Il dinamismo plastico

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Il dinamismo plastico
Il dinamismo plastico
Dal Barocco al Futurismo
Italia, tardo Seicento e Settecento
Si dice che il Barocco è teatrale, ornato all’eccesso. I protagonisti principali, Bernini e
Borromini in persona non comprenderebbero questa accusa. Essi volevano che le
chiese, le piazze, gli spazi urbani apparissero festosi, pieni di splendore e movimento.
Se è scopo del teatro deliziarci con la visione di un mondo fatato, ricco di luce e di
sfarzo, perché gli artisti che progettano spazi da percorrere, da vivere, non
dovrebbero creare suggestioni ancora maggiori di fasto e gloria per ricordarci il
paradiso?
Le loro creazioni avevano il consapevole scopo di evocare una visione di gloria celeste
assai più concreta di quella suggerita dalle cattedrali gotiche. Infatti, più i protestanti
tuonavano contro l’esteriorità, più la chiesa
cattolica si avvaleva dell’opera di artisti famosi e
innovativi: l’arte poteva servire la religione ben
oltre il compito di insegnare il Vangelo a chi non
sapesse leggere. Architetti, scultori e pittori
furono chiamati a trasformare le chiese in grandi
mostre d’arte di travolgente splendore. Non
contano tanto i dettagli quanto l’effetto
d’insieme: candele accese, messe solenni,
profumi d’incenso che inondano spazi chiusi e
aperti, suoni d’organo, cori sommessi e
assordanti, luci, colori e preziosi materiali devono
trasportarci di slancio in un atro mondo.
Le più squisite creazioni scenografiche
furono quelle di Giovan Lorenzo Bernini
(1598-1680). Egli era un abile ritrattista: la fig. 1
Figura 1
mostra il ritratto che egli fece di una giovane
Giovan Lorenzo Bernini
Busto di Costanza Bonarelli 1635
donna, un busto in marmo travertino che
Marmo, altezza 70 cm
Museo Nazionale del Bargello, Firenze
possiede tutta la freschezza e la schiettezza della
carne vera. Tutta la figura sembra respirare e
prender vita. Bernini ha colto un’espressione fuggevole che era certo caratteristica
della modella. Nel fissare l’espressione del volto egli era insuperabile: si valeva
dell’espressione per dar forma visiva alla propria esperienza religiosa.
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La fig. 2 mostra un altare del Bernini destinato alla cappella laterale di una chiesetta
romana, dedicato alla spagnola santa Teresa d’Avila, una monaca del ‘500 che aveva
narrato in un libro famoso1 la sua esperienza mistica, descrivendo quel momento di
rapimento celeste in cui l’angiolo del Signore, trapassandole il cuore con una freccia
d’oro e di fuoco, le aveva arrecato tormento e insieme una beatitudine infinita.
Figura 2
Giovan Lorenzo Bernini
Cappella Cornaro 1652
Tecniche miste
S. Maria della Vittoria, Roma
Tutta la Cappella Cornaro è opera di incredibile
ricchezza e sontuosità, dal pavimento intarsiato alla
volta affrescata; i marmi sono prevalentemente
verdi e gialli, con lampi di bronzo dorato e lo spazio
è illuminato con tanto ingegno che lo si è paragonato
a un teatro, con tanto di commedianti affacciati alla
balconata che si parlano dalle quinte laterali della
cappella (fig. 3). L’elemento centrale è un gruppo in
marmo bianco dell’estasi della santa, illuminata
dall’alto da una finestra invisibile.
Figura 3
Giovan Lorenzo Bernini
Cappella Cornaro, Coretto sinistro.
1644-51.
Marmi policromi, legno, stucco.
S. Maria della Vittoria, Roma
“Vidi nelle sue mani una lunga freccia d’oro e sulla punta di ferro mi parve di vedere un fuoco. Con esso sembrò trafiggere più
volte il mio cuore fino a penetrarmi nelle viscere (...) Il dolore era talmente forte che mi strappò qualche gemito; e tale era la
dolcezza provocata in me da questa sofferenza estrema che non si può desiderare di perderla (...) Non è una pena fisica, ma
spirituale, anche se il corpo ha in essa parte- anzi una grossa parte. (Santa Teresa, Vida)
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È l’istante del rapimento che Bernini ha
osato rappresentare. Vediamo la santa
sollevata in una nube verso il cielo, mentre
torrenti di luce scendono dall’alto come una
pioggia di raggi d’oro. L’angiolo sembra
avvicinarsi dolcemente verso la santa riversa
e tramortita nell’estasi. Il gruppo sembra
sospeso senza alcun punto d’appoggio nella
cornice dell’altare (fig. 4).
È vero che l’intera composizione potrebbe
a p p a r i r e e c c e s s i va m e n t e p a t e t i c a : è
ovviamente una questione di gusto e di
educazione sulla quale è inutile polemizzare.
Figura 4
Giovan Lorenzo Bernini
Cappella Cornaro, Estasi di santa Teresa
Marmi policromi, legno, stucco.
S. Maria della Vittoria, Roma
Ma se un’opera d’arte può
servire a suscitare sentimenti di
fervida esaltazione e trasporto mistico
cui miravano gli artisti barocchi,
dobbiamo ammettere che Bernini
Figura 5
raggiunge lo scopo in maniera
Giovan Lorenzo Bernini
Cappella Cornaro, Estasi di santa Teresa
magistrale.
Particolare della fig. 4
Egli mette via ogni ritegno e
S. Maria della Vittoria, Roma
tocca un vertice di commozione che
fino ad allora gli artisti avevano
evitato. Se paragoniamo il volto della santa in estasi (fig. 5) con qualunque opera dei
secoli precedenti, vediamo che Bernini riesce ad esprimere una intensità fino ad allora
mai tentata in arte.
Perfino il trattamento del drappeggio è interamente nuovo: invece di farlo ricadere
con pieghe dignitose alla maniera classica, egli le contorce, le rende vorticose e
accentua l’effetto drammatico e dinamico dell’insieme. Ben presto tutta l’Europa lo
imiterà.
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Mentre procedevano i lavori della cappella, Bernini era impegnato anche in un’altra
delle sue opere più importanti, il colonnato di piazza San Pietro (fig. 6). La
sistemazione della piazza fu compiuta sotto il pontificato di Alessandro VII, tra il 1656
e il 1667. L’opera è considerata
il simbolo della chiesa trionfante
sulla riforma luterana e Bernini
lo conferma dichiarando «l’ho
concepita per ricevere a braccia
aperte maternamente i cattolici,
per confermarli nella fede».
