Il dinamismo plastico
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Il dinamismo plastico
Il dinamismo plastico Dal Barocco al Futurismo Italia, tardo Seicento e Settecento Si dice che il Barocco è teatrale, ornato all’eccesso. I protagonisti principali, Bernini e Borromini in persona non comprenderebbero questa accusa. Essi volevano che le chiese, le piazze, gli spazi urbani apparissero festosi, pieni di splendore e movimento. Se è scopo del teatro deliziarci con la visione di un mondo fatato, ricco di luce e di sfarzo, perché gli artisti che progettano spazi da percorrere, da vivere, non dovrebbero creare suggestioni ancora maggiori di fasto e gloria per ricordarci il paradiso? Le loro creazioni avevano il consapevole scopo di evocare una visione di gloria celeste assai più concreta di quella suggerita dalle cattedrali gotiche. Infatti, più i protestanti tuonavano contro l’esteriorità, più la chiesa cattolica si avvaleva dell’opera di artisti famosi e innovativi: l’arte poteva servire la religione ben oltre il compito di insegnare il Vangelo a chi non sapesse leggere. Architetti, scultori e pittori furono chiamati a trasformare le chiese in grandi mostre d’arte di travolgente splendore. Non contano tanto i dettagli quanto l’effetto d’insieme: candele accese, messe solenni, profumi d’incenso che inondano spazi chiusi e aperti, suoni d’organo, cori sommessi e assordanti, luci, colori e preziosi materiali devono trasportarci di slancio in un atro mondo. Le più squisite creazioni scenografiche furono quelle di Giovan Lorenzo Bernini (1598-1680). Egli era un abile ritrattista: la fig. 1 Figura 1 mostra il ritratto che egli fece di una giovane Giovan Lorenzo Bernini Busto di Costanza Bonarelli 1635 donna, un busto in marmo travertino che Marmo, altezza 70 cm Museo Nazionale del Bargello, Firenze possiede tutta la freschezza e la schiettezza della carne vera. Tutta la figura sembra respirare e prender vita. Bernini ha colto un’espressione fuggevole che era certo caratteristica della modella. Nel fissare l’espressione del volto egli era insuperabile: si valeva dell’espressione per dar forma visiva alla propria esperienza religiosa. Il dinamismo plastico Pagina 1 La fig. 2 mostra un altare del Bernini destinato alla cappella laterale di una chiesetta romana, dedicato alla spagnola santa Teresa d’Avila, una monaca del ‘500 che aveva narrato in un libro famoso1 la sua esperienza mistica, descrivendo quel momento di rapimento celeste in cui l’angiolo del Signore, trapassandole il cuore con una freccia d’oro e di fuoco, le aveva arrecato tormento e insieme una beatitudine infinita. Figura 2 Giovan Lorenzo Bernini Cappella Cornaro 1652 Tecniche miste S. Maria della Vittoria, Roma Tutta la Cappella Cornaro è opera di incredibile ricchezza e sontuosità, dal pavimento intarsiato alla volta affrescata; i marmi sono prevalentemente verdi e gialli, con lampi di bronzo dorato e lo spazio è illuminato con tanto ingegno che lo si è paragonato a un teatro, con tanto di commedianti affacciati alla balconata che si parlano dalle quinte laterali della cappella (fig. 3). L’elemento centrale è un gruppo in marmo bianco dell’estasi della santa, illuminata dall’alto da una finestra invisibile. Figura 3 Giovan Lorenzo Bernini Cappella Cornaro, Coretto sinistro. 1644-51. Marmi policromi, legno, stucco. S. Maria della Vittoria, Roma “Vidi nelle sue mani una lunga freccia d’oro e sulla punta di ferro mi parve di vedere un fuoco. Con esso sembrò trafiggere più volte il mio cuore fino a penetrarmi nelle viscere (...) Il dolore era talmente forte che mi strappò qualche gemito; e tale era la dolcezza provocata in me da questa sofferenza estrema che non si può desiderare di perderla (...) Non è una pena fisica, ma spirituale, anche se il corpo ha in essa parte- anzi una grossa parte. (Santa Teresa, Vida) 1 Il dinamismo plastico Pagina 2 È l’istante del rapimento che Bernini ha osato rappresentare. Vediamo la santa sollevata in una nube verso il cielo, mentre torrenti di luce scendono dall’alto come una pioggia di raggi d’oro. L’angiolo sembra avvicinarsi dolcemente verso la santa riversa e tramortita nell’estasi. Il gruppo sembra sospeso senza alcun punto d’appoggio nella cornice dell’altare (fig. 4). È vero che l’intera composizione potrebbe a p p a r i r e e c c e s s i va m e n t e p a t e t i c a : è ovviamente una questione di gusto e di educazione sulla quale è inutile polemizzare. Figura 4 Giovan Lorenzo Bernini Cappella Cornaro, Estasi di santa Teresa Marmi policromi, legno, stucco. S. Maria della Vittoria, Roma Ma se un’opera d’arte può servire a suscitare sentimenti di fervida esaltazione e trasporto mistico cui miravano gli artisti barocchi, dobbiamo ammettere che Bernini Figura 5 raggiunge lo scopo in maniera Giovan Lorenzo Bernini Cappella Cornaro, Estasi di santa Teresa magistrale. Particolare della fig. 4 Egli mette via ogni ritegno e S. Maria della Vittoria, Roma tocca un vertice di commozione che fino ad allora gli artisti avevano evitato. Se paragoniamo il volto della santa in estasi (fig. 5) con qualunque opera dei secoli precedenti, vediamo che Bernini riesce ad esprimere una intensità fino ad allora mai tentata in arte. Perfino il trattamento del drappeggio è interamente nuovo: invece di farlo ricadere con pieghe dignitose alla maniera classica, egli le contorce, le rende vorticose e accentua l’effetto drammatico e dinamico dell’insieme. Ben presto tutta l’Europa lo imiterà. Il dinamismo plastico Pagina 3 Mentre procedevano i lavori della cappella, Bernini era impegnato anche in un’altra delle sue opere più importanti, il colonnato di piazza San Pietro (fig. 6). La sistemazione della piazza fu compiuta sotto il pontificato di Alessandro VII, tra il 1656 e il 1667. L’opera è considerata il simbolo della chiesa trionfante sulla riforma luterana e Bernini lo conferma dichiarando «l’ho concepita per ricevere