Il dinamismo plastico piccolo

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Il dinamismo plastico piccolo
Arte e territorio
Anno scolastico 2012.2013
Dario D’Antoni
Il dinamismo plastico
Dal Barocco al Futurismo
Italia, tardo Seicento e Settecento
Si dice che il Barocco è teatrale, ornato all’eccesso. I protagonisti principali,
Bernini e Borromini in persona non comprenderebbero questa accusa. Essi volevano
che le chiese, le piazze, gli spazi urbani apparissero festosi, pieni di splendore e
movimento. Se è scopo del teatro deliziarci con la visione di un mondo fatato, ricco di
luce e di sfarzo, perché gli artisti che progettano spazi da percorrere, da vivere, non
dovrebbero creare suggestioni ancora maggiori di fasto e gloria per ricordarci il
paradiso?
Le loro creazioni avevano il consapevole scopo di evocare una visione di gloria celeste
assai più concreta di quella suggerita dalle
cattedrali gotiche. Infatti, più i protestanti
tuonavano contro l’esteriorità, più la chiesa
cattolica si avvaleva dell’opera di artisti famosi e
innovativi: l’arte poteva servire la religione ben
oltre il compito di insegnare il Vangelo a chi non
sapesse leggere. Architetti, scultori e pittori
furono chiamati a trasformare le chiese in grandi
mostre d’arte di travolgente splendore. Non
contano tanto i dettagli quanto l’effetto
d’insieme: candele accese, messe solenni,
profumi d’incenso che inondano spazi chiusi e
aperti, suoni d’organo, cori sommessi e
assordanti, luci, colori e preziosi materiali devono
trasportarci di slancio in un atro mondo.
Le più squisite creazioni scenografiche
Figura 1
furono quelle di Giovan Lorenzo Bernini
Giovan Lorenzo Bernini
Busto di Costanza Bonarelli 1635
(1598-1680). Egli era un abile ritrattista: la fig. 1
Marmo, altezza 70 cm
mostra il ritratto che egli fece di una giovane
Museo Nazionale del Bargello, Firenze
donna, un busto in marmo travertino che possiede
tutta la freschezza e la schiettezza della carne vera. Tutta la figura sembra respirare e
prender vita. Bernini ha colto un’espressione fuggevole che era certo caratteristica
della modella. Nel fissare l’espressione del volto egli era insuperabile: si valeva
dell’espressione per dar forma visiva alla propria esperienza religiosa.
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La fig. 2 mostra un altare del Bernini destinato alla cappella laterale di una chiesetta
romana, dedicato alla spagnola santa Teresa d’Avila, una monaca del ‘500 che aveva
narrato in un libro famoso 1 la sua esperienza mistica, descrivendo quel momento di
rapimento celeste in cui l’angiolo del Signore, trapassandole il cuore con una freccia
d’oro e di fuoco, le aveva arrecato tormento e insieme una beatitudine infinita.
Figura 2
Giovan Lorenzo Bernini
Cappella Cornaro 1652
Tecniche miste
S. Maria della Vittoria, Roma
Tutta la Cappella Cornaro è opera di incredibile
ricchezza e sontuosità, dal pavimento intarsiato alla
volta affrescata; i marmi sono prevalentemente
verdi e gialli, con lampi di bronzo dorato e lo spazio
è illuminato con tanto ingegno che lo si è
paragonato a un teatro, con tanto di commedianti
affacciati alla balconata che si parlano dalle quinte
laterali della cappella (fig. 3). L’elemento centrale è
un gruppo in marmo bianco dell’estasi della santa,
illuminata dall’alto da una finestra invisibile.
Figura 3
Giovan Lorenzo Bernini
Cappella Cornaro, Coretto sinistro.
1644-51.
Marmi policromi, legno, stucco.