Ma oltre che per motivi simbolici
e liturgici, la piazza esprime
anche un’esigenza visiva:
rendere maggiormente evidente
la cupola michelangiolesca di
San Pietro. Bernini concepisce
uno spazio trapezoidale (fig. 7)
antistante la chiesa, definito da
due “bracci” direttamente
collegati alla facciata.
Figura 6
Giovan Lorenzo Bernini
Colonnato di piazza San Pietro 1656-1667
Roma
I l t ra p e z i o è u t i l i z z a t o i n s e n s o
antiprospettico, proprio per avvicinare
visivamente il fronte della chiesa.
Ma il trapezio è solo uno spazio di
Figura 7
transizione tra la basilica e l’immensa piazza
Giovan Lorenzo Bernini
ellittica. Questa ha l’asse maggiore nel senso
Colonnato di piazza San Pietro
Schema geometrico di riferimento
della lunghezza ed è delimitata da un
grandioso colonnato.
Questa forma, in realtà una via di mezzo tra circolo ed ellisse, è stata
considerata un compromesso tra la teoria_tolemaica e quella che con Keplero
sosteneva la forma ellissoidale della terra.
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A Roma, insieme al Bernini, operava anche l’architetto svizzero-italiano
Francesco Borromini (1599-1667), formatosi come intagliatore di pietre, ma
impiegato come scultore decorativo e disegnatore. Collaborò con Bernini per i lavori di
San Pietro, ma i due furono divisi presto da un’incompatibilità di carattere. Borromini
era cupo, litigioso, frustrato e nevrotico - e morì suicida -. In realtà conosceva assai
meglio del Bernini l’antica architettura romana e aveva un interesse assai più
profondo per i problemi strutturali e un coraggio maggiore nel risolverli, oltre ad
essere un ispirato studioso della geometria.
Cominciò a lavorare in proprio piuttosto tardi
e completò un numero relativamente ridotto
di edifici. Sant’Ivo alla Sapienza (figg. 9, 10,
11) è uno dei più belli. La sua pianta
ingegnosa, formata da due triangoli equilateri
che si intersecano e da cerchi (fig. 8), crea un
insolito interno esagonale.
Nato come cappella dell’Archiginnasio -la
futura università di ROMA- il
nuovo edificio doveva fornire
Figura 8
essenzialmente spazio
Francesco Borromini
sufficiente alle prediche per gli
Sant’Ivo alla Sapienza Roma
Schema geometrico di riferimento
studenti.
La cupola non ha precedenti per la
sua
concezione,
essendo
semplicemente la continuazione delle
pareti interne verso l’alto, sino al loro
incontro nel cerchio di luce sotto la
lanterna (fig. 9).
Si raggiunge una assoluta unità
spaziale senza sacrificare né la varietà
né il movimento. Aveva però in questo
progetto una parte importante anche il
simbolismo: si dice che la pianta fosse
basata sul disegno schematico di
un’ape con le ali piegate, simbolo della
famiglia Barberini, a cui apparteneva il
papa Urbano VIII che aveva dato
l’incarico al Borromini.
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Figura 9
Francesco Borromini
Sant’Ivo alla Sapienza 1642 Roma
Interno della cupola
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La “stella di David” a 6 punte, formata
dall’intersezione di due triangoli, è un antico
simbolo di saggezza particolarmente adatto
a una cappella universitaria: in effetti
l’intero edificio è concepito come emblema
della sapienza portata dalla discesa dello
Spirito Santo, che con la Pentecoste aveva
fatto dono agli apostoli della conoscenza
delle lingue.
Figura 10
Francesco Borromini
Sant’Ivo alla Sapienza 1642 Roma
Individuazione della stella a 6 punte
Un curioso elemento dell’esterno
(fig. 11) è la corona a spirale della
lanterna conclusiva, simile a una ziqqurat
babilonese. Allude forse alla confusione
delle lingue presente nella Babele della
Bibbia?
Per gli interni, Borromini non impiegava i
ricchi materiali tanto cari al Bernini.
Quello di S. Ivo è tutto decorato di
stucchi2, originariamente dipinti di bianco
o di tonalità biancastre.
Figura 11
Francesco Borromini
Sant’Ivo alla Sapienza 1642 Roma
Veduta dall’interno del cortile
Col termine stucco si definisce un impasto di calce, polvere di marmo, sabbia lavata, caseina mescolati in
proporzioni variabili rispetto alla funzione e alla necessità. L’impasto varia anche in rapporto al tipo di materiale
reperibile a seconda delle località. Lo stucco viene utilizzato, sin dalle civiltà più remote, sia come elemento di
riempimento e rifinitura in architettura, sia come elemento di decorazione.
Nel Seicento e nel Settecento lo stucco ha un ruolo importante come complemento alla scenografia architettonica.
Questo cambiamento esige una tecnica di modellazione più spericolata: le figure sono realizzate con vere e proprie
“anime” o armature in ferro o altro metallo, intorno a cui sono sono modellate le forme in stucco.
Da ricordare le figure a tutto tondo che entrano in ampia misura nella decorazione architettonica, come ad esempio le
statue di Giacomo Serpotta, pensate come attori nelle sue scenografie a stucco che caratterizzano tanti interni
siciliani, soprattutto palermitani.
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Il Barocco siciliano e il caso di Catania
Nel 1693 tutte le città e i villaggi della Sicilia orientale furono devastate da un
forte terremoto. Nell’area sud-orientale molte città andarono completamente distrutte
e la decisione di ricostruirle rese possibili le piante geometricamente regolari di Noto,
Avola e Grammichele (figure A, B e C).
Figura B
Figura A
Veduta aerea di Noto (SR)
Veduta aerea di
Grammichele (CT)
Catania aveva già duramente
risentito dell’eruzione dell’Etna del
1669, quando una muraglia di
l a va t a g l i ò i n d u e l a p a r t e
occidentale della città e ne invase
il porto.
Il terremoto la danneggiò più
gravemente di qualsiasi altra
grande città. Degli edifici
precedenti al 1693 non restano
che il medievale Castello Ursino e
le tre absidi normanne della
Figura C
Pianta settecentesca
di Avola
Cattedrale.
In effetti la città fu ricostruita di sana pianta sulla sede originaria. Gli ideatori
della Catania moderna sfruttarono il disastro per tracciare le due grandi arterie che si
tagliano ad angolo retto nella Piazza del Duomo e dividono la città in quattro rioni.
