L`intervista
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L`intervista
4 Anno V - numero 7 Settembre 2009 L’intervista Il baffo che conquistò la Fenech (o forse no) IIntervista i di Nico Ni Ivaldi I ldi Che cosa accomuna Enrico Montesano ad Anthony Quinn, Ugo Tognazzi a Edwige Fenech, Silvia Dionisio ad Adriano Celentano, Ornella Muti a Diego Abatantuono e Stefania Sandrelli ad Alvaro Vitali, oltre al fatto che sono attori? Tutti (ma molti ne mancano ancora all’appello) hanno lavorato con il torinese Renzo Ozzano, oggi indaffaratissimo cronista settantacinquenne di un quotidiano e fino a ieri (inteso come pochi mesi fa) inimitabile caratterista molto apprezzato dai più importanti sceneggiatori e registi italiani. Ozzano guarHa lavorato con i da in su, verso maggiori registi l’Hotel Nazioitaliani e con nale, in piazza Cln, a Torino. grandi star del cinema, ritagliandosi Attorno a noi, finenil ruolo importante sido sta di montadel caratterista. re il palco sul Con Renzo Ozzano quale, tra poche ore, Clauripercorriamo dio Simonetti quarant’anni (ex leader dei di commedia Goblin) musiall’italiana cherà dal vivo con nuovi arrangiamenti “Profondo rosso”, che il regista Dario Argento guarderà affacciato da una delle finestre dell’hotel. “Proprio qui, al Nazionale, dice Ozzano, c’era la produzione di uno dei miei primi film, “Fango bollente”, del ’75. Era un poliziesco, anzi un poliziottesco, come si dice oggi. Regista era Vittorio Salerno, interpreti Martine Brochard, Joe d’Alessandro ed Enrico Maria Salerno, fratello del regista”. Che parte facevi? Io ero il brigadiere Laganà, il vice di Salerno. Il tuo primo film? Ill mio primo fi fillm è stato “Uccidere d in silenzio”, del ’72, che trattava il tema scottante dell’aborto. Nel cast c’erano Ottavia Piccolo, Sylva Koscina e Gino Cervi. Subito dopo ho fatto “Torino nera” di Carlo Lizzani. Come sei arrivato al grande Lizzani? Sapevo che Lizzani cercava un commissario d’assalto. Allora mi sono infilato un impermeabile un po’ sdrucito, un Borsalino in testa, occhiali fumé, l’aria indagatrice e mi sono presentato al regista: “Io sono il commissario”. E lui, spaventato: “Il commissario? Perché, cos’è successo?” “Niente”, gli dico. “sono il commissario che cerchi per il film”. “Sei perfetto!” fa lui, ridendo. E così ho fatto “Torino nera”. Solo questione di fortuna? Nel cinema devi saperti trovare nel momento giusto, nel luogo giusto e con la persona giusta. Da quella volta, con Lizzani è nato un rapporto di grande amicizia, tanto è vero che nel 2001 mi propose la parte del generale inglese del campo di concentramento dove morì il Duca d’Aosta per il suo film “Maria Josè: l’ultima regina”. Qual è stato il tuo ultimo film? “Calibro ‘70”, un altro poliziottesco. Pensa che la lavorazione è durata tre anni e mezzo, non finiva più. Renzo Ozzano nasce attore? Con quella faccia non riesco ad immaginarti diversamente… Ho cominciato con la pubblicità… Da ragazzo? Quale ragazzo, avevo quasi quarant’anni! E prima, cos’hai fatto nella vita? Un sacco di cose. Intanto mi sono laureato in Scienze Politiche, poi ho scritto un paio di libri di sociologia politica. Nel frattempo avevo fondato con tale ing. Corrado Lesca il Centro di Cinematografia del Politecnico di Torino, dove sono passati un mucchio di registi come Roberto Faenza, che è venuto a scuola da noi. E cosa facevate con questo Centro? Realizzavamo documentari industriali, turistici. Io scrivevo i soggetti. Ad un certo punto mi sono impiegato per otto anni in un’azienda dove mi occupavo della parte commerciale: du’ cojoni... (qui Renzo Ozzano esibisce uno spiccato accento romano con tanto di voce da coatto). Niente da salvare di quell’esperienza? Sì, giravo