a braccia aperte maternamente i cattolici, per confermarli nella fede». Ma oltre che per motivi simbolici e liturgici, la piazza esprime anche un’esigenza visiva: rendere maggiormente evidente la cupola michelangiolesca di San Pietro. Bernini concepisce uno spazio trapezoidale (fig. 7) antistante la chiesa, definito da due “bracci” direttamente collegati alla facciata. Figura 6 Giovan Lorenzo Bernini Colonnato di piazza San Pietro 1656-1667 Roma I l t ra p e z i o è u t i l i z z a t o i n s e n s o antiprospettico, proprio per avvicinare visivamente il fronte della chiesa. Ma il trapezio è solo uno spazio di Figura 7 transizione tra la basilica e l’immensa piazza Giovan Lorenzo Bernini ellittica. Questa ha l’asse maggiore nel senso Colonnato di piazza San Pietro Schema geometrico di riferimento della lunghezza ed è delimitata da un grandioso colonnato. Questa forma, in realtà una via di mezzo tra circolo ed ellisse, è stata considerata un compromesso tra la teoria_tolemaica e quella che con Keplero sosteneva la forma ellissoidale della terra. Il dinamismo plastico Pagina 4 A Roma, insieme al Bernini, operava anche l’architetto svizzero-italiano Francesco Borromini (1599-1667), formatosi come intagliatore di pietre, ma impiegato come scultore decorativo e disegnatore. Collaborò con Bernini per i lavori di San Pietro, ma i due furono divisi presto da un’incompatibilità di carattere. Borromini era cupo, litigioso, frustrato e nevrotico - e morì suicida -. In realtà conosceva assai meglio del Bernini l’antica architettura romana e aveva un interesse assai più profondo per i problemi strutturali e un coraggio maggiore nel risolverli, oltre ad essere un ispirato studioso della geometria. Cominciò a lavorare in proprio piuttosto tardi e completò un numero relativamente ridotto di edifici. Sant’Ivo alla Sapienza (figg. 9, 10, 11) è uno dei più belli. La sua pianta ingegnosa, formata da due triangoli equilateri che si intersecano e da cerchi (fig. 8), crea un insolito interno esagonale. Nato come cappella dell’Archiginnasio -la futura università di ROMA- il nuovo edificio doveva fornire Figura 8 essenzialmente spazio Francesco Borromini sufficiente alle prediche per gli Sant’Ivo alla Sapienza Roma Schema geometrico di riferimento studenti. La cupola non ha precedenti per la sua concezione, essendo semplicemente la continuazione delle pareti interne verso l’alto, sino al loro incontro nel cerchio di luce sotto la lanterna (fig. 9). Si raggiunge una assoluta unità spaziale senza sacrificare né la varietà né il movimento. Aveva però in questo progetto una parte importante anche il simbolismo: si dice che la pianta fosse basata sul disegno schematico di un’ape con le ali piegate, simbolo della famiglia Barberini, a cui apparteneva il papa Urbano VIII che aveva dato l’incarico al Borromini. Il dinamismo plastico Figura 9 Francesco Borromini Sant’Ivo alla Sapienza 1642 Roma Interno della cupola Pagina 5 La “stella di David” a 6 punte, formata dall’intersezione di due triangoli, è un antico simbolo di saggezza particolarmente adatto a una cappella universitaria: in effetti l’intero edificio è concepito come emblema della sapienza portata dalla discesa dello Spirito Santo, che con la Pentecoste aveva fatto dono agli apostoli della conoscenza delle lingue. Figura 10 Francesco Borromini Sant’Ivo alla Sapienza 1642 Roma Individuazione della stella a 6 punte Un curioso elemento dell’esterno (fig. 11) è la corona a spirale della lanterna conclusiva, simile a una ziqqurat babilonese. Allude forse alla confusione delle lingue presente nella Babele della Bibbia? Per gli interni, Borromini non impiegava i ricchi materiali tanto cari al Bernini. Quello di S. Ivo è tutto decorato di stucchi2, originariamente dipinti di bianco o di tonalità biancastre. Figura 11 Francesco Borromini Sant’Ivo alla Sapienza 1642 Roma Veduta dall’interno del cortile Col termine stucco si definisce un impasto di calce, polvere di marmo, sabbia lavata, caseina mescolati in proporzioni variabili rispetto alla funzione e alla necessità. L’impasto varia anche in rapporto al tipo di materiale reperibile a seconda delle località. Lo stucco viene utilizzato, sin dalle civiltà più remote, sia come elemento di riempimento e rifinitura in architettura, sia come elemento di decorazione. Nel Seicento e nel Settecento lo stucco ha un ruolo importante come complemento alla scenografia architettonica. Questo cambiamento esige una tecnica di modellazione più spericolata: le figure sono realizzate con vere e proprie “anime” o armature in ferro o altro metallo, intorno a cui sono sono modellate le forme in stucco. Da ricordare le figure a tutto tondo che entrano in ampia misura nella decorazione architettonica, come ad esempio le statue di Giacomo Serpotta, pensate come attori nelle sue scenografie a stucco che caratterizzano tanti interni siciliani, soprattutto palermitani. 2 Il dinamismo plastico Pagina 6 Il Barocco siciliano e il caso di Catania Nel 1693 tutte le città e i villaggi della Sicilia orientale furono devastate da un forte terremoto. Nell’area sud-orientale molte città andarono completamente distrutte e la decisione di ricostruirle rese possibili le piante geometricamente regolari di Noto, Avola e Grammichele (figure A, B e C). Figura B Figura A Veduta aerea di Noto (SR) Veduta aerea di Grammichele (CT) Catania aveva già duramente risentito dell’eruzione dell’Etna del 1669, quando una muraglia di l a va t a g l i ò i n d u e l a p a r t e occidentale della città e ne invase il porto. Il terremoto la danneggiò più gravemente di qualsiasi altra grande città. Degli edifici precedenti al 1693 non restano che il medievale Castello Ursino e le tre absidi normanne della Figura C Pianta settecentesca di Avola Cattedrale. In effetti la città fu ricostruita di sana pianta sulla sede originaria. Gli ideatori della Catania moderna sfruttarono il disastro per