S. Maria della Vittoria, Roma
1 “Vidi nelle sue mani una lunga freccia d’oro e sulla punta di ferro mi parve di vedere un fuoco. Con esso sembrò trafiggere più
volte il mio cuore fino a penetrarmi nelle viscere (...) Il dolore era talmente forte che mi strappò qualche gemito; e tale era la
dolcezza provocata in me da questa sofferenza estrema che non si può desiderare di perderla (...) Non è una pena fisica, ma
spirituale, anche se il corpo ha in essa parte- anzi una grossa parte. (Santa Teresa, Vida)
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È l’istante del rapimento che Bernini
ha osato rappresentare. Vediamo la santa
sollevata in una nube verso il cielo, mentre
torrenti di luce scendono dall’alto come una
pioggia di raggi d’oro. L’angiolo sembra
avvicinarsi dolcemente verso la santa riversa
e tramortita nell’estasi. Il gruppo sembra
sospeso senza alcun punto d’appoggio nella
cornice dell’altare (fig. 4).
È vero che l’intera composizione
potrebbe apparire eccessivamente patetica: è
ovviamente una questione di gusto e di
educazione sulla quale è inutile polemizzare.
Figura 4
Giovan Lorenzo Bernini
Cappella Cornaro, Estasi di santa Teresa
Marmi policromi, legno, stucco.
S. Maria della Vittoria, Roma
Ma se un’opera d’arte può
servire a suscitare sentimenti di
fervida esaltazione e trasporto mistico
cui miravano gli artisti barocchi,
dobbiamo ammettere che Bernini
ra g g i u n g e l o s c o p o i n m a n i e ra
magistrale.
Figura 5
Egli mette via ogni ritegno e
Giovan Lorenzo Bernini
Cappella Cornaro, Estasi di santa Teresa
tocca un vertice di commozione che
Particolare della fig. 4
S. Maria della Vittoria, Roma
fino ad allora gli artisti avevano
evitato. Se paragoniamo il volto della santa in estasi (fig. 5)
con qualunque opera dei secoli precedenti, vediamo che Bernini riesce ad esprimere
una intensità fino ad allora mai tentata in arte.
Perfino il trattamento del drappeggio è interamente nuovo: invece di farlo ricadere
con pieghe dignitose alla maniera classica, egli le contorce, le rende vorticose e
accentua l’effetto drammatico e dinamico dell’insieme. Ben presto tutta l’Europa lo
imiterà.
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Mentre procedevano i lavori della cappella, Bernini era impegnato anche in un’altra
delle sue opere più importanti, il colonnato di piazza San Pietro (fig. 6). La
sistemazione della piazza fu compiuta sotto il pontificato di Alessandro VII, tra il 1656
e il 1667. L’opera è considerata
il simbolo della chiesa trionfante
sulla riforma luterana e Bernini
lo conferma dichiarando «l’ho
concepita per ricevere a braccia
aperte maternamente i cattolici,
per confermarli nella fede».
Figura 6
Giovan Lorenzo Bernini
Colonnato di piazza San Pietro 1656-1667
Roma
Ma oltre che per motivi simbolici
e liturgici, la piazza esprime
anche un’esigenza visiva:
rendere maggiormente evidente
la cupola michelangiolesca di
San Pietro. Bernini concepisce
uno spazio trapezoidale (fig. 7)
antistante la chiesa, definito da
d u e “ b ra c c i ” d i r e t t a m e n t e
collegati alla facciata.
I l t ra p e z i o è u t i l i z z a t o i n s e n s o
antiprospettico, proprio per avvicinare
visivamente il fronte della chiesa.
Ma il trapezio è solo uno spazio di
Figura 7
transizione tra la basilica e l’immensa piazza
Giovan Lorenzo Bernini
ellittica. Questa ha l’asse maggiore nel senso
Colonnato di piazza San Pietro
Schema geometrico di riferimento
della lunghezza ed è delimitata da un
grandioso colonnato.
Questa forma, in realtà una via di mezzo tra circolo ed ellisse, è stata
considerata un compromesso tra la teoria_tolemaica e quella che con Keplero
sosteneva la forma ellissoidale della terra.
