Yourself - Produzioni dal Basso

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Yourself - Produzioni dal Basso
SIN
di Alessandro Vizzino
Proprietà letteraria riservata
Editing: Daniela Cattani Rusich, Cristina Giambi, Alessandro Vizzino
Grafica: Roberto Di Mauro
Progetto editoriale: MJM Editore Srl
I diritti di riproduzione e traduzione sono riservati.
Nessuna parte di questo libro può essere utilizzata, riprodotta o diffusa con qualsiasi mezzo, senza alcuna autorizzazione scritta.
Disclaimer: Quest’opera può contenere parole, espressioni e/o atteggiamenti che
possono essere ritenuti discutibili, violenti, profani, volgari o offensivi. Questa
pubblicazione, quindi, è strettamente destinata a un pubblico adulto e consapevole. Personaggi e fatti di questo libro sono frutto esclusivo della fantasia dell’autore, pertanto ogni riferimento a persone o cose effettivamente esistenti o esistite è
puramente casuale.
SIN. Peccato. E chi non ha peccato scagli la prima pietra.
Sembra essere questo l’assunto da cui prende il via lo spettacolare romanzo di
Alessandro Vizzino.
Mezzo secolo avanti, in un mondo diverso.
Un futuro molto prossimo a noi, e non solo cronologicamente, purtroppo.
Dieci persone si svegliano in un luogo sconosciuto, che scopriranno essere un
grande appartamento dotato di ogni confort, un luogo tecnologicamente perfetto e
una macchina micidiale allo stesso tempo. Ben presto si accorgeranno di essere in
balia di un crudele aguzzino. Uno psicopatico? Un maniaco o un mitomane, qualcuno che cerca vendetta? La soluzione all’enigma è molto meno scontata e ben
più sconvolgente. E tuttavia, ci riguarda da vicino, poiché legata a doppio filo a
quella che è diventata la nostra società attuale: una società vuota di valori, voyeristica, in cui l’apparenza e il denaro sono ormai i veri miti. Anzi, quasi vere e proprie figure mitologiche, che divorano senza pietà i propri figli.
In un vortice crescente di delirio e terrore, i protagonisti, dopo la reciproca
conoscenza, cercheranno risposte, si aiuteranno o entreranno in competizione,
lotteranno per la sopravvivenza. Mentre al di là di quei muri tra i quali sono prigionieri, si tramano intrighi e affari a livello internazionale, in cui l’etica è la prima grande esclusa, mentre la Chiesa è fra le principali entità coinvolte.
La storia è tagliente, appassionante, l’andamento è cinematografico in stile
pulp, e rappresenta con grande realismo la violenza e il degrado della società moderna. Naturalmente questa è solo una delle tante sfaccettature del romanzo: in
realtà nulla è come sembra. Soltanto alla fine ogni cosa apparirà chiara. E il vero
peccato emergerà dal fango.
SIN è un thriller di ottima fattura, che segue le regole delle migliori opere del
genere: ritmo incalzante, suspense, descrizioni accurate, personaggi credibili e
ben delineati, sia sotto il profilo psicologico che sul piano morfologico, e un impianto narrativo saldo e originale.
Ciò che attrae e sconvolge nel contempo, leggendo SIN, è l’infinità di intrecci
e di coinvolgimenti, di complicazioni, di misteri, e, in particolar modo, i colpi di
scena continui, il mood di angoscia crescente. Ma sopra a tutto è la ricerca della
verità. E una denuncia, provocatoriamente non troppo velata, sui limiti oltre i
quali l’uomo può spingersi, sulla degradazione morale dell’umanità.
Una domanda campeggia irrisolta nella mente dei protagonisti e del lettore.
Perché?
Daniela Cattani Rusich
Sai fare la lista dei buoni e dei cattivi?
Ogni animo gentile riserva un posto speciale a un’innata dose di egoismo che
placidamente ne osserva l’operato; e anche una mente perfida e feroce è capace di
amare. Il limite è valicabile e fortemente condizionato dal tutto più grande di cui
sei parte e a cui non puoi sottrarti. SIN ti ci proietta con violenza: un ritmo troppo
veloce, imposto da denaro e potere, che non sempre ti dà il tempo di decidere.
Chiediti in ogni momento chi e dove sei. Perché la vita ti può sfuggire di mano, al punto tale da fagocitarti voracemente. Non credere di essere immune, non
peccare di superbia.
I peccati di SIN lasciano sgomenti.
Dieci anime, cinque uomini e cinque donne, imprigionate in un luogo senza
nome, sono costrette a fare i conti con il proprio passato. Un peccato invade anima e corpo; temporaneamente puoi metterlo in un angolo, lasciando credere a te
stesso che era inevitabile. Ma se un giudice cinico te ne rammenta i dettagli, scandendo impietosamente il tempo, allora non hai scampo.
Chi è il carnefice? Un maniaco? Un boia paranoico? Un’entità soprannaturale?
E soprattutto… perché? La sola follia di una mente perversa ha forgiato un inferno? Nella storia è già successo, più di una volta. La pazzia di un uomo o l’atroce conseguenza di un contesto difficilmente intuibile se non lo si è vissuto in prima persona?
SIN è estremo, SIN è forte, SIN trasuda energia.
Una miscela gelatinosa di vitalità, astuzia, emozione, suspense e originalità
non ne permette l’immediata categorizzazione.
SIN ti invita a pensare, se vuoi farlo.
Puoi scegliere di leggerlo per il sano piacere di divorarne le pagine senza respiro, godendo dell’eccitante sensazione di non sapere e di voler scoprire la verità. Impossibile, fino al finale agghiacciante che supera l’immaginazione umana.
Oppure puoi accettare la provocazione e avere il coraggio di fermarti a riflettere sul mondo e sui suoi ingranaggi sincroni e serrati.
Con un passo incalzante e considerazioni mai banali, Alessandro ti propone
un viaggio duro e accattivante, lasciandoti esplorare la complessità dei sentimenti
umani, fornendoti con la giusta parsimonia e un tempismo perfetto gli strumenti
necessari per capire cosa sta succedendo e cosa potrebbe succedere.
A questo punto puoi decidere se accettare l’invito oppure no. Ma nella tua vita, sei sicuro di essere sempre tu a decidere?
Cristina Giambi
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Prologo
L’oceano scivolava su e giù sulla battigia, indeciso se venire o se
andarsene.
Non troppo distante dalla propria casa di Portland, c’era chi lo
stava ammirando. A piedi nudi sulla rena.
Contemplare la sua vastità donava un senso di pace e di affrancamento. Osservarne la superficie fino alla linea d’orizzonte, dove
l’acqua si confondeva col cielo e le nuvole si specchiavano nella
spuma delle onde.
Davanti a quel blu sterminato i pensieri nascevano spontaneamente, senza bisogno d’aiuto. Emergevano per il solo gusto di esserci, per il mero piacere di esistere. Prendevano forma per la semplice esigenza di vivere.
Tutto può mutare e stravolgersi, fuori e dentro le persone.
Il mondo cambia, si trasforma. Diventa diverso da se stesso, per
poi tornare magari a essere di nuovo uguale a prima. Talvolta però
non concede sconti e resta ciò che ormai è divenuto.
Anche le persone si modificano, di pari passo con l’avanzare dell’età. Varia il peso delle emozioni, la maniera con la quale si misurano, si controllano e s’affrontano.
Tuttavia non cessa mai la loro presenza. Loro ci sono sempre, a
far da costante compagnia e calibro all’uomo.
Il mondo può mutare, può stravolgersi. Le stagioni passano. Ma
le sensazioni rimangono, non muoiono, mantengono in eterno la
propria essenza.
Alcune sono pronte a saltar fuori in qualsiasi momento, anche
quando sembra essersene persa la traccia. A dispetto di tutto. E a
testimonianza della loro invincibilità.
La paura, la morte, l’amore.
Primavera
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I
09 maggio, martedì
Ore 11:09.
L’uomo che sedeva davanti a lei si alzò.
Era il segnale del commiato.
‹‹ È sempre un piacere vederti e trattare con te, Emanuela›› disse
lui.
Anche la donna si alzò.
‹‹Il piacere è mio, Timothy. Lo sai›› gli rispose.
‹‹ Appena torni a New York, fatti sentire subito. Non parlo di lavoro. Anche solo per un caffè, una cena insieme. Cena privata e intima, s’intende.››
‹‹Se lo dici seriamente, contaci.››
‹‹ Certo che lo dico seriamente. Più che seriamente. Quando?›› la
incalzò l’uomo.
‹‹Adesso non so dirtelo, Tim, anche se mi piacerebbe. Fammi rientrare e organizzarmi. Però presto, molto presto.››
‹‹Va bene. Ti aspetto. Sai dove cercarmi.››
‹‹Ti cercherò.››
Le mani si congiunsero.
Le labbra sfiorarono le guance in un saluto amichevole.
Emanuela voltò le spalle a Timothy Walken.
La porta dietro di lei si richiuse.
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II
09 maggio, martedì
Ore 11:22.
Il sole prepotente e rincuorante di quella tarda mattinata d’inizio
maggio era arginato dai finestroni dello shuttle IUS1, oscurati su
tutti i lati dell’abitacolo, tranne in quello riservato all’autista.
Gli unici rumori che penetravano dall’esterno erano i soffi smorzati del mezzo in movimento, che si univano a quelli delle molte
altre navette in circolazione, quando queste li affiancavano o li superavano. All’interno si udiva solamente il suono dei loro respiri e
dei loro pensieri.
Il traffico era intenso, come sempre a quell’ora e in quella zona
di New York City. I tanti veicoli IUS, deputati all’uso individuale e
privato, ne recitavano il ruolo di principali protagonisti. Si muovevano smaniosi, come sciami di mosche impazzite, addensandosi in
frotte compatte davanti ai crocevia. Poi tornavano a snodarsi tra le
strade, colorandole di tinte difformi e mescolandosi ai più voluminosi mezzi del trasporto pubblico. I CUS, Collective Use Shuttle.
All’interno dei CUS, richiamati da qualche inevitabile esigenza
sociale, spiriti e corpi di persone diverse si spalmavano gli uni sugli
altri, a formare un elemento unico, un blocco coeso, pur se confuso
e provvisorio. Una pigiata macedonia umana, che affollava senza
tregua le navette collettive, quella mattina come in qualsiasi altra
frazione del tempo. L’ammasso multietnico di gente era ancora più
tangibile nei CUS di tipo 3, da centocinquanta posti in piedi e a
maggior frequenza di tratta. Nei più sporadici CUS di tipo 1, invece,
ai trecentocinquanta passeggeri era sempre riservato un posto a sedere, non essendoci lì la possibilità di viaggiare in piedi.
A chi lo avesse osservato ripetutamente, quell’instabile insieme
di apparecchi ad aria si sarebbe rivelato in perpetua evoluzione. Un
continuo avvicendarsi di posizioni tra i veicoli, che si oltrepassavano gli uni con gli altri secondo tutte le direzioni di marcia possibili.
Emanuela pensò che poteva esserci sicuramente un modo migliore di gestire il traffico metropolitano. A New York come a Roma e
nell’intera Western World Confederation. I tempi in fondo lo permettevano, anzi lo rendevano più opportuno che mai. Se soltanto il
Ministro Confederale dei Trasporti avesse avuto palle un po’ più
solide per affrontare e risolvere la questione, una volta per tutte. In
ogni caso questi non erano affari suoi, specialmente in quel giorno,
rifletté infine.
Gli IUS di tipo 1, di norma più difficili a vedersi in giro per la
città, in quella zona centrale della megalopoli emergevano numerosi
e vanagloriosi, a testimoniare la rilevanza strategica, economica e
politica del quartiere.
Intorno al loro IUS1 special version, procedevano discretamente
due IUS2 di protezione. Emanuela Di Maggio sedeva su una delle
tre poltrone posteriori, quella di centro, affiancata su entrambi i lati
da un paio di energumeni dallo sguardo serio, attento a ogni particolare.
Quella era una giornata straordinaria per Emanuela, come importantissime ne erano state altre, nel suo recente passato. Però quella
lo era davvero più di tutte. Non solo per il sole prepotente, che avrebbe saputo infondere voglia di vivere e di saltare anche ai sassi o
ai cadaveri. Non solo per l’omonimia che quel meraviglioso mese
primaverile aveva con il suo cognome, quasi per una sarcastica ma
piacevole coincidenza del destino. Ma soprattutto perché quella
giornata segnava la chiusura di ogni aspetto preparatorio, l’inizio
dell’azione effettiva e così tanto attesa.
Ciò che le era stato ordinato mesi addietro, lei lo aveva portato a
termine nel migliore dei modi e nel più adeguato dei tempi. Senza
imprecisioni e sbavature di qualunque sorta, da impeccabile sicario.
Aveva eseguito il proprio compito alla perfezione. Aveva sviluppato l’incarico nella maniera più pragmatica e compiuta fosse stato
possibile.
Fino al giorno prima, rimaneva solamente la formale conferma
del tutto. Da quel momento in poi, anch’essa si era dileguata nel
paniere delle cose ormai realizzate. E realizzate per bene.
Ora restava soltanto la parte esecutiva, che però non era più un
suo problema, ma sarebbe diventato un onere di altri. Lei sarebbe
passata a riscuotere la sua parte di lavoro ben fatto e sarebbe poi
rimasta alla finestra a guardare, nella dolce aspettativa di una meritata gloria finale.
… continua …
Giorno 1
22 dicembre, venerdì
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III
Ore 10:36.
Ferdinando Montese aprì gli occhi per primo.
Non fu difficile rendersene conto, dato che tutti quelli che aveva
intorno a sé dormivano ancora. Ammesso che non fossero morti.
Ma dalle prime apparenze, semplicemente dormivano tutti. Di un
sonno esteriormente ordinato e sereno, anche se non avrebbe dovuto
essere così se pure loro, come Ferdinando, si erano ritrovati in quel
posto sconosciuto senza accorgersene e senza motivo alcuno.
Per il momento però, finché fossero rimasti preda dei loro sogni,
quello non sarebbe stato un loro problema.
Per Ferdinando invece, adesso che s’era svegliato, unico tra tutti
per un primato inutile e sconveniente, quello era diventato un problema concreto, reale. Così tangibile da assumere persino un definito odore. L’odore dello stupore, del disorientamento e della paura.
Non aveva idea di dove diavolo fosse e del perché ci fosse. Di
chi ce lo avesse messo e quando.
Solitamente i risvegli di Ferdinando, nella consuetudine della vita, erano lunghi e travagliati come un sofferto parto trigemellare. Le
poche volte che aveva orari stabiliti in cui ridestarsi e che regolava a
questo scopo la sveglia, la faceva suonare inutilmente per un numero di volte così ampio da far perdere la pazienza anche a un santo,
se fosse stato con lui in quella circostanza. Si girava e rigirava nel
letto pensando se davvero i propositi della sera prima fossero stati
corretti. Se sul serio era il caso di alzarsi o se magari poteva farne
tranquillamente a meno. E di solito vinceva la seconda ipotesi. Pure
a costo di qualche clamorosa buca e di un appuntamento mancato,
se la cosa non aveva una rilevanza così eccezionale.
In quell’occasione, al contrario, il risveglio era stato brusco e
improvviso. Il suo sesto senso lo aveva avvertito che c’era qualcosa
che non tornava e, appena s’era congiunto con la coscienza, lo aveva ricondotto nel mondo degli esseri viventi e pensanti.
Una volta aperte le palpebre, Ferdinando era stato pervaso da
un’ansia asfissiante. Una sensazione che aveva tuttavia cercato di
sottomettere sin dal primo istante, reputandola del tutto inefficace,
in quel misterioso frangente. Aveva tentato di conservare la calma e
di guardarsi un po’ attorno, per raccogliere qualunque elemento valido alla razionale valutazione delle cose.
Si era subito reso conto di essere in una specie di loculo, steso su
un letto circondato da tre pareti su quattro. Una specie di box informazioni senza nessun soffitto, se non il solaio della stanza. Poi si
era sollevato sul busto e s’era portato in avanti, percorrendo carponi
quel breve giaciglio, fino a lambirne l’estremità libera, dalla parte
opposta al cuscino. Per non peccare d’imprudenza, aveva però mantenuto la testa all’interno di quello spazio. Il suo non era l’unico loculo, ve ne erano molti intorno a lui. E messi insieme, nella loro interezza, sembravano assumere la forma di uno squadrato ferro di
cavallo.
Adesso, dalla sua attuale posizione, continuava a non scorgere
molto del suo lato del ferro, uno dei due più lunghi. Tuttavia riusciva a cogliere distintamente i quattro box di fronte a lui, sul secondo
lato maggiore. Vi riposavano persone all’apparenza normali, abbastanza ordinarie in ogni loro espressione e abbigliamento. Un bel
miscuglio di esistenze diverse, ma senza segni percepibili di eccezionalità, a un primo sguardo.
