimitano il perimetro dell’edificio ed hanno il compito di sopportare tutte le sollecitazioni verticali derivanti dagli elementi di fabbrica orizzontali e da quelli in elevazione. Nell’edificio le chiusure verticali sono costituite quasi tutte da una base di elementi di legno cui è stata applicata una rete metallica successivamente rafforzata con calcestruzzo. Si tratta di una tecnica costruttiva particolare in cui si sfruttano le caratteristiche dei tre materiali utilizzati, assolutamente inutilizzata in Italia. Internamente le chiusure verticali sono ricoperte da uno strato di legno intonacato e si presentano apparentemente in buono stato di conservazione; non sono presenti dissesti statici, ma le mancanze in alcune parti hanno reso indispensabili alcuni interventi di consolidamento. Infissi L’edificio presenta gli infissi, interni ed esterni, quasi tutti di legno, con alcune sostituzioni recenti con elementi in metallo. Le finestre sono a due ante girevoli e presentano un robusto telaio con montanti e traversi uniti ad incastro (spessore di circa 10 cm.) e sagomati in modo tale da ottenere un'adeguata battuta. L'attacco del controtelaio alla struttura muraria si ipotizza realizzato con piccole zanche metalliche; i contorni del controtelaio all'esterno sono rivestiti di legno (imbotte), mentre all'interno il giunto fra legno e muratura, ad opera ultimata, è stato coperto da un coprifilo. In generale il telaio della finestra presenta un degrado limitato allo scrostamento delle vernice e ha qualche vetro rotto. L’obiettivo principale, dunque, è stato quello di risolvere il problema legato alla scarsa resistenza agli agenti atmosferici - vento e temperatura - al rumore e alla dispersione di calore. Dall’analisi dell’elemento è risultato che – in generale – l'infisso ha sempre vetri troppo sottili (oppure ne è privo a causa della loro rottura), che consentono la dispersione del calore interno o il surriscaldamento degli ambienti in estate. L'aria esterna riesce a filtrare tra il telaio fisso e quello mobile perché le due parti non hanno giunti di tenuta e le battute sono usurate. Ogni materiale, inoltre, ha orami subito una alterazione dovuta al tempo, che più o meno lentamente ha portato al suo degrado, tanto da non essere più in grado di assolvere alla funzione originale. Poiché non si vogliono modificare i prospetti ma si vuole conservare l’edificio esattamente come è, si propone un recupero degli infissi esistenti, cercando di porre rimedio agli errori progettuali più gravi, che renderebbero inutile qualsiasi altro intervento (davanzale, listello ferma acqua), e ripristinando un adeguato isolamento termico e acustico. A tal fine si è cercata un’azienda specializzata nella sistemazione di vecchi infissi con modifiche da vetro semplice a vetro termico e guarnizioni in acciaio per garantire una perfetta chiusura ermetica ed un ambiente più caldo d'inverno e fresco d'estate. L' installazione viene effettuata direttamente sul posto, senza creare alcun danno. Sull’infisso viene eseguito un trattamento che ripristina la protezione del legno dai fenomeni atmosferici e agenti inquinanti. L’applicazione dei vetri termici avviene tramite la rimozione e la sostituzione dei righelli ferma vetro esistenti con l’inserimento di guarnizioni, vetro termico e nuovo righello ferma vetro. 4.2. Chuquicamata, un patrimonio vivente da collettivizzare. Per le motivazioni già descritte si è deciso di modificare la destinazione d’uso dell’edificio, trasformandolo da collegio maschile (oggi abbandonato) a sede museale e centro di accoglienza dell’intero complesso museografico previsto per l’area industriale. L’intervento di recupero dell’edificio va contestualizzato e considerato sempre in relazione all’area oggetto di preservazione in quanto dichiarata bene del patrimonio industriale. L’edificio di per sé, infatti, possiede interessanti caratteristiche ed è testimonianza di una tecnica costruttiva ormai non più utilizzata (dunque presenta anche un forte valore storico), ma perde molto significato se considerato individualmente. La forza di Chuquicamata, ma in generale di qualsiasi villaggio operaio, non è la qualità architettonica degli edifici ma il complesso urbano, che nella sua totalità acquista un valore non solo artistico ma anche storico, culturale (perché manifestazione di una cultura oggi in via d’estinzione), ambientale ed economico. Accade spesso che i vecchi complessi industriali rimangano inutilizzati una volta cessate le attività: a volte, nel caso di edifici isolati, vengono denominati “vuoti da riempire”, altre volte, nel caso di complessi urbani, si trasformano in “villaggi fantasma” abbandonati a loro stessi. Oggi più che mai, invece, risulta utile ed interessante recuperare questi vecchi stabilimenti e, nel caso specifico di Chuquicamata, appare indispensabile – per una questione di memoria collettiva – salvare dalla distruzione e dall’oblio uno degli insediamenti minerari più importanti della storia. A Chuquicamata la questione non è stata riempire un contenitore vuoto con la funzione apparentemente