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A Roma, insieme al Bernini, operava anche l’architetto svizzero-italiano
Francesco Borromini (1599-1667), formatosi come intagliatore di pietre, ma
impiegato come scultore decorativo e disegnatore. Collaborò con Bernini per i lavori di
San Pietro, ma i due furono divisi presto da un’incompatibilità di carattere. Borromini
era cupo, litigioso, frustrato e nevrotico - e morì suicida -. In realtà conosceva assai
meglio del Bernini l’antica architettura romana e aveva un interesse assai più
profondo per i problemi strutturali e un coraggio maggiore nel risolverli, oltre ad
essere un ispirato studioso della geometria.
Cominciò a lavorare in proprio piuttosto tardi
e completò un numero relativamente ridotto
di edifici. Sant’Ivo alla Sapienza (figg. 9, 10,
11) è uno dei più belli. La sua pianta
ingegnosa, formata da due triangoli equilateri
che si intersecano e da cerchi (fig. 8), crea un
insolito interno esagonale.
Nato come cappella dell’Archiginnasio -la
futura università di ROMA- il
nuovo edificio doveva fornire
Figura 8
essenzialmente spazio
Francesco Borromini
sufficiente alle prediche per gli
Sant’Ivo alla Sapienza Roma
Schema geometrico di riferimento
studenti.
La cupola non ha precedenti per
la sua concezione, essendo
semplicemente la continuazione delle
pareti interne verso l’alto, sino al loro
incontro nel cerchio di luce sotto la
lanterna (fig. 9).
Si raggiunge una assoluta unità
spaziale senza sacrificare né la varietà
né il movimento. Aveva però in questo
progetto una parte importante anche il
simbolismo: si dice che la pianta fosse
basata sul disegno schematico di
un’ape con le ali piegate, simbolo della
famiglia Barberini, a cui apparteneva il
papa Urbano VIII che aveva dato
l’incarico al Borromini.
Figura 9
Francesco Borromini
Sant’Ivo alla Sapienza 1642 Roma
Interno della cupola
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La “stella di David” a 6 punte, formata
dall’intersezione di due triangoli, è un antico
simbolo di saggezza particolarmente adatto
a una cappella universitaria: in effetti
l’intero edificio è concepito come emblema
della sapienza portata dalla discesa dello
Spirito Santo, che con la Pentecoste aveva
fatto dono agli apostoli della conoscenza
delle lingue.
Figura 10
Francesco Borromini
Sant’Ivo alla Sapienza 1642 Roma
Individuazione della stella a 6 punte
Un curioso elemento dell’esterno
(fig. 11) è la corona a spirale della
lanterna conclusiva, simile a una ziqqurat
babilonese. Allude forse alla confusione
delle lingue presente nella Babele della
Bibbia?
Per gli interni, Borromini non impiegava i
ricchi materiali tanto cari al Bernini.
Quello di S. Ivo è tutto decorato di
stucchi2, originariamente dipinti di bianco
o di tonalità biancastre.
Figura 11
Francesco Borromini
Sant’Ivo alla Sapienza 1642 Roma
Veduta dall’interno del cortile
2 Col termine stucco si definisce un impasto di calce, polvere di marmo, sabbia lavata, caseina mescolati in
proporzioni variabili rispetto alla funzione e alla necessità. L’impasto varia anche in rapporto al tipo di materiale
reperibile a seconda delle località. Lo stucco viene utilizzato, sin dalle civiltà più remote, sia come elemento di
riempimento e rifinitura in architettura, sia come elemento di decorazione.
Nel Seicento e nel Settecento lo stucco ha un ruolo importante come complemento alla scenografia architettonica.
Questo cambiamento esige una tecnica di modellazione più spericolata: le figure sono realizzate con vere e proprie
“anime” o armature in ferro o altro metallo, intorno a cui sono sono modellate le forme in stucco.
Da ricordare le figure a tutto tondo che entrano in ampia misura nella decorazione architettonica, come ad esempio le
statue di Giacomo Serpotta, pensate come attori nelle sue scenografie a stucco che caratterizzano tanti interni
siciliani, soprattutto palermitani.