L’opera di ricostruzione fu organizzata rapidamente sotto la guida del vescovo di
Catania e dell’architetto Alonzo Di Benedetto. Ma poiché solo un uomo non poteva far
fronte alla mole dell’intera riedificazione, si chiesero aiuti ad altre città. Alonzo e i suoi
colleghi dovettero lavorare in armonia, perché lo stile dei monumenti è omogeneo.
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I primi risultati dello sforzo ricostruttivo sono evidenti negli edifici che circondano la
piazza del Duomo (figura D): l’Arcivescovado, il Seminario dei Chierici e un palazzo
privato nell’angolo sud-ovest. Le decorazioni tutt’intorno alle finestre sono ricche di
Figura D
Piazza del Duomo a Catania
immaginazione nei particolari; ma le bugne3 sono estremamente varie, ora piatte, ora
quadrate, ora oblunghe, ora sfaccettate, ora decorate con foglie d’acanto. Lo stile
tocca complessi gradi di elaborazione: nel portale di Palazzo Massa, sulle facciate del
Palazzo Biscari, sull’ala principale del Convento dei Benedettini (oggi sede
dell’Università), le finestre si arricchiscono ancora ed esplodono in una lussureggiante
fantasia di rilievi con putti, festoni e ghirlande.
Ma l’intera situazione artistica catanese mutò in seguito all’arrivo, intorno al
1730, di Giovanni Battista Vaccarini, che il Senato aveva nominato «architetto
commissario prefetto delle opere della città». Nato a Palermo nel 1702, aveva seguito
un periodo di formazione a Roma, dove era rimasto folgorato dalle idee di Bernini e
Borromini.
Di fronte al Municipio di Catania, in piena Piazza del Duomo, il Vaccarini costruì nel
1736 una fontana (figura F) composta da un obelisco eretto su un elefante, destinato
a diventare il simbolo della città. Nella sua concezione generale essa si può ricondurre
all’elefante berniniano della Minerva a Roma (figura E).
ll bugnato è una lavorazione muraria utilizzata sin dall'antichità e ripresa, con modalità e forme diverse, in altre
epoche e fino ai giorni nostri.
È costituito da blocchi di pietra sovrapposti a file sfalsate preventivamente lavorate in modo che i giunti orizzontali e
verticali risultano scanalati ed arretrati rispetto al piano di facciata della muratura, con un effetto aggettante di ogni
singolo blocco.Il bugnato si distingue secondo la forma e il rilievo delle bugne, che può essere di diverse dimensioni e
forme e con trattamenti materici rustico, liscio, squadrato, a cuscino, a punta di diamante.
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Figura E
Giovan
Lorenzo
Bernini
Obelisco
della
Minerva
1667
S. Maria
sopra
Minerva,
Roma
Ma mentre a Roma la
base è semplice e
rettangolare e tutto
l’interesse è concentrato
nel
movimento
dell’animale, nell’opera
del Vaccarini la base è
riccamente articolata e
l’elefante, scolpito in un
blocco grezzo di lava
nera, sprigiona un
fascino quasi primitivo,
essenziale. Tradizione e
leggenda vogliono che
tanto l’obelisco quanto
l’elefante siano antichi
ma molto restaurati e
rimaneggiati.
Figura F
Giovanni
Battista
Vaccarini
Fontana
dell’Elefante
1735
Piazza del
Duomo, Catania
Ad ogni modo il Vaccarini, architetto geniale, intervenne un pò in ritardo nel
disegno urbanistico della città, direi quasi a cose fatte. Ma il suo grande merito fu
quello di non lacerare il tessuto urbano, che ai suoi occhi dovette sicuramente
apparire provinciale e non propriamente moderno. La ricostruzione di Alonzo, del Duca
di Camastra, di Monsignor Riggio aveva seguito alterne vicende di ripicche, di
noncuranza dei regolamenti comunali e di veri e propri abusi. Capomastri contro
impiegati comunali, vigili contro potenti signorotti di quartiere: uno sviluppo unitario e
organico, pur possibile, si era arenato davanti a tali contrasti. La differenza
fondamentale tra Alonzo di Benedetto e i successori con Giovan Battista Vaccarini sta
nell’uso della decorazione: per Alonzo la struttura doveva essere ricoperta, sommersa
dagli ornamenti, doveva sparire come le
ossa nella carne. Per Vaccarini conta la
composizione architettonica, il dialogo tra i
vari edifici del contesto urbano, la potenza
strutturale delle masse edili.
La sua prima opera catanese, la facciata del
Duomo (figura G), si mantiene ancora
troppo rigida e non esprime al meglio la
creatività dell’architetto palermitano.
È evidente la sua padronanza del
Figura G
Giovanni Battista Vaccarini
mestiere ma il risultato non decolla.
Duomo 1758, Catania
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Figura H
Giovanni Battista Vaccarini
Facciata del Duomo 1758
Piazza del Duomo, Catania
La facciata, preesistente, risulta eccezionalmente larga e,
sebbene le colonne in risalto e i
frontoni ricurvi non manchino di
vivace movimento (figura H), il
movimento non unifica la
superficie e sembra disperdersi in
tanti episodi non sincronizzati.
In
seguito, il Vaccarini creerà
facciate panciute, ondulate,
articolate.
La rigidità di questa sua prima
opera catanese venne
però
chiaramente avvertita
dall’architetto, che non volle
ripetere le incongruenze.
Figura I
Giovanni Battista Vaccarini
Badia di Sant’Agata 1748-67 Catania
Più complessa è la Badia di
Sant’Agata (figura I). In pianta
presenta una doppia curva ad “esse”,
come la chiesa borrominiana di San
C a r l o a l l e Q u a t t r o Fo n t a n e . N e l
prospetto le porzioni laterali sono
convesse mentre quella centrale
è concava. Un alto attico corre
lungo la parte superiore della facciata,
nel quale si incunea, spezzandolo, il
frontone centrale.
Un elemento insolito è la panciuta
gelosia4 che taglia orizzontalmente il
disegno a livello dei
capitelli.
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Gelosia: tipico balcone barocco, concepito all'epoca per permettere alle dame di affacciarsi
nonostante le gonne dell'epoca.
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La gelosia si estende sull’intera lunghezza del prospetto e
sembra integrarsi con
grande
maestria nel disegno
architettonico.
