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“4 per Pagliarani”
COMPORRE VERSI CON UN MONTAGGIO CINEMATOGRAFICO
È di recente uscito uno stimolante libro che contiene un quartetto di saggi dello
studioso Luigi Ballerini sull’opera dell’81enne poeta romagnolo. La cui eteroclita
scrittura mostra una vocazione strutturale tendente ad ‘una prolungata paratassi
eidetica’. In principio persino Alfredo Giuliani lo scambiò per un ‘beat padano’,
laddove la sua progettualità materialista e la sua tecnica espressiva e la ricerca
linguistica sono incompatibili con la poesia degli americani, così come la sua
‘impurità’ nulla ha a che fare con la ‘diversità’ pasoliniana.
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di Mario Lunetta
Che Pagliarani sia uno dei poeti più decisivi del nostro secondo Novecento è da tempo un fatto
accertato, ma Luigi Ballerini, per farsene convinto, non ha dovuto certo attendere la sollecitazione e
il conforto di alcun suggeritore accreditato. In effetti, del lontano 1973 è la sua prima seria
incursione sull’autore di Lezione di fisica (“Poesia come respiro e come continuo saltare”, apparsa
su “Studi novecenteschi”), che viene davvero a costituire il “primo tempo” di un interesse esegetico
di lunga e puntuale durata, molto simile a un’adesione vividamente partecipativa alla vicenda del
percorso poetico di Pagliarani, da parte di un giovane e già affilato critico che sta elaborando in
parallelo le strutture portanti della sua officina poetica. Già: perché fin da allora Ballerini,
indossando vesti di critico, non lavora “en poète”, ma piuttosto, baudelairianamente, utilizza la
propria sensibilità di artista in formazione obbligandola a passare attraverso il crivello di una
coscienza analitica del linguaggio già molto forte. Un giovane critico, quindi, che contiene in sé –
iuxta la preoccupazione del Grande Dissociato parigino – un giovane poeta. Niente di meglio, si
direbbe, per affrontare con la giusta calibratura le asprezze di un discorso come quello di Pagliarani,
che fin dalla straordinaria prova della Ragazza Carla opera uno scarto offensivo sia nei confronti
della sofferta contemplatività postermetica di Luzi che del rampante pathos “civile” (e narcisistico)
di Pasolini.
Superata l’impasse, peraltro improbabile, dell’affiliazione del poeta a una linea di realismo
crepuscolare, Ballerini opta per una lettura “politica” di Pagliarani, nella consapevolezza che ogni
testualità è, alla fine, ideologica, lo voglia o no l’autore. E in questo caso, “politica” vuol dire
compiuta nel segno della contraddizione, strappando la sua scrittura a quel limbo di mistica
creaturalità nei cui vapori la critica post-crociana ha posto il sigillo della poeticità, e del quale tutti
gli Erzats del simbolismo hanno profittato, filando tessuti “oscuramente” preziosi, in fondo
decisamente rassicuranti, quando non edificanti. Pagliarani, al contrario, opera da guastatore senza
troppi riguardi nei confronti di ogni sacralità, facendosi carico di una quantità eteroclita di apporti
che precipitano nel forno di una lingua storta, dislocata senza fissa dimora, spesso a un passo dalla
prosa bruta della cronaca, ma poi miracolosamente fusi in un dettato altro, di straordinaria
pregnanza e presenza sulle circostanze. Nessuna riassunzione nelle regioni dell’aura, con o senza
trucchi adeguati. Nessuna nostalgia di ripiegamento sul già saputo rimesso a nuovo in panni grezzi.
Una lingua, invece, come dirà il poeta stesso, “senza carità di se stessa”.
Così, scrive Ballerini: “Mi pare sicuro che il primo e fondamentale passo di questa operazione di
furto (e scasso) consista nel prolungare i modi e i mezzi della ritirata, del declino (che assumiamo
come importi) oltre i termini previsti e prevedibili (dai sostenitori dello status quo appercettivo); mi
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pare che consista, in altre parole, nel trascinarli, quei modi e quei mezzi, dentro la trama stessa della
lingua, nello sfidarla (anche gratuitamente), per raggiungere in essa quello stato di sufficiente
anarchia che, ripudiando la grammatica normativa ereditata, si orienti piuttosto (e poi alla fine ci
abiti dentro) verso un linguaggio autologicamente consapevole, capace di procurare, per intanto,
quello che Fausto Curi ha definito molto bene ‘indennizzo linguistico dell’alienazione’”.
Si tratta insomma, per Pagliarani, e fin dalla sua prima stagione matura, dalla sua protofase
autonoma diciamo, di instaurare una nuova funzione del discorso poetico; di assegnare a questo
discorso una funzione “a raggiera”, direi, protesa verso tutti i materiali della realtà e del pensiero
riflesso, senza allestire gerarchie di varia nobiltà, legittimità, valore. Ciò vuol dire che il senso è
sempre un plurisenso, che la parola – organismo continuamente modificato e meticcio – è sempre
plurale e aperta. Siamo insomma di nuovo, dopo tanta vicenda di canto e di estatiche metànoie, alla
necessità del valore d’uso del fare poesia, e a una rimessa in gioco perentoria dell’allegoria.