Eppure una particolarità quelle figure la possedevano. Erano tutte esistenze ignote, persone a lui assolutamente sconosciute.
Ferdinando si alzò in piedi e si avvicinò cautamente all’altro lato.
Senza però perdere mai d’occhio anche il resto dell’ambiente.
Nel primo box sulla destra si vedeva un uomo un po’ sotto la
mezza età, con una precoce e diffusa calvizie e sensibilmente in sovrappeso. Quel tale aveva un viso che lasciava tuttavia indovinare
una sorta di sfiorita bellezza giovanile. Un’avvenenza che doveva
aver posseduto in discrete dosi, in tempi di minore obesità e trascu-
ratezza verso se stesso. Sebbene ora apparisse soltanto un orsetto
ingenuo e pacioccone.
Dopo di lui, nel loculo successivo, riposava un altro uomo. Considerevolmente alto, dal fisico corpulento, muscoloso. Una figura
atletica, che a prima vista dava l’idea di essere pure molto agile,
malgrado la grande mole. La sua pelle era scura e la sua testa completamente rasata. A Ferdinando diede l’impressione di essere un
uomo sempre desto e pronto, anche mentre dormiva. Con i lineamenti del viso tesi e disciplinati come se avesse solamente chiuso
gli occhi per un singolo istante. Eppure dormiva.
Ferdinando ne aveva conosciuti parecchi di uomini così. Anche
le volte che era stato dentro, in gattabuia. E non gli erano mai piaciuti quei tipi di uomini, perché c’era sempre da guardarsi le spalle
da loro, c’era sempre il bisogno di non voltarsi mai. Ma forse quel
tizio non era così, dopotutto stava semplicemente dormendo, si disse.
A seguire, si notava una bella ragazzina mora, dai capelli lunghi
e mossi. Una tipica adolescente di quella loro epoca stravagante e
infame. Era lievemente coperta da una corta magliettina rosa, con
un arabesco luccicante di strass all’altezza del seno.
Dopo la ragazzina, un’altra giovane donna. Più adulta rispetto alla prima di una decina d’anni e pure lei molto bella. Capelli biondi e
lisci, un po’ sciupati dal tempo, che le incorniciavano un’espressione impastata di armonia, grazia e misura.
Oltre quegli iniziali quattro box cominciava il lato corto del ferro
di cavallo, composto da due soli spazi.
… continua …
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V
Ore 11:14.
Appena ebbero aggirato l’angolo destro e lasciato la vasta camerata con i box a ferro di cavallo, il bestione demoniaco spostò Ferdinando Montese davanti a sé. Poi, quasi interpretando il pensiero
del giovane zingaro, cercò di rassicurarlo. Con quel fare che proprio
niente aveva di dolce, di fraterno o di paterno.
‹‹Non mi fai da scudo, stai tranquillo. Io non uso scudi. Ti copro
le spalle ed è meglio per te, fidati. Adesso osserva tutto ciò che puoi
osservare. E poi muoviamoci, cazzo. Lentamente. Schiena alla parete›› bisbigliò.
‹‹Posso solo sapere come chiamarti, qual è il tuo nome?›› domandò Nando.
‹‹ Io non ho nome›› fu la secca replica dell’altro. ‹‹ E ora muoviamoci.››
Nando si costrinse a non replicare, ad accettare per buona la risposta da stronzo di quel grosso figlio di puttana, che avrebbe meritato davvero una razione di schiaffi direttamente proporzionale alla
sua mole. Però in qualche modo lui doveva nominarlo. Doveva trovare la forma di etichettarselo in mente. Così stabilì che quel figlio
di troia, da quel momento in poi, sarebbe stato l’Anonimo. Almeno
per lui. E almeno fino a quando quel pazzo furioso non avesse deciso di svelare la sua effettiva identità. Ma poi, alla fin fine, chi cacchio se ne fregava del suo nome. Sarebbe stato tanto difficile inventarsene uno, se proprio non voleva rivelare il suo, chissà poi perché?
Che andasse a fare in culo, quell’enorme stronzo di merda!
Nando decise di uscire dai pensieri e di entrare in azione. Come
il suo sgradevole compagno gli aveva intimato di fare e prima che
perdesse di nuovo le staffe, nel vederlo assorto e distratto.
Subito dopo l’angolo della stanza con i box, nel punto in cui stavano adesso, esaminarono tutto ciò che potevano esaminare.
Si trovavano all’interno di una suite principesca, di gran lusso,
con ogni comfort ipotizzabile e sfarzosamente enorme.
La camerata con i loculi a ferro di cavallo, per quanto già grande
non meno di una sessantina di metri quadrati, spariva di fronte al
soggiorno, che costituiva la parte principale di quella suite. Era un
open space almeno quattro volte più ampio della camerata, nel quale trovava posto, tra le altre cose, un gigantesco divano di tessuto
verde a giro. Anch’esso all’incirca un ferro di cavallo, un largo cerchio incompleto.
Il divano si stagliava su un esteso tappeto rotondo, di lana avana.
Sopra il tappeto e davanti al divano, un tavolino di finto vetro a
gambe basse, in stile giapponese, adornato da una fioriera di rose
artificiali e multicolori. Rosse, gialle e bianche. Sul muro retrostante
il divano, alla loro sinistra, una fila di piante altrettanto posticce.
Poco più avanti dell’imponente e tondeggiante sofà si notava invece un pianoforte a coda, accostato alla parete più lontana dell’ambiente e probabilmente funzionante. Oltre il pianoforte, una scala di
raffinata fattura, ornamentale e funzionale allo stesso tempo. Di
fianco alla scala, spostato verso il centro di quello smisurato locale,
un salottino di pelle beige.
Pareti omogeneamente tinteggiate di un bianco uniforme. Su tutto il pavimento un parquet color legno, di acacia sintetica. E un soffitto ovunque elevatissimo, al di là dei cinque metri e mezzo. Pressappoco il doppio di quello della stanza con i loculi.
Immaginando quel soggiorno come un rettangolo visto dall’alto,
la camerata notte si allungava oltre lo stesso rettangolo, nella sua
zona inferiore e sinistra. Un rettangolo più piccolo attaccato al suo
gemello maggiore, in sostanza. Una propaggine del corpo centrale.
Un soppalco, a occhio e croce un’ottantina di metri quadri, occupava la parte destra di quell’imperiale soggiorno, sovrastandone
suppergiù un terzo di spazio. La scala ornamentale ne consentiva
l’adito. Il piano rialzato cominciava nel punto in cui terminava il
salottino beige ed era sostenuto da tre colonne circolari, equamente
distribuite lungo l’intera larghezza dell’ambiente.
Anche in quel vastissimo soggiorno nessuna finestra.
Però sempre tutto molto aperto e libero.
Eccettuato il doppio ingresso scorrevole della camerata notte,
l’unica porta immediatamente visibile era rappresentata da un battente di legno marrone, che rompeva il bianco del muro a tre o quattro metri da Nando e dall’Anonimo. Anche in quel caso l’uscio
sembrava di tipo scorrevole, a scomparsa. E a movimento manuale.
I due incominciarono ad avanzare di passo lento, con la schiena
rivolta alla parete. Attenti anche al loro respiro e alle molecole che
ne determinavano l’esistenza. Stavano percorrendo il lato inferiore
del rettangolo immaginario, cioè uno dei due fianchi più lunghi del
soggiorno. Senza tuttavia rendersi conto di camminare su una fila di
piccoli cerchi adiacenti al muro, tracciati sul pavimento e mimetizzati con la stessa superficie del parquet.
Raggiunsero la porta marrone, la prima cosa che si frappose sul
loro tragitto. L’Anonimo fece segno a Nando di oltrepassare quel
varco e di posizionarsi sull’altro versante, quello su cui c’era l’appiglio d’apertura. Poi gli diede cenno di spalancare di scatto. Il fulmineo sblocco del battente a scrigno partorì un nuovo locale. L’Anonimo fece irruzione, scaraventandosi di getto sulla soglia. Nando gli
andò dietro.
… continua …
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VIII
Ore 12:35.
L’intera comitiva si era disposta sul grande divano verde a semicerchio, nello spazio dello smisurato soggiorno.
Gli unici rimasti in piedi erano Giorgio Minatelli e il bestione.
Quest’ultimo sempre qualche passo in disparte.
Minatelli prese la parola, nel mezzo del più concreto silenzio e
dell’interesse più autentico.
‹‹ Signori, ritengo sia giunto il momento di capirci qualcosa. Del
perché siamo qui. Come ci siamo arrivati, credo sia ormai un po’
chiaro a tutti. Almeno quando. Ognuno di noi ha già detto la stessa
cosa degli altri. Siamo andati tutti a dormire nei nostri alloggi ieri
sera, a prescindere dai diversi orari. E tutti ci siamo risvegliati in
questo posto sconosciuto. Senza più i nostri pigiami, ma vestiti
pressappoco con gli stessi abiti che indossavamo prima di andare a
letto. Sin qui è tutto corretto, per chiunque?››
Tutti fecero segno di sì.
Nando notò subito come quell’uomo sapeva parlare alla gente,
sicuramente abituato a farlo nel corso della sua vita normale. In quel
pur breve preambolo non aveva usato toni apocalittici, né vocaboli
fuori posto che potessero evocare paura o sgomento. Al contrario,
aveva messo nelle sue frasi un tono asettico e distaccato, un sorriso
non troppo sottinteso. Quasi stesse sostenendo una dissertazione
accademica. Quasi non stesse discutendo del perché fossero tutti in
quel luogo assurdo e per assurde ragioni. Più che assurde, assolutamente incognite. L’Anonimo aveva di nuovo capito tutto prima degli altri, rifletté lo zingaro, scegliendo come moderatore il miglior
conferenziere tra tutti loro.
‹‹ Bene, allora fin qui ci siamo›› continuò Minatelli. ‹‹ I nostri due
amici hanno verificato la zona, quest’intero appartamento. Direi
dunque di far parlare un po’ loro. Poi proseguiremo con il resto.››
Con un ampio movimento del braccio, esortò il bestione a intervenire. Il demone non si spostò da dov’era, ma accettò l’invito e
aprì bocca.
‹‹L’appartamento ve lo descriverà Nando. E comunque lo vedete.
Io devo farvi un’altra domanda, che può avere una stracazzo d’importanza fottuta. Vi conoscete?››
Il quesito non fu troppo comprensibile.
Lui se ne accorse e aggiustò perentoriamente il tiro, con serenità
e senza superflue giustificazioni.
‹‹ Intendo dire… chi di voi si conosceva già, prima di stamattina?››
Dario Beltrami precisò per primo la propria posizione.
‹‹ Io non avevo mai visto nessuno. Tranne Giorgio Minatelli. Lui
lo conoscevo già.››
‹‹Di persona?›› chiese il bestione.
‹‹ No, di fama. Sono stato all’ultima presentazione dell’altro ieri.
Un mio amico me lo doveva far incontrare, ma poi l’amico non è
venuto e non ci siamo più conosciuti. Non credo che lui mi abbia
mai visto prima. Vero, Giorgio?››
Minatelli confermò di non averlo mai incrociato prima d’allora.
Anche Fanny s’inserì nella conversazione.
‹‹ Come già sapete, almeno alcuni di voi, anch’io conoscevo già
Giorgio. Però anch’io soltanto di fama. Lavoro per la ditta di pulizie
e preparazioni fieristiche che ha curato la presentazione.››
‹‹Ma che cazzo di presentazione?›› sbottò il bestione.
Minatelli chiarì.
‹‹ Sono uno scrittore, per chi non lo sapesse. La sorte ha voluto
regalarmi un bel po’ di successo e d’affermazione. L’altro ieri ho
presentato il mio ultimo libro, Il vero Dio. Qui a Roma, alla Sala
Centrale della Cultura Confederale.››
‹‹E chi ti ha detto che siamo a Roma?›› inquisì il bestione.
‹‹Cosa?››
Giorgio lo guardò senza intendere.
‹‹ Hai detto che hai presentato il tuo libro qui a Roma. Chi cazzo
ha detto che siamo a Roma?››
Dopo qualche attimo di riflessione, Minatelli replicò.
‹‹ No, no. Hai ragione. Scusatemi. L’ho detto d’istinto. In effetti,
non lo so dove siamo.››
‹‹ Nessun problema›› lo tranquillizzò il bestione. ‹‹ Nessun problema. Era solo per capire. Ok, andiamo avanti.››
Nulla sfuggiva a quell’essere sovrumano, considerò Nando.
Parallelamente a quell’ultima valutazione, il giovane zingaro si
rese anche conto del perché la faccia di Minatelli gli avesse ricordato qualcosa, quando lo aveva visto per la prima volta, poco tempo
addietro, sdraiato nel suo loculo. L’intuizione arrivò a illuminargli
la memoria grazie alle delucidazioni appena fornite dallo stesso
Giorgio, che avevano finalmente abbinato un titolo e una professione a un arido nome e cognome.
Nando non aveva mai fatto della lettura una sua arte di vita.
Nemmeno un’inclinazione secondaria. Neppure un fatto sporadico.
Il vero Dio era forse il primo e unico libro che avesse mai letto. A
dirla tutta, il primo e unico che avesse solamente infilato nel proprio
cPad e tenuto dinanzi agli occhi. Lo aveva fatto solo perché gliel’aveva regalato Patrizia. Lo aveva cominciato soltanto per evitare di
non saper rispondere ai quesiti che poi la ragazza gli avrebbe certamente posto, chiedendogli pareri e commenti vari. E non voleva che
Patrizia lo ritenesse un sempliciotto distratto, un povero ignorante.
Voleva condividere con lei qualsiasi forma d’interesse e di passione
e, di conseguenza, la sua intera vita.
Aveva iniziato a leggere quel polpettone con una partecipazione
vicina al sottozero e un’applicazione ancora più bassa. Poi, man
mano che aveva scorso le pagine elettroniche, s’era fatto prendere la
mano. Fino a terminare quel cacchio di tomo in tre giorni, nonostante le sue difficoltà di lettura. Di sicuro Nando non era un letterato e
di questo era ben consapevole. Eppure in quelle giornate non era
quasi riuscito a fare altro, se non a leggere, leggere e ancora leggere.
Quel fottuto figlio di puttana di scrittore, aveva pensato varie
volte, il suo mestiere lo sapeva fare proprio bene. Grazie a lui aveva
capito che leggere era bello, se era bello ciò che era scritto. Molto
più che bello, addirittura affascinante, meraviglioso, travolgente. E
la faccia di quel figlio di troia era quella che aveva visto incastonata
dentro al libro, nella piccola foto di presentazione dell’autore.
‹‹Chi altro tra di noi lo conosceva già?›› chiese ancora il bestione.
‹‹ Beh, di fama credo un po’ tutti, dai›› intervenne l’orsetto pacioccone. ‹‹Qualcuno lo conosceva già di persona? Penso sia questa
la domanda più giusta.››
Tutti sostennero di no. Tutti lo conoscevano per notorietà, a eccezione della giovane Nicole e del bestione infernale, ma nessuno lo
aveva mai incontrato o incrociato prima d’allora, di persona. E nessuno era noto a lui. Ma, al disopra di tutto, nessuno aveva mai visto
prima di quella circostanza qualunque altro componente del gruppo.
Tranne Minatelli erano tutte persone anonime alla celebrità e nessuno s’era mai imbattuto prima in nessun altro di loro. Costituivano
una congrega di perfetti elementi sconosciuti.
Questo era già un punto fermo, un primo dato di partenza.
Il briefing andò avanti con Nando.
… continua …
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IX
Ore 13:44 (New York, 07:44 a.m.).
Emanuela spostò lo sguardo al di fuori del proprio tinello, oltre
l’ampia finestra che lo illuminava. Rimase per un po’ a osservare il
ritaglio di mondo che quell’apertura le permetteva di scorgere.
Faceva molto freddo, al di là dei vetri. Si capiva anche da lì, dal
rincuorante calduccio che la propria casa le offriva. In effetti era un
inverno veramente rigido, quello che l’annata in corso stava concedendo a Roma. Anche più del solito.
La neve aveva da un pezzo imbiancato ogni cosa, con la sua presenza pulita e rinfrancante. A Emanuela sembrò quasi di percepirne
l’odore, la freschezza. Senza rifletterci, quella visione candida e luminosa le si affiancò alla fantasia e a un pizzico d’indolenza, producendo una miscela di sensazioni che la trasportò in una dimensione
di ricordi e di vecchie immagini del passato.
Com’era cambiato il mondo, da quando era nata, pensò.