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Il Barocco siciliano e il caso di Catania
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Nel 1693 tutte le città e i villaggi della Sicilia orientale furono devastate da un
forte terremoto. Nell’area sud-orientale molte città andarono completamente distrutte
e la decisione di ricostruirle rese possibili le piante geometricamente regolari di Noto,
Avola e Grammichele (figure A, B e C).
Figura A
Veduta aerea di Noto (SR)
Figura C
Pianta settecentesca
di Avola
Figura B
Veduta aerea di
Grammichele (CT)
Catania aveva già duramente
risentito dell’eruzione dell’Etna del
1669, quando una muraglia di
l a va t a g l i ò i n d u e l a p a r t e
occidentale della città e ne invase
il porto.
Il terremoto la danneggiò
più gravemente di qualsiasi altra
grande città. Degli edifici
precedenti al 1693 non restano
che il medievale Castello Ursino e
le tre absidi normanne della
Cattedrale.
In effetti la città fu ricostruita di sana pianta sulla sede originaria. Gli ideatori
della Catania moderna sfruttarono il disastro per tracciare le due grandi arterie che si
tagliano ad angolo retto nella Piazza del Duomo e dividono la città in quattro rioni.
L’opera di ricostruzione fu organizzata rapidamente sotto la guida del vescovo di
Catania e dell’architetto Alonzo Di Benedetto. Ma poiché solo un uomo non poteva far
fronte alla mole dell’intera riedificazione, si chiesero aiuti ad altre città. Alonzo e i suoi
colleghi dovettero lavorare in armonia, perché lo stile dei monumenti è omogeneo.
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I primi risultati dello sforzo ricostruttivo sono evidenti negli edifici che circondano la
piazza del Duomo (figura D): l’Arcivescovado, il Seminario dei Chierici e un palazzo
privato nell’angolo sud-ovest. Le decorazioni tutt’intorno alle finestre sono ricche di
Figura D
Piazza del Duomo a Catania
immaginazione nei particolari; ma le bugne 3 sono estremamente varie, ora piatte, ora
quadrate, ora oblunghe, ora sfaccettate, ora decorate con foglie d’acanto. Lo stile
tocca complessi gradi di elaborazione: nel portale di Palazzo Massa, sulle facciate del
Palazzo Biscari, sull’ala principale del Convento dei Benedettini (oggi sede
dell’Università), le finestre si arricchiscono ancora ed esplodono in una lussureggiante
fantasia di rilievi con putti, festoni e ghirlande.
Ma l’intera situazione artistica catanese mutò in seguito all’arrivo, intorno al
1730, di Giovanni Battista Vaccarini, che il Senato aveva nominato «architetto
commissario prefetto delle opere della città». Nato a Palermo nel 1702, aveva seguito
un periodo di formazione a Roma, dove era rimasto folgorato dalle idee di Bernini e
Borromini.
Di fronte al Municipio di Catania, in piena Piazza del Duomo, il Vaccarini costruì nel
1736 una fontana (figura F) composta da un obelisco eretto su un elefante, destinato
a diventare il simbolo della città. Nella sua concezione generale essa si può ricondurre
all’elefante berniniano della Minerva a Roma (figura E).
3 ll bugnato è una lavorazione muraria utilizzata sin dall'antichità e ripresa, con modalità e forme diverse, in altre
epoche e fino ai giorni nostri.
È costituito da blocchi di pietra sovrapposti a file sfalsate preventivamente lavorate in modo che i giunti orizzontali e
verticali risultano scanalati ed arretrati rispetto al piano di facciata della muratura, con un effetto aggettante di ogni
singolo blocco.Il bugnato si distingue secondo la forma e il rilievo delle bugne, che può essere di diverse dimensioni e
forme e con trattamenti materici rustico, liscio, squadrato, a cuscino, a punta di diamante.