più appropriata; la preservazione dell’area dichiarata patrimonio industriale è un nuovo progetto, se possibile più delicato e a cui bisogna prestare una maggiore attenzione rispetto a quando il progetto riguarda una costruzione ex novo. Quando infatti si deve ideare un edificio che ancora non esiste si può lavorare con tranquillità e relativa libertà, tenendo in considerazione il contesto nel quale l’edificio sorgerà e rispettando le norme degli strumenti urbanistici vigenti, ma sempre senza troppi vincoli. Quando il progetto invece riguarda un edificio già esistente, e ancor peggio quando – come in questo caso – si tratta di un intero complesso urbano già edificato, la questione diventa più fragile: non solo bisogna studiare interventi non invasivi che rispettino l’opera altrui, ma l’intervento, oltre a rispettare l’edificio ed a renderlo nuovamente utilizzabile, deve riuscire a conservare i caratteri tecnici e culturali non solo dell’edificio ma di tutto il centro abitato che invece è destinato a scomparire. La proposta di intervento in questo caso è stata subordinata alle proposte che Codelco aveva già formulato per la conservazione dell’area industriale. In particolare lo Stato, attraverso l’impresa Codelco, aveva espresso la volontà di non perdere l’intero complesso industriale ma di conservarne la memoria storica e culturale attraverso due possibili interventi: un allestimento museografico in un’area limitrofa (ad esempio la città di Calama), o la preservazione nel quartiere civico originale del Campamento Nuevo. Per evitare di creare un montaggio che, per quanto ben realizzato, non avrebbe mai potuto riprodurre o sostituire la realtà, si è optato di preservare il patrimonio industriale, storico e culturale di Chuquicamata seguendo la seconda alternativa, ovvero sfruttando gli edifici esistenti nel medesimo luogo in cui sorsero anni fa, riuscendo in questo modo a valorizzare anche l’aspetto emotivo di cui è dotato il villaggio. il progetto proposto per l’intera area ha come obiettivo generale quello di approfittare dello spopolamento di Chuquicamata per preservare il suo patrimonio storico–industriale e la sua eredità culturale. Diverse sono le ragioni che potrebbero giustificare tale intervento: dalla volontà di voler conservare una prodezza artificiale che l’uomo riuscì a creare in mezzo alla regione desertica al desiderio di non perdere l’accampamento che fu fondato in Cile quando ancora il Paese era in via di sviluppo e che raggiunse un’importanza tanto rilevante da diventare un riferimento a livello nazionale e mondiale. Il progetto di Codelco per la conservazione di Chuquicamata non si è limitata solo ad una mera preservazione, ma ha individuato un programma museografico da trasferire ad ogni edificio del Campamento Nuevo, incentivando in questo modo l’attività turistica e di promozione della conoscenza della stessa Chuquicamata. L’intervento ad uso pubblico risulta essere importante perché dimostra la volontà di non voler conservare un insieme di ruderi da ammirare, ma di voler sfruttare un patrimonio vivente collettivizzandolo. Questo è uno dei principi fondamentali dell’archeologia industriale, disciplina la cui funzione primaria è impedire che il patrimonio si dissolva in macerie, ruggine e marciume; ovvero impedire che Chuquicamata si possa ridurre a racconti orali di qualche anziano signore. Obiettivo è invece rendere il passato conoscibile attraverso documenti cartacei, immagini tangibili e anche racconti orali ricchi di emozioni. La preoccupazione è che non vadano distrutte le testimonianze degli sforzi dell’ingegno delle menti umane della storia (nel caso di Chuqui del secolo scorso), intervenendo sugli edifici esistenti e trasformandoli in modo da renderli idonei a nuove funzioni. In realtà la politica di intervento di Codelco è stata largamente influenzata dai malumori comuni che si sono generati e diffusi alla notizia della chiusura e della perdita del villaggio di Chuquicamata. 4.3. La scelta del museo: il metamuseo. La realizzazione di un complesso museale nell’ex centro urbano di Chuquicamata potrebbe apparire una scelta scontata, dato che per definizione il concetto di museo è legato ai concetti di cultura e collettività. Il museo che si suggerisce di progettare, però, non è da intendersi come un deposito, un il luogo in cui si conservano le opere d’arte; il progetto è stato pensato come uno spazio comunicativo e funzionale, il cui scopo non è solo esibire ma mostrare e raccontare la storia dell’intero complesso minerario. Ed il fatto che sede del museo sia un edificio dello stesso complesso non è un caso: convertire uno spazio storico significa innanzi tutto effettuare un’importante indagine analitica, conoscere a fondo non solo l’oggetto architettonico ma tutta la storia che si vuole raccontare, le caratteristiche del luogo, i materiali, le nuove tecnologie da poter applicare.. Ognuno di questi elementi ha una valenza che va identificata e presa in considerazione, perché rappresenta un livello di informazione che è necessario conoscere per ottenere un buon