Quante cose erano ormai diverse, rispetto a quando la mano di
suo padre le teneva la sua, piccola e carnosa come quella di ogni
bambina di otto anni. Quando percorrevano insieme i viali di Villa
Borghese, all’ombra delle querce e dei lecci in fiore, per raccogliere
ghiande e sassolini e per ripararsi un po’ anche dal sole. Dai suoi
raggi caldi e così familiari, a quel tempo. Quando si sorridevano nel
Giardino del Lago, gli occhi dell’uno dentro agli occhi dell’altra,
ammirando le anatre mentre pescavano o mentre si portavano a
spasso il loro buffo seguito di giovani anatroccoli. Quando lei lo
implorava per un rapido giro sulle giostrine e lui la accontentava,
con tutta la pazienza del mondo. Quando oltrepassavano i pini e i
cipressi di Piazza di Siena e arrivavano, mano nella mano, fino alla
Casina di Raffaello. E quando lui la contemplava giocare, trasmettendole ogni amore possibile.
Quando vivevano uniti momenti incondizionati, liberi, autentici.
Quei momenti che, una volta abbandonata l’infanzia, non tornano
più. Per nessuno. A prescindere dall’epoca che si sta vivendo.
Emanuela ritornò anche ai suoi dieci anni.
Da sua nonna, a Torvaianica. Quando assaporavano assieme l’aroma della salsedine, passeggiando vicine sulla spiaggia. L’una al
fianco dell’altra. Quando lei ascoltava da nonna Amanda le storie
del tempo che fu, mentre le trasferiva inconsapevolmente la felicità
del tempo che verrà. La speranza del futuro, per la propria giovane e
preziosa nipotina.
Quante cose erano ormai davvero diverse. Non era cambiato tutto, ma era cambiato tanto. Il mare c’era sempre, questo era vero. Ma
il sole e molte altre cose no. Almeno non più come una volta.
Non c’era più il rumore ovattato e un po’ catarroso dei vecchi
motori diesel, dei pistoni e dei cilindri che si sfregavano tra loro.
Quel suono dolce di quando suo padre l’accompagnava a scuola,
ogni mattina presto. Adesso gli uomini si muovevano su mezzi ultrasilenziosi, fluttuanti su sospensione elettromagnetica, spinti da
turbine elettriche lungo strade lastricate di metallo.
Il Grande Collasso di diciassette anni prima, aveva trasformato il
pianeta. La fortuna aveva voluto che non ci fossero state guerre totali, con i loro relativi milioni di morti. Ma quella crisi gigantesca e
globale, di natura soprattutto economica, energetica e ambientale,
aveva comunque messo l’uomo davanti alla propria sorte. L’aveva
posto di fronte al futuro a cui lui stesso si era destinato.
Più che una crisi, era stato un crollo vero e proprio, generato
semplicemente dall’assenza di lungimiranza. L’umanità aveva preso
il palo in piena faccia, nel momento esatto in cui c’era arrivata dinanzi. Senza avere occhi adatti a scorgerlo da lontano, nonostante si
fosse avvicinato gradualmente e con nitidezza.
E così l’uomo si era riorganizzato, politicamente e socialmente.
E aveva provato a rimettere indietro la lancetta del tempo, riportando il proprio pianeta a quello che era e che avrebbe dovuto sempre
restare.
Alcune cose erano riuscite bene, in effetti. Specialmente in campo energetico, grazie alle moderne tecnologie. Altre, in verità, un
po’ meno. Come in ambito climatico. Almeno per alcune zone. O
quanto meno per Roma, dove il sole si era stancato di risiedere per
troppi mesi e con eccessiva lucentezza. Al contrario di ciò che faceva quando Emanuela attraversava i viali di Villa Borghese, attaccata
alla mano di suo padre. Oppure lambiva a piedi scalzi la sabbia di
Torvaianica, con nonna Amanda accanto.
I paesi occidentali erano stati i più colpiti dal Grande Collasso e
pure i primi a ristrutturarsi. Si erano congiunti in una vasta confederazione, con un presidente generale e una serie di circoscrizioni territoriali, quelle che un tempo si chiamavano nazioni. Il tutto con
un’unica lingua ufficiale, una singola moneta, una sola religione
riconosciuta. E al di sopra di una gran quantità di sfumature, di culture e di tradizioni differenti.
Eh già, si disse Emanuela. Il mondo era davvero cambiato.
E lei lo aveva visto cambiare, crescendo. Crescendo con lui. Ne
aveva praticamente vissuto l’intero percorso di mutazione, mentre
anche lei si trasformava. Da bambina ad adolescente prima, da ragazza a donna poi.
E ora quella donna era lì, seduta in quel tinello, con gli occhi oltre la finestra. A pensare alla propria fanciullezza e a guardare la
neve. La neve che aveva imbiancato ogni cosa e che era l’unico aspetto della giornata che riuscisse a infonderle un minimo di entusiasmo. La visita del giorno prima l’aveva spiazzata, le aveva messo
il cuore in una posizione troppo inusuale per poter essere sopportata
a lungo.
Ma in realtà, al di là della neve, c’era un altro elemento ad alimentare il suo appetito. Un elemento con un corpo, un volto e un
nome ben definiti. Quelli di Timothy Walken.
All’incirca da sette mesi, Timothy era diventato qualcosa di più
di un importante e occasionale partner professionale. Erano divenuti
amici intimi, compagni a distanza. Amanti era la parola esatta, per
descrivere la loro situazione sentimentale.
Si vedevano di rado, quando la lontananza e i reciproci impegni
lo permettevano. Per il resto ognuno alla propria vita. Ma era mera-
viglioso così. Emanuela non desiderava che cambiasse qualcosa.
Voleva che tutto rimanesse immutato, per l’eternità. Perché quando
lei e Tim stavano insieme, qualunque cosa intorno a loro scompariva, si dileguava nel nulla. E restavano soltanto l’amore, la passione,
il divertimento e le risate. Lasciando i rispettivi problemi a quando
ciascuno di loro sarebbe rientrato nella propria normale esistenza di
ogni giorno.
Di solito stavano assieme per due o tre giornate. Poi si salutavano e si davano appuntamento alla successiva occasione. In sette mesi di rapporto, si erano visti otto volte, pressappoco una volta al mese o poco più. A New York, a Roma, talvolta anche in campo neutro.
Adesso erano già quattro settimane che stavano lontani.
Per la precisione, non si sfioravano da ventisei lunghi giorni. Con
relative notti.
Emanuela ora avvertiva il bisogno di lui, lo percepiva con estremo vigore e tenacia. Doveva andare da Timothy, doveva vederlo, si
disse. E il prima possibile, appena avesse sbrigato quell’ultima e
fastidiosa faccenda. Quell’incarico giunto all’improvviso e in modo
imprevisto.
Emanuela si alzò dalla sedia e s’infilò nel bagno. Si sistemò un
po’ i capelli e si rifece il trucco. Anche un paio di gocce di profumo,
a bagnare il collo e a rinfrescarle il fascino. Infine si accomodò alla
propria scrivania e mise in funzione il suo cQuackie per telecomunicazioni. Quell’aggeggio ultratecnologico e sottile, grande quanto
una barretta energetica, con la struttura inferiore di metallo pieghevole e il resto del corpo interamente di vetro sintetico, a contatto
digitale.
22 Dicembre, Venerdì. Ore 14:06. Informava lo schermo.
Emanuela si selezionò in opzione real image, per consentire a
Tim di vederla dal vivo, così come lei voleva adesso farsi osservare.
Accarezzò il profilo di Timothy Walken e attese la sua risposta.
Passò qualche secondo.
La real image fu rifiutata, dall’altro lato della linea.
Poi Timothy apparve. Però in avatar, senza la sua immagine vera, quella in tempo reale. La stanza da lavoro di Emanuela si riempì
così con la figura tridimensionale di un joker. Cioè la sembianza
virtuale che Tim aveva scelto per se stesso, quando non poteva comunicare attraverso la sua effettiva e attuale apparenza. Oppure
quando, più semplicemente, non lo gradiva.
‹‹ Scusami Emanuela, sono in riunione. Iniziamo tra pochissimo››
le annunciò il joker.
Il tono di Tim risuonò distaccato e freddo, tanto diverso da quello che usava quando loro due stavano insieme, magari l’uno dentro
alla carne dell’altra. Ma d’altronde le aveva appena fatto intendere
di essere già impantanato nella sua babilonia quotidiana, a dispetto
dell’ora. Quell’asettico tono vocale era dunque più che normale, più
che ammissibile, si rasserenò Emanuela.
‹‹ Ok, nessun problema. Non sapevo che fossi già fuori di casa a
quest’ora. Lì da te sono ancora le otto›› precisò lei.
‹‹ Lasciamo perdere quest’argomento, per favore. Non ci sono
proprio andato a casa, stanotte.››
‹‹Ti lascio, allora. Ci sentiamo dopo.››
‹‹No, assolutamente. Dammi soltanto un minuto, però.››
Si vide il joker lambire un pulsante, come per chiudere la parte
audio di quella conversazione. Poi l’avatar si alzò e allargò garbatamente le braccia, mentre parlava con un altro paio di joker, identici a lui. Quindi gli altri due joker si mossero in avanti, mentre il
primo li accompagnava verso un punto estremo, probabilmente la
porta della stanza. Infine il joker Timothy ritornò al proprio posto e
riaccese la trasmissione sonora.
‹‹ Tim, non serviva mandarli fuori. Ti avrei potuto ricontattare io
più tardi, con maggior calma›› lo rimproverò Emanuela, con molta
dolcezza.
‹‹Sei matta, amore mio? E chi se la perde un’occasione così! Vederti adesso, in mezzo a tutti i dinosauri che mi toccherà ancora
sopportare per oggi. E quei due comunque non erano pezzi importanti, altrimenti è ovvio che non gli avrei chiesto di uscire. Solo che
ho veramente i minuti contati, tesoro. Ti accetto la real image, ok?››
‹‹Okay. Però passami anche la tua.››
Mentre Emanuela penetrava nella stanza di Timothy, il joker sparì dalla sua. Al suo posto arrivò un uomo intrigante, con un impec-
cabile completo di lana antracite, camicia bianca e cravatta di seta
scura, molto vicina al nero.
‹‹Sei bellissima, amore›› le sorrise Timothy.
‹‹Anche tu lo sei›› gli rispose Emanuela.
‹‹Zitta! Una donna non lo dice mai a un uomo!››
‹‹E io, invece, te lo dico. Va bene? Se lo sei, non è colpa mia. A
limite fortuna, ma non colpa.››
‹‹Va bene, come vuoi tu. Incasso e porto a casa con piacere, allora.››
‹‹Ti amo, Tim.››
‹‹Anch’io ti amo, tesoro.››
‹‹ Ok, dai. Altrimenti fai tardi. Volevo soltanto dirti che pensavo
di venire da te.››
‹‹ Sul serio? Finalmente! È fantastico! Quando? Sei già in viaggio, vero? Dimmi di sì, forza!››
‹‹No, Tim. Domattina ho un ultimo lavoretto da sbrigare. Ma appena finisco, prendo il primo volo per New York. Se per te va bene,
è chiaro.››
‹‹ Mi stai dicendo, se ho capito correttamente, che arrivi domani
di sicuro. Ma non sai ancora a che ora. Giusto?››
‹‹ Giustissimo. A ogni modo, non credo di arrivare da te oltre la
tarda mattinata. Forse anche parecchio prima. Ma ora come ora non
so essere più dettagliata, Tim. Se la cosa ti crea difficoltà, dimmelo
senza alcuna remora. Tranquillo.››
‹‹ Scherzi? Domani è sabato. Poi ci sarà vigilia e Natale. Avevo
un po’ di cose da fare, ma chi se ne frega. Le rimando a mercoledì,
ok? Ti fermi fino a martedì, no?››
‹‹Sì, certo. Con piacere.››
‹‹ Allora è andata, amore mio. Ti aspetto domani. Mi dirai a che
ora atterri appena lo saprai. Nessun problema. E ci passiamo Natale
e quattro giorni indimenticabili insieme. Come sempre con te,
d’altra parte. Ho già un posto dove portarti, un’idea che mi è venuta
da un po’.››
‹‹ Non farmi morire, Tim, che sennò domani non arriva in fretta.
Ora però vai. Ci sentiamo stasera, stanotte, domattina. Appena saprò qualcosa di più preciso, insomma. Ma adesso non fare tardi.››
‹‹ Sì, hai ragione. Devo scappare. Mi hai fatto felice, amore mio.
Non me l’aspettavo. Quello che manca di oggi, ormai passerà in un
lampo. Col pensiero di te.››
‹‹Sei dolcissimo.››
‹‹ Anche tu, tesoro mio. Ora vado sul serio. A domani. Ti amo
tanto. Ciao.››
‹‹Ciao Tim. Anch’io ti amo tanto.››
La comunicazione si chiuse. L’immagine di Timothy evaporò in
un istante nell’aria, come quella della sua compagna da lui.
Emanuela rimase qualche minuto ferma al proprio posto, nell’estasi più completa. Quell’uomo l’amava davvero, alla pari di quanto
lei amasse lui. E ciò era splendido. Una vera botta di fortuna, che la
vita aveva deciso di donarle. E lei se lo prendeva tutto quel regalo,
senza se e senza ma inopportuni. Vivendolo come meritava di essere vissuto, con corpo, cuore, anima e poco cervello. Non serviva il
cervello in quel tipo di relazione, a meno di non volerla distruggere.
E lei non aveva alcuna intenzione di distruggerla. Desiderava anzi
tenersela stretta per il resto dei suoi giorni.
Emanuela tornò in bagno, davanti allo specchio.
Si guardò e si sorrise, sussurrandosi la propria infinita felicità.
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X
Ore 13:57.
A intervallo scaduto, arrivò il momento della bella ragazza bionda, dai capelli lisci e un po’ deteriorati dalle stagioni.
Attese qualche secondo prima di iniziare, come se volesse riordinare le idee o stesse calcolando quali cose andavano dette e quali
altre no. Alla fine stabilì ciò che poteva essere raccontato e cominciò.
‹‹Il mio nome attuale è di nuovo Carla Carmignani. Nella mia vita profana sono nata ventinove anni fa›› esordì la ragazza.
Ci fu una stagnante parentesi di silenzio.
‹‹Hai avuto più di una vita?›› cercò di chiarire e di farla procedere
Giorgio Minatelli. ‹‹ Non mi sembra che questo tuo preambolo sia
stato comprensibile a molti, Carla. A me no, perlomeno.››
‹‹ Avete ragione. Proverò a essere più esplicita. Ritengo di avere
avuto due vite, sì. Anzi, forse questa è la terza. Sono nata a Taranto
e ho fatto una vita normale. La vita di chiunque, da bambina e da
adolescente. Poi, a diciannove anni, sono diventata suora di santa
Chiara e sono andata a vivere in un convento. A Manduria, nel mio
distretto. Lì sono stata fino a poco tempo fa. Ma ieri, quando qualcuno mi ha portato in questo posto con voi, senza che me ne rendessi conto, non ero più a Manduria. Ero a Roma. E non ero più neanche una suora.››
Minatelli ebbe la sensazione che la ragazza stesse per affrontare
una parte estremamente dolorosa del suo racconto esistenziale. Anche qualcun altro se ne accorse, oltre a lui. La giovane Nicole su
tutti. Sia l’uno che l’altra non furono per niente sicuri che Carla volesse dilungarsi nella sua storia, che volesse andare avanti in quel
momento. Lo pensarono nello stesso istante, nel medesimo frangen-
te, come se i loro due cervelli fossero in collegamento diretto. Ma
senza la possibilità di sapere che anche l’altra persona stava ponderando la stessa cosa.
Come prevedeva il suo recente incarico da intercessore collegiale, che lui stesso si era spontaneamente attribuito all’interno della
nuova comunità, Giorgio ruppe gli indugi. Quel ruolo in fondo non
gli era mai stato inconsueto, neanche prima d’allora.
‹‹Te la senti di continuare, Carla?›› le chiese.
La bella ragazza si fece coraggio e fece cenno di sì.
‹‹Soltanto se lo vuoi, se te la senti davvero›› specificò Nicole.
Minatelli annuì verso Nicole, in segno d’intesa.
Carla ribadì l’assenso e proseguì.
‹‹Dio solo sa che non è colpa mia! Lui lo sa, perché Lui sa tutto,
vede tutto e tutto può. E io non volevo che andasse così!››
Tirò su col naso, poi se lo asciugò con il dorso della mano.
Si asciugò anche qualche fresca lacrima, da poco ritornata in superficie, per l’ennesima volta.