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Figura E
Giovan
Lorenzo
Bernini
Obelisco
della
Minerva
1667
S. Maria
sopra
Minerva,
Roma
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Ma mentre a Roma la
base è semplice e
rettangolare e tutto
l’interesse è concentrato
nel
movimento
dell’animale, nell’opera
del Vaccarini la base è
riccamente articolata e
l’elefante, scolpito in un
blocco grezzo di lava
nera, sprigiona un
fascino quasi primitivo,
essenziale. Tradizione e
leggenda vogliono che
tanto l’obelisco quanto
l’elefante siano antichi
ma molto restaurati e
rimaneggiati.
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Figura F
Giovanni
Battista
Vaccarini
Fontana
dell’Elefante
1735
Piazza del
Duomo, Catania
Ad ogni modo il Vaccarini, architetto geniale, intervenne un pò in ritardo nel
disegno urbanistico della città, direi quasi a cose fatte. Ma il suo grande merito fu
quello di non lacerare il tessuto urbano, che ai suoi occhi dovette sicuramente
apparire provinciale e non propriamente moderno. La ricostruzione di Alonzo, del Duca
di Camastra, di Monsignor Riggio aveva seguito alterne vicende di ripicche, di
noncuranza dei regolamenti comunali e di veri e propri abusi. Capomastri contro
impiegati comunali, vigili contro potenti signorotti di quartiere: uno sviluppo unitario e
organico, pur possibile, si era arenato davanti a tali contrasti. La differenza
fondamentale tra Alonzo di Benedetto e i successori con Giovan Battista Vaccarini sta
nell’uso della decorazione: per Alonzo la struttura doveva essere ricoperta, sommersa
dagli ornamenti, doveva sparire come le
ossa nella carne. Per Vaccarini conta la
composizione architettonica, il dialogo tra i
vari edifici del contesto urbano, la potenza
strutturale delle masse edili.
La sua prima opera catanese, la facciata del
Duomo (figura G), si mantiene ancora
troppo rigida e non esprime al meglio la
creatività dell’architetto palermitano.
È evidente la sua padronanza del Figura G
Giovanni Battista Vaccarini
mestiere ma il risultato non decolla.
Duomo 1758, Catania
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Figura H
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Giovanni Battista Vaccarini
Facciata del Duomo 1758
Piazza del Duomo, Catania
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La facciata, preesistente, risulta eccezionalmente larga e,
sebbene le colonne in risalto e i
frontoni ricurvi non manchino di
vivace movimento (figura H), il
movimento non unifica la
superficie e sembra disperdersi in
tanti episodi non sincronizzati.
In
seguito, il Vaccarini creerà
facciate panciute, ondulate,
articolate.
La rigidità di questa sua
prima opera catanese venne
p e r ò c h i a ra m e n t e a v v e r t i t a
dall’architetto, che non volle
ripetere le incongruenze.
Figura I
Giovanni Battista Vaccarini
Badia di Sant’Agata 1748-67 Catania
Più complessa è la Badia di
Sant’Agata (figura I). In pianta
presenta una doppia curva ad “esse”,
come la chiesa borrominiana di San
C a r l o a l l e Q u a t t r o Fo n t a n e . N e l
prospetto le porzioni laterali sono
convesse mentre quella centrale
è concava. Un alto attico corre
lungo la parte superiore della facciata,
nel quale si incunea, spezzandolo, il
frontone centrale.
Un elemento insolito è la panciuta
gelosia4 che taglia orizzontalmente il
disegno a livello dei
capitelli.
4
Gelosia: tipico balcone barocco, concepito all'epoca per permettere alle dame di affacciarsi
nonostante le gonne dell'epoca.
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La gelosia si estende sull’intera lunghezza del prospetto e
sembra integrarsi con
grande
maestria nel disegno
architettonico.
Nella facciata il Vaccarini dà il
meglio di se come ideatore di
particolari decorativi, aiutato
anche dalla particolarità della
pietra lavica catanese, priva di
grazia intrinseca ma adattissima
ad esser tagliata e lavorata in
maniera precisa.