tracciare le due grandi arterie che si tagliano ad angolo retto nella Piazza del Duomo e dividono la città in quattro rioni. L’opera di ricostruzione fu organizzata rapidamente sotto la guida del vescovo di Catania e dell’architetto Alonzo Di Benedetto. Ma poiché solo un uomo non poteva far fronte alla mole dell’intera riedificazione, si chiesero aiuti ad altre città. Alonzo e i suoi colleghi dovettero lavorare in armonia, perché lo stile dei monumenti è omogeneo. Il dinamismo plastico Pagina 7 I primi risultati dello sforzo ricostruttivo sono evidenti negli edifici che circondano la piazza del Duomo (figura D): l’Arcivescovado, il Seminario dei Chierici e un palazzo privato nell’angolo sud-ovest. Le decorazioni tutt’intorno alle finestre sono ricche di Figura D Piazza del Duomo a Catania immaginazione nei particolari; ma le bugne3 sono estremamente varie, ora piatte, ora quadrate, ora oblunghe, ora sfaccettate, ora decorate con foglie d’acanto. Lo stile tocca complessi gradi di elaborazione: nel portale di Palazzo Massa, sulle facciate del Palazzo Biscari, sull’ala principale del Convento dei Benedettini (oggi sede dell’Università), le finestre si arricchiscono ancora ed esplodono in una lussureggiante fantasia di rilievi con putti, festoni e ghirlande. Ma l’intera situazione artistica catanese mutò in seguito all’arrivo, intorno al 1730, di Giovanni Battista Vaccarini, che il Senato aveva nominato «architetto commissario prefetto delle opere della città». Nato a Palermo nel 1702, aveva seguito un periodo di formazione a Roma, dove era rimasto folgorato dalle idee di Bernini e Borromini. Di fronte al Municipio di Catania, in piena Piazza del Duomo, il Vaccarini costruì nel 1736 una fontana (figura F) composta da un obelisco eretto su un elefante, destinato a diventare il simbolo della città. Nella sua concezione generale essa si può ricondurre all’elefante berniniano della Minerva a Roma (figura E). ll bugnato è una lavorazione muraria utilizzata sin dall'antichità e ripresa, con modalità e forme diverse, in altre epoche e fino ai giorni nostri. È costituito da blocchi di pietra sovrapposti a file sfalsate preventivamente lavorate in modo che i giunti orizzontali e verticali risultano scanalati ed arretrati rispetto al piano di facciata della muratura, con un effetto aggettante di ogni singolo blocco.Il bugnato si distingue secondo la forma e il rilievo delle bugne, che può essere di diverse dimensioni e forme e con trattamenti materici rustico, liscio, squadrato, a cuscino, a punta di diamante. 3 Il dinamismo plastico Pagina 8 Figura E Giovan Lorenzo Bernini Obelisco della Minerva 1667 S. Maria sopra Minerva, Roma Ma mentre a Roma la base è semplice e rettangolare e tutto l’interesse è concentrato nel movimento dell’animale, nell’opera del Vaccarini la base è riccamente articolata e l’elefante, scolpito in un blocco grezzo di lava nera, sprigiona un fascino quasi primitivo, essenziale. Tradizione e leggenda vogliono che tanto l’obelisco quanto l’elefante siano antichi ma molto restaurati e rimaneggiati. Figura F Giovanni Battista Vaccarini Fontana dell’Elefante 1735 Piazza del Duomo, Catania Ad ogni modo il Vaccarini, architetto geniale, intervenne un pò in ritardo nel disegno urbanistico della città, direi quasi a cose fatte. Ma il suo grande merito fu quello di non lacerare il tessuto urbano, che ai suoi occhi dovette sicuramente apparire provinciale e non propriamente moderno. La ricostruzione di Alonzo, del Duca di Camastra, di Monsignor Riggio aveva seguito alterne vicende di ripicche, di noncuranza dei regolamenti comunali e di veri e propri abusi. Capomastri contro impiegati comunali, vigili contro potenti signorotti di quartiere: uno sviluppo unitario e organico, pur possibile, si era arenato davanti a tali contrasti. La differenza fondamentale tra Alonzo di Benedetto e i successori con Giovan Battista Vaccarini sta nell’uso della decorazione: per Alonzo la struttura doveva essere ricoperta, sommersa dagli ornamenti, doveva sparire come le ossa nella carne. Per Vaccarini conta la composizione architettonica, il dialogo tra i vari edifici del contesto urbano, la potenza strutturale delle masse edili. La sua prima opera catanese, la facciata del Duomo (figura G), si mantiene ancora troppo rigida e non esprime al meglio la creatività dell’architetto palermitano. È evidente la sua padronanza del Figura G Giovanni Battista Vaccarini mestiere ma il risultato non decolla. Duomo 1758, Catania Il dinamismo plastico Pagina 9 Figura H Giovanni Battista Vaccarini Facciata del Duomo 1758 Piazza del Duomo, Catania La facciata, preesistente, risulta eccezionalmente larga e, sebbene le colonne in risalto e i frontoni ricurvi non manchino di vivace movimento (figura H), il movimento non unifica la superficie e sembra disperdersi in tanti episodi non sincronizzati. In seguito, il Vaccarini creerà facciate panciute, ondulate, articolate. La rigidità di questa sua prima opera catanese venne però chiaramente avvertita dall’architetto, che non volle ripetere le incongruenze. Figura I Giovanni Battista Vaccarini Badia di Sant’Agata 1748-67 Catania Più complessa è la Badia di Sant’Agata (figura I). In pianta presenta una doppia curva ad “esse”, come la chiesa borrominiana di San C a r l o a l l e Q u a t t r o Fo n t a n e . N e l prospetto le porzioni laterali sono convesse mentre quella centrale è concava. Un alto attico corre lungo la parte superiore della facciata, nel quale si incunea, spezzandolo, il frontone centrale. Un elemento insolito è la panciuta gelosia4 che taglia orizzontalmente il disegno a livello dei capitelli. 