Nella facciata il Vaccarini dà il
meglio di se come ideatore di
particolari decorativi, aiutato
anche dalla particolarità della
pietra lavica catanese, priva di
grazia intrinseca ma adattissima
ad esser tagliata e lavorata in
maniera precisa.
Brillanti e geniali sono i capitelli
delle robuste lesene 5 (figura L),
composti simbolicamente dalle palme del martirio, dai gigli come simboli di verginità e
dalle corone di gloria eterna, tutti
propri della santa.
Vaccarini si ispirò certo al modello del
capitello corinzio, ma sostituì le foglie
d’acanto e le tradizionali decorazioni
con i simboli di Agata e diede vita ad
una composizione carica di fantasia
estremamente controllata.
Alcuni elementi dell’intera
composizione in effetti risultano poco
armonizzati nel contesto generale e
non presentano la stessa freschezza
innovativa dei capitelli e delle gelosie,
ad esempio. Ma forse la spiegazione di
questa dissonanza compositiva sta nel
fatto che la costruzione della Badia si
Figura L
Giovanni Battista Vaccarini
prolungò per un trentennio e può aver inevitabilmente
Badia di Sant’Agata 1748-67 Catania
risentito di diversi rallentamenti progettuali ed esecutivi.
Dettaglio dei capitelli
Lo stile del Vaccarini dominò per diversi decenni l’architettura
catanese, ma altri architetti lavorarono in stili diversi dal suo.
Val la pena ricordare Stefano Ittar, autore della Collegiata e il suocero Francesco
Battaglia, che lega il proprio nome al restauro e all’ampliamento di Palazzo Biscari.
Entrambi furono coinvolti nel dibattito artistico e culturale della città di Catania dal
grande collezionista ed archeologo Ignazio Paternò, principe di Biscari.
Lesena Risalto verticale di una parete muraria, ripetuto in genere ritmicamente, che può avere funzione sia
decorativa sia di rinforzo della parete medesima. Quando ha funzione tendenzialmente strutturale, è più propriamente
detta parasta.
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In via dei Crociferi (figura M), dove la massima parte degli edifici, sacri e profani,
sono del Vaccarini o di suoi diretti collaboratori, si ha la sensazione della più
straordinaria composizione di spazi che sia dato ammirare in una strada. La chiesa di
San Benedetto, quella di San Giuliano e quella di Santa Chiara non sembrano
semplicemente allinearsi all’asse stradale, ma costituiscono una vera e propria
composizione affidata a delle gelose aree di rigore, delimitate da importantissime e
curatissime cancellate in ferro battuto, veri e propri capolavori di artigianato locale,
Figura M
Catania
Via dei Crociferi
che assumono un valore simile a quello delle cornici nei quadri.
Questi spazi sembrano incastrarsi alla perfezione come nei pezzi di un prezioso
mosaico: un’architettura di vuoti, che in assenza di un preciso allineamento crea una
composizione cementata come un luogo di altissima civiltà. Sta forse qui il segreto di
questa piccola e straordinaria strada catanese, non a caso insignita dell’onore di
essere patrimonio UNESCO.
«Nella luce trafiggente del mezzogiorno siciliano, per cui le
ombre sono di una luce appena meno intensa, un luce in
minore, i risalti gonfi delle colonne, gli sbattimenti delle cornici
e dei timpani acquistano forme d’aria densa, come l’acqua che
resta nelle rocce dopo la mareggiata, e lentamente svaporando
imbianca.»
Cesare Brandi, 1949
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G
iacomo
S
erpotta
Una piccola serpe (una sirpuzza, in dialetto
siciliano) si avvinghia a un riquadro architettonico nella
fastosa decorazione di stucchi declaratorio del Rosario
a Santa Cita -o Zita- a Palermo.
E’ la sigla del più grande scultore europeo del suo
tempo, così chiaro nella qualità delle sue opere quanto
misterioso nelle ascendenze culturali, così tanto
siciliano nella tecnica di un antico artigianato, così
straordinariamente universale nel raggiungimento
artistico.
Nato appena dopo la metà del 1600, Giacomo Serpotta (1656-1732), palermitano, fu
operoso fino al terzo decennio del Settecento. Nel suo lavoro, che
giocoforza ebbe necessità di nutrite équipe di aiutanti, assistenti e collaboratori,
riuscì a conglobare tre civiltà: la prima, quella che stava per
la civiltà barocca, la seconda, quella durante
operò per la maggior parte della sua vita, il virtuosistico Rococò, e
terza, con illuminato anticipo, un Neoclassicismo ante litteram.
spegnersi con il secolo,
la quale
infine la
Il Serpotta lasciò opere soltanto in Sicilia, quasi tutte a Palermo, poche altre ad
Alcamo e Agrigento. Qualcuna,
sporadica, è finita in altri luoghi,
anche fuori dall’isola. Non si riesce ad
accertare se e per quanto tempo fu a
Roma, e in che modo vide all’opera i
berniniani della fine del Seicento.
Non si sa se varcò mai i confini
italiani e vide i prodotti del Rococò
europeo, in Francia, Spagna, in
Austria o altrove. Eppure, la sua
opera ha enormi aspetti di modernità
Sant'Orsola dei Negri, Palermo
consapevole e grande profondità di
cultura europea, ma lascia
insoddisfatti i cultori di precise origini,
somiglianze e analogie tra opere e produzione coeve di grandi protagonisti dell’arte
internazionale.
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Il lavoro del Serpotta -così singolare nel suo carattere di scultura concepita per gli
spazi architettonici- trova la sua chiave
di lettura
nel disegno. Dai disegni e
dalle stampe che circolavano a Palermo il giovane Giacomo ebbe la percezione del
gusto del tempo, e saranno proprio i disegni e l’idea grafica a dare unità stilistica
all’intera sua opera. Ma egli superò la semplice asticella del gusto e volò altissimo con
la sua altissima qualità e la freschezza dell’invenzione. Serpotta guardò intorno a sé
anche in Sicilia e trovò grandi sorgenti di ispirazione nelle opere di Antonello Gagini
e del dalmata Francesco Laurana, presenti e operativi nelle Madonie e a Palermo
stessa. Fu soprattutto la Grande Tribuna che Gagini aveva innalzato a Palermo,
summa della scultura cinquecentesca siciliana (smembrata nel Settecento, è oggi
superstite in pochi frammenti).