Il saggio in questione è il primo in ordine cronologico dei quattro interventi sul poeta che
Ballerini ha realizzato in un arco di trentacinque anni, e che ora appaiono raccolti in volume col
titolo 4 per Pagliarani (Edizioni Scritture, Piacenza 2008). Con una particolarità: quella che li vede
nel libro allineati à rebours, a partire dal più recente (“Documenti per una preistoria della Ragazza
Carla”, 2007) per poi susseguirsi verso il più antico (“Della violenta fiducia ovvero di Elio
Pagliarani in prospettiva”, 2004; quindi, “Perché l’opposizione agisca da opposizione e abbia i suoi
testimoni”, 1997). “L’ombrello sotto cui si colloca questo 4 per Pagliarani – chiarisce l’autore –
copre un arco che va dalla semantica storica, alla critica intertestuale e allo studio delle poetiche,
secondo l’insegnamento di Luciano Anceschi. Scopo ultimo, che più chiaramente si manifesta a
mano a mano che il tempo di riflessione si avvicina al presente, è stato quello di leggere Pagliarani
per mezzo di Pagliarani”.
Ballerini, studioso perspicace e amoroso di Cavalcanti (anche via Pound) – e si veda, in ambito
strettamente creativo, una raccolta poetica come che figurato muore (1988), coglie a più riprese,
con un accostamento senza forzature, una consanguineità di trattamento linguistico fra Pagliarani e
Cavalcanti, sottraendo il poeta sia all’affiliazione tardo-crepuscolare (o verista) sia alla categoria del
realismo sperimentale a suo tempo proposta da Sanguineti. E nel più cospicuo dei saggi del libro,
quello di più recente stesura, individua con lucidità il peso oggettivo che la poesia di Pagliarani,
insieme a quella di Majorino (rispettivamente, con La ragazza Carla e La capitale del Nord), hanno
avuto nel superamento dell’impasse in cui, attorno alla fine degli anni Cinquanta, “si era incagliata
la poesia realista, per non dire di quella neo-ermetica, praticamente affondata, ma sempre pronta a
issare qualche vela di controfiocco o di trinchetto (succede anche ai giorni nostri)”.
I primi accertamenti critici su Pagliarani leggono La ragazza in modi sbadatamente
contraddittori. Perfino nell’intelligentissimo Giuliani l’insistenza su una ripresa “regressiva” del
poemetto narrativo di marca ottocentesca (matrice scapigliata e/o crepuscolare, su cui battono anche
Fortini, Pasolini e Zanga), porta a una sfasatura per cui “a forza di linguaggio lo sfondo
ottocentesco si muove e si rinnova”. Sfugge insomma la forza della novità di un testo in cui è
proprio fuori quadro parlare di un malgrado per cui “lo sfondo ottocentesco” si metterebbe in moto
a forza di linguaggio, mentre è l’ottica critica che va rovesciata: in quanto è il linguaggio, appunto,
a sconvolgere ossatura e ideologia letteraria del poemetto narrativo di specie XIX secolo.
È certo che questo quartetto di saggi di Ballerini obbedisce a un metodo tutt’altro che
impressionistico, e al contrario fonda la sua articolatissima robustezza (che specialmente nel più
recente si esplica in un nesso assolutamente stringente fra interpretazione filologico-stilistica e
densità della scrittura) anche sulla competenza, la pertinenza e la puntualità dei materiali pretestuali (appunti, prime stesure, suggestioni di vario tipo). Ballerini ha lavorato sul poeta della
Ragazza Carla con l’istinto e la strategia del cacciatore: scoprendo le orme, valutando le tracce in
modo intelligentemente diacronico, non fidandosi dei loci communes di una critica precedente che
parrebbero non facilmente scalfibili.
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Non sfugge allo studioso l’importanza che nel testo di Pagliarani riveste un uso delle strutture
che non si può che definire dinamico, e che va riportato naturalmente alle sollecitazioni del
montaggio cinematografico: qualcosa che lo stesso poeta, in una vecchia pagina dattiloscritta, tira in
ballo come dato – nella sua casualità e episodicità – necessario (“Nel 1948 mi è capitato di scrivere
tre pagine come traccia di una storia che mi sarebbe piaciuto vedere realizzata: poteva essere la
traccia di un romanzo, di un soggetto cinematografico o, perché no, di un poemetto”). Eureka! pare
esclamare il “cacciatore” Ballerini, che le definisce “parole, ovviamente, fatidiche”. E continua,
allora, forte di questa incontrovertibile conferma autorale:
“L’intenzione e il taglio cinematografici sono indizi preziosi. Vi si configura una vocazione
compositiva che potremmo definire come una prolungata paratassi eidetica: un procedimento che
poco corso ha avuto in Italia, anche in tempi recenti. Ma anche qui, preferiamo obbedire alle
sollecitazioni della reticenza e augurarci che qualcun altro affronti, il prima possibile, il discorso
intorno al montaggio cinematografico, al collage poetico e, soprattutto, intorno al loro reciproco
travasarsi nel testo di Elio Pagliarani”.