4 Il dinamismo plastico Gelosia: tipico balcone barocco, concepito all'epoca per permettere alle dame di affacciarsi nonostante le gonne dell'epoca. Pagina 10 La gelosia si estende sull’intera lunghezza del prospetto e sembra integrarsi con grande maestria nel disegno architettonico. Nella facciata il Vaccarini dà il meglio di se come ideatore di particolari decorativi, aiutato anche dalla particolarità della pietra lavica catanese, priva di grazia intrinseca ma adattissima ad esser tagliata e lavorata in maniera precisa. Brillanti e geniali sono i capitelli delle robuste lesene 5 (figura L), composti simbolicamente dalle palme del martirio, dai gigli come simboli di verginità e dalle corone di gloria eterna, tutti propri della santa. Vaccarini si ispirò certo al modello del capitello corinzio, ma sostituì le foglie d’acanto e le tradizionali decorazioni con i simboli di Agata e diede vita ad una composizione carica di fantasia estremamente controllata. Alcuni elementi dell’intera composizione in effetti risultano poco armonizzati nel contesto generale e non presentano la stessa freschezza innovativa dei capitelli e delle gelosie, ad esempio. Ma forse la spiegazione di questa dissonanza compositiva sta nel fatto che la costruzione della Badia si Figura L Giovanni Battista Vaccarini prolungò per un trentennio e può aver inevitabilmente Badia di Sant’Agata 1748-67 Catania risentito di diversi rallentamenti progettuali ed esecutivi. Dettaglio dei capitelli Lo stile del Vaccarini dominò per diversi decenni l’architettura catanese, ma altri architetti lavorarono in stili diversi dal suo. Val la pena ricordare Stefano Ittar, autore della Collegiata e il suocero Francesco Battaglia, che lega il proprio nome al restauro e all’ampliamento di Palazzo Biscari. Entrambi furono coinvolti nel dibattito artistico e culturale della città di Catania dal grande collezionista ed archeologo Ignazio Paternò, principe di Biscari. Lesena Risalto verticale di una parete muraria, ripetuto in genere ritmicamente, che può avere funzione sia decorativa sia di rinforzo della parete medesima. Quando ha funzione tendenzialmente strutturale, è più propriamente detta parasta. 5 Il dinamismo plastico Pagina 11 In via dei Crociferi (figura M), dove la massima parte degli edifici, sacri e profani, sono del Vaccarini o di suoi diretti collaboratori, si ha la sensazione della più straordinaria composizione di spazi che sia dato ammirare in una strada. La chiesa di San Benedetto, quella di San Giuliano e quella di Santa Chiara non sembrano semplicemente allinearsi all’asse stradale, ma costituiscono una vera e propria composizione affidata a delle gelose aree di rigore, delimitate da importantissime e curatissime cancellate in ferro battuto, veri e propri capolavori di artigianato locale, Figura M Catania Via dei Crociferi che assumono un valore simile a quello delle cornici nei quadri. Questi spazi sembrano incastrarsi alla perfezione come nei pezzi di un prezioso mosaico: un’architettura di vuoti, che in assenza di un preciso allineamento crea una composizione cementata come un luogo di altissima civiltà. Sta forse qui il segreto di questa piccola e straordinaria strada catanese, non a caso insignita dell’onore di essere patrimonio UNESCO. «Nella luce trafiggente del mezzogiorno siciliano, per cui le ombre sono di una luce appena meno intensa, un luce in minore, i risalti gonfi delle colonne, gli sbattimenti delle cornici e dei timpani acquistano forme d’aria densa, come l’acqua che resta nelle rocce dopo la mareggiata, e lentamente svaporando imbianca.» Cesare Brandi, 1949 Il dinamismo plastico Pagina 12 G iacomo S erpotta Una piccola serpe (una sirpuzza, in dialetto siciliano) si avvinghia a un riquadro architettonico nella fastosa decorazione di stucchi declaratorio del Rosario a Santa Cita -o Zita- a Palermo. E’ la sigla del più grande scultore europeo del suo tempo, così chiaro nella qualità delle sue opere quanto misterioso nelle ascendenze culturali, così tanto siciliano nella tecnica di un antico artigianato, così straordinariamente universale nel raggiungimento artistico. Nato appena dopo la metà del 1600, Giacomo Serpotta (1656-1732), palermitano, fu operoso fino al terzo decennio del Settecento. Nel suo lavoro, che giocoforza ebbe necessità di nutrite équipe di aiutanti, assistenti e collaboratori, riuscì a conglobare tre civiltà: la prima, quella che stava per la civiltà barocca, la seconda, quella durante operò per la maggior parte della sua vita, il virtuosistico Rococò, e terza, con illuminato anticipo, un Neoclassicismo ante litteram. spegnersi con il secolo, la quale infine la Il Serpotta lasciò opere soltanto in Sicilia, quasi tutte a Palermo, poche altre ad Alcamo e Agrigento. Qualcuna, sporadica, è finita in altri luoghi, anche fuori dall’isola. Non si riesce ad accertare se e per quanto tempo fu a Roma, e in che modo vide all’opera i berniniani della fine del Seicento. Non si sa se varcò mai i confini italiani e vide i prodotti del Rococò europeo, in Francia, Spagna, in Austria o altrove. Eppure, la sua opera ha enormi aspetti di modernità Sant'Orsola dei Negri, Palermo consapevole e grande profondità di cultura europea, ma lascia insoddisfatti i cultori di precise origini, somiglianze e analogie tra opere e produzione coeve di grandi protagonisti dell’arte internazionale. Il dinamismo plastico Pagina 13 Il lavoro del Serpotta -così singolare nel suo carattere di scultura concepita per gli spazi architettonici- trova la sua chiave di lettura nel disegno. Dai disegni e dalle stampe che circolavano a Palermo il giovane Giacomo ebbe la percezione del gusto del tempo, e saranno proprio i disegni e l’idea grafica a dare unità stilistica all’intera sua opera. Ma egli superò la semplice asticella del gusto e volò altissimo con la sua altissima qualità e la freschezza dell’invenzione. Serpotta guardò intorno a sé anche in Sicilia e trovò grandi sorgenti di ispirazione nelle opere di Antonello Gagini e del dalmata Francesco Laurana, presenti e operativi nelle Madonie e a Palermo stessa. Fu soprattutto la Grande Tribuna che Gagini aveva innalzato a Palermo, summa della scultura cinquecentesca siciliana (smembrata nel Settecento, è oggi superstite in pochi frammenti). Giacomo Serpotta era figlio d’arte, di famiglia umile e modesta, cresciuto nel rione della Kalsa, uno dei più popolari e -ancor oggi- chiassosi di Palermo. Fanciulletto, vide il padre Gaspare all’opera, strana figura bohémien (coinvolto in una lite sanguinosa e ridotto in fin di vita, per cui dovette fuggire per lungo tempo a Roma per evitare grane giudiziarie), poco più di un decoratore modesto, ed imparò a conoscere il mezzo tecnico, lo stucco, con cui soprattutto Gaspare si esprimeva. Questo mezzo, trasmesso al figlio e da questi elevato a linguaggio di straordinaria finezza, è rimasto unico, al livello a cui Giacomo lo condusse, in tutta la storia della scultura. Di stuccatori, la Sicilia ne aveva già avuti numerosi durante il Cinquecento e nella prima metà del Seicento: bisognava vederle, nelle viuzze dell’antica Palermo, le tante botteghe di artigiani al lavoro. Mani impastate di calce e polvere di marmo, bisognava vedere asciugare rapidamente, dopo un’esecuzione rapidissima e quasi improvvisata, figure e ornamenti…bisognava scorgere, all’opera in chiese ed oratòri 6, le maestranze intente a plasticare sulle pareti, sugli archi, sugli stipiti, quando non addirittura grondanti dal soffitto, angeli, santi, fogliami e volùte. La trovata più geniale dell’artista fu quella di aver reso le figure simili a personaggi che si affaccino da un immaginario proscenio, come cariche di tensione precaria e instabile che rendono animata e ritmica la loro collocazione nello spazio. E proprio così ci appaiono nel primo dei tre oratori decorati dall’artista a Palermo, complessi straordinari pervenutici intatti, nei quali la fantasia dello scultore superò ogni precedente, protagonista architettonico-plastico-decorativo sorprendente. Oratorio Secondo il Codex iuris canonici, luogo destinato, su licenza dell’Ordinario, al culto divino in favore di una comunità o di un gruppo di fedeli e al quale possono accedere anche altri fedeli con il consenso del superiore competente; sono considerati o. a tutti gli effetti anche le cappelle dei cimiteri appartenenti a qualche comunità o ceto di persone. Tradizionalmente gli o. erano cappelle isolate, di piccole dimensioni, diffusi fin dai primi tempi del cristianesimo, attigui ai monasteri o alle chiese. Gli o. ebbero grande sviluppo dopo la Controriforma: furono spesso costruiti nella parte superiore delle chiese o sopra una delle grandi sale del pianterreno dei conventi; confraternite e compagnie religiose gareggiarono nell’erigerne. Tra gli o. più noti vi furono quelli di S. Bernardino a Perugia (Agostino di Duccio), dei filippini a Roma (F. Borromini), di S. Lorenzo e Santa Cita a Palermo (G. Serpotta). 6 Il dinamismo plastico Pagina 14 Aveva incominciato, il Serpotta, con interventi parziali, in chiese e piccoli oratori palermitani, decorazioni di pareti e altari (nell’Oratorio della Carità, distrutto, e al Carmine), di alcune cimase, e lavorando con il fratello Giuseppe. Ma dovette imporsi subito, come testimonia il bozzetto del monumento di Carlo II a Messina, oggi conservato come preziosa reliquia al Museo Pepoli di Trapani. Gli venne affidata la decorazione dell’Oratorio del Rosario di Santa Cita7, la cui costruzione era stata ultimata nel 1680. L’ a r c h i t e t t u r a è quanto mai semplice: un’aula rettangolare con volta a padiglione, due ingressi nel lato minore, l’arco trionfale all’altro estremo e un p r e s b i t e r i o quadrato. La luce penetra da finestre alte sui due lati maggiori, un alto basamento sui lati lunghi come schienale per gli stalli dei confratelli, un cornicione, lesene, bordi alle finestre. La compagnia del SS. Rosario in Santa Cita fu fondata nel 1570 dopo la scissione con l'omonima compagnia con sede in San Domenico ed inaugurò il proprio oratorio nel 1686. La compagnia, tra le più ricche e prestigiose, costretta ad un rigido protocollo comportamentale, si dedicava ad opere assistenziali ed alla remissione dei peccati attraverso forme di indulgenza plenaria. 7 Il dinamismo plastico Pagina 15 L’Oratorio di Santa Cita rimarca lo schema tipo dell'oratorio come luogo di assemblea e di culto, con doppia funzione liturgica e sociale e col netto contrasto architettonico tra l'esterno fortemente modesto e l'interno splendidamente adorno. Ma, in questo interno, il manto di stucco che riveste le pareti sembra colare come un fiotto di luce, vibra di figure e di festoni, si agita come la pergola al vento. A considerare l’intero complesso decorativo dell’Oratorio, brulicante di motivi che si distendono sulle pareti, che da queste aggettano e si sovrappongono in un continuo impulso dinamico, sembra difficile negare che una mente unica abbia pensato ad organizzare il tutto. Anche quel verminare di episodi plastici sulle pareti è fermamente concluso, come fosse stato ricomposto dalla cornice che circonda superiormente tutta l’aula e ha finissimi fregi nella parete d’ingresso. Un chiaroscuro cangiante al mutar della luce si addensa sul candore opaco degli stucchi: la luce è condizione essenziale su quelle pareti gremite di forme, e trasforma l’aula rettangolare in un ambiente dalla illimitata prospettiva. La finzione ideata dal Serpotta ha il sapore evocativo ed irreale che è proprio del teatro, con una incredibile commistione di vero e illusorio, di cortigiano e popolaresco, di scherzosa ironia e della gravità astratta e maestosa dell’allegoria. Negli due successivi oratòri di San Lorenzo e di San Domenico, e in altre opere di chiese palermitane, alcamesi e agrigentine, forse sull’aspetto popolaresco prevarrà la nobiltà stilizzata e distaccata delle rappresentazioni allegoriche. Ma in Santa Cita il vezzo popolare, il gusto della schietta verità quotidiana sembrano avere il sopravvento. Nè l’invenzione si arresta qui. La parete dell’ingresso è come guarnita dal grande apparato di una festa