Giacomo Serpotta era figlio d’arte, di famiglia umile e modesta, cresciuto nel
rione della Kalsa, uno dei più popolari e -ancor oggi- chiassosi di Palermo. Fanciulletto,
vide il padre Gaspare all’opera, strana figura bohémien (coinvolto in una lite
sanguinosa e ridotto in fin di vita, per cui dovette fuggire per lungo tempo a Roma per
evitare grane giudiziarie), poco più di un decoratore modesto, ed imparò a conoscere
il mezzo tecnico,
lo stucco,
con cui soprattutto Gaspare si esprimeva. Questo
mezzo, trasmesso al figlio e da questi elevato a linguaggio di straordinaria finezza, è
rimasto unico, al livello a cui Giacomo lo condusse, in tutta la storia della scultura.
Di stuccatori, la Sicilia ne aveva già avuti numerosi durante il Cinquecento e nella
prima metà del Seicento: bisognava vederle, nelle viuzze dell’antica Palermo, le tante
botteghe di artigiani al lavoro. Mani impastate di calce e polvere di marmo, bisognava
vedere asciugare rapidamente, dopo un’esecuzione rapidissima e quasi improvvisata,
figure e ornamenti…bisognava scorgere, all’opera in chiese ed oratòri 6, le maestranze
intente a plasticare sulle pareti, sugli archi, sugli stipiti, quando non addirittura
grondanti dal soffitto, angeli, santi, fogliami e volùte.
La trovata più geniale dell’artista fu quella di aver reso le figure simili a
personaggi che si affaccino da un immaginario proscenio, come cariche di tensione
precaria e instabile che rendono animata e ritmica la loro collocazione nello spazio.
E proprio così ci appaiono nel primo dei tre oratori decorati dall’artista a
Palermo, complessi straordinari pervenutici intatti, nei quali la fantasia dello scultore
superò ogni precedente, protagonista architettonico-plastico-decorativo sorprendente.
Oratorio
Secondo il Codex iuris canonici, luogo destinato, su licenza dell’Ordinario, al culto divino in favore di una comunità o di un gruppo di
fedeli e al quale possono accedere anche altri fedeli con il consenso del superiore competente; sono considerati o. a tutti gli effetti
anche le cappelle dei cimiteri appartenenti a qualche comunità o ceto di persone.
Tradizionalmente gli o. erano cappelle isolate, di piccole dimensioni, diffusi fin dai primi tempi del cristianesimo, attigui ai monasteri
o alle chiese. Gli o. ebbero grande sviluppo dopo la Controriforma: furono spesso costruiti nella parte superiore delle chiese o sopra
una delle grandi sale del pianterreno dei conventi; confraternite e compagnie religiose gareggiarono nell’erigerne. Tra gli o. più noti
vi furono quelli di S. Bernardino a Perugia (Agostino di Duccio), dei filippini a Roma (F. Borromini), di S. Lorenzo e Santa Cita a
Palermo (G. Serpotta).
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Il dinamismo plastico
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Aveva incominciato, il Serpotta, con interventi parziali, in
chiese e piccoli oratori palermitani, decorazioni di pareti e
altari (nell’Oratorio della Carità, distrutto, e al Carmine), di
alcune cimase, e lavorando con il fratello Giuseppe. Ma dovette
imporsi subito, come testimonia il bozzetto del monumento di
Carlo II a Messina, oggi conservato come preziosa reliquia al
Museo Pepoli di Trapani.
Gli venne affidata la decorazione dell’Oratorio del Rosario
di Santa Cita7, la cui costruzione era stata ultimata nel 1680.
L’ a r c h i t e t t u r a è
quanto
mai
semplice: un’aula
rettangolare con
volta a padiglione,
due ingressi nel
lato minore, l’arco
trionfale all’altro
estremo e un
p r e s b i t e r i o
quadrato. La luce
penetra da finestre
alte sui due lati
maggiori, un alto
basamento sui lati
lunghi
come
schienale per gli
stalli
dei
confratelli, un
cornicione, lesene,
bordi alle finestre.
La compagnia del SS. Rosario in Santa Cita fu fondata nel 1570 dopo la scissione con l'omonima compagnia con sede in San
Domenico ed inaugurò il proprio oratorio nel 1686. La compagnia, tra le più ricche e prestigiose, costretta ad un rigido protocollo
comportamentale, si dedicava ad opere assistenziali ed alla remissione dei peccati attraverso forme di indulgenza plenaria.
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L’Oratorio di Santa Cita rimarca lo schema tipo dell'oratorio come luogo di assemblea
e di culto, con doppia funzione liturgica e sociale e col netto contrasto architettonico
tra l'esterno fortemente modesto e l'interno splendidamente adorno.
Ma, in questo interno, il manto di stucco che riveste le pareti sembra colare
come un fiotto di luce, vibra di figure e di festoni, si agita come la pergola al vento. A
considerare l’intero complesso decorativo dell’Oratorio, brulicante di motivi che si
distendono sulle pareti, che da queste aggettano e si sovrappongono in un continuo
impulso dinamico, sembra difficile negare che una mente unica abbia pensato ad
organizzare il tutto. Anche quel verminare di episodi plastici sulle pareti è fermamente
concluso, come fosse stato ricomposto dalla cornice che circonda superiormente tutta
l’aula e ha finissimi fregi nella parete d’ingresso.
Un chiaroscuro cangiante al mutar della luce si addensa sul candore opaco degli
stucchi: la luce è condizione essenziale su quelle pareti gremite di forme, e trasforma
l’aula rettangolare in un ambiente dalla illimitata prospettiva. La finzione ideata dal
Serpotta ha il sapore evocativo ed irreale che è proprio del teatro, con una incredibile
commistione di vero e illusorio, di cortigiano e popolaresco, di scherzosa ironia e della
gravità astratta e maestosa dell’allegoria.
Negli due successivi oratòri di San Lorenzo e di San Domenico, e in altre opere di
chiese palermitane, alcamesi e agrigentine, forse sull’aspetto popolaresco prevarrà la
nobiltà stilizzata e distaccata delle rappresentazioni allegoriche. Ma in Santa Cita il
vezzo popolare, il gusto della schietta verità quotidiana sembrano avere il
sopravvento.
Nè l’invenzione
si arresta qui.
La
parete
dell’ingresso è
come guarnita
dal grande
apparato di una
festa popolare.
Lo stucco si
piega a fingere
le morbidezze
vellutate di un
i m m e n s o
d ra p p o c h e i
putti sistemano
qua
e
là,
Visualizza a pieno schermo
diligenti e
attenti.
Il dinamismo plastico
Pagina 16
Gli angioletti svolazzanti scostano e piegano il drappo, provocano pieghe e svelano i
teatrini plastici con i Misteri del Rosario che fanno la scena nella scena.