molto l’Italia e quando andavo al Sud passavo da Roma e lì cominciavo a porre le basi per la mia futura “carriera”. In che modo? Andavo dagli agenti, lasciavo le mie foto, mi facevo conoscere, così sono riuscito ad ottenere delle particine. Eravamo nei primi anni Settanta. Lì in estate ho girato “Ciak si muore”, facevo il brigadiere Malden, era un film discreto ma che ha avuto una pessima distribuzione. Lavoravi ancora in quella azienda? Sì, ma sapevo già che a dicembre avrebbe chiuso e licenziato tutti i dipendenti, così mi sono portato avanti col lavoro dando le dimissioni qualche settimana prima. Quindi sono ritornato a Roma, dove avevo già molte conoscenze, mi sono trovato un agente, tal Ferdinando Felicioni (sempre pronunciato con accento romano e voce da coatto)… E quando hai spiccato il salto? Salto è parola grossa, comunque è successo quando la Rai ha cominciato a chiamarmi per gli sceneggiati. E lì ho lavorato tantissimo, anche in parti drammatiche; ho fatto “La freccia nel fianco”, “Piccolo mondo antico” di Salvatore Nocita, e molto varietà. E la Rai com’è arrivata a te? Sfogliando l’Annuario degli attori! Dici per davvero? Per finta, sennò? Succede ancora oggi. E il mio faccione c’è sempre, in quell’Annuario. Secondo te perché piaci ai registi e ai produttori? Per i miei occhi grandi e un po’ spiritati. Per i miei baffoni. E perché credo di essere un buon caratterista. Hai solo interpretato ruoli di tutore dell’ordine? Ma no! Anche se Leo Pestelli, critico cinematografico della Stampa, un giorno scrisse di me: “Toh, eccolo qui, il solito poliziotto!” In Italia ci vuol niente ad etichettarti. È difficile uscire da certi ruoli. Beata la commedia all’italiana che mi ha permesso di sbizzarrirmi. Per esempio in “Febbre da cavallo”, con Montesano e Proietti, il grande Steno mi ha chiesto di Piemonte mese 5 L’intervista fargli il personaggio di un fantino francese, Jean-Luc Rossini. Io gli ho improvvisato un tipo con la parlata alla Closeau, è piaciuto, ed è andata così. Guadagnavi bene in quegli anni? Sì, certo, facevo solo quello, e rimorchiavo pure alla grande. Ma solo dopo il produttore e il regista, che avevano l’esclusiva delle attrici. Negli anni del tuo boom vivevi ancora a Torino? No, stavo a Roma dove ho vissuto undici anni. Ogni tanto ritornavo a Torino per la Rai. Nel mondo dello spettacolo è un classico: vai a vivere a Roma e ti chiamano a Torino, vai a Milano e ti chiamano a Roma, vai a Torino e ti chiamano a Milano. Mi sembra logico, no? In poche parole dovevi essere sempre disponibile… Una rottura di palle micidiale. D’altronde eri un uomo libero, mai avuto mogli? Mai avute, una grossa rogna in meno. Ti rispondo alla Sordi: e che, mi sembrava una scena da commedia all’italiana. D’altro canto stando a Roma non potevi non fare la dolce vita… Conoscevo tanta gente, ero sempre fuori, amici, bevute. Un regista che hai apprezzato? Steno, Stefano Vanzina. Era un uomo che parlava pochissimo, certe volte perfino a gesti, però era freddamente determinato nelle sue decisioni. Una volta mi disse: “Ozzano, tu puoi passare alla storia del cinema italiano”… E oggi ti trovi su una panchina in piazza San Carlo mentre sopra la tua testa scorrono teste mozzate, scheletri sepolti e pupazzi orribili.. … Come un vecchio pensionato... no, scherzo! Hai lavorato anche con i figli di Steno, i fratelli Vanzina? Sì, ho lavorato molto anche con loro, con Carlo e Enrico. E dei loro film, i cinepanettoni, che mi dici? Inguardabili? metto una sconosciuta in casa? Ma donne tante? Beh, ne ho avute anche due o tre contemporaneamente, tra una città e l’altra. Una volta una tizia, che sapeva che la tradivo, mi ha aggredito a Nettuno su un pattìno gridandomi di tutto