‹‹ Una sera sono uscita, come uscivo tutte le sere, per andare a
portare la cena all’orfanotrofio che sta proprio dietro il convento. In
parte ci occupiamo direttamente noi dell’orfanotrofio e in parte il
Ministero Territoriale della Solidarietà. Ci fornisce fondi e un po’ di
persone ben preparate. Educatori, assistenti, medici. A ogni modo,
alla refezione ci pensiamo sempre noi, tutti i giorni. Noi prepariamo
e portiamo i pasti. Colazione, pranzo, merenda e cena. Io mi occupo
della cena, insieme ad altre tre mie sorelle.››
Rivolgendosi esclusivamente a se stesso, Nando constatò come
Carla parlasse costantemente al presente, raccontando quella sua
parte di vita. Non diceva ci occupavamo, ci forniva o noi preparavamo, bensì occupiamo, fornisce, prepariamo.
Si rese conto che anche gli altri prima di lei avevano parlato così,
nell’identica forma. Dallo stesso Minatelli a Beltrami, da Giuseppe
Rotoli alla contessa Borgese. Persino Filomena Marrone, detta però
Fanny e non Filomena e che questo fosse ben chiaro a tutti.
Ciascuno aveva coniugato i verbi come se nella propria vita non
fosse mutato nulla. Come se fossero ancora tutti pienamente immersi nelle loro faccende quotidiane e usuali. Come se non stavano lì.
Come se ancora stessero lavorando, oppure discutendo davanti alle
loro mogli o mariti o fidanzati. Come se lì non fossero mai entrati,
come se nessuno ce li avesse mai trasportati.
Però, in fin dei conti, considerò Nando, non era molto che si trovavano in quel luogo enigmatico. Magari le loro teste dovevano ancora agganciarsi all’idea che da quella mattina in poi le loro esistenze cambiavano. Non se ne conosceva il tempo, questo era vero, ma
certamente cambiavano. Lui questo lo aveva invece già compreso.
E tutto sommato non era un male che solo lui l’avesse fatto. O almeno solo lui e l’Anonimo. O quanto meno loro due e pochissimi
altri.
Qualche volta è meglio non percepire la realtà. Talvolta l’inconsapevolezza è un approdo essenziale, per quanto invisibile, nel mare
delle proprie fragilità.
Giuseppe Rotoli ebbe la luminosa ispirazione di interrompere
Carla, proprio nel bel mezzo delle sue più sofferte confessioni. E
per giunta con una domanda che più sterile e stronza di così non poteva essere.
‹‹Scusami, Carla. Ma non sei suora di clausura?›› le chiese.
Ancora quell’indicativo presente.
Nando pensò che però c’era un limite a tutto e che quell’orsetto
pacioccone del cacchio fosse veramente uno scemo a pieni titoli.
Carla lo aveva detto o no, che ormai non era più una suora? Sarebbe
bastato ascoltare, caro il mio orsetto cretino, si disse lo zingaro.
‹‹ Al di là del fatto che all’orfanotrofio ci si può arrivare anche
senza uscire dal convento, Giuseppe, il punto non è questo. La clausura è stata definitivamente abrogata dal Papa almeno quindici anni
fa, per qualunque ordine monastico!›› straripò l’ex suora.
Probabilmente anche lei stava ora pensando le stesse cose di
Nando.
Giuseppe Rotoli realizzò di aver detto una stupidaggine. E soprattutto di averlo fatto nel frangente meno indicato possibile.
Abbassò la testa e le sue guance carnose si fecero ancora più rossicce e paonazze del solito.
Quando ritirò su il capo, i suoi occhi andarono a incrociare quelli
del bestione. L’uomo gli fece intendere con lo sguardo, senza profe-
rire alcun’inutile parola, che adesso era tenuto a dire qualcosa, nel
tentativo di giustificare l’inconcludente idiozia che aveva appena
sparato. Era giusto che fosse così, ragionò pure Nando, al quale non
sfuggiva nessun’occhiata o gesto che l’Anonimo facesse. E com’era
sua consuetudine, quello del bestione non era stato un amichevole
consiglio, fiutò Giuseppe. Bensì un ordine da eseguire alla lettera e
istantaneamente, pena la sua preoccupante incazzatura e la sua facile vendetta.
‹‹ Scusami Carla, era solamente una curiosità, da ignorante. Non
volevo interromperti›› si scagionò Rotoli.
‹‹Non fa niente, Giuseppe. Scusa tu se ti ho risposto un po’ male››
lo rassicurò la ragazza, che poi aggiunse ‹‹Volete che continui?››
Carla sembrava ora un pizzico più serena di poco prima e tutti le
fecero capire di sì, che volevano ben volentieri. Anzi, non aspettavano proprio altro.
‹‹Quella sera sono uscita, stavo dicendo, come facevo ormai tutte
le sere. Nell’ultimo periodo avevo preso l’abitudine di non passare
da dentro, ma di fare il giro del convento, dalla strada esterna. Ci
trovavo sempre tre senzatetto, ai quali allungavo con piacere una
pagnotta e qualche pezzo di carne. Magari un po’ di pasta o di minestra, qualche foglia di verdura cotta. Quello che era possibile, insomma. E loro mi aspettavano sempre lì, alla stessa ora, ogni giorno, da due o tre mesi a quella parte. Io ero la loro cena, come lo sono per tutti i bambini e i ragazzini del brefotrofio, con l’aiuto delle
mie tre sorelle. Ma quella sera, Dio mi perdoni, non c’erano solo i
tre mendicanti ad attendermi.››
Lo sconforto tornò a far breccia su Carla e dentro ai suoi occhi.
Tutti gli altri stavano ascoltando nel più rispettoso e totale silenzio la sua narrazione. La storia di quella donna molto bella e aggraziata fuori, ma che appariva ancor più deliziosa dentro, all’interno
del proprio animo gentile. Tutti stavano intuendo che adesso sarebbe arrivata la parte più dura e sconvolgente di quella testimonianza.
Carla si chiese per un istante se fosse giusto raccontare tutto, così
come stava facendo ora, a quel gruppo di perfetti sconosciuti.
Poi si rispose che lo era, che era giusto così, magari evitando le
parti più confidenziali e anche quelle più segrete. La situazione in
cui si trovavano tutti insieme adesso, lo scopo della riunione e di
quel presentarsi vicendevolmente, il pericolo che forse stavano correndo assieme, dentro quello sfarzoso e gigantesco appartamento.
Tutto le lasciava supporre che doveva fidarsi di loro, che non le rimaneva altra scelta, volente o nolente che fosse. E confidarsi è quasi sempre un segno di altissima fiducia nell’altro. Sì, lei ora aveva
bisogno di loro, si persuase. E poi magari, col tempo, avrebbe fatto
in modo che anche loro avvertissero il bisogno di lei. Avrebbe provato a infiltrarsi tra le pieghe dei loro cuori.
Al momento non c’era nulla che si potesse ricondurre a una minaccia concreta, a un rischio immanente, in quello spazio. E che Dio
fosse lodato per questo. Ma la paura spesso affiorava come una coltre cupa e fosca, così tangibile da poter essere perfino annusata. Il
sentirsi uniti, il percepirsi una nuova e consolante famiglia, il considerarsi una solida comunità, per quanto nata in maniera atipica e
imprevista, era già un bel modo di arginare la paura. Sì, era così.
Carla si disse che era giusto raccontare tutto.
Trovò pertanto la forza per procedere oltre. E lo fece.
‹‹ Avevo aggirato da una decina di metri il primo angolo della
strada, quello dopo il quale non si riuscivano più a vedere i senzatetto e dove le luci diminuiscono un po’. I lampioni sono insufficienti e ce n’è sempre qualcuno perennemente fulminato. Avrei dovuto compiere un altro angolo, per arrivare all’ingresso dell’orfanotrofio. Quel tratto di strada era deserto. Ne sono sicura anche adesso. L’avevo esaminato per bene, prima di percorrerlo. Lo facevo
sempre. Ma all’improvviso è sbucato un uomo nell’ombra, non so
neppure da dove. So soltanto quello che è successo subito dopo.
Beh, sono stata violentata!››
… continua …
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XIII
Ore 17:37.
Miroslav Dragovic si godeva la scena, soddisfatto e orgoglioso.
Anche in quel giorno di lavoro e di casini con Ana.
Milano non offriva un gran clima e già il buio l’aveva avvolta in
ogni sua parte.
Il piccolo Dragan, alla luce di un lampione e dall’alto dei suoi
cinque anni, stava giocando con un esile bruco verde e lo martoriava in tutti i modi possibili. Quando il vermiciattolo riusciva a divincolarsi dalle posizioni che Dragan voleva fargli assumere, il bambino si girava verso suo padre, a invocarne l’aiuto.
Il volto allegro di quel bimbo era tutto ciò che Miroslav avrebbe
desiderato vedere per sempre. Anche quando suo figlio si sarebbe
fatto uomo e avrebbe dovuto affrontare momenti che non davano
spazio al sorriso e alla gioia. Come quelli che lui aveva con Ana.
Da quando si erano lasciati, sei mesi prima d’allora, il rapporto
con lei si era trasformato in qualcosa di veramente insostenibile.
Miroslav sapeva di non essere la causa di tutto questo, ma soltanto
la disgraziata vittima.
Aveva sempre rassicurato Ana che, insieme o separati che fossero, non avrebbe mai fatto mancare niente a nessuno. Né a lei e né
tanto meno a loro figlio. E non lo diceva tanto per dire o per recitare
una parte di convenienza, lo diceva perché era così.
Eppure Ana, evidentemente, non aveva mai creduto a quelle promesse. E aveva scelto la strada ai suoi occhi più sicura per garantirsi
soldi e sussistenza, per tutti gli anni a venire. Peccato che quella
strada fosse il ricatto e che il bene del ricatto era il piccolo Dragan.
Ultimamente vedersi con lei era diventato un inferno. Prima ancora di qualunque altro discorso o anche del suo legittimo saluto di
padre al bambino, si doveva parlare di soldi. Di come stavano i conti, le carte di pagamento, i trasferimenti. Se ogni cosa era a posto, in
ordine, in perfetta regola. E solo a quel punto, se il tutto non dava
adito a dubbi o a necessità di ulteriore chiarimento, si poteva parlare
di altro. E Dragan poteva così ritornare a essere figlio comune di
entrambi.
Certo, la posizione, il lavoro e i soldi di Miroslav erano un buon
partito per chiunque. Un ottimo obiettivo su cui porre il proprio desiderio. Ma questo non giustificava l’opportunismo di quella donna,
soprattutto perché con lui non ne avrebbe avuto bisogno. Mai, in
nessun tempo.
Avevano vissuto momenti indimenticabili insieme, oltre un terzo
di vita reciproca. E da quella loro unione era inoltre nata la creatura
più fantastica dell’universo. La stessa creatura che ora stava torturando quell’esile bruco verde.
Peccato che la vita spesso prenda queste pieghe, si disse Miroslav. Peccato che le persone siano in grado di cambiare così.
L’importante era che non cambiasse mai lui. E, al disopra di
qualsiasi altra cosa, che non si mutasse mai il tenero sorriso impresso sulla bocca di Dragan. Avrebbe avuto tutto il meglio dalla vita,
quel bambino. E lo avrebbe avuto grazie a suo padre.
Le cose procedevano alla grande sul lavoro e quell’ultima faccenda di cui si stavano occupando andava davvero ben oltre ogni
più roseo sogno, al di là di qualunque logica utopia. Era una delle
cose più grandiose che Miroslav avesse mai visto e, per giunta, lui
ne era una piena e attiva parte. Anzi, in realtà ne era il motore centrale, specialmente in quella fase. Il denaro non gli mancava, ma
quell’affare gliene avrebbe portato altro, nuovo, a camionate. Per
non parlare poi di successo e potere. Era un uomo fortunato, si disse. Soprattutto perché aveva Dragan.
Non si sarebbe dovuto muovere dal suo lavoro, proprio quel
giorno. Ma poi il contatto di Ana, che gli diceva di andare a prendersi Dragan, aveva superato qualsiasi altra esigenza e priorità.
In più i suoi uomini lo avevano avvisato che la macchina era arrivata, che bisognava solo andarla a prendere. E lui aveva così ap-
profittato di quell’occasione per uscire un po’ e per stare con il suo
bambino.
Non era stato facile reperire il congegno. Non ne esistevano moltissimi pezzi nella Western World Confederation. E i limitati pezzi
in circolazione si trovavano all’interno di enti e organismi governativi. Una scelta dettata da basilari necessità di carattere sociale e politico e non da ragioni economiche o tecnologiche. Ma quando, con
le confacenti referenze, i soldi erano calati a sufficienza sul tavolo
giusto, il congegno era saltato fuori come d’incanto. I soldi erano
sul serio il passe-partout del mondo, la chiave per ogni magia. E ora
il dispositivo era giunto lì, da loro e per loro. Con un paio di giorni
di ritardo, ma questo poco importava. Ciò che contava veramente
era che la macchina ci fosse e che fosse arrivata in tempo utile. Altrimenti avrebbe dovuto rivedere una buona parte dei suoi piani.
Meglio così, davvero. Meno incombenze e più tempo per Dragan.
Al termine di quella breve missione sarebbe rientrato al lavoro,
al suo posto di comando. Però intanto stava con Dragan e Dragan
era con lui.
‹‹Uffa, papà! Questo coso si muove sempre›› si lagnò il piccolo.
Miroslav rise di gusto, rispondendo a suo figlio.
‹‹ Sicuro che si muove, Dragan. È vivo, meno male per lui che si
muove. E anche per te. Non lo uccidere. Così è più divertente giocarci, amore mio.››
Non lo uccidere, così è più divertente giocarci.
Quella doppia frase disputò per un po’ una partita di ping pong
dentro alla sua testa. Bizzarro come talvolta le situazioni si sovrappongano senza motivo e volontà, anche con un pizzico di insano
umorismo. Le parole che aveva appena pronunciato verso suo figlio, da padre amorevole e consigliere, erano le stesse che contraddistinguevano il suo lavoro attuale. Evidentemente anche lui giocava con i bruchi, rifletté infine, sorridendo a quel pensiero.
Miroslav fu riportato alla realtà dalla voce di un suo incaricato.
‹‹Signor Dragovic?››
‹‹Sì, dimmi.››
‹‹ L’apparecchio è a posto. È già a bordo. Quando lei vuole, possiamo rientrare.››
Miroslav gli avrebbe voluto rispondere di no, che non voleva rientrare proprio per niente. Ma poi vinse ovviamente l’opportuno
senso pratico, l’attaccamento alla concretezza delle cose.
‹‹Certo, andiamo pure›› decretò alla fine, accogliendo di mala voglia l’invito dell’uomo.
Poi si rivolse a Dragan, avvicinandolo per portarselo dolcemente
in braccio.
‹‹Andiamo, amore mio. Anche questa breve vacanza è finita, purtroppo.››
Due IUS1 si rimisero in marcia, per ritornare alla base.
Dietro e davanti a loro, due IUS2 di protezione.
Ancora più avanti, Milano e la sua densa oscurità invernale, spezzata da una miriade di fiammelle luminose.
Ognuna di quelle fiammelle era un frammento di umanità in movimento.
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XVI
Ore 19:15.
‹‹ Questa roba è mostruosamente super!›› esclamò Nando, con
grande slancio e dopo qualche minuto d’osservazione.
‹‹Hai ragione, per Dio!›› confermò Nicole, con analoga passione.
‹‹ Non c’è diretta, ma chi se ne frega. Qui ci sono un milione di
film, i più belli che esistano›› proseguì il giovane zingaro.
‹‹ Vero, hai proprio ragione. È così. Facciamocene uno, dai›› propose la ragazza.
Scelsero nello sconfinato catalogo elettronico delle proiezioni
registrate, non essendoci la possibilità di vedere quelle in tempo
reale. Ma i film erano sempre più belli delle dirette, in fondo. Tanto
più belli. Più articolati, più affascinanti, estremamente più coinvolgenti. E poi loro due non amavano i giochi a premi, i varietà o le
gare canore. Tutte le stronzate del real time, in sostanza. Di gran
lunga meglio un buon film, magari uno di quelli che solo gli orientali sapevano fare. E lì, di quel genere di mercanzia, ce n’era sul serio un casino.
‹‹L’hai già fatto The ancient guardians of virtue?›› le chiese Nando.
‹‹E che cos’è?›› gli rispose Nicole, con un’altra domanda.
‹‹Mi hanno detto che è fighissimo.››
‹‹Ok, ma di che parla?››
‹‹Cavalieri medievali, roba storica. Dicono che ci siano dei combattimenti imperdibili.››
‹‹Sì, mi piace›› sorrise lei. ‹‹Anche se io ti avrei proposto Foreign
lovers. Alcune mie amiche che lo hanno fatto, mi hanno raccontato
che ci sono delle scene di sesso assolutamente da provare. Che ne
dici?››
‹‹Dico che prima ci facciamo i cavalieri e poi il tuo, se ci stai.››
‹‹ Ci sto. Ma sia chiara da subito una cosa, furbetto. In Foreign
lovers, non potrai sperare in nessuna scena di sesso con me.››
‹‹E chi ti ha detto che avrei voluto questo?›› eccepì Nando, rivendicando la propria fierezza maschile e il proprio disinteresse.