popolare. Lo stucco si piega a fingere le morbidezze vellutate di un i m m e n s o d ra p p o c h e i putti sistemano qua e là, Visualizza a pieno schermo diligenti e attenti. Il dinamismo plastico Pagina 16 Gli angioletti svolazzanti scostano e piegano il drappo, provocano pieghe e svelano i teatrini plastici con i Misteri del Rosario che fanno la scena nella scena. E al centro c’è l’incredibile invenzione della Battaglia di Lepanto in prospettiva, con le navi che emergono dal mare mosso da una lieve risacca e stanno in bilico a malapena con i loro remi obliqui sul piano inclinato della scena: perché proprio di una scena si tratta, con le pareti -le quinte- che si restringono verso il fondo. Il dinamismo plastico Pagina 17 Giacomo Serpotta amava indubbiamente i pezzi di bravura, e lo furono in genere tutti i suoi teatrini, nei quali l’effetto prospettico è esattamente quello scenografico, giacché le figure si rimpiccioliscono passando dai primi ai secondi piani e il palco è a scivolo, non tanto per la vista dal basso, quanto per la trasformazione stereoscopica8 della scena. Nell’Oratorio di Santa Cita, i teatrini rappresentano i Misteri del Rosario 9 con un così vivace effetto realistico e una così calcolata prospettiva teatrale da porre come certa l’influenza del teatro del tempo sullo s c u l t o r e palermitano. Questi piccoli scomparti s o n o sormontati da putti e da festoni ai lati delle cornici che li inquadrano, e la loro r i t m i c a sequenza produce, in tutte le pareti, l’impressione di un fregio continuo. 8Stereoscòpico agg.– Di stereoscopia, relativo alla stereoscopia: coppia s., le due diverse immagini che di uno stesso oggetto si formano nei due occhi e che conferiscono la vista s., propria, tra i mammiferi in cui, per consentire l’effetto, i globi oculari sono posti sullo stesso piano; con la stessa locuz. si indicano le due immagini fotografiche (dette anche stereofotogrammi) che consentono una percezione tridimensionale degli oggetti rappresentati . Esposizione dei misteri. Il Rosario è composto di venti "misteri" (eventi, momenti significativi) della vita di Gesù e di Maria, divisi dopo la Lettera Apostolica Rosarium Virginis Mariae, in quattro Corone. La prima Corona comprende i misteri gaudiosi (lunedì e sabato), la seconda i luminosi (giovedì), la terza i dolorosi (martedì e venerdì) e la quarta i gloriosi (mercoledì e domenica). 9 Il dinamismo plastico Pagina 18 Tra le parti assolutamente autografe del Serpotta sono le figure dei giovinetti seduti in atteggiamenti contrastanti sulla cornice della porta centrale, al di sotto della Battaglia di Lepanto. Si tratta di veri capolavori, in cui risultano contemperati naturalismo e misura classica delle forme: in particolare i globi oculari e le orbite sono modellati come nella statuaria classica. Nel bambino senza c o p r i c a p o i c a p e l l i s e m b ra n o t ra t t a t i sapientemente ciocca a ciocca, in quello dal capo coperto il morbido berretto calza con la stessa naturalezza degli abiti che caratterizzano le due figure. Restano comunque tra le più alte realizzazioni del Serpotta. Consuetudine vuole che siano considerate semplici immagini allegoriche del Il dinamismo plastico Pagina 19 cristiano vincitore (senza copricapo, con lo sguardo assorto di chi perdona senza giudicare e con accanto l’elmo del guerriero) e del musulmano sconfitto (con lo sguardo abbassato e con accanto il turbante orientale), ma c’è ben altro, e lo si comprende dagli abiti contemporanei, trattati naturalisticamente e forse importati dalla pittura coeva genovese post-caravaggista. Anche le loro fattezze europee, ma non astratte, e la sottile psicologia che esprimono dalle diverse espressioni, portano a ritenere che siano semplicemente due ragazzi, a cui Serpotta fa impersonare gli opposti protagonisti della battaglia soprastante, come in un giocoso e improvvisato teatro popolare o di strada. Serpotta mette in opera nell’Oratorio del Rosario di Santa Cita una prodigiosa operazione, con lo stucco pietrifica e rende durevole nel tempo la tradizione barocca delle parature per le cerimonie civili e religiose, festose e funebri, che ricoprivano le chiese di drappi e grandi teli, spesso dipinti con storie celebrative e commemorative. Ma non possiamo dire che “non somiglia a nessun addobbo coevo, né sotto l’aspetto della tecnica né dello stile”, poiché questa straordinaria coltre a rilievo (la “cultra” , ovverosia il gran manto della parete d’ingresso), realizzata come se i misteri vi fossero pitturati, ha un riferimento chiarissimo: l’addobbo della facciata interna della cattedrale di Palermo per le esequie di Filippo IV di Spagna del 1666, riproposta molto simile nel 1689 (successivamente al Rosario in Santa Cita) per i funerali di Maria Luisa di Borbone regina di Spagna, e ancora nel 1701 per la morte di Carlo II. Il vero senso dell’intero ciclo delle raffigurazioni non va probabilmente ricercato nella rievocazione della grande Battaglia di Lepanto del 1571 ma nella celebrazione della pace conquistata e dovuta al salvifico intervento della Madonna del Rosario. In sostanza, riconducendo il miracolo di santa Rosalia all’interno della devozione della Vergine del Rosario, i confrati di Santa Cita rinvigorirono il ricordo della protettrice delle armate cristiane, nel 1571 come nel 1683. Iconograficamente la compagnia dovette esigere i quindici misteri del rosario, centrali nella sua devozione. Plausibilmente fu suggerita un’ulteriore immagine altamente auto-celebrativa, la Battaglia di Lepanto in cui la flotta della Lega Santa fu affidata alla Madonna del Rosario, dunque essa stessa prova della potenza e della grazia concessa dalla Vergine. E Serpotta come mette in opera queste indicazioni? Dispone i tre tipi di misteri su pareti diverse: 1.sulla destra i Misteri Dolorosi 2.sulla sinistra i Misteri Gaudiosi 3.sulla controfacciata i Misteri Gloriosi della