Brillanti e geniali sono i capitelli
delle robuste lesene 5 (figura L),
composti simbolicamente dalle palme del martirio, dai gigli come simboli di verginità e
dalle corone di gloria eterna, tutti
propri della santa.
Vaccarini si ispirò certo al modello del
capitello corinzio, ma sostituì le foglie
d’acanto e le tradizionali decorazioni
con i simboli di Agata e diede vita ad
una composizione carica di fantasia
estremamente controllata.
A l c u n i e l e m e n t i d e l l ’ i n t e ra
composizione in effetti risultano poco
armonizzati nel contesto generale e
non presentano la stessa freschezza
innovativa dei capitelli e delle gelosie,
ad esempio. Ma forse la spiegazione di
questa dissonanza compositiva sta nel
fatto che la costruzione della Badia si
Figura L
prolungò per un trentennio e può aver inevitabilmente Giovanni Battista Vaccarini
Badia di Sant’Agata 1748-67 Catania
risentito di diversi rallentamenti progettuali ed esecutivi.
Dettaglio dei capitelli
Lo stile del Vaccarini dominò per diversi decenni l’architettura
catanese, ma altri architetti lavorarono in stili diversi dal suo.
Val la pena ricordare Stefano Ittar, autore della Collegiata e il suocero Francesco
Battaglia, che lega il proprio nome al restauro e all’ampliamento di Palazzo Biscari.
Entrambi furono coinvolti nel dibattito artistico e culturale della città di Catania dal
grande collezionista ed archeologo Ignazio Paternò, principe di Biscari.
5 Lesena Risalto verticale di una parete muraria, ripetuto in genere ritmicamente, che può avere funzione sia
decorativa sia di rinforzo della parete medesima. Quando ha funzione tendenzialmente strutturale, è più propriamente
detta parasta.
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In via dei Crociferi (figura M), dove la massima parte degli edifici, sacri e profani,
sono del Vaccarini o di suoi diretti collaboratori, si ha la sensazione della più
straordinaria composizione di spazi che sia dato ammirare in una strada. La chiesa di
San Benedetto, quella di San Giuliano e quella di Santa Chiara non sembrano
semplicemente allinearsi all’asse stradale, ma costituiscono una vera e propria
composizione affidata a delle gelose aree di rigore, delimitate da importantissime e
curatissime cancellate in ferro battuto, veri e propri capolavori di artigianato locale,
che assumono un valore simile a quello delle cornici nei quadri.
Figura M
Catania
Via dei Crociferi
Questi spazi sembrano incastrarsi alla perfezione come nei pezzi di un prezioso
mosaico: un’architettura di vuoti, che in assenza di un preciso allineamento crea una
composizione cementata come un luogo di altissima civiltà. Sta forse qui il segreto di
questa piccola e straordinaria strada catanese, non a caso insignita dell’onore di
essere patrimonio UNESCO.
«Nella luce trafiggente del mezzogiorno siciliano, per cui le ombre sono di una luce
appena meno intensa, un luce in minore, i risalti gonfi delle colonne, gli sbattimenti
delle cornici e dei timpani acquistano forme d’aria densa, come l’acqua che resta nelle
rocce dopo la mareggiata, e lentamente svaporando imbianca.»
Cesare Brandi, 1949
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Il Futurismo
«Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro
dal piacere o dalla sommossa; canteremo le maree
multicolori o polifoniche delle rivoluzioni
nelle capitali moderne; canteremo il vibrante
fervore notturno degli arsenali e dei cantieri
incendiati da violente lune elettriche; le stazioni
ingorde, divoratrici di serpi che fumano;
le officine appese alle nuvole pei contorti fili
dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti
che scavalcano i fiumi.»
Filippo Tommaso Marinetti
Se Caravaggio ha inventato la fotografia e il Neorealismo, Giovan Lorenzo
Bernini ha precorso, con quattro secoli di anticipo, il dinamismo plastico. Ogni sua
scultura va guardata a 360 gradi, non ci si può limitare a un’occhiata frontale. Le sue
figure scorrono come una pellicola, ogni particolare genera il successivo, tutto è
concepito come un continuum spazio-temporale. Il suo interesse è concentrato sul
vento, sull’acqua, su tutto ciò che agita la materia dall’interno. Proprio come trecento
anni dopo faceva Umberto Boccioni.