E al centro c’è l’incredibile invenzione della
Battaglia di Lepanto
in
prospettiva, con le navi che emergono dal mare mosso da una lieve risacca e stanno
in bilico a malapena con i loro remi obliqui sul piano inclinato della scena: perché
proprio di una scena si tratta, con le pareti -le quinte- che si restringono verso il
fondo.
Il dinamismo plastico
Pagina 17
Giacomo Serpotta amava
indubbiamente i pezzi di bravura,
e lo furono in genere tutti i suoi
teatrini,
nei quali l’effetto
prospettico è esattamente quello
scenografico, giacché le figure si
rimpiccioliscono passando dai
primi ai secondi piani e il palco è
a scivolo, non tanto per la vista
dal basso, quanto per la
trasformazione stereoscopica8
della scena.
Nell’Oratorio di Santa Cita, i teatrini rappresentano i Misteri del Rosario 9 con un così
vivace effetto realistico e una così calcolata prospettiva teatrale da porre come certa
l’influenza del
teatro del
tempo sullo
s c u l t o r e
palermitano.
Questi piccoli
scomparti
s
o
n
o
sormontati
da putti e da
festoni ai lati
delle cornici
che
li
inquadrano,
e la loro
r i t m i c a
sequenza
produce, in
tutte
le
pareti, l’impressione di un fregio continuo.
8Stereoscòpico
agg.– Di stereoscopia, relativo alla stereoscopia: coppia s., le due diverse immagini che di uno stesso oggetto si
formano nei due occhi e che conferiscono la vista s., propria, tra i mammiferi in cui, per consentire l’effetto, i globi oculari sono posti
sullo stesso piano; con la stessa locuz. si indicano le due immagini fotografiche (dette anche stereofotogrammi) che consentono
una percezione tridimensionale degli oggetti rappresentati .
Esposizione dei misteri. Il Rosario è composto di venti "misteri" (eventi, momenti significativi) della vita di Gesù e di Maria, divisi
dopo la Lettera Apostolica Rosarium Virginis Mariae, in quattro Corone. La prima Corona comprende i misteri gaudiosi (lunedì e
sabato), la seconda i luminosi (giovedì), la terza i dolorosi (martedì e venerdì) e la quarta i gloriosi (mercoledì e domenica).
9
Il dinamismo plastico
Pagina 18
Tra le parti assolutamente autografe del Serpotta sono le figure dei giovinetti seduti in
atteggiamenti contrastanti sulla cornice della porta centrale, al di sotto della Battaglia
di Lepanto.
Si tratta di veri capolavori, in cui risultano
contemperati naturalismo e misura classica
delle forme: in particolare i globi oculari e
le orbite sono modellati come nella
statuaria classica. Nel bambino senza
c o p r i c a p o i c a p e l l i s e m b ra n o t ra t t a t i
sapientemente ciocca a ciocca, in quello dal
capo coperto il morbido berretto calza con la
stessa naturalezza degli abiti che
caratterizzano le due figure. Restano
comunque tra le più alte realizzazioni del
Serpotta. Consuetudine vuole che siano
considerate semplici immagini allegoriche del
Il dinamismo plastico
Pagina 19
cristiano vincitore (senza copricapo, con lo sguardo assorto di chi perdona senza giudicare e
con accanto l’elmo del guerriero) e del musulmano sconfitto (con lo sguardo abbassato e
con accanto il turbante orientale), ma c’è ben altro, e lo si comprende dagli abiti
contemporanei, trattati naturalisticamente e forse importati dalla pittura coeva
genovese post-caravaggista. Anche le loro fattezze europee, ma non astratte, e la
sottile psicologia che esprimono dalle diverse espressioni, portano a ritenere che siano
semplicemente due ragazzi, a cui Serpotta fa impersonare gli opposti protagonisti
della battaglia soprastante, come in un giocoso e improvvisato teatro popolare o di
strada.
Serpotta mette in opera nell’Oratorio del Rosario di Santa Cita una prodigiosa
operazione, con lo stucco pietrifica e rende durevole nel tempo la tradizione
barocca delle parature per le cerimonie civili e religiose, festose e funebri, che
ricoprivano le chiese di drappi e grandi teli, spesso dipinti con storie celebrative e
commemorative.
Ma non possiamo dire che “non somiglia a nessun addobbo coevo, né sotto l’aspetto
della tecnica né dello stile”, poiché questa straordinaria coltre a rilievo (la “cultra” ,
ovverosia il gran manto della parete d’ingresso), realizzata come se i misteri
vi fossero pitturati, ha un riferimento chiarissimo: l’addobbo della facciata interna
della cattedrale di Palermo per le esequie di Filippo IV di Spagna del 1666, riproposta
molto simile nel 1689 (successivamente al Rosario in Santa Cita) per i funerali di
Maria Luisa di Borbone regina di Spagna, e ancora nel 1701 per la morte di Carlo II.
Il vero senso dell’intero ciclo delle raffigurazioni non va probabilmente
ricercato nella rievocazione della grande Battaglia di Lepanto del 1571 ma nella
celebrazione della pace conquistata e dovuta al salvifico intervento della
Madonna del Rosario. In sostanza, riconducendo il miracolo di santa Rosalia
all’interno della devozione della Vergine del Rosario, i confrati di Santa Cita
rinvigorirono il ricordo della protettrice delle armate cristiane, nel 1571 come nel
1683.
Iconograficamente la compagnia dovette esigere i quindici misteri del rosario,
centrali nella sua devozione. Plausibilmente fu suggerita un’ulteriore immagine
altamente auto-celebrativa, la Battaglia di Lepanto in cui la flotta della Lega Santa fu
affidata alla Madonna del Rosario, dunque essa stessa prova della potenza e della
grazia concessa dalla
Vergine.
E Serpotta come mette
in opera queste
indicazioni? Dispone i tre
tipi di misteri su pareti
diverse:
1.sulla destra i Misteri
Dolorosi
2.sulla sinistra i Misteri
Gaudiosi
3.sulla controfacciata i
Misteri Gloriosi della
Vergine. Al centro , in
a l t o, l ’ I n c o r o n a z i o n e
della Vergine.