Nicole era una bel pezzo di figliola, verissimo. Però lui le scene
di sesso le faceva con Patrizia. E, soprattutto, le faceva dal vivo.
‹‹Nessuno, d’accordo. Ma meglio chiarire le cose subito.››
‹‹ Va bene, l’hai fatto›› concluse lo zingaro. ‹‹ Ascoltami, Nicole.
Se in ancient guardians selezioniamo il yourself, non manterremo
comunque i nostri abiti reali. È un film storico, in costume.››
‹‹ Ehi, ma da dove credi che venga? Pensi che scenda dalle montagne?››
‹‹Ok, scusa. Magari non lo sapevi.››
‹‹ Certo che lo so!›› evidenziò la ragazza. ‹‹ Forza, dai. Cominciamo. Ma allora che scegliamo? Yourself o un personaggio?››
‹‹ Uhm, non lo so. Io mi sa che mi prendo Parsifal, me l’hanno
consigliato.››
‹‹Niente yourself, quindi?››
‹‹ No, dai. Ci facciamo il prossimo in yourself, il tuo. Così sarai
anche più sicura che non potrò metterti le mie vogliose manacce
addosso›› ironizzò lui.
‹‹Spiritoso!››
‹‹Come hai detto che si chiama?››
‹‹Che cosa?››
‹‹Il tuo film.››
‹‹Foreign lovers.››
‹‹Ah, giusto. Scusa. Allora? Che ti prendi?››
‹‹Aspetta, dammi un minuto›› gli disse lei, mentre scorreva i profili dei personaggi del film.
‹‹Hai deciso?›› domandò Nando, dopo il giusto tempo.
‹‹Credo Tristano, oppure Kay. Non lo so, sono un po’ incerta.››
‹‹Tristano muore, lascia perdere.››
‹‹Sì, però ha una storia bellissima. Almeno così sembra.››
‹‹Visto che io ho digitato Parsifal, tu scegliti Lancillotto, no?››
‹‹No, è banale. Non mi piace.››
‹‹Fai come credi, basta che iniziamo.››
‹‹ Sì, sì. Faccio subito. Però che palle, senza yourself. Sai già come si sviluppano e finiscono le storie.››
‹‹Se leggi tutta la trama, è naturale! Se invece partissimo, magari
ce lo godremmo di più. E poi, che te ne frega qui della storia? Qui
c’è da combattere›› le sorrise Nando.
‹‹Ok, hai ragione. Non leggo più. E vada per Kay›› decretò Nicole, premendo sul proprio personaggio.
‹‹ Splendido. Allora possiamo andare. Versione integrale o hai
paura?›› le chiese ancora lui.
‹‹ Paura? Mi stai prendendo un’altra volta per una montanara?
Versione integrale, è scontato!›› precisò Nicole.
Nando le sorrise di nuovo. Quella ragazza era veramente forte,
pensò. Accettava di buon grado un film di guerra e non si faceva
problemi a condividerne la versione integrale. Quella in cui si rischiava di soffrire un po’, perché il corpo era esposto per intero a
sensazioni tattili e botte.
‹‹ Perfetto! E versione integrale sia!›› proclamò Nando, modificando ad arte il suo tono di voce per renderlo trionfale e solenne.
Come in un film medievale, per l’appunto.
Delle sei cabine che componevano l’intera stazione olovisiva, i
due giovani ne avevano occupate sin dall’inizio un paio. Una ciascuno. Da lì potevano parlarsi normalmente, avendo attivato la comunicazione acustica. Così come potevano osservarsi senza nessuna
difficoltà, grazie alla totale trasparenza di quelle capsule. Avevano
optato per le due postazioni maggiormente accostate alla centrale di
generazione, vale a dire le più lontane dalla balaustra in ferro battuto che affacciava sul soggiorno. L’interno di ogni cabina era arredato con una coppia di singoli elementi. Sul lato opposto all’entrata
era collocata una piccola plancia di comando, dalla quale trasmettere al generatore qualunque tipo di scelta. Su un altro fianco era invece montata una poltroncina ribaltabile, utile magari per le proiezioni più pacate, quelle meno interattive e accese.
Già qualche momento prima, Nando aveva selezionato il film e
le postazioni coinvolte. Erano appena stati determinati anche i corri-
spondenti personaggi e l’opzione integrale. Dunque non mancava
altro. Adesso c’era soltanto da mettere il dito su start.
Nando guardò Nicole e lei gli fece segno di essere pronta.
L’indice del ragazzo si appoggiò sulla plancia e diede l’avvio.
Le porte automatiche delle cabine olovisive si chiusero sulle loro
sagome. E i due giovani s’immersero così nel mondo incantato e
crudo di mille anni prima.
Giorno 2
23 dicembre, sabato
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XXV
Quattro giorni prima d’allora.
Tre prima del risveglio di Nando nel proprio loculo.
Primo pomeriggio, subito dopo l’ora del pranzo.
Tre colpi lievi sulla porta.
Nando sapeva chi era, quando bussavano così.
Era suo cugino Pasquale.
Era stato bene in quel periodo, senza Pasquale tra le palle. Tanto bene. Gli sbirri avevano rimesso quel bastardo di cugino in gattabuia. Per un po’ di tempo. E in quel po’ di tempo Nando era stato
proprio bene. Per Pasquale la cella di una prigione era un posto
familiare, che conosceva davvero alla perfezione, probabilmente
anche meglio di casa propria. Prima ancora di essere beccato, Pasquale era stato via un altro scorcio di tempo, per qualcuno dei
suoi giri e dei suoi traffici. E Nando aveva così vissuto libero e
tranquillo, per qualche piacevole e sospirato mese.
Ma adesso Pasquale era tornato. E ogni volta che tornava aveva
qualche sorpresa per lui. Qualche nuova rottura di palle. Qualche
grana fresca. Un favore da chiedergli, un lavoro da fare. Qualcosa
che frantumava dunque la sua serenità e lo riportava in quella vita
fangosa che da un certo tempo s’era ripromesso di gettarsi alle
spalle. E quella triplice e leggera bussata sulla porta era un segno
distintivo. Il segnale che quella pace era finita. Pasquale era ritornato da lui, per disintegrarla in un baleno.
Nando si alzò e aprì la porta. Era solo in casa.
L’altro neanche lo salutò. Si limitò a mostrargli il foglio che teneva in mano. Sopra c’era scritto: Alle diciassette in Via della Concordanza. Ci trovi il mio IUS. Vicino all’Hbx Multistore. Salici su e
sii puntuale.
Quello era il modo di Pasquale e di molti del suo stampo per
sfuggire un poco ai controlli ininterrotti delle PIW.
Gli domandò senza parlare se avesse capito, se tutto era chiaro.
Nando gli fece un gesto affermativo con la mano, pollice e indice
a forma di cerchio. Poi si maledì, per non avere il coraggio di mandarlo direttamente a cagare.
Cinque minuti prima delle diciassette, Nando era all’esterno
dell’Hbx Multistore. Faceva un freddo bestiale. Lo IUS del bastardo c’era. E c’era pure il bastardo, ovviamente. Era insieme a un
altro tipo. Uno che lui non aveva mai visto prima e che conduceva
il mezzo di suo cugino.
Nando salì a bordo dello IUS. Di nuovo non ci furono saluti, né
tanto meno presentazioni. Se quel tipo era lì, allora ciò significava
che poteva starci. Punto.
Si sedette sul sedile posteriore, accanto a Pasquale.
Lo IUS iniziò a viaggiare.
Pasquale aveva con sé il suo solito blocco per appunti, con tanto
di penna. Niente di elettronico, tutto all’antica maniera, da poter
poi buttare e distruggere completamente.
Nessuno parlava all’interno del veicolo. E Nando sapeva che la
cosa doveva rimanere esattamente così.
Pasquale gli porse un altro blocco e un’altra penna, per le relative risposte. Quindi cominciò a scrivere e Nando, di contro, a pazientare.
Primo appunto: La cosa è molto grossa e delicata. E non devi fare cazzate. Ci sono buoni soldi per te, ma non bisogna sbagliare una
virgola. Chiaro? È anche roba molto semplice.
Prima replica: Sputa il rospo.
Secondo appunto: Domani prendi uno IUS e vai a Roma. A mezzogiorno incontrerai un tizio e lo porterai da un secondo tizio. Aspetti e vai via con il primo uomo, appena avranno terminato. Poi
torni a casa. Non fai domande a nessuno. Te ne fotti di tutto. E poi ti
darò la tua parte.
Seconda replica: Due sole curiosità. Primo, con quale IUS vado
a Roma? Con questo, col tuo?
Mentre Nando stava per scrivere la seconda delle sue due domande, Pasquale gli fece segno di fermarsi e di tacere. Scrisse lui.
Terzo appunto: Col cazzo che ci vai col mio! Sei scemo? Appena
io e te avremo finito, andrai subito con questo mio amico. E io sparisco per un po’ dalla circolazione. Lui ti fornirà lo IUS per domani
e le istruzioni per prenderlo. Dove e quando.
Terza replica: È pulito lo IUS? Lo sai che non voglio rogne.
Quarto appunto: Vedi di non rompermi i coglioni! Non ti fidi di
tuo cugino, forse?
Nando fece cenno di sì, che si fidava. Così si risparmiò pure di
scrivere, per quella volta. Tanto con Pasquale era meglio farla corta. E non farlo incazzare, soprattutto.
Pasquale gli fece intendere che stava attendendo la seconda delle due domande, quella che non gli era ancora stata posta.
A quel punto, Nando non fu più sicuro di poter davvero fare
quella richiesta. Però la fece lo stesso.
Quarta replica: Hai detto che i miei soldi sono buoni. Quanti sono?
Pasquale si fece rosso in viso, come se la domanda lo offendesse,
come se ne fosse rimasto irreparabilmente indignato. Come se il
cugino minore avesse appena dimostrato di non fidarsi realmente di
lui. Quasi che il loro rapporto si fosse istantaneamente incrinato,
che avesse preso adesso la deriva, che si fosse ridotto allo sbando.
Tutto a causa di quell’isolata e piccolissima curiosità, che Nando
reputava per di più pienamente legittima, dal suo punto di vista.
Nando fece comprendere a Pasquale che non aveva importanza,
che nutriva assoluta fiducia in lui, che era certo che fossero buoni
soldi e che li avrebbe riscossi a tempo debito. Ne era convinto, conoscendolo. Si scusò per aver scritto quella stronzata. Fece tutto
senza parlare, ma l’altro arguì perfettamente ogni cosa. Allo stesso
modo in cui lui seppe di aver spudoratamente mentito.
Pasquale riprese a scrivere.
Quinto appunto: Domani, a mezzogiorno in punto, fatti trovare a
Roma. In Via dei Coriandoli. Al numero 111. Lì incontrerai un tizio, ti ripeto. Non ci sarà molta gente, lo riconoscerai. A ogni modo,
per agevolarti l’impresa, sappi che porterà un basco nero in testa. Il
suo nome è bloody virgin. Tu chiamalo così, quando lo avvicinerai.
A bassa voce. E lui capirà che tu sei il suo uomo. Tutto chiaro?
A Pasquale faceva male la mano, per quanto aveva scritto.
Quinta replica: Sì.
Pasquale gli mostrò un sorriso compiaciuto e gli fece intuire che
c’era ancora un ultimo dettaglio essenziale. Girò l’ennesimo foglio
e continuò a scrivere.
Sesto appunto: Lo accompagnerai con il tuo IUS a un indirizzo
specifico. Largo degli Ambasciatori Confederali, numero 28. Da un
prete. Il prete è l’altra persona con cui bloody virgin deve vedersi.
Pasquale ravvisò lo stupore nello sguardo del giovane parente e
gli ricordò di doversi fare rigorosamente i cazzi suoi. Il tutto sempre senza adoperare parole. In quella storia, Nando doveva essere
una tomba, un sordomuto.
Ferdinando gli comunicò con la faccia di aver limpidamente afferrato il concetto. Sarebbe stato un pesce. Fece il gesto della zip
sulla bocca e Pasquale se ne rallegrò. Quindi il più grande dei due
cugini proseguì a tracciare altre lettere sulla carta.
Settimo appunto: Ti ho già detto che poi aspetti quei due, finché
non avranno finito di discutere. Però mettiti per fatti tuoi, non stargli in mezzo alle palle. Dopo riporti bloody virgin dove cazzo ti dirà
di portarlo e rientri a Pescara. Per me è tutto.
Sesta replica: Pure per me. Stai tranquillo.
Ottavo appunto: Ti riassumo le cose importanti. Memorizza attentamente, che poi distruggerò questi fogli, sia i miei che i tuoi.
Bloody virgin. Basco nero. Roma. Mezzogiorno di domani. Via dei
Coriandoli, 111. Largo Ambasciatori Confederali, 28.
Nando s’impresse tutto per bene nella testa, come Pasquale gli
aveva comandato di fare.
Pasquale si riprese il blocco per annotazioni che aveva temporaneamente prestato al cugino e lo ricollocò assieme al suo. Si prese indietro anche la penna. Quindi l’altro uomo arrestò lo IUS. Pasquale scese dalla navetta, sempre senza salutare nessuno. Infine
sparì in mezzo alla città e al suo bianco gelo.
Lo IUS si mise nuovamente in movimento.
Nando provò a parlare all’altro uomo, che dava l’idea di essere
un po’ meno burbero e laconico di suo cugino, perlomeno in apparenza. Inoltre, prima di qualsiasi altra cosa, non sembrava avere
trasmettitori PIW addosso.
‹‹ Potrei chiedere a te qualche spiegazione in più? Puoi farlo?››
gli domandò.
L’uomo gli intimò di tacere, ponendosi il dito indice sulle labbra,
in posizione verticale. Poi, poco dopo, lo IUS ritornò fermo.
L’uomo gli fece cenno di scendere e Nando aderì senza fiatare a
quella pacata ingiunzione. Lasciarono il veicolo e si diressero a
piedi verso un locale, una sala caffè. L’altro uomo davanti e Nando
dietro, a seguirlo.
Una volta all’interno, si sedettero a un tavolo.
‹‹ Sì›› gli disse l’altro, a quel punto. ‹‹ Io e te possiamo parlare.
Non dentro allo IUS di tuo cugino, però.››
‹‹Ok, va bene. Tu non ti porti appresso PIW, vero?››
‹‹No. Io non ho niente di niente. Non sono un bandito, io sono un
uomo d’affari. Certo che Pasquale ti conosce proprio come si deve!›› sogghignò l’uomo.
‹‹Perché?››
‹‹ Perché mi aveva avvisato che mi avresti chiesto qualcosa.
Dimmi che vuoi sapere e io ti dirò se posso risponderti. Sembri un
bravo ragazzo. Però ascolta. Non mettermi nei casini con Pasquale,
ok? Io e lui siamo soci in quest’impresa e non voglio problemi con
lui. Siamo intesi?››
‹‹Sì, siamo intesi›› gli assicurò Nando.
‹‹E allora? Che vuoi sapere di più?››
‹‹Facciamo prima se sei tu a dirmi quello che puoi. E io ascolterò tutto ciò di cui vorrai informarmi.››
‹‹ D’accordo, come preferisci. Abbiamo avuto una commissione.
Roba parecchio grossa, ragazzo. Sul serio. Stai bene attento a ciò
che dici e a ciò che fai, in questa storia. Fai quello che ti è stato
domandato, prenditi la tua parte e fregatene di tutto il resto. È un
consiglio fraterno. La proposta l’ho ricevuta io, per la precisione.
Per delle amicizie che ho nell’ambito ecclesiastico. Abbastanza in
alto, direi. Ma come ti ho detto, io sono solamente un uomo d’affa-
ri, non un delinquente. Così mi sono rivolto a tuo cugino. Io e Pasquale ci conosciamo da un bel po’ di tempo. E pure molto molto
bene. Lui non fa il genere di lavori che mi hanno richiesto, ma ha i
suoi agganci, nel settore. E così ci siamo indirizzati ad altri suoi
appoggi. E siamo arrivati in questo modo a bloody virgin. Questo
tizio ha però preteso di essere accompagnato all’incontro, da uno
di noi. Ne avrà le sue valide ragioni e a noi non interessa. Lui non
sa con chi dovrà incontrarsi, tratteranno al momento. Mi sembra
chiaro perché ci andrai tu, ad accompagnarlo. È evidente che non
possiamo muoverci né io né tuo cugino. Io mi muovo nell’ombra, te
l’ho già detto e ripetuto, e lui l’ombra se l’è ormai giocata da un
pezzo. Questo ti basta? Tanto è giusto la parte che avresti capito
anche da solo.››
‹‹ Suppongo che non abbia molta importanza che mi basti o meno.››
‹‹ Dici bene, ragazzo. Anzi, benissimo. Quello che ti ho appena
rivelato, tu non l’hai mai sentito. E quello che ancora non sai, è
meglio che continui a non saperlo. Fidati di me.››
L’uomo diede a Nando tutte le istruzioni in merito al suo IUS,
quello per la missione dell’indomani. Dove l’avrebbe trovato e
quando. Poi i due si lasciarono, dopo un paio di caffè bevuti in fretta. Quindi Nando ritornò a casa propria, tra le tante perplessità e i
freschi incubi che quel bastardo di Pasquale gli aveva portato, ricomparendo dal nulla. Come al solito. Come sempre.