Come a Caravaggio e ai cubisti, a Galileo e al Greco, ai futuristi gliene dissero di tutti i
colori. Che erano dei cialtroni, dei buffoni, degli intruglioni. Che i loro quadri erano
peggio dei cartelloni delle pubblicità, che sembravano scarabocchi degli alienati del
manicomio. E giù schiaffi, pugni, lancio di pomodori marci e altri ortaggi di stagione.
A differenza di altri movimenti moderni, il Futurismo non si occupava però soltanto di
arte. Più che uno stile fu un’ideologia. Creato a Milano nel 1908 dal poeta Filippo
Tommaso Marinetti, già l’anno dopo, con la pubblicazione a Parigi del primo
Manifesto, ebbe subito un impatto internazionale. Dall’Italia alla Russia zarista e
persino negli Stati Uniti il Futurismo divenne più noto del Cubismo.
Affascinato dal rumore, dalla velocità e dall’energia meccanica della città
moderna, Marinetti voleva cancellare il passato, in particolare il culto e la cultura del
passato italiano, voleva bruciare i musei, prosciugare i canali di Venezia, e sostituire
tutto con una nuova società, una nuova poesia e una nuova arte basate su nuove
sensazioni dinamiche.
Tra gli artisti che risposero all’appello di Marinetti, il più lucido e il più talentuoso
come pittore e scultore fu Umberto Boccioni (1882-1916). Fu lui a scrivere il
Manifesto dei pittori futuristi del 1910, nel quale si proclamava «il dinamismo
universale deve essere reso come sensazione dinamica: il moto e la luce distruggono
la materialità dei corpi». Egli sosteneva che le composizioni artistiche dovessero
combattere la staticità, in nome di quella che chiamava “simultaneità”, un
procedimento per concepire i quadri come piccole sezioni di totalità continue.
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Altri protagonisti della pittura futurista furono Giacomo Balla, Gino Severini, Carlo
Carrà, Fortunato Depero tra i più famosi, e folta fu la schiera di artisti futuristi che
proveniva dalla Sicilia (Rizzo, Corona). Del resto, lo stesso Boccioni frequentò qualche
anno di scuola superiore a Catania.
Il Futurismo fu un fenomeno di breve durata -già nel 1916 può definirsi finito,
nonostante un tentativo di riportarlo in vita dopo la prima guerra mondiale- ma ebbe
conseguenze ben più durature e un’influenza ben più vasta di quanto si possa credere.
Ne risentirono quasi tutti i movimenti artistici europei contemporanei, compreso il
Cubismo nella sua fase sintetica, il movimento Dada e il Surrealismo, compreso
l’Espressionismo astratto americano.
La città che sale è uno dei quadri più potenti, intelligenti e innovatori del XX secolo. La
rappresentazione del movimento è ottenuta attraverso una spinta incalzante e
continua di colori e forme lungo la diagonale del dipinto, da destra verso sinistra.
Figura N
Umberto Boccioni
La città che sale 1910 cm 200 x 290,5
Metropolitan Museum of Art, New York
La rappresentazione del movimento è ottenuta attraverso
una spinta incalzante e continua di materia pittorica lungo la
diagonale del dipinto, da destra verso sinistra. In questo, Boccioni è erede di tutti i
grandi “rappresentatori di movimento”, che hanno utilizzato le diagonali e le linee
guida direzionate come indicatori di un moto interno alle figure rappresentate.
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Così fu per Donatello, per Michelangelo, per Caravaggio, per il grande Giovan Lorenzo
Bernini.
Ma oltre ai puri accorgimenti tecnici Boccioni aggiunse un’emotività senza pari.