In altri luoghi di 4 per Pagliarani, Ballerini chiarisce la particolarissima situazione del poeta
all’interno dei Novissimi, ricordando le ben note premesse della loro poetica, precisata da Giuliani
nell’introduzione alla celebre antologia (“una reale ‘riduzione dell’io’, quale produttore di
significati, e una corrispondente versificazione, priva di edonismo, libera da quella ambizione
rituale che è propria dell’ormai degradata versificazione sillabica e dei suoi camuffamenti”).
Ballerini sottolinea l’incongruenza della definizione che proponeva il poeta della Ragazza come
“l’unico autentico rappresentante della (!) beat padana”, quando anche il meno attrezzato dei lettori
può marcare la totale inapparentabilità tra il “materialista” Pagliarani e i “mistici” predicatori della
beat generation, nessuno escluso. E non deve alla fine troppo sorprendere come, più sottilmente di
altri, uno come Raboni, lontanissimo da qualsiasi progettualità e prassi “novissima”, ma che parlava
con calore dell’obbligo storico di una poesia “impura”, potesse correttamente pronunciarsi sulla
singolare (e tuttavia non stridente) presenza di Pagliarani all’interno dell’antologia, in un senso
nient’affatto omologatorio, in quanto, “considerate in sé, le strutture sintattiche, metriche,
linguistiche, insomma la tecnica espressiva, che Pagliarani utilizza nelle sue poesie, sono tutt’altro
che lontane da quelle di un Sanguineti o di un Balestrini. Si leggano in questo senso (…) soprattutto
alcuni componimenti staccati, i più ‘astratti’ dal punto di vista compositivo come Lunedì, Narcissus
pseudonarcissus, la Trascrizione da Luciano Amodio (..) Il disprezzo per qualsiasi tipo di
comunicazione preordinata in senso tradizionale, l’uso acutamente spregiudicato dell’ ‘informale’
metrico-sintattico, il trasporto letterale (materico) di modi dei linguaggi pratici e tecnici, ecc. sono,
mi sembra, non meno fittamente riscontrabili e portati a conseguenze espressive non meno spiccate
e radicali, in queste poesie di Pagliarani che in quelle di Sanguineti, Porta, Balestrini, e assai di più
direi, che in quelle di Giuliani”.
Insistendo sulle varie percussività, sul sound di natura soprattutto atonale, sul fortissimo
inseguirsi del furor ritmico dei testi di Pagliarani (e delle sue straordinarie letture “sciamàniche”),
Ballerini marca l’inaggiustabile diversità, e anzi divergenza, dell’“impurità” di Pagliarani con la
“diversità” di Pasolini; e lo fa servendosi ancora dell’amato, grandissimo Cavalcanti, poeta – se è
concesso dire – avant la lettre antipetrarchesco. Per cui, tracciando la differenza sostanziale tra
l’autore della Ragazza e quello delle Ceneri di Gramsci, puntualizza lo studioso, a scanso di ogni
equivoco: “La differenza è dunque evidente: va bene parlate alla gente, anziché ai pochi eletti, ma è
necessario, perché ciò avvenga con profitto, che se ne discorra nell’alveo di una lusinga impudente,
capace di stravolgimento (è questo il termine che sceglierei per caratterizzare la proposta di
Pagliarani e diversificarla dalla denuncia pasoliniana e la delega fortiniana di cui si è detto), di una
prassi in cui la cifra parodica, non meno del tenore sarcastico che la invera, resta iscritta in una
rubrica stilisticamente ibrida: il comico, in altre parole, lungi dall’essere il contrario del serio, viene
onestamente e robustamente avvalorato come modalità e manifestazione del serio stesso, di ciò che
conta, ed è opportuno che agisca in strada, in piazza, lontano dai salotti”.
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Niente demagogia populistica, insomma, mi piace aggiungere, che dal Sessantotto a tutti i
Settanta ha inguaiato da noi (soprattutto dentro la sinistra) la pratica della poesia e di concerto
l’ideologia della poesia come messaggio purchessia, da ammannire – tramite il veicolo sacrale del
poeta-personaggio – alle folle affascinate e “partècipi”. E i due exempla “a contrario”, mi pare
siano, ancor oggi utilizzabilissimi, Brecht e Artaud.
Insomma, 4 per Pagliarani è un libro semplicemente importante non solo per l’acutezza
penetrante dell’esegesi e – più in generale – per l’acribia della controversia (per dirla alla latina, se
non alla gesuitica), che dall’esame dei testi si allarga quasi sistematicamente agli altri dati e
componenti intellettuali del percorso di Pagliarani; ma anche per il panorama epocale che richiama
in memoria e in dibattito, dai tardi Cinquanta ad oggi. Un libro attraversato da una tensione critica
che si fa immediatamente, certo anche su giusta istigazione delle lezione di Benjamin, tensione
“politica”. Un lavoro, insomma, in cui le ragioni del Ballerini critico si intrecciano (tacitamentente,
ma con estrema vivezza) con le ragioni pulsive del Ballerini poeta. Gliene siamo grati.