La mattina successiva non arrivò rapidamente, per Nando. Tuttavia arrivò, come ogni mattina, implacabilmente. E così lui iniziò
il proprio viaggio, in direzione della capitale territoriale.
‹‹Troia bastarda!›› imprecò il giovane zingaro.
La sua cSnail e il navigatore di bordo segnavano entrambi diciassette minuti alle undici.
Era in perfetto orario, visto che si trovava già alla periferia di
Roma. E in circa una mezz’oretta o poco più avrebbe raggiunto il
punto di ritrovo concordato, senza alcun affanno e in abbondante
anticipo. Ma tutto questo sarebbe accaduto solo se quel dannato
IUS non si fosse fermato all’improvviso.
‹‹ Incredibile! Tutte a me, per Dio! Questi cacchio di cosi non si
bloccano mai! Proprio a me doveva fermarsi? E proprio adesso?
Maledizione! Troia bastarda che non è altro che una troia bastarda! E ora che cacchio faccio?››
Pensò che non era davvero il caso di avvertire nessuno. Polizia,
soccorso stradale, Pasquale. Tutte idee paradossali, irrealizzabili.
E quel fottuto veicolo non voleva proprio saperne di rimettersi in
azione. Doveva fare qualcosa. E farla pure subito. Quanto meno se
non voleva ritrovarsi in un blocco di cemento a fare da armatura,
nella migliore delle ipotesi. Pasquale non perdonava e, in quell’occasione, sarebbe stato ancora più inflessibile e spietato che mai, si
disse Nando.
Scese dallo IUS e si guardò intorno, alla ricerca della miglior
cosa da mettere in atto.
Si trovava in un incantevole viale alberato, che non aveva mai
visto prima d’allora. Non che avesse mai frequentato tanto Roma,
nella propria vita. In ogni caso il viale era davvero suggestivo, perfino in quella stagione. Neanche offriva l’impressione di stare
all’interno di una metropoli, per giunta così grande e incasinata
come Roma. Nando s’immaginò quella strada durante i mesi più
caldi. Doveva essere uno vero spettacolo per l’anima, con quegli
alberi che si sarebbero fatti verdi e vaporosi, ancora più autoritari,
possenti e confortanti di quanto già non fossero. Quello era certamente un quartiere residenziale, ricco alla pari di quant’era elegante. Perlomeno per le sontuose ville che si potevano distinguere e
per qualche IUS1 che le contornava, in mite posizione d’attesa.
C’era anche una clinica, notò lo zingaro. Una di quella cliniche
private dove soltanto i benestanti potevano mettere piede, mentre i
poveracci crepavano per strada, senza nessun soccorso. Senza neppure uno sguardo di misericordia.
All’interno del cortile della clinica, su un lato sufficientemente
distanziato dall’ingresso principale, Nando scorse uno IUS3. Era
collocato un po’ in disparte da tutto il resto, sembrava quasi dimenticato. Dunque non dava troppo nell’occhio. Molto meglio fregare
uno di quelli che uno IUS di categoria 1. Aprire quella scatoletta,
per lui, sarebbe stato un gioco da ragazzi. L’esperienza a quel tipo
di azioni insegnava e infondeva sicurezza. Sempre che il proprietario di quel giocattolo non avesse inserito le Civil Communication
Waves, i segnali di trasmissione antifurto collegati con la polizia.
Ma probabilmente, ragionò Nando, il livello del quartiere, la tranquillità di quella strada e l’abitudine alle usanze quotidiane, erano
tutte cose che non avevano indotto il possessore del mezzo all’attivazione delle CCW.
Così si decise a prendere in prestito quello IUS3. E doveva anche fare in fretta, calcolò, se non voleva arrivare tardi al fondamentale appuntamento.
Adesso la cSnail indicava le dieci e cinquantatré minuti.
Nando costeggiò dall’esterno la recinzione della clinica, allontanandosi dalla guardiola che ne custodiva il cancello centrale.
Quindi, giunto in prossimità dello IUS, l’oggetto del suo desiderio, scavalcò con agilità il recinto perimetrale. Non era alto e
nemmeno protetto. E poi lui aveva una certa dimestichezza con quel
genere d’imprese.
Una volta dentro, s’avvicinò al veicolo. Nel medesimo momento
in cui un CUS5 in versione ambulanza varcò di gran carriera l’ingresso della clinica e si fermò sul lato del cortile contrapposto al
suo. Doveva essere un’emergenza, osservò Nando. Almeno a giudicare da come l’ambulanza strillava e per tutto il trambusto che il
suo arrivo aveva suscitato.
Dal suo stesso versante dell’edificio, alcune persone in camice
bianco uscirono di corsa. Segno evidente che sull’altro lato della
palazzina, quello dove s’era arrestata l’ambulanza, il casino prodotto da quell’apparizione era ancora più grande.
Lo zingaro si nascose dietro a uno dei tanti alberi che facevano
da ornamento alla clinica e al quartiere. Le suole delle sue scarpe
stamparono alcune orme sulla neve immacolata.
Aspettò lì per un po’. Il tempo sufficiente affinché la situazione si
normalizzasse e tutta quella confusione si placasse. Nessun problema, si disse. Tranne il tempo perso, dannazione.
Aprì con facilità lo IUS3 e nell’arco di una quindicina di minuti
riuscì anche a metterlo in movimento. Non che ci capisse un granché di elettronica, ma per accendere uno IUS bastava seguire alcu-
ni specifici passaggi, se si aveva a portata di mano una chiave universale. Una di quelle quasi impossibili da reperire in giro.
Lui quei passaggi specifici ormai li aveva nel sangue, li conosceva a memoria, come una poesia imparata per forza alle scuole
primarie. E aveva pure la chiave, la placca. Gliel’aveva procurata
Pasquale, quel fenomeno di cugino che si ritrovava, parecchi anni
prima. Era stato il suo regalo d’iniziazione. E Nando teneva quella
chiave perennemente con sé, pronta a qualunque evenienza, opportunamente occultata all’interno di una tasca dei pantaloni o del
giubbotto. Talvolta nei bordi delle calze o persino nelle mutande, a
seconda delle circostanze, comunque sempre lontana dal portafoglio e dalle altre tessere e piastrine di uso comune.
Prima di mettere in moto lo IUS, Nando si preoccupò di vedere
se fossero state inserite le CCW. No, non erano state attivate. Perfetto. Tutto tranquillo, come aveva correttamente ipotizzato.
Guardò la cSnail da polso. Adesso erano le undici e diciotto minuti. Doveva far presto, prestissimo. Però il tempo c’era ancora. Ce
l’avrebbe fatta, lo rassicurò anche il navigatore elettronico, a condizione che non si fosse imbattuto in impreviste congestioni di traffico o in altri analoghi e sciagurati intoppi.
Dieci minuti prima di mezzogiorno, Nando era sull’obiettivo.
Aveva già raggiunto il fiume Tevere e intravedeva ormai la zona
del suo appuntamento. Un paio di minuti, cinque al massimo, e si
sarebbe ritrovato al cospetto di questo cacchio di bloody virgin.
Appena appena in tempo, ma a ogni modo in tempo. Questa era l’unica cosa che contava.
Accosta! Fermati subito! E non fare cose di cui ti potresti pentire!
Lo zingaro ebbe un sussulto e capì immediatamente con chi ce
l’avesse quella voce ferrosa. Una voce vigorosa e prepotente, arrivata dallo IUS2 che stava ora marciando proprio dietro al suo veicolo. Non v’erano dubbi, il predestinato era lui, senza alcun’ombra
d’incertezza.
‹‹ Ma che cazzo!›› pensò ad alta voce. ‹‹ Anche la polizia, porca
troia! Eppure ho controllato, le CCW non c’erano!››
Nando osservò attentamente il monitor retrovisore davanti a sé e
vide che in effetti non era la polizia. Almeno non la Polizia Confederale, né tanto più la Polizia Territoriale. Quello strano IUS, che
viaggiava adesso dietro di lui e che gli aveva appena intimato di
arrestarsi, riportava un simbolo con due chiavi incrociate. Due
chiavi antiche e metalliche, con un buffo capello sovrastante. Per il
ragazzo non fu complicato identificare quello stemma secolare.
‹‹ E che cacchio vogliono ora questi? Guardia Vaticana? E che
ho fregato, lo IUS del Papa?›› rifletté di nuovo a voce intensa, nel
silenzio del proprio abitacolo.
Ancora una volta fu chiamato a prendere istantaneamente la decisione più giusta. Fermarsi e consegnarsi a loro sarebbe stato un
suicidio. Un po’ per i suoi precedenti giudiziari, ma principalmente
perché non sarebbe mai più arrivato a incontrare bloody virgin.
La voce ripeté la sua imposizione, con un tono ancora più violento di prima.
Accosta e fermati subito!
A quel punto, per Nando ci fu davvero ben poco da dover ponderare ulteriormente. Non poteva fermarsi. E se lo avessero preso,
amen. Ci sarebbe stata solo l’aggravante della fuga, ma la frittata
era comunque già fatta. Non poteva fermarsi e basta. Stavolta non
c’era proprio nulla da dover valutare e scegliere.
‹‹Andatevene a fare in culo, figli di troia!›› esclamò. ‹‹Ma ti pare
che devo aver grane pure dagli sbirri dei preti?››
Dirottò repentinamente il suo IUS verso il margine destro del
lungotevere, anche a rischio di sfasciarsi il cranio o un paio di costole. Quindi, appena la navetta urtò il marciapiede, l’abbandonò e
iniziò a correre alla cieca. Con tutta l’energia che aveva in corpo,
senza voltarsi neppure un attimo e concentrato a non scivolare sulla neve.
Prese una stradina, girò un angolo, percorse un pezzo di una via. Dopo un nuovo angolo, sbucò su un’altra grande strada. Un’arteria lunga e totalmente rettilinea, a traffico prevalentemente pedonale. Rimanere lì non sarebbe stata un’idea brillante. Troppa visibilità. Ma nemmeno tornare indietro costituiva d’altro canto una
soluzione geniale. Così corse con ancora più gagliardia e intensità
di prima. Al limite delle proprie capacità. Sempre senza girarsi.
Non sarebbe stato in grado di dire se le guardie lo stessero seguendo o meno, sedute sul loro IUS o piuttosto a piedi. Non lo sapeva e non gli interessava saperlo. Adesso doveva soltanto pensare
a correre il più velocemente possibile, per abbattere il tempo necessario a incrociare qualche vicolo, una via di fuga secondaria. Su
qualsiasi lato di quella strada, a destra o a sinistra, non aveva importanza. Purché riuscisse a scovare una viuzza, un calle, una tana
un po’ più nascosta.
L’agognato viottolo sembrava però non esserci. Non arrivava.
Avvistò allora l’ingresso aperto di un palazzo e ci s’infilò dentro.
Senza curarsi di altro, come un cavallo con i paraocchi. Penetrò
nel vasto giardino condominiale di quell’edificio, superò aiuole e
piante incrostate di ghiaccio. Alla fine si ritrovò davanti a un cancello, sul retro dell’intero stabile. Scavalcò il cancello e continuò a
correre. Stava ora attraversando una strada di secondo piano, finalmente. Svoltò a destra e imboccò un vicolo ancora più stretto.
Passò davanti a una costruzione antica, un museo o una chiesa,
non si capiva esattamente cosa fosse. E oltretutto non gliene fregava proprio un bel niente, in quel frangente. Ancora uno spigolo da
superare, un’altra viuzza, un ulteriore angolo.
I polmoni gli stavano per cedere. Li sentì pronti a scoppiare e a
traslocare dal suo corpo, rinunciando per sempre al loro incarico
fisiologico.
Nando fu quindi costretto a rallentare un po’, per evitare di morire in quel momento. Si girò, per la prima volta. Alle sue spalle
non c’era nulla. Nessun poliziotto ansante e inviperito, nessuna minaccia, nessuno di cui doversi apparentemente preoccupare. Solamente un torrente di turisti e passanti. L’immediata impressione che
ebbe, fu dunque che le guardie non l’avessero seguito. Perlomeno
fin lì. Tuttavia non c’era da confidare troppo nelle sensazioni, in
quel tipo di circostanza. Specialmente con il cervello così annebbiato. Perciò riprese a correre. Dopo poche altre sgambate, s’affacciò
su una grande piazza dalla forma allungata e particolare.
Il cartello diceva Piazza Navona.
In quel suo sfrenato itinerario, Nando aveva già incrociato e superato un bel po’ di persone, ma in quella piazza sembrava si fosse
dato convegno il mondo intero. Per un istante il ragazzo fu rapito
da quella visione, da quello spazio bislungo farcito di gente e di neve, di saltimbanchi e di pittori di strada, anche a quell’ora del giorno. D’altronde era il venti dicembre e mancavano soltanto cinque
giorni a Natale, considerò.
Dopo quella breve pausa d’osservazione, utile soprattutto per
consegnare ai suoi seviziati polmoni un minimo di tregua, Nando
ritornò presente. Si proiettò nuovamente nella sua folle situazione
attuale. Dall’altra parte della piazza, alla fine del suo lato ricurvo,
lo zingaro individuò un negozio di abbigliamento. Roba casual, alla
buona. Ricominciò pertanto a trottare e s’introdusse nell’esercizio
come un invasato, mescolandosi tra gli altri avventori.
Prese un maglione da uno scaffale, poi un paio di pantaloni e un
giaccone imbottito. Andò alla cassa e pagò il tutto. Poi uscì di nuovo all’esterno, sulla piazza, ma stavolta con più calma e circospezione di prima. Quindi s’incuneò in un viottolo, quello che s’intravedeva subito dopo il negozio, di fianco a un ristorante alla moda.
In mano aveva la busta con i suoi nuovi vestiti.
Si tolse la roba vecchia e la buttò per terra, in un cantone. Infine
indossò in gran fretta quella appena acquistata. Intorno non c’era
niente di cui allarmarsi, di cui aver timore. Tutto era ancora tranquillo. Forse gli sbirri se n’erano effettivamente andati a fare in
culo, sentenziò Nando. Precisamente dove lui gli aveva consigliato
di andare, poco prima d’allora.
Guardò un’altra volta l’orario. Erano le dodici e ventiquattro
minuti, cazzo. Via dei Coriandoli non era lontana da lì, di questo
era sicuro. Il problema era capire dove fosse di preciso. E arrivarci
pure di volata. Attivò il navigatore della sua cSnail e riprese a galoppare come un dannato. A mezzogiorno e quaranta era su Via dei
Coriandoli, quasi ucciso dalla fatica. Un minuto e mezzo dopo
giunse davanti al civico centoundici. Le dodici e quarantadue. E
bloody virgin non c’era. Nessuna fottutissima traccia di quel fottutissimo tizio con un basco nero sulla testa.
Nando attese che la propria respirazione tornasse a livelli umani
e controllabili. Imprecò verso il cielo e maledì tutto ciò che poteva
maledire. Poi si accese una sigaretta e s’interrogò su cosa cacchio
avrebbe fatto a quel punto. Non c’era però molto da analizzare, in
quel contesto. Non c’era molto da girarci attorno. Aveva fallito la
missione più stupida e semplice del mondo. Gli era stato chiesto di
andare in un posto, di prendere un tizio e di condurlo da un altro
tizio. Niente di più facile. Solo che doveva fare tutto puntualmente.
E lui non c’era riuscito, Cristo santo! Certo, di sfortuna ne aveva
avuta. Eccome. Ma adesso chi lo raccontava a Pasquale? Cosa
gliene sarebbe mai fregato della sfiga, a quel bastardo e brutale
cugino che la sorte gli aveva tristemente assegnato?
Senza ormai più nessuna premura, Nando rientrò a Pescara.
Raggiunse a piedi la stazione in Piazza della Fratellanza e comprò l’accesso a un CUS2 a tratta interregionale. Il tragitto rimanente, dall’ultima fermata e fino a casa sua, lo fece con le proprie
gambe. Ancora una volta.