Il dinamismo plastico
Pagina 20
U
n discorso a parte meritano le figure allegoriche realizzate dal Serpotta,
quasi sempre femminili: spesso le virtù,
le sante, le eroine di Serpotta, non solo
in quest’oratorio, sono giovani, piacenti,
a t t r a e n t i ; a l c u n e , d a v v e r o s e x y,
mostrano seni rigonfi ed espressioni
velatamente ammiccanti. Sempre
rigorosamente conformi ai precetti
dell’iconografia, anche se il loro carattere
didascalico si stempera nei giochi dei
puttini; fonte certamente riconoscibile è
la fondamentale Iconologia di Cesare
Ripa del 1593.
Pa n n e g g i e a n a t o m i a a c q u i s t a n o
morbidezza e fluidità e l’impianto
decorativo reclama la propria autonomia
nei confronti delle statiche strutture
architettoniche dell’ambiente.
Giuditta
Giacomo Serpotta
Oratorio di Santa Cita
Qui l’autore rivela non solamente la sua
abilità nel trattare lo stucco, che richiede
una mano veloce, ma anche la sua sincera
vena poetica. Le figure femminili indossano
a volte dei costumi all’antica: panneggi
morbidamente avvolti sui corpi secondo
cadenze classicheggianti; altre volte invece
esibiscono, persino con un po’ di civetteria,
vesti e copricapi all’ultima moda. In queste
ultime emerge lo scultore attento
osservatore della realtà, del quotidiano, sia
esso grazioso e lezioso, sia semplice
e vero.
La Fortezza
Il dinamismo plastico
Giacomo Serpotta
Oratorio
di San Lorenzo
Pagina 21
La Carità,
nell’Oratorio di San Lorenzo, una tra le più famose statue di
Serpotta, posta alla sinistra dell’arco trionfale del presbiterio su cui san Francesco con
gli angeli invia i suoi raggi di grazia,
allatta un bimbo alla mammella
sinistra e tiene appoggiata la mano
destra sull’altra, comprimendola
leggermente, dandole l’aspetto di
turgidità e morbidezza; la sua
espressione è benignamente
sorridente; due bambini le stanno ai
lati, uno dei quali, nudo, tiene
vezzosamente un ditino in bocca,
mentre l’altro, vestito da popolano,
si allunga per avere qualche dono.
La similitudine col mondo del teatro
e della vita quotidiana regge anche
facendo riferimento a queste statue
allegoriche,che si sporgono da
nicchie dorate e piedistalli verso lo
spazio circostante, recitando così la
loro parte.
Tutte insieme le figure del Serotta
vivono in unità, ”in un accordo che è
di senso quasi musicale e teatrale”.
Fra il 1688 e il ’91 lo scultore, ormai
acclamato e riconosciuto, visse una
La Carità
profonda crisi religiosa, che lo portò
Giacomo Serpotta
per poco più di un anno ad entrare
Oratorio di San Lorenzo
come novizio nell’ordine gesuitico
(forse non solo per motivi spirituali).
Fatto sta che nell’ultimo scorcio di secolo non vi fu Oratorio o chiesa che non
richiedesse l’intervento del Serpotta, che ormai padroneggia il mezzo tecnico con tale
maestria da trasformare ogni suo lavoro in opere da tenuta qualitativa altissima.
Che cosa possa averlo trasformato in maniera tanto netta, in un così breve tempo,
non è ancora chiaro; certo è che da questo momento da stuccatore diviene uno
scultore, capace di padroneggiare la materia, i grandi spazi e le decorazioni minute.
«Si dice che l’arte è fuori del tempo; se è così Serpotta rimane fuori dell’arte. Niente è più temporale, più
trascorrente della realtà che rappresenta. Persino il mezzo materiale di cui si serve, lo stucco, sembra quasi
simbolo della transitorietà del suo mondo. Un impasto fragile e friabile, sensibile ai mutamenti delle stagioni; tanto
che, ahimè, non resisterà ai secoli. Suo destino è ritornare polvere». Peppe Fazio, Serpotta
Il dinamismo plastico
Pagina 22
Il Futurismo
«Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro
dal piacere o dalla sommossa; canteremo le maree
multicolori o polifoniche delle rivoluzioni
nelle capitali moderne; canteremo il vibrante
fervore notturno degli arsenali e dei cantieri
incendiati da violente lune elettriche; le stazioni
ingorde, divoratrici di serpi che fumano;
le officine appese alle nuvole pei contorti fili
dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti
Figura O
Il gruppo futurista a Parigi
Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni e Severini
che scavalcano i fiumi.»
Filippo Tommaso Marinetti
Se Caravaggio ha inventato la fotografia e il Neorealismo, Giovan Lorenzo
Bernini e Giacomo Serpotta hanno precorso, con quattro secoli di anticipo, il
dinamismo plastico. Ogni loro scultura va guardata a 360 gradi, concepita per luoghi
ove decorazione, architettura e scultura sono un’unica cosa. Non ci si può limitare a
un’occhiata frontale. Le loro figure scorrono come una pellicola, ogni particolare
genera il successivo, tutto è concepito come un continuum spazio-temporale. Il loro
interesse è concentrato sul vento, sull’acqua, su tutto ciò che agita la materia
dall’interno. Proprio come trecento anni dopo faceva Umberto Boccioni.
Come a Caravaggio e ai cubisti, a Galileo e al Greco, ai futuristi
gliene dissero di tutti i colori. Che erano dei cialtroni, dei buffoni, degli intruglioni.
Che i loro
scarabocchi
marci e altri
A differenza
quadri erano peggio dei cartelloni delle pubblicità, che sembravano
degli alienati del manicomio. E giù schiaffi, pugni, lancio di pomodori
ortaggi di stagione.
di altri movimenti moderni, il Futurismo non si occupava però soltanto di
arte. Più che uno stile fu un’ideologia. Creato a Milano nel 1908 dal poeta Filippo
Tommaso Marinetti, già l’anno dopo, con la pubblicazione a Parigi del primo
Manifesto, ebbe subito un impatto internazionale. Dall’Italia alla Russia zarista e
persino negli Stati Uniti il Futurismo divenne più noto del Cubismo.
Affascinato dal rumore, dalla velocità e dall’energia meccanica della città
moderna, Marinetti voleva cancellare il passato, in particolare il culto e la cultura del
passato italiano, voleva bruciare i musei, prosciugare i canali di Venezia, e sostituire
tutto con una nuova società, una nuova poesia e una nuova arte basate su nuove
sensazioni dinamiche.