in mezzo alla gente, E allora viva le commedie all’italiana, magari quelle sexy. Erano ingenue, commedie per educande, quale sexy! Però hai lavorato con le più belle attrici italiane, dalla Fenech alla Bouchet… Sì, ma anche con Alvaro Vitali e Ren- zo Montagnani. Ho fatto una valanga di film di quel genere. Qualcuno dice che con la Fenech…. Confermi il gossip? Ma non è vero niente! Era la moglie del produttore Luciano Martino. E quindi era intoccabile. Quale dei tanti film di questo genere ti ha divertito di più? Beh, “La moglie in vacanza, l’amante in citta”, dove facevo la parte del violinista russo Vasha Milova. E poi “La soldatessa alle grandi manovre”, dove facevo il sergente Balin, quello che terrorizzava tutta la truppa che poi mi faceva gli scherzi. Lavoravi tanto in quegli anni? Sì, tanto e in fretta, di pause ce n’erano ben poche. Alle volte lavoravamo anche dieci ore al giorno, senza soste, dove magari il vero lavoro era di sole due ore. Colpa degli attori? Non solo, dipendeva anche molto dal macchinista e dall’operatore. Una volta ho assistito a 48 ciak di Celentano, in un film con Monica Vitti, la quale al quinto ciak l’ha letteralmente mandato a fare in culo. Sono tanti, 48 ciak… Celentano non aveva studiato niente. Poi si sono incazzati tutti, con lui. Era uno così indolente, Celentano? Molto. Una volta avevamo girato alcune scene al Plaza di Roma, trasformato nel casinò di Montecarlo, per il film di Sergio Corbucci “Bluff, storie di truffe e d’imbroglioni” con Celentano, appunto, Corinne Cléry e Anthony Quinn. Tutte le mattine alle 7,30 Anthony Quinn scendeva al Plaza per le riprese, Celentano arrivava alle 8,30. Questo è successo per tre giorni. Al quarto, l’attore messicano non è più tornato sul set. Viene avvisato Mario Cecchi Gori, il produttore, al quale Quinn dice: quando Celentano arriverà puntuale, ritornerò sul set. Il giorno dopo Celentano era lì addirittura cinque minuti prima. Se ti dico Dino Risi? È stato un regista eccezionale. Con lui ho girato “La stanza del vescovo” con Tognazzi e Ornella Muti. Se con Risi lavoravi bene, eri a posto. Se sbagliavi qualcosa, cominciava a prenderti in uggia. Con Tognazzi siamo diventati amicissimi. Mi diceva: “Stanotte all’una vieni da me, che facciamo colare la pancetta sugli spaghetti”. È morto autodistruggendosi. Ha continuato a fare tutte le cose che non poteva più fare e così ci ha lasciato le piume. Come sei arrivato al giornalismo? Già allora scrivevo su “Le Ore”, mi occupavo di cronache mondane di Torino. Poi scrivevo su riviste di tecnica cinematografica. Quando ho visto che il cinema non mi offriva più spazi, mi sono dedicato solo al giornalismo. Sono ritornato a Torino anche perché c’era mia madre molto anziana. Hai qualche critica da muovere all’attore Renzo Ozzano? Sì, forse quella di non avere mai preso troppo sul serio la mia carriera. Ammetto di non averla fatta troppo professionalmente. Avrebbe reso sicuramente di più sia come immagine sia a livello di vil danaro. Questa è sempre la tua Torino o è cambiata di brutto rispetto a trentacinque anni fa? Secondo me è cambiata in meglio. È molto più aperta, c’è sempre più gente in giro, la gente vive di più e meglio. Oggi Torino è all’avanguardia quanto all’organizzazione di eventi culturali, anche se proprio i torinesi sono quelli che conoscono meno la loro città. Quali sono i tuoi luoghi preferiti di Torino? Il Quadrilatero Romano, che è come Brera, a Milano, negli anni Settanta, un posto con tanti locali. Renzo, toccati pure, ma il tempo passa anche per te. Augurandoti altri cent’anni di vita e altrettanti film, quale epigrafe vorresti sulla tua tomba? Ci vuole un grande talento per invecchiare senza diventare adulti. ■