Si sentiva sudato e sporco, con le ossa e i muscoli rotti da quella
maratona infinita alla quale il destino lo aveva sottoposto. Non aveva mangiato niente, non ne aveva avuto il pensiero. E come se
non bastasse, aveva pure speso dei soldi, tra quei cavolo di indumenti nuovi e il biglietto del CUS. Tutto questo senza guadagnarci
nulla. Quanto meno nulla di proficuo, dato che Pasquale gli avrebbe comunque concesso la sua legittima ricompensa. Peccato che
non si sarebbe trattato di denaro, né di complimenti o di pacche
sulla spalla, si suggerì il ragazzo.
Un quarto d’ora prima delle diciassette, Nando era nei pressi
della propria abitazione. Vide da lontano lo IUS di Pasquale che lo
avvicinava. Suo cugino lo stava ovviamente aspettando. Era naturale, era annunciato, ma era anche un brutto, bruttissimo preludio del
suo imminente futuro.
Pasquale non era solo. C’era sempre l’altro tipo con lui. L’uomo
che si era definito una persona d’affari, quando avevano parlato
nella sala caffè, il giorno precedente. Lo stesso uomo che lo aveva
anche contattato alla cSnail non molto tempo prima, nel corso del
suo ritorno in CUS da Roma.
Era ancora quel tipo a pilotare il veicolo. Suo cugino s’era trovato pure l’autista personale, ironizzò fra sé e sé il giovane zingaro.
Gli arrivarono sotto. Pasquale gli fece cenno di non provare a
dire una parola e di entrare immediatamente nello IUS. Nando eseguì, in rispettoso e rigoroso silenzio.
In pochi minuti il mezzo raggiunse un luogo isolato, nella periferia cittadina. Una specie di magazzino industriale in disuso, abbandonato da tempo. Pasquale gli indicò di scendere. E a quel punto della faccenda, se ne fregò altamente delle sue PIW.
‹‹Pezzo di cacca che non sei altro! Guarda che cazzo hai combinato! Maiale, verme schifoso! Tu sei una merda! Sai cosa significa
questo per me? Lo sai?›› gli urlò in faccia.
L’altro uomo era frattanto rimasto ad attendere all’interno dello
IUS.
‹‹Lo so, cugino. Lo so›› tentò di scusarsi Nando. ‹‹Ma vi ho detto
quello che cacchio mi è success…››
Le sue parole furono spezzate da una ginocchiata in pieno stomaco. Gli girarono qualche altro istante nella bocca, prima che le
sputasse in terra, insieme a una piccola pozza di saliva. Nando riuscì tuttavia a mantenersi in piedi. E fu peggio. La fronte di Pasquale si schiantò contro la sua, poco sopra il naso. Il ragazzo stavolta
cadde al suolo. Pasquale si mosse di qualche passo e gli scaricò un
calcio in mezzo alla guancia, neanche fosse un pallone da football.
Nando avvertì atrocemente quell’immane botta e dopo non sentì più
niente, nonostante il cugino più grande continuasse a colpirlo. Pasquale gli mollò una serie di ceffoni in pieno volto, che gli scossero
ritmicamente la testa, da sinistra a destra e viceversa.
‹‹ Vedi di non ammazzarlo›› gli consigliò l’altro uomo, da dentro
lo IUS.
‹‹Non lo ammazzo, stai tranquillo. Anche se lo meriterebbe, questa merda di cane!›› ringhiò di rimando Pasquale. ‹‹ Nemmeno gli
spezzo niente. Però le botte deve sentirle tutte, il maiale!››
‹‹Dai, su. Fai presto. Cerchiamo almeno di recuperare lo IUS che
mi ha lasciato a Roma›› gli evidenziò l’altro.
‹‹ Il coglione!›› aggiunse Pasquale, seguitando a schiaffeggiare il
più giovane parente. Più che schiaffi erano pugni a mano aperta.
Quando Pasquale ebbe terminato il suo sfogo, Nando fu ributtato nella navetta.
Era ancora cosciente, pur se a malapena. Si sentiva stravolto,
rintronato, come un pezzo di banana appena uscito da un frullatore.
Il dolore era ormai ovunque, sul viso in particolare, ma capiva di
non avere nulla di rotto. In effetti suo cugino era davvero bravo in
quelle cose, allenato da anni di strada e di percosse, sia date che
subìte. Pasquale sapeva dove colpire e come colpire. Faceva male
ma non procurava danni, se decideva di non procurarne. Conosceva bene la maniera di non lasciare troppe tracce, insomma, al di là
di un po’ di lividi e di qualche zona di sangue pesto.
I due sicari depositarono il ragazzo non troppo lontano da casa.
Pasquale lo scaraventò fuori dallo IUS come se fosse un sacco di
letame, un pupazzo di plastica. Nando si ritrovò di botto disteso sulla strada innevata, con la voglia di dormire e di mandare tutto a
fare in culo. Con il desiderio di morire, ma soltanto per un po’ di
tempo. Ogni frammento del suo corpo stava ora chiedendo al cielo
indulgenza, straziato da quell’intera e pazzesca giornata.
Si concesse tutto il tempo che gli occorreva a riprendersi, sia fisicamente che emotivamente. Nessuno dei passanti s’interessò a lui.
Alla fine risolse di rientrare al suo alloggio. Anche per ripulirsi un
po’ dal sudore di quell’avventura e dal sangue in faccia, gentile
omaggio di quel bastardo di suo cugino Pasquale.
Per tutta la sera, per quella notte e per l’intero giorno successivo, Nando non si mosse dalla propria dimora. Cercò di assorbire le
legnate ricevute attraverso un po’ di riposo. Quelle bastonate facevano male, veramente molto male. Sia al corpo che all’anima.
Sua madre tentò di confortarlo e di aiutare gli ematomi a passare, senza porgli alcuna questione. Suo padre invece, appena si ritirò in casa, quella stessa sera, gli domandò chi fosse stato.
Nando si guardò bene dal pronunciare il nome di Pasquale.
Denunciarlo a suo padre avrebbe significato mettere una concreta ipoteca a una seconda razione di botte. E magari pure a una
terza o quarta o quinta.
Lui era nato Montese, si disse.
Quella era la sua famiglia. Quella era la sua casa. Quella era la
sua vita. Provare a cambiarla non sarebbe servito a nulla.
Molto meglio imparare a conviverci.
Pag. 204 di 640
XXX
… segue …
‹‹Visto che dobbiamo stare qui, ci beviamo qualcosa?›› le propose
Fanny.
‹‹A quest’ora? Io inoltre non bevo›› rispose Carla.
‹‹Per l’ora non vedo francamente il problema. E poi ti preparo io
qualcosa di leggero, dai. Quello che riesco a trovare nell’angolo bar.
Un bicchierino di spumante, due gocce di liquore al limone. Dimmi
tu. Due dita di roba innocua, insomma. Ne ho voglia.››
‹‹Perché invece non andiamo a dare un’occhiata a Mariano? Forse sarebbe il caso›› consigliò di rimando l’ex suora.
‹‹ Sì. Ci beviamo qualcosa e poi andiamo insieme, senz’altro. È
giusto. Ma prima un bicchierino veloce, ok? Tanto non credo che ci
toccherà dormire ancora, almeno per oggi. Abbiamo perciò il tempo
di far tutto. Quindi? Liquore al limone?›› insistette imperterrita
Fanny.
‹‹Se proprio ci tieni così tanto, vada per un sorso di prosecco›› accettò alla fine Carla.
‹‹Perfetto! Allora tu aspettami qua, io torno subito.››
‹‹Ma ci vedrai? È tutto buio lì sopra.››
‹‹ In qualche modo mi arrangio, non preoccuparti›› la rassicurò
Fanny, sorridendole con garbato sentimento.
La prosperosa donna si sollevò dunque dal divano verde e s’incamminò verso la scala, per raggiungere la parte superiore del soppalco e il suo relativo angolo bar.
Carla rimase così di nuovo da sola, a confrontarsi con quel maledetto appartamento, con la sua prigionia in cucina e con la voce metallica e occulta. Anche con il segreto di Dario, la bizzarria che ac-
comunava in qualche misura quell’uomo a Fanny. Una stranezza
corrispondente al nome di Roberto Franzelli.
La sua mente viaggiò per alcuni secondi ulteriori all’interno delle
proprie analisi, trasportata dal silenzio che governava adesso l’intero spazio della maestosa suite. Una quiete assoluta e profonda.
Poi, all’improvviso, quella pace fu rotta da un urlo secco.
Era la voce di Fanny, stravolta dall’orrore o da qualcosa di estremamente simile. Un grido strozzato e disarmonico, agghiacciante. Terrificante alla pari di quanto fosse stato fulmineo e fugace.
Carla si chiese in un baleno cosa fosse accaduto. Cos’era appena
capitato all’amica. O che cosa avesse visto, piuttosto.
Non diede tempo al pensiero di sopraffare l’azione e immediatamente si precipitò da lei.
‹‹Fanny! Fanny! Tutto bene? Sto arrivando!›› urlò pure lei.
Fanny però non rispose.
Carla incominciò a correre.
Il cuore le batteva forte. Le salì in gola.
‹‹Fanny, mi senti? Sono qui! Mi senti?››
Ancora nulla.
Carla era già sulla scala del soppalco.
Domandò a se stessa e a Dio perché Fanny non le rispondesse.
Anche salendo i gradini, continuò a ripetersi cosa avesse potuto
far strillare l’altra donna in quella maniera atroce, veramente spaventosa. Neanche avesse visto uno spirito, un fantasma.
Carla spuntò sopra il soppalco e ci trovò subito l’amica. Di schiena, immobile, praticamente paralizzata. All’inizio dell’angolo bar.
Ammantata di nera foschia, di carenza di luce.
L’abbracciò da dietro.
‹‹Fanny! Fanny! Cos’è successo? Stai bene? Parlami, Fanny!››
Si staccò un po’, la mosse per le spalle, tentò di girarla.
‹‹Ehi, Fanny! Parlami, dimmi qualcosa! Fanny?››
L’altra sembrava illesa, ma non era più in grado di produrre alcun tipo di reazione. Un inanimato blocco di cemento.
Penetrando l’oscurità, Carla s’accorse che lo sguardo della compagna si era stabilizzato su un punto fermo, un po’ più in alto della
normale linea d’orizzonte e leggermente spostato sulla loro destra.
Un punto preciso che era riuscito a catturarla e a ipnotizzarne ogni
senso.
L’ex suora seguì gli occhi di Fanny e giunse anche lei, in questo
modo, a osservare quel punto fisso. Per ciò che il buio consentiva di
scorgere.
I fantasmi non soffrono. I fantasmi non piangono. I fantasmi non
muoiono. Non hanno corpo, non hanno viso, non hanno odore. I
fantasmi si nutrono d’ombra, di pudore. Guardano senza essere
guardati, non concedono ai vivi l’essenza dei propri occhi.
Quello che lei vide fu molto peggio di un fantasma.
Davvero molto, ma molto peggio.
Pag. 263 di 640
XL
Ore 10:42.
‹‹Quando la lingua sputa infamia, il cuore sanguina. E s’avvolge
di fango la memoria›› rammentò Dario, parlando ad alta voce.
S’era accomodato intorno al tavolone di vetro sintetico, ormai
pronto per la colazione. Insieme a Mariano, Giorgio e Maria Concetta.
Fanny e Carla avevano già lasciato da un po’ pentole e fornelli.
Ora stavano conversando tra loro, leggermente defilate dagli altri.
‹‹ È un ammonimento. Un insegnamento. Ma per chi? Per la povera Carolina?›› proseguì Beltrami.
‹‹È inutile che continui a scervellarti così, a girarci sterilmente intorno›› gli consigliò Giorgio. ‹‹ Tra poco Nicole e Nando rientreranno, assieme a Rotoli. E così ci chiariranno ogni cosa. Ormai è tanto
che stanno di là. Giuseppe avrà parlato, gli avrà già raccontato tutto
quello che ci serve sapere.››
‹‹Sì, infatti è molto che sono lì. Anche troppo, per i miei gusti. E
se non si muovono a tornare, li vado a prendere io›› annotò Mariano,
costantemente nervoso dentro e imperturbabile fuori.
‹‹Staranno per tornare, stai tranquillo›› lo rabbonì Giorgio, seduto
proprio accanto al bestione.
Minatelli constatò come ormai il biglietto lo ricordassero praticamente tutti. Almeno in linea di massima, nella sostanza.
Dopotutto, le parole che c’erano state tracciate sopra erano forti,
penetranti, essenziali. Apertamente fondamentali, per ciascuno di
loro. Si erano conficcate nelle loro menti come una spada nel cuore,
senza nessuna possibilità di ritorno. In chi le aveva ascoltate direttamente, subito dopo il ritrovamento del cartoccio, come in coloro
che le avevano sentite riportate da altri.
Le parole di un piccolo foglietto di carta, apparentemente così
insignificante e antico, nell’epoca dell’elettronica e degli stampati
digitali. Parole che difficilmente li avrebbero mai abbandonati, anche nei giorni e negli anni a venire delle loro esistenze. Al pensiero
di quell’avventura, di quell’incubo, angosciante alla pari di quanto
fosse indecifrabile.
Giorgio ravvisò, inoltre, che alcuni di loro non avevano mai visto
materialmente quel pezzo di carta. Così come nessuno lo aveva finora mai tenuto in mano. Tranne il solo Mariano, che gliel’aveva
letto e se l’era poi infilato in una tasca. Lì dov’era rimasto dimenticato, nel susseguirsi tumultuoso degli eventi.
‹‹Mariano, potrei vedere un secondo il biglietto?›› gli domandò.
Lo scuro e rasato bestione evitò chiacchiere superflue. Gli rispose coi fatti, estraendo il cartoccio dai propri pantaloni.
Glielo porse.
Minatelli analizzò il foglietto. Su un lato si leggevano più o meno le medesime frasi appena recitate a memoria da Dario. Le stesse
pronunciate poco tempo addietro da Mariano, al piano rialzato. Più
un nome. Una delle chiavi di volta di quell’enigma.
… continua …
Giorno 3
24 dicembre, domenica
Pag. 302 di 640
XLIII
… segue …
Si tirò su dal divano verde, facendo attenzione a produrre il medesimo rumore che fanno i fantasmi, quando si muovono. Quindi,
oltrepassando l’oscurità dell’appartamento, raggiunse la camerata
notte e il box della Basso. Quello di fianco a Dario e prima di Giorgio, al di qua dello spigolo tra quei due lati del ferro di cavallo.
Si posizionò con le spalle rivolte al letto di Maria Concetta, per
controllare un istante il resto dello spazio intorno a sé. Uno spazio
avvolto in quel punto da un buio pressoché totale. Con la mano destra sfilò dall’anfibio il suo fido coltello. Poi ne fece uscire la lama,
con entrambe le mani, accompagnandone la corsa per evitare che lo
scatto improvviso facesse troppo casino. Con la mano sinistra spostò la tendina azzurra che riparava il letto della donna e che ne custodiva ora l’intimità del riposo. Sempre di spalle, senza guardare.
Quindi si voltò di nuovo, in direzione della sagoma della Basso.
Salì sul letto con le ginocchia e si distese sopra di lei, in sospensione su gambe e polsi, cercando di non schiacciarla e di toccarla il
meno possibile. Le arrivò al viso. Si puntellò sui gomiti e le premette una mano sulla bocca, per non farla urlare. Poi, con l’altra mano
libera, le appoggiò la lama del coltello sotto il mento e, nel giro di
un attimo, le tagliò di netto la gola.
La donna non fece nessun movimento, non emise alcun suono.
Mariano avvertì solamente quello della carne che si lacera, in un
primo momento. Infine quello del sangue che comincia a schizzar
fuori. Nulla di più. Nessun gemito, nessun lamento, da parte di Maria Concetta. Evidentemente il suo sonno era molto profondo. E oltretutto lui l’aveva freddata in un lampo, come sa fare soltanto chi è
socio in affari con la nera signora. Socio di vecchia data, per giunta.
Alla fine Mariano si alzò da lei, richiuse per bene la tendina azzurra e ritornò al divano verde del soggiorno. Sempre con la massima circospezione e nel più completo silenzio.
Carla era ancora totalmente addormentata. Benissimo. Adesso
anche a lui poteva spettare un po’ di meritata pace.
La vendetta era ormai compiuta. Soprattutto grazie alla voce nascosta nell’ombra. La promessa fatta a sua mamma Livia, sin da
quand’era un inerme e innocente bambino, s’era finalmente realizzata.
Il coccodrillo aveva atteso con pazienza.
E alla fine, grazie anche a un aiuto prezioso, la preda gli era passata davanti, sul corso del fiume.
Così il coccodrillo aveva mangiato, si era sfamato del tutto.
E di quel gradito cibo s’era profusamente riempito la pancia e
l’intera cavità del cuore.
Giorno 4
25 dicembre, lunedì
Natale
Pag. 371 di 640
LVI
Andò a chiamarla direttamente la Madre Superiora.