Tra gli artisti che risposero all’appello di Marinetti, il più lucido e il più talentuoso
come pittore e scultore fu Umberto Boccioni (1882-1916). Fu lui a scrivere il
Manifesto dei pittori futuristi del 1910, nel quale si proclamava «il dinamismo
universale deve essere reso come sensazione dinamica: il moto e la luce distruggono
la materialità dei corpi». Egli sosteneva che le composizioni artistiche dovessero
Il dinamismo plastico
Pagina 23
combattere la staticità, in nome di quella che chiamava “simultaneità”, un
procedimento per concepire i quadri come piccole sezioni di totalità continue.
Altri protagonisti della pittura futurista furono Giacomo Balla, Gino Severini, Carlo
Carrà, Fortunato Depero tra i più famosi, e folta fu la schiera di artisti futuristi che
proveniva dalla Sicilia (Rizzo, Corona, D’Anna, Varvaro). Del resto, lo stesso Boccioni
frequentò qualche anno di scuola superiore a Catania.
Il Futurismo fu un fenomeno di breve durata -già nel 1916 può definirsi finito,
nonostante un tentativo di riportarlo in vita dopo la prima guerra mondiale- ma ebbe
conseguenze ben più durature e un’influenza ben più vasta di quanto si possa credere.
Ne risentirono quasi tutti i movimenti artistici europei contemporanei, compreso il
Cubismo nella sua fase sintetica, il movimento Dada e il Surrealismo, compreso
l’Espressionismo astratto americano.
La città che sale
è uno dei quadri più potenti, intelligenti e innovatori del XX
secolo. La rappresentazione del movimento è ottenuta attraverso una spinta
incalzante e continua di colori e forme lungo la diagonale del dipinto, da destra verso
sinistra.
Figura N
Umberto Boccioni
La città che sale 1910 cm 200 x 290,5
Metropolitan Museum of Art, New York
Il dinamismo plastico
Pagina 24
La rappresentazione del movimento è ottenuta attraverso una spinta incalzante e
continua di materia pittorica lungo la diagonale del dipinto, da destra verso sinistra. In
questo, Boccioni è erede di tutti i grandi “rappresentatori di movimento”, che hanno
utilizzato le diagonali e le linee guida direzionate come indicatori di un moto interno
alle figure rappresentate.
Così fu per Donatello, per Michelangelo, per Caravaggio, per il grande Giovan
Lorenzo Bernini, per il misconosciuto e immenso Giacomo Serpotta.
Ma oltre ai puri accorgimenti tecnici Boccioni aggiunse un’emotività senza pari.
Il vortice a spirale di questa periferia sferzata da un vento-frullatore modella le forme
in una sorta di moviola accelerata. La pittura sembra perdere contorni e dimensioni e
profetizzare le intuizioni dell’Action Painting americana del secondo dopoguerra.
L’ o n d a p i t t o r i c a s e m b r a
incresparsi, in basso a
destra, e generare un
gigante di materia rossa alto
come una montagna. Il
gigante rosso si infrange
contro
il
selciato
metropolitano, frantumandosi
in filamenti di materia
bluastra. Dall’impatto
dinamico del colore
sembrano generarsi le forme,
il grande cavallo scatenato,
gli operai che tentano di arginarne la furia, le altre teste equine abbassate e
impennate, come squassate nella concitata azione.
In alto, il
fantasma di una
casa in costruzione
sembra avvolto in
una corazza di tubi
metallici,
a
ricordare l’inquieto
sonno
della
provincia italiana.
Il dinamismo plastico
Pagina 25
Giganti, pigmei, azione da Far West, fumo, macchinari, edifici in costruzione: il
tema futurista del dinamismo si svolge con le immagini delle nuove
“tecnologie” (treni, tram, automobili, transatlantici, aerei) contrapposte alla potenza e
all’energia del cavallo. Ma non il cavallo romantico ed eroico della tradizione, bensì la
“macchina animale” che è destinata, nella sua forza inarrestabile, a travolgere e
schiacciare ogni passatismo e vecchiume.
Per ottenere questi effetti di progressiva dematerializzazione e ricostruzione
delle forme Boccioni si serve di pennellate sottili e saettanti, incandescenti nel colore,
disposte secondo le direttrici dinamiche della composizione, strutturata, come già
ricordato, secondo un concitato moto diagonale.
Il dipinto, esposto per la prima volta nella “Mostra d’arte libera” a Milano nel
1911, si intitolava inizialmente Il lavoro; ovviamente anche in questo caso non
mancarono i dibattiti e gli sberleffi, addirittura la critica parlò di “un quadro poco
eloquente e suggestivo, che manca di chiarezza e di organicità”. In seguito a questo
insuccesso e alle violente polemiche accese dall’intero movimento futurista, Marinetti
e i suoi decisero di esportare il movimento a Parigi, allora capitale mondiale dell’arte.
Marinetti, Carrà, Russolo, Boccioni e Severini incontrarono Picasso e Braque, mentre
Guillame Apollinaire, uno degli intellettuali e critici d’arte più ascoltati del tempo,
scrisse entusiastici articoli su di loro, specialmente di Boccioni.
Il grande dipinto Il lavoro era stato intanto venduto a Londra e aveva ormai assunto il
nome The rising city. Ma fu nel 1916, durante una retrospettiva organizzata a
Milano in onore e memoria di Boccioni, morto prematuramente a 34 anni, che la
critica cominciò a leggere in questo dipinto una sorta di programma pittorico, un
manifesto per immagini del Futurismo. Si parlò del cavallo come di “una ruota d’elica,
azzurro come l’acciaio (in realtà azzurro è il giogo, il collare) che vortica nell’onda o
nell’aria”.
Il Futurismo lascia alla pittura moderna e contemporanea la selvaggia e incontaminata
sensazione di una corsa che esplode e che non si interromperà mai più.
Il dinamismo plastico
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Tutte le considerazioni sono rielaborate e sintetizzate da Dario D’Antoni.
Le citazioni sono liberamente tratte dai testi
Ernst H. Gombrich
Pablo Echaurren
Honour-Fleming
Il mondo dell’arte (Verona 1952)
Controstoria dell’arte (Roma 2011)
Storia universale dell’arte (Bari 1982)
Anthony Blunt
Barocco siciliano (Milano 1968)
Cesare Brandi
Maria Grazia Paolini
Giovanni Caradente
Giacomo Serpotta (Palermo 1983)
L’illustrazione italiana (Palermo 1974)
Ada Masoero
Flavio Caroli
Il dinamismo plastico
Sicilia mia (Palermo 1989)
Umberto Boccioni (Milano 2003)
La pittura contemporanea (Milano 1987)
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