risultato. La scelta più problematica, come sempre accade in questi casi, ha riguardato il “come” intervenire sull’oggetto architettonico: stravolgere completamente l’edificio o riadattare gli spazi esistenti? Realizzare un nuovo volume o organizzare al meglio ciò che già è presente? E nel caso si decidesse di intervenire, che stile adottare? Interventi “rispettosi” che riprendono l’architettura del posto o un progetto che prenda le distanze e che dimostri di appartenere ad un’epoca differente? In questo caso la scelta è stata abbastanza semplice e diretta. Partendo dal presupposto che il contenitore architettonico costituisce il primo pezzo del museo, si è deciso di considerare l’edificio come un pezzo da collezione di un museo più ampio, il centro urbano che si deve recuperare, che costituisce una mostra a cielo aperto sempre in funzione. Il non intervento, o meglio l’intervento limitato al recupero architettonico, dunque, è una scelta di non–intervento. Sede del museo sarà dunque un pezzo stesso della collezione, l’edificio che appartiene ad una mostra museografica più ampia che è stata allestita quasi un secolo fa dall’impresa dei fratelli Guggenheim; si tratta di un “contenitore” inteso come oggetto in cui sono presenti diversi strati archeologici e storici che viene in questo modo reinterpretato ed inserito in una nuova categoria tipologica. Il recupero dell’oggetto architettonico storico può avvenire secondo tre diversi interventi: 1. Il riuso. È il caso in cui l’architettura viene usata nuovamente dopo un periodo più o meno lungo di abbandono; 2. La riconversione. Riguarda l’arbitrario mutamento di funzione, intervento in cui rimane ancora possibile la precedente funzione; 3. La rifunzionalizzazione. Si tratta del passaggio da una funzione ad un’altra che può avvenire in forma drastica o progressiva. In questo caso la riconversione e rifunzionalizzazione si sono considerati gli interventi più appropriati: si è deciso di cambiare la destinazione d’uso – da scuola a museo – ma in fondo il carattere tra le due funzioni, la vecchia e la nuova, è assolutamente compatibile essendo entrambe attività di carattere educativo. D’altronde perché un intervento risulti corretto nel territorio, è indispensabile che consideri tutta la struttura urbanistica, individuando nuove funzioni compatibili coi vecchi edifici o creando nuovi edifici con antichi schemi spaziali. 5. Conclusioni Come si evince dalla profonda analisi effettuata, il complesso minerario di Chuquicamata – ormai costituito solo dal settore industriale – ha ricoperto e continua a ricoprire un ruolo importante nel panorama cileno, tanto che attualmente corrisponde ad una icona rappresentativa dell’intero Paese. Il proyecto traslado, preservando una parte dell’accampamento come memoria della miniera e testimonianza di un periodo storico ormai superato, dimostra il legame emotivo che negli anni si è creato tra la miniera e l’intero popolo cileno. Trovandosi ad operare in un contesto già definito e non potendo prendere nessuna decisione personale al di fuori della sfera architettonica, si è cercato di intervenire sull’edificio tenendo costantemente come punto di riferimento l’intera area da preservare, consapevoli che il suo valore architettonico non potrà mai equiparare il valore storico e culturale che lo stesso edificio assume quando non è considerato isolatamente. La proposta della nuova destinazione d’uso già imposta da Codelco è stata gestita in modo assolutamente coerente con quanto appena affermato: la scelta di non intervenire direttamente sull’edificio, ovvero di non stravolgerlo ma di recuperarlo da un punto di vista architettonico esattamente come si potrebbe recuperare un oggetto d’arte ritrovato dopo tanti anni – cioè la decisione di trattare l’edificio già come pezzo da collezione di un museo più ampio, individuabile nell’intera area patrimoniale – deriva appunto dalla volontà di non decontestualizzare l’oggetto architettonico ma di analizzarlo sempre in relazione agli edifici circostanti soggetti al medesimo trattamento. Da un punto di vista architettonico probabilmente una persona esterna potrebbe rimanere delusa dalla mancanza di un vero e proprio progetto; solo visitando il villaggio, percorrendo le strade e ascoltando il silenzio che regna nel campamento nuevo ci si rende conto di quanto sia delicato e prezioso l’ambiente cui appartiene l’oggetto che è stato trattato in questo elaborato. Inoltre, la consapevolezza che la proposta di intervento probabilmente verrà realmente attuata ha aumentato le preoccupazioni relative alla delicatezza con cui intervenire sul territorio. L’auspicio è che la stessa attenzione sia stata posta nell’elaborazione delle proposte di intervento degli edifici limitrofi, in modo che Chuquicamata possa essere conosciuto a livello mondiale sia come la miniera di rame a cielo aperto di dimensioni maggiori rispetto a tutte le altre, sia come centro museale altamente sofisticato. Bibliografia [1] E. Battisti (a cura di), Archeologia Industriale. 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