Carla udì i suoi inconfondibili passi. Poi due colpi tenui sul legno, da dietro la porta della sua camera.
‹‹Avanti›› esclamò Carla.
La porta si aprì e la Madre Superiora apparve.
‹‹ Sei pronta, ragazza mia? L’incaricato del cardinal Bonfanti è
appena arrivato. Ti sta aspettando.››
‹‹Sì, madre. Sono pronta. Solamente un altro minuto, se mi è concesso.››
‹‹Certamente. Ti attendo giù anch’io, allora. Volevo soltanto dirti che farai sicuramente un buon viaggio. Il sacerdote che il Cardinale ha mandato sembra davvero un bravo ragazzo. Si chiama Felice. Don Felice. È giovane, educato e molto cordiale. Di ottime
maniere, insomma. Dà l’impressione di essere una persona di valida istruzione.››
‹‹Questo mi fa piacere, madre.››
‹‹Bene. Io allora vado di sotto.››
‹‹Madre?››
‹‹Sì? Dimmi, sono qua.››
‹‹ Grazie di tutto. Grazie per ogni cosa che lei ha fatto per me.
Grazie di cuore!››
‹‹Oh, ragazza mia! Non devi ringraziarmi di nulla. Ho fatto solo
ciò che era giusto fare, quello che tu meriti. Dai, scendo giù adesso.
Tu però non farti aspettare troppo.››
‹‹No, no. Arriverò subito. Non si preoccupi.››
Carla fissò lo spazio attorno a sé. I bagagli erano pronti, ogni
cosa era già al proprio posto. Per l’ultima volta, girò lo sguardo
tra le pareti del suo alloggio, all’interno di quella camera che non
avrebbe probabilmente mai più rivisto. Come non avrebbe più visto
l’intero convento. E se anche un giorno ci fosse ricapitata, per chissà quale motivo, non avrebbe più guardato quei luoghi con gli stessi occhi, dalla stessa ottica di osservazione.
Tirò un gran sospiro. Poi tirò su anche i propri bagagli e s’avviò
verso il piano inferiore, per incontrare quel don Felice che la Madre Superiora le aveva appena descritto, in modo così appassionato
ed entusiastico.
Le sue sorelle le aveva già salutate tutte, una a una. Prima di
quel momento, prima di iniziare a preparare le valigie, per evitare
di doverlo fare all’ultimo istante. Con ciascuna di loro si era quindi
dovuta dire addio, al centro di una pena reciproca e infinita. In
particolare con Letizia. Tutte erano sue sorelle di spirito, veri angeli di quel paradiso che stava ormai lasciando per sempre. Ma Letizia era ancora di più. Molto di più. Lei era la sua migliore amica,
una sorella autentica, vera e carnale, in tutto e per tutto. Vicina nel
corpo e nella mente, oltre che nell’anima.
Erano già passati suppergiù cinque mesi, da quando Carla aveva confidato alla Madre Superiora il proprio peccato. Quell’errore
non commesso, ma indubbiamente subìto. Le aveva detto tutto,
quando, dove, come e chi. Le aveva taciuto solamente il perché, in
quanto quel dettaglio non lo conosceva e non riusciva a spiegarselo
neppure lei. Col tempo, le ragazze avevano tutte saputo cos’era
successo, in maniera più o meno particolareggiata. Nessuna di loro
gliel’aveva però mai fatto pesare, neanche in una minima, infinitesima parte. Aveva ricevuto da quel gruppo di amiche, colleghe e
sorelle tutta la comprensione e la solidarietà che potesse esistere al
mondo. Inferiore soltanto a quella di cui era capace Dio stesso.
Carla era ormai alle soglie dell’ottavo mese di gravidanza. Pur
essendo ancora una suora a tutti gli effetti, da quella mattina aveva
dismesso gli abiti monastici. Il viaggio che si stava accingendo a
fare, con quel tenero e goffo pancione al seguito, non le permetteva
più di indossare quelle vesti.
Stava lasciando quel mondo sacro e protetto dal Signore, per
tuffarsi nel cosmo profano delle persone comuni. Per l’eternità.
Senza averlo voluto, senza averlo deciso, ma era in ogni caso così.
‹‹ Aspetti, Carla. La aiuto io, con quelle valigie›› le disse don Felice, vedendola scendere dalle scale. ‹‹Una donna nel suo stato non
dovrebbe fare questo tipo di sforzi.››
‹‹ Non si preoccupi. Ce la faccio anche da sola. Però lei è molto
gentile›› gli rispose la ragazza.
L’uomo le giunse davanti.
‹‹ Sono troppo eccessivo se le chiedo di darci del tu, Carla? Se
non le dispiace, ovviamente. Io sono don Felice. Don Felice Pattro››
le propose il giovane prete, tendendole la mano.
‹‹Con enorme piacere, Felice! Io sono Carla. Carla Carmignani.
Ma questo tu già lo sai›› ribatté lei, accettando affabilmente il saluto
dell’altro.
‹‹Ehm, sì›› replicò il sacerdote, un tantino imbarazzato.
Carla abbracciò forte la Madre Superiora. Mandò un ultimo bacio a Letizia e alle altre sue dolci sorelle. Quindi cominciò il suo
viaggio, al fianco di don Felice Pattro. In compagnia di quel prete
acerbo e garbato, dei suoi capelli ben ordinati su un lato e dei suoi
occhiali non troppo in linea con il gusto dell’epoca. Iniziò in questo
modo il suo cammino verso Roma. Il suo pellegrinaggio alla volta
del mondo normale. Quello dove il cinismo, il dolore e la crudeltà
assumevano il ruolo di protagonisti assoluti.
Appena arrivarono a Roma, don Felice la condusse in un bellissima residenza, di proprietà del Vaticano. Una villetta lussuosa e
un po’ nascosta, al centro di un grande giardino recintato. Con due
domestici a prendersi costantemente cura di lei, per qualunque sua
esigenza.
‹‹ Questa sarà per un po’ la tua nuova casa, Carla. Come ti ho
già accennato prima›› le comunicò don Felice.
‹‹È fantastica, grazie. Ci starò bene. Ma non serviva tutto questo
spazio e questo sfarzo, in verità.››
‹‹Così ha voluto Sua Eminenza, Carla.››
‹‹D’accordo. Allora dovrò ringraziarlo.››
‹‹ Avrai prestissimo occasione di farlo, infatti. Ora mettiti a tuo
agio, sistemati e riposati un po’. Quel che resta di oggi e tutto domani. Ci vedremo dopodomani mattina. Passerò a prenderti io, alle
otto in punto. Incontreremo Sua Eminenza. Poi andrai con lui da
Sua Santità.››
A quelle parole, un improvviso nodo alla gola chiuse il respiro di
Carla. Non ce la faceva a reggere l’idea che si sarebbe trovata davvero di fronte al Papa. Lei che non era niente, lei che era piuttosto
una peccatrice. Dinnanzi a colui che rappresentava tutto ciò in cui
lei credeva. E in cui avrebbe continuato a credere per il resto dei
suoi giorni, fino alla morte, suora o non suora che fosse. Non riusciva proprio a capacitarsi che avrebbe realmente baciato le mani
del successore di Pietro, dell’uomo che incarnava Dio sulla terra.
Quella misera terra di uomini soli e malvagi, lontani dalle loro anime e presenti soltanto ai loro interessi, alle proprie brame di soldi e di successo.
‹‹ Qualsiasi cosa ti occorra, questo è il mio contatto›› proseguì il
giovane sacerdote, mostrandole l’Id sulla propria cSnail da polso.
‹‹Non farti problemi a cercarmi, sarà mio piacere e cura soddisfare
ogni tuo bisogno. Altrimenti ci vediamo direttamente dopodomani
mattina. Alle otto, ripeto.››
‹‹ Va benissimo, Felice. Sarò puntualissima. E non ti disturberò,
se non sarà necessario›› dichiarò lei, consegnando alla propria memoria l’Id appena letto.
‹‹Come vorrai tu, Carla. Però ricorda che io sono a tua totale disposizione.››
‹‹Ok, perfetto. Grazie infinite.››
‹‹ Dovere e piacere. Allora ciao. E riposati per bene. In fondo,
non capita tutti i giorni di incontrare il Papa!›› le sorrise il prete.
‹‹ Ciao Felice. Di nuovo grazie di tutto. Sì, lo farò. È vero, non
capita tutti i giorni!›› gli rispose lei.
Passò quella notte, il giorno dopo e un’altra notte ancora. E così
giunse la mattina tanto sospirata. Alle sette e quaranta Carla era
già pronta, ad aspettare il ritorno di don Felice. Lui arrivò puntuale, alle otto, esattamente come promesso.
Si diressero a casa del cardinale Bonfanti, che li stava attendendo.
Il Cardinale fu molto cortese con Carla. La accolse come solamente un valente ospite sa fare. Poi le offrì una colazione principe-
sca, durante la quale le rispiegò un po’ di cose, quello che in sostanza lei già sapeva. Infine si prepararono a uscire, tutti e tre, alla
volta della Città del Vaticano.
Quando giunsero a ridosso di Piazza San Pietro, lo IUS1 guidato da don Felice si arrestò. Scesero dal mezzo esclusivamente il
cardinal Bonfanti e Carla. Il giovane prete restò nella navetta, seduto al proprio posto, nell’attesa che i due ritornassero.
La ragazza vide che un altro prelato li stava aspettando, nel punto preciso in cui lo IUS s’era fermato. Un vescovo, abbigliato più o
meno nella stessa maniera di Eugenio Bonfanti, ma con i bordi e le
rifiniture della veste color porpora, invece che rosso cardinalizio.
L’uomo si salutò con Bonfanti e si presentò a Carla. Le disse di
chiamarsi Teodoro Segi.
I tre si mossero in gruppo. Segi davanti, poi Bonfanti e infine
Carla, a concludere il piccolo corteo.
Prima di perderlo dal proprio orizzonte, la ragazza si girò un’ultima volta verso don Felice. Lo guardò e gli sorrise. Lui le ricambiò
il gesto, comunicandole con gli occhi di stare tranquilla, di non avere nessuna paura. Sarebbe stato un momento dolcissimo e indimenticabile per lei, nulla meno di questo.
Arrivarono a un primo posto di controllo della Guardia Svizzera
Pontificia, a un ingresso della zona interna e riservata del Vaticano. Carla fu attentamente verificata e registrata, mentre gli altri
due si limitarono a fornire la propria nota scansione biometrica.
Quindi, dopo aver percorso svariati locali, corridoi e scale, i tre
raggiunsero un secondo posto di controllo, rigorosamente scortati
nel tragitto da due agenti. Carla intuì che erano ormai vicini alla
loro meta. Da lì si accedeva certamente agli appartamenti privati
del Papa, al cuore di quel regno di spirito e di contemplazione. Lei
si trovava adesso in un luogo talmente alto e retto, che mai avrebbe
pensato di poterci finire, un giorno. Mai avrebbe immaginato d’esser degna di un ambiente del genere, che trasudava purezza da ciascuna molecola che lo costituiva. Lussuoso e serio al medesimo
tempo. Autorevole e mistico, austero e confortevole. Tutto in una
sola, unica mescolanza.
Superarono il secondo controllo e furono accompagnati in una
vasta sala da ricevimento. E lì, sopra una scranna completamente
cesellata, apparve davanti ai loro occhi la sagoma intera di Alessandro Vergoli. Ormai noto al mondo intero col santo appellativo
di Leone XIV.
Carla si sentì totalmente inebetita, pressoché paralizzata, al cospetto di quella figura. Incapace anche di muovere un singolo dito,
forse persino impossibilitata a respirare ulteriormente.
Il vescovo Segi porse i suoi omaggi e si fece da parte. Anche il
cardinale Bonfanti presentò i suoi ossequi. Poi scambiò qualche
parola sottovoce con quell’uomo immenso e magnifico. Alla fine
pure lui si mosse qualche centimetro di lato, leggermente in disparte.
‹‹Vieni avanti, Carla›› la invitò Leone XIV.
L’aveva addirittura chiamata per nome, si disse la ragazza. Ebbe la sensazione di svenire, di non farcela più a sostenersi. Poi si
fece forza e gli andò incontro.
S’inginocchiò dinanzi a lui e gli baciò la mano, in silenzio. Senza
buttare parole al vento.
Lui si alzò dal proprio trono cesellato e la tirò su dalle spalle.
Lievemente, con la delicatezza che soltanto chi rappresenta Dio in
terra può avere. Quindi le parlò, a voce bassa. Come un padre, tenendole le mani. Senza interrompersi e senza attendersi risposta
alcuna.
… continua …
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LXII
Ore 09:31 (New York, 03:31 a.m.).
La luna non discrimina. Non nega a nessuno la propria avvenenza. Da qualsiasi parte la si guardi, lei c’è sempre.
Incantevole e aristocratica sentinella del destino terreno.
L’uomo spostò gli occhi dal cielo e si tirò su dal letto, per raggiungere un’altra stanza.
La donna ne percepì il movimento e si svegliò pure lei.
Gli rivolse l’espressione più partecipe e maliziosa che fosse capace d’esternare. Nonostante i segni del sonno appena interrotto,
stampati ora sul suo splendido viso, a gonfiarne un po’ i lineamenti
aggraziati, raffinati.
‹‹Non riesci a dormire?›› gli domandò.
‹‹No. Però adesso mi ci metto d’impegno, stai tranquilla.››
‹‹Ma che ore sono?››
‹‹Le tre e mezza.››
‹‹Dai, torna a letto. Domani abbiamo parecchie cose da fare. Sarà
una giornata lunga e bellissima.››
‹‹ Sì, è vero. Vengo subito, non preoccuparti. Vado soltanto a
prendermi qualcosa da bere. Tu vuoi qualcosa? Acqua?››
‹‹No, grazie. Sto bene così.››
‹‹ Ok. Un secondo e sono di nuovo da te, tra le tue calde braccia.
Non riaddormentarti›› le sorrise lui, con piglio ironico e furbesco.
Poi sparì dalla vista dell’altra.
La donna osservò a sua volta la luna, al di là della vetrata.
Era al contempo altera e adorabile.
Si sentì felice, completa. Una sensazione che avrebbe voluto sposare in eterno.
L’uomo rientrò nella stanza.
Si ricollocò al suo posto, disteso accanto a lei.
Quindi la baciò con impeto, fregandosene ampiamente di qualunque odore orale quel brano di notte potesse averle prodotto.
‹‹ Sei sicura che non si stia esagerando troppo?›› le chiese, dopo
una piccola pausa.
‹‹Di che stai parlando?››
L’uomo si rese conto di esser stato frainteso.
‹‹Non mi sto riferendo a noi due, amore mio.››
‹‹E a che cosa, allora?››
‹‹Al lavoro.››
‹‹ Non lo so, ma non credo proprio. Posso comunque contattare
chi di competenza e prendere informazioni.››
‹‹Sì, d’accordo. Fallo. Domattina però, adesso non ce n’è nessuna
urgenza. Ora come ora, avrei io alcune informazioni da darti. Vieni
qua!››
I loro corpi si riunirono e si legarono nuovamente.
Fecero l’amore.
Qualche fiocco di neve iniziò a cadere, da dietro le finestre.
‹‹ Buon Natale, tesoro mio›› le sussurrò l’uomo, alla fine di quell’ennesima danza di sentimento sincero e d’impudica passione.
‹‹ Buon Natale a te›› ricambiò lei. ‹‹ È stato fantastico, come sempre. Tu sei unico, semplicemente unico.››
Transitarono attimi di vicendevole commozione.
‹‹Anche tu lo sei.››
Planarono istanti d’occhiate audaci e di pertinente silenzio.
Fin quando lei riparlò, ammainando momentaneamente le vele
delle loro emozioni. Soltanto per poco tempo, giusto lo stretto necessario.
‹‹Adesso però avrei sonno e vorrei rimettermi a dormire, se la cosa non ti offende. Domani sarà festa e non voglio alzarmi tardi. Ti
dispiace?››
‹‹ Certo che no! Anzi, lo faccio anch’io. Ormai è ora, in effetti.
Buonanotte, angelo mio.››
‹‹Buonanotte a te, amore.››
Emanuela si girò su un fianco, per riaddormentarsi velocemente
e riprendere così i sogni che aveva lasciato in sospeso. Con l’idea di
miscelarli a quelli della sua brillante realtà.
Timothy ne vagliò per alcuni secondi il corpo, le forme sinuose e
suadenti. Utilizzò quella visione come ulteriore cibo per la sua mente, per la sua fantasia.
Quindi salì su, sino al volto ammaliante, ora per metà mostrato e
per metà inghiottito dal cuscino.
Infine guardò un’altra volta la paradisiaca luna di quella notte.
Si assopì con l’assoluta convinzione che l’astro e la sua donna
fossero sorelle gemelle.
… continua …