Il vortice a spirale di questa periferia sferzata da un vento-frullatore modella le forme
in una sorta di moviola accelerata. La pittura sembra perdere contorni e dimensioni e
profetizzare le intuizioni americane dell’Action Painting
americana del secondo
dopoguerra. L’onda pittorica sembra incresparsi, in basso a destra, e generare un
gigante di materia rossa alto
come una montagna. Il gigante
rosso si infrange contro il
selciato metropolitano,
frantumandosi in filamenti di
materia bluastra. Dall’impatto
dinamico del colore sembrano
generarsi le forme, il grande
cavallo scatenato, gli operai che
tentano di arginarne la furia, le
altre teste equine abbassate e
impennate, come squassate
nella concitata azione.
In alto, il fantasma di una
casa in costruzione sembra
avvolto in una corazza di tubi metallici, a ricordare l’inquieto sonno della provincia
italiana.
Giganti, pigmei,
azione da Far West, fumo,
macchinari, edifici in
costruzione: il tema
futurista del dinamismo si
svolge con le immagini
delle
nuove
“tecnologie” (treni, tram,
automobili, transatlantici, aerei) contrapposte alla potenza e all’energia del cavallo.
Ma non il cavallo romantico ed eroico della tradizione, bensì la “macchina animale”
che è destinata, nella sua forza inarrestabile, a travolgere e schiacciare ogni
passatismo e vecchiume.
Per ottenere questi effetti di progressiva dematerializzazione e ricostruzione
delle forme Boccioni si serve di pennellate sottili e saettanti, incandescenti nel colore,
disposte secondo le direttrici dinamiche della composizione, strutturata, come già
ricordato, secondo un concitato moto diagonale.
Il dinamismo plastico
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Arte e territorio
Anno scolastico 2012.2013
Dario D’Antoni
Il dipinto, esposto per la prima volta nella “Mostra d’arte libera” a Milano nel
1911, si intitolava inizialmente Il lavoro; ovviamente anche in questo caso non
mancarono i dibattiti e gli sberleffi, addirittura la critica parlò di “un quadro poco
eloquente e suggestivo, che manca di chiarezza e di organicità”. In seguito a questo
insuccesso e alle violente polemiche accese dall’intero movimento futurista, Marinetti
e i suoi decisero di esportare il movimento a Parigi, allora capitale mondiale dell’arte.
Marinetti, Carrà, Russolo, Boccioni e Severini incontrarono Picasso e Braque, mentre
Figura O
Il gruppo futurista a Parigi
Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni e Severini
Guillame Apollinaire, uno degli intellettuali e critici
d’arte più ascoltati del tempo, scrisse entusiastici articoli su di loro, specialmente di
Boccioni.
Il grande dipinto Il lavoro era stato intanto venduto a Londra e aveva ormai assunto il
nome The rising city. Ma fu nel 1916, durante una retrospettiva organizzata a Milano
in onore e memoria di Boccioni, morto prematuramente a 34 anni, che la critica
cominciò a leggere in questo dipinto una sorta di programma pittorico, un manifesto
per immagini del Futurismo. Si parlò del cavallo come di “una ruota d’elica, azzurro
come l’acciaio (in realtà azzurro è il giogo, il collare) che vortica nell’onda o nell’aria”.
Il Futurismo lascia alla pittura moderna e contemporanea la selvaggia e incontaminata
sensazione di una corsa che esplode e che non si interromperà mai più.
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Anno scolastico 2012.2013
Dario D’Antoni
Tutte le considerazioni sono rielaborate e sintetizzate da Dario D’Antoni.
Le citazioni sono liberamente tratte dai testi
Ernst H. Gombrich
Pablo Echaurren
Honour-Fleming
Il mondo dell’arte (Verona 1952)
Controstoria dell’arte (Roma 2011)
Storia universale dell’arte (Bari 1982)
Anthony Blunt
Barocco siciliano (Milano 1968)
Cesare Brandi
Ada Masoero
Flavio Caroli
Sicilia mia (Palermo 1989)
Umberto Boccioni (Milano 2003)
La pittura contemporanea (Milano 1987)
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