Vergine. Al centro , in a l t o, l ’ I n c o r o n a z i o n e della Vergine. Il dinamismo plastico Pagina 20 U n discorso a parte meritano le figure allegoriche realizzate dal Serpotta, quasi sempre femminili: spesso le virtù, le sante, le eroine di Serpotta, non solo in quest’oratorio, sono giovani, piacenti, a t t r a e n t i ; a l c u n e , d a v v e r o s e x y, mostrano seni rigonfi ed espressioni velatamente ammiccanti. Sempre rigorosamente conformi ai precetti dell’iconografia, anche se il loro carattere didascalico si stempera nei giochi dei puttini; fonte certamente riconoscibile è la fondamentale Iconologia di Cesare Ripa del 1593. Pa n n e g g i e a n a t o m i a a c q u i s t a n o morbidezza e fluidità e l’impianto decorativo reclama la propria autonomia nei confronti delle statiche strutture architettoniche dell’ambiente. Giuditta Giacomo Serpotta Oratorio di Santa Cita Qui l’autore rivela non solamente la sua abilità nel trattare lo stucco, che richiede una mano veloce, ma anche la sua sincera vena poetica. Le figure femminili indossano a volte dei costumi all’antica: panneggi morbidamente avvolti sui corpi secondo cadenze classicheggianti; altre volte invece esibiscono, persino con un po’ di civetteria, vesti e copricapi all’ultima moda. In queste ultime emerge lo scultore attento osservatore della realtà, del quotidiano, sia esso grazioso e lezioso, sia semplice e vero. La Fortezza Il dinamismo plastico Giacomo Serpotta Oratorio di San Lorenzo Pagina 21 La Carità, nell’Oratorio di San Lorenzo, una tra le più famose statue di Serpotta, posta alla sinistra dell’arco trionfale del presbiterio su cui san Francesco con gli angeli invia i suoi raggi di grazia, allatta un bimbo alla mammella sinistra e tiene appoggiata la mano destra sull’altra, comprimendola leggermente, dandole l’aspetto di turgidità e morbidezza; la sua espressione è benignamente sorridente; due bambini le stanno ai lati, uno dei quali, nudo, tiene vezzosamente un ditino in bocca, mentre l’altro, vestito da popolano, si allunga per avere qualche dono. La similitudine col mondo del teatro e della vita quotidiana regge anche facendo riferimento a queste statue allegoriche,che si sporgono da nicchie dorate e piedistalli verso lo spazio circostante, recitando così la loro parte. Tutte insieme le figure del Serotta vivono in unità, ”in un accordo che è di senso quasi musicale e teatrale”. Fra il 1688 e il ’91 lo scultore, ormai acclamato e riconosciuto, visse una La Carità profonda crisi religiosa, che lo portò Giacomo Serpotta per poco più di un anno ad entrare Oratorio di San Lorenzo come novizio nell’ordine gesuitico (forse non solo per motivi spirituali). Fatto sta che nell’ultimo scorcio di secolo non vi fu Oratorio o chiesa che non richiedesse l’intervento del Serpotta, che ormai padroneggia il mezzo tecnico con tale maestria da trasformare ogni suo lavoro in opere da tenuta qualitativa altissima. Che cosa possa averlo trasformato in maniera tanto netta, in un così breve tempo, non è ancora chiaro; certo è che da questo momento da stuccatore diviene uno scultore, capace di padroneggiare la materia, i grandi spazi e le decorazioni minute. «Si dice che l’arte è fuori del tempo; se è così Serpotta rimane fuori dell’arte. Niente è più temporale, più trascorrente della realtà che rappresenta. Persino il mezzo materiale di cui si serve, lo stucco, sembra quasi simbolo della transitorietà del suo mondo. Un impasto fragile e friabile, sensibile ai mutamenti delle stagioni; tanto che, ahimè, non resisterà ai secoli. Suo destino è ritornare polvere». Peppe Fazio, Serpotta Il dinamismo plastico Pagina 22 Il Futurismo «Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro dal piacere o dalla sommossa; canteremo le maree multicolori o polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti Figura O Il gruppo futurista a Parigi Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni e Severini che scavalcano i fiumi.» Filippo Tommaso Marinetti Se Caravaggio ha inventato la fotografia e il Neorealismo, Giovan Lorenzo Bernini e Giacomo Serpotta hanno precorso, con quattro secoli di anticipo, il dinamismo plastico. Ogni loro scultura va guardata a 360 gradi, concepita per luoghi ove decorazione, architettura e scultura sono un’unica cosa. Non ci si può limitare a un’occhiata frontale. Le loro figure scorrono come una pellicola, ogni particolare genera il successivo, tutto è concepito come un continuum spazio-temporale. Il loro interesse è concentrato sul vento, sull’acqua, su tutto ciò che agita la materia dall’interno. Proprio come trecento anni dopo faceva Umberto Boccioni. Come a Caravaggio e ai cubisti, a Galileo e al Greco, ai futuristi gliene dissero di tutti i colori. Che erano dei cialtroni, dei buffoni, degli intruglioni. Che i loro scarabocchi marci e altri A differenza quadri erano peggio dei cartelloni delle pubblicità, che sembravano degli alienati del manicomio. E giù schiaffi, pugni, lancio di pomodori ortaggi di stagione. di altri movimenti moderni, il Futurismo non si occupava però soltanto di arte. Più che uno stile fu un’ideologia. Creato a Milano nel 1908 dal poeta Filippo Tommaso Marinetti, già l’anno dopo, con la pubblicazione a Parigi del primo Manifesto, ebbe subito un impatto internazionale. Dall’Italia alla Russia zarista e persino negli Stati Uniti il Futurismo divenne più noto del Cubismo. Affascinato dal rumore, dalla velocità e dall’energia meccanica della città moderna, Marinetti voleva cancellare il passato, in particolare il culto e la cultura del passato italiano, voleva bruciare i musei, prosciugare i canali di Venezia, e sostituire tutto con una nuova società, una nuova poesia e una nuova arte basate su nuove sensazioni dinamiche. Tra gli artisti che risposero all’appello di Marinetti, il più lucido e il più talentuoso come pittore e scultore fu Umberto Boccioni (1882-1916). Fu lui a scrivere il Manifesto dei pittori futuristi del 1910, nel quale si proclamava «il dinamismo universale deve essere reso come sensazione dinamica: il moto e la luce distruggono la materialità dei corpi». Egli sosteneva che le composizioni artistiche dovessero Il dinamismo plastico Pagina 23 combattere la staticità, in nome di quella che chiamava “simultaneità”, un procedimento per concepire i quadri come piccole sezioni di totalità continue. Altri protagonisti della pittura futurista furono Giacomo Balla, Gino Severini, Carlo Carrà, Fortunato Depero tra i più famosi, e folta fu la schiera di artisti futuristi che proveniva dalla Sicilia (Rizzo, Corona, D’Anna, Varvaro). Del resto, lo stesso Boccioni frequentò qualche anno di scuola superiore a Catania. Il Futurismo fu un fenomeno di breve durata -già nel 1916 può definirsi finito, nonostante un tentativo di riportarlo in vita dopo la prima guerra mondiale- ma ebbe conseguenze ben più durature e un’influenza ben più vasta di quanto si possa credere. Ne risentirono quasi tutti i movimenti artistici europei contemporanei, compreso il Cubismo nella sua fase sintetica, il movimento Dada e il Surrealismo, compreso l’Espressionismo astratto americano. La città che sale è uno dei quadri più potenti, intelligenti e innovatori del XX secolo. La rappresentazione del movimento è ottenuta attraverso una spinta incalzante e continua di colori e forme lungo la diagonale del dipinto, da destra verso sinistra. Figura N Umberto Boccioni La città che sale 1910 cm 200 x 290,5 Metropolitan Museum of Art, New York Il dinamismo plastico Pagina 24 La rappresentazione del movimento è ottenuta attraverso una spinta incalzante e continua di materia pittorica lungo la diagonale del dipinto, da destra verso sinistra. In questo, Boccioni è erede di tutti i grandi “rappresentatori di movimento”, che hanno utilizzato le diagonali e le linee guida direzionate come indicatori di un moto interno alle figure rappresentate. Così fu per Donatello, per Michelangelo, per Caravaggio, per il grande Giovan Lorenzo Bernini, per il misconosciuto e immenso Giacomo Serpotta. Ma oltre ai puri accorgimenti tecnici Boccioni aggiunse un’emotività senza pari. Il vortice a spirale di questa periferia sferzata da un vento-frullatore modella le forme in una sorta di moviola accelerata. La pittura sembra perdere contorni e dimensioni e profetizzare le intuizioni dell’Action Painting americana del secondo dopoguerra. L’ o n d a p i t t o r i c a s e m b r a incresparsi, in basso a destra, e generare un gigante di materia rossa alto come una montagna. Il gigante rosso si infrange contro il selciato metropolitano, frantumandosi in filamenti di materia bluastra. Dall’impatto dinamico del colore sembrano generarsi le forme, il grande cavallo scatenato, gli operai che tentano di arginarne la furia, le altre teste equine abbassate e impennate, come squassate nella concitata azione. In alto, il fantasma di una casa in costruzione sembra avvolto in una corazza di tubi metallici, a ricordare l’inquieto sonno della provincia italiana. Il dinamismo plastico Pagina 25 Giganti, pigmei, azione da Far West, fumo, macchinari, edifici in costruzione: il tema futurista del dinamismo si svolge con le immagini delle nuove “tecnologie” (treni, tram, automobili, transatlantici, aerei) contrapposte alla potenza e all’energia del cavallo. Ma non il cavallo romantico ed eroico della tradizione, bensì la “macchina animale” che è destinata, nella sua forza inarrestabile, a travolgere e schiacciare ogni passatismo e vecchiume. Per ottenere questi effetti di progressiva dematerializzazione e ricostruzione delle forme Boccioni si serve di pennellate sottili e saettanti, incandescenti nel colore, disposte secondo le direttrici dinamiche della composizione, strutturata, come già ricordato, secondo un concitato moto diagonale. Il dipinto, esposto per la prima volta nella “Mostra d’arte libera” a Milano nel 1911, si intitolava inizialmente Il lavoro; ovviamente anche in questo caso non mancarono i dibattiti e gli sberleffi, addirittura la critica parlò di “un quadro poco eloquente e suggestivo, che manca di chiarezza e di organicità”. In seguito a questo insuccesso e alle violente polemiche accese dall’intero movimento futurista, Marinetti e i suoi decisero di esportare il movimento a Parigi, allora capitale mondiale dell’arte. Marinetti, Carrà, Russolo, Boccioni e Severini incontrarono Picasso e Braque, mentre Guillame Apollinaire, uno degli intellettuali e critici d’arte più ascoltati del tempo, scrisse entusiastici articoli su di loro, specialmente di Boccioni. Il grande dipinto Il lavoro era stato intanto venduto a Londra e aveva ormai assunto il nome The rising city. Ma fu nel 1916, durante una retrospettiva organizzata a Milano in onore e memoria di Boccioni, morto prematuramente a 34 anni, che la critica cominciò a leggere in questo dipinto una sorta di programma pittorico, un manifesto per immagini del Futurismo. Si parlò del cavallo come di “una ruota d’elica, azzurro come l’acciaio (in realtà azzurro è il giogo, il collare) che vortica nell’onda o nell’aria”. Il Futurismo lascia alla pittura moderna e contemporanea la selvaggia e incontaminata sensazione di una corsa che esplode e che non si interromperà mai più. Il dinamismo plastico Pagina 26 Tutte le considerazioni sono rielaborate e sintetizzate da Dario D’Antoni. Le citazioni sono liberamente tratte dai testi Ernst H. Gombrich Pablo Echaurren Honour-Fleming Il mondo dell’arte (Verona 1952) Controstoria dell’arte (Roma 2011) Storia universale dell’arte (Bari 1982) Anthony Blunt Barocco siciliano (Milano 1968) Cesare Brandi Maria Grazia Paolini Giovanni Caradente Giacomo Serpotta (Palermo 1983) L’illustrazione italiana (Palermo 1974) Ada Masoero Flavio Caroli Il dinamismo plastico Sicilia mia (Palermo 1989) Umberto Boccioni (Milano 2003) La pittura contemporanea (Milano 1987) Pagina 27